L'amorosa inchiesta_3B

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L’amorosa inchiesta allude alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita,

Edizione azzurra

N. Gazich M. Lori F. La Porta

L’amorosa inchiesta

Novella Gazich Manuela Lori Filippo La Porta

per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone.

Novella Gazich è stata per molti anni docente di

Manuela Lori è dottoranda di ricerca in Letteratura italiana all’Università di Macerata. Consulente editoriale, è autrice di libri scolastici per la secondaria di primo e di secondo grado. È stata docente di Lettere nei licei e formatrice in ambito disciplinare ed in preparazione al nuovo esame di Stato.

Filippo La Porta è critico e saggista, scrive regolarmente su “La Repubblica”, “Il Riformista”, il periodico “Left” e collabora all’“Unità”. Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri 1995), Pasolini (Il Mulino 2012), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani 2018), L’impossibile “cura” della vita. Cechov, Céline e Carlo Levi, medici-scrittori coscienziosi e senza illusioni (Castelvecchi 2021), Splendori e miserie dell’impegno. L’impegno civile degli scrittori, da Manzoni a Michela Murgia (Castelvecchi 2023).

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Nel LIBRO DIGITALE • Contenuti digitali integrativi sono proposti numerosi testi, rubriche, contributi audio e video integrati alla scelta su carta • Videolezioni sulle biografie e sulle opere maggiori • Lezioni in Power Point • Analisi del testo interattive • Audioletture dei brani e delle sintesi • Immagini interattive • Carte dei luoghi interattive • Cronologie interattive • Mappe tematiche interattive

APP LIBRARSI

3b L’amorosa inchiesta Edizione azzurra

Lettere nei licei. In ambito critico si è occupata in particolare di Pirandello narratore, un interesse documentato da varie pubblicazioni. Ha insegnato nella scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario presso l’Università degli Studi di Pavia. Da anni si dedica all’editoria scolastica. Ha progettato e diretto il manuale di letteratura italiana per i trienni Lo sguardo della letteratura (2016) e successivamente Il senso e la bellezza (2019).

3

Edizione azzurra

L’amorosa b inchiesta Il Novecento e oltre

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Novella Gazich Manuela Lori Filippo La Porta

L’amorosa inchiesta 3b Edizione azzurra

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

Il Novecento e oltre


Indice

Il Novecento (prima parte) Scenari socio-culturali Dall’ascesa del fascismo al secondo dopoguerra

37

Sguardo sulla storia

38

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

42

1 L’affermazione dell’uomo-massa

42

2 Le strategie del consenso. Il condizionamento dei modelli di comportamento

43

Benito Mussolini

D1 Il Duce annuncia agli italiani l’entrata in guerra

44

3 La politica culturale del fascismo

47

4 Gli intellettuali e il fascismo: consenso, “assenza”, opposizione

48

Benedetto Croce

D2 Il compito degli intellettuali

5 Dopo la guerra: il richiamo all’impegno degli intellettuali PER APPROFONDIRE Sartre, prototipo dell’intellettuale impegnato

50 51 51

Jean-Paul Sartre

D3 La letteratura deve avere una funzione sociale

52

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

55

1 Il dibattito sul sapere scientifico

55

Hans Hann-Otto Neurath-Rudolf Carnap

online D4 La concezione scientifica del mondo

Edgar Morin D5 La sfida della complessità

56

2 L’Esistenzialismo 57 Jean-Paul Sartre

online D6 Solitudine e responsabilità dell’uomo, orfano di Dio online D7 L’apparizione della “nausea”

Albert Camus D8 «Per me era lo stesso»

60

INDICE

3


3 Il dibattito culturale e i generi letterari

62

1 L’autonomia della letteratura dalla storia: dalla «Ronda» a «Solaria»

62

2 La battaglia per una nuova cultura e «Il Politecnico»

64

Franco Fortini

online D9 «Il Politecnico»: un’esperienza etico-culturale entusiasmante

D10 Due celebri interventi di Vittorini su «Il Politecnico» Elio Vittorini secondo le NUOVE D10a «Per una cultura che combatta le sofferenze...» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida D10b «...ma che non sia asservita alla politica»

65 67

3 I generi letterari 69

4 L’evoluzione della lingua

72 73 Dal fascismo agli anni Cinquanta 73 La casa editrice Mondadori 73 La casa editrice Einaudi 74 L’acculturazione del ceto medio: la BUR e la diffusione delle enciclopedie “di casa” 74 LIBRI, LETTORI, LETTURA

Ernesto Ferrero

online D11 Un editore che sognava di cambiare il mondo con i buoni libri ARTE NEL TEMPO

75

Le Avanguardie Storiche La modernità in un’opera futurista 75 Stati d’animo. Addii di Umberto Boccioni 75 La carica sovversiva di DADA 76 Taglio con il coltello da cucina… di Hanna Höch 76 Il ritorno alla figurazione Una strada anche per le prese di posizione contro le dittature europee 77 Guernica di Pablo Picasso 77 Conversations di Dora Maar 78 Crocifissione di Renato Guttuso 79

online

Sintesi con audiolettura 80 Zona Competenze 83 Lezione in Power Point Cronologia interattiva

Interpretazioni critiche Roberto Saviano, Camus e Meursault: due “stranieri”

1 Giuseppe Ungaretti

84

1 Ritratto d’autore

86

1 Vita d’un uomo

86

SGUARDO SULLA STORIA Ungaretti e il fascismo

90

Giuseppe Ungaretti

D1 Silenzio

LEGGERE LE EMOZIONI

91

2 La poetica: tra biografia e “rivelazione”

92

Giuseppe Ungaretti

D2 Il compito della poesia

4

INDICE

94


PER APPROFONDIRE I maestri di Ungaretti: Leopardi e Mallarmé

2 Le stagioni della poesia di Ungaretti

94 95

1 L’allegria 95 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Pier Vincenzo Mengaldo La disgregazione del verso nell’Allegria

98

Giuseppe Ungaretti secondo le NUOVE T1 In memoria EDUCAZIONE 100 CIVICA Linee guida T2 Il porto sepolto 102 T3 Veglia 104 T4 Fratelli 106 T5 Sono una creatura 107 T6 I fiumi 109 T7 San Martino del Carso COLLABORA ALL’ANALISI 113 online T8 Italia T9 Commiato 114 online T10 Segreto del poeta T11 Mattina 116 T12 Soldati 117

PER APPROFONDIRE Una suggestione dall’Estremo Oriente?

T13 L’immagine del naufragio T13a Allegria di naufragi T13b Preghiera

118 119 119 120

2 La seconda raccolta: Sentimento del tempo 121 Giuseppe Ungaretti

T14 Ricordo d’Affrica 123 LEGGERE T15 L’isola LE EMOZIONI 125 online T16 Lago luna alba notte

3 Da Il dolore alle ultime raccolte 127 Giuseppe Ungaretti T17 Non gridate più T18 Mio fiume anche tu online T19 Cori descrittivi di stati d’animo di Didone

130 131

Sintesi con audiolettura 134 Zona Competenze 135 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giuseppe Ungaretti Girovago La madre Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezioni La vita L'allegria Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva

136 136 137 138

Video Ungaretti raccontato dal critico Andrea Cortellessa Ungaretti spiega perché Leopardi e Mallarmé sono suoi maestri Audio Ungaretti legge I fiumi

INDICE

5


2 L’Ermetismo

139

1 Una linea poetica metafisica

140

1 L’Ermetismo e la parola “assoluta” 140 Carlo Bo

D1 «La letteratura è una condizione, non una professione»

142

Alfonso Gatto

T1 Carri d’autunno

143

Mario Luzi T2 L’immensità dell’attimo

145

LEGGERE LE EMOZIONI

2 Salvatore Quasimodo 147 Salvatore Quasimodo LEGGERE EDUCAZIONE T3 Ed è subito sera LE EMOZIONI ALLE RELAZIONI 148 T4 L’eucalyptus 148 T5 La necessità di una nuova poesia e di una nuova etica di fronte al dramma della guerra 151 secondo le NUOVE T5a Alle fronde dei salici EDUCAZIONE 151 CIVICA Linee guida T5b Uomo del mio tempo 152

Sintesi con audiolettura 154 Zona Competenze 155

3 Umberto Saba

156

1 Ritratto d’autore

158

1 Una vita all’insegna della «serena disperazione»

158

PER APPROFONDIRE Saba e il mondo ebraico

162

Umberto Saba

D1 Una poesia alla balia

LEGGERE LE EMOZIONI

163

2 La poetica dell’“onestà” 164 D2 La concezione della poesia “onesta” Umberto Saba D2a Il compito morale del poeta D2b Poesia vs “letteratura”

168

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

168 168

2 Il Canzoniere

170

1 Il titolo

170

2 I temi

171

3 Lo stile

173

Umberto Saba secondo le NUOVE T1 A mia moglie EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

176

#PROGETTOPARITÀ

secondo le NUOVE T2 La capra EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

180

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giulio Ferroni 182 Il poeta è «un artigiano del quotidiano»

6

INDICE


Umberto Saba LEGGERE T3 Trieste LE EMOZIONI 183 T4 Città vecchia COLLABORA ALL’ANALISI 185 T5 Ritratto della mia bambina 187 online T6 In riva al mare T7 Mio padre è stato per me «l’assassino» 189 online T8 Goal online T9 Teatro degli Artigianelli T10 Amai 191 T11 Ulisse 192

3 Saba prosatore

194

1 Alla ricerca della verità, con Nietzsche e Freud 194 2 Scorciatoie e raccontini: le “operette morali” di Saba 195 T12 La necessità di comprendere le istanze del “profondo”

196

Umberto Saba

T12a «Non esiste un mistero della vita, o del mondo, o dell’universo» T12b «Tubercolosi, cancro, fascismo»

196 197

3 Un romanzo “autobiografico”: Ernesto 199 Umberto Saba secondo le NUOVE T13 La confessione di Ernesto EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

200

Sintesi con audiolettura 205 Zona Competenze 208 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Umberto Saba Finale Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezioni La vita Il Canzoniere

209 209 210 211

Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Video Il poeta Giovanni Giudici parla del suo incontro con Saba

4 Eugenio Montale

212

1 Ritratto d’autore

214

1 Una vita ispirata alla «decenza quotidiana» 214 Gli anni liguri (1896-1927) 214 Gli anni fiorentini (1927-1948) 216 PER APPROFONDIRE Lo Zibaldone giovanile di Montale: il Quaderno genovese 216

Gli anni milanesi (1948-1981) 217 PER APPROFONDIRE L’annuncio del premio Nobel in casa Montale

217

Eugenio Montale

D1 Montale ritrae sé stesso

218

INDICE

7


2 La visione del mondo 219 3 Le scelte ideologiche e politiche 221 Eugenio Montale D2 La percezione di una totale disarmonia

222

4 L’idea montaliana della poesia 224 PER APPROFONDIRE L a nozione di correlativo oggettivo in Eliot e la poetica montaliana degli oggetti

225

Eugenio Montale 226

online D4 Montale spiega come nasce la sua poesia

D5 «Semplicità» e «chiarezza»

2 Ossi di seppia

227 229

1 Il titolo e la struttura 229 2 I nuclei tematici 230 3 Le scelte espressive 231 Eugenio Montale 233 T1 I limoni 237

T2 Non chiederci la parola 239 T3 Meriggiare pallido e assorto COLLABORA ALL’ANALISI 239 LEGGERE T4 Spesso il male di vivere ho incontrato LE EMOZIONI 241 T5 Forse un mattino andando in un’aria di vetro 243 T6 Cigola la carrucola del pozzo 244 online T7 Casa sul mare T8 Giunge a volte, repente 246

3 Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera

Eugenio Montale online T9 Ti libero la fronte dai ghiaccioli T10 Il tema del tempo

T10a Non recidere, forbice, quel volto T10b La casa dei doganieri COLLABORA ALL’ANALISI T11 La figura salvifica della donna-messaggera T11a La speranza di pure rivederti online T11b Ecco il segno; s’innerva online T11c Nuove stanze

4 La bufera e altro e la prosa

248 250 251 251 252 255 255

257

1 La bufera e altro 257 Eugenio Montale online T12 La frangia dei capelli

T13 La primavera hitleriana T14 L’anguilla T15 Piccolo testamento

8

INDICE

259 263 265


2 Farfalla di Dinard e Auto da fè: Montale prosatore 268 Eugenio Montale T16 Farfalla di Dinard

268

5 Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte

270

1 La svolta poetica degli anni Sessanta e Settanta 270 2 Satura 270 PER APPROFONDIRE Xenia: un affettuoso omaggio alla moglie scomparsa

271

3 Le ultime raccolte 272 PER APPROFONDIRE Il Diario postumo: un giallo filologico

273

Eugenio Montale T17 La storia non si snoda

273

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Enrico Testa 275 La poesia di Montale da Ossi di seppia ad Altri versi VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

276

Eugenio Montale 277 LEGGERE NUOVE T18 Il raschino EDUCAZIONE LE EMOZIONI CIVICA Linee guida online T19 Auf Wiedersehen T20 Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale online T21 Non ho mai capito se io fossi T22 Dopopioggia

secondo le

LEGGERE LE EMOZIONI

278 280

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Eugenio Montale Gloria del disteso mezzogiorno Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

282 282 283 284

online

Sintesi con audiolettura 285 Zona Competenze 288 Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezioni La vita Ossi di seppia Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva

Video e Audio Collage di interviste in cui Montale ripercorre la propria vita, intervallando il racconto con la lettura di alcuni Ossi di seppia. Interpretazioni critiche Giorgio Zampa, Montale e i giovani degli anni Trenta e Quaranta Enrico Testa, I volti di Clizia ne La bufera

5 Alla ricerca del “reale”

289

1 La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia

290

1 Corrado Alvaro e il lirismo estetizzante di Gente in Aspromonte 290 PER APPROFONDIRE Letteratura e mondo rurale: un filo rosso nella tradizione letteraria italiana Corrado Alvaro T1 Il mondo magico e arcaico dei pastori

292

2 Ignazio Silone e il romanzo di denuncia: Fontamara

294

291

INDICE

9


3 Giuseppe Dessì e Paese d’ombre: una saga familiare nel mondo arcaico della Sardegna 296 T2 I difficili rapporti tra comunità di paese e stato

297

Ignazio Silone

secondo le NUOVE T2a I «cafoni» e lo stato: due universi incommensurabili EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

297

Giuseppe Dessì 300 online T2b Un funzionario piemontese e i problemi di una piccola comunità sarda

4 Carlo Levi e Cristo si è fermato a Eboli: tra memoria e documento socio-antropologico 301 Carlo Levi T3 L’arrivo a Gagliano

302

Michela Murgia

online T4 Riti magici in una Sardegna ancestrale

2 Alberto Moravia tra realismo ed esistenzialismo

306

1 Un protagonista della vita culturale italiana 306 2 Le fasi della narrativa moraviana 307 Gli indifferenti 309 Alberto Moravia

D1 «Così ho scritto Gli indifferenti» 312 T5 Ritratto di famiglia in un interno 313 online T6 «Sedettero… nella fredda sala da pranzo» Agostino 317 PER APPROFONDIRE Il tema dell’identità giovanile

317 318

T7 Adolescenza e formazione

Alberto Moravia 318 318

secondo le NUOVE T7a L’adolescenza, «un’età di difficoltà e di miserie» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

Elio Vittorini 322 T7b Un’amicizia speciale: Alessio e Tarquinio 322

online

Sintesi con audiolettura 325 secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE 326 CIVICA Linee guida Video e Audio Trailer del film Fontamara (1980) di Carlo Lizzani Trailer del film Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi

Su Youtube scene dal film Gli indifferenti di Francesco Maselli (1964)

6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese 327 1 Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 328 1 La vita 328 PER APPROFONDIRE Il mito della letteratura americana

329

2 Pellegrinaggio nel «mondo offeso»: Conversazione in Sicilia 330 T1 Dall’inerzia alla solidarietà

10

INDICE

332


Elio Vittorini

online T1a «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori»

T1b «Uno che soffre per il dolore del mondo offeso»

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

332 332

3 Uomini e no 334 Elio Vittorini

T2 I morti parlano ai vivi

336

2 Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 338 1 Una figura complessa di intellettuale 338 PER APPROFONDIRE Cesare Pavese ed Ernesto de Martino

339

2 La campagna di Pavese: un mondo mitico e ancestrale 340 3 La produzione poetica 342 online T3 Le raccolte poetiche

Cesare Pavese

online T3a L’adolescente come nuovo Ulisse

Konstantinos Kavafis

online T3b Ulisse adolescente

T4 Poesie per Constance Dowling

343

Cesare Pavese

T4a Hai un sangue, un respiro T4b Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

343 343

4 La produzione narrativa 345 La prima stagione narrativa 345 Cesare Pavese T5 Il difficile approccio di Berto al mondo della campagna

346

Le due opere chiave sul mito 349 Cesare Pavese T6 L’isola, il tema pavesiano del ritorno

350

Il tema politico e il rapporto tra l’intellettuale e la storia 353 Cesare Pavese

T7 La collina, “un modo di vivere” 354 L’ultimo romanzo 356 Cesare Pavese

online T8 Il passato non torna 357

T9 Il tema dei falò T9a «Chi sa perché mai si fanno questi fuochi...» T9b La fine di Santa: «come il letto d’un falò»

358 358 360

Sintesi con audiolettura 363 Zona Competenze 365 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano La vigna, un luogo mitico Feria d’agosto Video e Audio Su Youtube scene dal film Gli indifferenti di Francesco Maselli (1964)

366

Cesare Pavese e la sua solitudine Estratto da Cult Book (Rai Storia)

INDICE

11


7 Temi e forme del fantastico novecentesco 367 1 I maestri del fantastico novecentesco in Italia 368 1 Le nuove forme di rappresentazione del fantastico 368 2 L’affermazione del fantastico nella cultura italiana 369 3 Il fantastico allegorico di Buzzati 370 Il deserto dei Tartari

371

Dino Buzzati

T1 «Le pagine grige dei giorni» online T2 Strane coincidenze

373

4 L’immaginario ossessivo di Landolfi 375 La pietra lunare 377 Tommaso Landolfi online T3 La poltrona stregata

5 L’universo onirico e surreale di Savinio 377 Alberto Savinio T4 Un itinerario onirico-simbolico

379

2 Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 385 1 Il fantastico “filosofico” di Borges 385 Jorge Luis Borges

T5 Un racconto-parabola

LEGGERE LE EMOZIONI

387

Jorge Luis Borges

online T6 Un racconto sul tema del tempo

2 Bulgakov: fantastico e critica etico-politica 389 Il Maestro e Margherita: un romanzo del “dissenso” 389 Michail Bulgakov

online T7 Uno strano incontro

3 L’antiutopia di Orwell 391 1984: un romanzo distopico 391 George Orwell secondo le NUOVE T8 Il Grande Fratello vi guarda EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

392

SGUARDO SUL CINEMA The Truman Show 396 PER APPROFONDIRE Il Grande Fratello televisivo

396

4 Il “realismo magico” di García Márquez 397 Cent’anni di solitudine 398 Gabriel García Márquez T9 La solitudine di Macondo

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

399

online

Sintesi con audiolettura 402 Zona Competenze 403

12

INDICE

Gallery Buzzati: un pittore prestato alla letteratura?

Lo scrittore Alessandro Baricco racconta Cent’anni di solitudine

Video Trailer del film di Valerio Zurlini (1976) dal romanzo di Buzzati

Immagine interattiva Alberto Savinio, La sposa fedele


8 Carlo Emilio Gadda 404 1 Ritratto d’autore 406 1 Vita di un ingegnere-filosofo-scrittore 406

2 La visione del mondo 409 1 L’ideologia politica e sociale 409 Eros e Priapo 409 Carlo Emilio Gadda T1 Un ritratto corrosivo del fascismo e una testimonianza del pastiche

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

411

2 La “filosofia” gaddiana 414 La Meditazione milanese

414

Carlo Emilio Gadda

D1 Il filosofo D2 “Normale” e “anormale”

416 417

PER APPROFONDIRE Gadda e la psicoanalisi

418

3 L’idea di letteratura. Le scelte stilistiche 418 Uno stile originalissimo 420 D3 La concezione della letteratura Carlo Emilio Gadda online D3a «Non cerco polli da dovergli buttare perle false» online D3b La scrittura come “vendetta” online D3c «Il fatto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia»

Louis-Ferdinand Céline

online D4 La vera natura dei Bianchi

PER APPROFONDIRE Le componenti del pastiche 418 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Gianfranco Contini Gadda appartiene alla razza dei supremi macaronici

421

3 La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo 423 1 Alle radici del narrare gaddiano 423 Carlo Emilio Gadda

online T2 Un esempio delle tecniche narrative gaddiane

2 Un quadro d’insieme della narrativa gaddiana 424 Dal Giornale alla Meccanica: il tema autobiografico della Prima guerra mondiale 424 La Madonna dei filosofi 425 L’Adalgisa 425

3 I due romanzi principali 428 La cognizione del dolore 428 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana 428 Carlo Emilio Gadda 431 431

T3 Il ritratto del commissario Ingravallo

INDICE

13


4 Leggere La cognizione del dolore 435 1 Il titolo e le circostanze della composizione 435 2 La trama e la struttura 436 3 I temi 437 4 Il plurilinguismo 440 Carlo Emilio Gadda

online T4 «Ogni oltraggio è morte» secondo le NUOVE T5 L’ambientazione nel Maradagàl-Italia: le ville in Brianza, EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

emblema di uno snobistico cattivo gusto

441

T6 La distanza tra l’etica del passato e la degenerazione della borghesia contemporanea 443 online T6a L’antenato di Gonzalo, esempio di antiche virtù secondo le NUOVE T6b L’esibizione narcisistica dei borghesi nei ristoranti di lusso EDUCAZIONE 443 CIVICA Linee guida PER APPROFONDIRE La società del narcisismo

448

T7 Il romanzo psicoanalitico 448 T7a Il sogno-desiderio di Gonzalo 448 T7b Il male oscuro LEGGERE LE EMOZIONI 452 PER APPROFONDIRE Il male oscuro di Giuseppe Berto

453

Carlo Emilio Gadda 454 454

T7c La violenza verso la madre e l’addio di Gonzalo alla casa PER APPROFONDIRE Un’immagine-simbolo: la casa

456

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Guido Piovene Un giudizio a caldo sulla Cognizione del dolore 457

online

Sintesi con audiolettura 459 Zona Competenze 460 Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezione La vita Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva

Video Gadda in TV: lo scrittore parla del pubblico, degli autori prediletti, del Pasticciaccio Per approfondire Il furore della parola: Gadda e Céline

9 Il Neorealismo 461 1 La corrente neorealista 462 Italo Calvino D1a Il “Neorealismo” non fu una scuola

466

Carlo Emilio Gadda

online D1b Un giudizio critico sul Neorealismo

SGUARDO SUL CINEMA Neorealismo: un nuovo modo di fare cinema Roberto Rossellini online D2 Il Neorealismo è la forma artistica della verità Cesare Zavattini online D3 La guerra è la chiave di volta del Neorealismo

14

INDICE

469


2 Ernest Hemingway e Per chi suona la campana 470 Ernest Hemingway T1 Un modello per il realismo italiano COLLABORA ALL’ANALISI Per chi suona la campana, cap. 31

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

471

#PROGETTOPARITÀ

3 Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo 475 Vasco Pratolini

T2 Maciste, l’eroe di una epopea popolare

476

Alberto Moravia

online T3 Moravia neorealista: Dalla Ciociaria Roma

4 Il successo de Il Gattopardo, un romanzo anti-neorealista 482 Giuseppe Tomasi di Lampedusa COLLABORA ALL’ANALISI T4 Don Fabrizio e la morte online T5 «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»

484

online

Sintesi con audiolettura 488 Zona Competenze 489 Interpretazioni critiche Alberto Asor Rosa Una critica al populismo neorealista

Per approfondire Il Neorealismo: un nuovo modo di fare cinema

10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 490 1 Ritratto d’autore 492 1 L’epica degli eroi comuni 492 2 La vita e l’opera 493 Beppe Fenoglio

online T1 Il folcloristico ingresso dei partigiani ad Alba

2 Resistenza come metafora 495 1 «Partigiano, come poeta, è parola assoluta» 495 2 Una lezione di “decenza morale”: il parallelo con Orwell 495 3 Ciò di cui la guerra ci priva 497 4 L’impegno degli scrittori 498 5 Una Babele molto creativa 499 6 Il racconto perfetto 500 Beppe Fenoglio

online T2 Johnny, il partigiano Robin Hood

T3 Dir di no fino in fondo online T4 Il duello mortale con la spia

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SGUARDO SUL CINEMA Il partigiano Johnny, il film

502 506

INDICE

15


Beppe Fenoglio secondo le PARITÀ NUOVE T5 L’accettazione del proprio destino EDUCAZIONE 506 CIVICA DI GENERE Linee guida online T6 «D’inverno e d’estate, vicino e lontano…» LEGGERE EDUCAZIONE T7 La ricerca della verità LE EMOZIONI ALLE RELAZIONI 510 equilibri

#PROGETTOPARITÀ

3 La letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 515 1 La speranza di un’Italia migliore 515 2 L’Agnese va a morire: un’eroina popolana 516 Renata Viganò

online T8 La presa di coscienza di Agnese

3 La crisi della fiducia in un cambiamento della società italiana 518 4 I partigiani antieroici di Meneghello 519 SGUARDO SUL CINEMA I piccoli maestri, il film

520

Luigi Meneghello T9 Il confronto tra bande: partigiani comunisti e azionisti

521

5 La Resistenza oggi nello sguardo della letteratura: lati oscuri e persistenza di valori 523 Giorgio Fontana secondo le NUOVE T10 La «congiura della brava gente» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

524

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

527

online

Sintesi con audiolettura 528 Zona Competenze 529 Lezione in Power Point Videolezione La vita Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva

Per approfondire Un rebus filologico della letteratura contemporanea Audio Letture di lettere di condannati a morte della Resistenza La celebrazione epica della Resistenza: Roma città aperta

11 Primo Levi e la tragedia della Shoah 530 1 Ritratto d’autore 532 1 La vita 532

2 La multiforme personalità di Levi 534 1 Una figura complessa 534 2 La scrittura 534 3 La sorprendente centralità del racconto 536 4 La poesia, una “curiosa infezione” 537 5 I “corsari” di Levi 538 6 Ebraismo e attitudine positiva 538 7 Un’inattuale attualità 539 8 Uno scrittore che anzitutto vuole capire 540

16

INDICE


3 Se questo è un uomo 541 EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE La «banalità del male» e il tema dei «giusti» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

543

Ruth Klüger

online T1 La “non banalità del bene”

Primo Levi secondo le EDUCAZIONE NUOVE T2 La cattura CIVICA Linee guida

T3 Il «campo di annientamento»

EDUCAZIONE CIVICA

544 secondo le NUOVE Linee guida

547

online T4 La non dimenticata lezione di Stainlauf online T5 L’iniqua legge della sopravvivenza nel Lager

T6 Il canto di Ulisse

550

PER APPROFONDIRE Un problema aperto: come ricordare oggi la Shoah?

553

4 Le altre opere 555 Primo Levi

online T7 Verso sud

PER APPROFONDIRE La tregua: un grande romanzo epico 558 Primo Levi T8 Il risveglio 559 LEGGERE T9 Amare il proprio lavoro 561 LE EMOZIONI online T10 L’etica del lavoro di un operaio specializzato T11 Carbonio 563 online T12 Le leggi della chimica e quelle dell’amicizia online T13 L’importanza del comunicare secondo le NUOVE T14 Affinare i nostri sensi EDUCAZIONE 566 CIVICA Linee guida online T15 La vergogna del sopravvissuto VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

568

5 La Shoah e la memoria 569 1 Il significato della memoria 569 2 Il trauma dell’emarginazione 569 Giacomo Debenedetti D1 La cattura degli ebrei nel ghetto di Roma

570

3 Il tema dell’esclusione nell’opera di Giorgio Bassani 572 Il giardino dei Finzi-Contini: un Eden minacciato dalla storia 573 Giorgio Bassani T16 Le leggi razziali e l’ingresso nel mondo aristocratico

575

SGUARDO SUL CINEMA Il giardino dei Finzi-Contini, il film

578

online

Sintesi con audiolettura 579 Zona Competenze 580 Lezione in Power Point Videolezione La vita Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Per approfondire Il tema dell’amicizia nell’opera di Primo Levi I Giusti tra le Nazioni

Video Un’intervista a Primo Levi (1974) Primo Levi in viaggio verso Auschwitz, a quarant’anni dalla sua deportazione (1983) Memoriale della Shoah di Milano Il “Museo della Shoah” della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (percorsi didattici con film e libri sulla Shoah)

INDICE

17


Il Novecento (seconda parte) Scenari socio-culturali Dal boom economico ai giorni nostri 583 Sguardo sulla storia 584 1945-2023 584

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 589 1 «Consumo, dunque sono»: massificazione e consumismo 589 PER APPROFONDIRE La nascita e l’affermazione della civiltà dei consumi in Italia

589

2 La società dei rifiuti: l’altro volto dei consumi 591 D1 La civiltà dello scarto

592

Gunther Anders secondo le NUOVE D1a Produzione-distruzione: un nesso obbligato EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

Italo Calvino D1b La città di Leonia, un’immagine allegorica

592 593

Papa Francesco

D1c Contro la cultura dello scarto

595

3 Dalla televisione a Internet: l’immaginario mediatico 597 La televisione 597 Luca Doninelli

online D2 Agli albori della “televisione del dolore”

La rivoluzione informatico-telematica 598 PER APPROFONDIRE Da Carosello alla dittatura degli spot

598

Roberto Cingolani

D3 La robotica e le nuove professioni

600

4 Lo spazio e il tempo 603 Viaggi virtuali. Turismo di massa 603 La cultura dell’“adesso” 604 TESTI IN DIALOGO • L’autogrill e l’aeroporto: i non-luoghi Francesco Piccolo

D4a L’autogrill, luogo-simbolo dell’Italia vacanziera

605

Francesco Pecoraro

D4b L’aeroporto, un non luogo

607

TESTI IN DIALOGO • Il tempo della società moderna Zygmunt Bauman

D5a Il tempo della fretta e il miraggio delle vite multiple

608

Milan Kundera

D5b Elogio della lentezza

610

EDUCAZIONE CIVICA

L’immagine dell’“altro” – Quando gli “altri” erano gli italiani – Un mito secondo le duramente infranto dalla realtà – Letteratura ed emigrazione italiana – EDUCAZIONE NUOVE CIVICA Linee guida L’Italia: da paese di emigrazione a terra di immigrazione 611 TESTI IN DIALOGO • Gli italiani e l’America Francesco Guccini

online D6a Il sogno americano

18

INDICE


Gian Antonio Stella

online D6b Alcune testimonianze sugli immigrati italiani in America

Melania Mazzucco

online D7 L’America degli emigrati italiani: dal mito alla realtà

5 Gli intellettuali dal boom alla crisi attuale di un ruolo e di una identità 612 Una progressiva crisi di identità 614 Alberto Asor Rosa

online D8 Il tramonto della funzione intellettuale tradizionale

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 615 1 La critica al modello consumistico 615 Herbert Marcuse

D9 La paralisi della critica. La società senza opposizione

616

VERSO L'ESAME DI STATO

618

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

2 Dallo Strutturalismo all’Ermeneutica 618 3 Il concetto di “postmoderno” e il “pensiero debole” 620 Gianni Vattimo

online D10 La condizione postmoderna: tra caduta delle antiche certezze

e “liberazione delle differenze” Giulio Ferroni

online D11 Oltre il postmoderno, verso nuovi scenari

3 Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 621 1 Un momento chiave nell’evoluzione dei modelli comportamentali: il Sessantotto 621 TESTI IN DIALOGO • La letteratura rilegge il Sessantotto Clara Sereni

online D12a «Nessuno si pensava da solo»

Andrea De Carlo

online D12b Dentro un’aula scolastica nel Sessantotto

Francesco Pecoraro

online D12c Tutto il potere all’assemblea

Sebastiano Vassalli

online D12d «Tutto in superficie ribolliva...»

Pier Paolo Pasolini

online D12e «Avete facce di figli di papà»

Carmelo Samonà

online D13 «La malattia... l’incognita permanente» EDUCAZIONE CIVICA

secondo le

NUOVE Dalla rivendicazione della parità alla “liberazione” della donna EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

TESTI IN DIALOGO • Testimonianze sul tema del “femminile”

PARITÀ DI GENERE equilibri

623

#PROGETTOPARITÀ

Virginia Woolf

online D14a Elogio della “differenza”

Simone De Beauvoir

online D14b I due sessi non si sono mai divisi il mondo in parti uguali

Erica Jong

online D14c Diventare donna in America

INDICE

19


2 La scuola tra crisi e nuove sfide educative 624 PER APPROFONDIRE Professori-scrittori

626 627

D15 Immagini della scuola Scuola di Barbiana secondo le NUOVE D15a «Nati diversi?» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

627

Sandro Onofri

online D15b Riflessioni su cos’è l’intelligenza e sull’opportunità di valutarla a scuola

Daniel Pennac

online D15c «Dobbiamo loro la vita»

Massimo Recalcati

D15d Un incontro salvifico

LEGGERE LE EMOZIONI

629

3 Dagli anni Ottanta a oggi. I comportamenti nell’era digitale 631 Anna Oliverio Ferraris

D16 Relazioni sociali e apprendimento al tempo di Internet

632

4 I generi letterari 635 PER APPROFONDIRE Il Premio Strega

637

4 L’evoluzione della lingua 638 1 La progressiva affermazione di una lingua parlata comune 638 2 Due celebri interventi a proposito della “nuova questione della lingua”: Pasolini vs Calvino 639 3 L’italiano oggi 640 4 Esiste ancora la lingua letteraria? 641 PER APPROFONDIRE La nuova antilingua: aziendalese e neopolitichese

641

Umberto Eco D17 Il basic italian di Mike Bongiorno

642

Gianrico Carofiglio

online D18 L’antilingua esiste ancora

Beppe Severgnini

online D19 Espressioni da non usare (e perché non usarle)

643 Dagli anni Sessanta a oggi 643 LIBRI, LETTORI E LETTURA ARTE NEL TEMPO

646

L’arte del secondo dopoguerra 646 1 Concetto spaziale. Attese di Lucio Fontana 646 2 Gold Marilyn Monroe di Andy Warhol 647 Il secondo Novecento L’epoca della Guerra fredda 648 3 Gli anni Settanta: il corpo di Marina Abramović e gli impacchettamenti di Christo 648 4 Gli anni Ottanta e la nascita dell’Arte relazionale 649

online

Sintesi con audiolettura 650 Zona Competenze 654

20

INDICE

Lezione in Power Point Cronologia interattiva Mappa Interattiva Gli intellettuali e la modernità: apocalittici o integrati? Educazione civica - Contro l’istituzione manicomiale per la dignità del malato di mente: la battaglia di Franco Basaglia

Sguardo sul cinema - Il cinema dell’impegno civile dagli anni Settanta a oggi Interpretazioni critiche - Paolo Di Stefano, Le vite senza tempo di un uomo demente e di suo fratello sano


12 La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia 655 1 Sperimentalismo e Neoavanguardia 656 1 La fine dell’esperienza neorealista e lo sperimentalismo della Neoavanguardia 656 2 La Neoavanguardia 656 PER APPROFONDIRE Tappe e pietre miliari della Neoavanguardia 659 Un modello di riferimento: il nouveau roman e l’école du regard 659 «Officina» 659

3 Manganelli, Arbasino e Malerba: narratori della Neoavanguardia con una propria identità 660 Giorgio Manganelli D1 Una definizione provocatoria di letteratura

660

4 Arbasino e Fratelli d’Italia: un’opera “aperta” 662 Alberto Arbasino

T1 I salotti romani degli anni Sessanta

664

5 Luigi Malerba e Il serpente 666 Luigi Malerba

T2 Un serpente si è insinuato nel mio corpo

668

Gianni Celati

online T3 Un linguaggio sperimentale per un antieroe picaresco

6 L’impegno civile di Sciascia: una voce controcorrente 671 Il giorno della civetta 673 Leonardo Sciascia secondo le NUOVE T4 La mafia, «... Una voce nell’aria...» ANALISI PASSO DOPO PASSO EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

674

T5 Scrivere di mafia 678 Vincenzo Consolo T5a «Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto...»

LEGGERE LE EMOZIONI

680

Roberto Saviano secondo le NUOVE T5b «Mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

683

online

Sintesi con audiolettura 686 Zona Competenze 688 Online Video e Audio Andrea Camilleri racconta Leonardo Sciascia

13 Letteratura e industria 689 1 La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 690 1 Lo sviluppo industriale e i cambiamenti nella società italiana 690 2 La rivista «Il Menabò» e il dibattito sui nuovi compiti dello scrittore 692 3 La letteratura sull’industria e sul boom economico 694

INDICE

21


PER APPROFONDIRE Ottiero Ottieri

696

SGUARDO SULL’ARTE La Pop Art 697 L’incontro con il mondo della fabbrica 698 Beppe Fenoglio

online T1a «Impossibile che io sia dei vostri»

Ottiero Ottieri

secondo le

NUOVE T1b Manodopera femminile nel Sud EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

698

#PROGETTOPARITÀ

Vittorio Sereni

T1c Una visita in fabbrica

701

Paolo Volponi secondo le NUOVE T1d Tra attrazione e paura EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

702

Lucio Mastronardi

T2 La metamorfosi sociale e antropologica di un microcosmo provinciale

707

SGUARDO SUL CINEMA Il boom industriale al cinema – Il boom economico e la commedia

710

Luciano Bianciardi

T3 Un’impietosa radiografia del “miracolo italiano”

711

Italo Calvino

online T4 La società dei consumi: Natale alla SBAV

Primo Levi

online T5 L’etica del lavoro di un operaio specializzato

Paolo Volponi secondo le NUOVE T6 Dialogo tra un computer e la luna EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

715

Giacomo Leopardi

online T7 Dialogo della terra e della luna VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Italo Calvino L’avventura di due sposi

online

Sintesi con audiolettura secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

719 719

722 723

Per approfondire Paolo Volponi Lucio Mastronardi Luciano Bianciardi Gente di Vigevano

Il boom economico e la commedia all’italiana La vita agra Video Enzo Jannacci canta Vincenzina e la fabbrica su YouTube

14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento 724 1 Ritratto d’autrice 726 1 Il realismo secondo Elsa Morante 726 Elsa Morante D1 L’arte: unico argine possibile alla disgregazione

728

2 La biografia e l’opera 731 3 Il patto con i lettori 732

22

INDICE


2 Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 734 1 Menzogna e sortilegio: il racconto della fine della società patriarcale del Sud 734 Elsa Morante LE EMOZIONI T1 L’ignavia di Elisa online T2 Il paese natio di Francesco LEGGERE

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

735

2 L’isola di Arturo: un romanzo di formazione e disincanto 740 Elsa Morante T3 Una difficile separazione

741

3 La Storia: un eterno “scandalo” ai danni dei più deboli 745 Elsa Morante

online T4 L’incipit del romanzo online T5 La violenza della storia online T6 Useppe e Bella secondo le NUOVE T7 Un lungo discorso in osteria EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

747

4 Aracoeli: una “deserta pietraia” 751 Elsa Morante

T8 Alla ricerca delle proprie radici online T9 L’incontro con il padre

LEGGERE LE EMOZIONI

752

5 Il singolare postmoderno di Elsa Morante 756 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giovanna Rosa Un’eccentrica modernità

757

3 La produzione narrativa femminile nel Novecento 759 1 L’universo familiare nell’opera di Natalia Ginzburg 759 Lessico famigliare 759 Natalia Ginzburg T10 Un’educazione “all’antica”

LEGGERE LE EMOZIONI

761

Caro Michele 764 Natalia Ginzburg

online T11 «Sei venuto su molto balordo»: l’autocritica di una madre

2 Lalla Romano: un problematico rapporto madre-figlio 765 Le parole tra noi leggère 765 Lalla Romano

T12 Un figlio “infelice”

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

767

3 Anna Maria Ortese 769 4 Dacia Maraini 773 EDUCAZIONE CIVICA

Il coraggio di Artemisia ripercorso dalla scrittrice Anna Banti

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

776

#PROGETTOPARITÀ

online

Sintesi con audiolettura 779 Zona Competenze 780 Lezione in Power Point Videolezione La vita Elsa Morante

Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva

INDICE

23


15 La letteratura postmoderna 781 1 Letteratura e postmoderno: precursori e modelli 782 Georges Perec

online T1 Gli strani viaggi di Bartlebooth e Smauf

PER APPROFONDIRE Centuria 784

2 Il postmoderno in Italia 785 PER APPROFONDIRE I romanzi neostorici 787 Cos’è il postmoderno? Due definizioni “d’autore” 788 Umberto Eco D1a Un esempio illuminante

788

Michele Mari

D1b La madeleine di plastica

789

Giorgio Manganelli

online T2 Un microromanzo

3 Umberto Eco e Il nome della rosa 791 PER APPROFONDIRE La pianificazione di vari livelli di lettura e il successo del romanzo

794

Umberto Eco

T3 La biblioteca-labirinto

794

4 Gesualdo Bufalino e Le menzogne della notte 799 Diceria dell’untore 799 Le menzogne della notte: un’investigazione postmoderna 800 Gesualdo Bufalino

online T4 La notte degli inganni

5 Antonio Tabucchi: la vita come “rebus” 802 Antonio Tabucchi

T5 Un esempio di riscrittura “dalla parte di”

803

PER APPROFONDIRE Dylan Dog, un eroe postmoderno

808

online

Sintesi con audiolettura 810 Zona Competenze 811 Per approfondire

Giorgio Manganelli

16 Pier Paolo Pasolini 812 1 Ritratto d’autore 814 1 Vita di un intellettuale “contro” 814 Pier Paolo Pasolini

online D1 Supplica a mia madre

24

INDICE

PER APPROFONDIRE Il mito della figura materna

815

PER APPROFONDIRE Una vocazione pedagogica

816


D2 Pier Paolo Pasolini online Avete facce di figli di papà

2 La visione del mondo 819 D3 Pasolini e la religione 823 Pier Paolo Pasolini D3a «Io sono propenso... a una contemplazione mistica del mondo» SGUARDO SUL CINEMA La ricotta

LEGGERE LE EMOZIONI

823 824

Pier Paolo Pasolini

online D3b La crocefissione online D3c «Eppure, Chiesa, ero venuto a te online D3d La “Passione” di un borgotaro

D3e “Una illuminazione improvvisa”: il Vangelo di Matteo

824

3 Scritti corsari e Lettere luterane 825 D4 La polemica verso il proprio tempo 826 Pier Paolo Pasolini D4a Contro il potere televisivo D4b I cittadini italiani vogliono sapere online D4c «Io so», 14 novembre 1974 secondo le NUOVE D4d L’articolo delle lucciole EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

826 829 830

2 Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo

e della passione etico-civile 833

1 Una sperimentazione su più fronti 833 2 Pasolini poeta controcorrente 834 Le fasi della produzione poetica: dagli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta 835 La raccolta centrale: Le ceneri di Gramsci 836 Pier Paolo Pasolini T1 «Lo scandalo del contraddirmi» COLLABORA ALL’ANALISI Le ceneri di Gramsci, I e IV

837

Dagli anni Sessanta agli anni Settanta: il tempo della polemica 841

3 Pasolini romanziere 842 Ragazzi di vita PER APPROFONDIRE Un libro “scottante”

842 844

Pier Paolo Pasolini

T2 L’avventurosa lotta per la sopravvivenza dei giovani borgatari online T3 Pasolini interpreta Ragazzi di vita Una vita violenta Petrolio: un progetto innovativo

845 850 851

Pier Paolo Pasolini

T4 Intellettuali e politici in un salotto romano

852

4 Pasolini scrittore-regista 854 La prima fase: oltre il neorealismo 854 I film sulla crisi ideologica e dei valori del mondo contemporaneo 854 La fuga dal presente nella dimensione del mito 855 Dalla Trilogia della vita a Salò 855 INDICE

25


5 Un’ambigua fortuna: il “caso Pasolini” 856 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Roberto Carnero Il centenario di Pier Paolo Pasolini, grande inattuale

858

Sintesi con audiolettura 860 Zona Competenze 862 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Pier Paolo Pasolini La droga: una vera tragedia italiana Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezione La vita Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Video Pasolini polemista (intervistato da Enzo Biagi, 1971) La scena della Deposizione Pasolini, poeta della contraddizione

863

Per approfondire Il cinema e la famiglia borghese Pasolini e il Decameron Interpretazioni critiche a confronto Alfonso Berardinelli, Pasolini personaggio-poeta

17 Linee della lirica del secondo Novecento 865 1 Le innovazioni della poesia del secondo Novecento 866 1 Dopo l’Ermetismo 866 2 La Neoavanguardia: lo scardinamento del linguaggio “alienato” 867 PER APPROFONDIRE Dal montaggio cinematografico al montaggio letterario

868

3 Oltre la Neoavanguardia, verso il nuovo millennio 869 4 La periodizzazione: “novecentismo” e “antinovecentismo” 870

2 La poesia a confronto con la storia 871 1 Franco Fortini: dalla guerra partigiana a quella del Golfo 871 T1 Guerra di ieri e guerra di oggi

872

Franco Fortini

T1a Canto degli ultimi partigiani T1b Lontano lontano... online T2 La poesia politica di Bertolt Brecht

872 872

Bertolt Brecht

online T2a Contro la guerra online T2b Allegoria dell’ingiustizia sociale

2 Vittorio Sereni: memoria personale e memoria storica 875 T3 Storia e memoria 876 Vittorio Sereni 876

T3a Non sa più nulla, è alto sulle ali secondo le NUOVE T3b Saba EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

876

878

online T3c Il tempo e la memoria

3 Antonio Porta: le “menzogne” dei Grandi e la violenza della storia 880

26

INDICE


Antonio Porta

online T4 Europa cavalca un toro nero secondo le NUOVE T5 Airone EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

881

Tommaso Ottonieri

online T6 La guerra reale e la realtà virtuale

4 Lo sguardo sulla storia di Wisława Szymborska 883 Wisława Szymborska 884

T7 Fotografia dell’11 settembre

884

5 La storia e l’attualità nella poesia di Erri De Luca 885 Erri De Luca 886 secondo le NUOVE T8 Naufragi EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

886

3 La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 887 1 Le trasformazioni sociali riflesse nella poesia italiana del secondo Novecento 887 2 L’alienazione del lavoro impiegatizio: Elio Pagliarani e La ragazza Carla 887 Elio Pagliarani 889

T9 Storia di un’impiegata milanese

889

3 Sanguineti: l’alienazione del linguaggio 893 online T10 L’alienazione consumistica

Edoardo Sanguineti

online T10a Questo è il gatto con gli stivali

T10b Piangi piangi

LEGGERE LE EMOZIONI

895

4 Giudici: l’alienazione della mentalità borghese 896 T11 Uno sguardo critico sulla società borghese

898

Giovanni Giudici 898

T11a Mi chiedi cosa vuol dire

898

online T11b Cambiare ditta

T11c Piazza Saint-Bon

LEGGERE LE EMOZIONI

899

5 L’odierna alienazione del mondo mass-mediatico: Valerio Magrelli 901 T12 Il potere dei media

902

Valerio Magrelli 902

T12a Una società dominata dai media

902

online T12b La società contemporanea nello specchio del giornale

Ezra Pound

online T13 L’alienazione e l’economia: contro l’usura

Thomas Stearns Eliot

online T14 Londra, città “irreale” online T15 La contestazione della società americana

Allen Ginsberg

online T15a Emarginazione, ribellione, follia dei giovani migliori online T15b L’America-Moloch

4 Poesia autoritratto e poesia narrativa 905 1 La poesia autoritratto 905 Il classicismo inquieto di Vincenzo Cardarelli 905

INDICE

27


Vincenzo Cardarelli

T16 Gabbiani

906

Sandro Penna: l’esclusione dalla società e l’adesione alla vita 908 LEGGERE LE EMOZIONI T17 L’oscillazione degli stati d’animo: dalla tristezza all’intensità vitale 908 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Sandro Penna

T17a Mi nasconda la notte e il dolce vento T17b La vita è… ricordarsi di un risveglio

909 909

Alda Merini, l’esperienza della follia e la «Terra Santa» del manicomio 910 Alda Merini

T18 Il dottore agguerrito nella notte

911

Patrizia Cavalli e la crisi dell’io, «sempre aperto teatro» 912 T19 L’io casa e l’io prigione 913 Patrizia Cavalli

T19a Anima piena, anima salotto T19b Ma davvero per uscire di prigione

913 914

2 La poesia narrativa 914 Attilio Bertolucci: il racconto in versi “alla ricerca del tempo perduto” 915 SGUARDO SUL CINEMA Poesia e cinema: la saga del Novecento di Attilio e Bernardo Bertolucci

916

Attilio Bertolucci

T20 Nonno e nipote 917 La poesia “in prosa” e narrativa di Giovanni Raboni 920 Giovanni Raboni

T21 Risanamento LEGGERE LE EMOZIONI 921 online T22 Interni clinica 3

Dario Bellezza

online T23 Ad un cane

Maurizio Cucchi: il racconto enigmatico sul padre perduto 923 T24 Il dialogo a distanza con il padre 924 Maurizio Cucchi

T24a ’53 924 T24b Lui se ne andò 924 Vivian Lamarque: la verità dell’infanzia 925 Vivian Lamarque

T25 Babbi 927 La narrazione della vita intensa: Milo De Angelis 928 Milo De Angelis

online T26 Per quell’innato scatto

T27 Non è più dato 929 Patrizia Valduga: il manierismo stilistico come freno alle emozioni 930 Patrizia Valduga 930

T28 Requiem Davide Rondoni

online T29 Il terzo figlio

28

INDICE

930


Davide Rondoni

online T30 Pantani

Sintesi con audiolettura 933 Zona Competenze 934 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Vittorio Sereni Amsterdam 935 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 935 Mappa interattiva La forma poetica nel Novecento fra classicismo e sperimentazione Video Sereni si racconta Il poemetto di Pagliarani nel 2015 è diventato un film per la regia di Alberto Saibene

Per approfondire Milano, città emblema della modernità Un’arte per i bambini di ieri: il teatrino Dario Bellezza. La narrazione di una vita semplice

18 Amelia Rosselli 936 1 Ritratto d’autrice 938 1 Una poesia facile e difficile 938 2 La vita e l’opera 940

2 Una lingua sperimentale 943 Amelia Rosselli

T1 Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana T2 Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio T3 Perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi

LEGGERE LE EMOZIONI

945 946 947

online

Sintesi con audiolettura 949 Zona Competenze 950 Cronologia interattiva

19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica 951 1 Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno 952 Mario Luzi

D1 Vola alta, parola

955

online T1 Nel caffè LEGGERE T2 A che pagina della storia LE EMOZIONI 956 T3 Madre mia, madre mia 958 online T4 Muore ignominiosamente la repubblica online T5 Nell’imminenza dei quarant’anni

INDICE

29


2 Caproni e il tema dell’assenza di Dio 960 Giorgio Caproni

online T6 Per lei

PER APPROFONDIRE Il libro di poesia

963

T7 La reversibilità del tempo

964

Giorgio Caproni

T7a Perch’io... T7b Per una bicicletta azzurra online T7c Ad portam Inferi LEGGERE LE EMOZIONI T8 Congedo del viaggiatore cerimonioso T9 Anch’io online T10 L’assenza e il bisogno di Dio online T10a Lo stravolto online T10b Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento online T10c Sulla staffa online T10d Benevola congettura online T10e Invocazione T11 L’ultimo borgo online T12 La frana online T13 Io solo

964 965 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

966 970

971

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giovanni Raboni I luoghi «d’esilio» della poesia di Caproni

973

3 Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà

e con il linguaggio 975

online T14 L’armonia tra uomo e natura nel vecchio mondo

Andrea Zanzotto online T14a Nino negli anni Ottanta online T14b Andar a cucire

T15 Al mondo T16 L’insufficienza del linguaggio online T16a «Tato» padovano T16b Così siamo

978 980 980

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Mario Luzi Notizie a Giuseppina dopo tanti anni 982 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 983

online

Sintesi con audiolettura 984 Zona Competenze 985 Video e audio Autoritratto di Luzi Audio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso Zanzotto, Al mondo

30

INDICE

Per approfondire La psicoanalisi di Lacan e la creatività del linguaggio


20 Italo Calvino 986 1 Ritratto d’autore 988 1 La vita 988 2 La visione del mondo e il ruolo della letteratura 990 PER APPROFONDIRE Il labirinto come immagine del mondo contemporaneo

992

Italo Calvino

D1 La sfida della complessità

993

3 Quale letteratura per il nuovo millennio? Le Lezioni americane 994 Italo Calvino

T1 Il valore dell’esattezza

996

2 Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 998 1000

T2 La guerra partigiana Italo Calvino

T2a L’avventurosa fuga di Pin dal carcere tedesco secondo le NUOVE T2b Le riflessioni del commissario Kim sul significato della Resistenza EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

1000 1005

3 La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 1008 1 La Trilogia degli antenati: tre parabole “fantastico-allegoriche” 1008 Il visconte dimezzato 1009 Italo Calvino

T3 Nel clima della guerra fredda: responsabilità (e irresponsabilità) degli scienziati 1011 Il barone rampante 1013 Italo Calvino LE EMOZIONI T4 I nuovi valori del barone rampante e il confronto con il padre 1015 Il cavaliere inesistente 1019 LEGGERE

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

2 La narrativa “sociale” e il confronto critico con la società del boom economico 1020 Italo Calvino secondo le NUOVE T5 L’ambiguo costruttore Caisotti EDUCAZIONE 1022 CIVICA Linee guida Marcovaldo, uno sguardo straniato sulla città industriale 1025

Italo Calvino

T6 La metropoli cancella la volta stellata ANALISI PASSO DOPO PASSO 1027 La giornata di uno scrutatore e la crisi del rapporto tra ideologia e letteratura 1031 Italo Calvino

T7 La crisi dell’intellettuale progressista COLLABORA ALL’ANALISI 1033

4 Un nuovo Calvino: Le Cosmicomiche 1036 Italo Calvino 1037 EDUCAZIONE

secondo le

NUOVE T8 Tutto in un punto CIVICA Linee guida online T9 La preoccupazione di dare una buona immagine di sé nell’universo

5 La narrativa combinatoria e il metaromanzo 1041 Il castello dei destini incrociati 1042

INDICE

31


Italo Calvino LE EMOZIONI T10 Storia di Astolfo sulla Luna 1043 Se una notte d’inverno un viaggiatore: un romanzo sui romanzi 1046 LEGGERE

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

PER APPROFONDIRE Calvino “postmoderno”?

1046

Le città invisibili: l’opera-mondo di Calvino 1047 T11 Tra realtà, utopia e antiutopia 1050 Italo Calvino online T11a La metropoli del mondo moderno globalizzato: Trude e Cloe online T11b Città invisibili utopiche e distopiche: Perinzia, Andria e Raissa

T11c La conclusione delle Città invisibili: quale utopia?

1050

SGUARDO SULL’ARTE Un’eredità di Calvino: le città invisibili divengono visibili

1051

6 Lo sguardo di Palomar 1052 Italo Calvino

T12 Dal prato all’universo: il compito impossibile della conoscenza

1053

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Alessandro Giarrettino 1056 I classici tra i banchi Daniela Santacroce 1057 Una pedagogia implicita. Insegnare Calvino nelle scuole

Sintesi con audiolettura 1060 Zona Competenze 1063 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Italo Calvino La speculazione edilizia 1064 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 1066 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 1068 Flipped Classroom Lezione in Power Point Videolezione La vita Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Video e audio Intervista a Calvino, “un uomo invisibile” Marco Belpoliti sul Calvino del Sentiero e dei racconti resistenziali Calvino parla de Il cavaliere inesistente (1969) e del film animato che ne è stato tratto

Marcovaldo Calvino e il suo legame con Parigi e la cultura francese Per approfondire Il partigiano Calvino “padre” dei cantautori italiani Calvino e la narrativa dello straniamento Calvino e l’Oulipo

21 Il teatro del Novecento 1069 1 La sperimentazione di un nuovo teatro 1070 1 Il teatro del Novecento: linee di tendenza 1070 PER APPROFONDIRE Il rinnovamento del teatro

1071

2 Il teatro didattico ed epico di Brecht 1072

32

INDICE


Madre Courage: la storia di un’“anti-eroina” 1073 Bertolt Brecht

T1 Il “giusto” prezzo per la vita di un figlio

1075

3 Il «teatro dell’assurdo» 1079 Eugène Ionesco 1079 Eugène Ionesco

online T2 Una “normale” conversazione

Samuel Beckett 1081 Samuel Beckett

T3 Un’inutile attesa

LEGGERE LE EMOZIONI

1083

2 Il panorama del teatro italiano 1088 1 Le tendenze dominanti 1088 2 La “commedia umana” nel teatro di De Filippo 1089 Eduardo De Filippo secondo le NUOVE T4 «Adda passà ’a nuttata» EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

1090

3 Il teatro trasgressivo di Dario Fo 1095 Mistero buffo 1096 Dario Fo

T5 La resurrezione di Lazzaro

1098

4 Il teatro di Giovanni Testori 1104 Giovanni Testori

online T6 Colloquio con la madre morta

5 Dagli ultimi decenni del Novecento a oggi 1106 Marco Paolini e Gabriele Vacis

online T7 Una tragedia annunciata

online

Sintesi con audiolettura 1109 Zona Competenze 1111 Per approfondire Il teatro delle avanguardie e lo sperimentalismo del primo Novecento Le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta in Europa e negli Stati Uniti Innovatori della scena italiana

Video e audio Ionesco parla del suo teatro e non solo La resurrezione di Lazzaro in un Mistero buffo del 1991

Nuova narrativa e nuova poesia (1980-2023) 1112 1 La nuova narrativa 1114 1 Un revival inaspettato e i successivi sviluppi 1114 Andrea De Carlo

online T1 Uno sguardo asettico

INDICE

33


Pier Vittorio Tondelli

online T2 Avventure nell’estate del settantaquattro

Daniele Del Giudice

online T3 Dialogo sul tempo

PER APPROFONDIRE Beat

1114

SGUARDO SUL CINEMA Il cinema di serie B

1115

2 I caratteri generali di una nuova letteratura 1116 PER APPROFONDIRE Cyberpunk

1118

3 Lo sperimentalismo degli ultimi decenni 1119 SGUARDO SUL CINEMA Donne registe

1120

4 Nuovi pubblici per una letteratura migliore 1124 Andrea De Carlo

online T4 Uccelli da gabbia e da voliera

Fabrizia Ramondino

online T5 Althénopis

Claudio Piersanti

online T6 Luisa e il silenzio

Sergio Atzeni

online T7 Il quinto passo è l’addio

Niccolò Ammaniti

online T8 Io non ho paura

Valeria Parrella

online T9 Mosca più balena

PER APPROFONDIRE New Italian Epic

1125

2 La nuova poesia 1126 1 Considerazioni preliminari 1126 PER APPROFONDIRE Orfismo

1127

2 Un nuovo tipo di poesia 1128 PER APPROFONDIRE Gruppo 93

1129

3 I nuovi poeti 1130 Umberto Fiori 1130 Antonella Anedda 1131 Una outsider: Alida Airaghi 1134 Carlo Bordini: una parola che dice 1134

4 Conclusioni 1135 INDICE DEI NOMI 1136 GLOSSARIO 1140 INDICE DELLE RUBRICHE 1147

34

INDICE


Il Novecento (Prima parte)



Il Novecento (Prima parte)

Scenari socio-culturali Dall’ascesa del fascismo al secondo dopoguerra

LEZIONE IN POWERPOINT

Tra l’ascesa del fascismo e il secondo dopoguerra, drammatici eventi storici influenzano la condizione degli intellettuali, i modelli di comportamento e la visione del mondo. I comportamenti collettivi durante le dittature sono condizionati dai media (all’epoca radio, cinema, stampa) impegnati a creare un uomo-massa disposto all’obbedienza. In filosofia si affermano due tendenze: il Neopositivismo e l’Esistenzialismo; il Marxismo ispira la riflessione di Gramsci. Il fascismo, in nome dello spirito nazionale, contrasta l’uso dei dialetti e delle parole straniere.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Il dibattito culturale e i generi letterari 4 L’evoluzione della lingua 3737


Dall’ascesa del fascismo al secondo dopoguerra Sguardo sulla storia 1919-1945: da una guerra all’altra Una pace faticosa Alla fine della Prima guerra mondiale l’Europa è profondamente segnata. Si contano milioni di morti, intere regioni sono completamente sfigurate dalla furia devastante delle armi, dilaga l’impoverimento delle risorse dei singoli stati impegnati nel conflitto a causa degli enormi debiti contratti durante la guerra. Le fabbriche hanno prodotto beni utili all’azione militare, un’intera generazione di giovani soldati è partita per il fronte ed è stata pesantemente decimata. Ora si dovrebbe tornare alla normalità, i contadini ai loro campi e le donne, che hanno sostituito gli uomini nel lavoro nelle fabbriche, ai focolari domestici. Ma nelle trincee i giovani soldati hanno provato a dare un senso a quel mostruoso sacrificio ripetendosi, nelle attese spaventose tra un assalto e l’altro, che in qualche modo ne valesse la pena e ci sarebbe stato un futuro migliore per tutti. Ritrovarsi in trincea con dialetti e usi e gesti quotidiani diversi significa misurarsi in massa, come non era mai stato prima, con un’identità condivisa, con

Cronologia interattiva 1922

1932

I fascisti marciano su Roma.

Nasce il Festival cinematografico di Venezia.

1924

1936-1939

Assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti.

Guerra civile spagnola.

Adolf Hitler acclamato dai suoi sostenitori a Norimberga.

1920

1925

1930 1925-1926

Inizia la dittatura fascista.

1935 1933

Hitler è nominato Cancelliere in Germania.

1922

Stalin è nominato Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

Stalin alla guida dell’URSS (CCCP in cirillico).

38 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

1937

Nascono a Roma gli studi cinematografici di Cinecittà.


l’essere tutti italiani. La fatica, la povertà e la rassegnazione sono ora percepite con una dimensione universale che accomuna i ceti deboli del paese, al Nord come al Sud, e anche la distanza spaventosa tra chi muore e chi comanda fa sognare a molti un mondo socialmente più giusto. Gli stessi ceti medi fanno fatica a riadattarsi agli scenari postbellici. Arruolati come ufficiali di complemento o sottufficiali, i figli della piccola e media borghesia non si conformano ai ruoli a cui sono destinati. La delusione italiana Lo scontento italiano per le speranze disattese comincia già a Parigi, alla conferenza di pace del 1919, quando i patti siglati in segreto con gli alleati prima di entrare in guerra non vengono rispettati. La città di Fiume, nell’attuale Croazia, non è assegnata all’Italia e la sensazione è che il nostro paese sia percepito sullo scenario internazionale come una realtà secondaria. La guerra pare aver stabilito un nesso fortissimo tra violenza e comportamenti collettivi. Alla delusione e al malessere che serpeggia fanno immediatamente seguito i tumulti nelle strade e l’assalto dei negozi e dei magazzini. Si teme l’insurrezione generalizzata e sono in molti a pensare che solo l’uso delle armi possa risolvere i problemi di gestione politica dell’Italia, a dispetto della proposta della politica democratica di strappare il conflitto alle piazze e di riportarlo in seno al dibattito parlamentare. Da questo clima violento e livoroso nasce l’impresa di Gabriele D’Annunzio, assurto da figura letteraria di spicco a riferimento nazionalista assoluto che, alla testa di circa tremila uomini in armi, occupa Fiume il 12 settembre 1919. Il governo presieduto da Francesco Nitti cade e nel dicembre del 1920 l’esercito

1939

Un reparto della Wehrmacht rimuove la sbarra della frontiera con la Polonia (1° settembre 1939).

Hitler invade la Polonia e dà inizio alla Seconda guerra mondiale.

1945

Fine della Seconda guerra mondiale.

1951

Prima edizione del Festival di Sanremo.

1954

Prima trasmissione televisiva in Italia.

1945

Bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki.

1943

Caduta di Mussolini e firma dell’armisti­zio tra l’Italia e le forze alleate.

1940

1945 1944

Sbarco in Normandia delle forze anglo-americane.

1950

1955

1945

Liberazione dell’Italia settentrionale dal nazifascismo.

Soldati statunitensi si preparano a sbarcare in Normandia il 6 giugno 1944. 1938

Il fascismo emana le leggi razziali.

25 aprile 1945, la gente festeggia per le strade la liberazione dal nazifascismo.

Sguardo sulla storia  39


regolare sgombra i legionari di D’Annunzio dalla città croata occupata a cui, nel frattempo, era stato riconosciuto a livello internazionale lo status di “città libera”. Il biennio rosso Il conflitto mondiale si rivela dunque un formidabile attivatore di nuove istanze. Il paese viene percorso da una rinnovata voglia di partecipazione politica che riparte dai partiti di massa e dai sindacati che avevano preso forma all’inizio del Novecento e che trova espressione anche nell’estensione del suffragio elettorale. Nel settembre del 1920 il conflitto sociale raggiunge l’apice con l’occupazione di fabbriche in tutta Italia e con 400.000 lavoratori che si uniscono, scoprendo una forte dimensione identitaria e obiettivi comuni. Questa protesta si risolve in una sostanziale sconfitta, soprattutto per l’isolamento degli operai dalle altre compagini sociali e per l’inefficacia del Partito socialista, che pure alle elezioni del 1919 registra una significativa crescita. Negli anni successivi, dalla scissione con i socialisti nasce il Partito comunista e appare sulla scena politica anche il Partito popolare, di ispirazione cattolica. Le origini del fascismo Se la crisi economica e sociale investe tutti i paesi interessati dal conflitto bellico, a rendere unica l’esperienza italiana è la nascita del fascismo. Tra il 1919 e il 1922 prende forma il primo nucleo di un movimento politico che governerà le sorti della penisola per il ventennio successivo. All’inizio si tratta di un’entità poco definita, di cui non sono nemmeno troppo chiari gli intenti. I primi fascisti si dichiarano antiborghesi, antisocialisti, anticlericali, antimonarchici e sono spesso ex combattenti, interventisti ed ex sindacalisti rivoluzionari. Si riconoscono in un programma riformista e ritrovano nel movimento artistico e letterario dei futuristi le loro radici intellettuali. Ancora una volta il culto postbellico della forza si ritrova in questa esperienza politica. Presto i fascisti potranno contare sui loro “arditi”, una forza militare pronta ad azioni risolutive per far prevalere le loro idee. Alla testa dei fascisti da subito c’è Benito Mussolini e la violenza è il terreno strategico su cui cerca di legittimarsi politicamente. Fino dal 1921 le sedi dei socialisti e i cortei sono fatti oggetto di violentissimi attacchi. Nei ceti piccolo e medio borghesi e successivamente nel padronato e nella nobiltà, spaventati dalle rivolte degli operai, queste azioni violente sono accolte con crescente consenso. I fascisti diventano un partito e Mussolini vive una irresistibile ascesa che culmina con la “marcia su Roma”. Il 28 ottobre 1922 da tutta Italia arrivano alla capitale 25.000 fascisti, dando una dimostrazione di forza che è il culmine di anni di azioni squadriste. Il re invece di ordinare all’esercito di contrastare l’azione prepotente dei fascisti, affida il governo a Mussolini. Il regime totalitario che ne scaturisce condizionerà le sorti politiche, sociali ed economiche dell’Italia nei venti anni successivi. Fascismo e stato totalitario Il 10 giugno 1924 il leader socialista Giacomo Matteotti, rapito da una squadraccia fascista, viene ucciso. Lo sdegno civile è altissimo ma le reazioni tardano a venire. Il 3 gennaio del 1925 si riaprono le Camere e Mussolini si dichiara responsabile della violenza omicida di quei giorni. Si inaugura la dittatura. I due cardini su cui si basa il regime sono il culto della personalità di Mussolini e la cancellazione delle libertà (politiche, sindacali, di stampa). Contro la possibile creazione di organizzazioni antifasciste a partire dal 1927 si istituisce l’OVRA (Organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo). La rete delle spie e dei delatori arriva a coprire anche le realtà più periferiche della penisola. Gli antifascisti sono trucidati, vessati, imprigionati, mandati al confino. Chi non si piega alle regole deve essere annientato.

40 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


Il controllo della popolazione passa da una capillare riorganizzazione della società. I cittadini sono accompagnati dallo Stato “dalla culla alla tomba”, in un percorso che prevede l‘inquadramento della popolazione in tutte le fasi della vita. Sul piano della politica estera, il fascismo si avvicina ad altri regimi autoritari che crescono con successo in Europa. In quest’ottica Italia e Germania si riavvicinano progressivamente. Le relazioni si fanno strettissime e ci sono visite reciproche tra Adolf Hitler, guida del regime nazista tedesco, e lo stesso Mussolini. Siamo al tragico avvio del percorso che porta a un nuovo scenario di guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale L’esercito tedesco invade la Polonia il 1° settembre 1939. Francia e Inghilterra reagiscono entrando in guerra contro la Germania. La “guerra lampo” teorizzata dagli strateghi tedeschi ha successo e in breve Hitler occupa parte consistente dell’Europa, arrivando, nell’estate del 1940, a Parigi. Alla vista dei travolgenti successi dell’alleato tedesco, il 10 giugno del 1940 Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia al fianco di Hitler. I fronti si moltiplicano. L’Unione Sovietica attaccata da tedeschi e italiani entra in guerra, intervengono le forze statunitensi contro i nazifascisti e i loro alleati giapponesi nel Pacifico. Si combatte in Africa, Grecia e Jugoslavia. Contemporaneamente l’atroce macchina di morte nazista annienta milioni di persone di razza ebraica nei lager e l’Italia si rende complice di questo orrore promulgando le leggi razziali e compartecipando allo sterminio. Oltre agli ebrei, nei campi di sterminio finiscono tutti quelli che, a vario titolo, sono considerati pericolosi per la purezza della razza teorizzata da Hitler. Il 1943 è l’anno del capovolgimento di fronti. Tedeschi e italiani si ritirano con grandi perdite dalla Russia e subiscono pesanti sconfitte in Africa. Gli alleati sbarcano nel Sud Italia. L’8 settembre del 1943 si firma un armistizio. L’Italia non è in grado di continuare a combattere. Il re e alcuni componenti dei vertici del governo fuggono da Roma e si rifugiano presso i comandi alleati a Brindisi. Lasciano l’esercito privo di ordini e la penisola in balia degli eventi. I tedeschi da alleati diventano invasori e oppressori, Mussolini si ritira nel Nord del paese, a Salò, con i suoi fedelissimi e da lì è a capo della Repubblica Sociale Italiana, che è sostenuta dai tedeschi. Le prime formazioni partigiane iniziano a combattere contro i tedeschi e i fascisti. Nell’inverno del 1943 l’offensiva alleata si ferma nel centro Italia e al Nord lo scontro tra i partigiani e le forze nazifasciste è aspro. La guerra partigiana contribuisce a restituire all’Italia quell’identità antifascista che sarà un carattere distintivo degli anni a seguire. L’Italia viene liberata dai nazifascisti il 25 aprile 1945. Tre giorni dopo Benito Mussolini viene catturato dai partigiani e fucilato. In Europa gli alleati sbarcano in Normandia e stringono in una morsa i nazisti con le truppe sovietiche. Il presidente Truman ordina che su Hiroshima e Nagasaki, due città industriali giapponesi, si sganci la bomba atomica. Le due città sono distrutte completamente. Il culmine dell’orrore di quella guerra trova il suo racconto iconico nell’enorme fungo di fumo generato dall’esplosione nucleare. La Seconda guerra mondiale è finita e i costi umani ed economici sono spaventosi. Il Novecento nei suoi primi cinquant’anni ha registrato due guerre mondiali intervallate da totalitarismi e progetti di sterminio di massa. Ma per chi è sopravvissuto alle bombe e alle deportazioni e agli stenti ora è tempo di ricominciare, di rinascere. Sguardo sulla storia  41


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 L’affermazione dell’uomo-massa Alle radici dei totalitarismi: il condizionamento di massa Il fascismo è il primo regime politico nella storia moderna che riesce a realizzare un imponente consenso, grazie al condizionamento programmato delle masse, finalizzato a costruire nella popolazione una forte identità fascista. Questo obiettivo primario del regime è perseguito attraverso la proposta martellante di immagini, simbologie, eventi capaci di plasmare nel profondo l’immaginario collettivo. Allo stesso fine sono indirizzati gli eventi collettivi con forti aspetti rituali della Germania nazista, fondati su coreografie spettacolari, frutto di una studiata regia. Una nuova realtà antropologica Perché la propaganda fascista potesse fare presa, ma, più in generale, perché potessero affermarsi i regimi totalitari, occorreva che si fosse radicata una nuova realtà antropologica, definita da sociologi e filosofi “uomomassa” , a prima vista una sorta di ossimoro. Il termine è stato coniato dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955) nello studio La ribellione delle masse (1930); ma il concetto era stato anticipato fin dal 1895 dall’antropologo Gustave Le Bon (1842-1931) nello scritto Psicologia delle folle. Le Bon scrive il suo saggio nel periodo storico in cui inizia ad affermarsi la “società di massa” in seguito all’industrializzazione, all’urbanizzazione, alla scolarizzazione di vasti strati di popolazione. A mano a mano che si afferma l’economia di mercato, i comportamenti iniziano a svincolarsi dai modelli tradizionali e a uniformarsi. Le Bon già parla di «anima collettiva», in virtù della quale gli uominimassa sentono, pensano, agiscono «in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe, penserebbe o agirebbe».

Parola chiave

Magdalena Abakanowicz, Crowd IV, 1989-90.

uomo-massa L’etichetta “uomo-massa” non identifica una classe sociale (come ad esempio la classe operaia), bensì una categoria trans-sociale caratterizzata da comportamenti omologati, uniformati, dalla predisposizione alla passività e all’accettazione acritica, che rendono l’uomo-massa facilmente manipolabile da capi carismatici e dai mezzi di comunicazione di massa,

42 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

presenti e ampiamente utilizzati già nei totalitarismi. Secondo Ortega y Gasset, le radici della formazione dell’uomo-massa vanno ricercate nel crescente benessere, nel trionfo della scienza e dell’industrializzazione, che hanno reso la vita più facile rispetto al passato per ampi strati sociali, i quali tendono perciò ad accettare la massificazione.


Sul tema interviene autorevolmente anche il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, nello scritto Psicologia delle masse e analisi dell’io (1920). Egli parte da una constatazione: «all’interno di una massa e per influsso di questa, il singolo subisce una profonda modificazione della propria attività psichica. La sua affettività viene straordinariamente esaltata, la sua capacità intellettuale si riduce in misura considerevole, ed entrambi i processi tendono manifestatamente a uguagliarlo agli altri individui della massa». L’analisi di Freud, condotta con gli strumenti della psicoanalisi, cerca di illuminare le motivazioni individuali che sfociano nel comportamento di massa: per il singolo, secondo Freud, la massa rappresenta uno spazio, un momento in cui liberare le proprie pulsioni inconsce e questo spiegherebbe il carattere irrazionale dei comportamenti di massa.

strategie del consenso. Il condizionamento 2 Le dei modelli di comportamento Mussolini e l’uso dei media Il regime di Mussolini affida la formazione di una mentalità fascista ai nuovi media, impiegati con grande abilità e spregiudicatezza: dalla radio – (nel 1927 è creato l’EIAR, “Ente italiano audizioni radiofoniche”), con cui la voce del Duce entra direttamente in tutte le case d’Italia – al cinema: già a partire dal 1926 diventa infatti obbligatoria, prima di ogni spettacolo cinematografico, la presenza dei cinegiornali, prodotti dall’Istituto Luce, in genere dedicati a esaltare in modo trionfalistico i successi del regime (con la conseguente censura di ogni altra informazione che possa risultare potenzialmente negativa). Il rapporto diretto del Duce con le masse Tuttavia Mussolini non rinuncia ai mezzi tradizionali: crede infatti particolarmente nel rapporto diretto con le folle, arringate nelle «adunate oceaniche» attraverso discorsi di studiata impostazione retorica. Gli enunciati sono brevi e martellanti, spesso collegati dall’anafora; si usano figure retoriche come metafore e soprattutto iperboli (➜ D1 ) senza che venga trascurata la gestualità, la mimica facciale, come ci mostrano i filmati d’epoca; il tutto assume tratti che oggi appaiono grotteschi se non addirittura comici, ma che, al tempo, impressionano molto le folle. Gli slogan come strumento per rafforzare l’identità fascista La cultura fascista, come ogni totalitarismo, conta sulla rinuncia all’esercizio della razionalità e del senso critico: non a caso fa grande uso di slogan, come il lapidario “Credere, obbedire, combattere”, uno dei più indicativi e programmatici del regime. Gli slogan appaiono dovunque dipinti sui muri o nei manifesti murali per rinforzare negli italiani la fede incondizionata nel regime e l’identità fascista. Un’identità che nel tempo si definisce anche in rapporto alla condanna del “diverso”, a un’ideologia razzista che emargina, perseguita e arriva infine, in accordo con gli orientamenti della Germania nazista, ad annientare omosessuali, zingari e soprattutto ebrei: nel 1938, infatti, vengono emanate le leggi razziali. Il doppio volto del fascismo Il fascismo unisce due anime: l’una aggressiva e proiettata nel futuro, che utilizza le immagini futuriste per esaltare il dinamismo del regime; l’altra provinciale, agraria, che valorizza invece la terra, il localismo, i valori tradizionali, la famiglia. Il regime coniuga la ricerca del nuovo, il culto della modernità, con la retorica della romanità; è insieme difensore dei valori borghesi e dei sani valori popolari. Forse proprio questa compresenza, secondo gli storici, ne determinò la forza. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 43


I modelli di comportamento e le mitologie fasciste Anche per incrementare la crescita demografica, il fascismo alimenta l’immagine arcaica della donna come vestale della famiglia: un’immagine appartenente a un mondo pre-industriale, frutto appunto dell’anima conservatrice del fascismo. Le donne sono stimolate a non cercare un lavoro, a rimanere a casa ad accudire una prole che il regime vuole numerosa (premiando le madri prolifiche e svantaggiando per legge il celibato). Si cerca di contrastare la seduzione esercitata dal cinema e dai primi rotocalchi che proponevano il modello emancipato delle dive americane (ma anche l’industria dell’abbigliamento nostrana lanciava nuove immagini del femminile, ben diverse da quella propagandata dal regime). Assurge a vero e proprio mito politico la giovinezza, perché simboleggia il radicale cambiamento che il fascismo intende rappresentare, soprattutto nella prima fase. Ma anche successivamente, Mussolini propone l’immagine di un’Italia giovane contro vecchie forme politiche e contro le “vecchie” nazioni (➜ D1 ). Simbolo e capo indiscusso della nazione è il Duce, che alimenta deliberatamente il culto della propria persona, facendo di sé stesso un mito. Nell’immaginario del paese, il Duce deve incarnare per eccellenza il modello dell’uomo forte, virile, in cui il fascismo si riconosce: da qui certe pose (il mento in fuori, le mani sui fianchi), la divisa militare indossata anche dai gerarchi, a cui si associa immediatamente l’idea dell’ordine e della combattività.

Benito Mussolini

D1

Il Duce annuncia agli italiani l’entrata in guerra Scritti e discorsi

B. Mussolini, Scritti e discorsi – Opera omnia, La Fenice, Firenze 1960

Quello che segue è uno dei più celebri discorsi di Mussolini alla nazione. Fu pronunciato il 10 giugno 1940 da Palazzo Venezia, a Roma, per annunciare l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista. Il testo rappresenta un significativo campione delle tecniche suasorie impiegate dal capo del fascismo di fronte a una popolazione ridotta a “massa”, come dimostrano le entusiastiche reazioni al messaggio del Duce registrate dai documenti filmici.

Combattenti di terra, di mare, dell’aria; Camicie Nere1 della rivoluzione e delle legioni; uomini e donne d’Italia, dell’Impero, del Regno d’Albania, ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria; l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione della guerra è già stata consegnata agli ambasciatori 5 di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente2, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza del popolo italiano. Alcuni lustri3 della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio 10 societario di cinquantadue Stati4. 1 Camicie Nere: aderenti al Partito fascista (i fascisti che marciarono su Roma nel 1922 indossavano camicie di questo colore). 2 le democrazie... dell’Occidente: le democrazie europee qui definite spregiati-

vamente plutocratiche, cioè asservite al denaro e reazionarie perché perseguivano una politica volta a conservare l’assetto tradizionale del continente europeo.

44 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

3 lustri: il lustro è un arco di cinque anni. 4 assedio... Stati: allusione alle sanzioni economiche contro l’Italia decise nel 1935 dagli stati della Società delle Nazioni in seguito all’invasione italiana dell’Etiopia.


La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio5 ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa, ma tutto fu vano. 15 Bastava rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle Nazioni e non considerarli intangibili6 per l’eternità. Bastava non iniziare la stolta politica delle garanzie7, che si è palesata soprattutto micidiale per coloro che le hanno accettate. Bastava non respingere la proposta che il Führer fece il 6 ottobre dell’anno scorso, 20 dopo finita la campagna di Polonia8. Ormai tutto ciò appartiene al passato. Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi e i sacrifici di una guerra, gli è che l’onore, gli interessi, l’avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. 25 Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo i problemi risolti delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime. Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di 45 milioni di anime non è veramente libero se non ha libero accesso agli oceani. 30 Questa lotta gigantesca non è che una fase e lo sviluppo logico della nostra Rivoluzione9: è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra10; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee. 35 Ora che i dadi sono stati gettati11 e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per mare o per terra; Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole. Dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. 40 Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino12, io dissi che secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marci con lui fino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo Popolo, con le sue meravigliose forze armate. 45 In questa vigilia di un evento di portata secolare rivolgiamo il nostro pensiero alla maestà del Re Imperatore che, come sempre, ha interpretato l’anima della Patria. E salutiamo alla voce il Führer, il Capo della grande Germania alleata.

5 l’Italia del Littorio: l’Italia fascista. Il fascio littorio è un mazzo di verghe, legato da una striscia di cuoio attorno a una scure, simbolo già usato nell’antica Roma e assurto a emblema del fascismo. 6 intangibili: non modificabili in alcun punto. 7 politica delle garanzie: si allude all’obiettivo (considerato da Mussolini “stolto”) della Società delle Nazioni di «fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi stati». 8 la campagna di Polonia: la campagna di Polonia, iniziata il primo settembre

1939 (data di inizio della Seconda guerra mondiale) terminò il 6 ottobre 1939 con la resa dei polacchi. La Germania di Hitler e l’Unione Sovietica (sulla base del patto Molotov-Ribbentropp di non aggressione reciproca) occuparono il territorio polacco. 9 la nostra Rivoluzione: la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, che dà inizio all’era fascista. 10 la lotta dei popoli... oro della terra: si avverte nell’enfasi data alla nazione proletaria affamata da nazioni ricche e potenti la matrice originariamente socialista del pensiero mussoliniano.

11 i dadi... gettati: le decisioni sono prese. L’espressione metaforica rimanda alla celebre frase pronunciata da Giulio Cesare («Il dado è tratto») nel momento del passaggio del Rubicone (49 a.C.) e quindi della sfida aperta di Cesare a Pompeo e al senato di Roma. 12 In una memorabile... Berlino: il 24 ottobre 1936, dopo il patto di alleanza con la Germania hitleriana (l’asse Roma-Berlino), Mussolini tenne un discorso in cui ribadiva gli aspetti comuni nella politica dei due paesi alleati.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 45


L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta13 in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e imperativa per tutti. 50 Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: Vincere! E vinceremo. Per dare finalmente un lungo periodo di pace con giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano: corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo 55 valore. 13 per la terza volta: allusione alle due guerre precedenti di Etiopia e Albania.

Concetti chiave Un messaggio che sfrutta l’emotività

Il discorso, pronunciato in un momento di forte tensione nella nazione, annuncia una grave decisione da parte del governo che non potrà non avere grandissime ripercussioni sulla vita del paese: l’entrata in guerra. Mussolini utilizza una travolgente enfasi retorica per strappare l’adesione incondizionata della folla alla scelta del regime: un’adesione frutto non certo di riflessione razionale, ma di pulsioni irrazionali. In questo senso il discorso, come è stato osservato, mostra un’istintiva conoscenza, da parte del Duce, della psicologia delle masse.

La struttura retorica

Il testo è impostato sulla funzione conativa del linguaggio, volto cioè a stimolare la reazione del destinatario attraverso un diretto coinvolgimento del medesimo. Ne è espressione l’allocuzione alla nazione collocata in tre punti strategici del testo: l’inizio, la parte semicentrale del discorso e infine la sua conclusione. Nella prima allocuzione, con il forte imperativo «Ascoltate!», il Duce si rivolge prima all’apparato militare (fanteria, marina, aeronautica), quindi ai più stretti adepti, ai fedelissimi camerati (le Camicie nere che hanno dato inizio quasi vent’anni prima alla rivoluzione fascista) e infine all’intero popolo italiano (uomini e donne). Alla r. 37 torna l’appello in forma sintetica: «Italiani!». E così alla fine del discorso, in cui al popolo italiano è richiesta l’azione a cui l’intero discorso idealmente mira fin dall’inizio: «corri alle armi...». In tutto il testo sono usate frasi brevi e brevissime, in una sintassi paratattica che crea un ritmo martellante finalizzato a colpire l’uditorio. Enfatizza questo effetto l’uso dell’iterazione anaforica («Bastava... bastava... Noi... Noi... È la lotta... è la lotta... è la lotta»). Il linguaggio utilizza espressioni d’effetto, spesso iperboliche, con aggettivi e avverbi enfatici. Frequenti sono le metafore, finalizzate a conferire solennità, quasi sacralità, al discorso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale immagine dell’Italia viene data da Mussolini alla popolazione? E quale immagine delle nazioni contro cui l’Italia entra in guerra? LESSICO 2. Fornisci alcuni esempi del lessico enfatico usato nel discorso. STILE 3. Identifica le metafore e le iperboli.

Interpretare

SCRITTURA 4. Prova a identificare le motivazioni fornite da Mussolini per la guerra. Come le definiresti?

46 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


3 La politica culturale del fascismo Il mito della grandezza della nazione Il fascismo vuole dare al paese l’immagine del regime come completamento del Risorgimento; ne discende il mito della patria e della nazione, fortemente propagandato anche sui libri di scuola, e soprattutto la riproposizione della grandezza della Roma imperiale, che ispira le ardite scelte urbanistiche del periodo: interi quartieri medievali sono rasi al suolo, per isolare e valorizzare le rovine di Roma antica e per creare prospettive scenografiche che di per sé simboleggino la grandezza dello stato fascista; a tal proposito si ricordano in particolare la creazione di via dei Fori imperiali e di via della Conciliazione, concepita come accesso a San Pietro di grande impatto visivo. La cooptazione degli intellettuali Il fascismo – come gli altri regimi totalitari che si instaurano in Europa (il nazismo e lo stalinismo) – mirando al controllo e all’indottrinamento delle masse, considera un pericolo la libertà di pensiero e l’esercizio critico, costituzionalmente connessi allo status di intellettuale. Il regime cerca così di coinvolgere in ogni modo intellettuali e scrittori all’interno di una politica culturale che mira a generare il consenso intorno ai valori chiave dell’ideologia al potere. Nel 1926 è appunto creata l’Accademia d’Italia, per accogliere e legare al regime gli intellettuali più prestigiosi. Per organizzare capillarmente il consenso, c’è bisogno di molti operatori culturali: il Ministero della Cultura popolare arriva a contare circa 800 funzionari. Molteplici possibilità di lavoro sono offerte a intellettuali e scrittori anche dall’Istituto Luce (nato per la produzione di cinegiornali), dall’Eiar (la futura Rai) e dalla stessa Cinecittà. Le istituzioni del regime hanno sede a Roma. Ideologo del fascismo è il filosofo Giovanni Gentile (1875-1944). Come ministro dell’istruzione, Gentile vara nel 1923 una riforma della scuola destinata a influenzare per decenni la società italiana, fondata su una rigida distinzione di classe e sulla celebrazione del modello umanistico di cultura, incarnato dal Liceo Classico. Gentile fu anche l’ideatore del progetto della celebre Enciclopedia italiana (nota come Enciclopedia Treccani, dal nome dell’industriale Giovanni Treccani, che finanziò l’impresa), un’opera di grande prestigio culturale, a cui collaborarono centinaia di intellettuali. Nel marzo 1925, Gentile stende il Manifesto degli intellettuali fascisti, che fa del fascismo l’erede naturale del Risorgimento e difende la funzione stessa dello squadrismo fascista, che è stato capace di arginare le forze antinazionali e risvegliare la coscienza degli italiani.

Giovanni Gentile posa vicino all’enciclopedia Treccani.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 47


L’autarchia culturale Per lo meno come linea ufficiale, la politica culturale del fascismo è caratterizzata dall’autarchia, cioè dalla difesa della tradizione nazionale e dall’ostilità verso i modelli esteri: l’arte straniera è guardata con sospetto perché considerata capace di inquinare il “sano spirito italico”; in particolare si diffida di opere provenienti da paesi di ideologia opposta al fascismo, come la Russia marxista da un lato e l’America capitalista dall’altro. Tuttavia, nel 1942 Elio Vittorini e Cesare Pavese riescono a pubblicare l’antologia Americana, che contiene brani di autori americani e che era stata bloccata dalla censura l’anno prima. La prefazione di Vittorini, che celebra entusiasticamente il mito dell’America, è però sostituita da una prefazione di Emilio Cecchi, sicuramente più “neutra”.

intellettuali e il fascismo: 4 Gli consenso, “assenza”, opposizione Un consenso diffuso Nel 1931 viene imposto agli insegnanti e ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime (solo 12 su circa 1200 rifiutano). La maggior parte degli intellettuali (in particolare quelli appartenenti alla piccola borghesia, come appunto gli insegnanti) appoggia il regime, riconoscendosi nel mito del passato glorioso e della romanità, e sostiene la diffusione, voluta dal fascismo, di un modello culturale «di stampo vetero-cattolico e precapitalistico, piccolo-borghese e rurale» (De Castris). Tra gli scrittori più noti, aderiscono al fascismo Ungaretti e Pirandello (entrambi diventano anche accademici d’Italia). Il “fascismo di sinistra” Un gruppo di giovani intellettuali, in particolare a Firenze, tra il 1930 e il 1936 elabora una sorta di “fascismo di sinistra”: tra di essi si ritrovano il giovane Elio Vittorini e scrittori toscani che diventeranno poi famosi, come Romano Bilenchi e Vasco Pratolini. Ispirati da un idealismo per certi aspetti ingenuo, costoro vedono il fascismo come un movimento giovane, rivoluzionario, che si oppone al conservatorismo borghese, e pensano a un’estensione popolare della cultura. Per questi giovani la guerra di Spagna (1936) costituisce un vero e proprio spartiacque, inducendoli al distacco dal regime. La censura della stampa e la repressione del dissenso Con le leggi eccezionali del 1925 viene di fatto resa impossibile un’opposizione legale al fascismo: è soppressa la libertà di stampa e vengono chiusi i giornali di opposizione come «L’Unità», «Avanti!», «Il Mondo», e riviste politico-culturali come «Rivoluzione liberale» di Gobetti. La stampa viene capillarmente controllata e sono censurate tutte le notizie sgradite al regime. Le direttive ai giornali vengono impartite attraverso le cosiddette “veline”: circolari governative che contengono precise indicazioni per i giornalisti da seguire, così da impedire che l’opinione pubblica venga a conoscenza di aspetti e informazioni che possano in qualche modo incrinare l’immagine trionfalistica che il regime vuole trasmettere al paese. Verso la produzione libraria la censura è più morbida, nell’idea di una sostanziale separatezza della cultura dalla politica (condivisa peraltro da non pochi intellettuali); eccezioni alla regola sono costituite da opere dai contenuti apertamente avversi al regime e, dal 1938, dalle opere di autori ebrei. L’antifascismo militante Intellettuali di spicco, come Salvemini e don Sturzo, fondatore del Partito popolare, sono costretti a lasciare il paese. Allo stesso modo, in seguito all’affermazione del nazismo e poi alla persecuzione degli ebrei, avrebbero

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lasciato la Germania grandi intellettuali come Mann, Brecht, Einstein, Freud. Per coloro che contrastano in modo aperto il fascismo non c’è che il confino (come avviene per alcuni giovani antifascisti, come Pavese o Carlo Levi, riuniti intorno alla casa editrice Einaudi, nata nel 1933), l’aggressione fisica delle squadracce fasciste (di cui rimangono vittime don Giovanni Minzoni, Piero Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli) o il carcere (dove muore, dopo essere stato confinato e arrestato più volte, Leone Ginzburg e dove Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista italiano, resta per dieci anni fino alla morte e scrive quasi tutte le proprie opere). L’“assenza” e l’autonomia dell’intellettuale dalla politica Alcuni intellettuali non manifestano né adesione né aperta ostilità al fascismo, ma si arroccano in una posizione di aristocratico distacco, nella convinzione che la cultura possa, e debba, essere autonoma e superiore alla politica. Questa scelta implica la condanna di ogni forma di schieramento che possa incrinare la “purezza” del mestiere di intellettuale, garanzia di equilibrio rispetto a una realtà storica convulsa, contraddittoria, spesso violenta. A questo proposito ebbe larga risonanza ed esercitò indubbia influenza in Italia uno scritto del 1927 di Julien Benda (1867-1956), Il tradimento dei chierici. Con il termine “chierici” propriamente erano designati gli intellettuali nell’Alto Medioevo (poiché appartenevano al mondo della Chiesa), ma Benda ne fa una categoria metastorica, che identifica l’intellettuale “puro”, colui che difende i valori spirituali e una cultura superiore alle meschinità delle passioni politiche. Benda afferma la necessità per l’intellettuale di non schierarsi ideologicamente, così da poter difendere la verità contro ogni forma di irrazionalismo. Fu proprio questa la posizione di scrittori e critici italiani riconducibili alla rivista «La Ronda» e all’area degli ermetici. Di fatto è anche l’atteggiamento assunto dal grande filosofo e critico Benedetto Croce (1866-1952), nello stesso Manifesto degli intellettuali antifascisti, steso a ridosso e in contrapposizione al Manifesto degli intellettuali fascisti proclamato da Giovanni Gentile, il già citato filosofo ideologo del fascismo. Al manifesto crociano, tra gli altri, aderiscono gli scrittori Emilio Cecchi, Matilde Serao, l’economista Luigi Einaudi, lo storico Luigi Salvatorelli. Proprio questo atteggiamento viene, però, criticato aspramente nel dopoguerra, perché accusato di non aver ostacolato l’ascesa dei totalitarismi e la tragedia della guerra.

Benedetto Croce a Sordevolo in una fotografia di Franco Antonicelli.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 49


Benedetto Croce

Il compito degli intellettuali

D2

Manifesto degli intellettuali antifascisti B. Croce, Manifesto degli intellettuali antifascisti, «Il Mondo», 1° maggio 1925, in R. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano 1958

Nel passo scelto è evidente la visione crociana sul ruolo che l’intellettuale deve assumere e il netto rifiuto di una contaminazione tra politica e cultura.

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volonterosi signori non debbono essersi ram5 mentati di un consimile manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi1 a un partito e 10 fedelmente servirlo, come intellettuali hanno solo il dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a2 innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie3. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando 15 poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso.

1 ascriversi: iscriversi. 2 attendere... a: occuparsi di.

3 necessarie: si intende, per trasformare la società.

Concetti chiave L’atteggiamento degli intellettuali verso il fascismo

Questo è uno stralcio dal Manifesto degli intellettuali antifascisti (noto anche come Antimanifesto), steso nel 1925 come risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, firmato da Giovanni Gentile il 25 marzo dello stesso anno. Di fronte al volto sempre più dittatoriale del fascismo, Croce ormai ha abbandonato l’iniziale posizione di tolleranza verso il movimento, motivata dall’idea che si tratti di un fenomeno transitorio utile ad arginare le forze di sinistra e a restaurare l’ordine liberale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è l’errore di cui parla Croce a proposito degli intellettuali?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 2. Quale elevato compito il filosofo assegna all’uomo di cultura? La visione di Croce ti sembra realistica o utopistica? Motiva il tuo giudizio.

◗ L’Antimanifesto fu pubblicato sui quotidiani «Il Mondo» e «Il Popolo».

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5 Dopo la guerra: il richiamo all’impegno degli intellettuali La coesione degli intellettuali in nome dell’impegno La tragedia della guerra e l’esperienza della Resistenza spingono la maggior parte degli intellettuali a schierarsi politicamente e ad agire a fianco delle altre forze sociali progressiste del paese: una condizione del tutto nuova per gli intellettuali italiani, tradizionalmente lontani dalla società. Nel dopoguerra, le drammatiche condizioni del paese, la necessità della sua ricostruzione anche morale e politica, impongono come primario il tema dell’impegno, che sarà proposto soprattutto dalla cultura di sinistra, sia attraverso il dibattito culturale, con riviste come «Il Politecnico» (➜ PAG. 64), sia attraverso l’orientamento impresso al cinema e alla letteratura nella stagione del Neorealismo (➜ C9).

PER APPROFONDIRE

L’influenza del pensiero di Gramsci sul ruolo della cultura Punto di riferimento fondamentale per gli intellettuali di sinistra nel dopoguerra sono i Quaderni del carcere, che Antonio Gramsci (1891-1937), fondatore del Partito comunista, scrisse durante il lungo periodo della sua detenzione, dal 1926 alla morte, e che vengono pubblicati presso Einaudi nei primi anni del dopoguerra. I due “quaderni” più noti e importanti sono Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949) e Letteratura e vita nazionale (1950). Nella sua severa analisi della storia culturale d’Italia, Gramsci constata la costante mancanza di un collegamento fra intellettuali e popolo, con nefaste conseguenze sulla vita della nazione. Punto chiave della sua riflessione è la necessità di formare intellettuali “organici” al proletariato, capaci cioè di sostenere la sua lotta per l’egemonia, facendosi portavoce di una nuova visione del mondo: creando una cultura che sia espressione delle esigenze sociali di questa classe e che possa, al contempo, influenzare anche le altre, una cultura davvero “nazionalpopolare”, che in Italia era sempre mancata.

Sartre, prototipo dell’intellettuale impegnato Antesignano dell’appello all’impegno (ed esempio di questo nella sua stessa vita) è il filosofo francese, schierato politicamente a sinistra, Jean-Paul Sartre (1905-1980). Nella presentazione della rivista «Les temps modernes» (“I tempi moderni”) da lui fondata nell’ottobre del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, Sartre sostiene che dovere dello scrittore è aderire alla propria epoca e contribuire a cambiare la società (in questo, appunto, consiste l’engagement, termine corrispondente grosso modo a “impegno”). Ne sono esempi, per Sartre, Voltaire e Zola (quest’ultimo per la sua coraggiosa presa di posizione nell’“affare Dreyfus”). Sartre stesso, nelle sue scelte di vita e intellettuali, ha voluto incarnare il modello dell’intellettuale impegnato, vivendo il suo tempo con appassionata adesione e scelte volutamente ostentate (e soggette spesso a critiche). Marxista, dopo i fatti di Ungheria del 1956 attaccò lo stalinismo e fu poi autorevole portavoce dei movimenti dissidenti dalla sinistra ufficiale insieme alla compagna di tutta la vita, la scrittrice Simone de Beauvoir (1908-1986). Anche la letteratura, come Sartre sostiene nel saggio Che cos’è la letteratura? (1947), deve diventare uno strumento di lotta e di denuncia. ◗ Sartre (con la pipa) insieme a B. Vian e S. de Beauvoir (a destra).

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Jean-Paul Sartre

D3

La letteratura deve avere una funzione sociale Che cos’è la letteratura?

J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, a c. di F. Brioschi, Il Saggiatore, Milano 1976

I passi che seguono sono stralciati dall’articolo con cui Jean-Paul Sartre presenta la sua rivista «Les temps modernes». In questo brano, Sartre richiama lo scrittore ad assumere precise responsabilità nei confronti della società: un tema emergente all’indomani della tragedia della Seconda guerra mondiale.

Un tempo il poeta si credeva un profeta, ed era un fatto onorevole; in seguito, divenne paria1 e maledetto2; il che poteva ancora andare. Ma oggi è caduto al rango degli specialisti, e quando deve indicare accanto al suo nome, nei registri d’albergo, il suo mestiere di «letterato», avverte un certo disagio. [...] Mentre si combatte, il letterato 5 scrive; un giorno ne è fiero, si sente chierico e guardiano dei valori ideali3; il giorno dopo, se ne vergogna, pensa che la letteratura assomiglia assai a un modo d’affettazione particolare. Con i borghesi che lo leggono, ha coscienza della propria dignità; ma in faccia agli operai, che non lo leggono, soffre d’un complesso d’inferiorità [...] Non è correndo dietro all’immortalità che si diventa eterni: né diventeremo assoluti4 10 per aver riflesso nelle nostre opere qualche principio scarnificato, abbastanza vuoto e abbastanza nullo per passare da un secolo all’altro; ma perché avremo combattuto appassionatamente nella nostra epoca, perché l’avremo amata appassionatamente e avremo accettato di seguirne fino in fondo la sorte. 15 In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci circonda. E con questo non intendiamo un mutamento d’anime: lasciamo ben volentieri la direzione delle anime agli autori che hanno una clientela specializzata5. Noi [...] ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la 20 condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso. Pertanto, a proposito degli avvenimenti politici e sociali che verranno, la nostra rivista prenderà posizione in ogni caso. Non politicamente, cioè non servirà alcun partito, ma si sforzerà di porre in luce la concezione dell’uomo, a cui si ispireranno le tesi in contrasto, e darà il proprio parere conformemente alla concezione che verrà sostenendo. Se 25 potremo mantenere quanto ci siamo ripromessi, se potremo far condividere i nostri punti di vista a qualche lettore, non ne trarremo un orgoglio esagerato; ci feliciteremo semplicemente d’aver ritrovato una buona coscienza professionale, e del fatto che, almeno per noi, la letteratura sia tornata a essere quella che non avrebbe mai dovuto cessare d’essere: una funzione sociale.

1 paria: emarginato socialmente (in India, il termine designa gli esclusi da ogni casta o chi appartiene alla casta infima). 2 maledetto: richiamo ai “poeti maledetti” francesi.

3 si sente... valori ideali: riferimento diretto

5 lasciamo... specializzata: Sartre fa un’al-

alla visione dell’intellettuale difesa da J. Benda nel già citato Il tradimento dei chierici. 4 diventeremo assoluti: avremo una piena consacrazione.

lusione metaforica e ironica agli scrittori spiritualisti e cattolici, rivendicando il carattere laico della letteratura.

52 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il testo proposto in massimo 5 righe. LESSICO 2. Individua e commenta i termini e le espressioni che alludono al ruolo della letteratura sostenuto dalla rivista di Sartre.

Interpretare

SCRITTURA 3. Sartre dichiara che la rivista prenderà posizione sugli avvenimenti politici e sociali, ma non lo farà politicamente. Cerca di spiegare il significato di questa importante precisazione.

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da: Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950

Ma il problema più interessante è questo: perché i giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi (o mantenersi) devono pubblicare i romanzi di appendice di un secolo fa (o quelli moderni dello stesso tipo)? E perché in Italia non esiste una letteratura «nazionale» del genere, nonostante che essa debba essere 5 redditizia? È da osservare il fatto che in molte lingue, «nazionale» e «popolare» sono sinonimi o quasi […]. In Italia, il termine «nazionale» ha un significato molto ristretto ideologicamente, e in ogni caso non coincide con «popolare», perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione», e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un 10 forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è «libresca» e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. [...] Cosa significa il fatto che il popolo italiano legge di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l’egemonia intellettuale e morale degli in15 tellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli «paesani», cioè che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tantomeno ugualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è di origine popolana, 20 non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi; ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura nazionale popolare e non 25 ristretta alla sola letteratura narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in generale (scienze della natura, storia ecc.). […] La quistione non è nata oggi; essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politica nazionale unitaria della penisola […]. Anche la 30 quistione della lingua posta fin dalla fondazione dello Stato italiano […]. Ma l’unità della lingua è uno dei modi esterni […] dell’unità nazionale: in ogni caso è un effetto e non una causa. In assenza di una sua letteratura «moderna», alcuni strati del popolo minuto hanno soddisfatto in vari modi le esigenze intellettuali e artistiche che pur

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 53


esistono, sia pure in forma elementare e incondita1: diffusione del romanzo cavalleresco medioevale […] specialmente nell’Italia meridionale e nelle montagne. [...] I laici hanno fallito al loro còmpito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popo40 lo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno «umanesimo» capace di diffondersi fino agli strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta. […] Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto 45 miglior successo. Non bisogna lasciarsi illudere dalla discreta diffusione che hanno certi libri cattolici: essa è dovuta alla vasta e potente organizzazione della Chiesa, non ad un’intima forza di espansività2 […]. L’insufficienza degli intellettuali cattolici e la poca fortuna della loro letteratura sono uno degli indizi più espressivi della intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: 50 questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale: la religione è rimasta allo stato di superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per la impotenza degli intellettuali laici […]. 35

1 incondita: non coltivata, spontanea. 2 intima forza di espansività: naturale capacità di espandersi.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Individua e sintetizza la tesi espressa da Gramsci in merito alla questione trattata. 2. Riassumi le osservazioni dell’autore sul termine «nazionale» nel contesto italiano. 3. Qual è il rilievo principale che Gramsci muove ai letterati e in generale agli intellettuali italiani? 4. Che cosa può intendere Gramsci per «moderno umanesimo»? 5. Quali sono le conseguenze dell’atteggiamento persistente negli intellettuali italiani?

Produzione

In Letteratura e vita nazionale, uno dei Quaderni del carcere iniziati nel 1929 durante la reclusione nelle prigioni fasciste, Antonio Gramsci (1891-1937) affronta la questione della cultura «nazionale popolare» indagando sul ruolo degli intellettuali italiani nell’elaborazione della coscienza popolare e nella costruzione dell’egemonia da parte di un nuovo blocco politico-sociale. Sviluppa il tema delle responsabilità degli intellettuali e della cultura nella costruzione dello stato unitario, specie di fronte all’insediarsi del regime fascista. Elabora le tue opinioni al riguardo, sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue conoscenze di studio e delle tue letture personali.

◗ Un foglio di uno dei Quaderni scritti da Antonio Gramsci durante la prigionia.

54 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


2

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Il dibattito sul sapere scientifico

Karl Popper.

Il Neopositivismo Negli anni tra le due guerre, la ricerca scientifica e il progresso tecnologico continuano la loro avanzata e inevitabilmente ne risultano condizionati gli indirizzi di pensiero. Filosofi e soprattutto scienziati riflettono sui fondamenti del sapere scientifico, che tende a configurarsi come il sapere per eccellenza e, soprattutto, come l’unica forma di conoscenza dotata di validità assoluta. La filosofia tende a identificarsi con la filosofia della scienza, l’epistemologia, mentre perde prestigio e credito ogni altro tipo di riflessione filosofica. È questo lo sfondo in cui si colloca il Neopositivismo. Le basi sono formulate con chiarezza programmatica in un documento redatto nel 1929 da tre scienziati del cosiddetto Circolo di Vienna: il matematico Hans Hann, l’economista e sociologo Otto Neurath e il fisico Rudolf Carnap. Il documento porta il titolo di La concezione scientifica del mondo (➜ D4 OL). Il gruppo del Circolo di Vienna si proponeva come obiettivo l’unificazione dei saperi scientifici, sulla base di una visione empiristica e di un linguaggio rigorosamente logico-matematico. Il Neopositivismo ha una posizione dichiaratamente antimetafisica: nulla esiste al di là e al di sopra del mondo sensibile; la metafisica (a cui si tende ad assimilare ogni filosofia tradizionale) non ha alcun valore conoscitivo reale, si fonda su argomentazioni inconcludenti e dà luogo a pseudoproblemi perché poggia su termini che non hanno alcun riferimento all’esperienza, come “essere” o “cosa in sé”. Dal Positivismo ottocentesco i neopositivisti riprendono l’idea che l’unica conoscenza effettiva sia quella che pertiene al mondo sensibile, la cui validità è fondata sul metodo sperimentale e sulla verificabilità. Dal Positivismo li distingue la nuova attenzione posta al problema del linguaggio scientifico: un linguaggio che seguendo i procedimenti della logica moderna (in particolare si fa riferimento alle ricerche di Ludwig Wittgenstein, 1889-1951) possa ridurre le affermazioni scientifiche complesse a proposizioni logiche controllabili sperimentalmente. Falsificabilità e divenire del sapere scientifico Già qualche decennio dopo, la fiducia che la scienza sia depositaria di conoscenze indiscutibili e assolute viene meno. Sorgono così nuove teorie epistemologiche che, al contrario del Neopositivismo, sostengono il carattere ipotetico e provvisorio delle teorie scientifiche. È soprattutto il viennese Karl Popper (1902-1994) a farsi interprete autorevole di questa linea. La sua opera fondamentale, Logica della scoperta scientifica, è del 1934, ma le tesi in essa presentate si diffondono e animano il dibattito filosofico-scientifico solo molti anni dopo, quando l’opera è pubblicata in inglese (1959) e Popper stesso inizia a tenere conferenze sul tema in vari paesi europei. Popper pone al centro della propria riflessione la falsificabilità, o confutabilità, come carattere Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 55


proprio di una teoria scientifica. Una teoria è “vera” se si può ipotizzare e prevedere che cosa possa confutarla (escludendo, così, dall’ambito scientifico discipline come la psicoanalisi). E comunque ogni “verità” è transitoria, non ha valore assoluto: una teoria è vera fino a quando non sarà smentita o rettificata, come dimostra la storia della conoscenza scientifica stessa. Popper considera ingenua la fede nella certezza assoluta del sapere scientifico, nata nel periodo di massima mitizzazione della scienza, e cioè con il Positivismo e il Neopositivismo: egli ha una visione problematica e dinamica del sapere scientifico, che concepisce come inesauribile ricerca più che come possesso di verità. Il tema della complessità: un ponte tra sapere scientifico e scienze umane Rispetto alle scienze della natura, definite anche scienze “esatte”, le scienze umane sono apparse a lungo inferiori per l’impossibilità di individuare delle costanti traducibili in leggi e formule. Nell’ottica dell’epistemologia moderna, i due ambiti del sapere sembravano inesorabilmente “diversi” e incommensurabili. In realtà, nel corso degli ultimi decenni, sapere scientifico e scienze umane si sono avvicinati, soprattutto in nome della nozione di “complessità”. L’acquisizione progressiva che la “complessità” è costitutiva del sapere umano (e soprattutto del sapere nel tempo della modernità e della post-modernità) e la consapevolezza dell’impossibilità, anche per lo scienziato, di eliminare del tutto la componente della soggettività e il condizionamento dalle ideologie sociali e politiche del tempo in cui opera, avvicinano scienze umane e scienze della natura. Il francese Edgar Morin (nato nel 1921), in origine studioso di sociologia, ma poi interessato ai fondamenti epistemologici delle scienze umane, sostiene che non c’è in realtà una demarcazione netta tra scienza e “non scienza”. La demarcazione è nata da fittizie semplificazioni, mentre le varie aree della conoscenza sono accomunate dalla complessità. Un nuovo sapere dovrà costruire i online nessi tra le discipline e accettare il divenire aperto delle coD4 Hans Hann-Otto Neurath-Rudolf Carnap La concezione scientifica del mondo noscenze, rinunciando al mito di una «chiarificazione totale La concezione scientifica del mondo dell’universo» (➜ D5 ).

Edgar Morin

D5

La sfida della complessità Le vie della complessità

E. Morin, Le vie della complessità, in AA. VV., La sfida della complessità, a c. di G. Bocchi e M. Ceruti, trad. di G. Bocchi, Feltrinelli, Milano 1985

Il frammento proposto, estrapolato da un ampio saggio, è indicativo della visione del pensatore francese: l’irriducibilità della natura alle leggi scientifiche e la presenza, nei fenomeni, del “disordine”, del caso, devono indurre ad accettare l’idea della complessità dell’universo e l’impossibilità di arrivare a una sua totale decifrazione e riduzione entro strutture coerenti.

La sfida della complessità ci fa rinunciare per sempre al mito della chiarificazione totale dell’universo, ma ci incoraggia a continuare l’avventura della conoscenza, che è un dialogo con l’universo. E la razionalità stessa non è altro che questo dialogo con l’universo. Fra ragione e razionalizzazione vi è stata un’enorme confusione. 5 Abbiamo creduto che la ragione dovesse determinare tutto ciò che fosse irrazionalizzabile – e quindi l’aleatorio1, il disordine, la contraddizione – per rinchiudere le 1 l’aleatorio: ciò che è frutto del caso.

56 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


strutture del reale entro una struttura di idee coerenti, teoria o ideologia che fosse. Ma la realtà oltrepassa le nostre strutture mentali da ogni parte. “Ci sono più cose in cielo e in terra che in tutta la nostra filosofia”, notava Shakespeare2. E il fine della nostra co10 noscenza non è quello di chiudere, ma quello di aprire il dialogo con l’universo. Il che significa: non soltanto strappare all’universo ciò che può venir determinato in maniera chiara, con precisione ed esattezza, come erano le leggi di natura, ma entrare anche in quel gioco fra chiarezza e oscurità che è appunto la complessità. 2 Ci sono... Shakespeare: la citazione è tratta da Amleto, atto I, scena v.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa significa per Morin rinunciare al mito della «chiarificazione totale dell’universo»? ANALISI 2. Quale rapporto ha la citazione shakespeariana con la riflessione di Morin?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. Spiega la concezione che Morin ha della conoscenza, interpretando e commentando la suggestiva immagine «gioco tra chiarezza e oscurità» con cui alla fine del testo è definita «la complessità» (max 3 minuti).

2 L’Esistenzialismo Una tendenza filosofica radicalmente pessimistica Intorno agli anni Trenta, nello stesso periodo in cui si afferma il Neopositivismo, si sviluppa e ha poi negli anni largo successo un indirizzo filosofico opposto, l’Esistenzialismo, che pone in primo piano i rapporti tra “io” e “mondo” e si fa interprete dello smarrimento e della solitudine dell’uomo nella società contemporanea. Padri dell’Esistenzialismo sono i filosofi tedeschi Martin Heidegger (1889-1976) e Karl Jaspers (1883-1969), che riprendono alcuni temi del pensiero di Søren Kirkegaard (1813-1855). L’Esistenzialismo è un indirizzo filosofico radicalmente pessimistico: la condizione umana è segnata dalla “deiezione”, cioè dall’“essere gettati” nel mondo e destinati alla morte, senza poter conoscere il significato dei fenomeni e della propria stessa vita. Il senso tragico dell’assurdo, dello scacco, induce gli uomini a stordirsi nella banalità inautentica della vita quotidiana. Gli esistenzialisti invece rigettano la “falsa coscienza” e le oppongono l’autenticità che scaturisce dalla coraggiosa accettazione dell’angoscia esistenziale, del vuoto e del nulla che contraddistinguono la condizione umana. L’Esistenzialismo sartriano: oltre il nichilismo Nel dopoguerra l’Esistenzialismo, a cominciare dalla fortuna del termine stesso, in precedenza non usato (e anzi addirittura rifiutato da Heidegger), conosce in Europa una grande popolarità, inconsueta per un modello filosofico, grazie alla figura carismatica e all’opera di Jean-Paul Sartre (1905-1980) principale rappresentante dell’indirizzo ateistico di tale corrente. Nel suo scritto, L’essere e il nulla (1943), Sartre distingue tra l’“essere in sé”, la realtà opaca del mondo a cui l’uomo risulta estraneo e che è impossibilitato a comprenModelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 57


dere, e l’“essere per sé”, cioè la coscienza individuale, che aspira alla libertà assoluta. Il contatto con il mondo delle cose, assurdo, privo di un senso, suscita la “nausea”, una condizione esistenziale e insieme conoscitiva (è questo il titolo del celebre romanzo La nausea del 1938, che già contiene, elaborate in forma narrativa, le principali acquisizioni filosofiche di Sartre); ma a propria volta la condizione di assoluta libertà, il disancoramento dal mondo, suscita angoscia perché proietta l’uomo nel nulla. Del tutto alienante è per Sartre anche il rapporto con gli altri. La trama Il romanzo è costituito dal diario tenuto tra il gennaio e il febbraio 1932 da Antoine Roquentin, un giovane intellettuale che si stabilisce in una cittadina di provincia francese per fare delle ricerche storiche su un ambiguo personaggio, il marchese di Rollebon, vissuto nel XVIII secolo. Ben presto Roquentin è preda di strane, sgradevoli sensazioni, a cui dà il nome di “nausea”, che lo paralizzano e ne bloccano l’attività. La nausea si intensifica progressivamente in seguito a una serie di esperienze conoscitive sconvolgenti, delle vere e proprie epifanie che rivelano al protagonista l’assurdità del vivere. Roquentin si percepisce diverso e separato dagli altri, immersi nella banalità del quotidiano, lontano dal suo stesso passato (deludente si rivela l’incontro con la donna che un tempo ha amato). Decide di troncare il suo lavoro di ricerca storica e di ritornare a Parigi, dove immagina di scrivere un libro, sperando così di dare un senso alla sua vita. Nel saggio L’Esistenzialismo è un umanismo (1946), Sartre attenua le componenti radicalmente pessimistiche del suo pensiero, coniugando le posizioni dell’Esistenzialismo con la necessità dell’impegno per fondare una nuova morale (che sarà dichiaratamente laica). La caduta di ogni valore assoluto conseguente alla “morte di Dio”, se da un lato lascia l’uomo solo e smarrito, dall’altro gli conferisce totale libertà di scelta e gli assegna precise responsabilità etiche e intellettuali: Sartre stesso, associando Esistenzialismo e Marxismo, compie nella vita scelte forti, dandosi a un impegno politico crescente.

online D6 Jean-Paul Sartre

Solitudine e responsabilità dell’uomo, orfano di Dio L’Esistenzialismo è un umanismo

D7 Jean-Paul Sartre L’apparizione della “nausea” La nausea

Jean-Paul Sartre e il Café de Flore, uno dei caffé di Parigi frequentati dagli artisti.

58 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


La diffusione dei motivi esistenzialistici La visione esistenzialista del mondo influenza innanzitutto la letteratura, con romanzi come La nausea, dello stesso Sartre, e Lo straniero di Camus, del 1942. In Italia spunti esistenzialistici sono evidenti nel romanzo giovanile di Alberto Moravia Gli indifferenti (1929, ➜ C5 T4 ) e, anni dopo, nella Noia (1960). Tematiche esistenzialiste sono presenti anche nella poesia di Montale, in particolare nella prima raccolta, Ossi di seppia (1925, ➜ C4). L’Esistenzialismo ha risvolti anche nel teatro, nella canzone d’autore e nel cinema: in Italia il tema dell’alienazione e del disagio esistenziale è al centro di alcuni film dei primi anni Sessanta di Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse). Soprattutto in Francia, l’Esistenzialismo diventa addirittura fatto di costume, improntando gli atteggiamenti e le scelte di vita di giovani intellettuali d’avanguardia. Albert Camus Nasce nel 1913 da una modestissima famiglia francese in Algeria, sfondo poi prediletto dei suoi romanzi. Lavora inizialmente e saltuariamente come giornalista, denunciando la politica coloniale francese, e fonda una compagnia teatrale. Nel 1940 si trasferisce a Parigi e diventa famoso con Lo straniero, pubblicato nel 1942, nel cui messaggio, come nella Nausea di Sartre, si riconosce un’intera generazione. Partecipa alla Resistenza, maturando una coscienza civile che lo apre alla dimensione collettiva. Nel 1947 esce La peste, in cui emerge chiaro il tema della solidarietà e dell’impegno che consentono di sfuggire, se non al male e al destino, all’angoscia esistenziale. Il saggio L’uomo in rivolta (1951) prospetta la possibilità di ritrovare, nella rivolta comune contro l’ingiustizia, il senso dell’esistenza. Nel 1957 Camus riceve il premio Nobel. Pochi anni dopo (1960) muore, non ancora cinquantenne, in un incidente automobilistico. Lo straniero Il protagonista del romanzo e voce narrante in prima persona è Patrice Meursault, un impiegato di origine francese che vive ad Algeri una vita priva di interessi e passioni. All’inizio del romanzo assiste al funerale della madre, morta in un ospizio per vecchi, senza mostrare particolare turbamento. Il giorno dopo intreccia una relazione con una ragazza, ma si tratta di un rapporto senza coinvolgimento sentimentale. Meursault è privo di reazioni, apatico, impassibile, indifferente a tutto. Un giorno, per ragioni del tutto casuali, su una spiaggia uccide un arabo e viene arrestato. Il suo atteggiamento di totale distacco viene usato dal pubblico ministero come aggravante. Condannato a morte, attende la sua sorte. Solo alla fine, di fronte a un sacerdote di cui ha più volte respinto i conforti religiosi, Meursault infrange drammaticamente la sua impassibilità e svela le ragioni della sua estraneità al mondo: è la prospettiva inesorabile della morte, la condanna che riguarda per natura ogni essere umano (e non solo lui) a rendere la vita assurda e solo pochi sono in grado di comprendere questa tragica verità.

Albert Camus.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 59


Albert Camus

D8

«Per me era lo stesso» Lo straniero, cap. 5

A. Camus, Lo straniero, trad. di S.C. Perroni, intr. di R. Saviano, Bompiani, Milano 2015

Patrice Meursault è un impiegato di origine francese che vive ad Algeri. Un giorno, il suo principale gli prospetta l’eventualità di un avanzamento di carriera, che avrebbe comportato un trasferimento a Parigi e la possibilità di una nuova vita, certo allettante per un giovane. Ma Patrice, chiuso in un’apatica indifferenza, non sembra interessato a un cambiamento. Lo stesso atteggiamento assume di fronte alla prospettiva di sposarsi con Marie, che peraltro dichiara di non amare.

Raymond1 mi ha telefonato in ufficio. Mi ha detto che un suo amico (al quale aveva parlato di me) m’invitava a passare la domenica nel suo capanno sulla spiaggia vicino ad Algeri. Ho risposto che mi sarebbe piaciuto ma avevo promesso a un’amica di passare la domenica con lei. Raymond mi ha subito detto che invitava anche lei. 5 La moglie del suo amico sarebbe stata contentissima di non essere da sola con un gruppo di uomini. Avrei voluto riattaccare subito perché so che il principale si secca quando riceviamo telefonate in ufficio. Ma Raymond mi ha chiesto di aspettare e ha detto che quell’invito avrebbe potuto farmelo la sera e in realtà voleva avvisarmi di un’altra cosa. 10 Era stato seguito per tutto il giorno da un gruppo di arabi fra i quali c’era il fratello della sua ex amante2. “Se stasera quando torni lo vedi vicino a casa, avvisami.” Gli ho detto che l’avrei fatto. Poco dopo, il principale mi ha fatto chiamare, e sul momento mi sono seccato perché pensavo che mi avrebbe detto di telefonare meno e lavorare di più. Ma non era 15 niente del genere. Ha detto che voleva parlarmi di un progetto ancora un po’ vago. Voleva solo sapere la mia opinione. Aveva intenzione di aprire un ufficio a Parigi per trattare i suoi affari sul posto, direttamente con le grandi aziende, e voleva sapere se fossi disposto ad andarci. Questo mi avrebbe consentito di vivere a Parigi e anche di viaggiare per una parte dell’anno. “Lei è giovane, e immagino che questo tipo di 20 vita possa piacerle.” Ho detto che sì ma in fondo per me era lo stesso. Allora mi ha chiesto se non m’interessasse cambiare vita. Ho risposto che non si cambia mai vita3, che comunque una vita vale l’altra e che la mia lì non mi dispiaceva affatto. Lui mi è sembrato deluso, ha detto che rispondevo sempre a vanvera, che non avevo ambizione e che questo era disastroso nel mondo degli affari. A quel punto sono 25 tornato al lavoro. Avrei preferito non deluderlo ma non vedevo nessuna ragione per cambiare la mia vita. A pensarci bene, non ero infelice. Da studente avevo molte ambizioni di quel tipo. Ma quando m’è toccato abbandonare gli studi ho capito in fretta che quelle cose non avevano una vera importanza. La sera, Marie è venuta a casa e mi ha chiesto se volessi sposarmi con lei. Le ho 30 detto che per me era lo stesso e che se voleva potevamo farlo. Allora ha voluto sapere se la amassi. Le ho risposto come avevo già fatto un’altra volta, che non significava niente ma di sicuro non la amavo. “Allora perché sposarmi?” ha detto. 1 Raymond: un magazziniere amico del protagonista. 2 Era stato... ex amante: l’informazione, enunciata senza che venga in alcun modo enfatizzata la sua importanza dal

narratore-protagonista, fa riferimento a quello che diventerà l’elemento chiave dell’intreccio: Mersault verrà coinvolto nella vicenda dell’amico e ucciderà in modo quasi casuale uno degli arabi.

60 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

3 Ho risposto... vita: la breve, lapidaria, asserzione di tono filosofico evoca la visione pessimistica della vita di Meursault, che ne giustifica l’atteggiamento rinunciatario.


Le ho spiegato che non aveva nessuna importanza e che se lo desiderava potevamo sposarci. D’altronde era lei a chiederlo, io mi limitavo a dire sì. Allora ha detto che 35 il matrimonio era una cosa seria. Io le ho risposto: “No.” Lei non ha detto niente e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato. Voleva solo sapere se avrei accettato la stessa proposta da parte di un’altra donna, una con cui avessi lo stesso tipo di legame. Io ho detto: “Naturalmente.” Allora si è chiesta se mi amasse, ma io quello non potevo saperlo. Dopo un altro momento di silenzio ha mormorato che 40 ero strano, che di sicuro mi amava proprio per questo ma forse un giorno le avrei fatto schifo per lo stesso motivo. Io sono rimasto zitto perché non avevo niente da aggiungere, e allora lei mi ha preso per un braccio sorridendo e ha dichiarato che voleva sposarsi con me. Io ho risposto che per me potevamo farlo quando voleva. A quel punto le ho parlato della proposta del principale e Marie mi ha detto che 45 le sarebbe piaciuto conoscere Parigi. Le ho detto che vi avevo vissuto per qualche tempo e lei mi ha chiesto come fosse. Le ho detto: “È sporca. Ci sono piccioni e cortili bui. La gente ha la pelle bianca4.” 4 È sporca... bianca: il ritratto minimalista che Meursault dà di Parigi, città affascinante nell’immaginario comune, rimanda

indirettamente all’assenza di emozioni che caratterizza il protagonista del romanzo.

Analisi del testo Uno “straniero” alla vita Il passo delinea con sufficiente chiarezza il protagonista del capolavoro di Camus: egli è uno “straniero”, non certo solo nel senso che è di origine francese (e vive in Algeria), ma per l’estraneità che lo caratterizza di fronte al mondo, alla vita: le scelte fondamentali dell’esistenza, relative al lavoro, alla carriera, al matrimonio, non coinvolgono assolutamente il personaggio, lo lasciano di fatto indifferente. Ma il suo non è, come potrebbe a prima vista sembrare, un atteggiamento egoistico e meschino, volto a difendere grettamente un’esistenza mediocre, bensì il frutto necessario della presa di coscienza dell’assurdità della condizione umana: il non senso dell’esistenza e soprattutto il destino di morte che pesa su ogni essere umano rendono insignificante ogni scelta.

Lo stile dell’“impassibilità” La visione di Meursault che aleggia su tutto il romanzo di Camus è enfatizzata da precise scelte narrativo-stilistiche: sebbene la vicenda sia narrata in prima persona, è del tutto assente non solo ogni riferimento alle emozioni (ad esempio nella scena del funerale della madre, nel primo capitolo del romanzo), ma persino alla psicologia del personaggio. La narrazione si limita a un’impersonale registrazione di reazioni quasi meccaniche a sollecitazioni esterne. Lo stile è neutro, quasi incolore, e la sintassi prevalentemente paratattica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 2. Indica le due situazioni su cui il protagonista è chiamato a prendere posizione.

online

Interpretazioni critiche Roberto Saviano Camus e Meursault: due “stranieri”

SINTESI 1. Riassumi le risposte date da Meursault. Da che cosa sono accomunate?

Interpretare

SCRITTURA 3. Quali aspetti ricollegano il testo, e più in generale il romanzo di Camus, alla prospettiva filosofica dell’Esistenzialismo?

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 61


3

Il dibattito culturale e i generi letterari della letteratura dalla storia: 1 L’autonomia dalla «Ronda» a «Solaria» L’importanza delle riviste Negli anni tra le due guerre, come già era avvenuto nel primo Novecento, le riviste continuano ad avere un ruolo importante nell’orientare la produzione letteraria. Ne spiccano in particolare due, tra le quali esiste un filo rosso: «La Ronda» (1919-1923) e «Solaria» (1926-1936). In comune esse hanno il rifiuto sia dell’estremo sperimentalismo, proprio delle avanguardie primo-novecentesche, sia del coinvolgimento degli scrittori negli avvenimenti storico politici. «La Ronda» Già dal titolo scelto («un poliziesco richiamo all’ordine», lo definisce il critico Cataldi), «La Ronda» allude alla necessità, dopo il rumoroso “disordine” delle avanguardie, di un ripristino dell’“ordine”: il che significa per i rondisti (nomi di spicco sono Cardarelli, che ne è il direttore dal 1919 al 1923, Cecchi, Baldini, Bacchelli) riportare al centro del “fare letteratura” la perfezione dello stile. Di quest’ultimo, i rondisti considerano modello il Leopardi delle Operette morali. Per il poeta di Recanati i rondisti hanno un vero e proprio culto, ma privilegiano esclusivamente gli aspetti formali della sua scrittura, mentre di fatto ignorano la portata rivoluzionaria del suo pensiero filosofico. In un momento storico confuso e violento (l’Italia sta vivendo in quegli anni l’ascesa del fascismo) l’esaltazione dell’autonomia della letteratura e il culto aristocratico della perfezione stilistica rappresentano per i rondisti una sorta di difesa (tutto sommato conservatrice) dal coinvolgimento dell’intellettuale, avvertito come un pericolo. In ambito letterario l’influenza della rivista «La Ronda» pone le premesse della cosiddetta prosa d’arte, della “bella pagina”, necessariamente breve proprio perché estremamente cesellata e rivolta, per sua natura, a un pubblico d’élite. Questa scrittura spesso assume la forma dell’elzeviro, un pezzo pubblicato sulla terza pagina dei quotidiani, un tempo riservata agli articoli di cultura e letteratura (celebri erano quelli di Cecchi). Elio Vittorini.

62 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


In ambito lirico il maggiore interprete dello spirito rondista è Vincenzo Cardarelli (1887-1959), per lo meno in una certa parte della sua ampia produzione poetica. Nelle sue poesie, egli realizza uno stile “classico”: sentimenti ed emozioni sono delineati in modo nitido ed elegante, rifuggendo dal criptico simbolismo che caratterizza la maggiore poesia del Novecento, come si può notare anche da questo solo suggestivo esempio, tratto da Poesie: la lirica è strutturata sulla correlazione, di ascendenza classica, tra il declinare dell’estate e il tramonto della giovinezza.

Autunno. Già lo sentimmo venire nel vento d’agosto, nelle piogge di settembre torrenziali e piangenti, e un brivido percorse la terra che ora, nuda e triste, accoglie un sole smarrito. Ora passa e declina, in quest’autunno che incede con lentezza indicibile il miglior tempo della nostra vita e lungamente ci dice addio. «Solaria» La vita decennale della rivista (1926-1936), fondata a Firenze da Alberto Carocci, e nello spirito della quale si formano Vittorini, Montale, Gadda, si sviluppa in parallelo agli anni della trasformazione del fascismo da movimento rivoluzionario in regime dittatoriale: una realtà di fronte alla quale i solariani scelgono di professare l’autonomia della cultura di fronte alla contaminazione della politica. Una posizione a cui gli stessi strateghi della politica culturale fascista (in particolare Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale) guardano positivamente: se infatti da un lato il regime si adopera per trasformare gli intellettuali in “suscitatori di consenso”, stroncando con durezza i dissidenti, dall’altro assume una posizione di relativa tolleranza verso manifestazioni intellettuali che esprimano la specificità e la separatezza della cultura e che quindi, proprio come «Solaria», non contestino “politicamente” e apertamente il regime. Rispetto però ai rondisti, i solariani pongono in primo piano non lo stile, ma la componente “testimoniale” ed “etica” della letteratura, nella fiducia che di per sé possa esprimere una contrapposizione al fascismo e costituire un baluardo contro la barbarie e l’inciviltà dilaganti. Si trattava in realtà di una fragile utopia, che non a caso crolla di fronte alla deriva sempre più autoritaria del regime: «Solaria» cessa le pubblicazioni nel 1936, una data simbolica: in occasione della guerra di Spagna gli intellettuali sono chiamati a schierarsi apertamente a favore o contro il fascismo. I solariani credono nella funzione appunto “testimoniale” del romanzo: non a caso è «Solaria» a lanciare due grandi romanzieri come Svevo e Tozzi e a pubblicare nel 1929 Gli indifferenti di Moravia, contribuendo così in modo determinante, contro il frammentismo della prosa d’arte rondista, al rilancio del romanzo, in una moderna prospettiva realista. Inoltre questa rivista è in prima linea nella diffusione della conoscenza dei grandi romanzieri europei: da Proust a Joyce, da Kafka a Mann, contrapponendosi alla provinciale autarchia culturale del fascismo. Il dibattito culturale e i generi letterari 3 63


2 La battaglia per una nuova cultura e «Il Politecnico» Per una nuova cultura Il 29 settembre 1945, Vittorini (➜ C6) dà vita alla rivista «Il Politecnico», pubblicata da Einaudi, aprendo il primo numero con un celebre editoriale (➜ D10a ) in cui additava la sconfitta della cultura di fronte alla tragedia della guerra, perché si era rivelata incapace di impedire la sofferenza, e proponeva con forza la necessità di una nuova cultura, non solo consolatoria ma capace di incidere veramente sulla società. Significato di un titolo La rivista riprende significativamente il nome dal periodico di Carlo Cattaneo, pubblicato a Milano dal 1839 al 1844, che già faceva sua una concezione ampia di cultura, che accogliesse anche la scienza e la tecnica. La lotta per una nuova cultura, cui fa riferimento l’editoriale della rivista di Vittorini, comporta la scelta di trattare fin dal primo numero temi e problemi diversi, radicati nella società: da questa impostazione deriveranno le inchieste sull’industria e il mondo del lavoro, la scuola, la questione femminile. Nell’ambito propriamente letterario e delle scienze umane la rivista si batte per far conoscere le opere degli scrittori stranieri e immettere nella cultura italiana discipline come la sociologia, la psicoanalisi, la filosofia della scienza e filoni filosofici come l’Esistenzialismo, dei quali l’autarchia culturale del fascismo aveva ostacolato la diffusione. Lo scontro con i vertici del Pci L’antidogmatismo, l’ottimistica e sperimentale apertura al nuovo, la fiducia illuministica di Vittorini nel ruolo primario della cultura, erano destinati a scontrarsi con la rigida linea culturale del Pci (partito a cui allora appartenevano non solo Vittorini, ma anche altri rappresentanti della rivista come Fortini e del resto la maggior parte degli intellettuali in quel periodo) e con le posizioni di Togliatti, segretario del Pci, ancora influenzate dallo stalinismo, che presupponeva il controllo assoluto del Partito sugli intellettuali, imponeva il “realismo socialista” agli scrittori e condannava come degenerata e “borghese” la letteratura decadente e d’avanguardia. Il ritiro dell’appoggio del Pci mette in crisi la rivista, che chiude dopo soli due anni di vita, nel dicembre 1947. La polemica Vittorini-Togliatti In una lettera al «Politecnico» (nn. 33-34, settembre-dicembre 1946), Togliatti critica la tendenza «enciclopedica» della rivista, la ricerca del “nuovo” a tutti i costi; ma il tema che innescò la polemica destinata a provocarne la chiusura riguardava in particolare il rapporto cultura-politica. Togliatti considerava la cultura veicolo ideologico della politica, di fatto subordinata ad essa (e nella fattispecie subordinata alle direttive del Partito), con la missione principale di educare le masse popolari. Nella sua appassionata lettera di risposta a Togliatti (➜ D10b ), Vittorini invece difende l’autonomia della cultura, il cui carattere rivoluzionario non dipende certo dal «suonare il piffero per la rivoluzione» (celebre immagine metaforica con cui lo scrittore siciliano identifica una cultura subordinata al Partito): «rivoluzionario» è lo scrittore capace di cogliere «esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere online nell’uomo». Rivoluzionaria e progressista può dunque essere D9 Franco Fortini per Vittorini anche quell’arte decadente che la linea ufficiale «Il Politecnico»: un’esperienza etico-culturale entusiasmante del Partito bollava come “degenerata arte borghese” (e VittoCos’è stato «Politecnico» rini cita al proposito l’opera di Kafka).

64 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


D10

Due celebri interventi di Vittorini su «Il Politecnico» Da «Il Politecnico» presentiamo due testi. Il primo è tratto dall’editoriale pubblicato sul primo numero della rivista (29 settembre 1945). Il titolo, Per una nuova cultura, sintetizza l’obiettivo principale che il periodico si poneva: in questo celebre articolo Vittorini, con la passione civile che lo contraddistingue, chiama in causa la responsabilità dello scrittore (e dell’intellettuale più in generale) di fronte a tragedie come il recente conflitto mondiale, che la cultura non è stata in grado di impedire. Il secondo testo, altrettanto celebre, è uno stralcio dalla lunga, appassionata replica di Vittorini sulla rivista alle critiche mossegli prima da Mario Alicata (1918-1966) sulla rivista «Rinascita» e poi su «Il Politecnico» da Palmiro Togliatti (1893-1964), segretario del Partito comunista (a cui allora lo stesso Vittorini apparteneva). Togliatti vedeva, nella linea che Vittorini stava portando avanti, il pericolo di una dispersione e lo richiamava indirettamente a un impegno ideologico più mirato. Vittorini difende i diritti della cultura a una propria forma di ribellione e di azione, indipendente dalla politica (e, tanto più, dalle direttive del Partito).

Elio Vittorini

D10a E. Vittorini, Per una nuova cultura, in «Il Politecnico», (1), 29 settembre 1945

«Per una cultura che combatta le sofferenze...»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini1. Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li 5 contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mathausen, Maidaneck, Buchenwald, Dakau2. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa 10 che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» 15 che c’insegnava l’inviolabilità loro? Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura [...]. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato a esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chie20 dere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? [...] Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata 1 Non più... le elimini: il periodo, in corsivo nel testo, funge da sintesi dell’intero articolo.

2 Mathausen... Dakau: località dove si trovavano i campi di sterminio nazisti (la grafia esatta è Mauthausen e Dachau).

Il dibattito culturale e i generi letterari 3 65


influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e 25 mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare, anche l’uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? 30 Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell’URSS3) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principii e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la 35 cultura trae motivo per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l’uomo soffre nella società. L’uomo ha sofferto nella società, l’uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l’uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era «sua» in 40 Italia o in Germania per impedire l’avvento al potere del fascismo. né erano «suoi» i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l’avventura d’Etiopia, l’intervento fascista in Spagna, l’«Anschluss» o il patto di Monaco4. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi»? 45 La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del «dare a Cesare»5 e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a 50 consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura. La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell’impotenza o un 55 astratto furore6. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce7?

3 oggi nel­l’URSS: Vittorini, come altri intellettuali, considerava allora l’Unione Sovietica un modello a cui guardare. Nel giro di pochi anni subirà una disillusione completa. 4 l’avventura... Monaco: Vittorini elenca una serie di eventi che testimoniano la progressiva crescita del fascismo e del nazismo: dalla conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia (1936) al sostegno dato ai franchisti

in Spagna (1936), all’annessione (Anschluss) dell’Austria alla Germania hitleriana (1938) al cosiddetto patto di Monaco tra Germania, Inghilterra, Italia, Francia, che di fatto avvallò l’espansione nazista in Cecoslovacchia. 5 del «dare a Cesare»: l’autore si serve della nota formula evangelica per condannare la colpevole tendenza degli uomini di cultura a delegare a chi governa la gestione dei problemi della società.

66 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

6 un astratto furore: Vittorini riprende significativamente il sintagma (qui al singolare) di Conversazione in Sicilia (➜ C6 T1a ). 7 i Thomas Mann... Croce?: il grande scrittore tedesco e il celebre critico sono qui considerati emblema di un atteggiamento che rifiuta la compromissione, il coinvolgimento con la politica e pone la cultura su un piedestallo.


Concetti chiave Il tema

L’appassionato discorso di Vittorini, animato da una forte tensione morale, è incentrato sulla constatazione della palese sconfitta della cultura occidentale di fronte agli orrori della guerra e all’Olocausto, che la cultura non è stata capace di impedire. Per colpire i lettori, Vittorini prospetta gli orrori recenti come distruzione di tutto ciò che appartiene al concetto di “civiltà” e che mai si sarebbe potuto pensare accadessero: lo sterminio di bambini innocenti, la distruzione di cattedrali e di biblioteche, che avrebbero dovuto essere rispettate come patrimonio dell’umanità. La causa di questa sconfitta della cultura è, per Vittorini, in un vizio di fondo: il distacco di essa dalla società, la sua tradizionale rinuncia a operare nel mondo, a influire sulla storia, la propensione a esercitare un ruolo esclusivamente consolatorio.

Lo stile

La tensione morale sottesa al passo si traduce in scelte stilistiche specifiche: la sintassi prevalentemente paratattica, l’adozione di un tono predicatorio, il ricorso a forme interrogative e a incisive risposte, che sembrano scaturire da un discorso interiore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Dividi il testo nei blocchi argomentativi che lo compongono e assegna a ognuno un titolo che ne interpreti il senso all’interno dell’articolazione complessiva del discorso. ANALISI 2. Indica in uno schema il tema dell’articolo di Vittorini, la tesi e le argomentazioni utilizzate a sostegno di essa.

Interpretare

SCRITTURA 3. Nei punti nodali del testo ricorrono delle domande. Dopo averle individuate, cerca di spiegare perché l’autore è ricorso così frequentemente alla forma interrogativa: quale effetto intendeva produrre sul lettore?

EDUCAZIONE CIVICA

4. Secondo l’autore, la cultura dovrebbe proteggere l’uomo dalla sofferenza, i fatti storici invece hanno dimostrato che non è riuscita a frenare eventi terribili come l’uccisione di numerosi bambini a causa della guerra. Esprimi il tuo parere in merito a questo appassionato discorso di Vittorini sul ruolo della cultura.

ESPOSIZIONE ORALE nucleo

Costituzione

competenza 1

Elio Vittorini

D10b E. Vittorini, Politica e cultura. Lettera a Togliatti, in «Il Politecnico» (35), gennaiomarzo 1947

«...ma che non sia asservita alla politica» Suonare il piffero per la rivoluzione?1 Voglio esprimere interamente la perplessità in cui ci troviamo tanti e tanti intellettuali (parlo anche di intellettuali non iscritti al P.C.) di fronte a qualcosa che oggi inaridisce o comunque impedisce di essere più vivo il rapporto tra politica e cultura 5 entro e intorno al nostro Partito. Non tornerò sulla polemica sorta a proposito della mia rivista. Io non ho mai inteso dire che l’uomo politico non debba «interferire» in questioni di cultura. Io ho inteso dire ch’egli deve guardarsi dall’interferirvi con criterio politico, per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti o mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica. Ma in quanto uomo anche di 10 cultura, anche di ricerca, egli non può non partecipare alle battaglie culturali. Solo 1 Suonare... per la rivoluzione?: la domanda in corsivo funge da titoletto interpretativo del testo che segue. 2 Alicata: Mario Alicata era un membro autorevole della dirigenza del Pci.

Il dibattito culturale e i generi letterari 3 67


che deve farlo sul piano della cultura stessa e con criterio culturale.[...] Così, per Politecnico, s’io accetto le tue critiche, e anche buona parte di quelle di Alicata2, non accetto però il criterio puramente politico con il quale Alicata, ad un certo punto, ha falsificato la propria voce, falsificando le stesse possibilità di discussione, 15 quando, nell’esemplificare un aspetto dei nostri interessi3, ha parlato di Hemingway4 come di uno scrittorello impressionista che si può quasi fare a meno di conoscere. E a questo ch’io mi sono opposto e mi oppongo: questa inclinazione a portare sul campo culturale, travestite da giudizi culturali, delle ostilità politiche e delle consi20 derazioni d’uso politico, col lodevole intento, evidentemente, di rendere più spiccio il compito della politica, ma col risultato di alterare i rapporti tra cultura e politica a danno, in definitiva, di entrambe. Servirsi di una menzogna culturale equivale a servirsi d’un atto di forza, e si traduce in oscurantismo5. Non è partecipare alla battaglia culturale e portare più avanti, con le proprie ragioni, la cultura, e portarsi più 25 avanti nella cultura: trasformare e trasformarsi. È voler raggiungere dentro la cultura un effetto o un altro restando al di fuori dei suoi problemi. È agire sulla cultura; non già agire in essa. Oscurantismo, ho detto. E produce quello che l’oscurantismo produce: insincerità, aridità, mancanza di vita, abbassamento di livello, arcadia6, infine arresto assoluto. [...] 30 Che cosa significa per uno scrittore, essere «rivoluzionario»? Nella mia dimestichezza con taluni compagni politici ho potuto notare ch’essi inclinano a riconoscerci la qualità di «rivoluzionari» nella misura in cui noi «suoniamo il piffero» intorno ai problemi rivoluzionari posti dalla politica: cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla politica e li traduciamo in «bel canto»: con parole, con immagini, con 35 figure. Ma questo, a mio giudizio, è tutt’altro che rivoluzionario, anzi è un modo arcadico d’essere scrittore. [...] Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, 40 e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali dai nostri compagni politici, è perché vedo la tendenza 45 dei nostri compagni politici a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura arcadica di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi7.

3 un aspetto dei nostri interessi: Alicata aveva individuato come uno dei compiti principali degli intellettuali antifascisti quello di avvicinarsi alle masse popolari e di costruire una letteratura nazional-popolare. Secondo lui Vittorini non vi era riuscito a causa di un atteggiamento intellettuale ancora di tipo illuministico e alla tendenza a usare una lingua troppo astratta. 4 Hemingway: il celebre scrittore americano (1898-1961) che, anche grazie a Vittorini,

i lettori italiani cominciavano a conoscere. Alicata considerava Hemingway uno scrittore individualista e giudicava perciò negativamente il fatto che Vittorini lo indicasse come un modello cui ispirarsi. 5 oscurantismo: atteggiamento di chiusura e addirittura di censura nei confronti del progresso culturale. 6 arcadia: propriamente l’Arcadia è una accademia sorta a Roma alla fine del Seicento. Qui il termine è usato metafori-

68 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali

camente da Vittorini con connotazione negativa come sinonimo di una letteratura superficiale, che non scende nel profondo, che non aderisce davvero ai contenuti, ma fa di essi (qualunque essi siano) una pura e semplice occasione compositiva. 7 la letteratura... crisi: la letteratura della crisi è la grande letteratura del primo Novecento, da Kafka a Mann; una letteratura che la critica marxista più ortodossa condannava come borghese.


Concetti chiave La necessaria libertà della cultura dalla politica

Non si deve pensare che in questo celebre passo Vittorini ritratti, come potrebbe apparire a prima vista, le convinte affermazioni presenti nel primo intervento. Diverso è infatti sostenere la necessità del coinvolgimento della cultura nella politica e nella storia e pensarla come soggetta ai diktat della politica e impiegata da essa a fini strumentali, siano pure essi nobilissimi. La cultura interpreta infatti la storia e l’uomo secondo propri parametri e ha il dovere di cogliere gli elementi di verità presenti anche in scrittori di estrazione borghese, che sono stati però capaci di leggere criticamente il proprio tempo. Uno scrittore non è “rivoluzionario” perché sostiene con la sua opera la “rivoluzione”, ma perché interpreta in profondità il proprio tempo. In caso contrario regna l’omologazione e si creano opere che possono ricordare la sterile operazione letteraria dell’Arcadia. Vittorini intuiva le difficoltà che un’arte e la letteratura davvero libera avrebbero incontrato in un regime comunista illiberale, come avvenne appunto in Russia.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza le osservazioni dell'autore. COMPRENSIONE 2. Indica il tema su cui si articola la polemica di Vittorini. ANALISI 3. A che proposito Vittorini parla di oscurantismo? STILE 4. Spiega il significato della metafora «suonare il piffero per la rivoluzione».

Interpretare

SCRITTURA 5. Al centro dell’ultimo capoverso stanno due differenti idee del ruolo rivoluzionario dello scrittore. Quali caratteristiche Vittorini attribuisce allo scrittore rivoluzionario?

3 I generi letterari Perché serve una classificazione dei generi letterari I lettori hanno bisogno dei generi letterari per orientarsi davanti a un testo, per individuarlo e capire a quale genere appartenga, e dunque per sapere che cosa aspettarsi, in che modo leggerlo, che cosa legittimamente chiedergli. Ma anche gli autori ne hanno bisogno per plasmare il proprio stile e codice espressivo – benché la singolarità di un’opera sempre fuoriesca dalle convenzioni di genere – e per responsabilizzarsi davanti a un pubblico. Da dove viene storicamente la classificazione dei generi e come si è evoluta nella storia dell’Occidente? Prima di rispondere occorre ricordare come nel corso del Novecento, da Benedetto Croce a un critico letterario influente come Maurice Blanchot, è stata negata qualsiasi utilità e validità conoscitiva dei generi, in nome della unicità e irripetibilità della singola opera d’arte. Eppure i generi continuano a esserci utilissimi anche se in un senso più descrittivo e conoscitivo che precettistico e normativo, come vedremo tra poco. La teoria dei generi: Platone Quello di genere è un concetto che proviene dalle scienze naturali, dalla biologia, dove indica le specie in quanto hanno caratteristiche comuni. In letteratura i criteri di raggruppamento dei testi sono sia formali o stilistici che contenutistici, ma anche definiti in base alla ricezione. Platone, che condanna l’arte in quanto moralmente diseducativa, suggerisce anzitutto un raggruppamento Il dibattito culturale e i generi letterari 3 69


binario, prettamente contenutistico: genere serio (epopea e tragedia) e genere faceto (commedia e poesia giambica). Ma nella Repubblica (V secolo a.C.) attraverso il personaggio di Socrate propone una fondamentale tripartizione: narrazione semplice o pura, narrazione mimetica e narrazione mista. Dunque: genere narrativo (ditirambo, poesia lirica), genere mimetico (tragedia e commedia), genere misto (epopea). Il poeta rappresenta la vita dal suo punto di vista, senza creare personaggi; nella tragedia e nella commedia i personaggi (gli attori) imitano la realtà direttamente: in scena vediamo infatti svolgersi la vita com’è, attraverso i dialoghi; infine nell’epopea abbiamo sia il dialogo che il racconto in prima persona: e proprio dall’epopea deriva alla lontana un genere a sua volta misto come il romanzo moderno. La teoria dei generi: Aristotele Nella Poetica di Aristotele, un testo frammentario e di estrema complessità, l’arte viene egualmente assunta come imitazione; ma stavolta l’imitazione non è oggetto di disapprovazione in quanto suscitatrice di passioni ingovernabili: anzi, essa costituisce l’attività specificamente umana, generatrice di diletto e di conoscenza, poiché rappresenta gli eventi possibili e li universalizza. La letteratura è come un doppio della realtà, una “simulazione” – termine forse più appropriato di “imitazione” per tradurre mimesis – che ci permette di scrutarla e capirla di più. Sarebbe impossibile riassumere la Poetica, che consiste in appunti destinati all’insegnamento, e che tocca aspetti diversi: estetica, linguistica, retorica, teoria e critica letteraria… Per limitarci al nostro discorso sui generi si potrebbe ricordare che in essa le forme di arte si distinguono per il con, il cosa e il come. Ossia: per i mezzi o materiali usati (la danza, la musica, la pittura e naturalmente, per la letteratura, la parola), per l’oggetto (rappresenta persone migliori o peggiori o uguali a noi) e per i modi (il poeta lirico narrando in prima persona, un narratore come Omero spersonalizzandosi, diventando qualcun altro nei suoi personaggi). La teoria dei generi: fino all’età moderna Per continuare il nostro veloce excursus, la suddivisione platonico-aristotelica continua ad agire nella cultura romana, ma sviluppando in particolare l’aspetto della retorica, dell’arte del dire, con Cicerone, Orazio e Quintiliano. Nel Medioevo la teoria dei generi sembra languire, ma sant’Agostino mette l’accento sul sermo humilis, sulla parola capace di arrivare a tutti. La teoria aristotelica viene ripresa nel Rinascimento, quando si pubblica per la prima volta la Poetica di Aristotele, nel 1508 – con un successo perfino superiore a quello che ebbe nell’antichità – generando così una precettistica minuziosa, intricata, eccessivamente normativa e un rigido regolismo, a cui si contrappose ad esempio Giordano Bruno. Questa dialettica tra fedeltà a regole inviolabili e libertà insindacabile dell’artista è precisamente il nodo della teoria dei generi da Aristotele a oggi. La teoria dei generi: Ottocento e Novecento Nell’Ottocento romantico il pendolo oscilla più dalla parte della libertà e del genio: c’è un po’ di diffidenza verso i generi in quanto gabbie classificatorie che potrebbero limitare la individualità dell’artista. Nel 1894 esce La critica letteraria di Croce che, in controtendenza rispetto al gusto positivista, difende l’autonomia del fatto artistico da qualsiasi osservanza di convenzioni e di modelli tradizionali. A Croce, il maggiore e più autorevole filosofo italiano del Novecento, provano a replicare Pareyson, Banfi e Anceschi negli anni Trenta del Novecento. La teoria dei generi: la contemporaneità L’impressione, anche uscendo dai nostri confini, è che ovunque vi sia una ripresa critica dei generi letterari, però svin-

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Lessico strutturalismo Teoria nata e affermatasi in varie discipline durante il Novecento. In letteratura, esso afferma che ogni testo è formato da un insieme organico di elementi, la cui funzione è determinata dai rapporti reciproci tra di essi: se studiati, questi ultimi permettono, quindi, una migliore comprensione critica dell’opera stessa.

colati da qualsiasi pretesa di normatività e senza certezze dogmatiche. Tzevan Todorov, un grande critico che ha attraversato come protagonista la stagione dello strutturalismo , sebbene con vari ripensamenti, suggerisce in proposito delle griglie aperte, continuamente modificabili e adattabili, fondate più sulla probabilità che sulla necessità; ma al tempo stesso ribadisce l’utilità della categoria di genere dal punto di vista di una idea di letteratura come fatto relazionale, dialogico e sempre inserito entro l’insieme delle opere, passate e presenti. Così il genere si definisce propriamente come “contratto sociale” tra parlante (o scrivente) e destinatario (o lettore): per il primo è un modello, una tradizione con cui confrontarsi, per il secondo il genere crea un orizzonte di attesa. Ad esempio: se so di star leggendo un reportage pretendo dall’autore che non ci sia nulla di inventato; tutt’al più la realtà può essere enfatizzata in qualche suo aspetto per mostrarne la verità nascosta. Ma l’autore non può tradire il “patto” di verità cui il genere lo vincola. E sappiamo quanto Manzoni si sia interrogato su questi temi: in Dell’invenzione (1850), egli raccomanda di stare in guardia dai capricci dell’invenzione perfino nella scrittura di un romanzo, prima di chiudersi in un silenzio creativo. Proviamo ora a dare uno sguardo più da vicino al Novecento letterario, a partire dal primo dopoguerra, individuando due periodi distinti. Tra le due guerre Il periodo tra le due guerre costituisce l’interessante preistoria letteraria e insieme il vitalissimo laboratorio di correnti, filoni, tendenze, movimenti e generi che si affermano pienamente nel dopoguerra, primo fra tutti il Neorealismo. Un panorama complessivo politicamente bloccato – il ventennio della dittatura fascista – e insieme letterariamente fertile, variegato. Limitiamoci alla prosa. Dal ritorno classicistico all’“ordine” della educatissima prosa d’arte della rivista «La Ronda» (che privilegia il frammento e la bella pagina sulla narrazione distesa) al revival del romanzo puro con Borgese; dalla elegante e cosmopolita rivista «Solaria» all’esordio di Moravia con Gli indifferenti – prefigurazione dell’Esistenzialismo; dal Surrealismo scanzonato dei Savinio, Landolfi, Delfini alla “impegnata” narrativa meridionale e regionalistica di Silone, Alvaro e Jovine; dal fantastico di Buzzati al realismo sociale di Bernari e alle fluviali narrazioni attardate su modi e stilemi ottocenteschi come Il mulino del Po di Bacchelli. Entrano sempre più a far parte della rappresentazione letteraria le classi subalterne, gli eredi degli umili di Manzoni e dei vinti di Verga; ma in quegli stessi anni si afferma anche una narrativa di largo consumo, scandalistica e postdannunziana, non del tutto estranea a umori e curiosità del nascente cinema. Dunque autori di best seller popolari, pur in un paese con forte tasso di analfabetismo: dai lacrimosi feuilleton sentimentali di Liala ai romanzi parodistici e imbevuti di morboso esotismo di Guido da Verona.

Riccardo Bacchelli.

Il dibattito culturale e i generi letterari 3 71


4 L’evoluzione della lingua L’italianizzazione delle parole straniere e l’eliminazione del dialetto Sul piano linguistico il fascismo conduce una netta battaglia, in nome dello spirito nazionale, contro l’uso del dialetto ma anche contro l’uso di parole straniere: vengono imposti termini italiani corrispondenti a termini stranieri entrati allora nell’uso, come “autista” al posto di chauffeur o “calcio” al posto di football. Il dialetto è destinato all’emarginazione anche per la diffusione, tra le masse popolari, del cinema e della radio, che rappresentano dei potenti mezzi di unificazione linguistica. Ciò contribuisce sicuramente all’omologazione linguistica del paese, e la ferrea coesione nazionale è indispensabile per la politica imperiale. I dialetti sono visti come espressione di particolarismi locali e quindi un impedimento alla formazione dello spirito nazionale. Vengono italianizzati anche i nomi dei luoghi. La battaglia del regime è volta anche verso le minoranze linguistiche. L’Accademia d’Italia ha l’incarico di compilare l’elenco delle parole straniere da italianizzare: alcune proposte vengono accolte, la maggior parte dimenticate. Introduzione di nuovi termini Il regime fa in modo di introdurre nuove espressioni e nuovi termini tratti dal latino, dalla romanità o dalla retorica dannunziana, come ad esempio “quadrumviri”, “centurioni”. Da parte del regime c’è un uso molto eloquente del linguaggio sia nei discorsi del Duce che negli articoli di giornale e nelle trasmissioni alla radio mediante slogan e formule fisse. Nuovi strumenti di unificazione linguistica In questo periodo si diffondono nuovi mezzi di propaganda che hanno la finalità di esaltare il regime, ma che come conseguenza uniformano pensiero e lingua: la radio e il cinema, infatti, possono raggiungere tutti gli strati della popolazione.

Fissare i concetti Dall’ascesa del fascismo al secondo dopoguerra 1. In che modo il fascismo riesce a ottenere un imponente consenso? 2. Quale immagine della donna si diffonde durante il ventennio fascista? 3. Quale politica culturale mette in atto il fascismo? 4. Quale fu il comportamento degli intellettuali in epoca fascista? 5. Che cosa si proponeva il Neopositivismo? 6. Che cosa Popper pone al centro della sua riflessione? 7. Che cosa è accaduto negli ultimi decenni in merito al rapporto tra sapere scientifico e scienze umane? 8. Quali caratteristiche presenta l’Esistenzialismo? 9. Che cosa hanno in comune le riviste «La Ronda» e «Solaria»? 10. Qual è il significato del titolo della rivista «Il Politecnico»? 11. Come mai Vittorini si scontra con il Pci? 12. Quali generi letterari si affermano tra le due guerre? 13. Quali fenomeni caratterizzano l’evoluzione della lingua? 14. Come cambia l’editoria durante il fascismo?

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Anche durante il fascismo, Milano si conferma capitale dell’editoria italiana. Il governo assicura incentivi e protezione alle case editrici che si allineano al regime, alle quali concede una certa autonomia nelle scelte editoriali; ciò almeno fino alla metà degli anni Trenta, quando il controllo della produzione libraria viene attribuito al Ministero della Cultura Popolare, il MinCulPop.

La casa editrice Mondadori Già negli anni Trenta, anche grazie all’adesione al fascismo del fondatore, Arnoldo Mondadori (1889-1971), si afferma la casa editrice omonima, destinata a diventare a metà degli anni Cinquanta un vero e proprio impero. L’appoggio del governo consente a Mondadori di assicurarsi il monopolio nella pubblicazione del libro unico per le scuole elementari. Nel frattempo l’imprenditore riesce a strappare a vecchi editori, come Treves e Bemporad, le maggiori “firme”; già tra il 1921 e il 1927 hanno un contratto con Mondadori, tra gli altri, Ada Negri, allora celebre poetessa, Borgese, Tozzi e Marinetti, a cui seguiranno Bontempelli, Ojetti (scrittori allora assai noti) e soprattutto Pirandello. Importante operazione editoriale della casa, destinata a sancirne il ruolo centrale nell’editoria, è la pubblicazione dell’Opera omnia di D’Annunzio, consacrato a vate della nazione. Lo spirito imprenditoriale di Arnoldo Mondadori lo induce a esplorare ogni strada possibile per conquistare il pubblico, non solo medio-borghese, ma anche popolare. Da qui la scelta di incentivare generi destinati a un largo pubblico, come il “giallo” (dal colore della copertina della prima collana di genere) e i fumetti di «Topolino». Mondadori si apre anche ai best seller stranieri adatti a un paese moderno e a un pubblico di massa. La storia della casa editrice Mondadori continua fino a oggi, accentuando nel tempo il ruolo di protagonista della scena editoriale, grazie all’impiego costante di oculate strategie commerciali.

Libri, lettori, lettura

Dal fascismo agli anni Cinquanta

Libri, lettori, lettura 73


La casa editrice Einaudi Nel 1933, in un clima politico assai difficile per l’editoria, sempre più soggetta al controllo ideologico del regime, Giulio Einaudi (1912-1999), figlio dell’economista Luigi Einaudi (che sarà il primo presidente della Repubblica italiana), fonda a Torino la casa editrice che porta il suo nome. Gli autori che vi operano sono tutti antifascisti, che per lo più pagano cara (dal confino al carcere) la propria posizione: dal fondatore Giulio Einaudi a Pavese, Vittorini, Leone Ginzburg, Carlo Levi, Massimo Mila. Dopo la Liberazione, nel clima di ricostruzione che caratterizza il paese, si avverte un forte bisogno non solo di arricchimento, ma anche di orientamento culturale; nella casa editrice si risponde pubblicando i punti d’inizio di una nuova cultura: non a caso sono pubblicati da Einaudi la rivista «Il Politecnico» e i Quaderni di Gramsci. Tipico della casa editrice Einaudi, fin dagli inizi della sua storia, è l’obiettivo di diffondere la cultura più avanzata sia italiana sia straniera (classici e moderni dell’economia, della politica, della filosofia ecc.); nella narrativa, spiccata è l’apertura agli scrittori stranieri, ma anche la ricerca costante di autori nuovi di qualità, a prescindere dalle leggi di mercato: già nella collana “I gettoni”, diretta da Vittorini, poi supportato da Calvino, tra il 1951 e il 1958 Einaudi lancia autori importanti e di grande valore come Sciascia e Fenoglio. In seguito a gravi difficoltà economiche manifestatesi all’inizio degli anni Ottanta, dopo un periodo di amministrazione controllata, Einaudi entra a far parte del gruppo Mondadori.

L’acculturazione del ceto medio: la BUR e la diffusione delle enciclopedie “di casa” Nel 1949 Rizzoli lancia la BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli, collana di classici diventata presto assai popolare (si arriverà al numero, sorprendente a quei tempi, di 2000 copie per titolo). L’idea è quella di far conoscere a un vasto pubblico i grandi classici della letteratura italiana e straniera, attraverso una formula editoriale agile e non dispendiosa né per l’editore né per il lettore: il libro BUR è un libro tascabile, con una copertina grigia, dall’aspetto quasi dimesso. Si punta, infatti esclusivamente sul contenuto: il libro BUR è l’opposto del libro in cui ad attrarre è la copertina, la veste editoriale (come avverrà qualche anno dopo per gli “Oscar” mondadoriani). In seguito al suo enorme e meritato successo, la BUR nel 1952 è dichiarata dall’Unesco “iniziativa di importanza mondiale”. Negli anni Cinquanta si affermano anche le enciclopedie (edite da Fabbri, Motta, Curcio), strumento importante di cultura per le famiglie, che presto saranno anche in edicola in dispense per essere poi, una volta rilegate, messe in bella mostra nel salotto di casa. Più che venir lette, esse rappresentano simboli di prestigio. online D11 Ernesto Ferrero

Un editore che sognava di cambiare il mondo con i buoni libri I migliori anni della nostra vita

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La modernità in un’opera futurista

Nei primi due decenni del Novecento gli artisti si riuniscono in gruppi, pubblicano e firmano manifesti programmatici, espongono in spazi non ufficiali, rivendicando la necessità di nuovi linguaggi: nascono le Avanguardie Storiche, promotrici di un’arte come ricerca e applicazione di un approccio teorico e non riproposizione di un canone dato, rifiutando il limite dell’imitazione del reale e della sua idealizzazione estetica. Mentre nel mondo francese e tedesco i gruppi d’avanguardia Fauves, Die Brücke e Der Blaue Reiter si concentrano su pratiche espressioniste e a Parigi Picasso e Braque danno vita alla scomposizione cubista, in Italia si forma intorno alla figura del letterato Filippo Tommaso Marinetti quella compagine che darà origine all’Avanguardia Futurista, il cui atto di nascita è riconosciuto nella pubblicazione a Parigi del Manifesto sul quotidiano «Le Figaro» del 20 febbraio 1909.

Arte nel tempo

Le Avanguardie Storiche

1 Stati d’animo. Addii di Umberto Boccioni L’esaltazione dell’energia del mondo moderno e il disprezzo per il passatismo caratteristici delle idee futuriste trovano nella pittura di Umberto Boccioni (1882-1916) una delle più importanti vie di espressione. Il pittore, di origine calabra ma fulcro del Futurismo milanese, inizierà intorno al 1910 a cercare una via per una pittura autenticamente futurista, abbandonando progressivamente lo stile divisionista entro cui si era formato. È del 1911 l’opera Stati d’animo. Addii, in cui si ritrova un compiuto esito di questa ricerca. Il dipinto è costruito attraverso la scomposizione di alcuni elementi concreti come la locomotiva, il fumo e i tra-

licci che, pur evocando in modo diretto la stazione, la inseriscono in un contesto spaziale in cui la resa geometrica dei volumi e le linee “di forza” antinaturalistiche danno una sensazione di energia e di movimento e una rappresentazione quasi astratta di corpi e volti, che si fondono con gli altri elementi dello spazio. L’uso di colori forti e contrastanti accentua la violenza della rappresentazione e la sua forza espressiva. Come dice il titolo, il tema del dipinto non è solo la modernità, incarnata dalla stazione, ma gli stati d’animo a essa legati, quindi le persone e i loro corpi. Il soggetto umano è pensato e rappresentato

dentro il contesto della modernità tecnologica che lo attraversa, lo condiziona, e lo modifica. L’attenzione sinestetica all’emozione sembra di derivazione simbolista, così come la fusione tra figura e sfondo, che però qui è finalizzata a rendere in modo visivo la continuità e la compenetrazione tra il soggetto e lo spazio che esso abita. Questa intersezione viva ed energica tra gli elementi non solo traduce in pittura i principi futuristi della concezione dinamica dello spazio, ma è anche un esempio di come Boccioni abbia rielaborato la lezione cubista della scomposizione della figura e della simultaneità dei piani prospettici dopo il suo viaggio a Parigi del 1911. Il principio cubista viene però contaminato dall’interesse per la resa del movimento, dalla necessità quindi di indagare non solo la dimensione dello spazio ma anche quella del tempo.

U. Boccioni, Stati d’animo. Addii, olio su tela, 1911 (Museum of Modern Art, New York).

Arte nel tempo 75


Arte nel tempo

La carica sovversiva di DADA

Allo scoppio della Prima guerra mondiale molti artisti europei confluiscono in Svizzera cercando rifugio nei suoi confini neutrali. Proprio l’internazionalismo e il pacifismo sono le idee che guidano il gruppo di artisti che si ritrovano nel 1916 al Caffé Voltaire di Zurigo e che danno origine al movimento DADA. Il Dadaismo rifiuta radicalmente i linguaggi tradizionali della pittura e della scultura, aprendo all’arte la possibilità di non essere ancorata a un’opera-oggetto, ma di esistere in forme effimere e “povere” (lettura collettiva, uno spettacolo non sense, un collage, un concetto). Oltre al gruppo di Zurigo, l’avanguardia dadaista include al suo interno diversi artisti le cui pratiche incarnano quell’assoluta e provocatoria libertà affermata con forza dal DADA, come Marcel Duchamp e Man Ray a Parigi, e il gruppo berlinese che si forma intorno alla figura di Raoul Haussmann.

Taglio con il coltello da cucina… 2 di Hanna Höch Parte del gruppo dadaista berlinese, Hannah Höch (1899-1978) è una delle più importanti artiste del Novecento. Höch trova il suo linguaggio prediletto di espressione nel collage, una tecnica che presuppone l’accostamento libero e dissacrante di immagini e parole ritagliate da giornali e riviste per innescare nuovi significati. I presupposti per la nascita del collage sono la sperimentazione cubista di Picasso e Braque, che per primi inseriscono nelle loro opere frammenti di giornale e il ready-made di Duchamp, per cui un oggetto di uso comune è trasformato dal gesto artistico in opera d’arte, attraverso un processo di appropriazione concettuale. Anche nel collage l’artista invece di dipingere preleva immagini già esistenti, le decontestualizza e le inserisce in un nuovo contesto, imponendo alle immagini uno spostamento di senso attraverso l’accostamento e la manipolazione. Nel 1920 Höch realizza una delle sue opere più importanti: il collage Taglio con il coltello da cucina DADA attraverso l’ultima epoca culturale del ventre da birra tedesco, caratterizzato dal forte messaggio politico ed esposto a Berlino nel 1920 durante l’esposizione internazionale DADA. Si tratta di un insieme caotico e irriverente denso di riferimenti critici al mondo politico della Germania del tempo, di fronte alla quale Höch prende una posizione antagonista. Nel collage compaiono personaggi del mondo dadaista in opposizione a personaggi che ne sono estranei. L’opposizione al militarismo e la dissacrazione del potere sono espresse dai volti dell’imperatore Guglielmo II e di Paul Von Hindenburg sovrapposto al corpo di una ballerina del ventre. La vicinanza agli ideali rivoluzionari e socialisti è testimoniata dall’inserimento di alcuni artisti dadaisti circondati dalle teste di Karl Marx e di Lenin. La fotografia del leader comunista assassinato Karl Liebnecht è inserita in modo che la sua figura arringhi la folla a unirsi a DADA. Nel collage l’artista affronta anche la questione di

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H. Höch, Taglio con il coltello da cucina DADA attraverso l’ultima epoca culturale del ventre da birra tedesco, collage, 1919 (Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie, Berlino).

genere: compaiono la pittrice Käthe Kollwitz, prima professoressa donna presso l’Accademia delle arti prussiane, le ballerine Niddy Impekoven e Pola Negri, l’attrice danese Asta Nielsen, la poetessa Elsa LaskerSchuler. Nell’angolo in basso a destra, accanto a un ritratto dell’artista, una cartina dell’Europa mostra gli stati in cui le donne avevano il diritto di voto.


Il ritorno alla figurazione

Una strada anche per le prese di posizione contro le dittature europee

Se i primi due decenni del Novecento hanno visto le Avanguardie Storiche affermare come valore assoluto la libertà dell’artista e non più il rispetto dei canoni tradizionali e il principio di mimesi, nel corso degli anni Venti e Trenta la nascita del razionalismo in architettura e il ritorno alla figurazione delle arti visive rappresentano un tentativo trasversale di ribadire la necessità per le arti di avere una funzione sociale. In molti casi questo ritorno alla tradizione ha permesso di strutturare nuovi linguaggi rielaborando la lezione delle Avanguardie Storiche senza perderne la carica rivoluzionaria. Ma gli anni Venti e Trenta sono anche quelli dell’affermazione dei regimi totalitari, dove il divieto dell’astrazione diviene lo strumento delle dittature per creare un’arte di propaganda limitata dalla censura e al servizio delle ideologie delle dittature.

3 Guernica di Pablo Picasso Guernica, la monumentale opera di Pablo Picasso (1881-1973) terminata nel 1937 è espressione di un contesto artistico, che non è più quello delle Avanguardie Storiche: Picasso, che ha già attraversato il ritorno alla figurazione negli anni Venti e le sperimentazioni surrealiste, reinterpreta la scomposizione cubista (da lui teorizzata insieme a Georges Braque alla fine del primo decennio del Novecento) in un’opera che mantiene degli elementi figurativi di grande forza espressiva. L’immensa tela, quasi otto metri di larghezza, è commissionata dal governo repubblicano spagnolo per il padiglione dell’esposizione universale di Parigi del 1937. L’artista, prendendo posizione politica sulla guerra civile spagnola, decide di raffigurare il bombardamento della cittadina basca di Guernica a opera dell’aviazione nazista e di quella italiana fascista che sostenevano il generale Francisco Franco contro il governo legittimo di Spagna (il bombardamento di Guernica fu una delle prime e più violente azioni militari condotte a danno dei civili della storia del Novecento).

L’opera ha un andamento orizzontale da destra a sinistra in cui compaiono persone urlanti e straziate dal dolore, corpi scomposti e quasi spezzati. La composizione è dominata dalla figura centrale di un cavallo, che ricorda quello del Trionfo della Morte (anonimo, Palermo) e da quella di un toro. All’estrema sinistra una madre, che evoca la Pietà di Michelangelo, stringe con il viso riversato dal dolore il figlio morto. La scomposizione dello spazio e la deformazione dei corpi riflettono la tragedia del bombardamento, e sono un tentativo di rappresentare uno spazio distrutto e di dare forma al dolore e alla paura. La scelta del bianco e nero sembra riprendere l’uso dei colori monocromi della prima sperimentazione cubista, ma è anche coerente con la gravità del soggetto e la tragedia storica che esso incarna. Qualcuno ha voluto leggere in questa assenza di colori un’allusione al bianco e nero della fotografia di documentazione che in quegli anni andava definendosi come linguaggio artistico.

Pablo Picasso, Guernica, olio su tela, 1937 (Museo Reina Sofia, Madrid).

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Arte nel tempo

4 Conversations di Dora Maar Picasso lavorò a Guernica in due intensi mesi di lavoro, documentati dall’artista surrealista Dora Maar, le cui fotografie mostrano le fasi della realizzazione del dipinto. Nella sequenza fotografica di Dora Maar è visibile come la lampada al centro del dipinto, dettaglio che sposta la rappresentazione all’interno di una casa, fosse in origine un sole. La lampada riprende un dettaglio di un’opera della stessa Maar datata 1937 e intitolata Conversations, in cui due figure femminili, una di spalle e una frontale,

siedono a un tavolo al di sopra del quale una lampada simile a quella di Guernica dà alla rappresentazione una sfumatura inquietante. La stessa Maar in un’intervista aveva dichiarato che la lampada che appare in Guernica era stata realizzata da Picasso su suggestione del suo dipinto. È fondamentale riconoscere e interrogarsi su quali opere ispirino un artista mentre realizza una delle più imponenti e forti rappresentazioni di valore politico e storico del Novecento.

Dora Maar, Conversations, olio su tela, 1937 (Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte, Madrid).

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5 Crocifissione di Renato Guttuso Si dice che Renato Guttuso (1911-1987), dopo aver conosciuto la pittura di Picasso, portasse sempre con sé una cartolina con la riproduzione di Guernica. Esponente di un espressionismo reale e critico quasi inedito nella pittura italiana degli anni Trenta, Guttuso, di nascita siciliano e romano di formazione, cercò degli spazi di autonomia dal realismo magico praticato dai pittori aderenti al fascismo. È del 1941 la sua Crocifissione che, esposta al premio Bergamo del 1942, colpì il pubblico per la carica espressiva, definita “eretica” dalla Chiesa. Guttuso rovescia la tradizionale impostazione iconografica, collocando Cristo decentrato e nascosto da uno dei ladroni, caratterizzato da un incarnato rosso vivo. I personaggi, in completa nudità, sono caratterizzati da linee spigolose e anatomie antinaturalistiche. Maddalena si aggrappa alla veste bianca di un Cristo ancora in croce. La natura morta in primo piano

e il paesaggio quasi astratto dichiarano l’influenza del cubismo, così come il cavallo che mostra l’influsso di quello di Guernica di Picasso. In questa drammatica rappresentazione priva di qualsiasi armonia, il martirio di Cristo diventa una tragica allegoria delle violenze della Seconda guerra mondiale e di un’Europa lacerata dal conflitto e dal dolore. La stessa forza politica emerge in un’altra serie di bozzetti risalente agli anni 1944-1945 dove Renato Guttuso rappresenta la Resistenza contro l’oppressione nazifascista. In Colpo di grazia si vedono i corpi delineati dal tratto incerto ed espressionista dei civili riversi nel loro stesso sangue, piegati sotto le imponenti figure in uniforme dei soldati che incombono su di loro. La tecnica della serie di bozzetti Dio è con noi conferisce a queste prove pittoriche la forza dell’immediatezza e accentua la rabbia del tratto.

Renato Guttuso, Crocifissione, olio su tela, 1941 (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma).

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Il Novecento (Prima parte) Scenari socio-culturali Dall’ascesa del fascismo al secondo dopoguerra

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

L’affermazione dell’uomo-massa Il fascismo ottiene un imponente consenso grazie al condizionamento programmato delle masse, ottenuto mediante strumenti ed eventi in grado di modificare l’immaginario collettivo. Presupposto di tutto ciò è la “società di massa”, ossia l’uniformità di comportamento degli individui in seguito all’industrializzazione, alla scolarizzazione e allo sviluppo dell’economia di mercato. Le strategie del consenso. Il condizionamento dei modelli di comportamento Per esaltare la propria figura di potente uomo d’ordine e il regime fascista, Mussolini si serve in modo estensivo dei nuovi media come la radio e il cinema, senza dimenticare quelli tradizionali: le adunate e discorsi retoricamente impostati. Onnipresenti sono gli slogan, utili a creare un’identità abbassando le difese della razionalità. Il successo del fascismo deriva, però, anche dalla capacità di unire due anime: una dinamica e futurista, l’altra agraria, tradizionalista e antifemminista; una moderna, l’altra legata al culto della romanità; una borghese e l’altra popolare. La politica culturale del fascismo Il fascismo si considera il naturale completamento del Risorgimento: ne discendono il mito della patria e l’esaltazione della civiltà romana, che ispirano significative scelte urbanistiche nelle maggiori città italiane. Per conquistare le masse e limitare l’esercizio critico del pensiero, poi, il regime elabora una politica culturale ideologica e cerca di coinvolgere intellettuali e scrittori. Il filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), in particolare, vara nel 1923 una riforma della scuola orientata in senso umanistico e classista, idea il progetto dell’Enciclopedia italiana e stende il Manifesto degli intellettuali fascisti. La cultura estera è guardata con sospetto; rimane possibile fruirne in misura limitata: si pensi alla travagliata pubblicazione dell’antologia Americana. Gli intellettuali e il fascismo: consenso, “assenza”, opposizione La maggior parte degli intellettuali, soprattutto gli insegnanti, appoggia il regime; vi aderiscono anche grandi scrittori come Ungaretti e Pirandello. Alcuni giovani intellettuali teorizzano, tra il 1930 e il 1936, quello che viene definito “fascismo di sinistra”, cioè un’idealizzazione del regime quale forza rivoluzionaria e antiborghese, capace anche di estendere la diffusione della cultura presso le masse. Nel 1925, però, viene soppressa la libertà di stampa e chiusi i giornali di opposizione, oltre che implementata la censura. Molte personalità di spicco del mondo della cultura lasciano il paese; gli oppositori che rimangono sono condannati al confino, al carcere o alle violenze delle squadracce.

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Duecento e Trecento Alcuni intellettuali si limitano invece a una posizione di aristocratico distacco dalla La letteratura cortese situazione contingente, nella convinzione che la cultura possa, e debba, essere autonoma enella superiore alla politica. È proprio Francia feudalequesta la posizione di scrittori e critici italiani vicini alla rivista «La Ronda» e all’area degli ermetici, così come del grande filosofo e critico Benedetto Croce (1866-1952), autore del Manifesto degli intellettuali antifascisti: un atteggiamento che verrà criticato aspramente nel dopoguerra.

Zona Competenze Dopo la guerra: il richiamo all’impegno degli intellettuali Guerra e Resistenza

spingono gli intellettuali a schierarsi dal lato progressista e, nel dopoguerra, ad affrontare il tema dell’impegno civile, sia nel cinema che in letteratura, su influenza del pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937): il pensatore comunista aveva riflettuto sulla necessità di un avvicinamento tra intellettuali e proletariato in grado di veicolare una cultura nazionalpopolare vicina agli interessi di questa classe.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Il dibattito sul sapere scientifico Negli anni tra le due guerre, scienza e tecnologia progrediscono velocemente, stimolando una riflessione su tale tipo di attività. Essa culmina, alla fine degli anni Venti, nell’affermazione del Neopositivismo, corrente filosofica empirista e antimetafisica, secondo la quale l’unica conoscenza effettiva è quella relativa al mondo sensibile, basata sul metodo sperimentale, sulla verificabilità dei risultati ed espressa sotto forma di serie di proposizioni logiche. Già qualche decennio dopo, tale fiducia viene meno. Sorgono così nuove teorie che sostengono il carattere ipotetico e provvisorio delle teorie scientifiche. Esponente principale di questa linea di pensiero è Karl Popper (1902-1994) che elabora il concetto di falsificabilità come carattere proprio di una teoria scientifica: la quale, quindi, è sempre transitoria, mai in grado di raggiungere un valore assoluto. Le scienze umane, a lungo considerate qualitativamente inferiori, negli ultimi decenni si sono avvicinate a quelle della natura, soprattutto in nome della nozione di “complessità”: anche nella scienza è impossibile eliminare la componente della soggettività e il condizionamento delle ideologie sociali e politiche del tempo in cui si opera. L’Esistenzialismo Negli anni Trenta si sviluppa un indirizzo filosofico opposto al Neopositivismo: l’Esistenzialismo, che si fa interprete dello smarrimento e della solitudine dell’uomo nella società. Questa corrente è radicalmente pessimista: la condizione umana è dominata dall’assurdo e dall’angoscia, che gli esistenzialisti accettano senza condividere le banalità della vita quotidiana messe in atto dalla massa per cercare di nasconderli. Il maggiore esponente è Jean-Paul Sartre (1905-1980), che definisce “nausea” le sensazione conseguente alla perdita di senso individuale e intitola così il suo più celebre romanzo; dopo la seconda guerra mondiale Sartre attenua le componenti radicalmente pessimistiche del proprio pensiero, sostenendo la necessità dell’impegno sociale per fondare una nuova morale laica. Al medesimo indirizzo si può ascrivere anche Albert Camus (1913-1960), premio Nobel, autore de Lo straniero, nel cui messaggio, come nella Nausea di Sartre, si riconosce un’intera generazione; segue il romanzo La peste, in cui emerge chiaro il tema dell’importanza della solidarietà tra individui, che consente di sfuggire, se non al male e al destino, almeno all’angoscia esistenziale.

3 Il dibattito culturale e i generi letterari

L’autonomia della letteratura dalla storia: dalla «Ronda» a «Solaria» Negli anni tra le due guerre le riviste continuano ad avere un ruolo importante nell’orientare la produzione letteraria. Le principali sono «La Ronda» (1919-1923) e «Solaria» (1926-1936),

Sintesi

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accomunate dal rifiuto dello sperimentalismo e del coinvolgimento degli scrittori negli avvenimenti storico-politici. In particolare, i contributori di «La Ronda», ispirati da Leopardi, sostengono la necessità di ritornare a ricercare la perfezione dello stile, libero da ogni simbolismo e in continuità con la tradizione classica. Su «Solaria», la professione di autonomia della cultura è vista positivamente dal regime; tuttavia, la rivista pone in primo piano la componente “testimoniale” ed “etica” della letteratura, confidando nella sua capacità di fare argine all’inciviltà. Infatti è «Solaria» a rilanciare il romanzo e a diffondere la conoscenza dei grandi romanzieri europei, in controtendenza rispetto all’autarchia culturale del fascismo. La battaglia per una nuova cultura e «Il Politecnico» Nel 1945, Elio Vittorini crea «Il Politecnico», sottolineando la sconfitta della cultura di fronte alla guerra e proponendo la necessità di una nuova cultura, capace di incidere sul mondo reale. Sulla scia di Carlo Cattaneo e ispirato da un’ottica antidogmatica e illuministica, Vittorini considera “cultura” anche la scienza e la tecnica e sceglie di trattare fin dal primo numero temi e problemi diversi, radicati nella società; in ambito letterario, la rivista dedica grande attenzione agli scrittori stranieri e alle discipline di cui il fascismo aveva ostacolato la diffusione. Questo atteggiamento causa contrasti con la dirigenza del Partito comunista italiano, orientato invece verso l’imposizione del “realismo socialista” agli scrittori, la cui arte si ritiene debba essere subordinata alla disciplina partitica. I generi letterari In generale, i lettori hanno bisogno dei generi letterari per orientarsi davanti a un testo, gli autori per plasmare il proprio stile. Quello di genere è un concetto che proviene dalle scienze naturali; in letteratura, i criteri di raggruppamento dei testi sono sia formali o stilistici che contenutistici, ma anche definiti in base alla ricezione; di essi, la critica si è interessata sin dall’antichità. Platone suggerisce un raggruppamento binario, contenutistico: genere serio e faceto. Poi propone una fondamentale tripartizione: genere narrativo, mimetico e misto. Nella Poetica di Aristotele, le forme di arte si distinguono per il con, il cosa e il come: per i mezzi o materiali usati, per l’oggetto e per i modi. La suddivisione platonicoaristotelica continua ad agire nella cultura romana, ma vi è sviluppato in particolare l’aspetto della retorica.

82 Il Novecento (Prima parte)  Scenari socio-culturali


Nel Medioevo, sant’Agostino mette l’accento sul sermo humilis, sulla parola capace di arrivare a tutti. La teoria aristotelica viene ripresa nel Rinascimento, generando una precettistica minuziosa e un rigido regolismo, a cui si contrappone, ad esempio, lo stile di Giordano Bruno. Questa dialettica tra fedeltà alle regole e libertà dell’artista è il punto problematico della teoria dei generi da Aristotele a oggi. Durante l’Ottocento romantico c’è diffidenza verso i generi, in quanto gabbie classificatorie che potrebbero limitare la genialità e la libertà dell’artista. Nella contemporaneità si osserva, invece, una ripresa critica dei generi letterari, però svincolati da qualsiasi pretesa di normatività: si teorizzano griglie aperte, continuamente modificabili e adattabili, fondate più sulla probabilità che sulla necessità; ribadendo, comunque, l’importanza della categoria come “patto” tra produttore e destinatario. Il periodo vive, in effetti, lo sbocciare di numerosissimi ed eterogenei correnti, filoni, tendenze e movimenti.

4 L’evoluzione della lingua

Il fascismo conduce una netta battaglia, in nome dello spirito nazionale, per l’omologazione linguistica, cioè contro l’uso del dialetto, delle parole straniere e contro le minoranze linguistiche: vengono imposti termini italiani che sostituiscano termini esteri già entrati in uso, oppure appositamente creati nuovi vocaboli utili allo scopo. Preziosi alleati di questa operazione sono la radio e il cinema, che possono raggiungere velocemente tutti gli strati della popolazione.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Fai una ricerca sulle principali riviste che si diffusero in Italia nel periodo tra le due guerre e indica le loro principali caratteristiche. Prepara un documento digitale (PowerPoint; relazione ecc.) da presentare alla classe.

Lavoro di gruppo

2. La classe si divida in piccoli gruppi di lavoro, ognuno dei quali prenda in esame uno degli aspetti della mentalità e dei modelli di comportamento propri del periodo fascista sulla base del profilo, dei testi letti e di eventuali contributi e approfondimenti reperiti su libri e in rete. • Le strategie del consenso • La politica culturale del fascismo • Gli intellettuali e il fascismo: consenso, “assenza”, opposizione • La politica linguistica Ogni gruppo di lavoro scelga il modo più efficace per illustrare agli altri aspetti salienti della tematica analizzata, utilizzando: a. un ipertesto (Word/PowerPoint/HTML) da presentare con l’ausilio della LIM; b. una relazione scritta a più mani che sintetizzi i risultati del lavoro di gruppo; c. una scaletta per una conferenza. Avviate poi una discussione in classe sugli elementi più caratterizzanti e/o su aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea.

Esposizione orale

3. Fai una ricerca su come cambia il mondo editoriale sotto il regime fascista; esponi poi i risultati della tua ricerca all’insegnante e alla classe.

Sintesi

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Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

1 Giuseppe Ungaretti LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Ungaretti visto dallo scrittore Enrico Pea... Il giovane Ungaretti Lo scrittore anarchico Enrico Pea così descrive l’aspetto di Ungaretti da giovane, che aveva conosciuto ad Alessandria d’Egitto, ardente e rivoluzionario, ma più ancora poeta appassionato.

Ungaretti era un bel ragazzo biondo: qualche pelo alla nazzarena sul mento gli faceva il viso un po’ lungo. Le labbra grosse e la bocca larga e sensuale e i capegli tanti e arruffati sulla fronte spaziosa. Gli occhi celesti mansueti, tradivano la bontà del suo animo anche nell’impeto dell’ira. E. Pea, in «Primato», a. IV, n. 2, 15 gennaio 1943

... e dal critico letterario, allievo e amico Leone Piccioni La testimonianza di un allievo Ecco come Leone Piccioni ci presenta Ungaretti nei momenti in cui l’ispirazione poetica irrompe, con una forza travolgente, nella sua vita e nella sua mente.

Conosco Ungaretti come un allievo un Maestro, da 25 anni, e l’ho visto in tante diverse situazioni di vita, ed anche al lavoro, scrivere, correggere, prendere appunti, tradurre: ma tante volte, in casa, o in tram [...] o in viaggio, m’è parso di sentire che qualcosa all’improvviso l’afferrava, entrava dentro di lui: come dicevano gli antichi, veramente lo «possedeva». Era la subitanea insorgenza dell’ispirazione, e allora, a smaniare, a muoversi, a sussurrare, ma anche a gridare, non importa chi ci fosse accanto, come in un parto sempre lacerante per sforzo e per dolore, fino ad afferrare il verso, a segnarlo, o a dirlo a voce, in tanti toni diversi: nasce così in lui la prima struttura del verso, sulla quale poi, egualmente tormentosa, si scatenerà per quel suo cammino di progressivo avvicinamento al modello, la serie delle correzioni e delle varianti. G. Ungaretti, prefazione a Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

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Giuseppe Ungaretti è noto ai lettori soprattutto per la sua prima raccolta, L’allegria, nata dall’esperienza di soldato sul fronte durante la Prima guerra mondiale. L’allegria rappresenta il più radicale esempio di rinnovamento del linguaggio poetico in Italia. Centro della ricerca di Ungaretti è la parola, riscoperta nella sua essenzialità evocativa ed enfatizzata dalla disarticolazione del verso. Una parola capace, attraverso ardite analogie, di cogliere, come per i simbolisti, l’essenza del reale. Il culto della parola permane anche nelle raccolte successive, in cui Ungaretti compie una mediazione tra tradizione e innovazione. Modello per i poeti ermetici, soprattutto con la seconda raccolta Sentimento del tempo, Ungaretti se ne distingue per la sua sofferta partecipazione ai drammi della storia e il rifiuto di una oscurità programmatica ed elitaria. La sua poesia si nutre sempre della vita, a cominciare dalla propria: la costante presenza e l’incidenza sui testi di Ungaretti della dimensione autobiografica è rispecchiata dal titolo complessivo da lui voluto per la sua opera: Vita d’un uomo.

1 Ritratto d'autore stagioni della 2 Lepoesia di Ungaretti 8585


1 Ritratto d’autore 1 Vita d’un uomo VIDEOLEZIONE

L’infanzia ad Alessandria d’Egitto Giuseppe Ungaretti nasce alla periferia di Alessandria d’Egitto nel 1888 da genitori toscani di origine contadina: il padre si era trasferito in Egitto da San Concordio (una frazione di Lucca) per lavorare come sterratore nell’impresa del canale di Suez. Morirà nel 1890 lasciando alla moglie la gestione di un forno di loro proprietà. La madre gli parla spesso della terra di Lucca, e l’Italia per il giovane è una specie di miraggio; il sentimento di essere un esule, la nostalgia dell’emigrante che desidera ritornare alla “terra promessa”, sarà una costante della sua vita e della sua poesia. Nell’immaginario ungarettiano, Alessandria d’Egitto, da un lato, si lega al paesaggio del deserto e del mare, dall’altro, si associa al “porto”, immagine che ricorrerà spesso nella sua poesia.

Alessandria è anche il porto. La mia prima infanzia l’ho trascorsa in un quartiere distante dal mare. Ogni tanto andavamo al porto, quando a mia madre occorreva acquistare la legna per il fuoco del nostro forno. Vi andavamo anche quando arrivavano dall’Italia amici, o quando qualcuno vi faceva ritorno. Il porto è stato quindi un po’ per me il miraggio dell’Italia, di quel luogo impreciso e perdutamente amato per quanta notizia ne avessi dai racconti in famiglia. G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva

1940

L’Italia entra in guerra. 1922

Marcia su Roma. 1914

Scoppia la Prima guerra mondiale.

1900

1915

1920

Giuseppe Ungaretti nasce il 10 febbraio ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi.

1930

1940

1931

1912

1888

1939

Scoppia la Seconda guerra mondiale.

L’Italia entra in guerra.

1910

Il giovane Ungaretti si stabilisce a Parigi per continuare gli studi.

1933

Hitler prende il potere in Germania.

Nuova edizione dell’Allegria. 1933

Ungaretti pubblica Sentimento del tempo.

1915

Ungaretti, chiamato alle armi come soldato semplice, è inviato sul Carso.

1936

Ungaretti si trasferisce con la famiglia a San Paolo del Brasile. Muore il figlio Antonietto di nove anni.

1916

Esce Il porto sepolto. 1919

Ungaretti pubblica Allegria di naufragi. 1920

Sposa Jeanne Dupoix e l’anno successivo si trasferisce a Roma.

86 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

1942

Ungaretti rientra in Italia; insegna letteratura italiana all’Università di Roma.


La formazione e la prima giovinezza A sedici anni Ungaretti entra all’École Suisse Jacot, la migliore scuola superiore di Alessandria d’Egitto, dove stringe una profonda amicizia con Moammed Sceab (all’amico, poi reincontrato a Parigi e morto suicida nel 1913, Ungaretti dedicherà uno struggente ricordo ➜ T1 ). Nello stesso periodo conosce Enrico Pea, di sette anni maggiore di lui, inquieto e ribelle, emigrato dalla Versilia, animatore delle riunioni socialiste e anarchiche nella sua “Baracca rossa”: in questo ambiente il ragazzo Ungaretti vive una fervida stagione a contatto con rivoluzionari di vari Paesi. Ungaretti si forma letterariamente leggendo assai presto Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, ha contatti epistolari con Prezzolini, direttore della «Voce»; ma il fatto di vivere in Egitto, lontano dall’Italia, gli consente di seguire un percorso personale e autonomo, non influenzato da modelli ingombranti come quello di D’Annunzio. Parigi: l’incontro con la cultura d’avanguardia Nell’autunno del 1912 Ungaretti lascia Alessandria (➜ D1 ) e si trasferisce a Parigi. Rinunciando agli studi di diritto a cui era stato indirizzato dalla madre, si iscrive alla facoltà di lettere della Sorbona, mentre al Collège de France segue le lezioni del filosofo Henri Bergson: per ammissione dello stesso Ungaretti, la concezione di Bergson sul tempo eserciterà un’influenza determinante sulla sua poesia. Nella capitale francese frequenta assiduamente gli ambienti culturali dell’avanguardia artistica (Picasso, Léger), musicale (Satie) e letteraria; in seguito frequenterà Breton, Modigliani, De Chirico e Savinio. Conosce anche il giovane Marcel Proust (anch’egli affascinato dalle lezioni di Bergson) e i futuristi italiani (proprio a Parigi, nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato il primo Manifesto del futurismo), stringendo amicizia con Ardengo Soffici e Giovanni Papini: nel 1913 i due fondano la rivista «Lacerba» su cui Ungaretti pubblicherà le sue prime poesie. Ma l’incontro culturalmente più determinante di questo periodo è quello con il poeta francese Guillaume Apollinaire, che influenzerà notevolmente la sua prima produzione poetica.

1944

Liberazione di Roma.

1958

1948

Giovanni XXIII è il nuovo papa.

Entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana.

1968

Rivolte studentesche in tutto il mondo. Primavera di Praga.

1950

1960

1947

Esce Il dolore.

1970

1980

1960

1952

Esce Il taccuino del vecchio.

Ungaretti pubblica Un grido e paesaggi. 1954

Edizione definitiva della Terra Promessa.

1970

Il poeta muore a Milano. 1969

Esce presso l’editore Mondadori il Meridiano di tutte le sue opere col titolo di Vita di un uomo.

Ritratto d’autore 1 87


Dal fango della trincea nasce la poesia Il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, scoppia la Prima guerra mondiale. Ungaretti, che era giunto da pochi mesi in Italia, come molti intellettuali (in prima fila D’Annunzio), abbraccia la causa interventista: alla posizione anarchica e socialista, che vedeva nella guerra un’irripetibile occasione per abbattere il mondo borghese, in lui si associa una disposizione nazionalista e patriottica; ma, forse, soprattutto, la partecipazione alla guerra era vista dal giovane senza patria e alla ricerca di un’identità come l’occasione per diventare a pieno titolo un “italiano” (➜ T8 OL). Arruolatosi come volontario, nel maggio 1915 Ungaretti è inviato come soldato semplice di fanteria nelle trincee del Carso, di fronte al monte San Michele occupato dagli austriaci. Tre anni dopo la sua brigata viene inviata in Francia a rinforzo del fronte occidentale, ed è a Parigi che si troverà l’11 novembre, giorno in cui viene firmato l’armistizio. Dall’esperienza drammatica della guerra nascono le straordinarie liriche del Porto sepolto, che Ungaretti dichiara di aver iniziato a scrivere fin dal primo giorno della sua vita di soldato, il giorno di Natale del 1915. Il porto sepolto sarà il diario poetico di un anno di vita in trincea (proprio come in un diario, le poesie sono accompagnate dall’annotazione del luogo e dalla data), in cui la realtà tragica della guerra è evocata in versi scarnificati, diretti, laceranti, scritti inizialmente su bordi di lettere, cartoline, margini di giornali. Sarà Ettore Serra, un ufficiale appassionato di letteratura con cui Ungaretti si trovava al fronte, a fare di questi materiali poetici un “libro”: Il porto sepolto è stampato nel dicembre del 1916 a Udine in 80 copie. Dopo la guerra: Allegria di naufragi Alla fine della guerra Ungaretti rimane a Parigi, dove sposa Jeanne Dupoix, giovane insegnante francese che gli sarà vicina per tutta la vita; lavora per «Il Popolo d’Italia» e all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Ungaretti soldato.

Nel 1919 esce a Firenze la nuova raccolta poetica: Allegria di naufragi, contenente i testi, in parte rivisti, di Porto sepolto e altri scritti successivamente. La “stagione romana”: Sentimento del tempo All’inizio del 1922 i coniugi Ungaretti si trasferiscono a Roma, dove Giuseppe lavora per l’ufficio stampa del Ministero degli Esteri e Jeanne insegna e traduce dal francese. Nascono i due figli, Ninon nel 1925 e Antonietto nel 1930. È una fase di vita serena, malgrado non poche difficoltà economiche: lo scrittore si sente “in armonia”, innanzitutto con il paesaggio di Roma, con la sua storia illustre, i suoi monumenti, il suo barocco («Vivendo a Roma il barocco era una cosa che doveva finire con l’entrarmi nel sangue»), ma anche con quello della campagna laziale, rigogliosa e soleggiata, dove la famiglia vive diverso tempo (a Marino, nei Castelli Romani). Il 1928 segna una svolta importante nel percorso interiore del poeta, che vede il suo riavvicinamento alla religiosità cristiana: a Pasqua insieme all’amico Vignanelli, che diventerà frate benedettino, va a Subiaco, dove segue la liturgia e fa gli esercizi spirituali. L’approdo alla fede, che risente della lettura di Pascal e trova la sua prima origine nella fortissima suggestione esercitata dalla visione degli affreschi di Michelangelo della cappella Sistina, non sarà mai pacificato e “definitivo”, avrà sempre uno sfondo tormentato e inquieto.

88 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Nel 1933 a Firenze esce la raccolta Sentimento del tempo, che da un punto di vista stilistico e metrico segna un recupero della tradizione, coerentemente alle tendenze della cultura letteraria italiana in quegli anni: è il periodo della restaurazione del classicismo e della riscoperta di Leopardi, stimolata anche dall’esperienza della rivista «La Ronda», fondata nel 1919 da Cardarelli. Nei contenuti la nuova raccolta rispecchia la pienezza di vita, ma anche la tensione conoscitiva e la ricerca esistenziale di questa stagione della vita di Ungaretti. Sono anni in cui progressivamente aumenta la popolarità del poeta, che viene invitato a tenere cicli di conferenze in vari Paesi europei. La scoperta di un nuovo mondo: San Paolo del Brasile Nel 1936, durante un viaggio in America Latina, Ungaretti è invitato a ricoprire la cattedra di lingua e letteratura italiana all’università di San Paolo: accetta, sia per motivi economici sia perché attirato dall’idea di una nuova esperienza, e si trasferisce in Brasile con la famiglia. È subito affascinato dall’esuberanza della natura e dalla musica. Scopre la poesia brasiliana, stringe un rapporto di intensa amicizia con il cantante e poeta Vinicius de Moraes, è attratto dal barocco brasiliano, diverso da quello europeo perché influenzato dalla cultura indigena e dei neri d’Africa. Sono anni di studi approfonditi sulla letteratura italiana e di importanti traduzioni: in particolare Ungaretti traduce Góngora, il principale poeta barocco spagnolo, su cui tornerà a più riprese, e i sonetti di Shakespeare. Nel 1939 il figlio Antonietto muore a soli nove anni, per un’appendicite. Ungaretti ne rimane sconvolto. Nella straziante poesia Gridasti: soffoco, scritta tra il ’39 e il ’40 (ma pubblicata solo nel 1949 su rivista e poi inserita nella raccolta Un grido e paesaggi), leggiamo: «Non potevi dormire, non dormivi… / Gridasti: Soffoco… / Nel viso tuo scomparso già nel teschio, / Gli occhi, che erano ancora luminosi / Solo un attimo fa, / Gli occhi si dilatarono… Si persero…». Docente universitario, poeta, traduttore In seguito all’entrata in guerra del Brasile contro l’asse Roma-Berlino a fianco degli alleati, nell’agosto del 1942, la famiglia Ungaretti deve rientrare in patria dove, come detto (➜ SGUARDO SULLA STORIA: Ungaretti e il fascismo), lo scrittore ottiene una cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Roma e viene nominato Accademico d’Italia. Subito dopo vive i drammatici eventi dell’occupazione tedesca e dei bombardamenti sulla città: alla nuova raccolta di poesie, significativamente intitolata Il dolore (1947), Ungaretti affida la testimonianza della sua sofferenza per i lutti privati (nel ’37 era morto anche il fratello Costantino) e per la tragedia storica vissuta dalla collettività (➜ T18 ). Negli anni del dopoguerra si dedica intensamente all’attività di docente universitario raccogliendo intorno a sé molti giovani entusiasti studiosi. Del 1950 è la prima edizione de La terra promessa, poema incompiuto iniziato in Brasile già nel 1935 ma per lungo tempo interrotto. La successiva raccolta poetica, Un grido e paesaggi, è pubblicata nel ’52. Il 1958 è funestato dalla morte della moglie Jeanne. Una vecchiaia estremamente vitale L’ultimo decennio della vita di Ungaretti è caratterizzato da un’attività quasi frenetica, certo inconsueta per un uomo già anziano: partecipa a incontri, convegni, dibattiti, letture di poesie, trasmissioni televisive e viaggia instancabilmente (in America, in Giappone, in Egitto). Nel 1960 esce un’altra raccolta poetica, Il taccuino del vecchio. Nel 1964 tiene un ciclo di conferenze alla Columbia University a New York, dove stringe amicizia con Allen Ginsberg, poeta tra i principali esponenti della beat generation. Eletto presidente della Comunità europea degli scrittori, fondata per favorire il disgelo tra i due blocchi dell’Europa

Ritratto d’autore 1 89


dell’est e dell’ovest, anche per seguire quest’attività infittisce i suoi viaggi. Il poeta è ormai una celebrità: i suoi ottant’anni (1968) sono festeggiati con tutti gli onori dal governo italiano in Campidoglio. In occasione della solenne celebrazione Ungaretti pronuncia questo sintetico e illuminante bilancio della sua esistenza.

Non so se sono stato un vero poeta, ma so di essere stato un uomo, perché ho molto amato e molto sofferto, ho molto errato e ho saputo, quando potevo, riconoscere il mio errore, ma non ho odiato mai. Ed un uomo è questo che deve fare, molto amare, molto soffrire, errare e riconoscere – se può – il proprio errore, ma non odiare mai.

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Video Ungaretti raccontato dal critico Andrea Cortellessa

Diventa popolare persino presso il grande pubblico, quando è invitato a leggere per la televisione (e lo fa in modo straordinariamente suggestivo) i versi dell’Odissea subito prima delle puntate dello sceneggiato che porta il poema omerico sul piccolo schermo. Di ritorno da un ultimo viaggio a New York, muore a Milano nel giugno del 1970. Un anno prima era uscita la raccolta completa delle sue poesie con il titolo Vita d'un uomo.

Ungaretti sul ponte di Brooklyn.

Sguardo sulla storia Ungaretti e il fascismo Il rapporto di Ungaretti col fascismo è sempre stato un argomento complesso e delicato da affrontare: che ci sia stata una sua adesione è innegabile, anche se le motivazioni appaiono difficili da indagare. A partire dal primo dopoguerra Ungaretti guarda con attenzione al movimento fascista, che sembra promettere ordine e armonia a un’Italia che gli appare dominata dalla conflittualità. Già da Parigi collabora con «Il Popolo d’Italia», giornale diretto da Mussolini, che il poeta aveva conosciuto personalmente nel periodo dei movimenti interventisti, e con l’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Successivamente saranno varie le sue collaborazioni con organi di stampa e istituzioni culturali fasciste. Una nuova edizione del Porto sepolto del 1923 è introdotta da una prefazione di Benito Mussolini (che non fu però più ripresa nelle edizioni successive); nell’agosto 1924 Ungaretti si iscrive al Partito nazionale fascista e nel ’25 firma il Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. L’adesione dichiarata (e mai in seguito rinnegata) al fascismo non gli procura però alcun trattamento di favore e le sue collaborazioni sembrano spesso poco apprezzate, anche perché Ungaretti tende a riservarsi una certa libertà di giudizio e

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di iniziativa. Si può condividere questo giudizio di Cortellessa: «In sostanza Ungaretti si mantenne sempre fedele a un’immagine del “fascismo-movimento”, risolutamente antiborghese per non dire “rivoluzionario”, assai distante dunque dalle scelte reali del fascismo-regime». Evidentemente il poeta non si trova troppo a suo agio nell’Italia fascista, se nel 1936 decide di trasferirsi in Brasile con la famiglia. E se nel 1942, rientrato forzatamente in patria, è nominato Accademico d’Italia e ottiene “per chiara fama” la cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea, si mostra poi sgomento di fronte agli orrori della guerra, della deportazione degli ebrei (ne aiuterà alcuni a nascondersi) e dell’occupazione nazista, come è testimoniato dalla sezione Roma occupata (1943-1944 ➜ T18 ) compresa nella raccolta Il dolore. Dopo la guerra viene accusato di fascismo e sospeso dall’insegnamento, ma già nel luglio 1946 è reintegrato nel corpo accademico. Al clima ideologico postbellico forse può essere ascritta la mancata assegnazione nel 1959 del Nobel, a cui legittimamente Ungaretti aspirava: gli fu preferito Salvatore Quasimodo.


Giuseppe Ungaretti

D1

LEGGERE LE EMOZIONI

Silenzio L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

La lirica descrive il momento della sua partenza (il poeta aveva 24 anni) dal porto di Alessandria su una nave di emigranti, per continuare la sua formazione a Parigi.

SILENZIO Mariano il 27 giugno 1916 Conosco una città1 che ogni giorno s’empie di sole e tutto è rapito in quel momento Me ne sono andato una sera 5

Nel cuore durava il limio delle cicale2

Dal bastimento verniciato di bianco ho visto 10 la mia città sparire lasciando un poco un abbraccio di lumi nell’aria torbida sospesi3 1 una città: Alessandria d’Egitto, la città in cui è nato. 2 il limio delle cicale: il canto delle cicale è paragonato al rumore monotono del limare.

3 Dal bastimento… sospesi: nell’oscurità della sera (aria torbida) il poeta vede dalla nave le luci sulla terraferma allontanarsi, come sospese nel nulla, e questa visione gli sembra un ultimo abbraccio che la città gli offre nel momento della partenza.

Concetti chiave Il ricordo della città natale

La località e la data che seguono il titolo ne riconducono la composizione al fronte di guerra. Il titolo enigmatico Silenzio induce a ipotizzare le circostanze in cui affiora nel poeta il ricordo della città natale, Alessandria d’Egitto, e della partenza da essa (1912) per l’Europa: mentre si trova al fronte, forse in un momento di sospensione delle emozioni, dei pensieri certo angosciosi che l’esperienza della guerra non può non provocare, irrompe con forza dentro di lui, inaspettata, quasi un flash improvviso, l’immagine di Alessandria. Il verbo al presente conosco, in posizione particolarmente forte (nell’incipit), sottolinea la presenza intatta della città nel cuore del poeta: essa è associata nel ricordo a una solarità abbagliante, che stordisce e inebria. Il seguito della poesia rievoca il momento del distacco doloroso: torna l’immagine della luce, ma non è più la luce accecante del sole, sono invece le luci della città che lentamente sfumano nel buio, mentre la nave si allontana dal porto e che quasi salutano, in «un abbraccio di lumi», il poeta.

Alessandria d’Egitto in una foto d’epoca.

Ritratto d’autore 1 91


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SINTESI 1. Gli spazi bianchi scandiscono la poesia in successivi “momenti” che si succedono uno dopo l’altro: identificali e riassumili. COMPRENSIONE 2. Quali immagini della città di Alessandria ritornano alla mente del poeta al fronte? Quali sensi sono coinvolti nella sua rievocazione? SCRITTURA 3. Il poeta rievoca l’abbandono di Alessandria in un momento di silenzio sul fronte di guerra: reputi che stia manifestando nostalgia o malinconia? Ti è mai capitato di dover lasciare un luogo a te caro? Che cosa hai provato?

2 La poetica: tra biografia e “rivelazione” La fedeltà a un’idea di poesia Ungaretti ha parlato spesso della natura e della funzione della poesia, non solo in molteplici interventi e interviste, ma anche in alcuni testi poetici, che assumono il carattere di vere e proprie dichiarazioni di poetica. È una poetica che appare delineata nei suoi tratti essenziali fin dalle prime liriche: in particolare sono assai significativi Il porto sepolto (➜ T2 ), che dà il titolo alla prima raccolta, e Commiato (➜ T9 ), entrambe del 1916. Vi si ritrovano due elementi che rimarranno costanti nella visione ungarettiana: l’idea della parola poetica come tensione a cogliere ed evocare il mistero sempre sfuggente dell’esistenza (l’abisso di Commiato, il porto sommerso di cui va alla ricerca il poeta nel Porto sepolto) e lo stretto legame tra poesia e vita, che fa dei testi di uno scrittore, in un certo senso, le immagini della sua biografia. Non è certo casuale che Ungaretti abbia voluto raccogliere tutte le sue poesie sotto il titolo complessivo Vita d’un uomo, come scrive lui stesso: «L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non di lasciare una sua bella biografia». Poesia e vita La connessione poesia-vita non va intesa come contaminazione estetizzante tra arte e vita, come avviene in D’Annunzio: nell’opera di Ungaretti il legame della poesia con l’esperienza esistenziale del poeta ne garantisce l’autenticità, il significato etico, e impedisce che la poesia sia solo preziosa ricerca formale o puro sperimentalismo tecnico, come nei futuristi. Se la poesia nasce dall’io, dalla vita del poeta, d’altra parte, grazie alla pregnanza della parola poetica, l’esperienza individuale diventa universale (➜ D2 ): anche attraverso l’esperienza del dolore, scavando dentro di sé, il poeta penetra più a fondo nella segreta natura delle cose e porta alla luce una verità valida per tutti. Ungaretti ha un’idea “forte”, testimoniale, della poesia (➜ D2 ), rifiuta il ripiegamento intimistico, rinunciatario dei crepuscolari: «Sono un poeta / un grido unanime» scrive in Italia (➜ T8 OL), sottolineando con forza la comunione fra il poeta e gli altri uomini che, in alcune celebri poesie sulla guerra, si traduce in accenti di vibrante solidarietà (Fratelli ➜ T4 ). La poesia come “rivelazione”, la parola come “evocazione” La visione della poesia di Ungaretti, soprattutto nelle sue prime, più rivoluzionarie testimonianze, appare assai vicina a quella del simbolismo francese (del resto proprio a Parigi avviene la formazione di Ungaretti, che riconosce in Mallarmé un maestro ➜ PER APPROFONDIRE I maestri di Ungaretti: Leopardi e Mallarmé). Anche per Ungaretti, come per Rimbaud e Mallarmé, la poesia è evocazione “magica”, scoperta, “illuminazione” del mistero del reale, che rimane però pur sempre in parte inesplorato («quel nulla di inesauribile segreto»). Da questa concezione deriva il valore attribuito alla parola:

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Video Ungaretti spiega perché Leopardi e Mallarmé sono suoi maestri

essendo folgorante conoscenza di un frammento del mistero, la parola poetica si spoglia di ogni incrostazione, di ogni usurata significazione, per riscoprirsi “vergine”, pura. Sempre da tale concezione dipende l’utilizzazione, come principale strumento nella poesia, dell’analogia , che istituisce inusitate corrispondenze, creando “corto circuiti” che eludono la normale struttura logica del discorso. Il dovere del poeta A differenza però dei simbolisti, come già si è accennato, Ungaretti non ha una visione elitaria della letteratura, non rinuncia alla comunicazione, alla condivisione delle intuizioni superiori della poesia, perché nella sua concezione esse riguardano comunque i grandi temi dell’uomo e del suo destino che la poesia coglie e interpreta. Per Ungaretti il poeta deve testimoniare la verità che ha conosciuto, “riconsacrare” i misteri della vita attraverso la parola, fornendo un appiglio all’uomo solo e abbandonato a sé stesso. E la missione della poesia è riaffermare «l’integrità, l’autonomia, la dignità della persona umana» (Intervista radiofonica del 1950 e D2 ). Il poeta come “artigiano” La concezione della poesia come intuizione non implica in Ungaretti, come si potrebbe a prima vista pensare, l’idea che il poeta traduca nei versi in modo immediato una percezione intuitiva della realtà, frutto dell’ispirazione. Significativamente egli si definisce un «buon artigiano», e le continue varianti che apporta ai testi nelle diverse redazioni delle sue raccolte poetiche (così come la sua dedizione nel tempo al lavoro di traduttore) rivelano quanta importanza egli abbia dato all’elaborazione formale (e per certi versi anche “tecnica”) del messaggio poetico. Ungaretti compone, scompone e ricompone incessantemente i suoi testi, esercita tutti i mezzi possibili fornitigli dalla tradizione retorica (ellissi, endiadi, inversioni, chiasmi ecc.) per fare in modo che un termine sia messo in risalto e acquisti quella pregnanza di significati a cui il poeta aspira. Ungaretti è sempre molto attento alla consistenza “fisica” della parola, alla sua struttura sonora, e lavora intensamente a valorizzare le qualità foniche e il ritmo lirico. Si può cogliere il ruolo fondamentale attribuito da Ungaretti alla vibrazione sonora e alla corposità in un certo senso “materiale” della parola attraverso l’ascolto della sua recitazione delle proprie poesie.

La poetica di Ungaretti La poesia è concepita da Ungaretti come

Poetica della parola

autobiografia

la parola è strumento di conoscenza

ricerca nel proprio animo di una verità valida per tutti

Parola chiave

mezzo per rivelare la verità e per esprimere il dolore e la disarmonia

• culto della parola • rielaborazione continua del testo (varianti)

analogia Figura retorica che accosta immagini diverse e lontane per significato (dal gr. analogìa “corrispondenza”), senza un collegamento logico-razionale. Venne molto utilizzata dai poeti simbolisti e successivamente dagli esponenti delle avanguardie, che ritenevano il processo poetico dominato dall’intuizione, da una sorta di “illuminazione”, più che da un meccanismo razionale. Marinetti ne teorizza l’importanza nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912: «L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente

diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia». Si creano così “reti di immagini” che sono accostate spesso infrangendo i rapporti sintattici all’interno della frase e rendendone a volte difficile un’interpretazione univoca. Anche per Ungaretti il poeta ritrova relazioni e corrispondenze sotterranee tra forme apparentemente distanti della realtà: egli ricorre all’analogia nel corso di tutta la sua produzione poetica, a partire dalla prima raccolta, Il porto sepolto.

Ritratto d’autore 1 93


Giuseppe Ungaretti

D2

Il compito della poesia Scritti letterari

Scritti letterari (19181936), in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano 1974.

Si riportano due passi del poeta, in cui egli esprime il suo punto di vista sulla poesia.

a. Sino [...] dal mio nascere alla poesia, ho imparato a considerare la poesia non come un gioco, non come un divertimento, non come una distrazione, ma come uno slancio fatale, come la cosa più seria, come il tormento e la responsabilità più gravi che avesse in dono l’uomo. La poesia deve dare e dà la misura d’un uomo. b. Sino dalle mie prime esperienze, fatte nella tragicità della trincea, quando di fronte alla morte non c’era da pensare se non alla verità della vita [...], mi sono sforzato nelle mie ricerche e scoperte di poesia, a insegnare che ogni poeta ha da svincolare la propria originalità liberamente, ma che ha nello stesso tempo da ricordarsi che ogni poesia, per essere tale, deve anche possedere quei caratteri d’anonimia che le impediranno sempre di apparire estranea ad un essere umano. Ogni vera poesia risolve miracolosamente il contrasto d’essere singolare, unica, e anonima, universale.

Concetti chiave Il ricordo della città natale

In questi due stralci – tratti il primo da uno scritto del 1933 (Le mie prime poesie), il secondo da un’intervista radiofonica (Sulla poesia) del 1950 – Ungaretti sottolinea la responsabilità etica della poesia e ne definisce con chiarezza il carattere insieme autobiografico e universale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in un testo di 10-15 righe il contenuto delle dichiarazioni di poetica di Ungaretti, riportando anche citazioni dai documenti letti. ANALISI 2. Spiega perché Ungaretti riunisce i suoi testi poetici sotto il titolo di Vita d’un uomo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Confronta la concezione della poesia espressa da Ungaretti nel testo con le posizioni “dissacranti” di Palazzeschi nella poesia Lasciatemi divertire (dalla raccolta L’incendiario del 1910 ➜ V3A C12 T7 ): quale delle due visioni è più vicina alla tua sensibilità? Perché?

PER APPROFONDIRE

SCRITTURA 4. Illustra punti di contatto e differenze tra la poetica di Ungaretti e quella dei simbolisti francesi in un testo di 20 righe circa.

I maestri di Ungaretti: Leopardi e Mallarmé Punti di riferimento di Ungaretti sono stati soprattutto due poeti: Leopardi e Mallarmé. Il primo è per Ungaretti il poeta della memoria, della pietà dell’uomo verso gli altri uomini (il riferimento è in particolare alla Ginestra), dell’aspirazione all’infinito e della parola evocativa. Come scrive nella Nota introduttiva a Vita d’un uomo, già nell’adolescenza è stata soprattutto la lettura di Leopardi ad avviarlo alla poesia: «Innanzitutto Leopardi, dico sino dai quattordici, quindici anni. Solo più tardi arriverò a sentirlo in tutta la sua grandezza e la sua segreta potenza, quell’uomo che ha preceduto Nietzsche, che ha sentito la sua epoca e ha avuto la percezione dei tempi nostri come forse nessuno storico ebbe mai». Il secondo au-

94 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

tore fondamentale nella formazione del giovane Ungaretti fu Stéphane Mallarmé, che lo affascinava con la musicalità dei suoi versi, le immagini preziose, i procedimenti analogici (Il demone dell’analogia è un testo fondamentale della poetica dello scrittore francese): «Mi gettai su Mallarmé, lo lessi con passione ed, è probabile, alla lettera non lo dovevo capire; ma conta poco capire alla lettera la poesia: la sentivo. Mi seduceva con la musica delle sue parole, con il segreto, quel segreto che mi è tutt’oggi segreto. […] Lo diceva, se non m’inganno, anche Racine [tragediografo francese del sec. XVII]: prima di tutto la poesia, se c’è, seduce mediante la musica dei suoi vocaboli, mediante un segreto».


2

Le stagioni della poesia di Ungaretti 1 L’allegria

VIDEOLEZIONE

La costruzione della raccolta La prima raccolta poetica di Ungaretti, L’allegria, pubblicata nel 1931, è il risultato di una lunga gestazione: il poeta dà un ordine definitivo ai testi della sua prima stagione poetica, ordinando le liriche, effettuando ripensamenti dei titoli e del titolo generale, ampliando il materiale originale; a molti testi sono apportate significative varianti, in un’idea dell’attività poetica come continua ricerca dell’essenzialità, dell’autenticità. La versione definitiva, che noi leggiamo, è del 1942. La raccolta è composta da 74 liriche raggruppate in cinque sezioni. Le tre centrali, collegate dal tema della guerra, costituiscono la parte più significativa della raccolta. Ultime, scritte a Milano nel 1914-1915, prima del decisivo spartiacque della guerra Il porto sepolto (1915-1916) Naufragi (1916-1917) Girovago (1918) Prime (1919). Scritte tra Parigi e Milano, già nel titolo alludono a una nuova esperienza poetica da cui nascerà Sentimento del tempo. Da Il porto sepolto a Allegria di naufragi Il nucleo originario della raccolta (e quello numericamente più ampio) consiste nelle 32 poesie del Porto sepolto, stampato nel 1916 durante la guerra in soli 80 esemplari per volontà dell’autore stesso. Il contenuto delle poesie è fortemente autobiografico (lo dimostra l’uso assai frequente della prima persona e dell’aggettivo possessivo mio) e rimanda all’esperienza traumatica della guerra concretamente vissuta da Ungaretti come soldato semplice sul fronte del Carso: il poeta si fa testimone della quotidiana tragedia della guerra di trincea attraverso una sorta di diario lirico: per ogni testo Ungaretti, proprio come in un diario, indica la data e il luogo. Già in queste prime prove della poesia di Ungaretti, tuttavia, il vissuto personale si eleva a una dimensione universale: il dramma dell’io lirico di fronte alla lacerante esperienza della guerra diventa emblema della condizione umana, che la presenza incombente della morte rende tragicamente precaria. Il titolo, come poi sempre nella produzione di Ungaretti, è fortemente allusivo: letteralmente fa riferimento a un porto al di sotto delle acque di Alessandria d’Egitto di cui il poeta aveva sentito parlare da ragazzo, ma il riferimento si colora, come evidenzia la lirica che dà il titolo alla raccolta (➜ T2 ), di significato simbolico, alludendo al mistero della poesia stessa, che il poeta, esploratore degli abissi, in un certo modo “scopre”. Le poesie di Il porto sepolto già introducono la radicale rivoluzione delle forme poetiche che sarà costitutiva di tutta la raccolta. La forte compattezza del Porto sepolto in parte viene persa nella nuova raccolta, Allegria di naufragi, uscita da Vallecchi nel 1919, nella quale confluiscono i testi del primo libretto, quasi tutti rimaneggiati, e numerosi testi nuovi in una sorta di provvisorio bilancio della poesia ungarettiana. Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 95


Il titolo, costituito da un suggestivo ossimoro, è tratto dalla lirica omonima (➜ T13a ), composta nel 1917 e collocata poi all’inizio della sezione Naufragi dell’Allegria in cui il poeta rappresenta l’uomo come un lupo di mare che ritorna a viaggiare immediatamente dopo un naufragio a cui è sopravvissuto. Certo Ungaretti allude innanzitutto all’elaborazione della drammatica esperienza della guerra, ma il significato è più ampio, come Ungaretti stesso ebbe a precisare, e fa riferimento più in generale alla condizione umana, che è sempre quella di un naufrago, per le illusioni cadute e i dolori personali e storici che l’uomo incontra nel corso dell’esistenza, ma al contempo l’essere umano ha la capacità di riprendere a vivere con entusiasmo (l’allegria, appunto) l’avventura della vita. In Allegria di naufragi il poeta accentua l’uso dell’analogia e delle metafore ardite, elimina elementi troppo cronachistici presenti nella prima edizione, lascia sempre più spesso le parole isolate nella pagina, procede a semplificare al massimo la sintassi.

Foto di trincea durante la Prima guerra mondiale.

La rivoluzione formale de L’allegria Le liriche de Il porto sepolto avviano una sperimentazione rivoluzionaria delle forme espressive, che caratterizza più in generale la prima fase dell’attività poetica di Ungaretti corrispondente alle liriche de L’allegria. È il poeta stesso, in più occasioni, a collegare questa “rivoluzione” all’esperienza della guerra: «Nella trincea, nella necessità di dire rapidamente, perché il tempo poteva non aspettare, e di dire con precisione e tutto come in un testamento, e di dirlo, poiché si trattava di poesia, armoniosamente, in tali condizioni estreme, trovai senza cercarla, quella mia forma d’allora nella quale il più che mi fosse possibile volli resa intensa di sensi la parola intercalata di lunghi silenzi» (Le mie prime poesie, 1933). Alla scoperta di una parola essenziale, libera da incrostazioni letterarie, aderente alla vita, Ungaretti (lo ricordiamo: formatosi lontano dall’ambiente letterario italiano) fu certamente indotto anche dai suoi contatti con le avanguardie italiane (il futurismo) ed europee (soprattutto Apollinaire). L’intento di Ungaretti però non è lo scardinamento provocatorio dell’istituzione letteraria, ma l’esigenza di trasporre in un nuovo, essenziale linguaggio poetico l’esperienza-limite della guerra e la condizione esistenziale che ne deriva: «Se la parola fu nuda, se si fermava a ogni cadenza del ritmo, a ogni battito del cuore, se si isolava momento per momento nella sua verità, era perché in primo luogo l’uomo si sentiva uomo, religiosamente uomo, e quella gli sembrava la rivoluzione che necessariamente dovesse muoversi dalle parole» (Indefinibile aspirazione, 1955). La prima caratteristica che colpisce è la brevità dei componimenti: nello spazio bianco della pagina poche parole isolate vanno a comporre una poesia. Spesso si tratta di poesie costruite su una sola immagine, resa intensa dalle figure retoriche dell’analogia e della sinestesia, che accostano elementi distanti e solitamente non associati tra loro. La scelta di ogni singola parola è importantissima e può essere dettata anche da una ricerca di musicalità, attraverso cui il poeta vuole comunicare con il lettore in un modo diverso da quello logico-razionale.

96 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


La versificazione si allontana decisamente dalla tradizione: Ungaretti impiega versi liberi, molto brevi («scandalosamente» brevi ha osservato Contini) e per questo spesso chiamati versicoli, non in rima, il cui ritmo è basato sulle pause. Anche se a volte, posizionandoli sulla stessa riga, sono ricomponibili in versi tradizionali, il poeta avverte in questo momento l’esigenza di dividere, spezzare, per «sentire ogni parola nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato» (Ungaretti commenta Ungaretti, 1963). Alla frammentazione del verso corrisponde una frammentazione della sintassi: non è il collegamento tra le parole a essere importante, ma ogni parola in sé. Per questo il poeta abolisce la punteggiatura (non a caso uno dei primi punti del Manifesto futurista del 1909), la cui funzione è quella di istituire rapporti e gerarchie tra le diverse parti della frase, e riduce al minimo i nessi prodotti dalle congiunzioni e dalle preposizioni. Ne deriva una enfatizzazione del ruolo della parola, del suo valore conoscitivo, che certamente è debitrice della poesia simbolista francese, con la differenza che l’ottica che ispira la poesia di Ungaretti non è mai elitaria e volutamente criptica. I temi I temi delle tre raccolte centrali sono in buona parte connessi alla guerra: la percezione della morte sempre incombente e il senso della precarietà della condizione umana (Veglia ➜ T3 ), e per contrasto l’attaccamento generoso alla vita, il senso di solidarietà e fratellanza con gli altri soldati (➜ T4 ). A quelli citati si aggiungono altri motivi legati alla biografia e alla dimensione esistenziale del poeta: il ricordo degli anni trascorsi ad Alessandria d’Egitto, il sentimento di essere un nomade, un esule (➜ T1 ), l’incapacità di potersi radicare in qualsiasi parte della terra e contemporaneamente il desiderio di recuperare dentro di sé e nella natura un’innocenza perduta (Girovago), un’armonia con il mondo (➜ T6 ), la ricerca di un rapporto con l’Assoluto (➜ T13b ).

L’Allegria L’allegria (1933)

rielaborazione del Porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi

TEMI

• la vita militare in trincea • l’esperienza bellica e umana

SINTASSI

• frasi brevi e semplici • eliminazione della punteggiatura

STILE

• parola nuda, scarna, essenziale: “i versicoli” • uso dell’analogia

METRICA

versi liberi

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 97


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Pier Vincenzo Mengaldo La disgregazione del verso nell’Allegria V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978

In un’importante antologia di poesia del Novecento, Mengaldo indica le principali novità dell’Allegria: prima sottolinea come la frantumazione metrica del testo poetico sia da mettere in relazione con la concezione evocativa (quasi magica) della parola e con la sua natura teatrale; in seguito osserva come la «parola nuda» di Ungaretti sia il frutto di una lunga e accanita riscrittura dei testi che coincide con un processo comune a molti poeti moderni.

All’inizio l’esperienza di Ungaretti è legata, assai più che alla cultura poetica italiana, a quella francese (e non solo letteraria) recente […]; e certo è stata anche questa extraterritorialità culturale a permettergli, come già in minore a Marinetti1, di aggredire i nostri istituti formali con un tale urto rivoluzionario. Strumento fondamentale 5 di questa rivoluzione è la metrica dell’Allegria: che disgrega il verso tradizionale in versicoli, frantumando il discorso in una serie di monadi verbali2 sillabate quasi come attonite interiezioni liriche (con Contini: «in Ungaretti il discorso nasce successivamente alla parola»). Ne viene dilatata la forza evocativa e impressiva3 del singolo vocabolo – che può essere quindi attinto di norma a un lessico del tutto «normale», 10 anti-letterario –, semantizzando anche parole vuote4 (di, una, come, e possono addirittura costituire da sole un verso) e coinvolgendo nella significazione, ben più profondamente che nella poesia tradizionale, pause di silenzio e spazi bianchi, marcati e resi ancora più polivalenti dall’apollinairiana5 assenza di punteggiatura. Parola e silenzio stanno l’una all’altro come rivelazione ed attesa di rivelazione […]. Ne 15 deriva che il messaggio ungarettiano è sempre di natura potentemente suggestiva, irrazionale, quasi magica: ciò cui contribuisce l’uso su larga scala, e originalissimo, dell’analogismo moderno (tipo «la notte più chiusa / lugubre tartaruga /annaspa», che il poeta svilupperà ulteriormente nel Sentimento […]. E ne deriva una conseguenza d’ordine generalmente elocutivo6, nel senso che l’importanza delle pause e 20 dei suggerimenti intonativi predispone potenzialmente questa poesia alla recitazione o declamazione (decisiva al proposito la straordinaria dizione del poeta stesso); più profondamente ancora: ne disvela l’intima natura teatrale. […] La metrica franta dell’Allegria non è che l’equivalente prosodico di quella ricerca della parola «nuda» ed essenziale7, o «recitativo atroce» (Bonfiglioli), in cui sta la maggior 25 novità, umana prima che stilistica, della raccolta, e che può portare il poeta a enunciati ridottissimi come il famoso (o famigerato?) «M’illumino / d’immenso» […]. Ma questa «fraterna nudità» (Sanguineti), se in gran parte è attinta immediatamente alla prima stesura, in parte è anche frutto dell’accanita e capillare elaborazione che l’Allegria – come tutte le poesie successive del resto – ha subìto per oltre un ventennio. Il 30 fenomeno rientra nella più generale corrente della poesia moderna che si può denomi1 Marinetti: Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), fondatore del futurismo, aveva teorizzato il “verso libero” e “le parole in libertà”. La sua capacità innovativa è però qui definita in minore, poiché non è riuscito a far seguire alle dichiarazioni teoriche un’espressione poetica efficace. 2 frantumando… monadi verbali: gli elementi verbali del discorso poetico frantu-

mato sono assimilati a monadi filosofiche (le sostanze semplici, indivisibili, che costituiscono l’elemento ultimo delle cose). 3 impressiva: capace di trasmettere impressioni. 4 semantizzando anche parole vuote: dando significato autonomo a parole che hanno un valore puramente grammaticale.

98 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

5 apollinairiana: già utilizzata da Guillaume Apollinaire (1880-1918), poeta francese, amico di Ungaretti. 6 d’ordine… elocutivo: relativa alla pronuncia del testo. 7 La metrica… essenziale: la frantumazione del verso corrisponde, dal punto di visto metrico (prosodico), alla ricerca della parola essenziale.


Vasilij Kandinskij, Impressione III (concerto), olio su tela, 1911 (collezione Lenbachhaus).

nare da Mallarmé e Valéry, per la quale il testo è inteso come progressiva e instabile approssimazione a un valore limite […]. Di fatto l’elaborazione dei testi dell’Allegria […] consiste soprattutto nell’arte del levare, in successivi processi, quando non di amputazione, di concentrazione dell’enunciato (esemplificabili, poniamo, col pas35 saggio da «Ci spossiamo in una vendemmia di sole» a «Ci vendemmia il sole»), con relativa eliminazione di connettivi logici e divagazioni discorsive.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Secondo Mengaldo, che cosa ha favorito l’«urto rivoluzionario» (r. 4) con cui Ungaretti smantella i canoni formali della tradizione lirica italiana? 2. Che cosa accomuna – secondo il critico – le due principali novità della poesia ungarettiana, la frantumazione metrica e la parola «nuda» (r. 23)? 3. Perché Mengaldo, citando «M’illumino / d’immenso», parla di testo famigerato? Che cosa vuol dire? 4. Nell’analisi delle novità del linguaggio poetico di Ungaretti, il critico sottolinea alcuni procedimenti formali che hanno caratterizzato l’affermarsi della poesia moderna a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Discuti tale giudizio in base alle tue conoscenze di studio e letture personali, riferendoti ad autori e testi che conosci. Illustra le tue riflessioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 99


Giuseppe Ungaretti

T1

EDUCAZIONE CIVICA

In memoria

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

L’allegria G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

ANALISI INTERATTIVA

La prima lirica del Porto sepolto (1916) è dedicata al commosso ricordo di Moammed Sceab, amico fraterno di Ungaretti ad Alessandria d’Egitto, emigrato, come il poeta, a Parigi e morto suicida nell’estate del 1913. Tema centrale è il fallimento della ricerca di identità da parte di Moammed, che lo indusse al suicidio. IN MEMORIA Locvizza il 30 settembre 1916

Si chiamava Moammed Sceab Discendente di emiri1 di nomadi 5 suicida perché non aveva più Patria Amò la Francia e mutò nome Fu Marcel2 ma non era Francese e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi 15 dove si ascolta la cantilena3 del Corano gustando un caffè 10

L’ho accompagnato5 insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo 25 a Parigi dal numero 5 della rue des Carmes6 appassito vicolo7 in discesa Riposa nel camposanto d’Ivry8 30 sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera9 35

E forse io solo so ancora che visse

E non sapeva sciogliere 20 il canto del suo abbandono4

La metrica Versi liberi. 1 emiri: principi arabi. 2 Marcel: Moammed scelse di cambiare nome in quello francese di Marcel. 3 cantilena: lettura monotona e musicale. 4 sciogliere… abbandono: esprimere il senso di isolamento tramite la poesia (il canto).

5 L’ho accompagnato: nel corteo funebre. 6 rue des Carmes: via del quartiere Latino, vicino alla Sorbona, dove aveva vissuto anche Ungaretti. 7 appassito vicolo: la metafora affidata all’aggettivo vuole indicare che la via in cui vivevano era triste e trascurata. 8 nel camposanto d’Ivry: in un quartiere a sud di Parigi.

100 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

9 sobborgo… fiera: il disordine e forse la poca pulizia del sobborgo, danno sempre l’impressione che sia terminata (decomposta) da poco una festa di paese, un mercato (fiera). Ma il participio decomposta suggerisce in modo quasi espressionista un’immagine di disfacimento e di morte.


Analisi del testo Il dramma dello sradicamento Il giovane libanese Moammed Sceab, compagno di scuola di Ungaretti ad Alessandria, aveva cercato a Parigi una nuova patria, senza poterla trovare realmente. Nonostante i suoi tentativi di integrarsi, che lo avevano indotto perfino a mutare il nome in Marcel, era rimasto come sospeso tra la propria origine, ormai rifiutata («non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi») e la nuova condizione («non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono»). Il suo suicidio è dovuto dunque allo sradicamento culturale e a una crisi di identità («suicida / perché non aveva più / Patria»), che segnano anche la vita di Ungaretti: nato in un paese lontano dalle tradizioni della sua famiglia, con un’educazione europea e anch’egli emigrato in Francia nel 1912. Sceab è dunque anche una sorta di alter ego del poeta e il suo tragico destino assume un significato simbolico. Scrive Ungaretti nel 1963: «In memoria […] è il simbolo d’una crisi delle società e degli individui che ancora perdura, derivata dall’incontro e scontro di civiltà diverse e dall’urto e conseguenti sconvolgimenti tra le tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell’umanità» (Ungaretti commenta Ungaretti).

Il potere salvifico della poesia Se in Sceab si proietta lo stesso Ungaretti, al contempo il poeta se ne distacca: rispetto allo sfortunato amico egli ha potuto contare sulla capacità di “sciogliere in canto” le sue esperienze esistenziali dolorose, il suo essere a sua volta nomade: in controluce si legge nel testo un’esaltazione del potere consolatorio e salvifico della poesia che non è stato concesso a Sceab.

L’importanza della memoria In memoria è una formula ricorrente posta sopra ai sepolcri col significato di “per ricordare”: il poeta avverte così il lettore, già dal titolo, che si tratta del ricordo di una persona morta. Ma dalla lettura della poesia emerge che non c’è chi ricordi il giovane Sceab tranne il poeta («forse io solo / so ancora / che visse»). La poesia assolve dunque primariamente alla funzione di testimoniare l’importanza di una singola vita che altrimenti sarebbe dimenticata e di custodire il legame del poeta con il proprio passato, che Sceab è qui chiamato a rappresentare. È un tema, quello della memoria, costante nella produzione poetica di Ungaretti (si veda anche San Martino del Carso) e che assumerà ancora maggiore rilevanza nelle raccolte successive; creando un legame tra presente e passato, la memoria permette di dare un senso alle esperienze umane: «Non si può nulla cogliere – scriverà il poeta –, se non sotto forma di ricordo poetico, come se la morte sola fosse capace di dare forma e senso a ciò che fu vissuto. […] La memoria trae dall’abisso il ricordo per restituirgli presenza, per rivelare al poeta se stesso».

Lo stile Fin da questa prima lirica possiamo vedere attuate, anche se in modo non radicale, le caratteristiche stilistiche che ritroveremo in tutta la raccolta: distruzione della metrica tradizionale, assenza di punteggiatura, versi frantumati, sintassi elementare (ma qui vi sono alcune subordinate), parola isolata nel versicolo, spazi bianchi. Da notare l’uso insistito della negazione (non aveva / più Patria; non era Francese; non sapeva; non sapeva) nella descrizione dell’amico, a sottolinearne la solitudine e l’incapacità di vivere, e l’uso di alcuni aggettivi intensamente evocativi come appassito e decomposta, attribuiti rispettivamente al luogo dove Moammed viveva ed è morto e alla zona in periferia dove si trova il cimitero in cui è sepolto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A che cosa è dovuta la crisi di identità che ha causato il suicidio di Sceab? 2. In che senso si può asserire che Sceab è un alter ego di Ungaretti? Che cosa invece li distingue? 3. Quale ruolo si attribuisce il poeta nei confronti dell’amico morto? ANALISI 4. Indica le espressioni che alludono alla crisi d’identità di Sceab. 5. Quali connotazioni sono attribuite allo spazio parigino? Individua e cita le espressioni che ti sembrano significative per definirlo. 6. Quale ruolo si attribuisce il poeta nei confronti dell’amico morto?

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 101


LESSICO 7. In alcuni casi il verso è costituito da una sola parola: ti sembra che si tratti di parole-chiave del testo? Motiva adeguatamente la tua risposta.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Confronta la poesia di Ungaretti con la lirica Il poeta scritta dal poeta tedesco Rainer Maria Rilke nella quale risulta centrale il tema dello sradicamento.

Ora che batti, da me t’allontani1. Apri in me piaghe con la tua ala2. Ma che farò io di questa mia bocca? O del mio giorno? della mia notte? 5

Io non ho amata, non ho dimora, non ho, per vivere, un luogo certo. Ed ogni cosa a cui mi dono diventa ricca e mi spende3

1 da me t’allontani: è l’ispirazione che sfugge. 2 Apri in me... ala: l’ispirazione poetica, allontanandosi metaforicamente in volo, infligge al poeta ferite (piaghe) dolorose. 3 ogni cosa... mi spende: ogni cosa a cui io offro una parte di me stesso si arricchisce e nello stesso tempo mi consuma.

SCRITTURA 9. La figura di Moammed Sceab è, per Ungaretti, un simbolo della crisi di identità di un immigrato, al pari del poeta, che è stato costretto ad abbandonare la propria terra d’origine, per ricostruirsi una nuova vita in un paese straniero. La poesia riflette sulle radici culturali e identitarie di Sceab, la cui crisi trova una conclusione drammatica. Nella società contemporanea il tema dell’immigrazione è molto dibattuto: rifletti sulle ragioni che spingono i migranti a cercare fortuna in paesi diversi dai propri e individua quali sono i maggiori ostacoli che incontrano, sia da un punto di vista economico-politico, sia a livello culturale. Scrivi quindi un breve testo espositivo-argomentativo, tra le 15 e le 20 righe, in cui argomenti la tua opinione sul tema: quali condizioni possono prevedere una integrazione?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

Giuseppe Ungaretti

T2

Il porto sepolto L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

È la poesia che dà il titolo alla prima raccolta di Ungaretti – poi inserita nell’Allegria – e contiene un nucleo di poetica cui il poeta rimarrà sempre fedele: c’è un “segreto” nelle cose che non sarà mai possibile sciogliere completamente, ma è compito del poeta immergervisi sempre più a fondo e restituire agli altri quel nulla, quella minimale verità che arriva a conoscere.

IL PORTO SEPOLTO Mariano il 29 giugno 1916 Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde1 Di questa poesia 5 mi resta quel nulla d’inesauribile segreto

102 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

La metrica Versi liberi. 1 disperde: diffonde.


Analisi del testo Una dichiarazione di poetica L’immagine del porto sepolto – come ha spiegato lo stesso Ungaretti – nasce da un’occasione biografica precisa: la scoperta archeologica di un antichissimo porto sommerso di fronte ad Alessandria d’Egitto, di cui aveva sentito parlare nella sua giovinezza dai fratelli Thuile, due colti ingegneri che allora frequentava. L’immagine del porto sommerso rimase profondamente impressa nel suo immaginario, così da diventare simbolo «di ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile». La lirica costituisce un’importante dichiarazione di poetica, resa attraverso un’immagine metaforica: la discesa del poeta nelle profondità marine alla ricerca di quel luogo mitico rappresenta lo scavo nella propria interiorità più profonda e misteriosa fino ad attingere, per mezzo dell’intuizione poetica, ciò che di nascosto, irriducibile, ineffabile si trova al fondo dell’animo umano: «quel nulla / d’inesauribile segreto».

La testimonianza del poeta La concezione della poesia come “scoperta”, “illuminazione”, esperienza eccezionale che porta a cogliere l’essenza del reale, accomuna Ungaretti ai poeti simbolisti (➜ V3A C9); e del resto anche l’immagine del viaggio verso luoghi misteriosi come metafora dell’avventura poetica è frequente nella poesia francese, dal Rimbaud del Battello ebbro al Mallarmé di Brezza marina. Ma, a differenza dei poeti simbolisti, il poeta italiano non tiene poi solo per sé la conoscenza acquisita: riemerge, torna alla luce del sole per diffondere (disperde) tra gli uomini la “rivelazione”, che si fa canto poetico. Per Ungaretti infatti la poesia ha sempre anche un valore testimoniale, comporta una missione da compiere nel mondo e tra gli uomini.

Il faro di Alessandria, in una ricostruzione basata su uno studio archeologico del 1905.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il nesso fra titolo e componimento. ANALISI 2. A cosa si riferisce letteralmente il pronome Vi che apre la lirica? E sul piano metaforico? STILE 3. Rifletti sui particolari effetti ottenuti da questi espedienti stilistici: a. assenza di punteggiatura b. uso degli enjambements c. spazio bianco tra le strofe.

Interpretare

SCRITTURA 4. L’azione di discesa e risalita affidata ai verbi nei versi (vv. 1-3) rappresenta in questa breve lirica la concezione della poesia di Ungaretti: spiegala in un breve commento. TESTI A CONFRONTO 5. Confronta la visione di poesia qui espressa con l’immagine del poeta “veggente”, “ladro di ignoto” di Rimbaud (➜ V3A C9 D1 ): quali le analogie, quali le differenze?

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 103


Giuseppe Ungaretti

T3

Veglia L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

In questa celebre lirica di Ungaretti il tema della guerra domina attraverso immagini di violenza e di morte, a cui il poeta contrappone però il suo amore insopprimibile per la vita.

VEGLIA Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato 5 con la sua bocca digrignata1 volta al plenilunio con la congestione delle sue mani2 10 penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato 15 tanto attaccato alla vita La metrica Versi liberi. 1 digrignata: contratta in una smorfia. 2 con la congestione... mani: l’irrigidimento delle mani rappresenta un ulteriore segno della morte.

Analisi del testo La morte in trincea Veglia prende spunto dalla realtà drammatica vissuta da chi combatte in prima linea. In questa lirica il poeta rappresenta l’esperienza di una notte interminabile (Un’intera nottata) trascorsa vicino al cadavere di un compagno, i cui segni di morte sono espressi da participi passati con valore aggettivale, dalla forte valenza espressionistica: massacrato, digrignata; la deformazione del volto del soldato morto allude a una realtà a sua volta stravolta, in cui sembra venir meno ogni possibilità di rintracciare un senso all’accadere. La potenza tragica della scena è accentuata dalla scansione del testo in brevi versi (i cosiddetti versicoli), procedimento che dà rilievo ai singoli termini enfatizzandone la valenza significante; anche la ricorrenza di suoni aspri (il fonema t) sottolinea l’orrore della scena; nella prima strofa (Un’intera nottata) l’insistenza sulla dentale determina una lettura scandita coerente con lo spettacolo altamente drammatico.

104 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


L’amore per la vita La reazione del poeta, che di fronte allo spettacolo della morte scrive «lettere piene d’amore», esprime il significato consolatorio e vitale della scrittura che lo sostiene evitandogli di farsi travolgere dalla tragica immagine della morte. Alla lunga strofa segue una pausa di silenzio segnalata dallo spazio bianco che prepara la seconda parte del testo, risolta in tre versi essenziali: l’esperienza ravvicinata della morte, che normalmente genera disperazione, suscita per contrasto nel poeta l’attaccamento alla vita. E in sintonia con il rinnovato sentimento verso la vita, nella strofa finale prevalgono suoni dolci. A proposito della raccolta di cui la poesia fa parte, Ungaretti ha scritto: «c’è esaltazione nel Porto sepolto, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Scrivi la parafrasi della lirica, ricostruendo l’ordine sintattico e inserendo la punteggiatura adeguata. COMPRENSIONE 2. L’autore si trova in un determinato spazio e in un drammatico contesto: quali sono? ANALISI 3. Quale duplice significato puoi attribuire al titolo della lirica, Veglia? TECNICA NARRATIVA 4. La data e l’indicazione del luogo in cui la poesia di Ungaretti è stata scritta richiamano le caratteristiche tipiche della scrittura diaristica: ti sembra che altri aspetti stilistici del testo corrispondano ai procedimenti propri del diario? Perché a tuo avviso il poeta sceglie questa modalità espressiva? LESSICO 5. Quali termini e quali espressioni rivelano l’orrore della guerra provato dall’autore?

Interpretare

SCRITTURA 6. In questa poesia il poeta contrappone la morte e la vita con un forte contrasto: descrivi per quale reazione il poeta avverte un attaccamento alla vita.

Una trincea della Prima guerra mondiale.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 105


Giuseppe Ungaretti

T4

Fratelli L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Nel dicembre del 1915 Ungaretti entra a far parte del 19° reggimento di fanteria della brigata Brescia, di stanza nelle trincee del Carso, come soldato semplice. Un anno dopo il reggimento si ritrova con solo 700 dei suoi iniziali 3000 uomini. Ricordando la sua esperienza di guerra il poeta scriverà: «si mandava della gente semplicemente a farsi sterminare. Il mio reggimento è stato ricostruito centinaia di volte. Tutte le volte che si attaccava, quando si ritornava giù bisognava rifarlo da capo» (Ungaretti commenta Ungaretti, 1963). È all’interno di questo drammatico contesto che nasce una poesia come questa in cui il poeta immagina che due reggimenti si incontrino nel cuore della notte e che gli uomini che ne fanno parte si riconoscano fratelli.

FRATELLI Mariano il 15 luglio 1916 Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante1 nella notte 5

Foglia appena nata Nell’aria spasimante2 involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità

10

Fratelli

La metrica Versi liberi. 1 tremante: non lo è la parola, ma lo è la voce che la pronuncia nel buio della notte, nella paura e nell’ansia.

2 aria spasimante: come se partecipasse alla sofferenza, allo “spasimo” della guerra, come se l’aria stessa fosse in pena; si noti la rima ricca tremante: spasimante.

Analisi del testo Il tema della fratellanza Nella violenza della guerra, con la presenza sempre incombente della morte, l’uomo prende coscienza della propria debolezza e fragilità e giunge allora a sentire più forte il senso del legame con gli altri uomini.

Una costruzione elaborata Questa celebre lirica, composta nel 1916, in seguito è stata sottoposta da Ungaretti a un complesso lavoro correttorio, volto a raggiungere, nel tempo, una sempre maggiore essenzialità. La versione che leggiamo è del 1942 e risale al periodo in cui una nuova, terribile guerra, sconvolgeva il mondo. Ungaretti riesce a comunicarci un messaggio pregnante con pochissime parole (solo 24 rispetto alle 31 originarie) e attraverso scelte strutturali e stilistiche particolarmente efficaci.

La struttura e le scelte stilistiche La poesia ha una struttura circolare: si apre (considerando il titolo come parte integrante di essa) e si chiude con la stessa parola, fratelli (ripetuta anche al v. 2 sempre isolata a costituire un solo verso). In questo modo il poeta pone in primo piano il tema centrale del testo, ovvero il sentimento di fratellanza che unisce i soldati in guerra. Nella poesia questo tema è

106 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


strettamente intrecciato al tema della precarietà della vita, evocato direttamente nella parola isolata fragilità del penultimo verso e, in modo allusivo, dalla metafora della «Foglia appena nata». In mancanza di legami sintattici, sono i richiami fonici a collegare tra loro le immagini: richiami evidenti sono istituiti in particolare tra le parole fratelli, foglia e fragilità, ma anche nella fortissima rispondenza tra i due termini quasi opposti involontaria e rivolta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rapporto stabilisce il poeta tra fratellanza e precarietà della vita? ANALISI 2. Valuta il diverso effetto che produce l’isolamento del termine fratelli come titolo della poesia e come parola finale. STILE 3. Identifica, trascrivi e spiega le tre immagini che si collegano per analogia alla parola chiave fratelli. 4. Individua le allitterazioni e valutane il significato.

Interpretare

SCRITTURA 5. Dalla lirica emerge la ricerca dell’essenzialità estrema che caratterizza la poesia del primo Ungaretti. Con l’intento di aggiungere piuttosto che togliere, prova a riscrivere sotto forma di racconto breve la lirica e ricostruisci l’episodio di guerra che l’ha ispirata.

Giuseppe Ungaretti

T5

Sono una creatura L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Quella che ora presentiamo è una delle poesie più desolate e pessimistiche di Ungaretti: nel giugno del 1916 i soldati italiani subirono un violento attacco, in cui vennero impiegate crudeli armi chimiche. Il poeta fa riferimento alla desolazione e alla strage che ne seguirono, riconoscendone una somiglianza con l’arida roccia carsica, simbolo di durezza e asperità.

SONO UNA CREATURA Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916 Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura 5 così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata

10

Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo

La metrica Versi liberi.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 107


Analisi del testo Il tema della “pietrificazione” Scrivendo all’amico Giovanni Papini all’inizio di luglio 1916, Ungaretti nomina il monte San Michele, sul Carso, bruciato dai gas, dove si sta combattendo e aggiunge una notazione che può servire da introduzione alla poesia: «Pensavo: non ci sono più foglie sul monte, né cicale, né grilli; e c’è rimasta la mia morte viva». La lirica si fonda sul paragone tra la pietra del monte San Michele sul Carso – un territorio arido, formato da rocce calcaree permeabili all’acqua – e la condizione interiore del poeta, rappresentata da un pianto che non può più esprimersi, raggelato dall’orrore della guerra. Una guerra di posizione e di logoramento, per cui i soldati trascorrevano intere giornate in trincea, dalle cui feritoie si vedeva la “terra di nessuno”, cosparsa di rottami e dove i corpi dei soldati morti potevano rimanere per giorni (➜ T3 ). La condizione disumana in cui i soldati vivono riduce l’uomo a “creatura”, ovvero a natura primordiale, che si esprime in bisogni fisici elementari, e annulla la dimensione affettiva e spirituale, che sola conferisce a un essere umano la sua specifica individualità. Il poeta-soldato condivide questa condizione e se ne fa qui interprete e insieme simbolo: il titolo suggestivo e che potrebbe apparire oscuro, Sono una creatura, è perciò di fondamentale importanza per la comprensione della lirica, rappresenta una premessa alla “pietrificazione”, che ne è il tema centrale: in una condizione di disumanità il pianto, simbolo della sofferenza, manifestazione della richiesta di partecipazione umana, non può più esprimersi («non si vede»): ancor più che paragonato alla pietra “ è pietra”, corrispettivo oggettivo dell’aridità interiore.

La struttura e le scelte stilistiche La poesia, breve ed essenziale come la maggior parte delle liriche in questa raccolta, è composta da tre strofe di versi liberi, progressivamente scarnificati fino ad essere costituiti nell’ultima strofa da una sola parola: «La morte / si sconta / vivendo». Le prime due strofe sono costituite da un paragone e risultano quindi concettualmente legate, nonostante che lo spazio bianco le separi visivamente: nella prima, più lunga e sospesa (manca innanzitutto il verbo) è anticipato il secondo termine di paragone («Come questa pietra»), cui segue una sequenza di aggettivi e participi che qualificano la pietra, scanditi con ritmo martellante dall’anafora di così. Aggettivi e participi sono disposti in climax: i primi due (fredda... dura) richiamano una percezione tattile, le altre tre espressioni introducono più espressamente la connotazione dell’aridità (prosciugata), dell’assenza di vita (refrattaria: propriamente “resistente al caldo e al freddo”, ma anche “insensibile”), su cui si incentra poi il paragone con la condizione interiore del poeta (disanimata “senza vita); questo è il termine più forte, enfatizzato dall’enjambement che lo separa dall’avverbio totalmente. Solo nella seconda strofa, aperta dalla ripresa del primo verso, il poeta introduce il verbo reggente: un semplice è, cui segue il primo termine di paragone (il mio pianto). La chiusa, lapidaria, contiene una sorta di dolorosa sentenza: «la morte / si sconta / vivendo». Il significato più plausibile, anche se non si possono escludere altre possibili interpretazioni, è l’amara constatazione che l’approdo alla morte rappresenta per il poeta (per ogni uomo) una liberazione, e che le sofferenze del vivere sono il prezzo che si paga per giungere alla morte.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Svolgi la parafrasi della poesia. COMPRENSIONE 2. Che cosa accomuna la condizione interiore del poeta alla pietra del Carso? ANALISI 3. Quale funzione svolge il titolo della poesia? 4. Come si lega la conclusione al resto del testo? STILE 5. Individua le assonanze, le consonanze e le allitterazioni nel testo. Quale particolare funzione assume in questa lirica l’utilizzo della similitudine al posto della metafora?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta questa poesia con la lirica Fratelli (➜ T4 ) e con Veglia (➜ T3 ): quali analogie e quali differenze trovi nella rappresentazione dello stato d’animo del poeta di fronte alla guerra?

108 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Giuseppe Ungaretti

T6

I fiumi L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

In questa poesia, tra le più celebri di Ungaretti, il poeta ricapitola la sua esperienza di vita e conoscitiva, dalla prima giovinezza al momento in cui, ventottenne, è soldato sul fronte del Carso, dove scrive il testo. In una pausa dell’azione di guerra, il poeta ristora il proprio corpo bagnandosi nel fiume Isonzo.

I FIUMI Cotici il 16 agosto 1916

online

Audio Ungaretti legge I fiumi

Mi tengo a quest’albero mutilato1 abbandonato in questa dolina2 che ha il languore di un circo 5 prima o dopo lo spettacolo3 e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna4

10

Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato5

L’Isonzo scorrendo mi levigava 15 come un suo sasso Ho tirato su le mie quattr’ossa e me ne sono andato come un acrobata 20 sull’acqua6 Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra

La metrica Versi liberi. 1 quest’albero mutilato: normalmente attribuito ai feriti che hanno perso un arto, l’aggettivo rimanda alla condizione vissuta dai soldati durante la guerra e che sembra coinvolgere anche la natura. 2 dolina: depressione di forma circolare tipica delle regioni carsiche, creata dall’acqua che scorre sulla roccia calcarea.

3 che ha… spettacolo: abbandonarsi nella conca della dolina provoca al poeta un sentimento di spossatezza, di vuoto, e malinconia (languore), simile a quello suggerito dalla visione dell’arena vuota di un circo prima o dopo il momento dello spettacolo. 4 guardo… luna: la contemplazione delle nuvole che passano allontana l’animo del poeta dalla brutalità della guerra e lo porta a ripercorrere le epoche della sua vita.

5 Stamani… ho riposato: il poeta immagina il suo corpo come una reliquia, e per questo la pozza d’acqua del fiume diventa un’urna, cioè il vaso destinato ad accogliere le ceneri di un defunto o il prezioso contenitore delle reliquie di un santo. 6 me ne sono andato… sull’acqua: camminare sui sassi del fiume porta a fare movimenti alla ricerca dell’equilibrio, simili a quelli di un acrobata che cammina sul filo.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 109


e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole7 Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto 30 una docile fibra dell’universo8 Il mio supplizio è quando non mi credo 35 in armonia 25

Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano 40 la rara felicità9 Ho ripassato le epoche della mia vita10 45

Questi sono i miei fiumi

Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse 50 di gente mia campagnola e mio padre e mia madre Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere 55 e ardere d’inconsapevolezza11 nelle estese pianure

7 come un beduino… il sole: scrive in una nota Ungaretti: «La preghiera islamica è accompagnata da molti inchini come se l’orante accogliesse un ospite». La figura del nomade (oltre a richiamare fin d’ora il periodo trascorso in Egitto, nel suo chinarsi «a ricevere il sole») rappresenta un’adesione elementare e spontanea alla vita, che sarà definita dalle parole della strofa seguente come sentirsi «una docile fibra dell’universo».

8 mi sono riconosciuto… dell’universo: il poeta si è sentito parte di un tutto, una particella nell’immensità, come una fibra è un frammento costitutivo di un tessuto; l’aggettivo docile indica l’abbandonarsi a questa sensazione senza fare resistenza. 9 quelle occulte… rara felicità: le mani misteriose dalla natura che lo permeano, lo impregnano di una linfa che gli dona una momentanea serenità. La metafora si

110 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

riferisce all’acqua dell’Isonzo che scorre sul corpo del poeta (intridere, “impregnare d’acqua”). 10 Ho ripassato… vita: sentendosi in accordo con la natura, il poeta ripercorre con la memoria il proprio passato. 11 nascere… d’inconsapevolezza: il momento della giovinezza è quello della passione (ardere) e nello stesso tempo di una non ancora completa consapevolezza di sé.


Questa è la Senna e in quel suo torbido12 mi sono rimescolato 60 e mi sono conosciuto13 Questi sono i miei fiumi contati14 nell’Isonzo Questa è la mia nostalgia che in ognuno 65 mi traspare ora ch’è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre15

12 torbido: allude all’acqua del fiume e alla complessa vita parigina.

13 mi sono rimescolato… conosciuto: «È Parigi che incomincia a darmi, prima di quella più compiuta che mi darà la guerra, più chiara conoscenza di me stesso [...]» (nota dell’autore). 14 contati: rievocati ed enumerati. 15 Questa è… di tenebre: l’espressione fortemente analogica non può essere riportata pienamente a un discorso logico; l’immagine che definisce la vita del poeta in questo momento è composta da due elementi che paiono in contrasto: la corolla per sineddoche indica un fiore e può evocarne la bellezza, la vitalità naturale e nello stesso tempo la fragilità; le tenebre riportano all’oscurità della notte e ai timori della guerra. L’immagine offre al lettore un insieme di «possibilità affascinanti e ancora misteriose» (G. Raboni); in ognuno: sott. “di questi fiumi”.

Analisi del testo La conquista dell’armonia e la scoperta della propria identità Due sono i motivi di fondo della poesia: la riconquista di un senso di armonia, che le esperienze dolorose della vita hanno infranto e il recupero consapevole della propria storia personale. Il testo ha un andamento narrativo ed è strutturato in una successione di azioni (Mi tengo..., e guardo..., Mi sono disteso..., Mi sono accoccolato..., Ho ripassato...), a cui segue la presa di coscienza che costituisce il nucleo tematico della lirica. Nella parte iniziale il poeta descrive la sua condizione partendo da un dato concreto e contingente: il poeta-soldato sta riposando presso una dolina carsica e il suo stato d’animo sembra quello di chi gode di una pausa temporanea dalla battaglia. “Disteso nel letto” del fiume Isonzo, egli si sente come una reliquia o come uno dei sassi levigati dall’acqua del fiume: due paragoni entrambi allusivi a una condizione di passività, di abbandono, in cui egli rinuncia a controllare le emozioni, che possono così fluire liberamente. Il contatto con la natura, rappresentata dall’acqua del fiume che scorre su di lui, gli dona un’inaspettata serenità: le lacerazioni interiori provocate dalla guerra (e non solo da essa) momentaneamente si placano ed egli può riconoscere, in una sorta di “rivelazione”, nel “fiume del presente” altri fiumi che sono chiamati a rappresentare simbolicamente le tappe più importanti della sua vita («Ho ripassato / le epoche / della mia vita», vv. 42-44): l’origine contadina della sua famiglia (il Serchio), gli anni ardenti della prima giovinezza ad Alessandria (il Nilo), quelli dell’inquietudine intellettuale e della conoscenza di sé (la Senna). È come se una serie di singole immagini, separate una dall’altra, si mettessero finalmente in fila a formare una storia, si inscrivessero in un percorso di vita. Ungaretti parla dei Fiumi come del «vero momento nel quale la mia poesia prende insieme a me una chiara coscienza di sé».

Il simbolismo dell’acqua Fondamentale, nell’itinerario interiore descritto dalla lirica, è il ruolo dell’acqua del fiume in cui il poeta-soldato si immerge. La critica ha rilevato la funzione centrale che la figurazione dell’acqua esercita nell’immaginario ungarettiano: all’acqua è associata sempre una simbologia positiva, una connotazione di rifugio, protezione (in contrapposizione al “deserto”, all’“aridità”). Qui l’immersione nelle acque dell’Isonzo assume un valore sacrale, richiamando la simbologia del battesimo cristiano: anche qui c’è una specie di rito iniziatico che comporta il passaggio dalla morte spirituale (cui alludono i termini reliquia e urna) alla rinascita, grazie all’azione purificatrice e consolante dell’acqua: una rinascita che si traduce nella riconquista, attraverso il ricordo, di un’identità di uomo e di poeta che era stata disgregata e smarrita. Non solo con la propria storia personale il poeta si riconcilia, ma anche con il mondo, con la natura, con il Tutto, di cui sente, con gioia e umiltà, di far parte («e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra / dell’universo»).

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 111


Tra presente e passato Non può non colpire nella poesia l’uso insistito del deittico questo ripetuto anaforicamente all’inizio di ben sette strofe. All’inizio della lirica il riferimento al dimostrativo “questo” ha la funzione di inscrivere con immediata evidenza l’esperienza vissuta dal poeta in un preciso contesto, storico e anche geografico (il fronte di guerra sul Carso): l’albero è mutilato, l’io lirico si trova in una dolina; più complesso è l’uso dei deittici nel cuore della poesia. Dopo il riferimento all’Isonzo, il fiume che scorre dove si svolge la guerra «Questo è l’Isonzo», il poeta fa inaspettatamente riferimento all’acqua del fiume con il dimostrativo quelle, che implica la lontananza da chi parla («quelle occulte / mani»). La realtà circoscritta, in questo caso il fiume Isonzo, sfuma, si allontana, per lasciare posto al viaggio nell’interiorità, alla “ricerca del tempo perduto”. “Vicini” diventano allora i fiumi del passato: «Questo è il Serchio», «Questo è il Nilo», «Questa è la Senna».

Il potere evocativo delle immagini Un altro elemento significativo è l’uso insistito di similitudini e analogie che si susseguono rapidamente nel corso della poesia: l’immagine della dolina è associata a quella dell’arena vuota di un circo, il fiume in cui il poeta si bagna diventa un’urna, il poeta che si alza e cammina nell’acqua è un acrobata (che rimanda per analogia all’immagine iniziale del circo) e quando accoglie il sole accovacciato a terra è un beduino (anticipazione del successivo ricordo del Nilo). Seguono le espressioni fortemente analogiche «fibra dell’universo», «occulte mani», fino ad arrivare all’immagine enigmatica ed estremamente evocativa dell’ultima strofa: «la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare fiume

COMPRENSIONE 1. Spiega il senso del titolo della poesia: I fiumi. 2. Completa la tabella indicando i fiumi evocati nel testo e la loro funzione simbolica. versi

stagione della vita del poeta

cosa rappresenta nella vita del poeta?

funzione simbolica

Isonzo Serchio Nilo Senna 3. Il poeta evoca un momento della giornata, la mattina, al quale ripensa durante un’altra fase del giorno: quale? ANALISI 4. La lirica ha un andamento narrativo: presenta sinteticamente i vari momenti che si susseguono nella poesia dando un titoletto sintetico ad ognuno di essi. LESSICO 5. Quale significato attribuisci all’espressione «essere in armonia»? 6. Rintraccia nel testo i termini e le espressioni che rimandano alla sfera del sacro; spiega perché a proposito di questa lirica si è parlato di una dimensione di religiosa solennità. STILE 7. La strofa finale riconduce circolarmente il testo alla situazione iniziale, ma è più accentuata la dimensione pessimistica: da quale immagine lo deduci? 8. Individua le similitudini e le metafore con le quali il poeta allude a se stesso e spiegane il senso.

Interpretare

SCRITTURA 9. Ungaretti affermò che non avrebbe avuto parola senza l’esperienza di Parigi, e non avrebbe avuto parola originale senza l’esperienza dell’Isonzo (cioè senza l’esperienza della guerra): spiega questa importante asserzione dello scrittore facendo riferimento al contenuto della poesia I fiumi. TESTI A CONFRONTO 10. L’immersione nelle acque del fiume porta l’io poetico a dissolversi nel Tutto, a percepire la sua comunione con la natura. Istituisci un confronto con il panismo dannunziano, facendo riferimento in particolare al testo Meriggio (➜ V3A C11 T15c ).

112 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Collabora all’analisi

T7

Giuseppe Ungaretti

San Martino del Carso L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Il paese di San Martino del Carso, a sud del Monte San Michele, è stato devastato dalla guerra. In modo sintetico ma proprio per questo incisivo, il poeta esprime la sua pena di fronte alla distruzione di un luogo dove c’era la vita in tempo di pace e lo strazio per la morte di tanti compagni.

SAN MARTINO DEL CARSO Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro 5

Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto

Ma nel cuore 10 nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato La metrica Versi liberi.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

La lirica prende spunto dall’aspetto desolato di un piccolo paese distrutto dalla guerra, San Martino, presso il Monte San Michele, teatro di sanguinose battaglie (Sono una creatura ➜ T5 ), ma il significato del testo non si esaurisce certo nella descrizione di un paesaggio. Il poeta istituisce una corrispondenza, ma anche una significativa differenza, tra il paese e i molti amici che ha perduto in guerra. Ognuno di loro ha però un posto nel suo cuore. 1. Nella comune distruzione operata dalla brutalità della guerra, che cosa differenzia le case del paese e gli amici del poeta caduti? Indica le corrispondenze poste dal poeta e interpretane il senso. . Di queste case ............................................................................................................................................................................... . (qualche) / brandello di muro ............................................................................................................................................... 2. Con quale espressione il poeta fa riferimento all’amicizia che lo legava ai compagni morti? 3. Quale funzione riveste l’avversativa «Ma...»? Come si lega a quanto precede? 4. Spiega l’espressione metaforica del v. 10 nessuna croce: quale associazione evoca? 5. Se dopo averla letta dovessi dare un nuovo titolo alla poesia che ne evidenzi il senso profondo, quale sceglieresti?

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 113


La lirica presenta una struttura particolarmente armonica, che si coglie già nella prima percezione visiva e che riguarda innanzitutto la divisione del testo in due blocchi di diversa ampiezza, ognuno dei quali è ulteriormente diviso in due strofe gemelle. Ci sono poi molti parallelismi, all’interno sia del primo sia del secondo blocco, che ne accentuano la compattezza: dalla ripetizione di versi e di singoli termini alle figure di suono, come in particolare l’assonanza. 6. Descrivi la struttura del testo. 7. Quali versi e quali parole vengono ripetuti e perché? 8. Indica gli elementi che a livello fonico creano una forte coesione tra gli elementi del testo (assonanze, quasi-rime) cercando di soffermarti sugli esempi che ti sembrano più significativi.

Interpretare

Nell’espressione «che mi corrispondevano» (v. 6) è possibile vedere un’eco dell’espressione «corrispondenza d’amorosi sensi» con cui Foscolo nei Sepolcri definisce il rapporto intenso che unisce i vivi ai morti e che consente a questi ultimi di vivere nel ricordo di chi li ha amati. Il senso profondo della lirica è del resto proprio il valore della memoria che sconfigge la morte, affermato nelle ultime due brevi strofe: un tema che ha avuto una splendida testimonianza nella lirica In memoria dedicata all’amico Moammed Sceab (➜ T1 ). 9. In rapporto a quanto ora si è detto, quali sono a tuo parere le parole chiave? 10. Che ruolo si attribuisce il poeta nei confronti degli amici scomparsi?

online T8 Giuseppe Ungaretti Italia L’allegria

Giuseppe Ungaretti

T9

Commiato L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

La lirica (il cui titolo originario era significativamente Poesia) nell’edizione del 1916 chiudeva la sezione Il porto sepolto e offre importanti spunti per comprendere la poetica di Ungaretti.

COMMIATO Locvizza il 2 ottobre 1916 Gentile Ettore Serra1 poesia è il mondo l’umanità 5 la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento2 La metrica Versi liberi. 1 Ettore Serra: nell’ultima lirica della raccolta Ungaretti si rivolge direttamente a Ettore Serra, l’ufficiale conosciuto al fronte, che patrocina, nel 1916, la pubbli-

cazione del Porto sepolto. «Parlare di Ettore Serra è un po’ parlare di me», scriverà vent’anni dopo. 2 la limpida… fermento: la poesia è il pro-

114 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti

dotto depurato e sorprendente (limpida meraviglia) di un processo come organico, che esprime l’esaltazione propria di un delirio.


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Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso

Analisi del testo Che cos’è la poesia per Ungaretti La lirica, composta da due brevi strofe, si apre con un’allocuzione all’amico Ettore Serra, che lega al concetto di poesia l’amicizia, la gentilezza, la sfera degli affetti. Segue una diretta definizione di poesia (poesia / è…), affidata semplicemente all’accostamento per asindeto dei termini mondo, umanità, propria vita. Nell’essenziale definizione emerge il forte ruolo che nella poesia di Ungaretti ha la componente della biografia (v. 5 «la propria vita», ripreso al penultimo verso da «nella mia vita»): altrove Ungaretti scrive che la sua unica ambizione è quella di lasciare attraverso i suoi versi la propria biografia, il che però non si traduce nel solipsismo chiuso e rinunciatario dei crepuscolari, ma si associa a uno sguardo aperto sul mondo, all’appassionata riflessione sui grandi temi dell’esistenza umana che si riverberano nella sfera individuale.

La magia della “parola” Dalla riflessione sulla poesia in generale il poeta passa nella seconda strofa a rappresentare il proprio specifico modo di essere poeta (è significativo l’uso dei possessivi «mio silenzio», «mia vita»); la poesia è identificata con la scoperta della “parola”: scoperta inaspettata, imprevedibile, miracolosa, frutto di uno scavo nell’abisso dell’io, ascoltato senza la mediazione di filtri letterari, e quindi sempre “unica”, capace di evocare una percezione, un’intuizione profonda. A legare le due strofe tra loro è proprio la ripetizione del termine parola (che nella seconda strofa è isolato e in posizione centrale). La parola poetica ha il potere di far “fiorire” la vita, di “ri-creare” la vita (dandole un significato), e nel miracolo dell’intuizione poetica si decantano e sublimano le inquiete, confuse passioni della vita («un delirante fermento»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Da dove nasce la poesia secondo Ungaretti? Che rapporto c’è tra poesia e vita? 2. Quali sono le parole chiave della poesia? ANALISI 3. Quale significato ha l’espressione analogica fioriti dalla parola? 4. C’è una contrapposizione fra le espressioni limpida meraviglia e delirante fermento: puoi spiegarla? LESSICO 5. Quali espressioni fanno capire che per Ungaretti la poesia è frutto di una ricerca? STILE 6. Quale parola chiave stabilisce un collegamento tra questa poesia e Il porto sepolto (➜ T2 )? Quale significato il poeta vi attribuisce?

Interpretare

SCRITTURA 7. «Ho sempre distinto tra vocabolo e parola e credo che la distinzione sia del Leopardi. Trovare una parola significa penetrare nel buio abissale di sé senza turbarne né riuscire a conoscerne il segreto». Alla luce dell’analisi svolta e delle tue conoscenze, commenta questa affermazione di Ungaretti e indica in uno scritto di circa 20 righe il valore che il poeta assegna alla parola poetica. Perché, e in che modo, i due poeti prestano particolare attenzione all’analisi della propria interiorità?

online T10 Giuseppe Ungaretti Segreto del poeta La terra promessa

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 115


Giuseppe Ungaretti

T11

Mattina L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

In questa famosissima lirica Ungaretti condensa in due brevissimi versi uno stato d’animo improvviso e indefinibile. Il luogo in cui la scrive si trova nelle retrovie delle trincee dove i soldati erano mandati temporaneamente a recuperare le forze dopo lunghi periodi di combattimento.

MATTINA Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917 M’illumino d’immenso

La metrica Due ternari.

Analisi del testo Un’intuizione folgorante Si tratta della lirica forse più nota dell’Allegria, composta appena da due ternari, il primo sdrucciolo e il secondo piano, oltre che dal titolo. Quest’ultimo fa parte integrante del testo, poiché riconduce l’esperienza vissuta dal poeta all’alba, al sorgere del giorno, presumibilmente dopo una notte di pericolo e di tensione. La luce del mattino evoca nel poeta il sentimento dell’immensità, che lo invade quasi in una folgorazione mistica. Si vede qui realizzata al massimo stadio l’idea di Ungaretti della poesia come illuminazione, rivelazione di una verità assoluta.

Parola e silenzio Può essere interessante cercare di analizzare un testo così breve, di sorprendente essenzialità, formato da due sole parole (precedute da una lettera apostrofata) isolate nello spazio bianco e accostate ricercando affinità foniche: la M iniziale del titolo è ripresa nel primo verso; le due parole illumino e immenso (entrambe precedute da una lettera apostrofata) iniziano con la i- e hanno in comune anche la presenza di una consonante doppia e della -o finale. L’allitterazione della m provoca una dilatazione dei due versi, così da evocare il dilagare della luce e insieme dello spazio. Nell’insistenza, qui particolarmente sapiente, data l’estrema brevità del testo, sulla sonorità delle parole e sulle pause, Ungaretti condensa decenni di sperimentalismo ed elaborazioni formali (soprattutto francesi) raffinate ed esclusive.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Identifica il tema della lirica e spiegalo in un breve testo. ANALISI 2. Rifletti sul significato assunto dalla luce dell’alba in questa lirica e spiega quale simbolo assume per il poeta, tenendo anche in considerazione il contesto in cui è stata composta e la concezione della poesia per Ungaretti. STILE 3. La brevissima lirica è di per sé una figura retorica: quale? 4. Analizza il livello fonico. Quale funzione svolge l’allitterazione?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Istituisci un confronto con la prima redazione della lirica che si intitolava Cielo e mare.

M’illumino d’immenso con un breve moto di sguardo

116 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Rifletti sul diverso titolo dato ed evidenzia analogie e differenze in una breve trattazione (max 20 righe) che prenda in considerazione le varianti apportate dall’autore al testo originario. SCRITTURA 6. Metti a confronto questa lirica con i celebri versi conclusivi dell’Infinito di Leopardi: «Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare». Rifletti sulle ragioni di questa ispirazione poetica: cosa lega Ungaretti al poeta recanatese? Quali altri legami è possibile ritrovare nel testo leopardiano?

Giuseppe Ungaretti

T12

Soldati L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Nel luglio 1918, l’ultimo anno di guerra, Ungaretti si trova sul fronte francese, il suo reggimento è accampato in un bosco vicino a Courton. Soldato tra i soldati, scrive questa lirica, fra le sue più celebri.

SOLDATI Bosco di Courton luglio 1918 Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie La metrica Versi liberi.

Analisi del testo La ricerca dell’essenzialità La poesia è basata sull’analogia tra la fragilità delle foglie nella stagione autunnale, che anche un lieve soffio di vento può staccare, e la precaria condizione dei soldati, che vivono sempre a contatto con la morte. Come nel testo precedente il poeta mira all’essenzialità dell’espressione (non c’è una sola parola in più di quelle necessarie) che concorre a dare pregnanza di senso e valore universale a un’osservazione in sé quasi banale.

Il tema della caducità dell’esistenza umana L’unico verbo del testo è si sta, enfatizzato dalla collocazione in incipit: un verbo al presente che rimanda alla stasi, al perdurare nel tempo di una condizione. La condizione suggerita dal verbo (“stabilità, continuità”) viene però totalmente smentita dal paragone che segue, che sottolinea, al contrario, la labilità, la precarietà. Il primo termine di paragone è collocato nel titolo (Soldati), in posizione simmetrica al secondo termine di paragone (foglie) che conclude la lirica. Se il luogo e la data di composizione, oltre che naturalmente il titolo, fanno inequivocabilmente riferimento alla guerra, il verbo impersonale si sta sembra porre l’affermazione fuori dalla contingenza storica: il poeta non allude solo a una condizione, a una circostanza precisa particolarmente drammatica (una scena di guerra), pur prendendo spunto da essa, ma anche alla precarietà che caratterizza l’esistenza di tutti gli uomini.

Un’immagine classica L’immagine delle foglie che in autunno cadono dal ramo per evocare la caducità della vita umana è un topos della letteratura classica, dal lirico greco Mimnermo a Omero (Il., VI, vv. 146-149: «Tal e quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini. / Le foglie il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera»; trad. di G. Cerri). Con diversa funzione l’immagine delle foglie che cadono numerose in autunno è utilizzata da Virgilio (Eneide, VI, vv. 309-310) e Dante (If, III, vv. 112-114).

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 117


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rilevanza ha il titolo per la lettura della lirica? ANALISI 2. Analizza la struttura metrica, le scelte lessicali e la struttura sintattica del breve componimento, quindi rispondi: quale rapporto si istituisce tra le scelte stilistiche e il tema trattato? 3. In un testo di 15-20 righe fai un confronto tra Fratelli (➜ T4 ) e Soldati, mettendo in luce analogie e differenze tra i due testi, ispirati entrambi alla drammatica condizione dei soldati in guerra.

PER APPROFONDIRE

Interpretare

SCRITTURA 4. Scrivi un tuo commento a questa poesia e spiega perché è possibile affermare che essa rappresenti una delle chiavi di lettura di tutta la poetica ungarettiana.

Una suggestione dall’Estremo Oriente? Alcuni critici, alla ricerca di fonti o suggestioni che abbiano contribuito alla formazione di un modo di fare versi così nuovo come quello del primo Ungaretti, l’hanno messo in relazione – oltre che con le avanguardie – con la pubblicazione delle prime traduzioni italiane di componimenti poetici giapponesi detti haiku. Si tratta di poesie composte da tre brevi versetti, di cinque o sette sillabe ciascuno, in cui il sentimento del poeta è rappresentato attraverso un’immagine naturale. Alcuni mesi prima della pubblicazione del Porto sepolto, sulla rivista napoletana «La Diana» di Gherardo Marone (gennaio 1915 - marzo 1917), in cui anche Ungaretti pubblicò dei versi, uscirono le prime traduzioni italiane di haiku. E lo stesso Marone – che l’anno successivo pubblicava un volume di Poesie giapponesi, accolto con interesse dagli scrittori italiani – sottolineò i punti di contatto con le poesie della prima raccolta di Ungaretti. Il poeta inizialmente non commentò l’osservazione, ma nel 1933, quando l’argomento fu riproposto da un altro critico, respingerà con veemenza l’idea di qualche influsso. Non si può negare che alcune poesie de Il porto sepolto ricordino gli esempi giapponesi, per l’estrema essenzialità, l’impor-

tanza delle pause di silenzio, l’oggettivazione dei sentimenti in immagini naturali. Si vedano due esempi di haiku di Yosa Buson (1716-1783), uno dei quattro più importanti poeti di questo genere.

Il pruno bianco ritorna secco. Notte di luna. Sento la neve persino frantumarsi – e com’è buio. Cit. da Haiku, Rizzoli, Milano 2001

Nonostante ciò, una diretta dipendenza delle liriche di Ungaretti dalla poesia giapponese è difficilmente dimostrabile e ci sembra di poter condividere l’affermazione del critico Andrea Cortellessa, che attribuisce questa somiglianza a una «stretta coincidenza di gusto».

Un dipinto giapponese accompagnato da un breve componimento poetico haiku.

118 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


T13

L’immagine del naufragio Presentiamo qui due liriche sul tema del naufragio, visto in entrambi i casi come un momento di passaggio.

Giuseppe Ungaretti

T13a

Allegria di naufragi L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Nella lirica Ungaretti reintepreta in modo personale la tradizionale metafora della vita dell’uomo come viaggio.

ALLEGRIA DI NAUFRAGI Versa il 14 febbraio 1917 E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio 5 un superstite lupo di mare

La metrica Versi liberi.

Analisi del testo L’ossimoro del titolo L’accostamento nel titolo di due parole che naturalmente tendono ad escludersi offre la chiave di lettura della poesia. Questa è costruita su un paragone il cui primo termine non viene esplicitato, anche se il lettore lo può immaginare (il poeta, o più in generale l’uomo): come un lupo di mare, sopravvissuto a un naufragio, riprende senza indugi a viaggiare, così l’uomo riprende il cammino dopo aver affrontato e superato le “tempeste” della vita. L’allusione del titolo all’allegria ci fa capire che la ripresa del viaggio avviene non in modo rassegnato o con paura, ma con una vitalità intatta, addirittura gioiosa, che sprona l’uomo a ritentare in ogni caso l’avventura della vita. A differenza di molte poesie composte sul fronte, qui Ungaretti non prende spunto dalla sua diretta esperienza, anche se essa è comunque sottesa alla poesia: l’uomo di cui si parla è lo stesso Ungaretti, e nella poesia si esprime la sua prepotente volontà di vivere, di riscattare il dolore, il dramma vissuto nella guerra, e forse anche, a livello storico, di superare la crisi di una generazione che aveva aderito entusiasticamente alla guerra. Ungaretti ritrae se stesso da un lato come «uomo di pena», ma dall’altro come uomo abituato a lottare.

Reminiscenza leopardiana? A proposito del titolo di questa sezione dell’Allegria, Naufragi, afferma Ungaretti: «Per questo titolo di Naufragi mi viene ora in mente un accostamento a cui fin qui non avevo pensato. Nell’Infinito di Giacomo Leopardi, lo sanno tutti, c’è un verso che dice: «e il naufragar m’è dolce in questo mare». È possibile, ci penso ora, è molto possibile che nel mio subcosciente il Leopardi e il suo Infinito fossero presenti quando improvvisamente il titolo di Naufragi mi veniva sulle labbra» (Ungaretti commenta Ungaretti).

Il topos del viaggio e l’immagine del naufragio La figura del «superstite / lupo di mare» non può non ricordare il viaggiatore per eccellenza, Ulisse, in particolare nell’interpretazione dantesca: scampato a mille pericoli, l’eroe riprende il mare per affrontare l’ignoto nel suo ultimo viaggio avventuroso, che terminerà con un tragico naufragio. Peraltro, il viaggio come simbolo dell’itinerario dell’esistenza è un motivo ricorrente nella letteratura, così come il naufragio: da Dante che, superato il pericolo della selva oscura e delle tre fiere, si paragona a un naufrago «uscito fuor del pelago a la riva» (If I 23), alla poesia simbolista.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 119


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato del titolo. 2. Quale valore ha l’utilizzo del futuro “desterò”? LESSICO 3. Alla luce del trattato spiega il significato che dà Ungaretti alle parole allegria e naufragi. STILE 4. Rifletti sulla funzione che assume l’assenza della punteggiatura.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Dopo aver spiegato il significato del titolo, prova a darne un altro, motivando la tua scelta.

Giuseppe Ungaretti

T13b

Preghiera L’allegria

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Questo testo, composto nel 1919 dopo la guerra, due anni dopo Allegria di naufragi, fa parte di Prime, e chiude significativamente l’intera raccolta dell’Allegria, anticipando di fatto una nuova stagione poetica.

Quando mi desterò dal barbaglio della promiscuità in una limpida e attonita sfera Quando il mio peso mi sarà leggero 5

Il naufragio concedimi Signore di quel giovane giorno al primo grido.

Analisi del testo Un altro naufragio. Un naufragio “altro” Ungaretti dà nuovamente spazio all’immagine del naufragio, ma con una connotazione positiva, come approdo sconvolgente alla dimensione ultraterrena: «Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido». La lirica dà voce al momento della morte, o meglio al passaggio dall’esistenza terrena a quella ultraterrena. Un passaggio rappresentato come risveglio (Quando mi desterò), che avviene in una nuova dimensione, del tutto diversa. Domina nei primi tre versi l’antitesi: la vita terrena è connotata negativamente come caos indistinto (barbaglio della promiscuità), in contrasto con il silenzio, la pace dell’aldilà, in cui le confuse passioni tacciono (limpida e attonita sfera); il “peso” del corpo, che trattiene e ostacola lo spirito, diventa “leggero”. Il poeta rivolge a Dio una preghiera: chiede di annullarsi, di “naufragare” al primo, forte richiamo della nuova vita, in cui tutto si trasforma. Si tratta dunque di un naufragio di carattere metafisico (ben diverso da quello leopardiano dell’Infinito), che può ricordare il “deragliamento” da tutto ciò che è razionale, limitato, circoscritto, proprio dei grandi mistici.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato del titolo. 2. In che momento il poeta rivolgerà la preghiera al Signore? STILE 3. Spiega l’allitterazione presente nell’ultimo verso.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Prova a scrivere tu una poesia sul naufragio come esperienza positiva.

120 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


2 La seconda raccolta: Sentimento del tempo La struttura La seconda raccolta, di Ungaretti, Sentimento del tempo, esce nel 1933 e comprende poesie scritte a partire dal 1919 (sarà poi ampliata e riveduta nel 1936 e ancora fino all’edizione definitiva del 1943). La raccolta si articola in sette sezioni: Prime, La fine di Crono, Sogni e accordi, Leggende, Inni, La morte meditata, L’amore. Il ritorno alla “tradizione” In accordo con il clima culturale degli anni Venti (nel 1919 viene fondata la rivista «La Ronda»), è evidente un “ritorno all’ordine” sul piano delle scelte metrico-stilistiche e un abbandono dell’ardito sperimentalismo che aveva caratterizzato le liriche dell’Allegria: la metrica viene ricondotta a misure consuete (in prevalenza endecasillabi e settenari), la sintassi è più complessa e presenta spesso inversioni, viene reintrodotta la punteggiatura, il lessico è raffinato e di ascendenza letteraria. Ungaretti si richiama deliberatamente alla tradizione poetica italiana e in particolare al modello di Petrarca e Leopardi. In un intervento del 1935 dichiara di aver voluto cercare nei poeti e nei versi della tradizione illustre della poesia italiana il “canto”: «era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli [...]: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di questa terra disperatamente amata» (Riflessioni sulla letteratura). Il mantenimento del culto della parola Quella di Ungaretti in Sentimento del tempo non è però un’operazione puramente restauratrice e classicistica, che sconfessi la sua poetica. Non vengono meno infatti – anzi si accentuano – il culto di una parola evocativa, quasi sacrale (che nella sua lettura Ungaretti scandiva bene, come faceva con le liriche dell’Allegria) e il gusto per l’analogia, che tende però a farsi più manierata e oscura, con il ricorso a metafore preziose e a figurazioni mitiche, che ricordano il concettismo barocco. Un modello per la poesia ermetica Il poeta si pone ora in un diverso rapporto con il pubblico rispetto all’Allegria: lo stile più allusivo, i richiami letterari e mitologici implicano un pubblico elitario. In ogni caso, pur essendo meno innovativa della prima, la seconda raccolta gode di un notevole successo, costituendo un punto di riferimento centrale per la generazione dei poeti ermetici. I temi L’elemento che maggiormente differenzia Sentimento del tempo è la riduzione drastica della componente biografica contingente, la scomparsa del “presente” e della storia, a favore di evocazioni mitiche, di emblemi arcani in un’atmosfera sospesa tra realtà e sogno. Sfondo della raccolta è Roma, e Roma vuol dire innanzitutto le suggestioni dei miti antichi: nella prima parte dominano infatti le figure della mitologia classica («vivendo a Roma, nel Lazio, come non potevano non diventarmi famigliari i miti, gli antichi miti? Li incontravo ovunque e continuamente, e accorrevano a rappresentare i miei stati d’animo con naturalezza», Note al Sentimento del tempo). Il tema del tempo Un ruolo fondamentale, come si comprende già dal titolo, ha la meditazione sul tempo e la memoria del passato («dal Sentimento in poi la mia ispirazione parte dal ricordo, cioè dai momenti scomparsi, consumati, assenti» Note all’Allegria). La riflessione sulla dimensione temporale aveva affascinato Ungaretti fin dal periodo della sua frequentazione a Parigi delle lezioni di Bergson ed è presente anche nell’Allegria, ma in Sentimento del tempo diventa motivo centrale,

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 121


declinato in varie forme. Innanzitutto il ciclo delle stagioni osservato nelle metamorfosi del paesaggio romano e laziale: in particolare ricorre la rappresentazione dell’estate, che Ungaretti rappresenta soprattutto nella sua forza distruttiva, come nella poesia Di luglio (1931):

Quando su ci si butta lei, si fa d’un triste colore di rosa il bel fogliame. Strugge forre, beve fiumi, macina scogli, splende, è furia che s’ostina, è l’implacabile, sparge spazio, acceca mete, è l’estate e nei secoli con i suoi occhi calcinanti va della terra spogliando lo scheletro. Il tema del tempo si collega soprattutto alla riflessione sul trascorrere inesorabile della vita umana, all’interrogarsi sul rapporto fra eterno ed effimero che talora assume marcati caratteri religiosi. La suggestione del barocco e il tema religioso A Roma, oltre alla maestosità delle rovine degli edifici classici, Ungaretti incontra il barocco, in cui non a caso il tema del tempo è centrale in quanto “angoscia del tempo”, senso della precarietà della vita umana, esorcizzati dal gioco virtuosistico delle metafore. Il barocco non è per Ungaretti semplice suggestione artistica e stilistica: «Occorre considerare il barocco anche nel suo aspetto metafisico e religioso» scrive; e sottolinea: «nella contemplazione del barocco a poco a poco la mia poesia inclinava a porsi il problema religioso». Fu il barocco, a suo dire, a indurlo a meditare con maggiore profondità sul rapporto tra effimero ed eterno. L’arte barocca è vista dal poeta come un tentativo da parte dell’uomo di colmare in qualche modo il sentimento di orrore del vuoto, cioè – come afferma lui stesso – dell’orrore di un mondo privo di Dio. Nella seconda parte della raccolta emerge l’avvicinamento alla fede cristiana, seppur problematico e sofferto. Anticipato nel 1924 da una prefazione scritta per Tre prose di Blaise Pascal, l’incontro con la fede è corroborato dalla visita al monastero benedettino di Subiaco del 1928. In particolare negli Inni il poeta chiama direttamente Dio in causa, interloquisce con lui e da lui attende la risposta a quesiti esistenziali, confessando il suo smarrimento e invocando la salvezza.

Sentimento del tempo Sentimento del tempo (1933)

poesie scritte a partire dal 1919 TEMI

riflessione su temi esistenziali: il tempo e la memoria

STILE

parola evocativa e analogia

METRICA

recupero della metrica tradizionale

122 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Giuseppe Ungaretti

T14

Ricordo d’Affrica Sentimento del tempo. Prime

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

In questa lirica del 1924 si coglie un elemento di continuità con l’Allegria nella presenza del tema della nostalgia per l’Egitto della giovinezza del poeta. Lo stile però è decisamente mutato rispetto alla precedente raccolta.

Non più ora tra la piana sterminata e il largo mare m’apparterò, né umili di remote età, udrò più sciogliersi, chiari, nell’aria limpida, squilli1; né più 5 le grazie acerbe andrà nudando e in forme favolose esalterà folle la fantasia, né dal rado palmeto Diana apparsa in agile abito di luce, 10 rincorrerò2 (in un suo gelo altiera s’abbagliava3, ma le seguiva gli occhi nel posarli arroventando disgraziate brame4, per sempre 15 infinito velluto5). È solo linea vaporosa il mare che un giorno germogliò rapace6, e nappo d’un miele, non più gustato per non morire di sete, mi pare 20 la piana7, e a un seno casto, Diana vezzo d’opali, ma nemmeno d’invisibile non palpita8. Ah! questa è l’ora che annuvola e smemora9.

La metrica Due strofe più un verso singolo finale. I versi sono di varie misure, tra cui prevale l’endecasillabo (vv. 1, 2, 4, 6, 8, 11-13, 16-18, 19-20), in due casi è sdrucciolo (vv. 2 e 20) e in altri due tronco (vv. 4 e 6). Anche il verso isolato (v. 23) contiene un endecasillabo, escludendo l’esclamazione iniziale.

1 Non più… squilli: il poeta, ormai adulto, non potrà più isolarsi nel deserto (la piana sterminata) egiziano di fronte al mare ampio (largo: è il Mediterraneo) e ascoltare nitidi canti (chiari… squilli) dei beduini che si ripetono da un lontano passato (umili di remote età) nell’aria limpida. 2 né più… rincorrerò: la luna-Diana non scoprirà più (andrà nudando) le sue bellezze non ancora mature (grazie acerbe)

e in forme favolose non esalterà più la folle fantasia (del poeta) né, apparsa dal palmeto non fitto di piante (rado) vestita di luce, egli la rincorrerà più. «Diana è, naturalmente, la luna, personificazione mitica, anche, d’una forma femminile» (Note di Ungaretti a Sentimento del Tempo). 3 in un suo... s’abbagliava: la luna superba (altiera) abbagliava se stessa nel suo gelo. 4 ma le… brame: ma con gli occhi il poeta la seguiva infiammando (arroventando) desideri impossibili (disgraziate brame). 5 infinito velluto: può essere un riferimento alla morbidezza della luce della luna sul deserto, alludendo anche a suggestioni di forme femminee. 6 È solo… rapace: il mare, che un giorno – quando il poeta era giovane – si mostrò

avido di possesso (germogliò rapace), ora è solo una leggera (vaporosa) linea. 7 e nappo… la piana: la distesa del deserto appare ora a Ungaretti come un calice (nappo) di miele non più gustato, qualcosa cioè di dolce che si è assaporato in un tempo lontano. 8 a un seno… non palpita: la luna-Diana nemmeno più illumina con la sua luce calda (palpita) un’insenatura (a un seno casto, il poeta gioca sull’ambiguità naturadonna). Vezzo d’opali: è in apposizione a Diana; vezzo è un termine letterario per “ornamento”, l’opale è una pietra lattiginosa e iridescente come la luce della luna. 9 l’ora che annuvola e smemora: è l’ora che avvolge il cielo di nuvole (che rappresentano la nostalgia nell’animo del poeta) e fa dimenticare il passato.

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 123


Analisi del testo Uno stile rinnovato Dal punto di vista stilistico si notano le differenze rispetto alla prima raccolta: presenza della punteggiatura, sintassi più articolata con figure retoriche classiche come l’inversione e l’iperbato («Non più ora […] m’apparterò», «né umili […] udrò»), presenza di versi tradizionali come l’endecasillabo, uso di un lessico più aulico (nudando, altiera, nappo, smemora…). La poesia gioca sull’ambivalenza del riferimento alla figura mitologica di Diana, che rappresenta nello stesso tempo la luna (come ci dice lo stesso poeta) e l’evocazione di un’immagine femminile. Sempre Ungaretti scrive: «Nella poesia c’è l’idea del miraggio, gli effetti di miraggio essendo analoghi a quelli lunari» (Note a Sentimento del tempo), e infatti egli evoca con i suoi versi un momento in cui l’attrazione verso la luce lunare (rincorrerò) si mescola a una componente erotica (nudando, arroventando, brame) creando un’immagine fantastica come quella di un sogno.

Nostalgia della giovinezza in Egitto: tra L’allegria e Sentimento del tempo Anche i testi del Sentimento sono sottoposti a un lavoro di revisione costante: Ungaretti vi interviene numerose volte nel corso degli anni. Solo per quello che riguarda il titolo, questa poesia ne ha avuti tre – Sera (1924), Usignolo (1925), Ricordo (1931) – prima di Ricordo d’Affrica. È interessante notare come il titolo definitivo appartenga anche a una poesia della prima sezione dell’Allegria e testimoni quindi la volontà di Ungaretti di rimarcare la continuità tra Prime e la precedente raccolta. La prima strofa inizia con una negazione (Non più), ripetuta altre tre volte (né… né… né) a sottolineare l’impossibilità di tornare a provare le sensazioni della gioventù vissuta tra il deserto e il mare. Il nucleo della lirica è la rievocazione di un momento notturno in cui la luce della luna (Diana) sale da un palmeto e sembra che il poeta, sotto l’effetto di un miraggio, possa espandere le sue facoltà sensoriali. Al ricordo del passato è però già associato il rimpianto. Nella seconda strofa Ungaretti contrappone il presente a un passato mitizzato; il mare impetuoso della giovinezza ora è solo una linea sottile, il deserto ha la dolcezza del miele che non può più essere gustato, la luna non risplende (palpita) più come prima su un’insenatura. Ma sono più che altro le capacità percettive del poeta che si sono affievolite.

Tradizione letteraria e uso della mitologia A partire dall’incipit della poesia, troviamo un chiaro riferimento alla tradizione lirica italiana nel rimando al celebre sonetto di Ugo Foscolo, A Zacinto («Né più mai toccherò le sacre sponde» ➜ V2B C3 T12 ). Anche nella lirica foscoliana è presente il rimpianto per la giovinezza e per il luogo d’origine perduto e mitizzato. E lo stesso modulo (né da te…né più) aveva usato Foscolo ai vv. 6-11 dei Sepolcri per esprimere il rimpianto della vita perduta. Ungaretti si rifà dunque alla tradizione, offrendone un’interpretazione personale. Nello stesso modo, in particolare nelle prime due sezioni di Sentimento del tempo, utilizza figure della mitologia classica per avvolgere i ricordi in un’atmosfera poetica quasi magica, soprattutto nei casi di figure femminili, come qui Diana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo e indicane il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2. Perché il poeta fa riferimento alla figura mitologica di Diana? ANALISI 3. Individua le espressioni che possono essere riferite sia ad elementi naturali che a figure femminili. 4. Prova a dare una tua interpretazione del significato dell’ultimo verso. 5. Da quali elementi comprendi che questa poesia si colloca in una nuova stagione della poesia di Ungaretti? Confrontala con qualche testo dell’Allegria che ti sembri adatto allo scopo. STILE 6. Quali differenze, dal punto di vista stilistico, si notano rispetto alla prima raccolta di Ungaretti?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. L’apparizione di una figura femminile mitologica indeterminata, confusa con la natura, è anche il tema della lirica Stabat nuda Aestas di D’Annunzio (➜ V3A C11 T15b ): metti a confronto le due poesie indicando elementi di somiglianza e differenza sia dal punto di vista dello stile che del significato.

124 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Giuseppe Ungaretti

T15

L’isola

LEGGERE LE EMOZIONI

Sentimento del tempo. La fine di Crono G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Su questa poesia, del 1925, Ungaretti scrive: «Il paesaggio è quello di Tivoli. Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo; è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene».

A una proda ove sera era perenne di anziane selve assorte, scese, e s’inoltrò e lo richiamò rumore di penne 5 ch’erasi sciolto dallo stridulo batticuore dell’acqua torrida, e una larva (languiva e rifioriva) vide1; ritornato a salire vide 10 ch’era una ninfa e dormiva ritta abbracciata a un olmo. In sé da simulacro a fiamma vera errando2, giunse a un prato ove l’ombra negli occhi s’addensava 15 delle vergini come sera appiè degli ulivi;3 distillavano i rami una pioggia pigra di dardi, qua pecore s’erano appisolate 20 sotto il liscio tepore, altre brucavano la coltre luminosa;4 le mani del pastore erano un vetro levigato da fioca febbre5. La metrica Due strofe di versi di varia misura, tra cui prevalgono settenari (vv. 7, 8, 11, 15, 16, 17, 20, 22), novenari (vv. 2, 5, 6, 9, 13, 14, 24) ed endecasillabi (vv. 1, 4, 12, 19, 23) uniti da rime in modo irregolare. 1 A una proda… vide: in un tempo remoto un personaggio non identificato (il sogg. indeterminato di scese, v. 2) è approdato (la proda di un’isola, come suggerisce il titolo) in un luogo molto ombroso, sempre buio («sera perenne» con metonimia sera-oscurità) per la presenza di un bosco antico («anziane selve») che favorisce l’immergersi nei propri pensieri (assorte riferito grammaticalmente a selve ma logicamente a chi le percorre). Avanzò e venne richiamato dal frullare delle ali di un uccello («rumore di penne») levatosi in volo («ch’erasi sciolto») dall’acqua torrida

(intiepidita per la calura), da lui increspata (lo «stridulo batticuore» rappresenta il movimento concentrico delle onde sull’acqua) e vide una figura evanescente (larva) scomparire e riapparire («languiva e rifioriva»: la parvenza intermittente è espressa dall’antitesi). Ma i due verbi posti tra parentesi potrebbero riferirsi anche al misterioso visitatore che, da uno stato di abbattimento e mancanza di forza, torna a rifiorire quando si accorge della presenza di un’altra forma di vita sull’isola. 2 In sé… errando: mentre i suoi pensieri andavano dalla forma incerta e ambigua della parvenza (simulacro) alla concretezza della passione o del desiderio («fiamma vera»). Sono i versi centrali della lirica, che indicano un altalenare di sogno e realtà, l’oscillare delle impressioni del visitatore. 3 giunse... ulivi: arrivò in un prato dove

l’ombra scendeva (s’addensava) sugli occhi di giovani donne («negli occhi… delle vergini») come la sera si infittisce intorno agli ulivi. 4 distillavano… luminosa: dai rami degli alberi filtravano con difficoltà, a poco a poco (distillavano, metafora) i raggi di sole come una lenta pioggia di frecce (dardi), nel calore tiepido, uniformemente diffuso («liscio tepore», sinestesia) di questo paesaggio, alcune pecore s’erano assopite mentre altre brucavano l’erba del prato illuminato dal sole («coltre luminosa», metafora). 5 le mani... febbre: l’ultima immagine pone in primo piano le mani di un pastore: appaiono lisce, di una lucida trasparenza («erano un vetro levigato», metafora), umide per la calura, così da sembrare quelle di chi ha una debole febbre («fioca febbre», sinestesia).

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 125


Analisi del testo Un’atmosfera bucolica e mitica Un personaggio del tutto indefinito si muove in un paesaggio campestre (uno specchio d’acqua, alberi, prati, un pastore con le pecore) dove si aggirano esseri mitologici (una ninfa). Non ci troviamo di fronte a un’ambientazione realistica, ma piuttosto evocativa, onirica, nella dimensione atemporale del mito, dove lo stupore e il senso di stasi e di sospensione sono sottolineati, oltre che da alcuni termini (perenne, assorte, appisolate, pigra), dai verbi all’imperfetto. Qui il visitatore indefinito, forse immagine del poeta, si muove (scese, s’inoltrò, giunse) e osserva (vide), azioni questa volta evidenziate dal passato remoto come puntuali anche se collocate in un lontano passato.

Possibili interpretazioni Il fascino di questa poesia nasce anche, e soprattutto, dalla possibilità di una pluralità di interpretazioni. Le opinioni dei commentatori si dividono già a partire dall’identificazione del “protagonista” della poesia, che per alcuni rappresenta il poeta stesso e per altri rimane una figura indeterminata e priva di qualsiasi valore autobiografico. Una particolare attenzione è stata poi riposta nell’interpretazione dei versi centrali della lirica «In sé da simulacro a fiamma vera / errando» (vv. 12-13), che indicano un passaggio da qualcosa di immateriale a qualcosa di concreto, da sogno, o illusione, a realtà. Ma a cosa si riferisce il cambiamento che il protagonista vive dentro di sé, indotto dal viaggio nell’isola? Molti vi hanno visto un percorso esistenziale, l’itinerario di una ricerca, non priva di inquietudini, che porta dall’oscurità della selva dei vv. 1-2, alla pioggia dei dardi-raggi solari e alla «coltre luminosa» della seconda strofa, ovvero probabilmente al raggiungimento di un Eden incontaminato, del «paese innocente» tanto cercato dal poeta dell’Allegria. Altri attribuiscono a questo testo un significato metaletterario, di riflessione sulla poesia stessa (aspetto frequente nella lirica ungarettiana) e vedono nell’approdo alla «fiamma vera» il riconoscimento della vitalità della tradizione poetica italiana, che prima appariva solo come un vano «simulacro». Questa interpretazione sarebbe autorizzata, tra l’altro, dai punti di contatto di questa poesia con un’altra lirica del Sentimento del tempo, Sirene, in cui si parla di «un’isola fatale», quella appunto delle sirene, che (secondo il commento dello stesso Ungaretti) rappresentano l’ispirazione poetica. Infine, c’è anche chi vede nella «fiamma vera» l’accendersi di una passione erotica precedentemente sopita, dovuta alla visione della ninfa. Per una lirica di questo genere è probabilmente necessario accettare la compresenza di più letture; si può dire però con certezza che l’ambientazione campestre non rappresenta qui né il rifugio in una tranquillità idillica sul modello dell’Arcadia né la fonte di immedesimazione panica in un mondo primigenio e naturale di tipo dannunziano.

Complessità stilistica In questo testo il procedimento analogico è ricorrente, le immagini si susseguono una all’altra più evocate che veramente descritte. Rimane l’attenzione alla parola pura che abbiamo visto nell’Allegria, ma la lettura è ora resa complessa dall’elaborata struttura sintattica caratterizzata da frequenti inversioni e dal lessico fortemente letterario, di ascendenza petrarchesca. Tutta la lirica è intessuta di riferimenti alla tradizione, evidenti anche nell’ambientazione caratteristica della poesia bucolica, riletta però alla luce della poetica simbolista. Ma l’aspetto più rilevante dal punto di vista stilistico è la straordinaria tessitura fonica a cui è affidata prevalentemente la funzione di evocare sensazioni ed emozioni in una composizione. Solo per dare qualche esempio, si notino l’anafora di “e” nella prima strofa, che sottolinea le azioni del personaggio in un’atmosfera assorta; la rima al mezzo languiva e rifioriva, che prolunga il tempo dell’azione; la ripetizione di vide in rima e le catene di allitterazioni che si propagano lungo tutto il testo («sera era perenne», «selve assorte, scese», «richiamò rumore», «sciolto dallo stridulo» ecc.).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali “personaggi” compaiono nella poesia? ANALISI 2. Spiega perché L’isola testimonia un recupero di forme metriche della tradizione.

126 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


STILE 3. Individua i luoghi del testo in cui il poeta utilizza procedimenti di inversione e proponili in una sintassi lineare. 4. Individua i procedimenti analogici (metafore, sinestesie) e cerca di spiegarli. 5. Evidenzia nel testo le ripetizioni di suono e osserva quale effetto producono a una lettura ad alta voce.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. Scrivi un breve testo (max 200 parole) in cui esponi quali sensazioni ti evoca la lettura di questa lirica e quale significato pensi voglia esprimere il poeta, alla luce dell’affermazione di Ungaretti riportata nell’introduzione alla poesia.

online T16 Giuseppe Ungaretti

Lago luna alba notte Sentimento del tempo. La fine di Crono

3 Da Il dolore alle ultime raccolte Il dolore Nella raccolta successiva al Sentimento, dopo l’esperienza di una poesia astratta e metafisica, il poeta avverte un rinnovato bisogno di confessione e di testimonianza in rapporto all’urgenza di eventi drammatici, personali e storici, ai quali fa riferimento in modo esplicito il titolo stesso della raccolta: Il dolore. Pubblicato nel 1947, Il dolore è composto di testi scritti tra il 1937 e il 1946, che testimoniano innanzitutto dolorosi eventi vissuti dal poeta: la morte del fratello (1937) e soprattutto la tragica esperienza della morte del figlio Antonietto, avvenuta in Brasile nel 1939. «Fu la cosa più tremenda della mia vita» scrive il poeta. «So cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la sperimento in me, da quel momento, la morte, Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi» (Note a Il dolore). Ma la raccolta trae spunto anche dalla tragedia collettiva della guerra e dai drammatici eventi dell’occupazione tedesca di Roma e delle deportazioni degli ebrei: il “dolore” è questa volta quello che accomuna il poeta agli altri uomini, di cui si sente ancora una volta “fratello” e di cui si fa interprete in liriche di commossa indignazione. Di per sé significativi sono già i titoli che il poeta dà alle sezioni della raccolta: Tutto ho perduto (1937), ricordo dell’infanzia e del fratello morto; Giorno per giorno (194046), una sorta di diario in cui riporta i sentimenti strazianti provati per la morte del suo bambino; Il tempo è muto (1940-45), ricordo di Antonietto nel paesaggio del Brasile; Incontro a un pino (1943), ripresa graduale di contatto con il paesaggio romano; Roma occupata (1943-46), rappresentazione commossa della tragicità della guerra e del dolore umano; I ricordi (1942-46), in cui la pietà e la speranza paiono risorgere dallo sfacelo. Nelle poesie de Il dolore Ungaretti mantiene un tono in genere retoricamente elevato, ma l’andamento delle liriche è più lineare, la scrittura più diretta e di più agevole comprensione rispetto alla precedente raccolta Le ultime raccolte Nelle ultime raccolte di versi Ungaretti continua il percorso di ricerca sulla parola poetica e di riflessione sull’esperienza umana, che sarà riunito sotto il titolo complessivo di Vita d’un uomo nell’edizione di tutte le sue poesie (1969). Si tratta in molti casi di frammenti poetici estremamente essenziali, in cui la parola è quasi prosciugata e si percepisce il rapporto del poeta con le nuove Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 127


tendenze sperimentali sia in ambito musicale (Luigi Nono nel 1958 ha musicato i Cori di Didone di Ungaretti) sia figurativo (in particolare l’arte informale di Alberto Burri degli anni Sessanta e delle sue Combustioni). La Terra Promessa (1935-53) è un’opera incompiuta, concepita fin dal 1932 come un poema a più voci e con parti corali, che avrebbe dovuto essere musicato come un melodramma. L’idea del poeta era di scrivere un’opera incentrata sulla figura di Enea e il suo arrivo in Italia, appunto «la terra promessa». Il titolo allude però anche a una meta esistenziale, a una nuova stagione della vita. La stesura della Terra Promessa viene interrotta dalle tragiche esperienze personali (la morte del suo bambino) e dal dramma della Seconda guerra mondiale, tragedie a cui, come scrive lo stesso Ungaretti, doveva essere dato il primo posto: «...le ricerche di pura poesia dovevano cedere il posto alle angosce, ai tormenti di quegli anni». L’opera rimase dunque a uno stato frammentario. Un grido e paesaggi raccoglie versi scritti tra il 1939 e il 1952, tra cui Monologhetto, scritto come una ballata nel 1951 (su commissione della Rai), in cui rievoca avvenimenti della sua vita legati al mese di febbraio, e Gridasti: Soffoco, in cui Ungaretti rievoca, in un testo particolarmente angoscioso, il momento della morte del figlio. Il taccuino del vecchio (1960) contiene tra l’altro la poesia Per sempre, composta per la morte della moglie Jeanne, e 27 composizioni che vanno sotto il titolo di Ultimi cori per la Terra Promessa, che richiamano la raccolta precedente, nati da avvenimenti contingenti come un breve ritorno in Egitto, un viaggio in Giappone o il lancio di satelliti artificiali. In molti casi queste poesie riflettono la preoccupazione del poeta di fronte agli sviluppi del progresso scientifico e tecnologico del suo secolo.

Il dolore GENERE

poesia

METRICA

ritorno alla tradizione della versificazione italiana

STRUTTURA

sei sezioni: Tutto ho perduto (1937); Giorno per giorno (1940-46); Il tempo è muto (1940-45); Incontro a un pino (1943); Roma occupata (1943-46); I ricordi (1942-46)

CONTENUTO

dolorosi eventi nella vita del poeta e l’atrocità della guerra

SCOPO

rinnovato bisogno di confessione e di testimonianza

STILE E LINGUA

tono retoricamente elevato; scrittura di più agevole comprensione rispetto alla raccolta precedente

PUBBLICAZIONE

1947

COMPOSIZIONE

tra il 1937 e il 1946

128 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Le stagioni della poesia di Ungaretti RACCOLTA

L’ALLEGRIA

SENTIMENTO DEL TEMPO

CARATTERI TEMATICI

ELEMENTI STILISTICI

Fase innovativa e originale della sua storia poetica • tema dominante: la Prima guerra mondiale • riferimenti in forma quasi diaristica all’esperienza bellica • nessuna concessione alla retorica

• essenzialità formale • scardinamento delle forme metricosintattiche tradizionali • eliminazione della punteggiatura • sottolineatura del potere evocativo di ogni parola isolata tra il “silenzio” degli spazi bianchi • arditi accostamenti analogici

Fase legata alle vicende del primo dopoguerra • riflessioni su temi esistenziali: a. la memoria b. il tempo c. la morte

• recupero della versificazione italiana della tradizione (endecasillabo e settenario) • riferimento a modelli altri (Guittone, Petrarca, Tasso, poesia barocca e soprattutto Leopardi) • ricorso a costruzioni sintattiche elaborate e a stilemi del classicismo lirico • rielaborazione personale della mitologia classica • accoglimento di aspetti della poetica ermetica • impiego costante dell’analogia, con accostamenti spesso ardui e oscuri

Fase segnata nel profondo dal trauma personale della morte del figlio e da quello storico della Seconda guerra mondiale • meditazioni sul destino dell’uomo • temi: a. il dolore come esperienza inevitabile della vita b. la fratellanza universale in parallelo con l’approfondirsi di una visione religiosa c. sentimento diffuso di malinconia per la perdita della giovinezza e la precarietà della vita umana • conforto pieno nella poesia

• varietà di scelte: componimenti impegnativi sul piano sintattico e stilistico accanto a forme poetiche più distese, in modi a volte quasi colloquiali

IL DOLORE

LA TERRA PROMESSA UN GRIDO E PAESAGGI

IL TACCUINO DEL VECCHIO

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 129


Giuseppe Ungaretti

T17

Non gridate più Il dolore, I ricordi

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Nella lirica, scritta durante il secondo conflitto mondiale, il poeta rivolge un monito severo ai sopravvissuti che non riescono a deporre l’odio causato dalla guerra civile.

Cessate d’uccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire.

AUDIOLETTURA

5

Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo1.

La metrica Due strofe: la prima di novenari, la seconda composta da un endecasillabo, due settenari e un novenario; una rima tra i vv. 3 e 4.

1 lieta… l’uomo: l’erba può crescere soltanto dove non arriva l’uomo con la sua violenza.

Analisi del testo Il dolore nella storia Composta, in una prima stesura molto più lunga, dopo il bombardamento degli alleati su Roma del 19 luglio 1943 che colpì il cimitero della chiesa di San Lorenzo, la lirica testimonia la commossa partecipazione del poeta al dramma della guerra vissuto dal proprio Paese, ma dopo un’accanita rielaborazione si trasforma in un canto universale. Alle grida di chi ancora continua a odiare, Ungaretti contrappone «l’impercettibile sussurro» dei morti. Nella prima strofa si rivolge ai vivi, incapaci di superare la violenza scatenata dalla guerra. Il primo verso è di grande forza proprio grazie al suo significato paradossale: è evidente che i morti non possono più essere uccisi, ma se ne può cancellare il ricordo e, peggio ancora, può venir meno il rispetto umano di fronte alla morte. Nella seconda strofa sono i morti a parlare, anche se il loro messaggio (presumibilmente l’invito alla pace) è difficile da udire (impercettibile). L’immagine dell’erba che cresce (non però dove l’uomo, con la sua violenza, la calpesta) può alludere alle fosse in cui sono sepolte le vittime della guerra, ma anche a una possibilità di rinascita.

Lo stile La sintassi è lineare, priva di inversioni, e il lessico semplice e chiaro: di fronte al dolore della guerra ritorna nel poeta l’esigenza di farsi interprete del sentimento comune, di comunicare in modo chiaro il messaggio che ha da rivolgere al lettore. L’esortazione accorata di Ungaretti agli uomini del suo tempo è enfatizzata nella prima strofa dalle rime interne (cessate : gridate : sperate) e a fine verso (udire : perire) e dalle iterazioni (Non gridate… non gridate, Se… Se).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. ANALISI 2. Evidenzia nella lirica la presenza di sensazioni uditive: quale effetto suscitano? LESSICO 3. Spiega con parole tue il significato dell’aggettivo lieta (v. 8) attribuito all’erba. STILE 4. Quale figura retorica è presente al v. 1?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Quale testimonianza può venire dai morti secondo Ungaretti? Perché è difficile sentirla?

130 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Giuseppe Ungaretti

T18

Mio fiume anche tu Il dolore, I ricordi

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

Quella che segue è la prima delle tre parti che costituiscono la lirica Mio fiume anche tu, appartenente alla sezione Roma occupata 1943-1944 della raccolta Il dolore (1947). Un altro fiume, molti anni dopo, si aggiunge alla storia del poeta, il Tevere, che attraversa la città di Roma, qui evocato a rappresentare il dramma collettivo e civile della Seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista.

I Mio fiume anche tu1, Tevere fatale2, ora che notte già turbata scorre3; ora che persistente e come a stento erotto dalla pietra 5 un gemito d’agnelli si propaga smarrito per le strade esterrefatte4; che di male l’attesa senza requie, il peggiore dei mali, che l’attesa di male imprevedibile 10 intralcia animo e passi5; che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli agghiacciano le case tane incerte6; ora che scorre notte già straziata, che ogni attimo spariscono di schianto 15 o temono l’offesa tanti segni giunti, quasi divine forme, a splendere per ascensione di millenni umani7; ora che già sconvolta scorre notte, e quanto un uomo può patire imparo;

La metrica Strofa (è la prima delle tre che

3 notte… scorre: la notte rappresenta l’of-

compongono la lirica) lunga di endecasillabi e settenari liberamente alternati (da notare i meno usuali endecasillabi sdruccioli ai vv. 9, 11, 16, 21, 26, e il settenario tronco al v. 27).

fuscamento degli uomini e lo strazio della guerra sulla città occupata; scorre, “trascorre”, in senso temporale (ma si riferisce anche al fluire dell’acqua). 4 ora che… esterrefatte: costruisci: ora che un gemito d’agnelli, persistente e fuoriuscito come a stento dalla pietra, si propaga smarrito per le strade esterrefatte. Con il «gemito degli agnelli» che si propaga con fatica uscendo dagli edifici della città (le pietre), Ungaretti si riferisce al fatto che l’atrocità della guerra colpisce soprattutto gli innocenti, smarriti per la città in uno stupore attonito. Nello stesso periodo, l’inverno del ’44, anche a un altro poeta, Salvatore Quasimodo, veniva in mente un’immagine molto simile per lo stesso concetto: «lamento / d’agnello dei fanciulli» (Alle fronde dei salici ➜ C2 T5a ).

1 Mio fiume anche tu: la poesia inizia con un’apostrofe al fiume Tevere, invocato come testimone degli orrori della guerra e associato (attraverso l’anche) agli altri fiumi che precedentemente hanno avuto una particolare importanza nella vita del poeta. Questo sintagma nominale regge tutta la prima strofa, formata da proposizioni subordinate temporali, introdotte dalla congiunzione ora che (o che) in posizione anaforica. 2 fatale: carico di una storia in cui si realizzano i disegni del fato; allusione all’espressione “i colli fatali” con cui Mussolini e il fascismo celebrarono il destino di Roma nella storia dell’umanità.

5 che di male… e passi: (ora che) l’attesa continua (senza requie) del male, che è il peggiore dei mali, l’attesa di un male incombente e imprevedibile, attanaglia l’animo, impedisce il passo. 6 che singhiozzi… incerte: (ora che) pianti senza fine, come rantoli di morte, raggelano le case, simili a tane insicure. 7 che ogni attimo... millenni umani: costruisci: (ora che) tanti segni giunti, quasi divine forme, a splendere per ascensione di millenni umani, ogni attimo spariscono di schianto o temono l’offesa. I preziosi monumenti storici di Roma, quasi forme divine, che sono stati punti di riferimento per la civiltà umana nei secoli, possono essere distrutti in qualsiasi momento («ogni attimo spariscono di schianto») o rischiano di essere bombardati («temono l’offesa»).

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 131


ora ora, mentre schiavo il mondo d’abissale pena soffoca8; ora che insopportabile il tormento si sfrena tra i fratelli in ira a morte9; ora che osano dire 25 le mie blasfeme labbra: «Cristo, pensoso palpito10, perché la Tua bontà s’è tanto allontanata?» 20

8 ora ora… soffoca: proprio ora, mentre il mondo, oppresso dal male, è soffocato da una sofferenza profondissima (abissale). 9 ora che insopportabile… a morte: ora che il tormento insopportabile rompe

ogni freno (si sfrena) (liberando) l’ira mortale fra gli uomini fratelli. 10 pensoso palpito: espressione fortemente analogica per indicare la partecipazione sofferta di Dio alla tragedia

dell’uomo: palpito evoca l’intensità del sentimento e l’aggettivo pensoso vuole offrire l’immagine di Cristo assorto nell’assumere su di sé il dolore dell’umanità intera.

Analisi del testo Un nuovo fiume Fin dal primo verso, che dà anche il titolo alla poesia, è evidente la volontà di Ungaretti di collegare la tragica esperienza che sta vivendo (l’occupazione nazista di Roma) con quella di soldato nella Prima guerra mondiale, oggetto molti anni prima della poesia I fiumi (1916 ➜ T6 ): un nuovo fiume (il Tevere fatale) si aggiunge ai fiumi evocati in quella poesia a simboleggiare un nuovo tassello della storia della vita (e parallelamente della poesia) di Ungaretti.

Roma occupata Roma, dove il poeta vive dal 1942 sino alla morte, è sotto l’occupazione nazista. La città è sottoposta a un clima di continua violenza e di oltraggio alla dignità dell’uomo, dal dramma delle deportazioni ai bombardamenti degli alleati. Il Tevere diventa così testimone del dolore che si manifesta in un momento di oscurità della ragione umana (notte) colpendo degli innocenti (agnelli), e provocando strazio (gemito, singhiozzi, rantoli ecc.) e un attonito stupore (strade esterrefatte). Gli abitanti della città sono braccati come bestie in fuga e ogni rifugio è insicuro, le case sono tane incerte. Ancor più angosciosa della sofferenza stessa è l’attesa di un male imprevedibile (vv. 7-9), la paura continua di violenze e tragedie ancor peggiori.

«Quanto un uomo può patire imparo» La lirica (di cui abbiamo riportato solo la prima parte) testimonia la lezione che nella storia personale di Ungaretti e nella sua poesia deriva dalla partecipazione al dolore collettivo, e la riflessione che ne è scaturita: assistendo angosciato agli orrori della guerra nella città occupata, egli ha imparato a che abissi di sofferenza si può giungere («quanto un uomo può patire imparo», v. 19): il sentimento di fraternità, che sul fronte del Carso coinvolgeva i soldati con i quali il poeta condivideva il destino nelle trincee, si allarga ora ad abbracciare tutta l’umanità offesa. Il poeta ha anche compreso con chiarezza (ed è questa la principale lezione che ha tratto) che tanto strazio, tanta disumana crudeltà nascono quando l’uomo dimentica la legge di amore che Cristo col suo sacrificio ha insegnato.

Una lirica profondamente religiosa La prima strofa si chiude con la domanda, che il poeta definisce “blasfema”, rivolta a Cristo, il cui sguardo sembra essersi allontanato per sempre dall’umanità. Nella seconda parte (non riportata) è la risposta del poeta: «Vedo ora nella notte triste, imparo, / so che l’inferno s’apre sulla terra / su misura di quanto / l’uomo si sottrae, folle, / alla purezza della Tua passione». Non è dunque Cristo ad aver abbandonato l’uomo, ma l’uomo a essersi allontanato dal suo insegnamento e dal suo esempio e ad aver per questo portato l’inferno sulla terra. Alla fine della poesia la domanda angosciata diventerà vera e propria invocazione a Cristo «maestro e fratello» perché torni a far sentire la sua presenza tra gli uomini sofferenti, come lui è stato sofferente sulla croce: «ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri». Di fronte all’atrocità della storia, Ungaretti reagisce testimoniando quell’approdo alla fede che aveva vissuto molti anni prima (1928).

132 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Una diversa forma espressiva Con la raccolta Il dolore Ungaretti ritorna alla tradizione della versificazione italiana: i versi impiegati sono endecasillabi e settenari distribuiti in strofe di diversa lunghezza. La sintassi è complessa e ad ogni strofa corrisponde un periodo. Il tono è costantemente alto grazie alle scelte lessicali e alle figure retoriche dell’inversione («che notte già turbata scorre», «che di male l’attesa» ecc.) e del chiasmo («che di male l’attesa… che l’attesa di male», «singhiozzi infiniti, a lungo rantoli»). L’uso attento delle figure retoriche è finalizzato ad esprimere la commossa indignazione del poeta: le ripetizioni di alcune parole (notte, male, attesa), l’anafora martellante di ora che... ora che, in rapporto alle immagini di desolazione via via evocate e che sembrano non aver mai fine, conferiscono al testo l’andamento solenne di un inno insieme civile e religioso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Qual è il peggiore dei mali secondo il poeta? ANALISI 3. Spiega il titolo dato da Ungaretti alla composizione: Mio fiume anche tu. STILE 4. Perché al v. 25 definisce blasfeme le proprie labbra (metonimia per parole)? 5. Spiega il significato delle metafore gemito di agnelli e tane incerte. 6. La notte è definita da Ungaretti turbata (v. 2), straziata (v. 12) e infine sconvolta (v. 19): quale figura retorica utilizza qui il poeta? Con quali fini?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Fai un confronto con la poesia I fiumi (➜ T6 ): spiega che cosa accomuna e che cosa differenzia i due testi, anche tenendo conto della diversa data di composizione.

online T19 Giuseppe Ungaretti

Cori descrittivi di stati d’animo di Didone La terra promessa

Fissare i concetti Giuseppe Ungaretti Ritratto d’autore 1. Per quale motivo Ungaretti può essere definito un esule? 2. Quali filosofi e quali letterati hanno influenzato la poesia di Ungaretti? 3. Quale posizione assume il poeta allo scoppio della Prima guerra mondiale? Le stagioni della poesia di Ungaretti 4. Come si intitolano le raccolte di poesie di Ungaretti e quali sono le date di pubblicazione? 5. Quale funzione ha la poesia per Ungaretti? E la parola poetica? L’Allegria 6. Come si intitola il nucleo originario della raccolta Allegria? Quale significato ha? 7. Perché Allegria di naufragi è un ossimoro? 8. Quale rivoluzione formale attua il poeta in Allegria? 9. Quali sono i temi contenuti in Allegria? Sentimento del tempo 10. Come mai per la raccolta Sentimento del tempo si parla di ritorno alla “tradizione”? 11. In che senso Ungaretti in Sentimento del tempo non sconfessa la sua poetica? Da Il dolore alle ultime raccolte 12. Quali eventi sono trattati nella raccolta Il dolore? 13. Quali differenze di stile ci sono tra Il dolore e Sentimento del tempo? 14. Quali elementi caratterizzano le ultime raccolte? 15. Come si intitola e quando viene pubblicata la raccolta di tutte le poesie di Ungaretti?

Le stagioni della poesia di Ungaretti 2 133


Il Novecento (Prima parte) Giuseppe Ungaretti

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La formazione e l’idea di poesia Giuseppe Ungaretti (1888-1970) nasce e vive la sua giovinezza lontano dall’Italia. La sua formazione, influenzata dalla cultura francese e dagli incontri con altri artisti e intellettuali in un clima aperto e cosmopolita, contraddistingue in modo originale e innovativo la sua prima raccolta poetica, in cui scardina le regole della lirica tradizionale, raggiungendo al tempo stesso un’efficacia comunicativa estranea alle esperienze delle avanguardie. Per Ungaretti, poeta è colui che scende a scavare nelle profondità dell’animo umano, alla ricerca di una verità da riportare poi agli altri uomini attraverso i suoi versi. Costante di tutta la sua opera è la poetica della parola: la parola è infatti strumento fondamentale della conoscenza e deve essere meditata a lungo prima di essere pronunciata, in modo da darle il giusto valore. Anche per questo egli continua per tutta la vita a rielaborare i suoi testi poetici per renderli più efficaci ed essenziali. Il dolore è vissuto dal poeta come un’esperienza terribile e purtroppo inevitabile, grazie a cui però è possibile entrare in contatto con il nucleo originario e assoluto dell’uomo. Tutta la sua opera, raccolta per suo volere in un volume dal titolo Vita d’un uomo, ha una forte componente autobiografica, che non rimane confinata alla sua esperienza personale ma riesce ad assumere un significato più lungo di riflessione esistenziale valida per tutti gli uomini.

stagioni della poesia 2 Le di Ungaretti L’allegria Pubblicata nel 1931, è il frutto della lunga rielaborazione di due raccolte poetiche precedenti: Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919). È il libro più famoso di Ungaretti, in cui si riflette l’esperienza tragica della Prima guerra mondiale vissuta in prima persona sul fronte del Carso e su quello francese. Dal punto di vista stilistico è l’opera più sperimentale: i versi sono brevi, essenziali (a volte di una parola sola), privi di punteggiatura e il poeta fa ampio uso dell’analogia. La seconda raccolta: Sentimento del tempo Due anni dopo, nel 1933, esce questa nuova raccolta, in cui Ungaretti recupera la metrica e il linguaggio poetico della tradizione, pur mantenendo il culto della parola evocativa e il

134 Il Novecento (Prima parte) Giuseppe Ungaretti


gusto per l’analogia. Caratterizzato dal venir meno di un soggetto lirico che dice “io”, ha come temi centrali il trascorrere del tempo, che assume anche una connotazione religiosa, e la memoria. La raccolta, per la sua preziosità e allusività, diventerà un modello per i poeti ermetici. Da Il dolore alle ultime raccolte Il dolore, Un grido e paesaggi Queste due raccolte, pubblicate rispettivamente nel 1947 e nel 1952, testimoniano eventi dolorosi vissuti dal poeta sul piano sia personale sia pubblico: in particolare la morte del figlio Antonietto e la tragedia della Seconda guerra mondiale. Il tono rimane retoricamente elevato, ma la scrittura è più diretta e comprensibile. La Terra Promessa Si tratta di frammenti di un poema allegorico incompiuto, a cui Ungaretti lavora tra il 1935 e il 1953, che avrebbe dovuto essere musicato; è incentrato sulla figura di Enea e sulla sua ricerca di una «terra promessa». Le ultime raccolte Nelle ultime raccolte poetiche – Il taccuino del vecchio del 1960, a cui seguono le piccole raccolte di Dialogo (1968), Proverbi (1969), Nuove (1970) – si accentuano i temi della nostalgia e della perdita della giovinezza, ma sono anche espresse le preoccupazioni del poeta di fronte alle trasformazioni della società.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Il tema della precarietà dell’uomo nel mondo è presente in varie poesie dell’Allegria: illustra come è svolto, facendo riferimento a più di una lirica; realizza un power point da presentare i compagni di classe.

Esposizione orale

2. Scegli una delle poesie antologizzate che ti sia piaciuta e in cui vengano illustrati: il messaggio che vuole trasmettere l’autore attraverso la lirica scelta; il periodo della vita di Ungaretti in cui è stata scritta e la relazione col contesto storico e biografico; le scelte stilistiche più importanti.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 135


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

In questa poesia dell’Allegria Ungaretti riprende il tema autobiografico dell’esilio, esistenziale e geografico, e del nomadismo, che sarà una costante di tutta la sua produzione.

GIROVAGO Campo di Mailly maggio 1918 In nessuna parte di terra mi posso 5 accasare1

E me ne stacco sempre straniero Nascendo tornato da epoche troppo 20 vissute4

A ogni nuovo clima che incontro 10 mi trovo languente2 che

La metrica Versi liberi. 1 In nessuna… accasare: la prima stesura di questa poesia avviene in Francia, dove Ungaretti è stato trasferito con il suo reggimento. 2 languente: indebolito, stremato. 3 che… assuefatto: dato che, ogni volta, ad essi (ai diversi climi) mi ero adattato (ero stato assuefatto).

Comprensione e analisi

una volta già gli ero stato 15 assuefatto3

Godere un solo minuto di vita iniziale

25

Cerco un paese innocente5

4 Nascendo… vissute: il peso del passato (che sia di un Paese con così tanta storia come l’Egitto o delle origini della sua famiglia o di quello appreso attraverso la formazione culturale) gli impedisce di rinascere alla vita senza condizionamenti. Tornato: di ritorno.

5 Cerco un paese innocente: molto importante per il poeta è il tema dell’innocenza, «della quale l’uomo invano cerca traccia in sé o negli altri sulla terra» (lo stesso Ungaretti in Note all’Allegria). È l’aspirazione a un’umanità non ancora toccata dal male e che si trova nella condizione di “non nuocere” agli altri uomini.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il significato della poesia strofa per strofa. 2. Individua le parole-chiave della poesia, spiegando la tua scelta. 3. Fai un’analisi della poesia dal punto di vista metrico e sintattico. 4. Tra la quarta e la quinta strofa c’è un’antitesi: individuala e spiegala. 5. Nella poesia è presente un’unica rima: individuala e spiega in che relazione sono i due termini. 6. Puoi trovare nel testo delle corrispondenze dal punto di vista fonico?

Interpretazione

I n un’intervista televisiva del 1963 Ungaretti disse: «Sono italiano, ma non interamente. Sono un forestiero in questo paese. Sono d’Egitto. Sono di Francia. Sono d’altrove. Sono di qui, certamente; ma questo fatto d’essere nato lontano, d’aver avuto una preparazione alla vita in un mondo diverso, con un cielo diverso, con il deserto attorno, è una cosa grave; è una cosa che mi ha fatto sentire la mia vita come scissa in più parti». Attraverso una ricostruzione della biografia del poeta, spiega che cosa significhi per lui il tema dell’esilio.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969

La poesia, scritta nel 1930, è dedicata alla madre del poeta, morta nello stesso anno.

La madre E il cuore quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra, per condurmi, Madre, sino al Signore, come una volta mi darai la mano. In ginocchio, decisa, sarai una statua davanti all’Eterno, come già ti vedeva1 quando eri ancora in vita.

5

Alzerai tremante le vecchie braccia, 10 come quando spirasti dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai d’avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro.

15

La metrica Versi liberi.

Comprensione e analisi

1 vedeva: vedevo.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Presenta in sintesi il contenuto della lirica e indicane il tema centrale. A chi si rivolge il poeta? Che cosa intende il poeta con l’espressione muro d’ombre? Come si comporta la madre nei confronti del figlio? Fai l’analisi metrica del componimento. Che cosa fa pensare il fatto che la poesia inizi con la congiunzione E…? Perché la parola Madre è scritta con la lettera maiuscola? Come è rappresentata la figura materna? In che modo si alternano i tempi verbali? Individua una metafora, una sinestesia e un’anafora; poi spiega a quale scopo a tuo avviso sono utilizzate dal poeta. 10. Che tipo di lessico e di sintassi usa Ungaretti? Fai qualche esempio.

Interpretazione

«Il gruppo di poesie che ho intitolato Leggende dà, nelle mie intenzioni, a tali poesie, un carattere particolare. Si tratta di un contenuto più oggettivo, che mettesse come una certa distanza fra il poeta e la propria ispirazione, come non si trattasse interamente di sé, ma d’una raffigurazione di sé quale persona drammatica. Le poesie dell’Allegria sono tutte in prima persona: io parla. Qui si gira intorno a quell’io, lo si giudica e se ne parla con maggiore libertà» (Note a Sentimento del tempo). Partendo da questa affermazione di Ungaretti e dall’analisi dei testi letti, prova a delineare le differenze tra le sue prime due raccolte poetiche.

Verso l’esame di Stato 137


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo M. Barenghi, Ungaretti. Un ritratto e cinque studi, Mucchi, Modena 1999

Il pensiero di Bergson1 viene di solito chiamato in causa a proposito di Sentimento del tempo e del motivo della memoria, ma l’aspetto che riguarda più da vicino il primo Ungaretti è senza dubbio il concetto di intuizione. L’intuizionismo costituisce il cardine della filosofia bergsoniana: la stessa nozione di «durata reale», che ne rappresenta per 5 molti versi il motivo più tipico, si caratterizza innanzi tutto come intuizione della durata reale (o meglio, come intuizione del durare della coscienza). [...] Bergson contrappone il modo di conoscere analitico, proprio dell’intelligenza [...] al modo di conoscere sintetico, proprio dell’intuizione e della filosofia. Mentre l’analisi, che rimane estranea all’oggetto, non fa che scomporlo rapportandolo ad altri, senza mai 10 coglierne la vera natura, l’intuizione è [...] comprensione dall’interno, semplice, totale e immediata. [...] La metafisica stessa consiste in questo «atto semplice» che permette di «possedere una realtà assolutamente anziché conoscerla relativamente2». Tale è appunto la poesia per Ungaretti. Poesia è la parola capace di cogliere in maniera immediata, con la sola forza 15 della propria intensità – cioè prima che nasca il discorso – la natura profonda della realtà e, ciò facendo, di attingere a un assoluto. [...] La parola è isolata, e tendenzialmente svincolata da subordinazioni metriche e sintattiche, perché l’intuizione è un atto semplice, indivisibile, immediatamente sintetico. La lentezza con cui la parola è scandita, i silenzi che la circondano, esprimono lo sforzo che l’operazione richiede: uno sforzo che mira 20 non a superare la concretezza presente o assurgere ad un sovrannaturale quid che la trascenda, bensì a scoprire nella realtà il segno di un assoluto che la sottragga – con l’io che ne ha pronunziato, come una formula magica, il nome – all’universale naufragio3. [...] Ma qui, per Ungaretti, entra in campo un fattore decisivo: la guerra. Il tempo è abolito: 25 esiste solo l’istante. Nell’attimo (paradossalmente privilegiato) dell’imminente annichilimento4, il soggetto, ridotto a cosa, prende coscienza di sé nelle cose. L’intuizione dell’identità individuale e della realtà esterna coincidono: la consapevolezza della deiezione5 si ribalta nella rivelazione dell’armonia, del tutto nel quale ogni entità singola è immersa. 1 Bergson: Henri Bergson (18591941), filosofo francese alle cui lezioni Ungaretti assistette a Parigi. 2 La metafisica stessa... relativamente: citazione tratta dell’Introduzione alla metafisica di Henri Bergson, in cui il filosofo francese fa coincidere la metafisica con l’intuizione, definita anche come «la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha

di unico e, conseguentemente di inesprimibile». 3 uno sforzo... naufragio: lo sforzo del poeta non è volto ad andare al di là della realtà umana («assurgere ad un sovrannaturale quid che la trascenda»), ma a trovare in questa realtà un segno che possa permettere di superare il dolore dato dalla sua precarietà (l’«universale naufragio»). In questo modo la parola poetica, per

Ungaretti, assume la valenza di una «formula magica». È interessante notare che lo studioso usa l’espressione metaforica «universale naufragio», evidentemente ripresa da un’immagine del poeta che sta analizzando: l’«allegria di naufragi». 4 annichilimento: annientamento, morte. 5 deiezione: espulsione, eliminazione.

Comprensione e analisi

1. Spiega con le tue parole il rapporto istituito dal critico tra il concetto di “intuizione” bergsoniano e le caratteristiche salienti della poesia di Ungaretti. 2. Rileggi la poesia I fiumi: in quali versi puoi trovare conferma di quanto espresso alle rr. 25-27 del passo di Barenghi?

Produzione

Spiega in che rapporto si pone la drammatica esperienza della guerra vissuta in prima persona dal poeta con la visione della conoscenza come “intuizione” e la conseguente “poetica della parola” ungarettina.

138 Il Novecento (Prima parte) 1 Giuseppe Ungaretti


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

2 L’Ermetismo

Già nei primi due decenni del Novecento la poesia aveva conosciuto un grande rinnovamento, testimoniato in modi diversi dai futuristi, dai crepuscolari e dai “vociani”. Negli anni successivi, in un contesto storico caratterizzato dalla dittatura fascista e in campo letterario dal richiamo alla tradizione, all’“ordine” (di cui si fa portavoce in particolare la rivista «La Ronda»), si afferma una tendenza poetica che rifiuta l’avventura dello sperimentalismo a oltranza, per mettere al centro il valore autonomo, assoluto, della poesia e la ricerca esistenziale. Ci riferiamo all’Ermetismo, che si esprime in una poesia difficile, oscura, densa di allusioni simboliche, volutamente lontana dalla dimensione storico-politica.

linea poetica 1 Una metafisica 139


1 Una linea poetica metafisica 1 L’Ermetismo e la parola “assoluta” L’Ermetismo si sviluppa tra gli anni Trenta e la guerra, in particolare a Firenze (dove scrittori e poeti si incontrano nel celebre Caffè delle Giubbe Rosse): ne sono principali testimonianze la raccolta Isola di Alfonso Gatto (1932 ➜ T1 ); alcune raccolte di Salvatore Quasimodo (Oboe sommerso, 1932; Erato e Apollion, 1936, Ed è subito sera, 1942➜ T3 T4 ), La barca di Mario Luzi (1935 ➜ T2 ), 18 poesie (1936) e Poesie (1938) di Leonardo Sinisgalli, seguiti da altri poeti più giovani come Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari. Manifesto della poetica dell’Ermetismo è il saggio di Carlo Bo Letteratura come vita (1938), in cui ne sono enunciati i principi cardine (➜ D1 ). Importanti punti di riferimento per gli ermetici furono due riviste fiorentine: «Frontespizio» e «Campo di Marte» (1938-39), fondata e diretta da Alfonso Gatto e da Vasco Pratolini.

Lessico solipsismo Il termine rileva dell’ambito filosofico, deriva dall’unione di due parole latine: solus, “solo” e ipse, “stesso” e indica la tendenza del soggetto a comprendere e risolvere tutta la realtà in se stesso, in particolare dal punto di vista della conoscenza della realtà stessa.

Il termine ermetismo L’origine della parola “ermetico” risale ai cosiddetti “libri ermetici” (II-III sec d.C.), attribuiti alla mitica figura di Hermes Trismegisto: si tratta di testi filosofico-religiosi di carattere esoterico, di difficile decifrazione. L’aggettivo “ermetico” è passato quindi a definire qualcosa di difficile, oscuro. L’uso del termine “ermetismo” per designare una linea poetica del Novecento si deve al critico di scuola crociana Francesco Flora che in un suo saggio (La poesia ermetica, 1936) qualificava come “ermetica” – con una connotazione negativa – ampia parte della poesia moderna, della quale criticava il solipsismo e la voluta oscurità, che ne rendeva ardua la comprensione. Come è accaduto per altre etichette critiche, la formula ha avuto anche troppa fortuna ed è stata usata, soprattutto nella manualistica scolastica, in modo estensivo, creando non pochi equivoci: ermetici sono diventati d’ufficio Ungaretti e Montale (anche se il primo è stato effettivamente un modello per i poeti ermetici). Oggi si continua a usarla, ma con riferimento esclusivamente a un gruppo di poeti attivi a Firenze negli anni Trenta o, in modo ancora più restrittivo, solo ad alcune delle loro raccolte (non tutte dunque): è il caso di Luzi o ancor più di Quasimodo, che, dopo la fase ermetica, sceglie una poesia civile dai toni enfatici. I modelli degli ermetici Gli ermetici respingono del tutto i riferimenti contingenti alla dimensione storica, per elevare a valore assoluto la parola poetica come portatrice di verità rispetto ai “non valori”, di cui la realtà del tempo offriva molteplici esempi. Ne deriva una poesia difficile, addirittura criptica, il cui principale modello di riferimento è Ungaretti, in particolare nella raccolta Sentimento del tempo uscita nel 1933 (ma non è da trascurare anche l’influenza della poesia “orfica” di Campana). Nell’uso di un linguaggio simbolico, di una parola “pura” che non rappresenta ma evoca, gli ermetici testimoniano inoltre l’assimilazione della lezione del simbolismo francese, in particolare di Mallarmé e Valéry. La predilezione per tematiche esistenziali e metafisiche Quella di poeta è per gli ermetici una condizione, non una professione, secondo la definizione di Carlo Bo, critico e maggiore teorico dell’Ermetismo, nel saggio Letteratura come vita (➜ D1 : la

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poesia è «la massima condizione del nostro spirito, non serve per conoscere, ma è in se stessa una conoscenza»). Il titolo, davvero emblematico del saggio, rovescia consapevolmente il motto dell’estetismo dannunziano della “vita come letteratura”. La poesia, soprattutto per alcuni ermetici, è lo strumento elettivo per raggiungere l’assoluto. Questa concezione implica la concentrazione della poesia ermetica intorno a tematiche esistenziali, spesso di tipo religioso o comunque metafisico: l’“assenza”, che può essere la lontananza nel tempo e/o nello spazio di persone e luoghi cari (come la terra natale mitizzata da Gatto e soprattutto Quasimodo), ma anche l’“attesa” di un evento rivelatore, che per lo più non si verifica, la tensione verso un “altrove” che può essere a volte identificato con l’eterno, il trascendente. Un linguaggio cifrato Il linguaggio degli ermetici è lontano dalla significazione comune, è sempre alto, allusivo, cifrato. Si fa largo uso dell’analogia (cioè del collegamento inusitato fra immagini diverse), di iperbati e inversioni sintattiche e in genere di procedimenti che, accentuando la polisemia del linguaggio poetico, ostacolano volutamente la ricezione immediata e la comprensione univoca del messaggio. Il lessico è colto, astratto, lontanissimo dal quotidiano. L’Ermetismo: una fuga dalla realtà storica? Nella stagione dell’impegno che caratterizzò in modo marcato il dopoguerra, gli ermetici furono accusati di essersi estraniati dal loro tempo e di aver abdicato al ruolo di oppositori che spettava agli intellettuali di fronte alla barbarie fascista. In realtà la funzione testimoniale dei più alti valori dello spirito che essi attribuivano alla poesia, ma anche la presenza di tematiche “negative” nella loro opera costituivano di per sé un implicito dissenso nei confronti dell’ottimismo programmatico e della retorica trionfalistica del regime e rispetto al modello umano e poetico del vate D’Annunzio. D’altra parte, non è causale che la tendenza ermetica si esaurisca tra il 1943 e il 1945: la drammatica fine del fascismo, l’esperienza tragica della guerra, «annullano definitivamente le condizioni per esaltare la perfetta autonomia metafisica del dato poetico» (Cataldi). È significativo poi che Gatto e Quasimodo, due dei poeti più rappresentativi della corrente ermetica, aderiscano alla poetica neorealista e scelgano temi civili.

Ermetismo PERIODO

anni Trenta-Quaranta del Novecento

LUOGO

in particolar modo Firenze

TEMI

temi esistenziali e metafisici

LINGUAGGIO

alto e allusivo

STILE

uso dell’analogia, iperbati e inversioni sintattiche

LESSICO

colto e astratto

POETI E RACCOLTE

Alfonso Gatto (Isola, 1932); Salvatore Quasimodo (Oboe Sommerso, 1932; Eracle e Apollion, 1936; Ed è subito sera, 1942); Mario Luzi (La barca, 1935); Leonardo Sinisgalli (18 poesie, 1936; Poesie, 1938)

Una linea poetica metafisica 1 141


Carlo Bo

«La letteratura è una condizione, non una professione»

D1

Letteratura come vita I brevi passi proposti sono tratti dal saggio di Carlo Bo (1911-2001) Letteratura come vita del 1938, in cui il critico definisce una visione della letteratura nella quale si riconobbero molti scrittori e poeti che si è soliti ascrivere all’Ermetismo.

C. Bo, Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, Rizzoli, Milano 1994

Di solito, per un letterato – prendendo il termine nella sua accezione limitata e di dignità inferiore – si trattava di equilibrare nei tempi1, di svolgere cioè il mestiere (la letteratura) nelle pause della vita. La letteratura diventa così a poco a poco un altro divertimento, tanto più inutile quanto più difficile e serio, da coltivare in una pace 5 costruita, in quei momenti che la vita lasciava liberi, disoccupati: era un’attività, e peggio, secondaria: uno stato dimissionario [...] della nostra coscienza di uomini. Noi a questa letteratura non abbiamo mai creduto. [...] Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di una consuetudine e di costumi comuni, aggiogati nel tempo2, quando sappiamo che è una strada, e forse la strada più 10 completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza. A questo punto è così chiaro come non possa esistere – se non su una carta ormai abbandonata di calcoli e di storie letterarie – un’opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere quell’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere 15 con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi3. [...] La letteratura è una condizione, non una professione. Non crediamo più ai letterati padroni gelosi dei loro libri, anzi non facciamo credito ai calcoli bibliografici4: a che cosa servono queste virtù legate alla stagione, queste risorse di successo? 20 Non esiste un mestiere dello spirito. 1 equilibrare nei tempi: trovare un modo per conciliare, in un difficile equilibrio, il tempo della vita con quello dedicato alla letteratura. 2 illustrazione... nel tempo: rappresentazione di usi e abitudini comuni legati a un

determinato contesto (ma l’espressione aggiogati nel tempo comporta una sfumatura negativa). 3 una notizia... ci soddisfi: una rivelazione che vada oltre la dimensione contingente (ci superi) e che ci appaghi (soddisfi).

4 non facciamo... bibliografici: non teniamo in alcun conto le valutazioni sui libri e le statistiche sulle pubblicazioni.

Concetti chiave La letteratura come strumento di ricerca

In questi brevi passi è centrale l’idea che la letteratura non sia un mestiere, ma una “condizione” spirituale, Bo afferma di non aver mai creduto a una letteratura concepita come un’attività secondaria. Secondo il critico non esiste un’opposizione fra letteratura e vita, perché la letteratura diventa uno strumento per comprendere meglio se stessi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale differenza viene indicata nel testo tra il modo di concepire la letteratura del passato e l’idea di letterato e letteratura sostenuta da Bo?

142 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo


Interpretare

SCRITTURA 2. Spiega brevemente perché queste espressioni hanno un ruolo chiave nell’identificazione dell’idea di letteratura formulata da Bo (e condivisa dagli ermetici): • «[la letteratura] è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza» • «Per noi sono tutt’e due [la vita e la letteratura], e in egual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità» • «La letteratura è una condizione, non una professione» • «Non esiste un mestiere dello spirito» • Sintetizza poi i dati raccolti in un breve testo (max 15-20 righe) e spiega perché il saggio di Carlo Bo costituisce una sorta di manifesto nell’ambito della stagione ermetica.

Alfonso Gatto

T1

Carri d’autunno Isola

A. Gatto, Poesie, Mondadori, Milano 1961

La breve lirica, composta da Alfonso Gatto (1909-1976) quand’era poco più che ventenne, è pubblicata nel 1932 in Isola, considerata una delle raccolte chiave dell’Ermetismo e uscita nello stesso anno di Oboe sommerso di Quasimodo. Il testo è particolarmente esemplificativo dei caratteri della poesia ermetica: in una dimensione spazio-temporale indeterminata si susseguono immagini irrelate, di carattere oniricosurreale, nelle quali è largamente impiegata l’analogia.

Nello spazio lunare1 pesa il silenzio dei morti2. Ai carri eternamente remoti il cigolìo dei lumi 5 improvvisa perduti e beati villaggi di sonno3. Come un tepore troveranno l’alba gli zingari di neve, come un tepore sotto l’ala i nidi4. 10

Così lontano a trasparire il mondo ricorda che fu d’erba, una pianura.5

La metrica La lirica è costituita da tre strofe con un numero decrescente di versi (6 la prima, 3 la seconda, 2 la terza) e crescente per tipologia (brevi nella prima, un settenario e due endecasillabi nella seconda, due endecasillabi nella terza).

1 spazio lunare: illuminato dalla luna (ma l’aggettivo è più evocativo che realistico).

2 pesa il silenzio dei morti: il riferimento al silenzio che regna sul luogo assume una connotazione angosciosa (pesa, “grava, incombe”) e luttuosa, non infrequente nella poesia di Gatto.

3 Ai carri... di sonno: nel paesaggio si insinua una presenza, anche se del tutto enigmatica: quella di una carovana di nomadi (come si deduce dal riferimento agli zingari del v. 8) che viaggia verso una meta sempre lontana (eternamente remoti sono i loro carri). Il cigolìo prodotto dalle lanterne appese ai carri fa balenare, fa immaginare (improvvisa è verbo) ai carri (in realtà, a coloro che viaggiano su di essi) la presenza di villaggi lontani (perduti) e felici (beati), immersi nel sonno (o forse che esistono solo nel sogno degli zingari). L’ambiguità del testo, la polisemia delle immagini rende

però assai difficile – e forse inopportuna – una spiegazione letterale. 4 Come un tepore... i nidi: gli zingari coglieranno nell’alba nevosa il tepore, come gli uccellini (i nidi è metonimia) sotto l’ala. Evidente il richiamo al Gelsomino notturno pascoliano: «Sotto l’ali dormono i nidi» (v. 7). 5 Così lontano... una pianura: il mondo ancora lontano dal trasparire (perché l’alba è ancora lontana, ma il sintagma è di difficile interpretazione) ricorda che un tempo fu una pianura d’erba (mentre ora è coperto di gelida neve).

Una linea poetica metafisica 1 143


Analisi del testo Un paesaggio enigmatico È difficile fare la parafrasi della lirica e decifrarne il significato, perché l’uso evocativo e non realistico del linguaggio, le metafore ardite e le analogie rendono enigmatico il messaggio. A prima vista la poesia è incentrata sulla rappresentazione di un paesaggio notturno, illuminato dalla luna, oppresso da un silenzio di morte. È inverno, come si può forse dedurre dall’immagine analogica «gli zingari di neve» e dal riferimento al tepore che forse l’alba porterà. In questo paesaggio entra la presenza umana: la pianura è attraversata dai carri dei nomadi, a cui fa diretto riferimento la parola zingari del v. 8. Suggestionati dal cigolìo delle lanterne essi sognano la pace, il riposo, il calore che appaiono però lontani, quasi un miraggio nel loro eterno vagare. Particolarmente enigmatica l’immagine finale: il mondo ricorda quando era una pianura erbosa. A una rappresentazione antirealistica dello spazio corrisponde una dimensione favolosa del tempo: domina infatti nella lirica un presente atemporale (pesa, improvvisa, ricorda, eternamente remoti); l’asserzione che riguarda il futuro (troveranno) è più una speranza, un miraggio, che una realtà. L’indeterminatezza della scena, che fa pensare a una visione onirica, rende possibili altre interpretazioni: ad es., c’è chi ha identificato lo spazio lunare con lo spazio siderale e i carri con le costellazioni celesti dell’Orsa Maggiore e minore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la lirica in 5 righe e indicane il tema centrale e le parole chiave. ANALISI 2. Spiega il significato dell’espressione «villaggi di sonno» (v. 6). 3. Rintraccia i riferimenti alle sensazioni visive presenti nel testo e cerca di interpretarne il significato. STILE 4. Quale figura retorica è presente al v. 4? 5. Identifica le assonanze e le allitterazioni, rintraccia gli iperbati e le inversioni: questi ultimi contribuiscono a conferire alla lirica caratteri di ambiguità semantica?

Interpretare

SCRITTURA 6. Spiega in un testo (15 righe circa) per quali aspetti la lirica si può ricondurre alla poetica dell’Ermetismo.

Alfred J. Munnings, Gypsy Caravan at Ringland Hills, 1909, olio su tela.

144 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo


Mario Luzi

T2

L’immensità dell’attimo

LEGGERE LE EMOZIONI

La barca M. Luzi, L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Mondadori, Milano 2005

Il poeta fiorentino Mario Luzi (1914-2005 ➜ C19) è considerato l’autore più rappresentativo dell’Ermetismo fiorentino. La lirica che presentiamo è tratta dalla sua prima raccolta, La barca (1935), costituita da soli quindici testi, in cui si manifestano in modo emblematico i temi e gli stilemi della poetica ermetica. Al centro della raccolta è la riflessione sul ruolo della poesia e il contrasto tra l’apparenza fenomenica e l’essenza profonda del reale.

Quando tra estreme ombre profonda in aperti paesi l’estate rapisce il canto agli armenti e la memoria dei pastori e ovunque tace 5 la segreta alacrità delle specie1, i nascituri avvallano nella dolce volontà delle madri2 e preme i rami dei colli e le pianure aride il progressivo esser dei frutti3. 10 Sulla terra accadono senza luogo, senza perché le indelebili verità4, in quel soffio5 ove6 affondan leggere il peso le fronde le navi inclinano il fianco 15 e l’ansia de’ naviganti a strane coste7, il suono d’ogni voce perde sé nel suo grembo, al mare al vento8. La metrica Polimetro con prevalenza di settenari ed endecasillabi, alternati a versi di varie misure.

1 Quando... delle specie: la lirica si apre con un’ampia subordinata temporale che abbraccia i primi cinque versi creando un vasto scenario naturale. Intendi così: Quando l’estate, profonda tra ombre estreme nelle aperte pianure, fa assopire gli armenti e stordisce (col suo calore) i pastori e ovunque tace l’istinto misterioso che spinge alacremente le specie a moltiplicarsi.

2 i nascituri... delle madri: i nascituri discendono (e/o si celano) nel grembo delle madri che si accingono a generarli. 3 preme... frutti: costruisci: il progressivo esser dei frutti (è soggetto) preme i rami dei colli e le pianure aride. Cioè: “il progressivo maturare dei frutti pesa sui rami (degli alberi) su colli e nelle pianure”; si allude qui dunque all’ambito vegetale. 4 accadono... verità: si manifestano in luoghi non prestabiliti e in modo (almeno apparentemente) casuale le verità incancellabili. Non si specifica di quali “verità” si tratti.

5 in quel soffio: a livello letterale si allude al soffio del vento, ma il riferimento assume un significato simbolico profondo. 6 ove: entro il quale. 7 le navi... coste: le navi si inclinano sulle fiancate (mosse dal vento) e su di esse i naviganti ansiosi (di raggiungere) terre sconosciute e misteriose (strane coste). La navigazione è metafora usuale in poesia per significare il cammino della vita. 8 il suono... al vento: il suono di ogni voce si annulla dentro di sé (o forse più probabilmente dentro il soffio del vento, se si attribuisce a questo un senso simbolico profondo).

Analisi del testo Una poesia pervasa dalla tensione metafisica Fin dalla prima raccolta, a cui appartiene la lirica, si manifesta la tensione metafisica che caratterizza, pur con diversi esiti nel tempo, la poesia di Luzi. La religiosità del poeta fiorentino non assume mai caratteri dogmatici né consolatori, ma si configura come ricerca, a volte angosciosa, del significato profondo della vita umana, ricerca della “verità”. Questa valenza della poesia di Luzi è rispecchiata dal suggestivo titolo della lirica proposta: L’immensità dell’attimo.

Una linea poetica metafisica 1 145


Tra Lucrezio e Dante È stato giustamente osservato che nell’enigmatico testo luziano, esempio tipico di ermetismo, si avverte l’eco di un illustre modello: il celebre Inno a Venere che apre il poema di Lucrezio De rerum natura. In esso lo scrittore latino celebra la forza vitale che in primavera spinge gli esseri viventi a unirsi per generare nuove vite. La lirica di Luzi rappresenta però un tempo diverso, l’estate, in cui matura il frutto della «segreta alacrità delle specie»: quando l’estate torrida zittisce gli armenti e smemora i pastori, i frutti maturano pesando sugli alberi (vv. 8-9), i nascituri si celano nel grembo delle madri in attesa di venire alla luce. Il poeta cristiano non si limita a celebrare la forza generatrice dell’istinto amoroso come l’autore pagano, ma legge nella vita del creato, che sempre si rigenera, la presenza del mistero trascendente (vv. 10-17), la rivelazione di «indelebili verità» (vv. 11-12) che sfuggono a ogni determinismo («senza perché»). Il soffio del vento che spinge le navi con i naviganti ansiosi verso approdi sconosciuti diventa allora il simbolo dello spirito divino che pervade l’universo e conduce misteriosamente ogni creatura al suo fine. Su Luzi in questa lirica agisce anche la suggestione degli straordinari versi del primo canto del Paradiso (Dante è autore molto amato da Luzi) in cui l’Alighieri rappresenta la tensione dell’universo verso Dio che agisce e si manifesta in modo diverso nelle diverse creature: «onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti» (Pd I, 112-114).

Il secondo blocco I versi 12-19 potrebbero essere interpretati come una sorta di lettura filosofica alla precedente rappresentazione: il mistero della vita e dei destini è ricondotto a una prospettiva trascendente che li spiega, anche se non a livello razionale («senza perché»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Cerca di spiegare il senso del titolo attribuito alla lirica. ANALISI 2 Ricerca verbi e costrutti usati in modo inconsueto, che creano l’indeterminatezza e ambiguità semantica tipica della poesia ermetica. LESSICO 3. Rintraccia la presenza, tipica dell’Ermetismo, di sostantivi astratti e spiegali in rapporto al contesto. STILE 4. Rintraccia gli enjambements e valuta gli effetti che producono.

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SCRITTURA 5. Nella lirica di Luzi si avverte la presenza dello spirito divino che pervade l’universo e che spinge ogni creatura al suo fine. Tu come ti rapporti con il senso del mistero? Hai un approccio razionale e pragmatico o contempli nella tua vita una prospettiva trascendente?

Claude Monet, Regate ad Argenteuil, 1872 ca. (Musée d'Orsay, Parigi).

146 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo


2 Salvatore Quasimodo Il poeta siciliano Salvatore Quasimodo testimonia in modo esemplare nella sua produzione il passaggio, comune anche ad altri poeti, da una iniziale fase ermetica (e dell’Ermetismo è uno degli autori più rappresentativi) a una poesia “civile”, in seguito agli eventi traumatici del secondo conflitto mondiale. Nato a Modica, in provincia di Ragusa, in Sicilia nel 1901, dopo essersi diplomato come geometra, Quasimodo si trasferisce a Roma dove si iscrive alla facoltà di lettere (senza però laurearsi). Si sposta quindi prima a Reggio Calabria e poi, dal 1934, a Milano, dove vivrà stabilmente, collaborando a varie riviste e insegnando Letteratura italiana presso il Conservatorio. Divenuto nel tempo un poeta celebre, nel 1959 conquista il premio Nobel per la letteratura, non senza aspre polemiche. Muore a Napoli nel 1968. La fase ermetica e la Sicilia come isola-mito Quasimodo esordisce come poeta ermetico con la raccolta Acque e terre, pubblicata nel 1930 a Firenze nelle edizioni di «Solaria». A essa seguiranno Oboe sommerso (1932); Erato e Apollion (1936). Nel 1942 raccoglie il lavoro precedente nella fondamentale raccolta Ed è subito sera, dal titolo della sua lirica forse più nota, raccolta pubblicata da Mondadori a Milano. Tipicamente “ermetica” in queste raccolte è la rinuncia a una dimensione comunicativa in nome di una ricercata allusività, l’abbondanza di legami analogici più che logici, l’uso di un lessico alto. Sul piano tematico più che dalla ricerca dell’assoluto, la poesia “ermetica” di Quasimodo è caratterizzata dal ripiegamento individuale in un pessimismo di fondo, da una concezione dell’esistenza priva di certezze e carica di dolore. Un’immagine ricorrente nella poesia ermetica di Quasimodo è quella della Sicilia, sua terra natale, da lui abbandonata nel periodo della prima giovinezza; un allontanamento sentito come un esilio, che trasfigura l’isola lontana in un vero e proprio mito, in un’immagine atemporale di pura e perfetta bellezza e armonia. La Sicilia evocata da Quasimodo si carica delle connotazioni quasi edeniche di un paradiso perduto, fissata al centro del suo immaginario poetico. La Sicilia così mitizzata richiama al poeta l’antica civiltà greca, tanto ammirata che, nonostante l’imperfetta conoscenza della sua lingua, egli volle tradurre gli antichi lirici greci, in un’opera pubblicata nel 1940 (Lirici greci), considerata uno dei suoi capolavori. L’esperienza della guerra e il mutamento della poetica Nel Nord Italia Quasimodo vive l’esperienza della Seconda guerra mondiale: Milano, devastata dalle bombe e dalle atrocità naziste, è il nuovo teatro della sua lirica. L’angosciante esperienza del conflitto determina la svolta, così sintetizzata in uno scritto del 1946: «Oggi, poi, dopo due guerre nelle quali l’“eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo». Così, nell’immediato dopoguerra, nasce la raccolta Giorno dopo giorno (1947) che segna il culmine della fama del poeta e che, più di ogni altra, contribuisce all’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1959. La raccolta, unitamente alle due successive (La vita non è sogno, 1949 e Il falso e vero verde, 1956) evidenzia una trasformazione sia dei contenuti sia dello stile rispetto alle raccolte della fase ermetica: Quasimodo ricerca in esse una comunicazione diretta con il lettore e affida alla poesia un valore testimoniale, che si traduce nella predilezione per temi etico-civili, espressi con toni spesso epici, non esenti, come è stato osservato, da una “nobile retorica”. Di Quasimodo si tende oggi a valorizzare soprattutto l’attività di grande traduttore. Una linea poetica metafisica 1 147


Salvatore Quasimodo

T3

Ed è subito sera Ed è subito sera

S. Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, a c. di G. Finzi, Mondadori, Milano 1996

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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

In questa brevissima lirica Quasimodo condensa i tratti essenziali dell’Ermetismo. In pochi versi viene rappresentata la fragilità della condizione umana, la solitudine esistenziale e l’inesorabile destino che attende tutti gli uomini: la morte.

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

La metrica Un doppio senario, seguito da un novenario e un settenario.

Analisi del testo Un testo chiave dell’Ermetismo Temi esistenziali, essenzialità evocativa, densità espressiva e linguaggio metaforico hanno reso questa lirica un testo chiave dell’Ermetismo. Quasimodo subisce l’influenza del modello stilistico dell’Allegria di Ungaretti, e in particolare di Mattina (➜ C1 T11 ) e concentra in un breve testo tutto il senso di solitudine e di disorientamento che caratterizza la vita di ogni uomo. Si nasce per vivere in solitudine; anche se si vive sul cuor della terra, al centro del mondo, la gioia della vita è solo un attimo, un fulmineo raggio di sole destinato a essere oscurato dalla sera che incombe.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché, secondo te, il verso che chiude la lirica è il più breve dei tre che la compongono? ANALISI 2. Da quale elemento del testo si può comprendere che la situazione che viene presentata è riferita a una condizione universale nella quale si trovano immersi tutti gli uomini? 3. Individua nella lirica gli elementi simbolici che alludono alla vita e alla morte.

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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 4. Il primo verso della lirica è incentrato sul tema della solitudine esistenziale, destino comune a tutti gli uomini. Nella tua esperienza personale come percepisci la solitudine? Quando ti trovi solo con te stesso, qual è il tuo stato d’animo?

Salvatore Quasimodo

T4

L’eucalyptus Ed è subito sera

S. Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, a.c. di G. Finzi, Mondadori, Milano 1996

La poesia fa parte della raccolta Ed è subito sera (1942) in cui confluiscono le prime raccolte di Quasimodo, pubblicate a partire dal 1930. Può rappresentare in modo emblematico la fase della poesia di Quasimodo collegabile all’Ermetismo, dalla quale il poeta siciliano si distaccherà vistosamente nel periodo della guerra.

Non una dolcezza mi matura, e fu di pena deriva ad ogni giorno il tempo che rinnova

148 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo


5

a fiato d’aspre resine1. In me un albero oscilla da assonnata riva, alata aria amare fronde esala2.

10

M’accori3, dolente rinverdire4, odore dell’infanzia che grama gioia accolse5, inferma già per un segreto amore di narrarsi all’acque6.

15

Isola mattutina7: riaffiora a mezza luce la volpe d’oro uccisa a una sorgiva8.

La metrica Versi liberi. 1 Non una dolcezza... resine: costruisci così: Non mi matura una dolcezza, e il tempo che rinnova a fiato d’aspre resine fu deriva di pena ad ogni giorno. Il senso complessivo della dichiarazione che apre la poesia è un’asserzione della pena di vivere: “Nessuna esperienza positiva, dolce, mi matura e il tempo che rinnova col suo profumo d’aspre resine (si allude forse al ricordo del profumo dell’eucaliptus, che dà il titolo alla poesia) è stato per me (una) deriva di pena, mi ha trascinato nel dolore come una barca alla deriva”.

2 In me... esala: dentro il poeta affiora incerta (oscilla) dalle nebbie del passato (è forse questo il significato del sintagma assonnata riva) l’immagine dell’albero dell’eucalipto, ma si tratta di un’immagine amara (difficile, quasi impossibile, spiegare letteralmente l’espressione «alata aria / amare fronde esala»). 3 M’accori: mi rattristi, mi addolori. 4 dolente rinverdire: doloroso ricordo che rinnova l’immagine dell’albero nella memoria. 5 che grama gioia accolse: che (riferito all’infanzia) visse ben poca gioia.

6 inferma... all’acque: espressione particolarmente ermetica: malata (l’infanzia) di un segreto desiderio di confidarsi alle acque del mare (un’allusione forse alla solitudine). 7 Isola mattutina: il ricordo dell’isola natìa affiora al mattino, o forse affiora il ricordo del paesaggio siciliano nel mattino. 8 riaffiora... sorgiva: la lirica si chiude con un’immagine simbolica di dolore e di morte.

Analisi del testo Il tema esistenziale I primi cinque versi della lirica enunciano il tema esistenziale della pena di vivere: nella vita del poeta non c’è stato posto per la dolcezza, l’azione trasformatrice del tempo non ha coinciso per lui con un cammino positivo, ma è stata una «deriva di pena», cioè un girovagare smarrito nel dolore. È al v. 6 che compare il riferimento che dà il titolo alla poesia: l’immagine dell’eucalyptus, un albero tipico di alcune zone della Sicilia, patria del poeta, affiora dalle nebbie della memoria (assonnata riva). Il profumo emanato dalla pianta rimanda proustianamente all’infanzia, ma il ricordo non è qui associato alla felicità: amare sono le fronde, fortemente negativo è il verbo che apre il v. 10: M’accori. Ben poche furono le gioie dell’infanzia («grama gioia accolse»): un’infanzia che il poeta rappresenta come precocemente malata (inferma) forse per una vocazione alla solitudine, alla chiusura dentro di sé, anziché all’incontro, al contatto vitale con gli altri: potrebbe essere questo il significato del «segreto amore / di narrarsi all’acque»; ma, data l’indeterminatezza dell’espressione, vi si potrebbe leggere anche il desiderio di evasione che portò il poeta a lasciare la terra natìa. Dopo il parallelismo che lega il profumo dell’eucalyptus all’infanzia, negli ultimi versi Quasimodo istituisce un ulteriore parallelismo: infanzia-isola. Il ricordo dell’isola al mattino si accampa al v. 15, ma è nuovamente a un’immagine simbolica di dolore, anzi di morte, che Quasimodo affida la chiusa.

Il mito della Sicilia e il tema della solitudine Nella lirica emerge il tema, ricorrente nella prima produzione di Quasimodo, della terra natale, la Sicilia, che il poeta (era nato a Modica, nel ragusano, nel 1901) lasciò nel 1929 e che

Una linea poetica metafisica 1 149


affiora spesso nella sua memoria («Mi richiama talvolta la tua voce, / e non so che cieli ed acque / mi si svegliano dentro»: così si apre la lirica Vicolo). La Sicilia è evocata con l’acuta nostalgia dell’esule («Aspro è l’esilio», Vento a Tindari), che la trasfigura miticamente, che la trasforma spesso in un Eden perduto (la critica ha sottolineato la vicinanza di Quasimodo con Foscolo per la centralità del tema dell’esilio e il mito della terra natìa). Spesso la rievocazione della Sicilia si fonde con il ricordo dell’infanzia, vista in genere come momento felice di fusione quasi panica con la natura («Ride la gazza nera sugli aranci») mentre alla vita adulta, che il poeta vive lontano dall’isola amata, corrisponde la perdita d’armonia. In questa lirica invece l’evocazione dell’infanzia non si traduce in un contrasto tra presente e passato: l’infanzia stessa appare inquinata dal male di vivere, dalla solitudine. La condanna alla solitudine (presente soprattutto nelle liriche di Erato e Apollion) è associata da Quasimodo alla vocazione poetica, al culto della poesia alta, di valore assoluto, secondo la visione propria dell’Ermetismo. Nella lirica Al tuo lume naufrago il poeta si definisce «sradicato dai vivi» e paragona la sua condizione all’inferno in terra: «Sono un uomo solo / un solo inferno».

Le scelte stilistiche e la “grammatica” dell’Ermetismo Con le sue prime raccolte Quasimodo ha un ruolo importante nel codificare la “grammatica” dell’Ermetismo, gli elementi retorico-stilistici che caratterizzano marcatamente la poesia ermetica. Possiamo notare in questa lirica: – l’uso di un linguaggio colto e arcaizzante («M’accori», «dolente rinverdire»); – la disarticolazione dei nessi logici; – le ardite metafore («deriva di pena», «assonnata riva»); – le frequenti inversioni, che creano ambiguità ma anche un tono alto, solenne («di pena deriva», «amare fronde esala», «grama gioia accolse»); – l’uso anomalo e ambiguo delle preposiPiet Mondrian, L’albero grigio, 1912 zioni («a fiato d’aspre resine»). (Gemeentesmuseum, L’Aia).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo e indica il tema centrale. COMPRENSIONE 2. Quale elemento suscita la regressione memoriale? ANALISI 3. Nel componimento è evidente la ricorrenza simbolica del mare. Quali elementi stilistici vi fanno riferimento? LESSICO 4. Rintraccia dal punto di vista lessicale la presenza di un linguaggio colto e arcaizzante.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Istituisci un confronto con il sonetto A Zacinto di Foscolo (➜ V2B C3), dal punto di vista del contenuto (andamento narrativo o descrittivo, visione della vita, evocazione nostalgica dell’esule ecc.) e dal punto di vista formale (aspetto lessicale, sintattico e ritmico, utilizzo di figure retoriche) e prova a mettere in evidenza le possibili differenze e analogie e gli aspetti inerenti alla poesia ermetica. SCRITTURA 6. Quanto risulta centrale nella nostra letteratura il forte legame con la terra natale e il ricordo nostalgico del paesaggio? Ti sembra che sia un tema soltanto letterario o rispecchi una parte importante della vita di ogni giorno? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

150 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo


T5

La necessità di una nuova poesia e di una nuova etica di fronte al dramma della guerra I due testi, pubblicati in Giorno dopo giorno, del 1947, sono collocati in una posizione chiave nella raccolta e ne evidenziano i temi di fondo: Alle fronde dei salici, in apertura della silloge, dichiara l’inattualità della poesia del passato di fronte all’evento traumatico della guerra, mentre Uomo del mio tempo, posto alla conclusione della stessa raccolta, si rivolge alle nuove generazioni, invitandole a mutare il corso della storia in senso pacifista.

Salvatore Quasimodo

T5a S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a c. di G. Finzi, Mondadori, Milano 1996

Alle fronde dei salici

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Giorno dopo giorno E come potevamo noi cantare1 con il piede straniero2 sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze3 sull’erba dura di ghiaccio, al lamento 5 d’agnello4 dei fanciulli, all’urlo nero5 della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo6? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese7, 10 oscillavano lievi al triste vento.

La metrica Endecasillabi sciolti. 1 cantare: il verbo allude alla poesia lirica, e all’armonia del canto. Viene evidenziata non l’impossibilità di scrivere poesia, dopo la tragedia della guerra, ma quella di continuare a comporre “canti”, poesie liriche incentrate sull’io individuale. È significativo, perciò, che il soggetto non sia un pronome di prima persona singolare, ma plurale (noi). 2 piede straniero: la metonimia sottolinea l’oppressione dell’occupazione militare tedesca.

3 morti... piazze: i corpi degli italiani uccisi per rappresaglia, come avvenne a piazzale Loreto a Milano, dove Quasimodo si trovava durante la guerra. 4 al lamento d’agnello: l’immagine biblica dell’agnello sottolinea l’innocenza dei bambini vittime della guerra. 5 urlo nero: la sinestesia rende più intensamente l’infinito dolore della madre. 6 crocifisso... telegrafo: impiccato o legato a un palo per la fucilazione. La parola crocifisso collega il martirio di Cristo alle sofferenze delle vittime della guerra. 7 Alle fronde... appese: è citato il salmo 136, Canto dell’esule, Sui fiumi di Babilo-

nia, in cui l’immagine delle cetre appese ai salici, significando l’impossibilità di cantare in lode del Signore, era riferita agli ebrei, deportati a Babilonia («Sui fiumi di Babilonia, / là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportato, / canzoni di gioia, i nostri oppressori: / “Cantateci i canti di Sion!” / Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?»). Il rimando mette in luce un tema della poesia di Quasimodo, la continuità della violenza e del dolore nella storia.

Analisi del testo Il realismo e l’archetipo biblico Alle fronde dei salici, lirica di apertura della raccolta Giorno dopo giorno, dedicata alla Seconda guerra mondiale, evidenzia l’intento di Quasimodo di abbandonare una poesia incentrata sull’individuo, per una produzione civilmente impegnata: le cetre appese ai rami, simbolo della rinuncia al canto, sono infatti lo strumento della poesia lirica, legata ai sentimenti dell’individuo. È significativo anche l’uso della prima persona plurale noi, che indica la volontà di comporre una poesia animata da uno spirito di solidarietà collettiva. Nella breve composizione acquistano risalto le atroci immagini del conflitto: gli uccisi per rappresaglia, esposti nelle piazze, lo strazio della madre di un giovane massacrato, le sofferenze e i pianti (lamento d’agnello) dei fanciulli innocenti: immagini che sottolineano come la guerra abbia colpito, in modo disumano, i più deboli. Per quanto riguarda gli aspetti formali, il poeta, pur allontanandosi dall’Ermetismo, non rinuncia del tutto agli stilemi di una lirica alta, simbolistica, come si coglie nella sinestesia urlo nero, che, associando la sfera uditiva a quella visiva, rende con intensità l’abisso di dolore della madre. Però dall’Ermetismo il poeta si distanzia per il realismo

Una linea poetica metafisica 1 151


della rappresentazione, che si avvale di un lessico concreto e colloquiale, come nell’espressione il piede straniero, che, attraverso una metonimia, sottolinea il peso dell’oppressione straniera. Le allusioni al testo biblico (l’agnello, simbolo del sacrificio di innocenti; la deportazione degli ebrei a Babilonia; il sacrificio di Cristo) assolvono una duplice funzione: innalzare la poesia ad un livello quasi sacrale e sottolineare come la violenza sia una costante nella storia umana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il tema fondamentale del testo. COMPRENSIONE 2. Perché, secondo il poeta, la poesia fu ridotta dalla guerra a una condizione di impotenza? LESSICO 3. Rintraccia nel componimento termini ed espressioni che rievocano il dramma della guerra. Quali immagini ti sembrano più efficaci, e per quali ragioni?

Interpretare

SCRITTURA 4. Con questa lirica Quasimodo testimonia il valore civile della poesia e denuncia gli orrori della guerra. Nel mondo attuale dilaniato dai conflitti bellici ti sembra che la memoria del passato espressa per mezzo della poesia possa incidere sulle coscienze?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

Salvatore Quasimodo

T5b S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a c. di G. Finzi, Mondadori, Milano 1996

Uomo del mio tempo Giorno dopo giorno Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo1. Eri nella carlinga2, con le ali maligne3, le meridiane di morte4, – t’ho visto – dentro il carro di fuoco5, alle forche, 5 alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu6, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. 10 E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello7: «Andiamo ai campi». E quell’eco8 fredda9, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue 15 salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

La metrica Versi liberi. 1 Sei... tempo: a livello morale, l’uomo moderno non si è evoluto, conserva la ferocia primitiva. 2 carlinga: la parte dell’aeroplano che contiene l’equipaggio. 3 le ali maligne: quelle dell’aereo da combattimento. Il termine suggerisce conno-

tazioni demoniache per un apparecchio destinato a seminare morte. 4 le meridiane di morte: la linea meridiana indica la direzione geografica nord-sud. La precisione degli strumenti di orientamento dell’aereo li rende infallibili strumenti di morte. 5 il carro di fuoco: il carro armato, ma anche questo termine evoca l’archetipo

152 Il Novecento (Prima parte) 2 L’Ermetismo

biblico, per l’episodio del profeta Elia rapito da un carro di fuoco. 6 eri tu: l’uomo moderno. 7 il fratello... fratello: Caino e Abele. 8 quell’eco: è come se le parole di Caino riecheggiassero in quelle dell’uomo moderno, spinto dalla stessa volontà omicida. 9 fredda: senza amore.


Analisi del testo Il progresso tecnico senza progresso morale L’archetipo biblico è evocato anche in Uomo del mio tempo, che chiude la raccolta Giorno dopo giorno. L’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, all’origine della storia dell’uomo, sottolinea come la violenza sia connaturata all’essere umano. Tale atavica ferocia provoca effetti sempre più micidiali nel corso della storia, a causa dell’evoluzione tecnologica che, in assenza di un corrispettivo progresso morale, consentendo di costruire strumenti di morte sempre più perfezionati, porta ad un crescendo nella distruttività dei conflitti, di cui la Seconda guerra mondiale è stata un terribile esempio (v. 5 «con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio»). A sottolineare questo tema, il lessico associa parole precise, quasi asettiche, d’ambito tecnico (carlinga, meridiane di morte, scienza esatta) ad altre che evocano la violenza primordiale e bestiale dell’essere umano: «come uccisero gli animali», e «questo sangue odora», in cui il richiamo alla sensazione olfattiva fa pensare a un uomo ancora imparentato con la bestia, nella sua associazione di istintiva violenza e tecniche distruttive sempre più perfezionate.

Il messaggio di Quasimodo alle nuove generazioni La necessità di «rifare l’uomo» teorizzata da Quasimodo, è sottolineata nella poesia da un cambiamento di destinatario: nei primi 13 versi il poeta si rivolge all’«uomo del mio tempo», con un atto d’accusa, quasi una requisitoria: («T’ho visto», «hai ucciso ancora», «quell’eco [...] è giunta fino a te»), negli ultimi quattro, ai “figli”, con l’invito a imprimere una svolta decisa, in senso pacifista, alla storia, lasciandosi alle spalle la violenza dei padri, simboleggiata dall’immagine, di sapore apocalittico, di una terra da cui salgono nuvole di sangue. L’invito a dimenticare (dimenticate, parola chiave, è ripetuta due volte, ai vv. 14 e 15, in posizione forte, al v. 14 all’inizio, al v. 15 dopo la cesura) si correla con il tema della speranza in un’evoluzione del genere umano, e della società italiana, su cui si chiudono la poesia e la raccolta, rivelando un’affinità tra la poesia di Quasimodo e la contemporanea produzione letteraria in prosa e cinematografica del neorealismo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo della poesia (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. A chi si rivolge il poeta al v. 2? ANALISI 3. Spiega il significato della frase «Andiamo ai campi» (v. 12). A cosa allude il poeta e perché? 4. La lirica può essere suddivisa in quattro parti: individuale e completa la tabella. tema

parole chiave

messaggio del poeta

vv. 1-2 vv. 2-7 vv. 7-13 vv. 14-17 5. Perché al v. 14 il poeta si rivolge ai figli? Spiega il passaggio dal tu dei primi versi al voi. Quale funzione hanno nella poesia i due interlocutori?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Quale idea del progresso emerge in Uomo del mio tempo? L’hai riscontrata in altri testi letterari? Quali?

Fissare i concetti L’Ermetismo 1. Quali sono i tratti essenziali dell’Ermetismo? Dove si sviluppò? 2. Qual è l’origine della parola ermetico? 3. La poetica di Quasimodo attraversa due fasi. Descrivile, facendo riferimento ai testi letti.

Una linea poetica metafisica 1 153


Il Novecento (Prima parte) L’Ermetismo

Sintesi con audiolettura

1 L’Ermetismo e la parola “assoluta”

Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento in Italia, e in particolare a Firenze, si sviluppa e si afferma una tendenza poetica che si pone in chiara rottura con il clima di sperimentalismo che le Avanguardie avevano portato nel panorama letterario e poetico dei primi due decenni del XX sec. Si tratta dell’Ermetismo, una linea poetica che viene così definita per la prima volta nel 1936, in un saggio di Francesco Flora intitolato appunto La poesia ermetica, in cui l’autore criticava gran parte della produzione poetica a lui contemporanea additandola come volutamente oscura e di difficile comprensione. Esponenti principali dell’Ermetismo sono stati Alfonso Gatto con la raccolta Isola (1932); il Salvatore Quasimodo di Oboe sommerso (1932), Erato e Apollion (1936), Ed è subito sera (1942); Mario Luzi con La barca (1935) e Leonardo Sinisgalli con 18 poesie (1936) e Poesie (1938). Modello di riferimento di questi autori è Ungaretti, nella raccolta Sentimento del tempo (1933), ma si percepisce anche l’influenza del simbolismo francese di Mallarmé e Valéry. Caratteristiche fondamentali della poesia ermetica sono l’esaltazione del valore autonomo, assoluto della poesia e l’interesse per le tematiche esistenziali, spesso di tipo religioso o comunque metafisico, secondo il principio dichiarato nel manifesto dell’Ermetismo, il saggio Letteratura come vita di Carlo Bo del 1938, in cui è affermato che la letteratura, in quanto tale, è una condizione (dello spirito), e non una professione, ovvero un mestiere. Si accompagna a questa preferenza il disinteresse per le tematiche civili e storico-politiche, tanto che molti autori ermetici furono accusati di aver rinunciato al ruolo di oppositori contro la violenza fascista. Il linguaggio degli autori ermetici è alto, allusivo, cifrato, ricco di analogie, iperbati, inversioni e tecniche che favoriscono una comprensione ambigua del messaggio, il tutto accompagnato da un lessico erudito, astratto e distante da quello comune.

L’Ermetismo 154 Il Novecento (Prima parte) 2L’Ermetismo


Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) nel 1901. Si diploma come geometra quindi frequenta la facoltà di Lettere a Roma senza però concludere gli studi. Dal 1934 vive stabilmente a Milano dove collabora con diverse riviste e insegna letteratura italiana presso il Conservatorio. Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura che consacra la sua carriera poetica. Muore a Napoli nel 1968. Quasimodo esordisce come poeta ermetico nel 1930 con la raccolta Acque e terre, cui seguono Oboe sommerso (1932), Erato ed Apollion (1936) e Ed è subito sera (1942); quest’ultima raccoglie tutta la produzione precedente. Di carattere ermetico in queste opere è la presenza di una ricercata allusività, il prevalere dei legami analogici su quelli logici, l’uso di un lessico alto. Dal punto di vista tematico il Quasimodo “ermetico” sceglie il ripiegamento individuale in un pessimismo di fondo e in un’idea dell’esistenza incerta e angosciosa. Immagine topica della poesia del primo Quasimodo è quella della Sicilia, la terra natale da cui il poeta si allontanò già nella prima giovinezza. L’isola lontana è idealizzata in un vero e proprio mito, un paradiso perduto senza tempo e in cui vige perfetta armonia. L’esperienza della Seconda guerra mondiale, che Quasimodo vive da una Milano in preda ai bombardamenti e alla barbarie nazista, segna il momento di svolta della sua produzione. Nel 1947 esce la raccolta Giorno dopo giorno, che esibisce diversi contenuti e diverso stile rispetto alle opere della “fase ermetica”: il poeta instaura ora una comunicazione diretta con il lettore e sceglie di affrontare temi etico-civili.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Contestualizza il movimento dell’Ermetismo illustrandone il rapporto con la realtà storica contemporanea (max 3 minuti).

Scrittura

2. In un testo di massimo 15 righe spiega come Quasimodo abbia sentito la necessità di una nuova poesia e di una nuova etica di fronte al dramma della guerra.

Scrittura creativa

3. Prova a cimentarti con la scrittura di un testo poetico che si ispiri allo stile e ai contenuti della poesia ermetica.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 155


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

3 Umberto Saba LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Saba visto dalla figlia Linuccia... Linuccia, la figlia di Saba, rievoca la figura del padre nel ricordo della sua infanzia: affiora l’immagine di un genitore distante, assorto nella sua passione poetica, ignaro della paura che suscitava nella bambina.

Passava in silenzio attraverso le stanze della nostra casa, né lo perdevo di vista: era un uomo che ignorava il reale, del tutto assente. Ricordo che da bambina mi faceva l’effetto di un’ombra, il volto carico di sogni, e tuttavia inconsapevole del terrore che sapeva provocare. Scoppiavo a piangere, mi rifugiavo da mia madre: papà “poeta”, urlavo. […] Tentavo di stabilire un contatto. Ma Saba era costretto a scegliere: o la scrittura, o la quotidianità. Non poteva restare neutrale. Così mi rispondeva a monosillabi, con un leggero tremito di collera nella voce. U. Saba, Atroce paese che amo. Lettere familiari (1945-1952), Bompiani, Milano 1982

... e dallo scrittore Ottavio Cecchi Lo scrittore Ottavio Cecchi (1924-2005) aveva conosciuto Saba durante la Seconda guerra mondiale a Firenze dove il poeta (ebreo per parte di madre e con moglie ebrea) si nascondeva a causa delle persecuzioni razziali. Il ritratto tracciato da Cecchi mette in rilievo gli aspetti più rilevanti della personalità umana di Saba: la solitudine, la sofferenza, la dilaniante scissione interiore, che le conoscenze psicoanalitiche gli consentivano di diagnosticare con oggettivo distacco, ma non di curare.

Io facevo molta fatica, allora, a capire l’uomo Saba; né ho capito la sua poesia per molto tempo. L’ho capita a poco a poco. Prima di me, prima di tutti, Saba aveva scoperto in sé un cuore scisso: l’insanabile contraddizione, l’impossibilità delle sintesi felici. Era solo, né era uomo che facilitasse la comprensione di sé e del suo lavoro. Solitamente non era in vena di simpatie. Era, invece, scostante, lontano, rinchiuso in un mondo suo; era rinchiuso nella sua sofferenza: cupa, senza fondo e inconsolabile. […] Io ora so che Saba soffriva perché era un uomo del nostro tempo, scisso, e la scissura lo dissociava da sé e dagli altri. Avrebbe voluto vivere, ma era chiamato dalla morte; avrebbe voluto morire, ma era chiamato dalla vita. Poiché, com’egli stesso scrisse più tardi, era del partito degli psicoanalisti, finiva per assistere al dramma. Era riuscito a oggettivare la sofferenza, e la guardava come i biologi e i botanici guardano l’oggetto del loro studio: lo tengono in una mano, mentre con l’altra scrivono le osservazioni. Ma conoscere non significa guarire. O. Cecchi, L’aspro vino di Saba, Editori Riuniti, Roma 1988

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Umberto Saba ha una collocazione del tutto particolare nella poesia italiana della prima metà del Novecento: estraneo alle sperimentazioni dell’avanguardia, ma anche al simbolismo, si riallaccia alla grande tradizione poetica italiana, da Dante e Petrarca a Leopardi. Utilizza infatti nel suo Canzoniere la metrica classica, sceglie uno stile quasi prosastico, un linguaggio che oscilla tra la lingua comune e i termini della lingua letteraria più usuali, rimanendo fedele nel tempo a un ideale di poesia “onesta”, che dia voce ai sentimenti, agli affetti familiari, che esprima i valori, senza compiacimenti letterari. Tuttavia la poesia di Saba è solo apparentemente “semplice”, perché il poeta vi immette contenuti assolutamente moderni. Il Canzoniere è una sorta di autoanalisi, uno scavo nella profondità dell’io condotto da Saba con il contributo della psicoanalisi, per cogliere le ragioni della sua sofferenza esistenziale. Sofferenza che il poeta cerca di sconfiggere immergendosi nella vita di tutti e grazie all’amore per la vita che, nonostante tutto, continua a provare.

1 Ritratto d'autore 2 Il Canzoniere Saba prosatore 3 157 157


1 Ritratto d’autore 1 Una vita all’insegna della «serena disperazione» VIDEOLEZIONE

online

Video Il poeta Giovanni Giudici parla del suo incontro con Saba

Un’infanzia traumatica Umberto Poli (Saba è uno pseudonimo) nasce a Trieste nel 1883 da Ugo Poli e Felicita Rachele Cohen: il padre, cattolico, aveva abbracciato la fede ebraica della futura moglie per sposarla, ma l’aveva poi lasciata prima della nascita del figlio (Umberto conoscerà il padre solo vent’anni dopo). Le precarie condizioni di salute e le difficoltà economiche inducono la donna ad affidarlo a una balia slovena, Gioseffa Schobar chiamata da Umberto con il nomignolo affettuoso di Peppa; con lei il piccolo Umberto resta fino all’età di circa quattro anni, quando la madre lo riprende con sé. Il dolore causato dalla separazione dall’amata balia è rievocato nella poesia di Saba, che riconoscerà a quell’esperienza infantile traumatica un ruolo chiave nella strutturazione della propria personalità: da essa deriva la scissione interiore che contraddistingue anche la sua opera. La balia e la madre Al rapporto con la balia, gioiosa e vitale, che il poeta rivive con nostalgia nella sua opera (in particolare nella raccolta Il piccolo Berto) viene contrapposta la figura della madre dal «mesto viso», eccessivamente severa, incapace di slanci affettivi verso il figlio e sempre preoccupata per le difficoltà economiche. Le due figure femminili della sua infanzia rappresenteranno per Saba anche due modalità opposte di interpretare la vita: l’adesione positiva all’esistenza e un amaro pessimismo. Nel contesto familiare triste e severo il bambino Umberto trova sol-

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1915

L’Italia entra in guerra; Saba, interventista, si arruola; è assegnato alle retrovie. 1914

Scoppia la Prima guerra mondiale.

1900

1910

1883

Umberto Poli nasce a Trieste; è affidato alla balia con cui vive fino al 1887. 1893-1899

Frequenta prima il ginnasio e poi l’Accademia di commercio; diventa commesso e si dedica a «sterminate letture».

1905

Incontra per la prima volta il padre e conosce Carolina Wölfler (Lina) che diventerà sua moglie (1909).

Marcia su Roma; Mussolini diventa primo ministro. Fine della Prima guerra mondiale.

1920

Nasce la figlia, Linuccia.

Invasione della Polonia: ha inizio la Seconda guerra mondiale. 1938

1918

1910

1903

Si trasferisce a Pisa; iniziano gli attacchi d’ansia che lo tormenteranno per tutta la vita. Tornato a Trieste, è ricoverato in ospedale in Slovenia.

1939

1922

1933

In Germania va al potere Hitler.

In Italia sono promulgate le leggi razziali.

1930 1921

Pubblica a sue spese la prima edizione del Canzoniere.

1911

Pubblica sotto lo pseudonimo di Saba la prima raccolta, Poesie; invia il saggio Quel che resta da fare ai poeti alla rivista «La Voce» che lo respinge.

1929

1912

Inizia con Edoardo Weiss una terapia psicoanalitica.

Esce nelle edizioni della «Voce» il secondo libro di poesie (Coi miei occhi, poi Trieste e una donna). 1919

Il poeta torna a Trieste; grazie a un’eredità, acquista una libreria antiquaria.

158 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

1938

Si trasferisce con la famiglia a Parigi; ritornato a Trieste, esce dalla comunità ebraica ma rifiuta di battezzarsi (per sfuggire alla persecuzione).


lievo solo nel rapporto con gli animali: una gallina, un merlo («Un merlo avevo, coi suoi occhi d’oro / […] tutte, io dico, / intendere sapeva il caro amico / le mie parole», in Favoletta alla mia bambina), una presenza amicale rievocata sia nelle poesie sia nel romanzo scritto nella vecchiaia, Ernesto. Un adolescente malinconico dalle “sterminate letture” Nel Canzoniere, che raccoglie tutta la produzione in versi di Saba e che il poeta stesso definiva una sorta di “romanzo autobiografico”, sono numerosi i riferimenti al periodo dell’adolescenza, triste e solitario, a cominciare dal sonetto Glauco della sua prima raccolta, Poesie (1911), in cui viene delineato il ritratto di un ragazzo malinUno dei due ritratti di Saba eseguiti attorno conico, diverso dai suoi coetanei, in cui non è difficile al 1950 da Carlo Levi, pittore e scrittore. riconoscere il poeta stesso. L’esperienza scolastica di Umberto è negativa: per volontà della zia Regina, che aiuta economicamente la madre, si iscrive al ginnasio, ma è isolato dai compagni, di ceto più elevato. Abbandonato il ginnasio, frequenta le scuole commerciali, ma lascia anche questo tipo di studi: lavora quindi presso un’azienda di commercio e intanto si dedica allo studio del violino e alla lettura. Nella sua formazione da autodidatta hanno un posto importante i classici: legge Petrarca, Tasso, Parini, Foscolo, Manzoni, i sonetti di Shakespeare e, in particolare, diventa fondamentale la conoscenza (tra i 16 e i 19 anni) di Leopardi; dei poeti contemporanei conosce Pascoli e apprezza il d’Annunzio del Poema paradisiaco. Le esperienze dell’adolescenza sono rievocate nel romanzo Ernesto (PAG. 199 e T13 ), composto negli ultimi anni di vita: il protagonista, oltre a presentare caratteristiche biografiche molto simili a quelle di Saba, ne condivide la passione per la lettura e la precoce vocazione poetica.

1940

L’Italia entra in guerra. 1945

Fine della Seconda guerra mondiale. 1947

Con le tensioni tra Usa e Urss ha inizio la guerra fredda.

1940

1950

1960 1957 1951-53

1943

Le sue condizioni psicologiche peggiorano e lo costringono al ricovero in ospedale.

Si rifugia a Firenze, dove vive nascosto con la famiglia. 1945

1948

Si trasferisce a Roma e poi a Milano; esce una nuova edizione del Canzoniere per Einaudi. 1947

Cura una nuova edizione del Canzoniere che comprende anche Mediterranee; pubblica Storia e cronistoria del Canzoniere.

Muore in ospedale a Gorizia. 1953

Scrive il romanzo Ernesto (uscirà postumo).

1956

Muore la moglie Lina.

Pubblica le prose di Scorciatoie e raccontini.

Ritratto d’autore

1 159


Il soggiorno in Toscana, il servizio militare, il matrimonio L’amore per la poesia spinge Saba a stabilire i primi rapporti con intellettuali e artisti triestini suoi coetanei: con alcuni di loro nel 1903 decide di recarsi a Pisa per approfondire la conoscenza della lingua e della cultura italiana. Nella città toscana si manifesta per la prima volta la malattia psichica che, nella forma di forti crisi d’angoscia, a fasi alterne lo tormenterà per tutta la vita. Il successivo soggiorno a Firenze (1905-1906) è animato dall’ammirazione entusiastica per d’Annunzio, che Saba riuscì a incontrare in Versilia. Conosce in questo periodo alcuni esponenti della cultura fiorentina del primo Novecento, in particolare Prezzolini e Papini, che fonderanno la rivista «La Voce», ma anche rispetto a essi Saba si percepisce “diverso” e sente di non essere compreso. Positiva è invece l’esperienza del servizio militare prestato a Salerno tra il 1907 e il 1908: in quel contesto Saba si sente accettato e partecipe di una realtà viva, come testimoniano le poesie scritte in questo periodo e riunite nella raccolta Versi militari. Nel 1909, tornato a Trieste, sposa Carolina Wölfler, la Lina ritratta nel Canzoniere; l’anno seguente nasce la figlia, Linuccia, ma il matrimonio vive una crisi che porta la coppia a una separazione temporanea, a cui seguirà un riavvicinamento. Le due Line La moglie e la figlia, accomunate dallo stesso nome, rappresentano nella vita del poeta i principali riferimenti affettivi: sono anche figure centrali in quello che si può definire, con espressione mutuata dalla psicoanalisi, il “romanzo familiare” del Canzoniere. Il primo incontro con la moglie è stato rievocato da Saba stesso: da un amico aveva saputo che Carolina Wölfler, fidanzata a un irredentista triestino condannato all’esilio, si era battuta per la revoca della condanna; ma, una volta ottenuta la grazia per il suo intervento coraggioso, il promesso sposo l’aveva lasciata. La generosità della donna e la sua sorte dolorosa (che avevano indotto il poeta a volerla conoscere) sono le caratteristiche umane e psicologiche messe in rilievo poi anche nelle poesie dedicate a Lina, in particolare in A mia moglie e in Ed amai nuovamente. Nonostante il suo carattere impulsivo, la presenza di Lina al fianco di Saba, la sua capacità di sostenerlo nel, per lui difficile, “mestiere di vivere”, sarà fondamentale per consentirgli una relativa serenità, per lo meno in alcuni periodi della sua esistenza. Anche Linuccia, la figlia, ha un ruolo importante nell’elaborazione dei valori poetici attraverso cui Saba esprime il suo mondo interiore: rispetto al dolore dell’esistenza (la cui espressione è affidata, oltre che alla voce del poeta, alla persona della moglie) la figlia bambina incarna la leggerezza della vita, a sua volta tradotta nella leggerezza della poesia: in Ritratto della mia bambina (nella raccolta Cose leggere e vaganti ➜ T5 ) Linuccia è paragonata significativamente alla marina schiuma, alle nubi e «ad altre cose leggere e vaganti». Da Umberto Poli a Umberto Saba Nel 1911 Saba pubblica la sua prima raccolta di Poesie e sceglie di usare uno pseudonimo: Umberto Saba, anni dopo registrato anche all’anagrafe come suo cognome ufficiale. L’origine dello pseudonimo è controversa. Varie sono state e sono le possibili interpretazioni, senza che si sia pervenuti a una spiegazione sicura e condivisa. Di certo Saba è parola di origine ebraica. Secondo alcuni “saba” era il nomignolo con cui la balia chiamava Umberto. Secondo un’altra ipotesi Saba avrebbe scelto lo psudonimo già usato per alcuni suoi scritti dal filosofo Giorgio Fano, amico e punto di riferimento umano e culturale di Saba nei suoi anni giovanili.

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La guerra, la libreria a Trieste, i primi riconoscimenti come poeta Allo scoppio della Prima guerra mondiale, come molti intellettuali dell’epoca, anche Saba è interventista; richiamato sotto le armi, per i suoi problemi di salute è assegnato alle retrovie, in sedi diverse, tra cui Milano nel 1917. Alla fine del conflitto ritorna a Trieste dove, grazie all’eredità della zia Regina, compera una libreria antiquaria, che fino all’inizio della Seconda guerra mondiale gli assicurerà sufficiente tranquillità economica, sarà per lui un rifugio sicuro, un luogo di incontro con altri scrittori e poeti triestini (come Italo Svevo e Giani Stuparich). Così Saba la ritrae in un sonetto dei primi anni Venti:

Una strana bottega d’antiquario s’apre a Trieste in una via segreta. d’antiche legature un oro vario l’occhio per gli scaffali erranti allieta. Vive in quell’aria tranquillo un poeta... La libreria gli permetterà anche di pubblicare autonomamente i suoi versi. Nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere, che riunisce le raccolte già pubblicate e fino ad allora accolte con scarso interesse. L’anno successivo Saba incontra il critico Giacomo Debenedetti e il suo autorevole apprezzamento rappresenta finalmente un riconoscimento importante: la sua rivista «Primo tempo» gli dedica un numero monografico. Nel 1928 sarà la rivista fiorentina «Solaria», allora portavoce della ricerca letteraria italiana vicina alle tendenze europee, a confermare quel riconoscimento con un numero unico. L’incontro con la psicoanalisi Nel 1929 un nuovo attacco dei disturbi nervosi induce il poeta a ricorrere alla terapia psicoanalitica che cominciava allora ad affermarsi e che a Trieste era praticata dal dottor Edoardo Weiss, discepolo di Freud. La cura viene però interrotta per il trasferimento del medico a Roma. Della sua esperienza terapeutica Saba traccerà un bilancio significativo in Storia e cronistoria del Canzoniere:

«il […] procedimento consiste nel rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto. […] Il poeta reagì al trattamento attaccandosi a quello che, della sua infanzia, andava, mano mano, scoprendo […] e trasformando i ricordi in poesia. Possiamo anzi dire che, dal punto di vista della cura, reagì male. Il piccolo Berto, così rinato […], non morì mai del tutto; che, se questo fosse accaduto, il luttuoso fatto avrebbe avuto due conseguenze: la prima che Saba sarebbe completamente guarito, la seconda che non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe più avuto bisogno di scriverne».

La Libreria Antiquaria a Trieste, acquistata da Saba nel 1919, diventa in breve un punto d’incontro per gli intellettuali triestini, come Italo Svevo, Giani Stuparich e Virgilio Giotti.

Ritratto d’autore

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Nel ricordo e nella valutazione del poeta viene dunque messo in evidenza lo stretto legame tra la terapia e le poesie della raccolta Il piccolo Berto (1929-1931), una sorta di colloquio tra l’io adulto e l’io bambino del poeta in cui sono rivissuti e portati alla luce i traumi dell’infanzia (si vedano in particolare Tre poesie alla mia balia, ➜ D1 ). Le leggi razziali e la Seconda guerra mondiale La promulgazione delle leggi razziali nel 1938 induce Saba, marito di un’ebrea e a sua volta figlio di una donna ebrea, ad abbandonare l’Italia per rifugiarsi a Parigi, ma l’esperienza risulta deludente, portandolo a rinunciare al progetto di trasferirsi stabilmente nella capitale francese; ritornato a Trieste, per salvaguardarsi, chiede alla Direzione per la demografia e la razza di essere considerato a tutti gli effetti italiano, non ebreo e che gli venisse riconosciuta la cosiddetta “discriminazione” per meriti culturali, uscendo così dalla comunità ebraica; nonostante il pericolo incombente, tuttavia, rifiuta di battezzarsi (PER APPROFONDIRE, Saba e il mondo ebraico). Dopo l’8 settembre 1943 e la conseguente occupazione nazista, il clima politico si fa sempre più minaccioso. Saba si rifugia a Firenze, dove vive nascosto con la famiglia, aiutato da alcuni intellettuali fiorentini tra cui Montale. In questa situazione angosciante scrive la raccolta 1944 e comincia a progettare la seconda edizione del Canzoniere.

PER APPROFONDIRE

Dal felice periodo romano al declino degli ultimi anni A Roma, dove si trasferisce nel 1945 prima della fine della guerra, vive un breve periodo positivo nella città liberata dagli alleati, circondato dall’affetto e dal riconoscimento degli intellettuali e artisti antifascisti. In questo periodo Saba matura anche il suo avvicinamento al comunismo: più che di una vera e propria scelta politica, si tratta di un’adesione di tipo sentimentale a una forza che gli sembra favorire il rinnovamento della società. Nell’autunno pubblica da Einaudi la nuova edizione del Canzoniere e scrive i testi in prosa di Scorciatoie e raccontini. Nel 1946 trova accoglienza a Milano e, grazie all’editore Mondadori, occasioni di lavoro, anche se solo temporanee. Dopo il 1948, il mutato contesto politico, con la sconfitta del Fronte popolare delle sinistre e la vittoria della Democrazia cristiana, pone fine alle speranze del poeta in un profondo rinnovamento della società italiana: l’Italia è per lui «l’atroce paese che amo»; alla delusione si aggiunge negli ultimi anni, nonostante i riconoscimenti pubblici, la sempre più grave sofferenza psichica. Ritornato a Trieste dal 1951, Saba nella sua città si sente isolato e incompreso, ma è lui stesso a rifiutare l’incontro e l’aiuto di quelli che gli erano stati sempre amici e vicini. La morte della moglie nel 1956 ne accelera la fine: il poeta si spegne un anno dopo Lina. Nel 1961 uscirà, postuma, l’edizione definitiva del Canzoniere.

Saba e il mondo ebraico Il tema dominante che attraversa l’opera di Saba nel lungo arco della sua produzione è il senso della propria diversità rispetto agli altri uomini, a cui il poeta cerca di contrapporre la ricerca di una comune identità. Per questo stato d’animo ricorrente sono state fornite spiegazioni diverse: oltre alle vicende dell’infanzia di cui si è detto, una possibile causa è stata individuata nell’appartenenza alla comunità ebraica, considerata comunque “diversa” nonostante la sua secolare presenza e integrazione nella società triestina. Questa origine

162 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

è vissuta da Saba in età adulta in modo conflittuale: in alcuni testi poetici (ad esempio nel primo sonetto dell’Autobiografia) e in alcuni racconti egli rievoca con affetto personaggi e atmosfere del mondo ebraico della sua infanzia; anche le figure della tradizione ebraica della Bibbia sono recuperate come un mondo di valori in cui riconoscersi; severa è invece la condanna nei confronti della ritualità religiosa ebraica, che sente gravata dal pessimismo e come un limite alla piena espressione della personalità.


Umberto Saba

D1

Una poesia alla balia

LEGGERE LE EMOZIONI

Canzoniere, Il piccolo Berto U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, introduzione di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

Sono molte le poesie, e addirittura intere parti del Canzoniere, composte prima dell’analisi compiuta da Saba con lo psicoanalista Edoardo Weiss, che documentano la presenza nel poeta di una spiccata tendenza autoanalitica (non a caso il critico Gianfranco Contini lo definì «analitico prima dell’analisi»). La sezione in cui però essa risulta particolarmente evidente è Il piccolo Berto, in cui il poeta traspone sul piano poetico i risultati dell’esperienza terapeutica che aveva personalmente sperimentato. Nella raccolta, non a caso dedicata a Weiss, riemergono alla coscienza i primi anni di vita di Saba: delle 16 poesie che la compongono, tre sono dedicate al rapporto con la balia (Tre poesie alla mia balia). Riproduciamo la prima, che esplicita in modo più evidente il contributo della psicoanalisi alla costruzione del testo.

Mia figlia mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo; ed io alla sua carezza m’addormento. Divento legno in mare caduto che sull’onda galleggia1. E dove2 alla vicina sponda anelo3, il flutto mi porta lontano. Oh, come sento che lottare è vano! Oh, come in petto per dolcezza il cuore 10 vien meno4! 5

Al seno approdo di colei che Berto ancora mi chiama, al primo, all’amoroso seno5, ai verdi paradisi dell’infanzia6. La metrica Tre strofe di diversa lunghezza, composte da endecasillabi, tranne il primo di ciascuna (nella seconda anche l’ultimo) che è trisillabo. In ogni strofa l’ultimo verso rima con il primo della successiva; i vv. 5-6 e 7-8 sono legati da rime baciate.

1 Divento… galleggia: nel sonno il poeta sogna di essere un legno trasportato dalle onde del mare. 2 dove: mentre. 3 anelo: aspiro con ansia. 4 Oh come… meno: il sentimento di dolcezza suscitato dall’abbandono è tale da travolgere con la sua intensità il cuore del poeta.

5 Al seno… seno: il flutto che nel sogno trascina lontano il legno/poeta lo fa ricongiungere con il seno della sua balia. 6 ai verdi… infanzia: in Storia e cronistoria del Canzoniere Saba indica la fonte del verso nella poesia di Baudelaire Moesta et errabunda (v. 21: Mais le vert paradis des amours enfantines, “Ma il verde paradiso degli amori infantili”).

Concetti chiave Il ritorno all’infanzia

Saba dedicò tre poesie alla sua balia; nella prima delle tre qui antologizzata, attraverso l’abbandono alla dimensione onirica, il poeta rivive la vicinanza fisica e il senso di protezione offerto dal seno della donna. Il recupero di quell’emozione è il risultato di un processo che si sviluppa in tre fasi, corrispondenti ciascuna a una strofa del componimento: nella prima l’abbraccio della figlia bambina concilia il sonno al poeta, la seconda racconta il sogno che l’accompagna, la terza lo riconduce alla sua infanzia e alla vicinanza protettiva della balia grazie al procedimento analogico dell’inconscio. Nel sonno («m’addormento», v. 3) il controllo dell’io si attenua permettendo ai conflitti e ai desideri inconsci di emergere: in questo caso l’ambivalenza tra il desiderio di recuperare e conoscere il passato e la paura di ciò che è ignoto. La dinamica è resa attraverso la metafora della navigazione in cui il legno (simbolo

Ritratto d’autore

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del soggetto del sogno) è attratto dalla vicina sponda (cioè ciò che è noto alla coscienza) ma nello stesso tempo spinto lontano verso ciò che è accessibile solo all’inconscio («E dove alla vicina sponda / anelo, il flutto mi porta lontano»). La metafora si conclude nella strofa finale: il sogno ha fatto rinascere la balia con i tratti sperimentati nella prima infanzia dal poeta e perciò la donna è identificata con il seno (attraverso la sineddoche).

Le altre due “poesie alla balia” e la conquista dell’età adulta

La rielaborazione del trauma infantile, causato dalla separazione dalla balia, prosegue nelle altre due liriche: nella seconda il ritrovamento della donna avviene nella realtà, con il ritorno del poeta adulto al negozietto di frutta e verdura da lei gestito; la confessione di non essersi più separato dalla balia, dopo averla ritrovata, si accompagna alla consapevolezza della gravità della perdita avvenuta nell’infanzia. Nella terza poesia il colloquio tra i due, segno della ritrovata familiarità, si conclude con l’invito al poeta da parte della donna a tornare dalla moglie, cioè sul piano simbolico a “concludere” l’infanzia e ad assumere pienamente l’identità adulta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente il contenuto della poesia (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. A chi è dedicata la poesia e perché? 3. Quale situazione e quale figura femminile propizia nel poeta l’abbandono al sonno? 4. Quale connotazione assume, secondo te, il tema del viaggio in questa poesia di Saba? A quale approdo (v.12) giunge il poeta? Quale funzione simbolica esso riveste? ANALISI 5. Indica la relazione esistente fra la prima strofa e la terza e spiega il titolo della poesia. Ti sembra che ci sia un significato profondo nell’immagine iniziale? STILE 6. Rintraccia le metafore e spiegane il senso nel contesto. 7. Individua nel testo le inversioni sintattiche e gli enjambements: quale effetto producono?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Il testo di Saba costituisce un documento emblematico della suggestione esercitata dalla psicoanalisi sulla letteratura del tempo. Analizza nella lirica tale influenza e spiega in quali temi e immagini si manifesta. Credi che sia necessario ricorrere a una figura professionale (psicologo, psicoanalista ecc.) per imparare a conoscere sé stessi e le origini dei propri disagi? Quanto conta nella tua vita e in quella di un adolescente il confronto con il proprio vissuto?

2 La poetica dell’“onestà” Un poeta controcorrente Come per Svevo, anche per Saba si può parlare di un vero e proprio “caso” per indicare il mancato apprezzamento della sua opera da parte della critica letteraria del suo tempo: il poeta stesso ha descritto la sua vicenda come «un’ingiustizia, che rimarrà nella cronaca nera della letteratura italiana». Una delle esperienze poetiche più alte del Novecento è rimasta isolata e incompresa per lungo tempo e solo dal secondo dopoguerra se ne è veramente riconosciuta la grandezza che fa oggi di Saba uno dei classici indiscussi del canone poetico italiano. Il tardivo riconoscimento è da collegare innanzitutto all’estraneità di Saba alle mode letterarie coeve: il poeta triestino esordisce in un contesto culturale periferico (Trieste) scegliendo come modello la grande tradizione letteraria italiana (in particolare Leopardi) nel momento in cui erano dominanti la poetica simbo-

164 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


lista e l’avventura delle avanguardie. Anche quando i contatti con il mondo culturale lo portano a conoscere le tendenze poetiche a lui contemporanee, egli mantiene come punto di riferimento la tradizione, continuando a usare il verso classico per eccellenza, l’endecasillabo, nell’ormai imperante affermazione del verso libero. L’adesione alle “cose” La concezione della poesia di Saba appare già definita nei suoi elementi basilari nello scritto Quello che resta da fare ai poeti (del 1911, ma pubblicato postumo, ➜ D2a ). L’idea cardine che ispira il testo è quella della “poesia onesta”, capace di attingere al senso profondo delle “cose”, una delle parole più frequenti nelle liriche di Saba: «amiche cose», «belle cose», «cose ond’ebber gioia i miei occhi». Secondo il poeta, il significato profondo del reale deve essere raggiunto attraverso la rappresentazione diretta della realtà stessa, nei suoi aspetti di vita quotidiana (il critico Polato ha parlato di «irruenza del quotidiano»), a cui egli adegua il linguaggio poetico: Saba non suggerisce le “cose”, ma le “nomina”, cioè le rappresenta esattamente. È evidente in questa scelta la distanza sia dai compiacimenti estetizzanti di d’Annunzio sia dalle poetiche simboliste protese a «esprimere l’inesprimibile», secondo la formula di Rimbaud, attraverso la ricerca di “attimi” privilegiati, o l’evocazione di sensazioni indefinite. Allo stesso modo Saba rifiuta le sperimentazioni dell’avanguardia futurista, recuperando al contrario la lezione della tradizione poetica. La funzione della poesia: “scandaglio del profondo”e ricomposizione dei conflitti nel canto La poesia è per Saba innanzitutto lo strumento per portare alla luce un mondo interiore segnato da una lacerazione profonda che ostacola il pieno godimento della vita; nella sua opera l’esistenza è segnata dal dolore e in alcuni momenti la disperazione è così intensa che il poeta arriva a desiderare l’annullamento di sé: «farmi, o madre, / come una macchia dalla terra nata, / che in sé la terra riassorbe ed annulla» (Preghiera alla madre, vv. 26-28). Tuttavia, come la critica più recente ha riconosciuto, nell’opera di Saba c’è anche l’aspirazione costante a ricomporre le opposizioni, le «voci discordi» (Brugnolo), e anche questo è compito della poesia: se è vero che la poesia rappresenta lo scandaglio per arrivare dalla superficie al fondo della vita, dalle apparenze alla verità, essa è al tempo stesso consolazione del dolore (quello personale del poeta, ma anche quello di ogni uomo) nella gioia del canto.

Saba a confronto con D’Annunzio D’Annunzio

Saba

diverse raccolte poetiche dai caratteri differenti

le raccolte

un’unica raccolta di impianto unitario che si pone come “storia di una vita”

idea della poesia come valore assoluto e privilegio per pochi

la concezione della poesia

una poesia ”onesta” lontana dall’originalità ricercata, vicina al mondo interiore

prezioso e ricercato, sfrutta la forza evocativa e musicale della parola

il linguaggio

discorsivo e dal lessico quotidiano

varietà metrica e ritmica al limite della sperimentazione

la metrica

strutture metriche tradizionali

Ritratto d’autore

1 165


La capacità terapeutica della poesia è enunciata nella poesia Finale (VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 209): al dolore inevitabile dell’esistenza («L’umana vita è oscura e dolorosa») che suscita al solo pensiero «un colpo in mezzo / del cuore», è contrapposta la bellezza risanatrice della poesia: «E d’ogni male / mi guarisce un bel verso. / […] sono partito da Malinconia / e giunto a Beatitudine per via». Il riscatto del dolore della vita attraverso la poesia è ribadito da Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere (1946): «Solo attraverso l’arte il poeta riesce a vincere la propria angoscia davanti al perenne scorrere e variare delle apparenze». Grazie alla poesia si può raggiungere «uno stato d’animo vicino, se non alla felicità, almeno a una transitoria beatitudine. A quella beatitudine che – come dice Nietzsche – può raggiungere solo chi molto soffre». Quale parola per una “poesia onesta”? Alla formula della “poesia onesta”, assunta da Saba a principio guida della sua ricerca, corrispondono le scelte del linguaggio poetico per realizzare una piena adesione alle “cose” della vita. Per raggiungere questo obiettivo il poeta adotta soluzioni controcorrente rispetto alle tendenze letterarie del suo tempo: utilizza infatti prevalentemente parole della quotidianità, accostate a termini della tradizione poetica divenuti ormai familiari a ogni lettore di poesia. Nella sua concezione, “poesia onesta” significa dare voce in modo fedele e non artefatto al mondo interiore, ai sentimenti profondi, senza la paura di esprimerli con le parole più semplici, usando, come precisa in Storia e cronistoria del Canzoniere «i termini più dimessi, le parole più comuni del vocabolario, che ogni altro poeta italiano, antico o recente, (ma soprattutto recente) avrebbe, come i triti paragoni, disdegnati». L’espressione triti paragoni, qui utilizzata per indicare la semplicità delle proprie similitudini, ha un equivalente nelle trite parole, con cui il poeta definisce la propria lingua poetica nella celebre poesia Amai (➜ T10 ), manifesto conclusivo della sua poetica. Saba dà anche una motivazione storica ed etica della sua ricerca della parola “vergine”: per il poeta essa è espressione del bisogno di contrastare la finzione e la menzogna che egli sentiva dominante nel linguaggio dell’epoca fascista: «mai come in quegli anni la parola era affetta da menzogna» (Storia e cronistoria del Canzoniere).

Il ruolo della poesia La poesia di Saba

ha per modelli

rifiuta

• la tradizione poetica • Petrarca e Leopardi

• D’Annunzio • lo sperimentalismo e le avanguardie

ricerca i significati nascosti della realtà nelle ”cose”

Poetica dell’onestà

il quotidiano come spunto per la riflessione sull’esistenza

la poesia come strumento per la conoscenza di sé

166 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Storia e cronistoria del Canzoniere: Saba interpreta Saba Nel 1944 mentre progetta la seconda edizione del Canzoniere (che sarà pubblicata da Einaudi nel 1945), Saba comincia a scrivere un ampio saggio dedicato all’analisi della sua produzione poetica: sarà completato nel 1947 e pubblicato l’anno dopo con il titolo Storia e cronistoria del Canzoniere. Il saggio è strutturato in venti capitoli, corrispondenti alle sezioni del Canzoniere del 1945 (➜ LA STRUTTURA DEL CANZONIERE, PAG. 175), introdotti e conclusi da due altri capitoli complessivi sulla poesia di Saba. Nella prefazione il poeta illustra lo scopo del saggio: difendere la propria opera dall’indifferenza e dalle letture riduttive susseguitesi nel corso del tempo; l’assunzione della maschera di critico è secondo lui giustificata, in quanto si ritiene la persona più autorizzata a parlare della propria poesia grazie alla serenità che gli proviene dall’età: «Il saggio» scrive «è pieno di particolari e di fatti dei quali solo chi li aveva vissuti poteva essere a conoscenza. […]. Per ragioni di età ed altre, quando Saba incominciò a scriverlo, si sentiva abbastanza “distaccato” dalla sua poesia per poterla guardare con occhi, relativamente, sereni». L’autodifesa in realtà è svolta in terza persona e presentata nella finzione letteraria come una «tesi di laurea» di un certo Giuseppe Carimandrei; l’originalità dell’opera è proprio nella creazione della voce anonima che gestisce il testo secondo le procedure di un saggio critico: l’occasione della composizione, l’analisi del testo, il commento e il giudizio, il rapporto con le tendenze poetiche e i poeti del periodo, la discussione delle opinioni degli studiosi. Al di là dell’intenzione autoapologetica, Storia e cronistoria del Canzoniere costituisce una vera e propria guida alla lettura, da cui oggi non è più possibile prescindere per lo studio e la comprensione del Canzoniere.

Pagine autografe di Saba.

Storia e cronistoria del Canzoniere PUBBLICAZIONE

1948

GENERE

saggio

NARRAZIONE

in terza persona

CONTENUTO

autodifesa della propria opera poetica

Ritratto d’autore

1 167


D2

La concezione della poesia “onesta” Si riportano di seguito due documenti che esprimono la concezione della poesia in Saba: l’autenticità dell’ispirazione è la condizione essenziale della “poesia onesta”.

Umberto Saba

D2a

Il compito morale del poeta Quel che resta da fare ai poeti

U. Saba, Quel che resta da fare ai poeti, in Tutte le prose, a c. di A. Stara, introd. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001

Il saggio Quel che resta da fare ai poeti (1911) enuncia una visione morale del compito (da fare) del poeta: il modello di riferimento per Saba (non diversamente da Gadda) è l’opera poetica del Manzoni, in contrapposizione con l’artificiosità della poesia di D’Annunzio e dei suoi imitatori e prosecutori, compresi i futuristi. In questo brano Saba propone una sorta di vademecum che definisce le condizioni per il raggiungimento della “poesia onesta”.

[… L’] onestà letteraria […] è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente1 di quanto per avventura2 essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio3 di toccare il fondo; reazione alla 5 dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente4 si chiama la vena5. 1 trascendente: capace di esprimere significati profondi (letteralmente “ciò che riguarda la realtà non visibile e perciò non sperimentabile”).

2 per avventura: per caso. 3 scandaglio: indagine; letteralmente

4 volgarmente: nell’uso comune. 5 vena: in senso figurato, creatività po-

indica la misurazione di uno spazio in profondità.

etica.

Umberto Saba

D2b

Poesia vs “letteratura” Storia e cronistoria del Canzoniere

U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Tutte le prose, a c. di A. Stara, introd. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

A distanza di alcuni decenni, Saba ribadisce i principi espressi nell’articolo del 1911 in Storia e cronistoria del Canzoniere: nella valutazione a posteriori della propria opera, il poeta conferma la fedeltà all’ispirazione come elemento caratterizzante della poesia, che egli contrappone alla letteratura, intesa come “mestiere”, cioè competenza tecnica chiamata a sopperire alla mancanza o alla povertà di idee.

Saba1, nelle sue composizioni più alte, ed anche in quelle che ha, mano mano, rifiutate, fu uno dei pochi poeti dei nostri giorni che si abbandonarono sempre, ed in piena buona fede, a quella grande e rara cosa che gli antichi chiamavano ispirazione. […] Ed è anche vero che, dove l’ispirazione gli manca o scarseggia, Saba vale poco 5 o nulla: è impotente a rimediare. La “letteratura” non gli fu mai un valido soccorso. Per lui, per la sua particolare poetica, la letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità. (E un uomo simile doveva nascere proprio in Italia, proprio nel paese dei letterati!) «Ero fra lor di un’altra spece2» dice egli stesso a proposito di un cenacolo di letterati («La Voce») del quale, per ragioni contingenti, fece un tempo parte. 1 Saba: Storia e cronistoria del Canzoniere è scritto in terza persona ed è attribuito a un autore la cui identità è fittizia. 2 Ero… spece: autocitazione di un verso dal sonetto 10 della rac-

168 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

colta Autobiografia in cui Saba rievoca le tappe significative della sua vita; esprime il sentimento di diversità vissuto nel rapporto con gli intellettuali della rivista «La Voce» a Firenze.


10

Per tutte queste ragioni, e per altre ancora, che verremo mano mano esponendo, e fra le quali non possiamo omettere il profondo smarrimento e confusione di tutti i valori che regnò in Italia (e non solo in Italia) nel periodo sabiano, e dal quale solo un “arretrato”, un “periferico” poteva salvarsi del tutto, la poesia di Saba ebbe, fino a ieri, una contrastata fortuna.

Concetti chiave Come fare la “poesia onesta”

I due testi, scritti in periodi molto lontani tra loro, sono accomunati dal tema dell’ispirazione, in entrambi i casi identificata come valore fondamentale della poesia, nel primo in quanto principio-guida della “poesia onesta”, nel secondo come elemento imprescindibile della propria poesia. Condizione primaria per fare la “poesia onesta” è l’autenticità dell’ispirazione, da intendere come l’idea all’origine dell’attività poetica, che non deve prestarsi alle operazioni di enfatizzazione, attribuite, nella parte precedente del saggio, a D’Annunzio. Il poeta non deve farsi trascinare dall’ambizione o dal desiderio di successo, fingendo una profondità che non gli appartiene: l’onestà consiste nella fedeltà alle proprie idee e nell’adeguata espressione di esse. Per raggiungere questo risultato occorre reagire alla superficialità, alla pigrizia intellettuale: ad essa Saba contrappone lo scandaglio del fondo, cioè l’analisi del proprio mondo interiore da parte del poeta, in quanto origine dell’ispirazione. Altra tentazione da combattere è individuata nella ricerca delle soluzioni formali piacevoli (la dolcezza del ritmo e della rima) che possono abbellire il testo, nuocendo però alla sua profondità e autenticità. La concezione rigorosa del “fare” poesia di Saba è evidenziata anche dalla ripetizione del termine reazione, che evoca un impegno morale.

Verità e menzogna in poesia

Nel testo tratto da Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta contrappone la poesia alla “letteratura”, intesa come abilità tecnica che potenzialmente limita l’ispirazione poetica: addirittura la “letteratura” rappresenta per Saba la menzogna contrapposta alla verità, che è l’oggetto, l’anima della sua ispirazione. Insieme ai fondamenti della sua poetica Saba rivendica qui con orgoglio la grandezza della sua opera, la cui mancata “fortuna” è attribuita al predominio dei “letterati” nella cultura italiana. D’altra parte riconosce che, se il suo essere arretrato e periferico, cioè non seguace delle mode, ha determinato la sua diversità, ha costituito anche la sua salvezza, mettendolo al riparo dalla situazione di confusione che, secondo lui, ha contraddistinto la poesia del suo tempo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale importanza ha l’onestà nella poetica di Saba? Riguarda solo i contenuti o anche le scelte stilistiche? 2. Per quali motivi, secondo Saba, la sua poesia ebbe una contrastata fortuna (➜ D2b )? ANALISI 3. Evidenzia in D2b le espressioni che manifestano l’orgoglio del poeta per la propria diversità: in che cosa la individua? LESSICO 4. Spiega il significato del termine “ispirazione” nei due testi. Ti sembra che corrisponda all’uso comune? STILE 5. La verità e la menzogna nella poetica di Saba riguardano non solo i temi ma anche le scelte stilistiche e linguistiche: evidenzia i riferimenti a questo aspetto nei due testi e confrontali con le affermazioni del poeta sull’uso “vergine” della parola.

Comprendere LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 6. La solitudine è un tema importante nell’opera di Saba: quali caratteri assume nel testo D2b ? Spesso per non rimanere soli si è costretti a omologarsi, perdendo la propria identità e le proprie radici culturali. Tu come ti rapporti agli altri? Riesci a rimanere te stesso e, al contempo, a sentirti “incluso” nel “gruppo”?

Ritratto d’autore

1 169


2 Il Canzoniere Pubblicato in successive edizioni, il Canzoniere riunisce le diverse raccolte di poesie composte e pubblicate da Saba, organizzandole nel tempo in un’opera unitaria.

1 Il titolo VIDEOLEZIONE

Un modello illustre Il titolo dell’opera rimanda in modo immediato al celeberrimo Canzoniere di Petrarca: una scelta che suggerisce il legame dell’opera di Saba con la grande tradizione della poesia italiana (inizialmente l’autore aveva pensato a Chiarezza, ispirato alla lezione di Nietzsche). La sua scelta secondo alcuni studi critici sarebbe stata ispirata anche alla traduzione del Libro dei canti (Buch der Lieder) del poeta tedesco Heinrich Heine (1797-1856) pubblicata nel 1911 in italiano con il titolo Canzoniere. Un’opera unitaria Nel Canzoniere, nonostante le indubbie differenze tra le varie raccolte che vi sono confluite nel tempo, si possono rintracciare ricorrenze tematiche che accomunano le diverse sezioni. Il carattere unitario dell’opera è stato sottolineato dal poeta stesso: «Saba riconosce una certa interdipendenza fra le singole parti della sua opera; una continuità che non può essere spezzata senza danno dell’insieme; che tutto insomma nel Canzoniere, il bene e il male, si tiene, e che spesse volte quel bene è condizionato – magari illuminato – da quel male». La ricorrenza dei temi non riguarda solo appunto i temi-chiave dell’opera, ma anche i personaggi, alcuni definiti nella loro identità: soprattutto la madre, la balia, la moglie, alcune donne amate dal poeta e indicate esplicitamente con il nome, come Chiaretta; a essi si accompagnano le figure-simbolo, in particolare giovani che assumono varie forme o identità (Glauco, Il fanciullo appassionato), adolescenti in cui il poeta riconosce se stesso o che funzionano da “maschere” cui attribuire le sue emozioni o i suoi pensieri. Secondo la critica più recente l’unitarietà dell’opera è il risultato non tanto del racconto di una vita quanto di una consapevole strategia, basata sul collegamento, costruito dall’autore, fra sezioni e testi: grazie a tale strategia i temi ricorrenti nel Canzoniere sono messi in evidenza dal loro ripetersi in diverse poesie, anche di periodi lontani, così da realizzare un’unità profonda.

Frammento autografo di Saba.

170 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


2 I temi I temi autobiografici In Storia e cronistoria del Canzoniere Saba individua il carattere dominante del Canzoniere nell’autobiografismo, che così definisce: «Il Canzoniere è la storia (non avremmo nulla in contrario a dire il “romanzo”, e ad aggiungere, se si vuole, “psicologico”) di una vita, povera (relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne». Fin dalle sue prime poesie Saba “racconta” la sua vita e i suoi stati d’animo, attraverso “episodi” anche minimi che hanno assunto per lui un significato emblematico, sia in singole poesie sia in intere raccolte: ad esempio la raccolta Versi militari è dedicata all’esperienza del servizio militare; Autobiografia è una sorta di sistematica rivisitazione delle tappe significative della sua biografia fino alla maturità; Il piccolo Berto è interamente incentrata sul recupero dell’infanzia, oggetto già di precedenti componimenti, attraverso la chiave di lettura fornita dalla psicoanalisi. Centrale, come già si è detto, nell’autobiografia-romanzo di Saba, sono i traumi vissuti nell’infanzia da lui ripetutamente rievocati insieme alle figure della madre e della balia, e avvertiti come costitutivi della sua storia e della sua personalità anche prima della consapevolezza data dalla terapia psicoanalitica. Tra le successive esperienze esistenziali ha un posto di particolare rilievo l’amore. Una vera e propria dichiarazione d’amore è, in Casa e campagna, una delle prime raccolte, la poesia A mia moglie (➜ T1 ): nell’insolita forma di un paragone tra la donna e le femmine degli animali domestici, Saba esalta la dimensione erotica ma anche affettiva e spirituale del suo sentimento verso la moglie. In Nuovi versi alla Lina (in Trieste e una donna) il tema prevalente è il rapporto complesso con la moglie, il legame profondo ma anche le incomprensioni che hanno radice nella problematica dimensione affettiva infantile. Illuminante del conflitto tra la pulsione istintuale e le inibizioni prodotte dall’educazione – sempre incarnata dalla madre severa – è la poesia Eros (in Cuor morituro), con un protagonista adolescente che rappresenta l’alter ego del poeta. In successive raccolte (in particolare La serena disperazione, L’amorosa spina e Preludio e canzonette) l’eros è indagato in forme diverse, con espliciti riferimenti autobiografici a nuove occasioni d’amore. Autobiografica è anche la piccola raccolta 1944, che comprende le poesie composte da Saba durante la clandestinità a Firenze: le vicende personali si intrecciano qui con quelle storiche (la seconda guerra mondiale), in particolare in Teatro degli Artigianelli (➜ T9 OL), una sorta di istantanea di un momento di festa in un teatro popolare per l’avvenuta liberazione. Il lungo “romanzo” della vita del poeta culmina nella poesia Ulisse (➜ T11 ) in Mediterranee, una delle ultime raccolte, con un ritratto “simbolo”. Nella figura dell’eroe omerico Saba rappresenta il significato profondo e conclusivo della sua esistenza: i principi che l’hanno contraddistinta (l’amore per la conoscenza, simboleggiato dal viaggio, e la rinuncia alla tranquillità esistenziale, emblematicamente rappresentata dal “porto”) sono così trasposti sul piano del mito. Egon Schiele, Autoritratto con alchechengi, olio su stela, 1912 (Leopold Museum, Vienna)

Il Canzoniere 2 171


La lacerazione interiore e l’adesione alla “vita di tutti” La prospettiva tipica della poesia di Saba, secondo la sua definizione, è «psicologica» (addirittura «narcisista», secondo un’altra sua formula esplicativa): l’io lirico occupa incontrastato la scena del Canzoniere, ma è del tutto assente la dimensione autocelebrativa dannunziana, e non potrebbe essere diversamente in una ricerca poetica ispirata dallo “scandaglio del profondo” e dominata da un senso doloroso della vita. Il poeta indaga nella sua poesia il rapporto problematico con sé stesso e con la realtà: il punto di partenza è la sofferenza della vita che ha per lui origine nei traumi infantili. Il senso di estraneità ed esclusione nei confronti del mondo e degli altri uomini (Trieste ➜ T3 ) accomuna Saba alla condizione del poeta moderno, ma la problematica esistenziale che caratterizza l’universo poetico di Saba è molto lontana dalla tradizione simbolista e decadente. Al pessimismo esistenziale e al bisogno di solitudine è infatti contrapposto l’amore per la vita e per l’umanità: per Saba anche le esperienze dolorose fanno parte della «calda vita»; la condizione interiore di isolamento ed emarginazione è contrastata dalla costante volontà di incontrare il mondo, dal bisogno di sentirsi uguale agli altri, «d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» (Il Borgo). La comunione con gli altri uomini è la condizione più desiderabile: «Esser uomo tra gli umani, / io non so più dolce cosa» (Sesta fuga).

Il ghetto ebraico di Trieste in una foto degli anni Trenta.

172 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Il mondo del “quotidiano” Se il centro della poesia di Saba è il mondo interiore, lo spunto da cui la sua riflessione su di sé e sull’esistenza prende le mosse riguarda sempre la vita quotidiana, i gesti e le abitudini di tutti i giorni. Spesso le sue poesie assumono un andamento narrativo, sono il “racconto” di una situazione osservata o vissuta: dalle passeggiate e gli incontri per Trieste (Trieste ➜ T3 , Città vecchia ➜ T4 ) alle figure familiari (oltre alla madre e alla balia, la moglie, la figlia, le giovani commesse della libreria), ai ragazzi che incontra, agli animali: da quelli presenti nell’infanzia e adolescenza (la gallina, il merlo) ai compagni della vecchiaia, come il canarino in A un giovane comunista. Persino oggetti apparentemente insignificanti della realtà quotidiana, come il coccio di In riva al mare (➜ T6 ), possono diventare il tramite per raccontare la sofferenza alla ricerca del senso della vita; ma non mancano le gioie e i momenti di serenità, ad esempio attraverso la grazia leggera della figlia e lo spettacolo del cielo sulla sua città (Ritratto della mia bambina ➜ T5 ). Anche la natura è presente nella poesia di Saba nella dimensione quotidiana, in un’adesione ben distante da quella estetizzante e sensuale dell’Alcyone di d’Annunzio. Trieste La città natale di Saba è onnipresente (addirittura si è parlato di una forma di simbiosi) non solo nella produzione in versi ma nella prosa narrativa (in particolare nel romanzo autobiografico Ernesto), nella produzione critica e nella stessa corrispondenza epistolare. La città natale tende a rappresentare per il poeta tutta la realtà: la sua idea stessa di umanità è correlata allo spazio urbano triestino. Il ritratto di Trieste si delinea dalla seconda raccolta Coi miei occhi (1912), che a partire dal Canzoniere del 1921 si chiamerà Trieste e una donna: come indica il titolo della sezione, la città non è solo uno scenario ma è coprotagonista. Nella poesia Trieste (➜ T3 ) la sua definizione unisce in sé opposti inconciliabili: il suo fascino è una scontrosa grazia che suscita ambivalenza di attrazione e repulsione, la sua identità è unica, la sua aria è strana, ambigua; è il luogo delle origini («l’aria natìa») quindi un’entità materna, alla quale il poeta è legato da un rapporto affettivo sicuro («la mia città»). La Trieste delle poesie di questa fase è una città determinata, ma è anche la rappresentazione della vita nella sua totalità: in Città vecchia (➜ T4 ) la rappresentazione del nucleo più antico di Trieste, compreso il ghetto ebraico dove Saba era nato e abitò a lungo, diventa la celebrazione di un’umanità povera e degradata (le «creature della vita e del dolore») in cui il poeta ritrova «l’infinito nell’umiltà». Il legame con Trieste trova un’ultima intensa espressione nella poesia Avevo, composta durante il forzato esilio di Saba per le vicende della seconda guerra mondiale. Saba è consapevole di averle assegnato, con la propria opera, un posto nella poesia italiana: «Avevo una città bella tra i monti / rocciosi e il mare luminoso. Mia / perché vi nacqui, più che d’altri mia / che la scoprivo fanciullo, ed adulto / per sempre a Italia la sposai col canto».

3 Lo stile Il linguaggio poetico scelto da Saba è quello della tradizione letteraria italiana, che si traduce nella fedeltà a una versificazione regolare, alle misure canoniche e al valore della rima; l’uso dei versi tradizionali, soprattutto endecasillabi e settenari, rende la sua opera estranea alla rivoluzione del verso libero. Dalla tradizione Saba

Il Canzoniere 2 173


deriva anche le forme strofiche di molte sue poesie: il sonetto innanzitutto ma anche la canzonetta e il madrigale. Presenza costante e ricercata è la rima, soprattutto nella forma “facile”, in contrasto con la tendenza dominante nella poesia del Novecento: per essa in Amai (➜ T10 ), come si è visto, dichiara la sua predilezione («M’incantò la rima fiore / amore»). Saba è consapevole della diversità stilistica della sua poesia e rivendica con orgoglio il legame con la tradizione: in Storia e cronistoria del Canzoniere si dichiara il «poeta meno, formalmente, rivoluzionario che ci sia. C’era nella sua natura profonda qualcosa che aveva bisogno di appoggiarsi sempre al più solido, al più sicuro, a quello che aveva fatto le sue prove in un lungo, nel più lungo possibile, passato, per poi partire da quello alla conquista di sé stesso». Nello stesso tempo manifesta la consapevolezza che il suo è un apparente tradizionalismo: sostiene l’uso della tradizione ma in funzione di una poesia profondamente nuova, riconoscendosi nella definizione di «moderno in modo quasi sconcertante» che completa con «rimanendo, al tempo stesso, fedele alla tradizione». La critica più recente ha precisato che il conservatorismo metrico di Saba non implica l’estraneità del poeta all’inquietudine e alle esperienze di sperimentazione di gran parte della poesia del primo Novecento. Il rinnovamento si realizza in lui mediante gli strumenti della tradizione poetica: nella metrica tramite l’abbassamento prosastico dell’endecasillabo, nel lessico tramite la combinazione di aulico e quotidiano, la mescolanza di termini colloquiali (ad esempio cose) con arcaismi e forme letterarie alte. A differenza dei crepuscolari, Saba associa diversi registri lessicali non per produrre un effetto di contrasto o con un intento ironico, ma per conferire alla dimensione quotidiana una forma tale da «convertire un’esperienza personale in storia emblematica di tutti» (Mengaldo), una forma che la renda universale. Questo obiettivo è raggiunto anche grazie a una costruzione complessa e ricercata, in cui l’apparente semplicità del linguaggio è sostenuta da una sintassi elaborata, in cui ricorrono i procedimenti dell’inversione sintattica e dell’iperbato.

Il Canzoniere STRUTTURA

impianto unitario

TITOLO

ispirato al Canzoniere di Petrarca

TEMI

• traumi dell’infanzia • le figure della madre e della balia • amore ed eros • la città (Trieste) • vicende storiche

STILE

• linguaggio quotidiano • versi e schemi metrici tradizionali

174 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


La struttura del Canzoniere

PRIMO “VOLUME” 1900-1920

SECONDO “VOLUME” 1921-1932

TERZO “VOLUME” 1933-1954

PERIODO DI COMPOSIZIONE

TITOLO DELLA SEZIONE

COMPONIMENTI ANTOLOGIZZATI

1900-1907

Poesia dell’adolescenza e giovanili

1908

Versi militari

1909-1910

Casa e campagna

A mia moglie ➜ T1 La capra ➜ T2

1910-1912

Trieste e una donna

Trieste ➜ T3 Città vecchia ➜ T4

1913-1915

La serena disperazione

1915-1918

Poesie scritte durante la guerra

Senza indicazione di data

Tre poesie fuori luogo

1920

Cose leggere e vaganti e L’amorosa spina

1922-1923

Preludio e canzonette

1924

Autobiografia

1924

I prigioni

1925

Fanciulle

1925-1930

Cuor morituro

1928

L’uomo

1928-1929

Preludio e fughe

1929-1931

Il piccolo Berto

1933-1934

Parole

1935-1943

Ultime cose

1944

1944

Senza indicazione di data

Varie

1945-1946

Mediterranee

1947-1948

Epigrafe

1948

Uccelli

1951

Quasi un racconto

1953-1954

Sei poesie della vecchiaia

Ritratto della mia bambina

➜ T5

In riva al mare ➜ T6

Mio padre è stato per me «l’assassino» ➜ T7

Goal ➜ T8 OL

Teatro degli Artigianelli ➜ T9 OL

Amai ➜ T10 PAG. 00 Ulisse ➜ T11 PAG. 00

Il Canzoniere 2 175


Umberto Saba

T1

A mia moglie

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Canzoniere, Casa e campagna U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, introd. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

La poesia è dedicata alla moglie Lina e fa parte della sezione Casa e campagna: attraverso una serie di paragoni tra la donna e gli animali più comuni Saba mette in rilievo le qualità e le caratteristiche che Lina condivide con questi. L’insolito accostamento, inizialmente poco gradito dalla moglie stessa e giudicato scandaloso dai primi lettori, vuole celebrare, attraverso la femminilità della moglie, la vicinanza della donna alla natura, all’interno di una dimensione di laica religiosità: «È come sono tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio».

Tu sei come una giovane, una bianca pollastra1. Le si arruffano al vento le piume, il collo china 5 per bere, e in terra raspa; ma, nell’andare, ha il lento tuo passo di regina, ed incede2 sull’erba pettoruta e superba. 10 È migliore del maschio. È come sono tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio. 15 Così se l’occhio, se il giudizio mio non m’inganna, fra queste hai le tue uguali, e in nessun’altra donna3. Quando la sera assonna4 le gallinelle, 20 mettono voci5 che ricordan quelle, dolcissime, onde6 a volte dei tuoi mali ti quereli7, e non sai che la tua voce ha la soave e triste musica dei pollai. 25

Tu sei come una gravida8 giovenca9;

La metrica Sei strofe di varia lunghezza per complessivi ottantasette versi, a loro volta di diversa misura: dal bisillabo all’endecasillabo, con prevalenza dei settenari; le rime, numerosissime, sono disposte senza un ordine fisso. Il modello metrico più simile è la canzone libera di Leopardi.

1 pollastra: gallina; l’uso del termine meno consueto conferisce preziosità all’insolito paragone; la gallina, normalmente considerata un animale da cortile, poco

nobile, ha invece un ruolo importante nell’opera di Saba, corrispondente alla sua idea della “poesia delle cose”. Sappiamo che nella difficile adolescenza di Umberto una gallina e un merlo avevano avuto un ruolo consolatorio. 2 incede: avanza; l’uso del termine ricercato al posto di quello quotidiano sottolinea la regalità dell’andatura come i due aggettivi pettoruta (impettita, col petto in fuori) e superba, entrambi espressione di importanza.

176 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

3 fra queste… donna: le caratteristiche di Lina la rendono simile alle femmine degli animali e non alle altre donne. 4 assonna: fa addormentare (assonnare è d’uso letterario e poetico). 5 mettono voci: producono suoni, versi. 6 onde: con le quali. 7 ti quereli: ti lamenti; anche in questo caso la voce aulica conferisce maggiore dignità alla donna. 8 gravida: incinta. 9 giovenca: giovane mucca, vitella.


libera ancora e senza gravezza10, anzi festosa; che, se la lisci11, il collo 30 volge, ove tinge un rosa tenero la sua carne12. Se l’incontri13 e muggire l’odi14, tanto è quel suono lamentoso15, che l’erba 35 strappi, per farle un dono16. È così che il mio dono t’offro quando sei triste. Tu sei come una lunga17 cagna, che sempre tanta 40 dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore. Ai tuoi piedi una santa18 sembra, che d’un fervore19 indomabile arda, 45 e così ti riguarda20 come il suo Dio e Signore. Quando in casa o per via segue21, a chi solo tenti avvicinarsi, i denti 50 candidissimi scopre. Ed il suo amore soffre di gelosia. Tu sei come la pavida22 coniglia. Entro l’angusta23 55 gabbia ritta al vederti s’alza, e verso te gli orecchi alti protende e fermi; che la crusca e i radicchi24 60 tu le porti, di cui priva in sé si rannicchia25, cerca gli angoli bui.

10 libera… gravezza: ancora agile e non appesantita nei movimenti dalla gravidanza. 11 lisci: accarezzi. 12 ove… carne: dove la pelle ha un colore rosa tenero. 13 incontri: il verbo in questo caso è riferito a un soggetto generico. 14 l’odi: la senti (forma letteraria). 15 tanto… lamentoso: iperbato.

16 farle un dono: offrirgliela da mangiare. 17 lunga: riferito alla posizione, allungata ai piedi del padrone, in atteggiamento di riposo ma anche di guardia, come indicano subito dopo i due termini antitetici dolcezza e ferocia. 18 una santa: per la devozione nei confronti del padrone. 19 fervore: ardore, passione. 20 riguarda: guarda.

21 segue: ti segue. 22 pavida: paurosa. 23 angusta: stretta. 24 radicchi: radicchi selvatici, erbe spontanee foraggio per animali.

25 di cui… rannicchia: priva dei quali (crusca… radicchi) si raggomitola su se stessa.

Il Canzoniere 2 177


Chi potrebbe quel cibo ritoglierle? chi il pelo26 65 che si strappa di dosso, per aggiungerlo al nido dove poi partorire? Chi mai farti soffrire? Tu sei come la rondine che torna in primavera. Ma in autunno riparte; e tu non hai quest’arte27. Tu questo hai della rondine: le movenze leggere28; 75 questo che a me, che mi sentiva ed era vecchio, annunciavi un’altra primavera29. Tu sei come la provvida30 formica. Di lei, quando escono alla campagna, 80 parla al bimbo la nonna31 che l’accompagna. E così nella pecchia32 ti ritrovo, ed in tutte le femmine di tutti 85 i sereni animali che avvicinano a Dio; e in nessun’altra donna. 70

26 chi il pelo: chi (potrebbe toglierle) il pelo. 27 quest’arte: questa disposizione, l’abitudine cioè di abbandonare i luoghi della propria vita. 28 Tu… leggere: i movimenti aggraziati.

29 a me… primavera: questo (hai della rondine), il fatto che a me, che mi sentivo ed ero vecchio, annunciavi una nuova stagione, cioè una nuova fase di vitalità esistenziale; nota la desinenza antica e letteraria in -a per la prima persona singolare.

30 provvida: previdente (forma letteraria). 31 Di lei… nonna: è un riferimento alla favola della formica laboriosa contrapposta alla cicala oziosa. 32 pecchia: ape (voce letteraria).

Analisi del testo Un testo esemplare La centralità di A mia moglie nella produzione poetica di Saba è stata sottolineata dal poeta stesso in Storia e cronistoria del Canzoniere: «Se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa». L’affermazione è motivata non solo da ragioni affettive (il legame con la moglie Lina), ma dall’esemplarità che Saba evidentemente attribuiva a questa lirica nell’economia generale della sua opera. Nel testo si possono rintracciare infatti molte componenti fondamentali del suo universo poetico, a partire dal paragone, che percorre tutto il testo, tra Lina e gli animali da cortile, riconducibile alla poetica delle cose e del quotidiano. Attraverso le caratteristiche e le qualità degli animali che delineano le virtù di Lina sono espressi i temi centrali del Canzoniere: l’amore (dalla sessualità alla fedeltà, alla generosità di chi si prende cura degli altri, funzione tipica della donna), ma anche il dolore come esperienza connaturata con la vita. Significativa è a questo proposito la ripresa, quasi un ritornello, del motivo del lamento dei propri dolori da parte della moglie alla fine di alcune strofe.

178 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Le molteplici facce dell’amore Il critico Giacomo Debenedetti, amico del poeta, sottolineò subito la «sensualità quasi animalesca» delle similitudini (in particolare quelle con la giovenca, la cagna, la coniglia): attraverso esse, Lina è celebrata dal poeta non solo per le sue qualità interiori ma nella sua fisicità e sensualità. Nella Storia e cronistoria però Saba si è dissociato da questa interpretazione, sostenendo che non «si tratta di sensualità animalesca, forse nemmeno di sensualità, in nessun caso di sola sensualità». I due punti di vista non devono essere necessariamente contrapposti ma piuttosto considerati complementari nella visione della donna e dell’amore espressa nella lirica: la moglie rappresenta l’eros e la vitalità connessa con la funzione procreatrice della donna («la rondine che torna in primavera»); nello stesso tempo incarna l’amore nelle sue varie forme, dalla gelosia alla fedeltà alla protezione.

La celebrazione del genere femminile La scelta del genere femminile nelle similitudini – come ha notato il critico Lorenzo Renzi, la rondine, la formica e l’ape (nomi di genere grammaticale promiscuo con la sola forma femminile) rappresentano qualità tradizionalmente attribuite alla donna: rispettivamente, la vitalità, la parsimonia e la laboriosità – fa sì che la poesia ne diventi una celebrazione: la moglie rappresenta la sintesi delle qualità femminili. Attraverso la lode della moglie Saba esalta la femminilità, secondo la lezione di Nietzsche, che aveva individuato nella donna la vicinanza alla natura in contrapposizione alla razionalità dell’uomo: concezione sinteticamente ripresa nella poesia di Saba dal giudizio «È migliore del maschio» (v. 10). L’influenza del pensiero di Nietzsche è stata così richiamata sempre da Renzi: «Questa donna di Saba, valutata in quanto vicina alla Natura e intermediaria tra l’uomo e la società, è allontanata dalla ragione, che è ritenuta da Saba il grande e terribile privilegio dell’uomo. E in realtà del maschio. […] È lui l’animale malato, secondo la definizione di Nietzsche: malato dalla ragione. La donna è meno malata, più vicina alla natura. Dio è appunto Natura, non, come nell’amor cortese, Intelligenza».

La struttura La poesia è costruita per parallelismi, con piccole variazioni: ciascuna strofa paragona la moglie del poeta alla femmina di un animale (a due nell’ultima), secondo uno schema costante: la formula iniziale del paragone («Tu sei come…»), la citazione di un animale e la sua descrizione, il commento della similitudine; la prima e l’ultima strofa ripropongono con versi uguali il tema francescano della vicinanza fra la natura e Dio («tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio»). Sulla base del fatto che in Storia e cronistoria Saba definisce A mia moglie anche una poesia «religiosa, […] scritta come altri reciterebbe una preghiera», Renzi sottolinea la struttura a ripetizioni della lirica e la collega alla forma dell’elogio, di cui è esempio famoso il Cantico delle creature di san Francesco. Grazie alla sua somiglianza con le femmine dei «sereni animali», la moglie diventa come questi un tramite per avvicinarsi a Dio, vicinanza che per Saba equivale a vivere in comunione con le creature e non rappresenta l’adesione a una confessione religiosa: «Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali, che, per la nudità e semplicità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali a continui infingimenti, “avvicinano a Dio”, alle verità che cioè si possono leggere nel libro aperto della creazione».

Lo stile: lessico quotidiano e musicalità Il lessico è prevalentemente quotidiano ma le similitudini – in particolare con la cagna, la gallina e la giovenca – denotano un uso alternativo, quasi rivoluzionario, del registro colloquiale: gli accostamenti sono infatti in antitesi con i significati in uso nel linguaggio comune e rappresentano un ritorno all’essenza prima della parola. Il poeta capovolge l’uso negativo dei paragoni (ad esempio quello con la gallina è normalmente considerato sinonimo di stupidità), attribuendo alle femmine degli animali domestici addirittura la capacità di avvicinare a Dio. Ai termini del linguaggio quotidiano si associano quelli aulici (assonna, ti quereli, provvida) che lo elevano, come la costruzione sintattica complessa, con il normale ordine delle parole mutato dall’anastrofe («Se l’incontri e muggire / l’odi») e dall’iperbato (vv. 42- 44). La forma metrica è basata sui versi della tradizione, come le rime, spesso baciate (vv. 8-9, 14-15), le assonanze (vv. 2-5), le consonanze (vv. 57, 59, 61: orecchi, radicchi, rannicchia): ne risulta un ritmo piano, che assume il tono della preghiera grazie anche all’anafora Tu sei come all’inizio di ognuna delle sei strofe.

Il Canzoniere 2 179


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Il poeta dichiara di riconoscere la moglie «in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali che avvicinano a Dio / e in nessun’altra donna»: che significato attribuisci a questa affermazione? ANALISI 2. Crea una tabella in cui inserirai le caratteristiche di Lina che emergono dalle similitudini presenti nel testo. Spiega, poi, in massimo 5 righe, quale immagine di donna risulta. 3. Individua nel testo le espressioni che indicano il dolore e spiegane il senso in rapporto al contesto. LESSICO 4. Rintraccia nel testo voci e forme che indicano un consapevole ricorso da parte di Saba a un lessico semplice e quotidiano e motivane l’utilizzo da parte del poeta. Quali termini invece appartengono al registro colto? Fornisci una schedatura. STILE 5. Quali elementi, oltre ai parallelismi, possono avvicinare la poesia ai componimenti religiosi medievali?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di massimo 3 minuti, confronta la celebrazione del genere femminile in A mia moglie con la concezione della donna-angelo della poesia stilnovistica. SCRITTURA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

7. Saba, per esaltare le qualità della moglie, la accosta a una serie di figure animali. Ti sembra che i paragoni da lui istituiti mettano in luce caratteristiche femminili ancora attuali o ti sembrano rappresentare un mondo lontano dalla nostra sensibilità?

Umberto Saba

T2

EDUCAZIONE CIVICA

La capra

nucleo Costituzione competenza 3

Canzoniere, Casa e campagna U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, introd. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

Il componimento, contenuto nella sezione Casa e campagna del Canzoniere, è uno dei testi più conosciuti di Saba. Nel belato di una capra, il poeta riconosce il lamento doloroso che accomuna tutti gli esseri viventi, destinati a soffrire.

Ho parlato a una capra Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata alla pioggia, belava. 5 Quell’uguale1 belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia2, poi perché il dolore è eterno, ha una3 voce e non varia. Questa voce sentiva4 10 gemere in una capra solitaria.In una capra dal viso semita5 sentiva querelarsi6 ogni altro male, ogni altra vita. La metrica Tre strofe irregolari di settenari ed endecasillabi. L’ultimo verso è un quinario. 1 uguale: ininterrotto.

2 per celia: per scherzo. 3 una: una sola, un’unica. 4 sentiva: forma arcaica per “sentivo”. 5 dal viso semita: con il profilo affine a

180 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

quello che gli stereotipi dell’epoca attribuivano agli ebrei. 6 querelarsi: lamentarsi.


Analisi del testo Il dialogo con la capra Il testo si apre con l’affermazione «Ho parlato a una capra», che ci proietta immediatamente nel rapporto che Saba istituisce con gli animali; la capra non è dotata di parola, ma è possibile un dialogo tra lei e il poeta, sulla base della condivisione di un comune destino di sofferenza. La capra è sola, abbandonata sotto la pioggia, legata e impotente, e dietro il suo belato lamentoso si può riconoscere il dramma del dolore universale che non risparmia nessun essere vivente.

Lo stile Il lessico è semplice ed essenziale, ma il ritmo lento – ottenuto dalla ripetizione di alcuni termini come dolore, voce e capra – conferisce al componimento un tono solenne quasi liturgico.

La capra dal viso semita Nell’immagine della capra dal viso semita taluni hanno voluto intravedere un riferimento alle origini ebree di Saba, ma il poeta volle smentire questa chiave di lettura e in Storia e cronistoria del Canzoniere scrisse: «Si volle vedere in questi versi una conferma delle origini parzialmente semitiche di Saba, e magari un suo conseguente antisemitismo. Ma il verso della capra dal volto semita è un verso prevalentemente visivo. Quando Saba lo colse non c’era in lui nessun pensiero cosciente né pro né contro gli ebrei». In ogni caso, l’utilizzo dell’aggettivo semita riecheggia l’immagine di un popolo che, nel corso della storia, ha subito un tragico destino di persecuzione.

Le reminiscenze leopardiane Nella poesia si sente un ricordo dei versi finali del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, nei quali il poeta recanatese constatava amaramente, seppur in forma dubitativa, che il dolore potesse toccare tutti gli esseri viventi, compresi gli animali.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del componimento in circa 5 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è la reazione del poeta nel sentire il belato della capra? ANALISI 3. La scoperta dell’universalità del dolore avviene progressivamente. Quali avverbi indicano questa gradualità? In che modo il poeta giunge alla consapevolezza esistenziale? LESSICO 4. Spiega il significato che assume l’aggettivo fraterno (v. 5) in questa poesia. STILE 5. Individua la figura retorica che mette in correlazione i versi 10 e 11. Quale effetto produce?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta questa poesia con A mia moglie, in merito alla relazione che il poeta istituisce tra i sentimenti umani e quelli del mondo animale. Metti in luce analogie e differenze tra i due componimenti in un testo di massimo 10 righe. SCRITTURA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

7. Il critico letterario Enrico Meloni ha visto in Saba un anticipatore della «moderna etica animalista». Condividi questa affermazione? Quanto conta la difesa del mondo animale, nel contesto di una più ampia tutela dell’ambiente nel quale viviamo? Scrivi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

Il Canzoniere 2 181


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giulio Ferroni Il poeta è «un artigiano del quotidiano» Nel passo che segue il critico individua la cifra stilistica della poesia di Saba nella compresenza della tradizione letteraria con «il linguaggio più familiare, comune e quotidiano»; la continuità con «le forme convenzionali del linguaggio poetico» si fonda sulla convinzione che esse costituiscano uno strumento imprescindibile per comunicare i propri sentimenti.

G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Il Novecento, vol. IV, Einaudi scuola, Milano 1991

Contrariamente a gran parte della poesia del suo tempo, quella di Saba si pone in un rapporto di continuità con la tradizione: le forme convenzionali del linguaggio poetico italiano costituiscono per lui la base necessaria di ogni espressione; usarle e ripeterle significa inserirsi entro una forma collettiva, parlare una lingua all’interno 5 di una convenzione sociale. Saba è convinto che solo sulla base della convenzione, di uno strumento linguistico più diffusamente sentito come «letterario» possa darsi l’espressione più autentica degli affetti, la comunicazione più ampia e cordiale. Il poeta è per lui come un artigiano del quotidiano, lontano da ogni sacralità, lontano da ogni funzione spettacolare e da ogni atteggiamento di vate e sacerdote (siamo agli 10 antipodi di ogni concezione di tipo simbolista): per questo la sua lirica non cerca di forzare i limiti del linguaggio della tradizione, ma preferisce ridurlo alle sue forme più semplici, intrecciandolo con il linguaggio più familiare, comune e quotidiano. Molti sono i poeti italiani di cui si sentono gli echi nella poesia di Saba: ma la sua preferenza va ai grandi autori tra Settecento e Ottocento (in primo luogo a Leopardi) 15 e in genere al linguaggio del melodramma, a cui egli riconosce la capacità di esprimere gli affetti più autentici attraverso il massimo di convenzionalità e di popolarità (egli giunge a sostenere che un verso dell’Ernani di Verdi […] «Udite tutti del mio cor gli affanni», vada ritenuto uno dei più belli dell’intera letteratura italiana). La sovrapposizione tra linguaggio letterario e linguaggio comune, quotidiano e fami20 liare, può dare spesso luogo a stridori, a improvvise cadute di tono, percepibili con particolare evidenza nella fase iniziale della scrittura di Saba: gli squilibri e le ingenuità costituiscono un aspetto essenziale di questa poesia, che sembra cercare un tono alto e sublime, ma come trasponendolo in una dimensione infantile. Nei momenti più alti il suo linguaggio si svolge come qualcosa di assolutamente semplice e diretto, come 25 svuotato di peso, leggerissimo e carico di sfumature, capace di dire nel modo più spontaneo le cose più concrete e angosciose, di colpire nel profondo con un’assoluta naturalezza, sempre sorretta da una musicalità elementare, quasi sospesa.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è la tesi di Ferroni a proposito della poesia di Saba? 2. Sintetizza gli snodi argomentativi del testo. 3. Spiega con le tue parole che cosa significa l’espressione «massimo di convenzionalità e di popolarità» (rr. 15-16) riferito al giudizio di Saba sul melodramma e come tale giudizio si lega alla sua poetica. 4. In più occasioni Saba in nome dell’«onestà», della sincerità e della volontà di comunicazione del poeta, a proposito del proprio linguaggio poetico, ha usato aggettivi quali «dimesso», «comune», «infantile», addirittura «trito». Ritieni che tale chiarezza e accessibilità siano elementi essenziali della comunicazione poetica e artistica in generale? Anche prendendo spunto dalle considerazioni di Ferroni, esprimi le tue opinioni sull’argomento in base alle tue conoscenze di studio ed esperienze personali. Scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

182 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Umberto Saba

T3

Trieste

LEGGERE LE EMOZIONI

Canzoniere, Trieste e una donna U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, introd. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

ANALISI INTERATTIVA

Il titolo della raccolta a cui appartiene il testo (Trieste e una donna) sottolinea il ruolo di protagonista assunto dalla città natale del poeta, insieme alla moglie Lina; in Storia e cronistoria del Canzoniere Saba precisa che «la città e la donna assumono per la prima volta i loro inconfondibili aspetti e sono amate appunto per quello che hanno di inconfondibile». È la natura “speciale” di Trieste a essere il tema della poesia.

Ho attraversata tutta la città. Poi ho salita un’erta1, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: 5 un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città. Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, 10 è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. 15 Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena2 all’ingombrata3 spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa. Intorno 20 circola ad ogni cosa4 un’aria strana, un’aria tormentosa5, l’aria natia. La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto6, alla mia vita 25 pensosa e schiva7.

La metrica Tre strofe di diversa lunghezza: i versi sono in prevalenza endecasillabi, poi settenari, quinari (ad eccezione del v. 19 che è trisillabo), variamente disposti. 1 erta: strada in salita. 2 mena: conduce.

3 ingombrata: affollata dalle barche e dai pescatori. 4 Intorno… cosa: la separazione dell’avverbio dalla preposizione corrisponde alla figura dell’iperbato. 5 un’aria… tormentosa: tormentata, che corrisponde alla sofferenza interiore del poeta.

6 a me fatto: adatto a me, cioè in sintonia con la mia dimensione interiore, e quindi vero e proprio luogo dell’anima. 7 schiva: chiusa e riservata.

Il Canzoniere 2 183


Analisi del testo Trieste, “luogo dell’anima” L’importanza di Trieste nell’opera di Saba è evidente fin dalla presenza della città natale in molti testi, soprattutto nelle prime raccolte. Mentre in altre poesie a essa dedicate (ad esempio Il Borgo) la città è simbolo della “vita di tutti”, da cui il poeta si sente escluso e che invece vorrebbe condividere, nella lirica Trieste essa è quasi un luogo dell’anima: l’immagine del cantuccio al v. 5, allusione a una dimensione protettiva, una sorta di grembo materno, è ripresa ed esplicitata nella strofa finale, in cui il tema ritorna con dichiarata sintonia emotiva («ha il cantuccio a me fatto», v. 24). La scoperta da parte del poeta della relazione profonda tra sé e la città è qui favorita dalla particolare prospettiva da cui egli la guarda: non più immerso in essa, alla ricerca della comunione con gli altri uomini (come in Città vecchia ➜ T4 ), ma dalla dimensione appartata e solitaria dell’erta (vv. 2 e 15). La ripresa in posizione privilegiata ribadisce lo sguardo dall’alto e la distanza fisica, che gli permette di coglierne la particolare natura e il rapporto che vive con essa: se la città «in ogni parte è viva», è però capace di accogliere la personalità solitaria, «pensosa e schiva» del poeta.

Una città dal volto ambivalente La fisionomia di Trieste è definita attraverso elementi contrastanti, che alludono a una disarmonia: l’ossimoro «scontrosa / grazia» e la singolare similitudine «è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore», ribadita dalla successiva «come un amore / con gelosia», perciò inquieto e tormentato. Le immagini esprimono l’ambivalenza verso la città, oggetto di un amore sofferto, perché la sente familiare ma non sempre capace di corrispondere al suo sentimento.

La solitudine del poeta Il “ritratto” di Trieste fornisce al poeta l’occasione per manifestare il senso di solitudine che contraddistingue la sua dimensione esistenziale, così come la sua condizione di artista. Il tema è espresso subito nella prima strofa dall’aggettivo solo, in fine di verso e quindi in posizione di rilievo, ed è ripreso nell’ultima con circolarità: attraverso la definizione conclusiva della sua vita come «pensosa e schiva» il poeta ribadisce l’esperienza di isolamento che l’ha fatto sentire diverso dagli altri uomini, questa volta però con la consapevolezza di poter trovare nella sua città un posto (cantuccio) adatto a sé e perciò consolatorio.

La struttura e i procedimenti stilistici La poesia ha una struttura tripartita (ricorrente nelle poesie composte da Saba in questo periodo): mentre nella prima strofa prevalgono gli elementi narrativi, evidenziati dai verbi che indicano azioni (ho attraversata, ho salita, siedo), nella seconda domina la riflessione, a definire la natura segreta e profonda di Trieste attraverso immagini e paragoni; la terza riprende in forma sentenziosa il tema del cantuccio. I sentimenti del poeta nei confronti della città natale sono sottolineati dal sapiente uso dei procedimenti retorici: rime, enjambements (in particolare tra i vv. 5-6 e 8-9), corrispondenze foniche. Nella prima strofa il primo e l’ultimo verso hanno la stessa parola-rima città, mentre la rima muricciolo : solo e la consonanza muricciolo : cantuccio mostrano la rilevanza di questi termini nel sistema di significati del testo. Nella seconda strofa l’ambivalente rapporto delineato dall’espressione «scontrosa / grazia» è sottolineato dal contrasto fra suoni dolci (la c) e aspri (r, s e z) come ad es. in ragazzaccio; si noti la ripetizione del termine aria («un’aria strana, un’aria tormentosa, / l’aria natia») con la serie degli aggettivi suggellata dal termine conclusivo natia, a dichiarare l’appartenenza e il legame profondo e insostituibile del poeta con essa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale situazione è rappresentata nella prima strofa? 2. A che cosa è paragonata Trieste nella seconda strofa? ANALISI 3. A quali aspetti del rapporto fra il poeta e la città alludono le similitudini dei vv. 10-12 e 13-14?

184 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


4. Evidenzia nel testo gli elementi che indicano il legame affettivo di Saba per Trieste: quali sentimenti esprimono? TECNICA NARRATIVA 5. Da quale punto di vista il poeta osserva la sua città natale? Quale immagine di Trieste emerge dallo sguardo di Saba? LESSICO 6. Rifletti sull’utilizzo del lessico quotidiano accostato a quello della tradizione letteraria. STILE 7. Evidenzia l’uso dei vezzeggiativi e motivane l’utilizzo.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

Collabora all’analisi

T4

TESTI A CONFRONTO 8. L’«erta […] deserta» della Trieste di Saba richiama l’ermo colle dell’Infinito di Leopardi: confronta i percorsi mentali e poetici che procedono per i due poeti da una situazione fisica e ambientale simile. ESPOSIZIONE ORALE 9. Trieste è per Saba il “luogo dell’anima”. Come vivi il rapporto con la tua città o il tuo paese? Ti senti protetto o respinto dal luogo in cui vivi? Esponi in un breve testo (max. 10 righe) le tue riflessioni.

Umberto Saba

Città vecchia Canzoniere, Trieste e una donna

U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

Come indica il titolo stesso, protagonista della poesia è la città; in questo caso, rispetto a Trieste, nel ritratto prevale la dimensione umana sugli elementi paesaggistici: la rassegna di tipi umani, tutti appartenenti a una condizione sociale umile o addirittura degradata, suscita l’adesione emotiva del poeta, che vi ritrova un significato religioso e il senso profondo della vita. La lirica fa parte della sezione Trieste e una donna.

Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia1. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada. Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare2, dove son merci ed uomini il detrito3 di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito 10 nell’umiltà. 5

La metrica Tre strofe di diversa lun-

1 città vecchia: la parte più antica di Trie-

ghezza (di 4, 15 e 3 versi), in prevalenza endecasillabi con inframmezzati quinari, settenari e un trisillabo.

ste, prospiciente il porto, dove si trovava il ghetto ebraico. 2 lupanare: termine letterario che indica un luogo dove si pratica la prostituzione, il postribolo.

3 dove… detrito: dove merci e uomini sono le scorie, gli avanzi, i relitti; l’iperbato colloca in fine di verso, e perciò in posizione di rilievo, il termine chiave nel sistema dei significati della poesia, che rima con infinito.

Il Canzoniere 2 185


Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega4, il dragone5 che siede alla bottega del friggitore6, 15 la tumultuante7 giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore8. 20

Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe9 è la via.

4 bega: litiga. 5 dragone: soldato di cavalleria. 6 friggitore: venditore di cibi fritti. 7 tumultuante: che si agita per effetto

della passione o della gioia incontenibile.

8 s’agita… Signore: in esse, come in me, si manifesta il Signore, da identificare non secondo una precisa confessione religiosa

ma come principio vitale che ha un valore sacro. 9 turpe: degradata, cioè deviata in senso morale.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Città vecchia, che Saba considerava tra le sue poesie più significative, ha come sfondo Trieste, e in particolare la parte più antica e popolare della città, in prossimità del porto, da dove spesso il poeta decide di passare rientrando a casa di sera. La lirica si articola in tre strofe di diversa ampiezza: la prima delinea brevemente l’occasione e l’ambiente da cui trae spunto e ispirazione. La seconda – centrale nel testo, per la collocazione, la maggiore ampiezza e la rilevanza sul piano tematico-simbolico – tratteggia la povera umanità che affolla la strada e già anticipa, negli ultimi versi, il tema della composizione. La terza, di soli tre versi, riprende l’ultima parte della precedente e sintetizza in forma sentenziosa la visione del poeta. 1. Quali figure nomina il poeta nella seconda strofa e quali ambienti da esse frequentati? Che cosa ha il poeta in comune con esse? 2. Cerca di spiegare con parole tue l’effetto che il contatto con questo tipo di umanità ha sul poeta (vv. 20-22). In Storia e cronistoria del Canzoniere Saba così scrive: «Città vecchia [è] una delle poesie più intense e rivelatrici di Saba; […] rende tutto un lato della sua anima e della sua poesia: quel bisogno, innato in lui, di fondere la sua vita e quella delle creature più umili ed oscure». Proprio il contatto con l’umanità più bassa induce il poeta nella lirica a scoprire il senso più alto e profondo della vita, a cui egli attribuisce un valore religioso. 3. Il contrasto/contatto tra “alto” e “basso”, che sta al centro dell’ispirazione della poesia, si manifesta in due espressioni ossimoriche. Rintracciale e commentale brevemente. 4. Spiega perché il poeta sceglie di usare un termine come detrito (v. 7) per alludere insieme a merci e a uomini. 5. Cosa significa secondo te l’aggettivo puro in questo contesto? In questa poesia il sistema delle rime ha un ruolo rilevante nella costruzione del messaggio profondo del testo. Si tratta, non a caso, per lo più di parole in rima antitetiche fra di loro (come ad esempio già lupanare : mare). 6. Individua le parole in rima più significative e commentane l’uso.

186 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


In rapporto alla sua scelta di conoscere questo tipo di umanità, Saba utilizza nella lirica un lessico per lo più appartenente al quotidiano. Ma al contempo utilizza, come spesso avviene nella sua poesia, espedienti retorico-metrici propri della tradizione letteraria. 7. Individua e fornisci alcuni esempi di lessico quotidiano. Individua esempi di inversione, anafore, enjambements e cerca di valutarne l’effetto.

Interpretare

L’idea cardine che ispira il Canzoniere è quella della “poesia onesta”, capace di attingere al senso profondo delle cose. Secondo il poeta, il significato profondo del reale deve essere raggiunto attraverso la rappresentazione diretta della realtà stessa, nei suoi aspetti di vita quotidiana (il critico Polato ha parlato di «irruenza del quotidiano»), a cui egli adegua il linguaggio poetico: Saba non suggerisce le “cose”, ma le “nomina”, cioè le rappresenta esattamente. 8. Il voluto contatto con la gente del popolo ha certamente un’intenzione polemica nei confronti della scelta dannunziana di un’umanità eletta come modello di riferimento. Sviluppa lo spunto in circa dieci righe. 9. In Storia e cronistoria del Canzoniere Saba esalta, in nome dell’autenticità, il ruolo dell’ispirazione come componente essenziale della poesia onesta, mentre considera menzogna la letteratura. Puoi ricondurre la lirica letta a questo fondamentale principio di poetica? Motiva il tuo giudizio con precisi riferimenti al testo. Il cantautore genovese Fabrizio De André (1940-1999) dedica una sua celebre canzone, Via del campo, a una via malfamata della sua città: ricercane il testo. 10. Metti a confronto l’atteggiamento di Saba e di De André in relazione all’umanità degradata dei quartieri più malfamati delle loro città.

Umberto Saba

T5

Ritratto della mia bambina Canzoniere, Cose leggere e vaganti

U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

AUDIOLETTURA

Ritratto della mia bambina fa parte della raccolta Cose leggere e vaganti (1920), che prende il nome proprio dall’ultimo verso di questa poesia: ne condivide anche la prospettiva più intensamente lirica rispetto alla produzione precedente e la “leggerezza” dello stile, appunto.

La mia bambina con la palla in mano, con gli occhi grandi colore del cielo e dell’estiva vesticciola: «Babbo – mi disse – voglio uscire oggi con te». 5 Ed io pensavo: Di tante parvenze1 che s’ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare2. Certo alla schiuma, alla marina schiuma3 che sull’onde biancheggia, a quella scia

La metrica Un’unica strofa di endecasillabi sciolti. 1 parvenze: apparenze, immagini.

2 assomigliare: paragonare. 3 marina schiuma: la ripetizione della

gnata da un aggettivo e in fine di verso ritorna al v. 11 con nubi.

stessa parola, la seconda volta accompa-

Il Canzoniere 2 187


10

ch’esce azzurra dai tetti4 e il vento sperde; anche alle nubi, insensibili5 nubi che si fanno e disfanno in chiaro cielo; e ad altre cose leggere e vaganti.

4 quella… tetti: la scia del fumo che esce dai comignoli non è grigia o nera, ma azzurra. 5 insensibili: lontane e indifferenti alle umane emozioni.

Analisi del testo La struttura Il testo si sviluppa in un’unica strofa con la struttura di una lunga similitudine: il primo termine (vv. 1-3) mette in scena la bambina del poeta (Linuccia), connotata da caratteristiche che evocano i giochi dell’infanzia («la palla in mano»), e la serenità della natura (l’azzurro degli «occhi grandi colore del cielo»), due mondi congeniali alla sensibilità del poeta. I successivi vv. 5-7 costituiscono l’elemento di congiunzione con il secondo termine di paragone: il tradizionale avverbio come è sostituito dall’intervento del poeta in prima persona che introduce la parte conclusiva. In questo modo Saba, pur riprendendo la figura retorica della similitudine, la rinnova nel procedimento esibendo il punto di vista soggettivo che l’attiva.

«Cose leggere e vaganti» Il verso finale è la chiave di lettura della poesia, una sorta di commento: come si è visto, cose è parola ricorrente in Saba e indica generalmente i dati dell’esperienza quotidiana, qui evocata dai due termini della similitudine. Il repertorio delle immagini appartiene alla vita di tutti i giorni e di tutti gli uomini: una bambina, la schiuma del mare, le nuvole, il cielo, cose accomunate dall’essere leggere e vaganti. Il poeta le mette in relazione sulla base dei colori e soprattutto della loro “leggerezza”: la qualità, in opposizione implicita con il “peso” della vita generalmente espresso da Saba, sembra alludere a una sensazione di libertà interiore, suscitata o comunque avvalorata dalla contemplazione della corrispondenza armoniosa tra gli elementi naturali e la bambina. In Storia e cronistoria del Canzoniere la raccolta Cose leggere e vaganti è collegata a un momento di serenità: «Chi ricorda gli anni che seguirono immediatamente la Prima guerra mondiale, ricorderà anche l’aria euforica e di (illusoria) realtà che si respirava in quel breve periodo. […] Oltre ai motivi di gioia che gli [a Saba] venivano dal tanto sospirato ritorno a Trieste, egli sentì quell’aria euforica, e la fece, a suo modo, sua […]. Cose leggere e vaganti sono nate, psicologicamente, da quel clima». Le scelte stilistiche sottolineano l’idea di leggerezza sia attraverso i suoni (con la presenza di consonanti liquide come la l nei primi versi e del suono sibilante sc-) sia attraverso le scelte lessicali (le parole chiave schiuma e nubi).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 3 righe la similitudine presente nel componimento. COMPRENSIONE 2. Quali caratteristiche accomunano la bambina agli elementi della natura a cui è associata? 3. Perché le nubi sono definite insensibili (v. 11)? ANALISI 4. Quali possono essere le «altre cose leggere e vaganti»? LESSICO 5. Fornisci esempi di lessico quotidiano e spiega perché è possibile affermare che si tratta di lessico “apparentemente quotidiano”. Come gli accorgimenti metrici e retorici ne esaltano la semplicità? STILE 6. Analizza il livello sintattico del componimento. Quale costrutto sintattico predomina nel testo: la paratassi o l’ipotassi? A cosa è finalizzata la scelta stilistica del poeta?

Interpretare

SCRITTURA 7. In relazione alle tematiche del Canzoniere, confronta questo componimento con T1 e individua le analogie fra la moglie Lina e la figlia Linuccia.

online T6 Umberto Saba

In riva al mare Canzoniere, L’amorosa spina

188 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Umberto Saba

T7

Mio padre è stato per me «l’assassino» Canzoniere, Autobiografia

U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

La poesia è la terza della raccolta Autobiografia, scritta alla fine del 1924 e composta da 15 sonetti, che corrispondono ciascuno a una fase della vita del poeta. In Storia e cronistoria del «Canzoniere» Saba ha spiegato il significato della scelta metrica del sonetto, come forma “chiusa” e in quanto tale «utile a isolare diversi periodi della sua vita, cavando di ciascuno l’essenziale». Del sonetto qui riportato ha scritto che «condensa tutta la storia familiare e razziale», ed è in questa prospettiva che il testo va letto, come rappresentazione fantasmatica di uno dei nuclei chiave della biografia personale e dell’immaginario poetico di Saba.

Mio padre1 è stato per me «l’assassino», fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. Allora ho visto ch’egli era un bambino2, 4 e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto3. Aveva in volto il mio sguardo azzurrino4, un sorriso, in miseria5, dolce e astuto. Andò sempre pel mondo pellegrino6; 8 più d’una donna l’ha amato e pasciuto7. Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi. 11 Di mano ei8 gli9 sfuggì come un pallone10. «Non somigliare – ammoniva – a tuo padre». Ed io più tardi in me stesso lo intesi: 14 eran due razze in antica tenzone11. La metrica Sonetto, con la disposizione di rime: ABAB ABAB CDE CDE. 1 Mio padre... «l’assassino»: Ugo Edoardo Poli, veneziano e di origine nobile, era di professione venditore di robivecchi; allontanato dalla città dal governo austroungarico per motivi politici prima della nascita del figlio, abbandonò la famiglia; «l’assassino»: il termine è tipico del linguaggio popolare ed è contrassegnato dalle virgolette perché corrisponde all’epiteto usato comunemente dalla madre per denominare il marito.

2 un bambino: una personalità con tratti infantili (non per nulla il padre era fuggito dalle responsabilità familiari proprie dell’uomo adulto). 3 il dono… avuto: il dono della poesia, ritenuto una trasgressione dalla madre severa, rappresenta per il poeta un’espressione dello spirito ribelle del padre. 4 il mio sguardo azzurrino: lo stesso colore degli occhi. 5 in miseria: nella condizione di povertà in cui viveva.

6 Andò… pellegrino: visse senza una dimora stabile. 7 pasciuto: nutrito. 8 ei: egli. 9 gli: le. 10 come un pallone: il paragone indica l’impossibilità per la madre di trattenerlo. 11 tenzone: conflitto; il contrasto che divise irreparabilmente i genitori è ricollegato dal poeta alla loro diversità di religione.

Analisi del testo La figura ambivalente del padre Nel primo verso Saba rievoca la figura paterna con l’epiteto «l’assassino» usato comunemente dalla madre: il padre non ha avuto altra identità per lui fino a quando lo ha incontrato, per la prima volta, all’età di vent’anni. All’immagine materna del padre lo scrittore affianca quella scoperta da lui stesso, ormai giovane uomo: all’assassino si contrappone una sorta di bambino, una persona non cresciuta psicologicamente, in cui però il poeta ritrova caratteristiche proprie, sintetizzate nello «sguardo azzurrino» (v. 5), che rimanda non tanto a una somiglianza fisica quanto a una comune identità psicologica ed esistenziale.

Il Canzoniere 2 189


Un rapporto edipico “rovesciato” Le due terzine focalizzano il carattere opposto dei genitori, in cui il figlio-poeta riconosce, a distanza di anni, un rovesciamento dei ruoli tradizionali: se la figura paterna è normalmente connotata come autorevole e severa, qui il padre è invece «gaio e leggero» (v. 9). Al contrario la madre, abitualmente identificata con le qualità “femminili” della comprensione e della dolcezza, è rigidamente severa, perché per sorte, e forse per la sua stessa indole, deve sopportare «della vita i pesi» (v. 10): l’immagine acquista ulteriore rilievo grazie all’inversione sintattica (iperbato), procedimento ricorrente nel Canzoniere, che colloca in fine di verso il termine da evidenziare.

L’identificazione con il padre Nonostante l’ammonimento materno a non assomigliare al padre, il poeta, ormai adulto, ne rintraccia l’eredità («Ed io più tardi in me stesso lo intesi», v. 13) nella vocazione poetica (cioè «il dono…», v. 4) in essa riconoscendo l’atteggiamento “infantile” del padre («Allora ho visto ch’egli era un bambino»). Nel verso finale interpreta il conflitto tra i genitori, che già prima della sua nascita li aveva divisi: attribuendolo alla loro diversa appartenenza culturale e religiosa, il poeta lo presenta come inevitabile, non ascrivibile alla responsabilità del padre e della madre, che diventano così oggetto della sua comprensione e del suo perdono.

Lo stile Le forme letterarie pel, ei, eran (come spiega Saba stesso in Storia e cronistoria del Canzoniere) sono adottate per motivi prosodici; lo stesso per il termine pallone (per Saba era più adatto palloncino). Al registro dell’italiano parlato e colloquiale rimanda invece l’anacoluto «fino ai vent’anni che l’ho conosciuto»; il tono volutamente dimesso del sonetto (Saba lo definisce «raso terra») è sottolineato anche dal ritmo disteso, per effetto della posizione degli accenti, variati rispetto allo schema canonico dell’accentazione dell’endecasillabo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Delinea il doppio ritratto che il poeta traccia del padre. 2. Spiega il senso del paragone «come un pallone». ANALISI 3. Prova a definire l’atteggiamento del poeta nei confronti del padre sulla base degli indizi testuali e indica gli aspetti della propria personalità che Saba riconosce nel genitore. 4. Nel testo il poeta istituisce attraverso la rima un collegamento tra i termini assassino, bambino, azzurrino: a tuo avviso che cosa vuole comunicare? LESSICO 5. Analizza il lessico usato completando una tabella come quella sottostante. Sintetizza poi in un testo di 10 righe le tue osservazioni. Campo semantico Lessico quotidiano Lingua letteraria della leggerezza STILE 6. Quale figura retorica riconosci nell’espressione «eran due razze» (v. 14)? 7. Evidenzia l’utilizzo nella poesia di Saba di coppie di aggettivi o di verbi: quali effetti producono sul ritmo del componimento?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 8. Saba, nella sua Autobiografia, scrisse «Mio padre fu per me quello che nei romanzi è l’assassino, cioè il “cattivo”, perché aveva fatto soffrire mia madre». Partendo dalle parole del poeta e facendo riferimento anche ad altri autori che hai incontrato nella tua esperienza di lettore, rifletti su quanto la “vita in famiglia” influenzi il percorso e la formazione di ogni uomo (max. 20 righe).

online

online

T8 Umberto Saba Goal Canzoniere, Parole

T9 Umberto Saba Teatro degli Artigianelli Canzoniere, 1944

190 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Umberto Saba

T10

Amai Canzoniere, Mediterranee

U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

Composta nel 1945 e inserita nella sezione Mediterranee, la lirica rappresenta l’ultimo manifesto in versi della poetica di Saba, che vi delinea a posteriori le motivazioni profonde della sua opera, sintetizzandole in poche, essenziali formule.

Amai trite1 parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore2, la più antica difficile del mondo.

ANALISI INTERATTIVA

5

Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato3, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona4.

Amo te5 che mi ascolti e la mia buona 10 carta lasciata al6 fine del mio gioco. La metrica Due quartine più un distico di versi endecasillabi, tranne il terzo che è trisillabo; i versi centrali delle quartine hanno la rima baciata, l’ultimo della prima quartina rima con il primo della seconda, mentre l’ultimo della seconda rima con il primo del distico.

1 trite: consumate dall’uso. 2 la rima… amore: in Trieste (➜ T3 ) i vv. 12-13 «per regalare un fiore; / come un amore» realizzano questa rima fiore : amore. 3 quasi un sogno obliato: simile a un sogno dimenticato, che riaffiora alla coscienza.

4 che il dolore… abbandona: il cuore si accosta con timore alla verità per il dolore che può suscitare, ma una volta scoperta non l’abbandona più. 5 te: l’interlocutore, la cui identità è lasciata volutamente indeterminata, a cui il poeta dedica la poesia. 6 al: alla.

Analisi del testo Una triplice dichiarazione d’amore La poesia, scritta nel secondo dopoguerra, appartiene alla stagione della piena maturità poetica di Saba: nello stesso anno pubblicò la seconda edizione del Canzoniere, frutto di una meditata scelta e rielaborazione di tutta la sua produzione. Il significato centrale della sua lunga attività è qui espresso in modo emblematico dal verbo amare al passato remoto nelle prime due strofe; esso esplicita l’origine non intellettualistica della sua opera, nata dall’“amore” (Saba è stato definito «il poeta dell’amore»): la lirica è strutturata come una triplice dichiarazione d’amore, nei confronti degli elementi che per lui contraddistinguono il testo poetico.

La fedeltà alla tradizione Nella prima quartina Saba ribadisce i principi che hanno guidato la sua ricerca stilistica: riafferma la sua fedeltà alle «trite parole», cioè alla lingua comune, e alla tradizione poetica, identificata dalla formula «la rima fiore / amore», da lui assunta come modello, con una scelta solitaria («che non uno / osava»), opposta alle tendenze dominanti nel suo tempo. La rima è però definita difficile, perché la fedeltà alla tradizione non è stata per il poeta passiva imitazione, ma volontà e sforzo di creare, a partire da quella lezione, una poesia nuova.

La ricerca della verità La seconda quartina è dedicata ai temi a lui congeniali, riconosciuti nella «verità che giace al fondo», cioè ricerca delle emozioni e motivazioni segrete e inconsce dei comportamenti, destinate altrimenti a rimanere nascoste, «quasi un sogno obliato». Secondo il poeta è l’esperienza del dolore ad avvicinare alla ricerca della verità, che, una volta portata alla luce, risulta amica, cioè familiare. Il cuore può temere quella verità (cioè la conoscenza delle ragioni della propria sofferenza), ma poi «non l’abbandona» in quanto essa dà significato all’esistenza umana e al dolore stesso.

Il Canzoniere 2 191


Una poetica sempre attuale Nella strofa finale la ripresa anaforica al presente dello stesso verbo con cui iniziano le due precedenti (Amo) ribadisce la vocazione originaria anche in quella che il poeta sente come la stagione conclusiva della sua vita e della sua opera: la poesia è per Saba un atto d’amore, ora espresso nei confronti del proprio interlocutore («te che mi ascolti») e della nuova stagione poetica («la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco») che la sorte gli ha concesso; nel linguaggio metaforico (carta, gioco) la ricerca poetica si conferma come il senso della sua opera e della sua esistenza.

Lo stile L’incisività del testo, una sorta di testamento spirituale oltre che poetico, è il risultato della semplificazione sintattica e della scelta di una struttura omogenea, contraddistinta nelle tre strofe dalle riprese anaforiche del verbo amare e dai parallelismi nella costruzione della frase iniziale, in cui alla breve proposizione principale segue la relativa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Indica per ciascuna strofa l’“oggetto” dell’amore del poeta: quale significato riveste ciascuno di essi nella concezione della poesia di Saba? 2. Quale tipo di verità è quella che «giace al fondo»? Perché essa è legata al dolore? ANALISI 3. Quale valore assume il passato remoto che domina nelle prime due strofe e quale il presente che vi si sostituisce nella terza? LESSICO 4. Rintraccia nella lirica gli elementi lessicali della tradizione letteraria e quelli invece riconducibili alla lingua quotidiana: come sono collegati nel testo? STILE 5. Qual è la funzione delle riprese anaforiche in principio di verso?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Interpreta questo componimento alla luce del confronto con ➜ D2a e rifletti in un breve testo (max 15-20 righe) sulla concezione poetica espressa.

Umberto Saba

T11

Ulisse Canzoniere, Mediterranee

U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

La poesia Ulisse è collocata a conclusione dell’intero Canzoniere e può essere considerata, secondo la definizione del critico Bàrberi Squarotti, «un altissimo testamento spirituale». Nel testo Saba istituisce un implicito paragone tra se stesso e l’eroe omerico; come Ulisse, anche il poeta, nell’ultima parte della sua vita, rinuncia all’approdo in un porto sicuro e continua metaforicamente a navigare nel mare della vita.

Nella mia giovanezza1 ho navigato2 lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede3, La metrica Endecasillabi sciolti.

2 ho navigato: in gioventù Saba aveva

1 giovanezza: arcaismo.

fatto esperienza come mozzo a bordo di una nave.

192 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

3 intento a prede: alla ricerca di prede.


coperti d’alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava4, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l’insidia5. Oggi il mio regno 10 è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito6, e della vita il doloroso amore. 5

4 li annullava: l’alta marea e la notte li nascondevano alla vista.

5 vele sottovento… insidia: le imbarcazioni si allontanano dagli isolotti, resi invisibili dal buio, per evitare di incagliarsi.

6 non domato spirito: reminiscenza foscoliana. Il non domato spirito riecheggia lo spirito guerrier del sonetto Alla sera di Foscolo (v. 14).

Analisi del testo Un testo bipartito La poesia nella prima parte si apre con un dato biografico, l’esperienza di Saba di un viaggio in gioventù lungo le coste della Dalmazia, e poi si sviluppa, nella seconda, in chiave simbolica, attraverso l’identificazione della vita con un lungo viaggio costellato di insidie, ma comunque degno di essere vissuto.

La spinta verso il largo Il poeta, nonostante la constatazione che la vita coincida con una navigazione in un mare, dove gli scogli di giorno appaiono belli come smeraldi (v. 6), mentre di notte, con il buio e l’alta marea rappresentano un pericolo (vv. 6-7), decide di continuare il suo percorso esistenziale, senza cercare riparo in un porto sicuro. Andare al largo (v. 12), significa per Saba non rinunciare a vivere, in nome di una presunta tranquillità. La sua scelta è anticonformista e coraggiosa, ma si dimostra una scelta di solitudine e di esclusione che si realizza in una terra di nessuno (v. 10), proiettata verso un doloroso amore (v. 13).

Lo stile Saba sceglie in questo componimento l’endecasillabo sciolto, rifiutando qualsiasi schema di rime. La struttura è, tuttavia, caratterizzata dalla presenza di molti enjambements, che mettono in risalto alcuni termini chiave e sottolineano, spezzando il verso, la contrapposizione tra due scelte esistenziali.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Il nome di Ulisse rappresenta il titolo della poesia, ma all’interno del testo non è presente alcun riferimento esplicito all’eroe omerico. Per quale motivo, secondo te, Saba ha fatto questa scelta? 2. Che cosa rappresenta il porto? ANALISI 3. Nel testo l’espressione «al largo» ha due occorrenze (v. 8 e v. 11). Ha il medesimo significato in entrambi i casi? LESSICO 4. Per quale motivo, secondo te, Saba usa il termine “giovanezza” al posto di “giovinezza” (v. 1)? STILE 5. Quale funzione svolgono le inversioni sintattiche degli ultimi due versi?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di massimo dieci minuti, fai un excursus sulle rappresentazioni della figura di Ulisse che hai incontrato nel tuo percorso di studi. Puoi fare riferimento al canto XXVI dell’Inferno di Dante, ai poemi omerici, al poemetto di Pascoli L’ultimo viaggio e infine all’Ulisse di Joyce.

Il Canzoniere 2 193


3 Saba prosatore 1 Alla ricerca della verità, con Nietzsche e Freud Lo “scandaglio del profondo” come programma e metodo Lo “scandaglio del profondo”, che Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere riconosce come il programma fondamentale della sua opera poetica, è l’elemento dominante anche dei testi in prosa di Scorciatoie e raccontini, che l’autore ha definito le sue “operette morali”, con allusione all’opera leopardiana, per evidenziarne il carattere di riflessione sull’uomo e sulla storia, in particolare quella del Novecento. La riflessione di Saba non ha una forma sistematica e non ha pretese di organicità teorica: è affidata infatti essenzialmente a brevi testi in cui il poeta condensa le sue considerazioni critiche sui comportamenti umani, prendendo spunto da piccoli episodi quotidiani o da fatti e personaggi rilevanti nella storia e nella politica. Nella concezione dell’uomo e nell’interpretazione delle vicende storiche, come nel far poesia, il principio guida per Saba è la ricerca sincera della verità, che lo spinge, contro ogni idealismo (inevitabile la sua lontananza da Croce), a scandagliare le motivazioni profonde dell’agire umano sia nella quotidianità sia nella storia. In questa scelta Saba si trova in una spontanea consonanza con le tendenze più avanzate della cultura europea. Partito da una formazione esclusivamente letteraria, incontra quelli che considera i maestri della propria visione dell’uomo: Nietzsche e Freud. La lezione di Nietzsche In un primo tempo è fondamentale per Saba l’influenza del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). Come lo scrittore spiega sinteticamente in Storia e cronistoria del Canzoniere, essa non riguarda certo il mito del superuomo (divulgato in Italia attraverso d’Annunzio) ma «le tante verità […] dell’anima umana» intuite dal filosofo tedesco, «per cui la sua opera può essere considerata anche come l’immenso preludio alle scoperte di Freud». Della lezione di Nietzsche Saba fa proprio il rifiuto delle convenzioni false, la critica ai pregiudizi, l’esigenza di chiarezza, sintetizzata nella formula «siamo profondi, ridiventiamo chiari», ma anche l’uso degli aforismi che si ritrova appunto nelle Scorciatoie e raccontini. Saba e la psicoanalisi La conoscenza dell’opera di Sigmund Freud (1856-1939) da parte di Saba è connessa alla terapia psicoanalitica intrapresa dal poeta (che già prima si mostrava particolarmente predisposto e propenso all’analisi delle dinamiche psicologiche). La cura, oltre a produrre direttamente la raccolta Il piccolo Berto, avvicina Saba alle teorie freudiane, influenzando la sua opera successiva. Nel Canzoniere, come ha evidenziato Contini, si rintracciano d’altra parte temi e situazioni che si possono definire psicoanalitici anche prima dell’incontro diretto del poeta con la psicoanalisi: la centralità dell’infanzia, il sogno, i sensi di colpa, il complesso rapporto con la figura femminile, che si tratti della madre o delle altre donne amate dal poeta. Anche il lessico usato da Saba nelle sue prose presenta alcuni termini ricorrenti: involontario, profondo, che rimandano alla concezione dell’inconscio teorizzata da Freud come motore dei comportamenti umani.

194 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Nel dopoguerra Saba, in risposta a un articolo del filosofo Benedetto Croce fortemente negativo e sprezzante nei confronti della psicoanalisi, difende il contributo di Freud per la conoscenza della psiche umana: «chi vuol occuparsi del pensiero umano non può più prescindere dall’inconscio: l’ignoranza di questo e delle strane leggi che lo governano ha generato, sia negli uomini di pensiero che negli uomini d’azione, gran parte degli errori e degli spaventosi mali che funestano il nostro infelice secolo».

2 Scorciatoie e raccontini: le “operette morali” di Saba Pubblicato nel 1946, Scorciatoie e raccontini è costituito da due parti, evidenziate dal titolo; le Scorciatoie, composte nel 1945 per alcune riviste romane, sono raggruppate in cinque serie per un totale di 165 testi (brevi o brevissimi), che imitano gli aforismi nella misura e nel tono. Nella penultima delle Scorciatoie Saba le definisce «brevi componimenti in prosa, di taglio scorciato e incisivo, che hanno l’accento della poesia e il rigore dell’aforisma, scorciatoie perché, in modi rapidi ed ellittici, arrivano a conclusioni lontane e spesso sorprendenti». I 13 Raccontini, nati dalle Scorciatoie, sono stati separati in un blocco autonomo in un secondo tempo per la misura più estesa, vicina a quella del racconto breve. I temi presi in esame sono diversi: vanno dalla storia (soprattutto le recenti e drammatiche vicende del Novecento) ad aspetti della cultura contemporanea (ad esempio il genere poliziesco) e del costume, a piccoli episodi quotidiani o comportamenti che assumono nell’interpretazione di Saba un significato emblematico in relazione alla vita profonda dell’uomo e ai meccanismi inconsci che la dominano. L’analisi acuta del poeta si sofferma anche sulla letteratura del passato (Dante, Petrarca, Foscolo) e contemporanea (Proust, Svevo, Penna, Moravia), individuando la genesi psicologica delle opere letterarie e le debolezze umane degli autori. Le riflessioni sulle vicende storiche del Novecento rivelano l’impegno civile di Saba, che prende in esame anche lo sterminio degli ebrei a opera dei nazisti nella Seconda guerra mondiale, tema in quel momento rimosso dalla cultura ufficiale. L’approccio psicoanalitico fa emergere le ragioni profonde dell’agire dei potenti, degli uomini comuni, dei ceti sociali: ne sono straordinari esempi Totem e tabù, sulla fine di Mussolini, e Tubercolosi, cancro, fascismo (➜ T12b ) in cui la dittatura fascista è definita la malattia morale del Novecento, e l’adesione ad essa un tentativo della borghesia, in Italia e altrove, di rifarsi una vita nuova, di ringiovanire, con effetti tragici. Comune a tutte le Scorciatoie è la volontà di indagare la realtà oltre le apparenze, di smascherare le ipocrisie, di portare alla luce le ragioni profonde dei comportamenti anche apparentemente banali e insignificanti o di quelli che hanno avuto conseguenze rilevanti e drammatiche nella storia. L’ultima scorciatoia (Genealogia di scorciatoie), che consta della semplice indicazione «Nietzsche – Freud», riconosce il debito di Saba verso i suoi modelli teorici: la lezione dei due ispira tutta la sua opera nel proposito, che è anche un monito per il lettore, di indagare «la verità che giace al fondo». Lo stile espositivo è sobrio e distaccato, a tratti anche ironico, anche se non mancano espressioni di diretta partecipazione, pur sempre controllata e guidata dalla consapevolezza della complessità della condizione umana che lo scrittore ha acquisito dai suoi maestri e dalla sua esperienza di vita. Saba prosatore 3 195


La necessità di comprendere le istanze del “profondo”

T12

Proponiamo alcune significative testimonianze tratte dalle Scorciatoie: i due passi di ➜ T12a enunciano la chiave di interpretazione a cui Saba si attiene; ➜ T12b esemplifica il suo metodo di lettura delle vicende storiche.

Umberto Saba

«Non esiste un mistero della vita, o del mondo, o dell’universo»

T12a

Scorciatoie 20; 116 Le scorciatoie n. 20 e n. 116 hanno in comune il tema della conoscenza: entrambe sostengono l’importanza dell’analisi delle istanze del profondo che generano i conflitti interni; la presa di coscienza delle loro cause, secondo il poeta, rappresenta una fonte di sollievo per ognuno; e ai potenti può evitare gli “abissi” in cui precipitano, ignari dei propri meccanismi interni.

U. Saba, Scorciatoie e raccontini in Tutte le prose, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001

NON ESISTE un mistero della vita, o del mondo, o dell’universo. Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità. Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere organico alla coscienza1. Ogni passo, anche piccolo, in 5 questa direzione, è di un valore infinito. Ma quante forze – in noi, fuori di noi – sorgono, si coalizzano, per impedire, ritardare, quel piccolo passo! GLI UOMINI infilzati (io volevo dire impirati2; ma lo scrittore Antonio Baldini3 mi confermò che il termine non è – come già lo sospettavo – italiano) in conflitti interni, che neppure sospettano di portare in sé, procedono – re, duci, filosofi, Somme 10 Autorità in testa – verso abissi che un bambino saprebbe loro indicare, e nei quali – tanto più ciechi quanto più vicini al pericolo – infallibilmente precipitano. Anche tu, anch’io... Ma se tu, se io, potessimo portare quelli inconsci conflitti alla luce della coscienza, ne proveremmo un grande, un indicibile sollievo; e quelli si risolverebbero – scoppierebbero – in aria, come bolle di sapone. 1 portare… coscienza: diventare coscienti del sapere connaturato alla nostra condizione di viventi.

2 impirati: il neologismo deriva forse da pira, catasta di legno per la cremazione, da cui assumerebbe il significato di “accatastati”, con l’idea di un cumulo opprimente.

3 Antonio Baldini: scrittore e critico letterario (1889-1962), collaboratore de «La Voce» e successivamente de «La Ronda».

Analisi del testo Inconscio e coscienza Comune alle due Scorciatoie è l’idea che l’individuo possiede la conoscenza di sé e della realtà («sappiamo tutto»), che l’avvicina agli altri esseri viventi; essa è però nascosta in profondità e perciò non è immediatamente accessibile alla coscienza, anche perché è ostacolata nel suo accesso da forze diverse, dentro e fuori l’individuo. Ancora più importante è la conoscenza dei propri conflitti interni da parte di coloro che hanno il potere di governare gli altri uomini e che si fanno condizionare da questi, procedendo verso abissi, cioè scelte di cui non vedono le conseguenze drammatiche, chiare invece anche a un bambino. Le prose ribadiscono la necessità di chiarezza ripetutamente professata da Saba (il primo titolo pensato per la raccolta delle sue poesie era proprio Chiarezza): il poeta non esplicita

196 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


gli strumenti per questa operazione, ma sottolinea l’importanza di una coraggiosa analisi di sé per portare alla luce il sapere profondo che abbiamo di noi stessi, avvertendo nello stesso tempo che molte forze ostacolano questo tentativo. In un’altra delle Scorciatoie Saba indica come condizione per poter «veder chiaro in se stesso» l’adesione alla vita istintiva: anche se non vi sono qui espliciti riferimenti, è evidente la lezione di metodo che Saba fa propria dai suoi “maestri” Nietzsche e Freud, sia nella dichiarata importanza della conoscenza del profondo e dei suoi conflitti sia nel riconoscimento delle forze che si oppongono a questo processo. La brevità dei testi condensa in formule chiare ed efficaci il pensiero del poeta, che assume un tono gnomico-sentenzioso, coerente con la sua volontà di essere una guida per i suoi lettori.

Umberto Saba

T12b

«Tubercolosi, cancro, fascismo» Scorciatoie 43

U. Saba, Scorciatoie e raccontini in Tutte le prose, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001

Lo sguardo critico di Saba è rivolto in questa scorciatoia al fascismo: la chiave di lettura del fascismo è ricercata nell’analogia tra i processi fisici e quelli storici, accomunati dalla stessa origine psicologica. L’evento storico è interpretato come una malattia morale, conseguenza del tentativo sbagliato della borghesia italiana di ringiovanire (cioè di assumere un nuovo ruolo sociale).

TUBERCOLOSI, CANCRO, FASCISMO Ogni epoca ha la sua malattia, alla quale risponde un’altra (ma è probabilmente la stessa) nel campo morale. L’Ottocento ebbe la tubercolosi e gli sdilinquimenti sentimentali1; il Novecento ha il cancro e il fascismo. Tutto il processo del fascismo – manifestarsi della sua vera natura quan5 do è già tardi per un efficace intervento chirurgico; sua impossibilità di morire se non assieme alla vittima alla quale si è abbarbicato2; tendenza a riprodursi in posti lontani dalla sua prima sede; disperate sofferenze che genera in quelli che ne sono colpiti; guasti profondi che si rivelano all’esame necroscopico3 dei corpi (o paesi) sui quali abbia totalitariamente imperato4 – tutto, dico, il suo processo ha sorprendenti 10 somiglianze con quello del cancro. Ma in un’altra cosa gli somiglia ancora. Nessuno ignora oggi che la tubercolosi è, molte volte, uno dei mezzi che i giovani impiegano per suicidarsi. Azzardo l’ipotesi che il cancro (malattia degli anziani) abbia le sue radici psichiche in un tentativo sbagliato dell’organismo per ringiovanire. La formazione di un neoplasma5 potrebbe significare il desiderio di rifarsi 15 un nuovo organo; p. es. un nuovo stomaco. (Ho comunicata questa mia ipotesi ad alcuni medici intelligenti, i quali ne hanno tutt’altro che riso.) Ebbene: che cosa è stata, in fondo, l’adesione al fascismo – in Italia e altrove – se non un tentativo sbagliato della borghesia di rifarsi una vita nuova, di ringiovanire? Troppo tardi si è accorta poi dell’errore; e allora… non c’era più rimedio; la buona cosa, la cosa 20 provvidenziale, che si presentava apportatrice di un «ordine nuovo»6 recava invece inumane sofferenze; e, a più o meno lunga scadenza, la morte. L’«Impero Romano»7 (nel secolo XX!) ebbe – purtroppo per noi – la genesi, i caratteri e le conseguenze di un neoplasma. 1 sdilinquimenti sentimentali: eccessi,

4 totalitariamente imperato: governato

struggimenti amorosi. 2 abbarbicato: attaccato tenacemente. 3 esame necroscopico: autopsia, qui in senso metaforico, cioè dopo la fine di quel sistema politico.

con potere assoluto. 5 neoplasma: agglomerato di cellule tumorali. 6 «ordine nuovo»: un nuovo modo di governare e di nuovi rapporti sociali.

7 L’«Impero Romano»: il fascismo si presentava come una prosecuzione moderna dell’antico Impero romano.

Saba prosatore 3 197


Analisi del testo Un’interpretazione psicologica del fascismo Dalla lettura di Freud il poeta deriva l’importanza della psiche nell’interpretazione della condizione umana, non solo per quanto riguarda i comportamenti individuali ma anche per gli eventi storici: a partire da questa chiave di lettura Saba individua un parallelismo tra la malattia fisica dominante in una determinata epoca e quella morale (da intendere come atteggiamenti culturali che hanno avuto conseguenze sul piano sociale e collettivo), accomunate dalla stessa radice psicologica. Esemplifica la sua concezione con riferimento all’Ottocento e al Novecento: nel primo caso alla tubercolosi ha corrisposto la tendenza agli eccessi sentimentali; nel secondo la diffusione del cancro ha avuto come corrispettivo l’avvento del fascismo, oggetto principale della sua riflessione. L’interpretazione è sostenuta attraverso il confronto tra le vicende del fascismo, delineate negli elementi e fasi fondamentali, e i processi con cui il cancro si sviluppa nell’individuo; l’analisi procede quindi alla ricerca delle cause del fenomeno storico in parallelo a quello fisico individuando l’elemento psicologico comune alla malattia fisica e a quella morale e storica: come il cancro è una degenerazione delle cellule che ha come radice psicologica il desiderio di ringiovanire formando un nuovo organo, così il fascismo è nato dalla volontà della borghesia di “ringiovanire”. Lo scrittore però non esplicita il significato che attribuisce a tale termine, ma, in relazione al contesto storico e politico, allude alla volontà di istituire un “nuovo ordine” nel momento in cui il potere risultava minacciato dall’avvento di nuove forze sociali, controllabili e asservibili solo dalla dittatura. Si noti che, nonostante il tema particolarmente coinvolgente (vista la vicinanza temporale dell’evento e gli effetti drammatici che il fascismo aveva avuto per la sua stessa vita), lo scrittore-poeta svolge la sua analisi con un linguaggio misurato, che sottintende però una severa condanna.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi in sintesi il contenuto di ciascuna delle Scorciatoie antologizzate (max. 5 righe per ciascuna) COMPRENSIONE 2. Che cosa accomuna il cancro al fascismo? ANALISI 3. Il testo ➜ T12a propone due Scorciatoie di carattere metodologico: ritieni che i criteri in esse formulati trovino un’adeguata esemplificazione nel testo ➜ T12b ? LESSICO 4. Analizza il ➜ T12b dal punto di vista lessicale e completa una tabella come questa con i termini e le espressioni appartenenti ai campi semantici indicati. medicina

politica

Osservane le occorrenze e collega poi i due campi semantici al tema trattato (max 15 righe). STILE 5. Individua in ➜ T12b le espressioni che rivelano il giudizio del poeta sul fascismo. Ti sembra che l’analisi proposta da Saba arricchisca la comprensione del fenomeno storico?

Interpretare

SCRITTURA 6. Rileggi il ➜ T12b e approfondisci in un testo di massimo 15 righe, documentandoti, l’importante tematica dei legami tra intellettuali e fascismo.

198 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


3 Un romanzo “autobiografico”: Ernesto La composizione Nel 1953, durante un soggiorno in clinica dovuto all’acuirsi dei suoi disturbi psicologici, il poeta comincia a scrivere Ernesto: il romanzo, rimasto incompiuto e pubblicato postumo solo nel 1975, è composto da cinque episodi. In una pagina di riflessione tra il quarto e il quinto episodio l’autore attribuisce alla vecchiaia e alla stanchezza il mancato compimento dell’opera. In realtà era convinto della sua impubblicabilità, che attribuiva al linguaggio parlato dai personaggi, più che ai fatti narrati. Di fatto la relazione omosessuale intorno a cui si svolge la vicenda del protagonista (a quell’epoca un vero e proprio tabù per la società e la cultura italiana) non avrebbe certo facilitato la sua accoglienza. Esempio unico nella produzione di Saba, secondo il critico Mario Lavagetto rappresenta il completamento del processo di riappropriazione del suo io profondo iniziato dal poeta con l’esperienza della terapia psicoanalitica. I riferimenti autobiografici Le caratteristiche e le vicende del protagonista presentano infatti evidenti riferimenti autobiografici: Ernesto, proprio come Umberto, ha 16 anni a Trieste nel 1898, vive con la madre e una vecchia zia e non ha mai conosciuto suo padre; anche la figura materna, severa e poco affettuosa, e altri elementi (l’abbandono degli studi, il lavoro presso una ditta commerciale e la passione per il violino) corrispondono alla biografia del poeta. L’autobiografismo dell’opera non deve però essere inteso in senso stretto: le esperienze di iniziazione sessuale di Ernesto non corrispondono necessariamente a fatti accaduti, ma possono rappresentare la rielaborazione, attraverso la dimensione narrativa, delle curiosità ed emozioni adolescenziali provate dall’autore. Un romanzo di formazione Gli episodi delineano le tappe del processo di formazione del protagonista: il primo è incentrato su un’esperienza di iniziazione omosessuale con un collega di lavoro, un operaio di ventotto anni, vissuta da Ernesto per curiosità, quasi senza sensi di colpa. Quando viene meno la novità, per poter troncare la relazione, si fa licenziare. Nel giorno del suo primo taglio della barba, simbolo della fine dell’infanzia, forse per verificare le proprie inclinazioni, il ragazzo decide di incontrarsi con una prostituta: la donna non più giovane, consapevole della sua inesperienza, assume un atteggiamento protettivo per rassicurarlo. La confessione alla madre di queste esperienze e il suo perdono concludono la storia dell’iniziazione sessuale di Ernesto. Nell’ultimo episodio, durante un concerto di musica classica il ragazzo conosce Ilio, un violinista di qualche anno più giovane: attratto dalla sua bellezza e bravura, cerca di diventarne amico. Il personaggio di Ernesto evoca le figure di adolescente ricorrenti nel Canzoniere: pur nella sua problematicità interiore, è accomunato a questi dalla vitalità che si manifesta in lui nei tentativi di scoprire la sessualità, ma anche di stabilire una relazione affettiva con un coetaneo, di provare a vivere nonostante le insicurezze e la visione pessimistica trasmessagli dalla madre. Il linguaggio Il racconto è svolto in italiano nelle parti narrative, mentre i dialoghi sono nel dialetto locale («un po’ ammorbidito», scrive l’autore, e trascritto con un’ortografia italianizzata per renderlo comprensibile): l’uso della parlata triestina è funzionale a far vivere i personaggi nella dimensione quotidiana immediata, non però con l’obiettivo di rappresentare l’ambiente ma per rendere nella sua pienezza l’educazione sentimentale del protagonista attraverso l’autenticità della lingua materna. Saba prosatore 3 199


Umberto Saba

T13

La confessione di Ernesto

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 3

Ernesto U. Saba, Ernesto in Tutte le prose, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001

In Ernesto, il protagonista dell’omonimo romanzo composto da Saba nella vecchiaia, lo scrittore proietta indubbiamente tratti della sua personalità e nelle vicende narrate elementi del suo vissuto, seppur trasfigurati: in questo senso il romanzo costituisce un prezioso documento. Il passo riportato fa riferimento a un momento chiave dell’opera: Ernesto si è fatto licenziare dal suo datore di lavoro, il signor Wilder, per evitare di incontrare nuovamente il facchino con cui aveva una relazione. Quando la madre gli annuncia di aver ottenuto la sua riassunzione, decide di confessarle quanto è accaduto.

«Ti ricordi» incominciò «quell’uomo1 che venne un giorno a casa nostra, quando ero ammalato? Voleva i conti che avevo dimenticati nella tasca della giacca: lo aveva mandato il signor Wilder…» «Quel facchino» disse la signora Celestina «al quale hai voluto che offrissi un bic5 chiere di vino? Non mi è sembrata una cattiva persona. Ma non capisco…» «So che non puoi ancora capire; e forse… non capirai nemmeno dopo. Ma io devo parlare ugualmente. Ti ricordi» continuò, abbassando la voce2 «quello che mi disse una domenica lo zio Giovanni3, a tavola, prima di darmi il fiorino4? Fu quando scoppiò in città quel maledetto scandalo intorno a quel deputato5, di cui parlarono 10 tutti i giornali; poco tempo fa, insomma. “Ad un uomo” mi disse, “che abbia fatte di quelle cose, non resta più che spararsi un colpo di revolver.” Ebbene, mamma, mammina, io e quell’uomo abbiamo fatto di quelle cose6…» La signora Celestina ricordava esattamente, sebbene per altri motivi, quelle parole di suo fratello, alla fine di quel pranzo, nel quale era apparso, sulla mensa, un 15 magnifico branzino allesso7, un dono dell’invitato, per cui aveva perso la mattinata intera a sbattere, con cura particolare, un’abbondante salsa alla maionese. Ricordava anche che suo figlio era rimasto turbato “per eccesso” pensò sua madre, “di pudicizia”; tanto che ce l’aveva un po’ col fratello per aver intavolato quel discorso. “Lo avrà fatto” pensò “a scopo educativo”; ma col giovane Ernesto – che era, o a lei 20 sembrava essere, il ritratto dell’innocenza – non ce n’era proprio bisogno. Del resto, aveva solo un’idea vaga di “quelle cose” che considerava, come il dialetto, appannaggio esclusivo degli infimi strati della popolazione, del “basso ceto”. Non aveva mai creduto che un deputato, un distinto personaggio, se ne fosse macchiato: tutto doveva essere una macchinazione dei suoi nemici. Quel personaggio era un signore. 25 Ed anche Ernesto – malgrado la povertà e la dipendenza dalla zia – era un signore. «Non chiedermi nulla» implorò Ernesto quando, fra le dita delle mani di cui si faceva schermo alla faccia, lesse negli occhi di sua madre il turbamento causato dalla sua confessione. Temeva di averle inferto un colpo mortale, di vederla, da un momento all’altro strammazzare8 dalla sedia, morta per colpa sua… Se non fosse stato egli 1 quell’uomo: il facchino che lavora per il signor Wilder, con cui il protagonista ha avuto rapporti sessuali. 2 abbassando la voce: per Ernesto la confessione rappresenta un segreto da condividere solo con la madre; per questo, nonostante siano soli, abbassa la voce.

3 lo zio Giovanni: il fratello della madre e tutore di Ernesto. 4 fiorino: moneta in uso nell’impero austro-ungarico (di cui Trieste faceva allora parte), qui indica la mancia domenicale. 5 quel deputato: lo scandalo raccontato dallo zio riguardava un parlamentare accusato di rapporti omosessuali.

200 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

6 quelle cose: i rapporti omosessuali, innominabili perché ritenuti contro natura e perciò indicati con un’espressione generica. 7 allesso: bollito. 8 strammazzare: cadere pesantemente, priva di vita.


stesso così turbato, avrebbe visto che le sue parole avevano invece procurato a sua madre un senso quasi di sollievo. Dall’agitazione del figlio attendeva anche peggio… «Adesso capirai» continuò Ernesto «perché non posso più ritornare dal signor Wilder. Non devo più rivedere quell’uomo.» La signora Celestina non vedeva che il lato materiale del fatto, che gli9 sembrava, 35 più che altro, incomprensibile. Le sfuggiva del tutto il suo significato – la sua determinante – psicologica. Se no, avrebbe dovuto anche capire che il suo matrimonio sbagliato, la totale assenza di un padre, la sua severità eccessiva ci avevano la loro parte… Senza contare, bene inteso, l’età; e, più ancora, la “grazia10” particolare di Ernesto, che forse traeva le sue origini proprio da quelle assenze. 40 «Mascalzone» esclamò, prendendosela, ad ogni buon conto, con l’uomo «mascalzone, assassino, peggio di tuo11… Abusare così di un ragazzo! Saprò bene io trovarlo, e dirgli quattro parole. Al solo vedermi, deve buttarsi in mare dalla vergogna, e subito; se non vuole che io…12» «No» disse Ernesto «egli non ha tutta la colpa. Devi anzi, se non vuoi far andare in 45 dispiaceri anche me, giurarmi che non cercherai mai né di vederlo, né di parlargli. Perché tu non sai, mamma… Adesso è finito; ma se ritornassi dal signor Wilder… Diceva di volermi bene, e non mi lasciava più pace… Mi portava perfino le paste.» «E vorresti che io lo lasciassi impunito, dopo quello che ha fatto a mio figlio, a un ragazzo per bene…» 50 «Non sono più per bene, e non sono più un ragazzo» disse, suo malgrado, Ernesto «o almeno non lo sono più per la Legge. E, se io non avessi voluto…» «Non mi dirai, adesso, che sei stato tu a pregarlo?» «No, mamma, a pregarlo no; ma… ma gli sono andato incontro a più di mezza strada. Ecco perché non devi dir niente a nessuno, meno di tutti allo zio Giovanni.» 55 […] «Ma lui… quell’uomo» disse «sei sicuro che non parlerà?» «Sicuro» si sforzò di mentire Ernesto. «Ed anche tu non devi farlo capire a nessuno; nemmeno – guai! – a tuo cugino. Sai che ragazzo è quello!» (Temeva che suo figlio fosse, oltre che un po’ esagerato, 60 un po’ chiacchierino.) […] «Figlio, povero figlio mio!» s’intenerì, ad un tratto, la signora Celestina. E, seguendo questa volta l’impulso del cuore, mandò al diavolo (cioè al suo vero padre13) la morale e le sue prediche inette. Si piegò sul ragazzo, e lo baciò in fronte. 65 «Devi giurarmi» disse «che non lo farai più. Sono cose brutte, indecenti» (Ernesto pensò involontariamente alla “forma esterna” dei suoi componimenti scolastici, che gli aveva procurato l’inimicizia di un professore al Ginnasio), «indegne di un bel ragazzo come te. Solo i “muloni14” le fanno, quelli che vendono limoni agli angoli delle strade, in Rena vecchia, non il mio Pimpo.» (Nei suoi rari momenti d’espan70 sione, la signora Celestina dava a suo figlio il nome che questi aveva dato al merlo.) 30

9 gli: le. 10 grazia: l’aspetto esteriore di Ernesto che aveva attirato il compagno di lavoro. 11 peggio di tuo: la sospensione nel paragone allude al padre di Ernesto, abitualmente indicato con l’epiteto di «assassino» (➜ T8 ).

12 che io…: la sospensione della frase in-

14 muloni: termine del dialetto triestino

dicata dai puntini sottintende la volontà della madre di denunciare l’uomo. 13 (cioè al suo vero padre): l’inciso tra parentesi rivela la visione critica del poeta nei confronti della morale tradizionale.

per indicare ragazzi di condizione sociale e di educazione inferiore.

Saba prosatore 3 201


Dopo il bacio della madre, e sentendo avvicinarsi il perdono, Ernesto si sentiva rinascere. Era uno dei pochi baci che avesse ricevuti da lei. La povera donna ci teneva molto ad essere – e più ad apparire – una “madre spartana”15. «No pensarghe più, fio mio16» disse, passando all’improvviso, e senza accorgersene, al 80 dialetto: cosa anche questa che le accadeva di raro «quel che te sé nato sé assai bruto, ma no gà, se nissun vien a saverlo, tanta importanza. No ti sé, grazie a Dio, una putela17.» «No son una putela» protestò Ernesto «son anche sta una volta de una dona18.» E scoppiò in singhiozzi, come quando – fanciullo di dieci anni – aveva letto, la prima volta, il Cuore di Edmondo de Amicis. Singhiozzava proprio di gusto. 85 Questa seconda confessione – colla quale Ernesto credeva forse di lavarsi dalla prima – ferì più profondamente l’anima gelosa di sua madre. Come l’uomo – sebbene per motivi (almeno in parte) diversi – temeva per suo figlio le donne: quelle pubbliche per le malattie, le altre per altre ragioni. «Ed io» disse «che ti credevo ancora innocente come un colombino.» 90 Dal letto di ottone le rispose il gemito di un uomo pugnalato. «Adesso, basta» disse, alzandosi, la signora Celestina. «Quello che è stato è stato. Al signor Wilder parlerò io; gli dirò che sei ammalato; o, per non mettere la bocca in male19, troverò un’altra scusa. Tu non li vedrai più, né il signor Wilder, né… l’altro.» «Davvero, mamma, mi perdoni?» disse Ernesto. Desiderava un secondo bacio; ma non 95 osava chiederlo. «Ti ho già perdonato» disse la signora Celestina. «Alzati adesso, e va a fare quattro passi. Non lasciarti prendere dalla malinconia.» Ernesto si mise a sedere sul letto. Negli occhi color nocciola – lavati dal pianto – splendeva come una luce di bontà infantile. 100 […] «Mamma» disse, con uno strano accento nella voce e quella luce d’infanzia che, col ritorno del sereno e la certezza di poter andare quella sera al concerto, splendeva sempre più nei suoi occhi, «posso farti una domanda?» (Ernesto aveva la mania delle domande; ed anche quella di chiedere, prima di farle, il 105 permesso. Erano i suoi famosi: «Posso?».) «Che domanda?» «Se vuoi, mammina, puoi anche non rispondermi… Posso?» «Parla» disse, inquieta, la signora Celestina. «Mio padre» chiese timidamente Ernesto «era proprio tanto cattivo?» 110 «Non parlarmi di lui» rispose, come toccata nel vivo d’una ferita, sua madre. «Un assassino; ecco quello che era, quello che è stato per me. Ti basti, figlio mio, saper questo.» «Ma… ma cosa ti ha fatto?» La signora Celestina non rispose direttamente alla domanda, forse indiscreta, di suo figlio. «Quando eri piccolo» disse «ed abitavi dalla tua balia, io passavo le notti in questa stan115 za, sola e molto ammalata. Vedi lì quell’orologio?» (ed accennò ad un vecchio orologio con le colonnine d’alabastro, che segnava ancora il tempo nella camera dal tetto spiovente, oggi di Ernesto). «Lo ascoltavo tutte le notti – dovevo ascoltarlo – e mi pareva che il suo tic tac mi ripetesse continuamente: Sola – sola – sempre sola. Ecco come, per 15 spartana: severa, come era l’educazione nell’antica Sparta. 16 No… mio: non pensarci più, figlio mio. 17 quel che te… putela: quello che è avvenuto è stato molto brutto, ma non ha,

se nessuno viene a saperlo, tanta importanza. Non sei, grazie a Dio, una ragazza. 18 No son… dona: non sono una ragazza, sono anche stato una volta con una donna.

202 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba

19 per non… male: per non dire una cosa che porta male.


colpa di tuo padre, passavo, ammalata grave, le notti. E nessuno che m’assistesse. Tua zia allora… Tu eri in campagna, dalla tua amata balia…» «Oh, mamma!» esclamò Ernesto. E si slanciò per abbracciarla. Ma sua madre lo allontanò, quasi lo respinse. Un bacio poteva ancora andare; ma due… «Adesso vestiti» gli disse; «se no, arrivi tardi al concerto. E, quando ritorni a casa, non suonare il campanello: batti adagio; io ti aspetterò alzata e ti sentirò lo stesso. Fa bene 125 attenzione a non svegliare tua zia. È la sola cosa che ti prego.» 120

Analisi del testo Una confessione difficile e un perdono inaspettato. L’episodio è incentrato sulla rivelazione da parte dell’adolescente Ernesto alla madre delle sue recenti esperienze sessuali, una confessione motivata dal desiderio di sottrarsi alla vicinanza dell’uomo che gli ha fatto conoscere la sessualità. La reazione della madre è meno severa e scandalizzata di quanto il figlio si aspettasse: per consentirgli di sottrarsi all’uomo, a cui in fondo attribuisce la maggiore responsabilità dell’accaduto, condivide la decisione di Ernesto di non tornare più a lavorare dal signor Wilder. La donna non pronuncia di fatto quella condanna nei suoi confronti che il figlio si attendeva: le basta essere sicura che, al di là di quanto è accaduto, Ernesto non abbia reali inclinazioni omosessuali e soprattutto che la cosa rimanga nascosta (l’omosessualità era condannata dalla Chiesa come grave peccato e dalla società come deprecabile depravazione). La confessione di Ernesto, fatta soprattutto per raggiungere l’obiettivo di non rivedere più l’uomo, rappresenta però per il ragazzo anche un modo per liberarsi di un peso, per condividere con la madre un segreto “terribile”: grazie ad essa, tra madre e figlio si stabilisce una inusuale intimità, si crea un momento di tenerezza e di comprensione che culmina nel bacio che la donna concede al figlio (fatto per lei raro) come segno del suo perdono. L’intimità è sancita anche dall’uso del dialetto: mentre infatti la maggior parte del colloquio si svolge in italiano, alla fine è il dialetto che veicola l’intesa emotiva.

Il commento della voce narrante L’episodio è l’occasione per Saba per mettere in scena le vicende familiari che fanno del protagonista una sorta di alter ego: emergono infatti, oltre all’assenza della figura paterna, il dolore della madre per l’abbandono subito, la sua rancorosa solitudine, che la allontana da una relazione affettiva con il figlio. È significativo allora che la voce esterna del narratore, che si inserisce tra quelle dei due personaggi, introduca una possibile interpretazione psicoanalitica dell’esperienza omosessuale vissuta da Ernesto, collegandola proprio all’assenza del padre e alla severità della madre.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi sinteticamente il contenuto del passo (max 8 righe). COMPRENSIONE 2. Il colloquio di Ernesto con la madre è incentrato sulla rivelazione della sua esperienza omosessuale. Qual è l’obiettivo del giovane? ANALISI 3. Sulla base delle parole dei personaggi e degli interventi del narratore, delinea i ritratti psicologici di Ernesto e della madre Celestina. Quali le somiglianze e le differenze con il poeta e sua madre? TECNICA NARRATIVA 4. Evidenzia nel testo tutti gli interventi del narratore e indica la loro funzione. STILE 5. Nel colloquio la madre affianca all’uso prevalente dell’italiano anche il dialetto triestino, per lei raro nel rapporto con il figlio. Come lo spieghi?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 6. Nel testo appare evidente che sia il figlio sia la madre hanno l’uno dell’altra una conoscenza parziale: Ernesto si immagina una reazione che non avviene e nulla sa del vissuto materno; la donna pensa che il figlio sia innocente ma scopre che ha già avuto l’iniziazione sessuale. Come lo

Saba prosatore 3 203


spieghi? Ti sembra che la situazione evocata sia tipica solo dello specifico rapporto tra madre e figlio evocato da Saba o di quell’epoca storica, oppure che sia comune nel rapporto genitori-figli? EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 3

7. L’intento della madre di Ernesto è quello di nascondere al mondo le reali inclinazioni sessuali del figlio. Per quale motivo? Come era vista l’omosessualità all’epoca in cui visse Saba? Prendendo spunto dall’Obiettivo 10 dell’Agenda 2030, spiega cosa è cambiato oggi nei confronti della diversità sessuale, religiosa, sociale ecc. e chiarisci cosa si intende con il termine inclusività.

Opere in prosa

Scorciatoie e Raccontini

Ernesto

PUBBLICAZIONE

1946

GENERE

aforismi tra riflessione e narrazione

TEMI TRATTATI

• storia • cultura contemporanea • indagine della realtà oltre le apparenze

STILE

sobrio e distaccato e, a tratti, ironico

PUBBLICAZIONE

iniziato nel 1953 e pubblicato postumo nel 1975

GENERE

romanzo di formazione incompiuto

CONTENUTO

storia dell’adolescente Ernesto, alter ego di Saba, e della sua iniziazione sessuale

STILE

in italiano le parti narrative, in dialetto triestino i dialoghi

Fissare i concetti Umberto Saba Ritratto d’autore 1. Per quale motivo si può affermare che Saba visse all’insegna di una “serena disperazione”? 2. Quali furono le esperienze dell’infanzia che segnarono profondamente la vita del poeta? 3. Perché il poeta assunse lo pseudonimo Saba? 4. In che modo l’incontro con la psicoanalisi influì sulla produzione letteraria di Saba? 5. Quale rapporto ebbe Saba con la moglie Lina? 6. Come si colloca Saba nel panorama letterario della sua epoca? 7. Cosa si intende con l’espressione “poetica dell’onestà”? Il Canzoniere 8. Quando uscì la prima edizione del Canzoniere? 9. Perché Saba attribuì il titolo Canzoniere alla raccolta? 10. Quale struttura presenta l’opera? Quali temi vengono trattati? Saba prosatore 11. In quale saggio Saba scrisse un’autodifesa della sua produzione poetica? Perché il saggio è scritto in terza persona? 12. Qual è il contenuto di Scorciatoie e raccontini? Perché l’opera può essere definita le “operette morali” di Saba? 13. Perché Ernesto può essere definito come un “romanzo di formazione”?

204 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura Umberto Saba cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Il trauma dell’infanzia Umberto Poli (Saba è uno pseudonimo) nasce a Trieste nel 1883: la madre, ebrea, viene lasciata dal padre, cattolico, prima della nascita del bambino (Umberto conoscerà il padre solo all’età di vent’anni). Le difficoltà economiche costringono la donna ad affidare Umberto a una balia slovena, Gioseffa Schobar, da lui chiamata Peppa. Umberto resta con lei fino all’età di circa quattro anni, quando la madre lo riprende con sé. Il poeta riconosce nel dolore causato dalla separazione dall’amata balia il trauma infantile che assume una funzione essenziale nella strutturazione della propria personalità: da tale dolore di separazione deriva la scissione interiore che contraddistingue anche la sua opera. Inoltre, le due figure femminili della sua infanzia, la balia gioiosa e vitale e la madre severa e anaffettiva, rappresentano per Saba anche due modalità opposte di interpretare la vita: l’adesione positiva all’esistenza e un amaro pessimismo. Un adolescente malinconico dalle “sterminate letture” Saba vive un’adolescenza malinconica e solitaria, attraversa con difficoltà l’esperienza scolastica che lascia per lavorare in un’azienda di commercio. Si dedica allo studio del violino e a un’intensa attività di lettura. In questa sua formazione da autodidatta predilige i classici: Petrarca, Tasso, Parini, Foscolo, Manzoni, i sonetti di Shakespeare e, in particolare, Leopardi. Tra i contemporanei conosce Pascoli e apprezza il D’Annunzio della raccolta poetica Poema paradisiaco. In Toscana, il servizio militare, il matrimonio L’amore per la poesia porta Saba a recarsi a Pisa con altri artisti triestini, per approfondire la conoscenza della lingua e della cultura italiana. Nella città toscana si manifesta per la prima volta la malattia psichica che, nella forma di forti crisi d’angoscia, lo tormenterà per tutta la vita. Successivamente soggiorna a Firenze (1905-1906) animato dall’ammirazione entusiastica per D’Annunzio. Conosce in questo periodo alcuni esponenti della cultura fiorentina del primo Novecento (Prezzolini e Papini) che fonderanno la rivista «La Voce»: ma rispetto a essi Saba si percepisce “diverso”, sente di non essere compreso. È positiva per lui l’esperienza del servizio militare prestato a Salerno tra il 1907 e il 1908: in quel contesto si sente accettato e partecipe di una realtà viva. Nel 1909 sposa a Trieste Carolina Wölfler, la Lina ritratta nel Canzoniere; l’anno seguente nasce la figlia, Linuccia. La moglie e la figlia rappresentano nella vita del poeta i principali riferimenti affettivi.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 205


Da Umberto Poli a Umberto Saba Nel 1911 pubblica la sua prima raccolta di Poesie e utilizza lo pseudonimo Umberto Saba, che anni dopo sarà registrato anche all’anagrafe come suo cognome ufficiale. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, interventista come molti altri intellettuali, è richiamato sotto le armi, ma per i suoi problemi di salute viene assegnato alle retrovie. A guerra finita torna a Trieste dove, grazie all’eredità della zia Regina, compera una libreria antiquaria, che fino all’inizio della Seconda guerra mondiale gli assicura sufficiente tranquillità economica ed è per lui rifugio e luogo di incontri con scrittori, poeti e artisti. La psicoanalisi Nel 1929, in seguito a un nuovo attacco dei disturbi nervosi Saba ricorre alla terapia psicoanalitica, invenzione di Sigmund Freud che ha in Trieste un allievo e un discepolo di valore nella persona di Edoardo Weiss. La cura viene interrotta per il trasferimento del medico a Roma. Al di là di questo fatto episodico, la terapia non riesce pienamente perché il poeta trasforma in poesia (in particolare nei componimenti della raccolta Il piccolo Berto) i ricordi d’infanzia che progressivamente l’analisi fa emergere cui, secondo il poeta, dovrebbe seguire una risoluzione dei conflitti dell’adulto. Le leggi razziali e la Seconda guerra mondiale La promulgazione delle leggi razziali nel 1938 induce Saba, marito di un’ebrea e figlio di una donna ebrea, ad abbandonare l’Italia per rifugiarsi a Parigi, ma non vi rimane. Torna a Trieste e chiede alla Direzione per la demografia e la razza di essere considerato a tutti gli effetti italiano, non ebreo, uscendo dalla comunità ebraica; tuttavia, rifiuta di battezzarsi. Dopo l’8 settembre 1943 Saba si rifugia a Firenze, dove vive nascosto con la famiglia. Dal felice periodo romano al ritorno a Trieste Nel 1945 si trasferisce a Roma prima della fine della guerra e lì vive un breve periodo positivo nella città liberata dagli alleati, circondato da intellettuali e artisti antifascisti. Nell’autunno pubblica presso Einaudi la nuova edizione del Canzoniere e scrive i testi in prosa di Scorciatoie e raccontini. Nel 1946 trova accoglienza e lavoro a Milano. Dopo il 1948, la mutata situazione politica italiana lascia il poeta profondamente deluso e a ciò viene ad aggiungersi una sempre maggiore sofferenza psichica. Torna a Trieste dal 1951, ma si sente isolato e incompreso. La moglie muore nel 1956, il poeta si spegne un anno dopo.

206 Il Novecento (Prima parte) Umberto Saba


2 Il Canzoniere

Il titolo e il carattere unitario dell’opera Il titolo dell’opera rimanda in modo immediato al celeberrimo Canzoniere di Petrarca: una scelta che suggerisce il legame dell’opera di Saba con la grande tradizione della poesia italiana. Nel Canzoniere si possono rintracciare ricorrenze tematiche che accomunano le diverse sezioni conferendo all’opera un carattere unitario. La ricorrenza dei temi riguarda anche i personaggi, alcuni definiti nella loro identità (la madre, la balia, la moglie, alcune donne amate), altri presenti come figuresimbolo (giovani, adolescenti in cui il poeta riconosce sé stesso o ai quali attribuire le sue emozioni o i suoi pensieri). I temi Saba stesso individua il carattere dominante del Canzoniere nell’autobiografismo: il poeta “racconta” la sua vita e i suoi stati d’animo, attraverso “episodi” che hanno assunto per lui un significato emblematico. I traumi vissuti nell’infanzia, costitutivi della sua storia e della sua personalità anche prima della consapevolezza data dalla terapia psicoanalitica, sono il punto di partenza per indagare il rapporto problematico con sé stesso e con la realtà, l’esperienza esistenziale dell’amore (il tema prevalente è il rapporto complesso con la moglie) e il senso di estraneità ed esclusione nei confronti del mondo e degli altri uomini. Al pessimismo esistenziale del poeta, centrato sull’analisi del suo mondo interiore, si contrappone l’amore per la vita e per l’umanità e una percezione della natura colta nella sua dimensione di quotidianità. Trieste, città natale di Saba, è onnipresente non solo nella produzione in versi ma anche nella prosa, negli scritti critici, nell’epistolario: per il poeta rappresenta tutta la realtà, la sua idea stessa di umanità è correlata allo spazio urbano triestino. Lo stile Il linguaggio poetico scelto da Saba è quello della tradizione letteraria italiana, che si traduce nella fedeltà a una versificazione regolare, alle misure canoniche e al valore della rima. Dalla tradizione Saba deriva anche le forme strofiche di molte sue poesie: il sonetto, la canzonetta, il madrigale. Il suo è un apparente tradizionalismo: la tradizione è funzionale a una poesia profondamente nuova. Saba associa diversi registri lessicali per conferire alla dimensione quotidiana delle sue poesie una forma universale. Questo obiettivo è raggiunto anche grazie a una costruzione complessa e ricercata, in cui l’apparente semplicità del linguaggio è sostenuta da una sintassi elaborata.

3 Saba prosatore

Scorciatoie e raccontini Il programma di “scandaglio del profondo” dell’opera poetica di Saba caratterizza anche i testi in prosa. La prima è Scorciatoie e raccontini, composto di due parti: le Scorciatoie, composte nel 1945 (e pubblicate nel 1946) sono raggruppate in cinque serie per un totale di 165 testi (brevi o brevissimi), che imitano gli aforismi; i Raccontini, nati dalle Scorciatoie, sono 13 testi più estesi, quasi dei racconti brevi. I temi trattati sono: la storia (in particolare quella del Novecento), la cultura e il

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 207


costume, la letteratura. In questi scritti è evidente il forte impegno civile di Saba. La riflessione è affidata a brevi testi in cui il poeta condensa le sue considerazioni critiche sui comportamenti umani (l’autore, alludendo all’opera di Leopardi, ha definito lo scritto le sue “operette morali”). Nella sua ricerca sincera della verità, al di là di ogni forma di idealismo, Saba è guidato da una visione dell’uomo ispirata alla filosofia di Nietzsche (per il rifiuto delle convenzioni false, la critica ai pregiudizi, l’esigenza di chiarezza) e alle tesi di Freud sulla concezione dell’inconscio (declinate nei temi ricorrenti della centralità dell’infanzia, del sogno, dei sensi di colpa, del complesso rapporto con la figura femminile). Ernesto L’altra opera in prosa è il romanzo Ernesto, scritto nel 1953 ma pubblicato postumo solo nel 1975. È composto da cinque episodi che scandiscono le tappe del processo di formazione sessuale del protagonista e rappresenta il completamento del processo di riappropriazione del suo io profondo iniziato dal poeta con l’esperienza della terapia psicoanalitica (secondo il critico Mario Lavagetto). In questo senso, le caratteristiche e le vicende del protagonista, pur presentando evidenti riferimenti autobiografici, non devono essere intese secondo un autobiografismo strettamente inteso: i fatti narrati possono anche essere il frutto di una rielaborazione, in vista della narrazione, del vissuto adolescenziale dell’autore. Il racconto è scritto in italiano nelle parti narrative, e nel dialetto locale nei dialoghi: l’autenticità della lingua materna (la parlata triestina) è volta a rendere tangibile l’educazione sentimentale del protagonista nella sua dimensione quotidiana e immediata.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina e scrivi un dialogo in cui Saba e D’Annunzio si confrontano sul valore della parola poetica.

Scrittura

2. Commenta le parole di Giacomo Debenedetti: «Saba è un uomo degno di biografia; la sua vita ha accenti indimenticabili ed è certamente la più autentica prefazione ai suoi scritti».

Competenza digitale

3. Realizza una mappa interattiva che metta in relazione gli avvenimenti storici, che fanno da sfondo alla vita e all’opera di Saba, con la sua produzione letteraria.

Esposizione orale

4. In un intervento orale di massimo 5 minuti, tratteggia il ruolo che riveste l’infanzia nella formazione personale e poetica di Saba.

208 Il Novecento (Prima parte) Umberto Saba


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Umberto Saba U. Saba, Tutte le poesie, a c. di A. Stara, intr. di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988

Finale Canzoniere, Preludio e canzonette L’umana vita è oscura e dolorosa, e non è ferma1 in lei nessuna cosa. Solo il passo del Tempo è sempre uguale. Amor fa un anno come un giorno breve2; 5 il tedio accoglier numerosi gli anni può in una sola giornata; ma il passo suo non sosta, né muta3. Era Chiaretta4 una fanciulla, ed ora è giovanetta, sarà donna domani. E si riceve, 10 queste cose pensando, un colpo in mezzo del cuore5. Appena, a non pensarle, l’arte mi giova; fare in me di molte e sparse cose una sola e bella6. E d’ogni male mi guarisce un bel verso. Oh quante volte 15 – e questa ancora – per lui che nessuno più sa, né intende, sopra l’onte e i danni, sono partito da Malinconia e giunto a Beatitudine per via7. 1 ferma: stabile, immutabile. 2 Amor… breve: l’amore è capace di rendere un anno di vita della durata di un giorno. 3 il tedio… muta: la noia accoglie numerosi anni in un giorno (cioè sono resi uguali dalla monotonia), ma lo scorrere del tempo non si arresta e non cambia. 4 Chiaretta: Fu l’ultimo amore del poeta. A questa figura femminile Saba dedica alcune poesie nella stessa raccolta Preludio e canzo-

Comprensione e analisi

Interpretazione

nette e in quella precedente (L’amorosa spina). 5 E si riceve… cuore: pensando a queste cose, si riceve un dolore terribile nel cuore. 6 Appena… bella: a malapena la poesia mi aiuta a non pensare a quelle verità dolorose (cioè lo scorrere del tempo, il venir meno della giovinezza e dell’amore); mi aiuta (a non pensarci) a riunire molti e diversi temi in un un’unica opera bella.

7 Oh quante… per via: quante volte, e anche questa, per merito di un bel verso (lui: il pronome è riferito a bel verso al v. 14), che attualmente nessuno più conosce né capisce, superando le offese (onte) e le sofferenze (danni), sono partito dalla malinconia e sono arrivato alla beatitudine. Malinconia, con l’iniziale maiuscola, evoca il sonetto di Dante Un dì si venne a me Malinconia.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Presenta il contenuto della poesia e descrivine sinteticamente la struttura metrica. 2. Di che cosa è simbolo Chiaretta? Che cosa rappresenta? 3. Quale concezione della poesia rivela l’espressione «un bel verso» (v. 14)? 4. Perché, secondo te, Malinconia e Beatitudine sono scritte con la lettera maiuscola? 5. In quale punto del testo avviene il passaggio dal discorso universale a quello personale? Facendo riferimento alla produzione poetica di Saba e/o di altri autori o forme d’arte a te noti, elabora una tua riflessione sulle modalità con le quali la letteratura e/o altre arti affrontano il tema dell’infelicità della condizione umana e dell’assenza di certezze che la caratterizza.

Verso l’esame di Stato 209


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Polato, L’aureo anello. Saggi sull’opera poetica di Umberto Saba, Franco Angeli, Milano 1994

La descrizione di alcuni aspetti della lingua poetica di Saba, quali i fenomeni di inversione sintattica, l’assunzione di modi e forme della lingua quotidiana, il carattere e la funzione di alcune similitudini e metafore, certe tendenze del lessico (dell’aggettivazione in particolare), ci sembra possa costituire un avvio 5 e un contributo ad un esame che di tale lingua voglia indicare la molteplicità dei piani e delle direzioni. […] La lingua di Saba presenta una costante tendenza all’inversione sintattica. Si tratta di uno dei fenomeni più vistosi dell’aulicità di tale lingua, e l’analisi di esso ci sembra assai opportuna anche per chiarire il significato, almeno entro 10 certi limiti, di una etichetta – aulicità – spesso attribuita od usata in modo generico come se esistesse dietro la parola una realtà scontata e definita. Tale analisi offre inoltre la possibilità di individuare altri fenomeni interessanti quali quello dell’antitesi e di rilevare alcune tipiche soluzioni del rapporto metricasintassi. Molto spesso, e in modo particolare nelle prime raccolte, l’inversione 15 avviene per ragioni di rima. Si tratta certamente di un’operazione esterna, ma va notato subito che la fedeltà alla rima finisce col promuovere la tendenza ad una disposizione sintattica particolare, destinata ad organizzarsi come una costante, anche indipendentemente dalla necessità della rima stessa. […] Saba parte da stilemi e costrutti tradizionali, ma giunge ad una sua originalità 20 sintattica perché sa scoprire uno spazio, una possibilità di manovra, una libertà, entro le maglie di un organismo che gli si presentava rigido, inerte per la sua ovvietà. È uno sperimentare difficile, che comporta pericolose conseguenze, difficile quanto quello che il poeta attua nel registro prosastico: nell’uno e nell’altro caso si dirige verso il comune, il logoro, l’ovvio (nella dimensione 25 così del letterario come del quotidiano) e lo riscatta spesso in una lingua poetica che possiamo dire nuova. È un procedimento molto lontano da quello che caratterizza invece, in direzione del valore evocativo della parola, l’opera di rinnovamento dei più significativi poeti del primo Novecento. Non condizionata da una forte mediazione dannunziana o pascoliana, come quella di numerosi 30 altri poeti del suo tempo (in modo particolare i crepuscolari), la lingua di Saba si riallaccia direttamente alla prima stagione della tradizione ottocentesca (Foscolo, Leopardi, Manzoni), di cui il poeta riprende le forme più trite, con quella stessa insistenza che rivela, per esempio, nell’utilizzazione di aggettivi e sostantivi tanto comuni (Amai trite parole) da essere ritenuti impoetici per 35 l’abuso secolare che ne ha fatto il linguaggio quotidiano.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è secondo Lorenzo Polato una delle costanti più vistose della lingua poetica di Saba? 2. Con quali argomenti il critico illustra la difficoltà e la distanza della scelta sabiana rispetto alle tendenze innovative dei poeti suoi contemporanei? 3. Quale aspetto della poetica enunciata nella poesia Amai è evidenziato nel passo? In che cosa consistono le «forme più trite»? Quali fonti sono indicate?

210 Il Novecento (Prima parte) 3 Umberto Saba


Interpretazione

La poesia di Saba è un esempio di sperimentazione e innovazione che si muove dentro i confini della tradizione in una stagione di rivolgimenti radicali e ribellione contro i canoni e i modelli consolidati. Può una “rivoluzione silenziosa” essere efficace e significativa quanto, e magari anche più, delle sperimentazioni più aggressive? Discuti la questione. Scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da E. Meloni, “Quasi una moralità”: prospettive etiche nella poesia di Umberto Saba, in Il discorso morale nella letteratura italiana: tipologie e funzioni, a cura di V. Guarna F. Lucioli P.G. Riga, Roma 2011.

Saba sembrerebbe anticipare, per taluni aspetti, la moderna etica animalista […] si fa portatore di una nuova sensibilità nel rapportarsi con il mondo animale, che presenta analogie con quella di Lorenz1: come lui è mosso nell’approccio con gli animali da un “affetto caldo e genuino” e, al contrario di molti autori 5 di opere letterarie, si avvicina ad essi rappresentandoli nella loro realtà, senza falsificazioni […]. Probabilmente anche grazie a una consolidata consuetudine all’auto-osservazione psicanalitica, Saba ha maturato una certa dimestichezza nel porsi in modo tendenzialmente oggettivo nei confronti degli animali […] e riconosce loro delle emozioni non dissimili da quelle che provano gli umani. 10 […] Considerando dunque che Saba mostra di relazionarsi con il mondo animale, non solo attraverso le corde dell’affettività ma anche con l’occhio attento di uno studioso (non si dimentichi che era un estimatore di Darwin), si potrebbe affermare – con le dovute cautele – sul modello della celebre formula che 15 Contini2 ha dedicato al poeta (psicoanalitico prima della psicoanalisi), che Saba fu etologico prima dell’etologia. 1 Konrad Lorenz: scienziato austriaco (1903-1989) è considerato il fondatore della moderna etologia scientifica, scienza che studia il comportamento animale.

2 Gianfranco Contini (19121990): critico letterario e filologo. Definì, appunto, Umberto Saba «psicoanalitico prima della psicoanalisi» poiché il poeta, prima di

sottoporsi alla terapia psicoanalitica, riconobbe alla poesia la stessa funzione di conoscenza che Freud attribuiva alla psicoanalisi.

Nel saggio di Enrico Meloni, Umberto Saba viene presentato come un anticipatore della moderna etica animalista. A partire dal testo proposto e traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, rifletti sull’importanza della tutela del mondo animale nella società contemporanea.

Verso l’esame di Stato 211


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

4 Eugenio Montale LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Montale visto da Alberto Moravia... Alla penna di Alberto Moravia – in un’intervista, A cena con Montale, comparsa nel 1968 sul «Corriere della Sera» – dobbiamo questo icastico ritratto di Montale.

Sto a tavola con Eugenio Montale e pur pensando che non sarà facile intervistarlo (come si fa a intervistare un poeta?) lo guardo e mi accorgo che non è affatto cambiato da quando, molto tempo fa, ci siamo conosciuti. Se lo vedessi ora per la prima volta mi colpirebbero gli stessi caratteri che mi hanno colpito allora: la curiosa forma della capigliatura che gli cresce rigogliosa e ostinata, fin nel mezzo della fronte; l’ingenuità dolce e un po’ fissa dei suoi occhi celesti; l’imperiosità del naso ricurvo; il broncio che gli gonfia la bocca e che ancora oggi potrebbe sfogarsi sia in un solfeggio meditabondo sia nelle breve stupefatta e canzonatoria risata nella quale si esprime il suo particolarissimo, quasi straziante senso del comico.

...e da sé medesimo La poesia è «una delle tante positività della vita» Giudicando la funzione della poesia, il ruolo del poeta e il suo rapporto con la vita, Montale mostra sempre uno sguardo disincantato e ironico sul mondo e su se stesso, distanziandosi da ogni enfatica rappresentazione dell’arte come attività superiore, come si può notare in questo stralcio dalla sua Intervista immaginaria (1946).

La poesia, del resto, è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altr’uomo che veramente esista, che sia qualcuno. Mi procurai anch’io, a suo tempo, un’infarinatura di psicoanalisi, ma pur senza ricorrere a quei lumi pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso, un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea [torre d’avorio: immagine metaforica dell’isolamento]: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che s’incarica di sfuggirgli.

212


Eugenio Montale, uno dei massimi poeti del Novecento, ha dato voce nella sua poesia al disagio dell’uomo contemporaneo e si è fatto interprete di cinquant’anni di storia italiana: dal fascismo, che rifiutò, al dramma della Seconda guerra mondiale, alla società di massa, ritratta con impietoso sarcasmo nelle ultime raccolte. Montale concepisce la poesia come strumento conoscitivo, attraverso cui esprimere i grandi interrogativi dell’uomo, secondo la lezione di Leopardi, di cui è considerato l’erede novecentesco. Con il poeta di Recanati Montale condivide il rifiuto di illusioni consolatrici e una visione radicalmente pessimistica della condizione umana. Da qui, una poesia scabra, anti-eloquente, volta a rappresentare attraverso oggetti-emblema il male di vivere, ma anche le miracolose “rivelazioni” che talora infrangono la negatività del reale, mediate da figure femminili salvifiche.

1 Ritratto d'autore 2 Ossi di seppia Le occasioni: il tempo, memoria, il mito della 3 ladonna-messaggera e altro 4 Lae labufera prosa nuovo Montale: 5 Un da Satura alle ultime raccolte

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1 Ritratto d’autore 1 Una vita ispirata alla «decenza quotidiana» Gli anni liguri (1896-1927) VIDEOLEZIONE

L’infanzia, l’adolescenza, la famiglia d’origine Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 da un’agiata famiglia di commercianti. Vive l’infanzia e l’adolescenza nella città natale trascorrendo le vacanze estive nella villa che la famiglia possedeva a Monterosso, nelle aspre e fascinose Cinque Terre, il cui paesaggio e le cui località compariranno spesso nella prima raccolta, Ossi di seppia, e anche nelle Occasioni. Ultimo di sei figli, a causa della salute assai delicata non segue i faticosi studi classici, ma frequenta le scuole tecniche e consegue nel 1915 il diploma di ragioniere. Ma – anche guidato dalla sorella Marianna, studentessa di lettere, con cui ha particolare affinità intellettuale – inizia assai precocemente a nutrire interessi letterari e filosofici e a costruirsi una vasta cultura personale. Ne reca testimonianza il Quaderno genovese, steso tra il febbraio e l’agosto del 1917 (➜ PER APPROFONDIRE Lo Zibaldone giovanile di Montale: il Quaderno genovese, PAG. 216). La personalità e la formazione di Montale I tratti fondamentali della personalità di Montale sono delineati già nella prima giovinezza: l’inquietudine interiore, la penetrante lucidità di giudizio, l’amore per la misura e la compostezza (quella che Montale chiamerà «la decenza quotidiana»), il gusto del paradosso, la particolare attitudine all’ironia e autoironia sono componenti che rimarranno fondamentali nella

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1922

Marcia su Roma. Affermazione del fascismo. 1925

1914-1918

Mussolini sopprime lo stato liberale.

La Prima guerra mondiale.

1900

1910

1933

1920

Hitler diventa cancelliere in Germania

1939

Inizia la Seconda guerra mondiale.

1930

1943

Armistizio con gli Alleati.

1940 1938

È esonerato dall’incarico perché rifiuta di iscriversi al Partito fascista. 1939

1927-29

Si trasferisce a Firenze per lavoro, ha contatti con gli ambienti intellettuali e diventa direttore del Gabinetto Vieusseux.

214 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

Escono Le occasioni. Inizia a vivere con Drusilla Tanzi (Mosca) che sposerà nel 1962. 1944-45

Aderisce al Partito d’Azione e fa parte del Comitato per la cultura nominato dal CLN.


sua personalità. Il ragazzo Montale affronta vaste letture con forte investimento personale e matura ben presto un atteggiamento pessimistico. La sorella Marianna, in una lettera del settembre 1915 a un’amica, così ne parla: «[…] ha letto, senza riguardo, intellettualmente, un po’ di Nietzsche, un po’ di Schopenhauer, un po’ tutti i filosofi più scettici e pessimisti.». Nascita di un poeta e di un intellettuale Appena ventenne, inizia a scrivere poesie. Nel 1916 compone una delle sue più celebri liriche: Meriggiare pallido e assorto (poi inclusa in Ossi di seppia). Nel frattempo segue le lezioni di canto dell’ex baritono Ernesto Sivori, rievocato con affettuosa ironia in una sorridente immagine-ricordo inclusa nella raccolta di prose Farfalla di Dinard (In chiave di “fa”). Nel 1917 partecipa come volontario alla guerra e milita come ufficiale di fanteria sul confine del Trentino. Per il giovane Eugenio gli anni del primo dopoguerra sono fitti di importanti contatti con artisti e intellettuali (come il poeta ligure Camillo Sbarbaro e il critico Giacomo Debenedetti), attraverso i quali si va progressivamente definendo la sua fisionomia di intellettuale. Nel 1924 Montale conosce Piero Gobetti, figura chiave della cultura antifascista e fondatore della rivista «Il Baretti». Su di lui Montale scrive molti anni dopo (1951) un commosso giudizio: «Era l’uomo d’oggi, il compagno di strada, eguale a noi, migliore di noi, l’uomo che fu cercato invano da una generazione perduta, l’uomo che noi ci ostiniamo a cercare nella parte più profonda di noi stessi». È Gobetti a pubblicare, nel 1925, la prima e più celebre raccolta poetica di Montale: Ossi di seppia. Nello stesso anno Montale sottoscrive il Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso da Croce. Sempre al 1925 risale l’importante articolo Omaggio a Italo Svevo, pubblicato sulla rivista milanese «L’esame». Montale, che aveva conosciuto l’opera di Svevo grazie allo scrittore triestino Bobi Bazlen, ha il grande merito di aver Ritratto di Eugenio Montale fatto conoscere Svevo al pubblico italiano. di Guido Peyron (1932, coll. privata).

1968

Scoppia la rivolta studentesca. 1969

Rapimento e uccisione di Aldo Moro.

1970

1980

Attentato terroristico a piazza Fontana.

1950

1960

1978

1990 1981

1948

Assunto come redattore al «Corriere della Sera», si trasferisce a Milano. 1956

Pubblica La bufera e altro.

1964

Muore la moglie Drusilla Tanzi.

1971

1980

Pubblica Satura.

1975

1973

Riceve il premio Nobel.

Pubblica Diario del ’71 e del ’72. 1977

Esce presso Einaudi l’edizione critica di tutta la sua opera (L’opera in versi).

Muore a Milano.

Esce il Quaderno di quattro anni.

Ritratto d’autore

1 215


Gli anni fiorentini (1927-1948) La maturazione intellettuale, umana e poetica Nel 1927 Montale si trasferisce a Firenze, dopo aver ottenuto un impiego alla casa editrice Bemporad. Nel 1929 viene nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, prestigioso centro culturale fiorentino. Negli anni fiorentini Montale acquista piena consapevolezza del proprio valore di poeta; collabora alla rivista «Solaria» e, nonostante il carattere schivo, diventa un elemento polarizzante nel gruppo di scrittori che si riconosce nello spirito della rivista. Frequenta assiduamente il notissimo caffè fiorentino “Giubbe Rosse”, punto di riferimento per le nuove generazioni di poeti, narratori e critici. Vi si ritrovavano, tra gli altri, il giovanissimo Elio Vittorini, l’anglista Mario Praz, gli esponenti dell’Ermetismo fiorentino (Luzi, Parronchi, Bigongiari), il grande filologo Gianfranco Contini, il dantista americano Charles S. Singleton. Con un’allieva di Singleton, la giovane italianista Irma Brandeis, un’americana di famiglia ebraica, Montale avvia una intensa relazione affettiva e intellettuale, rilevante per la sua stessa poesia: Irma ispira infatti la figura di Clizia, centrale nelle Occasioni, la raccolta edita nel 1939, e poi nella Bufera (1956). Irma-Clizia è la più importante delle donne montaliane, figure femminili che lo scrittore ligure trasforma nella sua opera in miti poetici. Dal 1939, Montale si lega stabilmente a Drusilla Tanzi (soprannominata Mosca per la sua forte miopia), che per lui lascia il marito, il critico d’arte Matteo Marangoni, e che Montale sposerà nel 1960. A Mosca dedicherà, dopo la sua morte (1963), la sezione Xenia (Xenia I e II) della raccolta poetica Satura.

PER APPROFONDIRE

La “bufera” della guerra e gli anni della Resistenza Nel 1938, in seguito al rifiuto di aderire al partito fascista, Montale perde il posto di direttore del Vieusseux e intensifica, anche per vivere, il lavoro di traduttore: traduce soprattutto poeti inglesi e americani. A ridosso della catastrofe bellica, nel 1939, esce la seconda grande raccolta montaliana, Le occasioni, che include liriche scritte soprattutto nel decennio fiorentino. La terza raccolta (edita nel 1956), le cui liriche appartengono agli anni del secondo conflitto mondiale, sarà intitolata La bufera e altro: la parola-simbolo bufera rappresenta una trasparente allegoria della cieca irrazionalità distruttiva che percorre la vita e la storia e che culmina nella catastrofe della guerra. Nel travagliato periodo della Seconda guerra mondiale Montale vive appartato. Nel 1944 ospita nella sua casa genovese gli amici Umberto Saba e Carlo Levi che, in quanto ebrei, rischiavano la deportazione nei lager nazisti. Nel 1945 si impegna attivamente in politica: aderisce alla Resistenza, entrando a far parte del Comitato per la cultura e l’arte, nominato dal CLN toscano; si iscrive al Partito d’Azione e partecipa alla fondazione del quindicinale «Il Mondo».

Lo Zibaldone giovanile di Montale: il Quaderno genovese Il Quaderno, pubblicato postumo nel 1982, è una sorta di Zibaldone, steso tra il febbraio e l’agosto del 1917, che raccoglie notazioni autobiografiche, osservazioni su libri letti, riflessioni di poetica, abbozzi di liriche, considerazioni sulla condizione umana. Rappresenta dunque, come si può intuire, il primo profilo umano e letterario di Montale. Il giovane manifesta già allora quel culto della dimensione interiore dell’esistenza e la complementare diffidenza (se non addirittura il disprezzo) verso la dimensione “pubblica” che lo accompagneranno per tutta la vita: nel Quaderno si ritrovano le radici di quell’at-

216 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

teggiamento antiretorico che indurrà Montale a prendere le distanze dai poeti laureati Carducci, Pascoli e soprattutto D’Annunzio. Dai frammenti autobiografici del Quaderno emerge l’ampiezza delle letture compiute dal futuro poeta: testi filosofici ed estetici, saggi critici, opere letterarie (da Dante a Leopardi, da Shakespeare, Keats, Shelley ai simbolisti francesi, ai romanzieri russi e francesi dell’Ottocento). Ma il Quaderno documenta anche la fragilità psicologica del giovane, ferocemente autocritico e ossessionato dal pensiero del fallimento esistenziale.


Gli anni milanesi (1948-1981) Montale giornalista: il «secondo mestiere» Nel 1948 Montale inizia la collaborazione (che si protrarrà per molti anni) con «Il Corriere della Sera». Si trasferisce quindi a Milano, dove vivrà fino alla morte, svolgendo l’attività di giornalista (prevalentemente letterario) su questa testata e anche di critico musicale sul «Corriere d’Informazione». Inizia per il giornale una serie di viaggi in Europa e nel mondo: nel 1950 è inviato a New York, a Strasburgo, a Parigi, in Normandia. Sul lavoro di giornalista, con cui di fatto viveva, Montale formula giudizi poco benevoli e a volte sprezzanti. Tuttavia sa anche coglierne le potenzialità positive, soprattutto come esercizio di scrittura: questo spiega forse perché egli stesso definì questa attività il «secondo mestiere». La celebrità internazionale Negli anni Sessanta il poeta riceve molti riconoscimenti a livello nazionale e internazionale: nel 1961 gli viene conferita la laurea honoris causa dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Milano; nel 1965 pronuncia a Parigi, alla sede dell’Unesco, un importante discorso critico su Dante in occasione del settimo centenario della nascita del poeta fiorentino; l’anno successivo esce la raccolta di scritti in prosa Auto da fé. Nel 1967 Montale è nominato senatore a vita; parteciperà con impegno ai lavori parlamentari. Nel 1975 la sua fama internazionale è consacrata dal premio Nobel per la letteratura. In occasione della cerimonia di consegna all’Accademia di Stoccolma, l’anziano poeta pronuncia il discorso È ancora possibile la poesia?, nel quale manifesta ancora una volta un lucido pessimismo, ribadendo però al tempo stesso il valore insostituibile dell’attività poetica.

PER APPROFONDIRE

L’“ultimo” Montale Il poeta vive l’ultimo decennio della sua vita chiuso in un atteggiamento di sdegnoso distacco dal mondo della civiltà di massa, della tecnologia, giudicato senza mezzi termini come trionfo della sottocultura. Non per questo rinuncia all’attività poetica, che anzi si intensifica: escono Satura (1971), Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977); ma certamente si è di fronte a un nuovo modo di far poesia, caratterizzato da un tono prosastico e contrappuntato di ironia. L’anziano poeta ha la soddisfazione di veder pubblicata l’edizione critica della sua intera produzione poetica: la mattina del 6 dicembre 1980 il grande filologo e amico Gianfranco Contini, con la collaboratrice Rosanna Bettarini e l’editore Giulio Einaudi, si recano nella casa del poeta in via Bigli per donargli la prima copia de L’opera in versi. Meno di un anno dopo, il 12 settembre 1981, Montale si spegne. I solenni funerali di Stato sono celebrati a Milano in Duomo alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Montale è sepolto accanto alla moglie nel piccolo cimitero di San Felice a Ema, presso Firenze.

L’annuncio del premio Nobel in casa Montale Nella sua biografia di Montale, Giulio Nascimbeni ricorda il momento in cui il poeta, nel su appartamento di via Bigli a Milano, dove viveva assistito dalla fedele governante Gina Tiossi (“la Gina”), ricevette la notizia dell’assegnazione del premio Nobel. Anche in quell’occasione particolarmente solenne il vecchio poeta conferma quei tratti di autoironia e di misura (la «decenza quotidiana» a cui già si è accennato) che ne contraddistinsero l’intera esistenza: «Sarà strano o sbagliato o assurdo. Eppure mai come in quegli attimi ho compreso il senso della “decenza

quotidiana” di Montale. L’accostamento tra la solennità del Nobel e quell’interno mitemente borghese, esercitava una suggestione indicibile [...]. Lui accese una sigaretta con una mano che tremava più del solito. La Gina lo baciò sui capelli e gli chiese: “Andiamo a tavola? Il riso è quasi cotto”. Ci fu il tempo per un breve commento, un paradosso che doveva servire a sciogliere l’atmosfera troppo emozionata: “Immagino che dovrei dire qualcosa di importante. Invece mi è venuto un dubbio: nella vita, di solito, trionfano gli imbecilli. Lo sono diventato anch’io?”».

Ritratto d’autore

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Eugenio Montale

Montale ritrae sé stesso

D1

Farfalla di Dinard E. Montale, Farfalla di Dinard, in E. Montale, Prose narrative, a c. di N. Scaffai, Mondadori, Milano 2008

Una pagina rara in cui Montale racconta un momento della propria giovinezza fingendo che la narrazione appartenga a uno sconosciuto.

Racconto d’uno sconosciuto Mio padre viveva fra casa e scagno1 (dove lo aiutavano i miei fratelli, questi indipendenti davvero); io fra la casa e i portici delle strade nuove, sempre disoccupato. Si intende che cercavo un lavoro degno di me e delle mie attitudini; ma quali si 5 fossero tali attitudini, né io né mio padre avevamo mai potuto appurare. Nelle nostre vecchie famiglie c’era di regola un figlio, per lo più l’ultimo, il beniamino, al quale non si richiedeva alcuna ragionevole attività. Figlio minore di padre vedovo, alquanto malescente2 fin dall’infanzia e ricco di imprecisabili vocazioni extra-commerciali3, io ero giunto a quindici e poi aventi e poi a venticinqu’anni senza aver preso una 10 decisione. Venne la guerra che non mi strappò di casa4, e vennero il dopoguerra, la crisi e la grande rivoluzione che doveva salvarci dagli orrori del bolscevismo”5. Gli affari andavano male; non si potevano ottenere permessi d’importazione se non si dimenticavano pingui buste6 negli uffici dei commendatori, a Roma. [...] Un sabato mattina ci fu un alterco piuttosto vivace fra me e mio padre. Alcuni scamiciati7 mi 15 avevano preso a ceffoni per la strada, perché non avevo alzato la mano a salutare un cencio nero8, e il mio vecchio sosteneva che avevano fatto benissimo e che la mia imprudenza non meritava di meglio.

1 scagno: negozio, magazzino. 2 malescente: malaticcio. 3 imprecisabili... extra-commerciali: i suoi interessi letterari. 4 la guerra... casa: dopo la conclusione della Prima guerra mondiale, a cui Mon-

tale aveva partecipato, egli era tornato a vivere con la famiglia. 5 la grande rivoluzione… bolscevismo: il fascismo, partito visto come controrivoluzionario contro il pericolo comunista.

6 pingui buste: buste piene di denaro. 7 Alcuni scamiciati: un gruppo di squadristi. 8 non avevo... nero: non avevo fatto il saluto romano al loro gagliardetto.

Concetti chiave Un autoritratto

In questo passo Montale, simulando che il racconto sia di uno sconosciuto, descrive parte della sua giovinezza. I fratelli aiutavano il padre nella attività di famiglia, lui si definisce disoccupato, in cerca di un lavoro che corrispondesse alle sue attitudini, anche se queste sue attitudini non erano chiare né a lui né al padre. La vita del poeta si svolge in un momento storico importantissimo, a cavallo tra le due guerre, attraversando l’esperienza del fascismo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual era la regola presente nelle vecchie famiglie? 2. Quale fatto scatena lo scontro tra il poeta e il padre? ANALISI 3. Come Montale definisce il gruppo di squadristi? Ti sembra di cogliere ostilità nella definizione? LESSICO 4. Spiega l’origine e il significato del termine “beniamino”.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina di raccontare un episodio della tua vita attraverso le parole di uno sconosciuto.

218 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


2 La visione del mondo Un pessimismo combattivo La visione del mondo di Montale si definisce nei suoi tratti essenziali già tra il 1916 e il 1925, quando il giovane poeta compone le liriche poi confluite in Ossi di seppia. Le esperienze umane e culturali successive approfondiscono gli assunti iniziali, ma non ne alterano i caratteri di fondo. Il tratto distintivo dell’opera montaliana, considerata nel suo insieme, è un atteggiamento radicalmente pessimistico: in sintonia con la cultura più avanzata del Novecento, Montale sembra infatti negare la possibilità stessa di una visione organica e coerente dell’io, della storia e del mondo. A questo amaro scetticismo conoscitivo non si accompagna, però, un atteggiamento rinunciatario, bensì la costante volontà di raggiungere un’interpretazione globale della realtà, la tensione verso una possibile rivelazione del senso ultimo del reale, come è evidente già nella lirica I limoni, composta nel 1921 (➜ T1 ). Ma soprattutto l’opera di Montale non è mai disgiunta da un intento etico, dalla volontà di dare un senso altamente morale all’operato del poeta. La disarmonia e l’esistenzialismo istintivo degli anni giovanili La riflessione – in senso lato filosofica – di Montale si origina da un acuto disagio esistenziale, da un senso profondo di disarmonia, avvertito fin dall’inizio e che non ha a che fare, come lo scrittore stesso dichiara, con specifiche circostanze storiche (➜ D2 ). Questa condizione originaria di scissione (che in seguito l’autore definirà con un’efficace metafora «sentirsi vivere in una campana di vetro»), non viene però passivamente accettata, ma, come accade in Leopardi (autore molto caro a Montale), il senso di un’irrimediabile inadeguatezza si capovolge in elemento di forza, in quanto offre un punto di vista privilegiato, di lucido e disincantato distacco nei confronti della condizione umana. Nella prima giovinezza la situazione psicologica da cui muove la riflessione montaliana lo avvicina istintivamente, come si è visto, ai grandi filosofi pessimisti, da Schopenhauer a Nietzsche. Il senso di impotenza e di fallimento esistenziale trova quindi un modello filosofico di riferimento nell’esistenzialismo, che Montale conosce in modo non diretto, ma attraverso le teorie del russo Lev Šestov (1866-1938) migrato in Francia in seguito alla Rivoluzione del ’17. L’influenza della filosofia antipositivistica francese: il contingentismo di Boutroux e l’immagine del tempo di Bergson Nella prima fase della sua attività poetica, quando compone Ossi di seppia, Montale è attratto e influenzato, come egli stesso afferma, dalla critica al determinismo positivistico condotta, tra fine Ottocento e primo Novecento, da Henry Bergson (1859-1941) e dal filosofo spiritualista Emile Boutroux (1845-1921). Quest’ultimo (in particolare ne La contingenza delle leggi di natura, 1874), attacca il determinismo nel suo stesso nucleo, sostenendo che persino l’ordine biologico non può essere compreso facendo esclusivo riferimento alle leggi chimico-fisiche. A maggior ragione l’ambito psichico e spirituale sfugge alla necessità del principio di causa-effetto e implica la libertà, l’imprevedibilità. L’eco di queste tesi è evidente in molte liriche degli Ossi e delle Occasioni, in cui ricorre il motivo del «miracolo», dello «scarto» che inaspettatamente infrange il cieco determinismo dei fenomeni. A partire soprattutto dalle ultime liriche delle due raccolte indicate si coglie anche l’influenza del pensiero di Henry Bergson (1859-1941): anche attraverso la mediazione della Recherche di Marcel Proust (1871-1922), Montale fa propri i temi bergsoniani della memoria e del tempo come «durata interiore».

Ritratto d’autore

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La centralità del motivo della «salvezza» e del «varco» Nella poesia di Montale (in particolare nelle prime tre raccolte) è centrale la ricerca di quella che egli definisce «salvezza» e che equivale allo stabilirsi di una provvisoria armonia tra io e mondo e alla realizzazione inaspettata di una pienezza esistenziale che consenta di sfuggire al “carcere” della vita. Questo tema cardine si affaccia già in Ossi di seppia fin dalla poesia d’esordio, In limine: «Se procedi t’imbatti / tu forse nel fantasma che ti salva»; e in Crisalide: «E il flutto che si scopre oltre le sbarre / come ci parla a volte di salvezza». Solo pochi esseri fortunati (da cui il poeta tendenzialmente si esclude) però possono accedere a questa dimensione di pienezza esistenziale, in istanti privilegiati, forse più per il gioco del caso o per l’apparizione di qualche benevola divinità in incognito, che per una consapevole scelta: da qui l’immagine ricorrente del «varco», che ha implicazioni conoscitive e insieme salvifiche a livello esistenziale. Nell’immaginario poetico montaliano il «varco», corrisponde al raro, imprevedibile manifestarsi – entro la normalità quotidiana caratterizzata dall’incomunicabilità, da un tempo frenetico e alienato – di una dimensione autentica in cui gli uomini possano realizzarsi compiutamente e riconoscersi l’un l’altro, magari anche solo per un attimo.

Eugenio Montale e la poetessa Maria Luisa Spaziani.

Il ruolo salvifico delle figure femminili Le figure femminili occupano un ruolo determinante nella vita e nell’ispirazione poetica di Montale. Da Esterina ad Arletta, Gerti, Dora Markus, da Clizia (Irma Brandeis) a Mosca (Drusilla Tanzi) e Volpe (Maria Luisa Spaziani), le figure femminili oltrepassano la dimensione del privato per assurgere a emblemi e vengono associate dal poeta a potenzialità conoscitive e salvifiche negate all’uomo. In particolare la figura di Clizia nella Bufera si identifica col senso stesso della poesia, concepita come baluardo di civiltà contro la barbarie della storia. La religiosità montaliana Ma nella Bufera Clizia assume anche, e soprattutto, significati religiosi: nella già citata Intervista immaginaria del 1946, parlando della figura femminile che compare nella Bufera, Montale la definisce quale «continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano». Montale non attribuisce certo alla religione rassicuranti certezze, ma considera l’esperienza religiosa soprattutto come istanza etica che comporta un impegno responsabile dell’individuo nel mondo, come si può dedurre dalla lirica Iride della Bufera: l’opera di Dio nella storia non è autosufficiente, ma implica l’attiva collaborazione dell’uomo. Questo assunto sollecita con forza il nostro “dover essere”, in altri termini il nostro impegno: «perché l’opera Sua (che nella tua / si trasforma) dev’esser continuata» [il corsivo è nel testo].

220 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


3 Le scelte ideologiche e politiche Razionalità e rigore morale Il profilo intellettuale di Montale è contraddistinto da un costante atteggiamento razionale e da quel senso della «decenza quotidiana» (rigore etico, senso della misura) che lo immunizza dal ribellismo ostentato e velleitario delle avanguardie e in seguito dalla retorica patriottarda del fascismo. Certo la stessa famiglia borghese dello scrittore, improntata a una severa etica del lavoro, contribuì a formarlo in tal senso, ma determinante fu anche la frequentazione degli intellettuali che si raccoglievano attorno alle riviste «Il Baretti» e «Rivoluzione liberale» dirette da Piero Gobetti, oltre che la lezione di Benedetto Croce, di cui Montale elogia la chiarezza intellettuale e il rigore morale, pur non condividendone il programmatico ottimismo storicistico.

online

Video e Audio Collage di interviste in cui Montale ripercorre la propria vita, intervallando il racconto con la lettura di alcuni Ossi di seppia.

Autonomia di giudizio e antidogmatismo Le posizioni assunte da Montale nel tempo in campo politico sono ispirate a principi riconducibili al liberalismo e all’intransigente difesa della dignità individuale: da qui la decisione di sottoscrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti (1925) e la posizione fermamente antifascista che egli mantenne per tutto il Ventennio (e che gli costò tra l’altro la perdita della direzione della biblioteca Vieusseux); dallo stesso atteggiamento etico-politico deriva la sua adesione convinta alla Resistenza e poi al Partito d’Azione. Negli anni roventi del dopoguerra, caratterizzati da decisi schieramenti ideologici e dal richiamo all’“impegno” dell’intellettuale, Montale non rinuncia all’aristocratico liberalismo in cui si riconosce, al culto dell’autonomia etica e intellettuale (➜ D2 ): prende così le distanze (suscitando aspre critiche soprattutto negli ambienti della sinistra) da qualsiasi forma di dogmatismo e di asservimento ideologico. Da qui la sarcastica polemica verso «il chierico rosso o nero» di Piccolo testamento collocato a conclusione della Bufera, testo che può essere letto come vero e proprio manifesto delle posizioni ideologiche di Montale (➜ T15 ). La visione apocalittica della società neocapitalistica La severa propensione al giudizio critico, la visione aristocratica della cultura (ma di un’aristocrazia esclusivamente spirituale), spiegano infine il giudizio duro e sarcastico di Montale sulla cultura di massa e sulla società neocapitalistica degli anni Sessanta e Settanta presente nelle ultime raccolte e in alcune prose di Auto da fé. Senza dubbio la tensione etica propria della poesia montaliana sopravvive anche in quest’ultima fase, ma il pessimismo dello scrittore si fa sempre più radicale e investe le possibilità stesse per il poeta di comunicare con il mondo di fronte al dilagare, proprio della società consumistica, di masse culturalmente condizionate e intellettualmente deprivate.

Eugenio Montale al caffè fiorentino “Giubbe Rosse”. Con lui, tra gli altri, i poeti Alessandro Parronchi e Mario Luzi (da sinistra, seduti, il terzo e il quarto).

Ritratto d’autore

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Eugenio Montale

D2 E. Montale, Sulla poesia, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1997

La percezione di una totale disarmonia Confessioni di scrittori (Interviste con sé stessi) Nel 1951 la Rai propose a scrittori allora famosi di autointervistarsi. Quella che segue è una domanda dello stesso Montale con l’illuminante risposta, che è tra i suoi interventi più significativi per comprenderne la figura di intellettuale e di poeta, e proprio per questo viene frequentemente citata.

Vuol parlarci della sua esperienza umana in questi anni? Come un poeta ha veduto e vissuto gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l’umanità? Come pensa di aver reso attraverso la sua poesia questa acquisita esperienza? L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio1. Non sono stato indifferente a quanto è 5 accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri. Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall’artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, 10 in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni, c’è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi sarei provato 15 neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di 20 questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di un maladjustment2 psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche. Coloro per i quali l’arte è un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell’artista3 potranno obiettare: il male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; dovevate optare per l’una o per l’altra delle parti in conflitto. Mutando o mi25 gliorando la società si curano anche gli individui; nella società ideale non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a al suo posto; e l’artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l’attitudine a scoprire e a creare la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo4; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale 30 poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo. [...] 1 non scambiare... transitorio: l’essenziale è «la condizione umana», mentre il transitorio è il contesto storico-politico. 2 maladjustment: in inglese è l’incapacità di adattamento.

222 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

3 Coloro... dell’artista: Montale allude ai teorici marxisti, la cui visione dell’arte era dominante nel secondo dopoguerra. 4 io ho optato come uomo: Montale assunse una posizione antifascista e si mantenne rigorosamente coerente ad essa.


Concetti chiave Una presa di posizione netta, un grande modello di riferimento

In questo passo Montale prende posizione con chiarezza sul tema del compito del poeta e dell’oggetto della poesia. Per il poeta ligure la poesia non può occuparsi che della condizione dell’uomo. Gli eventi storici sono importanti per il poeta in quanto uomo che vive nel proprio tempo e deve operare delle scelte, ma sono comunque “fenomeni transitori”, mentre la poesia deve interrogarsi sull’“essenziale”. La posizione assunta dall’autore, che rivela una grande consapevolezza, è decisamente controcorrente se si pensa al periodo storico in cui queste parole vengono espresse: la terribile “bufera” della guerra è terminata da soli cinque anni. Agli scrittori, nel dopoguerra, si chiede uno schieramento ideologico-politico netto, e l’impegno (vera parola d’ordine nel dibattito culturale del dopoguerra) a contribuire con la loro opera alla diffusione di valori progressisti, così da portare alla nascita di una società nuova.

L’impegno etico dello scrittore

Montale (come evidenziato nel passo che proponiamo ➜ D3 OL) distingueva nettamente l’impegno etico dello scrittore dall’impegno politico. La fedeltà al primo, che comporta la riflessione sulla condizione e il destino dell’uomo, non solo è per lui indiscutibile, ma ritiene che non possa non riguardare ogni poeta degno di questo nome. Si tratta di una posizione che rimanda al grande modello di Leopardi e in particolare alle scelte che il poeta di Recanati compie in polemica con gli intellettuali del suo tempo, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, in cui si ritroverà sempre più isolato e incompreso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo e indicane il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2. Quale è, secondo il poeta, il vero tema centrale della sua poesia? 3. Quale concezione della poetica di Montale emerge da questa intervista? ANALISI 4. Spiega e commenta l’asserzione che chiude il brano: «ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo». 5. Nel testo si fa riferimento al fascismo: in che senso Montale distingue la sua posizione di uomo da quella di scrittore riguardo al fascismo? LESSICO 6. Alla luce del brano letto, spiega il significato delle seguenti parole: transitorio, essenziale, disarmonia.

Interpretare

SCRITTURA 7. Il testo è del 1951: in quale contesto socio-culturale si colloca e in che modo tale contesto influenza le osservazioni di Montale sul ruolo del poeta e sui contenuti della poesia? Vedi anche ➜ D3 OL.

online D3 Eugenio Montale Engagement politico vs engagement morale Queste le ragioni del mio lungo silenzio. Dialogo con Eugenio Montale

Ritratto d’autore

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4 L’idea montaliana della poesia Come nasce la poesia di Montale La concezione montaliana di poesia non parte da princìpi ben definiti per poi concretizzarsi nei testi poetici, ma al contrario le riflessioni montaliane nascono sempre a posteriori o accompagnano il farsi spontaneo della poesia. La poesia appare a Montale come frutto di un’imprevedibile e fortunosa concomitanza di fattori: è anch’essa – per usare un verso di una nota lirica montaliana (Crisalide) – un «fatto che non era necessario» e che Montale tende a minimizzare quasi, a cominciare dall’abitudine a scrivere i suoi versi su pezzi di carta qualsiasi, persino su biglietti del tram (➜ D2 OL). Il distacco dai poeti laureati: una visione antisublime di poesia Come risulta evidente dalle poesie manifesto I limoni e Non chiederci la parola, fin dall’inizio Montale prende le distanze dalle imponenti figure che dominavano la scena letteraria italiana tra Otto e Novecento e a cui allude la definizione, di sapore ironico, «poeti laureati» (cioè poeti incoronati dall’alloro, simbolo di gloria poetica): Carducci, Pascoli (con riferimento in particolare al Pascoli della poesia civile), D’Annunzio. Montale rifiuta l’immagine e il ruolo del poeta vate, interprete di una comunità e voce autorevole per essa, mentre si riconosce nella linea poetica, defilata e contrapposta alla poesia ufficiale, dei crepuscolari e dei vociani: in particolare è vicino a Camillo Sbarbaro, per la predilezione per l’aspro e riarso paesaggio ligure, specchio dell’aridità esistenziale. Non a caso Montale dedica a Sbarbaro due liriche di Ossi di seppia e un penetrante scritto critico, composto già nel 1920. Nell’articolo Stile e tradizione, comparso sulla rivista torinese «Il Baretti» nel 1925, lo stesso anno di Ossi di seppia, Montale enuncia con chiarezza il suo ideale modesto e concreto di vita e insieme di poesia, volutamente “antisublime”. Ma questo non esclude l’idea di un ruolo importante della poesia, che egli concepisce leopardianamente come ambito privilegiato dell’interrogarsi dell’uomo su sé stesso e sul senso dell’esistenza. La lezione della poesia francese Modelli per Montale sono anche i grandi lirici del simbolismo francese: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine (ma anche i minori come Laforgue e Corbière). Montale condivide il rifiuto dell’eloquenza enunciato da Verlaine nella celebre lirica Arte poetica (➜ VOL 3A), ma d’altra parte la sua concezione della poesia è lontana dall’idea del poeta “veggente” di Rimbaud, individuo eccezionale, capace di intuire il senso ultimo della realtà, come appare evidente sempre dalla lirica Non chiederci la parola (➜ T2 ). Il rifiuto delle avanguardie Proprio per il suo naturale senso della misura, dell’equilibrio intellettuale, Montale si tiene sempre lontano dagli estremismi rumorosi e dalle mitologie aggressive dei futuristi. Ma il poeta ligure è indotto a rifiutare le esperienze dell’avanguardia (e non solo di quella futurista) anche perché contrario al sovvertimento della tradizione: nell’articolo già nominato Stile e tradizione esprime l’amore per la lingua e la tradizione italiane, che devono essere riprese e rivitalizzate per creare un nuovo stile senza guardare necessariamente a esempi stranieri. L’interesse per la poesia angloamericana Negli anni Trenta, Montale si apre a una conoscenza più puntuale e approfondita della poesia europea, e in particolare di quella angloamericana (E. Pound, T.S. Eliot, G.M. Hopkins, R. Browning, E. Dickinson, W.H. Auden), sollecitato dalla collaborazione a riviste come «Solaria» e «Letteratura» che cercavano di contrastare il clima soffocante di autarchia culturale imposto dal

224 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


fascismo. In particolare esiste una indubbia sintonia (➜ PER APPROFONDIRE La nozione di correlativo oggettivo in Eliot e la poetica montaliana degli oggetti) tra i presupposti della lirica di Montale e quelli del poeta T.S. Eliot (1888-1965) che in quegli anni egli comincia a conoscere grazie all’amicizia con l’anglista Mario Praz (nel 1928 Praz aveva tradotto per la rivista «Criterion», diretta da Eliot, la poesia montaliana Arsenio degli Ossi). Montale vs Ungaretti Netta è la differenza della lirica montaliana rispetto alla coeva poesia dell’altro grande poeta del Novecento italiano: Giuseppe Ungaretti. Mentre quest’ultimo è fiducioso nella traducibilità di uno stato d’animo interiore in parola, Montale invece non crede nella virtù della parola pura, capace di attingere all’essenza del reale o di coglierne le “segrete corrispondenze”. Ai procedimenti analogici cari a Ungaretti e alla poesia simbolista, egli sostituisce l’oggettivazione delle sue emozioni e della sua condizione esistenziale e la conseguente ricerca di una parola netta, precisa, inequivocabile. Una nuova poetica: la svolta satirico-diaristica Dopo il trasferimento a Milano, Montale è assorbito dal lavoro di giornalista e per anni la sua poesia tace, ma il poeta non manca di osservare i mutamenti antropologici e sociali indotti negli anni Cinquanta-Sessanta dalle trasformazioni socio-economiche, che mutano radicalmente il volto dell’Italia. Ne nascerà una nuova poesia: le ultime raccolte sono infatti caratterizzate da una poetica del tutto diversa, addirittura opposta rispetto alla precedente produzione. I due aspetti più rilevanti sono la tendenza satirica, in rapporto a uno sguardo rivolto alla società e al costume più che ai grandi temi filosofici e l’emergere di una componente diaristico-autobiografica. La satira appare al poeta come la prospettiva più efficace per rendere il quadro di un mondo magmatico che ha perduto ogni centro e ogni senso, in cui i processi di mercificazione e serializzazione di uomini e cose, innescati dallo sviluppo neocapitalistico, coinvolgono inesorabilmente anche i prodotti culturali e quindi la stessa letteratura.

PER APPROFONDIRE

La funzione irrinunciabile della poesia Nei numerosi interventi di riflessione critica della maturità e della vecchiaia, Montale si rivela scettico sul destino della poesia, che non può essere considerata “un prodotto” che ubbidisca ai ritmi dell’industria e alla razionalità tecnologica.

La nozione di correlativo oggettivo in Eliot e la poetica montaliana degli oggetti In un articolo sull’Amleto di Shakespeare (1919) Eliot esprime con queste parole la sua teoria dell’objective correlative, il correlativo oggettivo: «L’unica via per dare espressione artistica all’emozione è di trovare un “correlativo oggettivo”: in altre parole, un insieme di oggetti, una situazione, una catena di avvenimenti che sarà la formula di quella particolare emozione; tale che, dati i fatti esterni, che debbono aver per termine l’esperienza dei sensi, l’emozione è immediatamente evocata». Già alcune liriche di Ossi di seppia (quindi prima che Montale entrasse in contatto con la poesia di Eliot) avevano evidenziato la sua propensione a trasfigurare elementi e oggetti del paesaggio ligure in emblemi che dessero evidenza concreta, “fisica”, alla percezione di una realtà frantumata e a una visione del mondo pessimistica, ben poco incline alla speranza.

Nelle due raccolte successive (Le occasioni e La bufera) Montale accentua la tendenza a una “poetica degli oggetti”, considerati correlati a una condizione esistenziale, a uno stato d’animo, non solo individuale ma anche universale. A proposito delle Occasioni, così scrive nell’Intervista immaginaria del 1946: «Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera oggetto, bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta. Un modo nuovo [...] di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi». Le radici di tale poetica vanno ricercate non tanto in Eliot, quanto nell’allegorismo dantesco e nella lezione stessa di Pascoli (depurata però di ogni intrusione scopertamente autobiografica e sentimentale).

Ritratto d’autore

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Tuttavia il discorso È ancora possibile la poesia?, tenuto in occasione del conferimento nel 1975 del premio Nobel, sembra schiudere qualche positivo spiraglio di ottimismo sulle possibilità che anche nel mondo moderno si riproponga una poesia autentica, che per Montale significa una poesia capace di fissare i caratteri storici culturali e linguistici di un’epoca, di esprimerne il senso complessivo. Così si esprime il poeta nell’incipit di tale discorso:

«Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo. Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persine disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non poteva amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all’attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.»

Il ruolo della poesia La poesia non può

La poesia può

• né dare messaggi eloquenti • né avere un ruolo rivelatore

• difendere i valori della civiltà • testimoniare il negativo della condizione umana

La poesia degli “oggetti” Uso di immagini-emblema per rappresentare

il male di vivere

online D4 Eugenio Montale Montale spiega come nasce la sua poesia Sulla poesia

226 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

i momenti “miracolosi”


Eugenio Montale

D5

«Semplicità» e «chiarezza» Stile e tradizione, Auto da fé

E. Montale, Auto da fé, Il Saggiatore, Milano 1966

I passi che seguono sono stralciati dall’articolo Stile e tradizione pubblicato il 15 gennaio 1925 sulla rivista di Gobetti «Il Baretti» e inserito poi da Montale nella raccolta di scritti saggistici Auto da fé (1966). Il poeta delinea il proprio ideale di poesia e di poeta, tratteggiando un modo artigianale, schivo, di svolgere l’attività intellettuale senza risparmiare critiche alla cultura del suo tempo. Ne risulta indirettamente un significativo autoritratto.

Un primo dovere potrebb’essere dunque nello sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di sembrar poveri1. In Italia non esiste, quasi, forse non esisterà mai, una letteratura civile, colta e popolare insieme; questa manca come e perché manca una società mediana, un abito, un giro di consuetudini non volgari [...] . Si dovrà 5 dunque lavorare in solitudine, e per pochi: di fronte non è che grossezza, e non solo quella borghese, ma quell’altra verniciata di cultura e di sufficienza. Il diffuso e appena larvato discredito, in cui è tenuto nel nostro Paese il letterato e l’intellettuale, non dev’essere l’ultima causa della smania che dimostrano gli scrittori esordienti di atteggiarsi a profondi filosofi, al di sopra della mischia. Ma in realtà non 10 c’è oggi miglior dimostrazione della propria cultura filosofica, che quella di dimenticarla, muovendosi nei fatti concreti. Non vorremmo accettare alcuna mitologia; ma alle nuove che si pretendesse d’imporci preferiremmo decisamente quelle del passato che hanno una giustificazione e una storia. Al furore relativistico e attualistico è ben sicuro che anteporremmo lo splendore cattolico2. Al desiderio di frontiere troppo vaste, 15 di cieli troppo distanti, porremmo innanzi il confine del nostro Paese, la lingua della nostra gente. Troppo lavoro rimane da compiere oggi, perché ci tentino questi salti nel buio; ed è [...] un ingrato travaglio senza luce e senza gioia: la creazione di un tono, di una lingua d’intesa che ci leghi alla folla per cui si lavora inascoltati, che ci conceda l’uso del sottinteso e dell’allusione; e la speranza di una collaborazione; la creazione 20 di un centro di risonanza che permetta alla poesia di tornare ancora a costituire il decoro e il vanto del nostro Paese, e non più una solitaria vergogna individuale. [...] Noi per conto nostro ci riterremmo fortunati se con l’opera nostra potessimo collaborare alla formazione di un ambiente cordiale, di allusione e di intesa, in cui potesse sorgere senza fraintendimenti un’espressione d’arte, anche modesta. Invece 25 si continua ad attendere il Messia, che non verrà. [...] Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianismo3 ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati 30 dall’immediata utilizzazione della cultura, dal polemismo e dalle diatribe, la salute4 è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume. [...] 1 a costo di sembrar poveri: il termine “poveri” ricorre anche nella lirica-manifesto I limoni (v. 20: «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza»), in contrapposizione ai «poeti laureati». 2 Non vorremmo... lo splendore cattolico:

Montale dichiara qui in modo indiretto la sua avversione ai nuovi miti futuristi, inneggianti alla modernità, a un nuovo paganesimo. Contrario ad aderire a qualsiasi mitologia, preferirebbe comunque la splendida tradizione del cattolicesimo.

3 furori giacobini... messianismo: Montale allude rispettivamente alla prima produzione di Carducci, a D’Annunzio e a Pascoli (con riferimento alla sua produzione “civile”). 4 la salute: la salvezza.

Ritratto d’autore

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Concetti chiave Una diagnosi severa

Nell’articolo, Montale compie una riflessione, densa di spunti polemici, sui caratteri dell’attività intellettuale e poetica in Italia. Nel passo è innanzitutto significativo il fatto che Montale non concepisca tale attività come campo privilegiato e specialistico, ma abbia chiaro l’obiettivo che la cultura debba contribuire almeno indirettamente al miglioramento della società. Ciò non significa schierarsi con coloro (ad esempio con la rumorosa avanguardia futurista) che vogliono sovvertire ogni regola e ogni tradizione. Per Montale il rinnovamento avviene operando in modo concreto, discreto e umile, senza atteggiarsi a «profondi filosofi», accettando di lavorare in solitudine e di rimanere «inascoltati». Dal testo si deduce il giudizio severo del giovane scrittore sulla cultura del suo tempo, dominata dal protagonismo, «dal polemismo e dalle diatribe». Una cultura che rispecchia una società volgare e diseguale («manca una società mediana, un abito, un giro di consuetudini non volgari»). La diagnosi acuta di Montale sulla società italiana ricorda quella formulata esattamente un secolo prima dal giovane Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani (1824).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Individua i nuclei concettuali del testo. 2. Spiega il motivo per cui Montale prende le distanze dai poeti «dell’ultima illustre triade». ANALISI 3. Percorre il testo un’evidente contrapposizione tra l’ottica culturale dell’autore e i costumi del tempo, la situazione storico-culturale. Schematizza gli elementi fondamentali su cui si regge la contrapposizione. LESSICO 4. Individua le espressioni con cui Montale designa il lavoro intellettuale e l’attività poetica in cui si riconosce.

Interpretare

SCRITTURA 5. Scrivi un testo espositivo di almeno 15 righe spiegando la posizione di Montale nei confronti della figura del poeta-vate.

Filippo De Pisis, Composizione: conchiglie e libro (Museo di Grenoble).

228 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


2 Ossi di seppia 1 Il titolo e la struttura VIDEOLEZIONE

La raccolta più nota di Montale Pubblicata per la prima volta da Piero Gobetti nel 1925, la raccolta Ossi di seppia è senza dubbio la più nota e popolare opera di Montale, tanto che non di rado è identificata con la poesia di Montale in assoluto. La cosa non stupisce, data la forza con cui il poeta, allora non ancora trentenne, dà voce al disagio dell’uomo contemporaneo e all’inettitudine, tipicamente novecentesca, al vivere. La raccolta include liriche scritte tra il 1920 e il 1924 (ad eccezione della celeberrima Meriggiare pallido e assorto, che risale al 1916) e assume una configurazione sostanzialmente definitiva nella seconda edizione del 1928, in cui sono incluse altre sei liriche composte dal 1926 al 1927. Un titolo allusivo e programmatico Il suggestivo titolo della raccolta, che letteralmente fa riferimento alla conchiglia interna, piatta e porosa, delle seppie che il mare deposita sulla riva, ha carattere simbolico: l’osso di seppia, per il suo carattere di elemento residuale, deprivato di vita, è infatti una trasparente allusione all’aridità interiore, alla perdita di energia vitale che affliggeva il poeta. Questa condizione interiore ed esistenziale non dà vita ad alcuna rappresentazione del reale idealizzante o consolatoria, ma consente solo la disincantata registrazione della durezza della condizione umana. Coerentemente, la poesia di Montale non potrà tradursi in “canto”, né usare uno stile sontuoso e magniloquente come quello dannunziano, ma sarà fatta di «qualche storta sillaba e secca come un ramo» (➜ T2 ). L’osso di seppia è forse anche immagine di ciò che rimane di essenziale dopo la consunzione del superfluo e può essere, in questo senso, simbolo della persistenza della poesia stessa («persistenza è solo l’estinzione» dirà il poeta anni dopo in Piccolo testamento ➜ T15 ). La struttura La raccolta si apre con un testo proemiale (In limine), è articolata in quattro sezioni (Movimenti; Ossi di seppia; Mediterraneo; Meriggi e ombre) e si conclude con la composizione Riviere. I testi non sono disposti secondo un ordine cronologico, come ha sottolineato l’autore stesso: la disposizione risponde quindi a un disegno ideale che vuole comunicarci un messaggio, ricostruire un itinerario. In questo senso è assai significativo il rapporto che collega dialetticamente la lirica d’apertura In limine con Riviere, posta volutamente da Montale a conclusione della raccolta, sebbene sia tra i testi più antichi: mentre In limine anticipa, condensandoli, i temi “negativi” dell’intera raccolta, Riviere sembra voler riequilibrare il negativo con l’auspicio di una “rifioritura”, con la speranza di un possibile ritorno all’armonia con la natura e con la vita. Centro dell’intera raccolta è la sezione Ossi di seppia, aperta dal testo programmatico Non chiederci la parola e costituita di 22 brevi testi in cui si condensano le tematichechiave dell’intera silloge.

Ossi di seppia 2 229


2 I nuclei tematici Il «male di vivere» In Ossi di seppia la visione del mondo del giovane poeta è già chiaramente delineata e si manifesta esplicitamente nelle asserzioni apodittiche che costellano numerose liriche. La lirica che, con evidenza quasi didattica, esprime la sua concezione della realtà, è la celebre Spesso il male di vivere ho incontrato (➜ T4 ). L’esistenza, la “vita” tanto enfaticamente celebrata da D’Annunzio (basti pensare alla Laus Vitae), si rivela un itinerario insensato: «mezzo, non fine» è definita perentoriamente in Giunge a volte repente (➜ T8 ). Secondo il giovane poeta, ogni uomo, a conclusione del proprio itinerario esistenziale, incontra un angoscioso fallimento: paradigmatica in questa prospettiva è la celebre chiusa di Meriggiare pallido e assorto (➜ T3 ): «E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». L’imperativo morale di conoscere e lo scacco conoscitivo Questa visione desolata della vita non esclude, anzi sollecita la tensione conoscitiva e la volontà di reagire, sebbene entrambe siano spesso condannate allo scacco, alla sconfitta. Il dovere di non distogliere lo sguardo dagli aspetti negativi dell’esistere, di respingere ogni forma di fuga vile di fronte alla dura realtà della condizione umana è espresso in modo netto in Non rifugiarti nell’ombra: «È ora di lasciare il canneto / stento che pare s’addorma / e di guardare le forme / della vita che si sgretola» (i corsivi sono nostri). La realtà fenomenica non concede la possibilità di una definitiva e rassicurante rivelazione conoscitiva, rimane sostanzialmente indecifrabile, ma sono oscure, non conoscibili, anche le dinamiche profonde dell’interiorità («l’animo nostro informe»). Di qui l’impossibilità di formulare un messaggio che riveli al lettore il senso della vita e dell’io, che sia capace di cogliere, come il poeta veggente della poesia simbolista francese, l’essenza della realtà. Espliciti in tal senso questi versi di Non chiederci la parola (➜ T2 ): «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe [...] / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti». Il tema del «varco» e del miracolo Eppure non manca la ricerca inesausta di un superamento di questa condizione, in senso sia conoscitivo (infrangere il mistero del reale, accedendo al senso ultimo delle cose) che esistenziale (ritrovare la pienezBozzetto per la copertina di Ossi di Seppia, 1939. edito da Einaudi.

230 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


za vitale, comunicare positivamente con gli altri, proiettarsi oltre il “carcere” della vita). Ma questa possibilità si configura negli Ossi di seppia come evento miracoloso, imprevedibile e improbabile: il «varco» si offre comunque agli altri più che al poeta, che è per eccellenza “l’escluso”: «forse solo chi vuole s’infinita, /e questo tu potrai, chissà, non io. / Penso che per i più non sia salvezza, / ma taluno sovverta ogni disegno, / passi il varco, qual volle si ritrovi» (Casa sul mare ➜ T7 OL). Al contempo il poeta, come già nell’amato Leopardi, è tra i pochi che hanno il doloroso privilegio della consapevolezza del nulla, negata alla maggior parte degli uomini (Forse un mattino andando ➜ T5 ). La presenza del “tu” e la struttura colloquiale A cominciare da Ossi di seppia, è presente nella lirica di Montale il riferimento a un destinatario, fortemente coinvolto nel messaggio del testo e che determina il particolare andamento colloquiale che caratterizza non poche liriche. Si tratta a volte di una figura reale, spesso femminile, ma è ricorrente anche un “tu” indeterminato, in cui il lettore può immedesimarsi. È a questo “tu” che è possibile la salvezza, preclusa all’io lirico, è al “tu” che il poeta rivolge il suo appello alla fuga dall’inesorabile destino: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!» (In limine). Dall’idea al simbolo-oggetto Forse memore della grande lezione dell’ultimo Leopardi, il giovane Montale aspira a una poesia in senso lato “filosofica”, fondata su una robusta trama logica. L’autore infatti elabora concetti, definisce atteggiamenti etici, rappresenta stati d’animo che si definiscono all’interno di nette antitesi categoriali: vita vs morte; bene vs male; conoscenza vs inconsapevolezza; libertà-casomiracolo vs necessità-prigionia; felicità-gioia vs tristezza-angoscia; impossibilità di comunicare vs pienezza comunicativa. Ma questo coerente sistema di idee non darebbe luogo a poesia se non si traducesse in immagini sensibili; nel già citato Quaderno genovese, un Montale giovanissimo asserisce: «Una stessa idea può, fusa in una data forma, trasformarsi in poesia; e può, con altra veste, rimanere semplicemente… un’idea. Dunque l’idea in sé non è mai poesia». In particolare nella sezione che dà il titolo all’intera raccolta, ossia i veri e propri Ossi di seppia – a cui, verosimilmente, il giovane autore affidava il nucleo centrale del suo messaggio poetico – ricorrono potenti e plastiche immagini simboliche, attinte soprattutto al paesaggio marino della Liguria, specialmente della costiera delle Cinque Terre, colto nei suoi aspetti più aspri: il poeta traduce la sua percezione del negativo dell’esistenza in elementi naturali, oggetti, che vengono fortemente enfatizzati, prefigurando la poetica del correlativo oggettivo pienamente realizzata in seguito.

3 Le scelte espressive Il rapporto creativo con la tradizione Il giovane Montale muove dai molteplici ed eterogenei materiali linguistici e dagli schemi metrici del Pascoli di Myricae e del D’Annunzio alcyonico, ma non ignora certo la sperimentazione degli espressionisti “vociani” e dei poeti crepuscolari, come anche la lezione dei grandi esponenti del simbolismo francese. In queste molteplici fonti, l’autore sa imprimere con potente icasticità una forma originale che riflette la sua drammatica visione della vita. Ossi di seppia 2 231


L’esigenza di trovare una forma espressiva coerente con una visione del mondo improntata al pessimismo non induce Montale a un rifiuto netto della tradizione letteraria che, al contrario, è ben presente in Ossi di seppia a livello delle scelte metriche e soprattutto lessicali: non mancano termini aulici e preziosi, echi danteschi e dannunziani, che però non vengono mai usati in modo compiaciuto ed estetizzante e ricevono nuova valenza significante dal contesto moderno in cui sono collocati, dal ritmo disarmonico, dagli accostamenti inusuali con termini magari concreti e quotidiani. La disarmonia individuata nella realtà e nell’io si oggettiva in scelte lessicali che insistono su sonorità aspre, stridenti, disarmoniche, sottoposte a una tensione espressionistica, come nella celebre lirica di un Montale appena ventenne, Meriggiare pallido e assorto, irta di compiaciute asperità foniche. Caratteristica di Montale è l’utilizzo di una terminologia precisa in rapporto a elementi del paesaggio, in particolare ligure, alla vegetazione, alla fauna o al mondo marino. Una scelta che consegue alla poetica del “correlato oggettivo”, di cui si è parlato, alla necessità di evocare in modo preciso un oggetto a cui corrisponde una situazione, una emozione. In questo modo Montale realizza, nella lirica italiana, l’imperativo del poeta Paul Verlaine, che invitava a «torcere il collo all’eloquenza». Proprio a questa indicazione successivamente lo stesso Montale si richiamerà esplicitando la poetica di Ossi di seppia: «All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza» (in Intervista immaginaria, 1946).

Ossi di seppia

EDIZIONI

• prima edizione 1925 • seconda edizione 1928 con aggiunta di 6 nuove poesie

TITOLO

carattere simbolico: gli ossi rappresentano l’esclusione dalla felicità

STRUTTURA

TEMI

LINGUA E STILE

la raccolta è divisa in 4 sezioni e i testi non sono disposti in ordine cronologico ma in modo da comunicare un messaggio

• il “male di vivere” • l’aridità della condizione umana • la possibilità del “miracolo”

• rifiuto di una poesia eloquente • stile aspro e ruvido • echi della tradizione e sperimentalismo

232 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T1

I limoni Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Composta nel 1921 e rivista nel 1922, I limoni apre la prima sezione di Ossi di seppia, Movimenti. La lirica ha carattere dichiaratamente programmatico, costituendo un’ideale presentazione non solo della raccolta, ma più in generale della poesia montaliana nei suoi aspetti più caratterizzanti: centrale nella lirica è, da un lato, la contrapposizione a una poesia aulica, magniloquente, dall’altro la ricerca di una “rivelazione” che dia un senso all’esistere.

Ascoltami1, i poeti laureati2 si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti3. Io, per me4, amo le strade che riescono5 agli erbosi 5 fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta6 anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni7, discendono tra i ciuffi delle canne 10 e mettono8 negli orti, tra gli alberi dei limoni. Meglio se le gazzarre9 degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro10: più chiaro si ascolta11 il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, 15 e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra12 e piove in petto una dolcezza inquieta13. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra14,

La metrica Quattro strofe di diversa lunghezza, costituite da versi liberi con frequenti endecasillabi (19 occorrenze) e settenari e versi lunghi composti (7+7, 8+7, 8+8, 7+9). Molte le rime, anche interne, e le assonanze. 1 Ascoltami: il poeta si rivolge a un “tu” generico, indeterminato, forse una donna o il lettore. È probabile l’allusione (ma per prenderne le distanze) al ripetuto invito rivolto dall’io lirico a Ermione nella Pioggia nel pineto dannunziana: «Ascolta... ascolta...». 2 i poeti laureati: i poeti consacrati, che hanno raggiunto la gloria e la celebrità

(a cui allude simbolicamente la corona d’alloro che li incorona). Montale si riferisce ai poeti “ufficiali”: Carducci, Pascoli e D’Annunzio (in particolare a quest’ultimo). 3 si muovono... acanti: nelle loro poesie fanno riferimento solo a piante nobili, dai nomi rari e preziosi. Fuor di metafora: seguono una tradizione aulica. 4 per me: da parte mia. 5 riescono: sboccano, conducono. 6 sparuta: rara. Ma anche magra, piccola. 7 ciglioni: terreno rialzato al margine dei fossi. 8 mettono: immettono, conducono. 9 le gazzarre: gli stridii. 10 azzurro: il cielo.

11 più chiaro si ascolta: si può ascoltare con più chiarezza. si ascolta regge sia susurro (per sussurro) sia i sensi. 12 i sensi... da terra: la percezione vaga del profumo intenso (dei limoni) che impregna la terra. 13 piove... dolcezza inquieta: riversa nel cuore (piove è usato transitivamente) una dolcezza non disgiunta dall’inquietudine. 14 Qui... la guerra: iperbato. Costruisci: qui tace per miracolo la guerra delle divertite passioni, cioè il conflitto delle passioni deviate miracolosamente si placa. divertite è dotto latinismo, da devertere, “volgere altrove”.

Ossi di seppia 2 233


qui tocca anche a noi poveri15 la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto16, 25 talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità17. 30 Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce18 nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede 35 in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità19. 20

Ma l’illusione manca20 e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase21. 40 La pioggia stanca22 la terra, di poi; s’affolta23 il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara24 – amara l’anima. Quando25 un giorno da un malchiuso26 portone tra gli alberi di una corte27 45 ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa28, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità29.

15 noi poveri: noi, poeti che cantiamo cose comuni. In contrapposizione ai «poeti laureati». 16 le cose... segreto: la realtà sembra cedere agli interrogativi dell’uomo e pronta a rivelare la propria essenza. 17 talora... una verità: talvolta ci si attende di arrivare a cogliere inaspettatamente il senso del reale e della condizione umana (a questa rivelazione allude la metafora del filo dipanato che conduca al cuore della verità), un “miracolo” che infranga il rigido determinismo a cui sono incatenati gli esseri. A questa auspicata ma improbabile infrazione allude la serie di immagini metaforiche: «uno sbaglio di Natura», «il

punto morto del mondo», «l’anello che non tiene». 18 la mente... disunisce: la ragione ricerca, sintetizza, analizza. 19 Sono i silenzi... Divinità: sono i momenti privilegiati in cui si crede di intravedere la presenza del Divino nell’ombra di un uomo che si allontana; disturbata: perciò vuole allontanarsi. 20 l’illusione manca: la speranza, enunciata poco sopra, di scoprire la verità viene meno, finisce. 21 cimase: cornicioni delle case. 22 stanca: affatica. 23 s’affolta: si infittisce, si addensa. 24 si fa avara: diventa scarsa, diminuisce.

234 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

25 Quando: ed ecco che all’improvviso. 26 malchiuso: socchiuso. 27 corte: cortile. 28 si sfa: si scioglie. 29 in petto... solarità: la poesia si chiude con immagini analogiche di trionfante positività: il colore squillante dei limoni richiama la luce sfolgorante del sole («le trombe d’oro della solarità») che penetra nell’animo impetuosamente, come uno scroscio d’acqua, dissolvendo l’angoscia dell’esistenza. Le trombe d’oro è il soggetto di ci scrosciano ed è usato transitivamente: ci riempiono il cuore di una cascata di canzoni.


Analisi del testo Una dichiarazione di poetica I limoni è una lirica chiave per comprendere l’universo poetico montaliano, innanzitutto perché costituisce un’evidente e suggestiva dichiarazione di poetica. Montale assume una posizione polemica verso i maestri della più recente tradizione poetica, «i poeti laureati», incoronati dal consenso diffuso della nazione: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Ma soprattutto è quest’ultimo – evocato sia dal riferimento indiretto alla Pioggia nel pineto, sia dall’allusione alla vegetazione raffinata («bossi ligustri o acanti»), cara al gusto liberty e decadente, in cui «i poeti laureati» si muovono – a cui il Montale de I limoni intende contrapporsi. A una poesia magniloquente, estetizzante, raffinata, come quella dannunziana, il poeta ligure oppone un universo poetico anti-sublime, dimesso (memore della lezione di Gozzano e dei crepuscolari), che rifiuta l’inautenticità delle convenzioni letterarie per andare al cuore della condizione umana. D’altra parte questa posizione non esclude, da parte di Montale, un “attraversamento” della poesia dannunziana, soprattutto nelle prime composizioni, dalla quale rifluiscono tessere lessicali (come la forma verbale s’affolta al v. 40); questi sono elementi che però, immessi in un nuovo contesto, acquistano nuove valenze.

La poetica degli oggetti-emblema Già in questa lirica Montale affida il suo messaggio all’evidenza rappresentativa di elementi del paesaggio caricati di valenza simbolica: lo scenario naturale arido e dimesso (gli «erbosi fossi», le «pozzanghere mezzo seccate», i ciglioni, gli orti) in cui il poeta afferma di riconoscersi («Io, per me, amo...») simboleggia una poesia che rifiuta la stilizzazione letteraria e che invece guarda in faccia la realtà senza schermi compensatori. L’utilizzazione di oggetti-emblema ricorre per tutto il testo: ad esempio nell’ultima strofa le città rumorose (contrapposte ai silenzi, v. 22), e le cimase che chiudono la vista del cielo (l’azzurro), sono trasposizioni simboliche della difficoltà di accedere alla luce della verità (seppur parziale).

La struttura e il tema centrale La lirica è costituita da quattro strofe. La prima è una sorta di introduzione di carattere, come detto, essenzialmente metaletterario (in quanto contiene una dichiarazione di poetica). Le altre tre sono collegate a livello tematico attraverso l’immagine-simbolo dei limoni. Il tema centrale della lirica è di carattere filosofico: la tensione conoscitiva dell’io lirico (dietro cui si profila l’autore stesso) verso la possibilità di accedere a una verità (v. 29), di cogliere l’essenza del reale. Una possibilità che in questo e in altri testi montaliani appare remota ed effimera e che non dipende certo dall’eccezionale intuizione di un poeta “veggente” come nella poesia simbolista francese. D’altronde, la ricerca di una spiegazione da parte della mente, attraverso le operazioni della ragione (indicate analiticamente al v. 31: «la mente indaga accorda disunisce»), è destinata a essere fallimentare: manca all’uomo moderno, di cui Montale a sua volta è emblema, la capacità di illudersi (strofa III). È la realtà stessa, in certi momenti privilegiati di sospensione del tempo, che sembra potersi rivelare, in una sorta di imprevedibile epifania, quando miracolosamente si infrange la deterministica concatenazione dei fenomeni in cui la stessa vita umana si inscrive. La poesia, costruita su un’alternanza dialettica di momenti positivi (strofe II-III) e negativi (inizio strofa IV), si chiude su una straordinaria immagine di luce e pienezza in cui trova espressione la forte valenza positiva attribuita ai limoni, al colore dei loro frutti, al profumo intenso che emanano: emblemi consolatori della superstite capacità dell’uomo di vivere la pienezza esistenziale. Incipit di un manoscritto autografo della poesia I limoni (Archivio A. Bonsanti, Gabinetto Vieusseux, Firenze).

Ossi di seppia 2 235


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Per ciascuna strofa fai una breve sintesi (max 2 righe) e individua le parole-chiave. COMPRENSIONE 2. A chi si rivolge il poeta con tono confidenziale (Ascoltami, v. 1)? 3. Chi sono «i poeti laureati»? A che proposito il poeta li evoca? Perché ne prende le distanze? 4. Spiega il legame fra titolo e contenuto della poesia. Perché Montale ha collocato questa lirica in apertura della raccolta Ossi di seppia? ANALISI 5. Fin da questa lirica la poesia di Montale fa riferimento privilegiato al paesaggio. Individua gli elementi di esso su cui si sofferma la sua attenzione: di quale paesaggio si tratta? Quale valore simbolico vi associa il poeta? 6. Individua termini ed espressioni che rimandano al confronto polemico con D’Annunzio. STILE 7. Rintraccia nel testo i seguenti elementi formali e per ognuno fornisci alcuni esempi. versi antitesi metafore chiasmi sinestesie rime ripetizioni allitterazioni assonanze 8. Quale figura retorica è presente nell’espressione dolcezza inquieta (v. 17)? a. sinestesia b. metafora c. metonimia d. ossimoro

Interpretare

SCRITTURA 9. Illustra per quali ragioni questo componimento può essere considerato un “manifesto” della concezione montaliana di poesia (max 15-20 righe).

Sguardo sull’arte Enigma Nel quadro di Giorgio De Chirico, Enigma di un pomeriggio d’autunno (1910), possiamo trovare echi dei temi montaliani: la statua acefala esprime la condizione del non-sapere dell’uomo (l’uomo che se ne va sicuro non presta attenzione alla sua ombra, crede di sapere, ma non è così), le due figure umane presenti nella desolazione della piazza (forse Santa Croce a Firenze) sono il poeta e il filosofo, consapevoli di non sapere ma alla ricerca di senso nel non senso della vita. Sul tetto di una casa una vela bianca sembra incredibilmente abbandonata, ma anch’essa ha il suo significato: come gli Argonauti navigavano alla conquista del vello d’oro, così il poeta naviga in una ricerca tutta intellettuale, nell’attesa di poter approdare. La ricerca di senso è anche leopardiana: prova a rileggere la lirica L’infinito e rintracciare quale rotta percorre la sua navigazione.

236 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

Giorgio De Chirico, Enigma di un pomeriggio d’autunno.


Eugenio Montale

T2

Non chiederci la parola Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Scritta nel 1923, collocata in apertura della sezione Ossi di seppia che dà il titolo all’intera raccolta, è una delle liriche più note di Montale. Come I limoni, si può considerare (e tale la considerava Montale stesso) un vero e proprio manifesto di poetica: di fronte alla condizione negativa dell’uomo (e non si tratta di una negatività legata a un determinato periodo storico), il poeta non ha alcuna certezza da proporre, nessun “credo” da trasmettere al lettore, nessun messaggio positivo.

Non chiederci1 la parola che squadri da ogni lato2 l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco3 lo dichiari4 e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato.

ANALISI INTERATTIVA

5

Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a sé stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro5!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti6, 10 sì qualche storta sillaba e secca come un ramo7. Codesto solo oggi8 possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. La metrica Tre quartine di versi di varia misura, con prevalenza di endecasillabi, a rima incrociata (vv. 1-8) e alternata (vv. 9-12), secondo lo schema ABBA, CDDC, EFEF (la rima amico: canicola [D] è ipermetra).

1 Non chiederci: il poeta si rivolge al lettore in modo perentorio attraverso l’imperativo negativo. 2 squadri da ogni lato: delinei con precisione.

3 a lettere di fuoco: con parole indelebili, marchiate a fuoco. 4 lo dichiari: lo esprima con chiarezza. È un latinismo, da declarare. 5 Ah l’uomo... muro: il poeta, con le sue inquietudini, si contrappone all’uomo che cammina sicuro, pacificato con sé stesso e con gli altri, e non ha paura (non cura) della propria ombra che il sole estivo proietta su un muro scalcinato.

6 la formula... aprirti: la chiave che consenta di scoprire l’essenza della realtà.

7 sì qualche... un ramo: in contrapposizione a una poesia-rivelazione, la poesia che può offrire Montale è essenziale, sofferta, così come i contenuti a cui fa riferimento. 8 oggi: l’avverbio non si riferisce probabilmente a un momento storico circoscritto (quello in cui Montale scrive), ma alla condizione dell’uomo moderno.

Analisi del testo La struttura La lirica è costituita da tre quartine, di cui la prima e la terza risultano strettamente collegate: il primo verso della terza strofa riprende infatti circolarmente il primo della lirica attraverso l’iterazione dell’imperativo negativo («Non chiederci... Non domandarci»). La stessa struttura metrica sottolinea il collegamento tra prima e terza strofa: il primo verso della prima strofa (ottonario + settenario) è simile al primo della terza strofa (novenario + settenario); il secondo verso della prima strofa è uguale al secondo della terza (doppio settenario). La seconda strofa invece sta a sé e comprende quattro versi diseguali. Il collegamento tra la prima e la terza strofa è fondato sul dialogo tra un “tu” e un “noi”, che corrispondono rispettivamente al pubblico di lettori e ai poeti della generazione di Montale che ne condividono la desolata visione del mondo. In realtà più che di un dialogo si può parlare di un’allocuzione rivolta ai lettori, le cui richieste sono implicite nel testo e alle quali il poeta, a nome della sua generazione, dà una risposta negativa («Non chiederci...non domandarci»).

Ossi di seppia 2 237


Montale poeta della modernità… Attraverso la contrapposizione di una serie di immagini metaforiche, Montale esprime il proprio distacco dal poeta-vate tardo-ottocentesco, che possiede delle certezze e se ne fa portavoce presso i lettori. L’impossibilità di trasmettere messaggi forti (a cui allude il paragone con il croco, fiore dai colori splendenti), ma anche di fornire chiavi interpretative del senso della realtà («la formula che mondi possa aprirti»), è collegata alla condizione della modernità, alla più generale crisi dei paradigmi conoscitivi: è questo il significato più pertinente dell’avverbio oggi del v. 11. L’animo del poeta moderno, ma più in generale l’animo dell’uomo moderno, è informe, privo cioè di una definibile identità, privo di certezze. Il poeta è preda di inquietudini profonde: da qui la contrapposizione, a cui dà voce la seconda strofa, con «l’uomo che se ne va sicuro» (v. 5), vive rapporti armonici con gli altri e con sé stesso, non conosce l’angoscia esistenziale (simboleggiata dall’ombra, proiettata «sopra uno scalcinato muro», che l’uomo sicuro non cura). Nella lirica è già presente la tendenza propria della poesia di Montale all’oggettivazione di emozioni e di temi chiave che emergerà con Le occasioni, la raccolta successiva a Ossi di seppia.

...ma che si confronta con la tradizione La forma della poesia ha a prima vista un andamento quasi “classico”: la scelta tradizionale della quartina, la prima e la terza con rime incrociate, la ripresa della formula negativa nella terza strofa («Non chiederci la parola/non domandarci la formula»), la chiusura di ogni strofa con un endecasillabo, creano un senso di simmetria, di armonia, in realtà smentito dai contenuti ma anche dalle scelte lessicali e foniche, che rimandano alla desolazione, all’aridità, alla privazione di vita («polveroso prato», «scalcinato muro», «storta sillaba e secca come un ramo»).

Quale poesia? Attraverso la reiterata forma negativa, che evidenzia ciò che la sua poesia non è e non può essere, Montale delinea l’idea di poesia che gli corrisponde e che viene espressamente enunciata alla fine della lirica: la forma di poesia adatta a esprimere il male di vivere dell’uomo moderno è essenziale («secca come un ramo») e dissonante («storta sillaba»), lontana da ogni enfasi. È una poesia che corrisponde alla condizione del poeta, che non conosce la propria vera natura, ma possiede solo un sapere minimale e residuale: sa solo chi non è e ciò che non vuole. Nel celeberrimo finale si riconobbe un’intera generazione, quella dei giovani che rifiutavano il fascismo e che interpretarono in senso strettamente storico-politico il verso montaliano. In realtà Montale non intendeva certo fare qui una dichiarazione di antifascismo, ma le sue parole costituiscono in ogni caso un indiretto rifiuto degli pseudovalori che il nascente regime cercava di diffondere soprattutto tra i giovani.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della lirica ed evidenzia il tema principale. ANALISI 2. Qual è, secondo te, la funzione dell’incipit di questa poesia? 3. Perché questa lirica si può considerare un manifesto di poetica? Sintetizza in 2 righe la tesi sostenuta dal poeta. 4. Quale atteggiamento esprime Montale nei confronti dell’«uomo che se ne va sicuro» (v. 5)? Per quale motivo rappresenta un modello antitetico a quello del poeta? 5. Individua i correlativi oggettivi presenti e associa a ciascuno i concetti e gli stati d’animo espressi. LESSICO 6. Rintraccia nel componimento termini ed espressioni che definiscono in negativo la condizione umana. STILE 7. La lirica è strutturata sulla contrapposizione fra la poesia di Montale e altre forme di poesia, evocate attraverso metafore e similitudini: individuale e spiegane il senso.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Metti a confronto questi versi con quelli della lirica I limoni, dal punto di vista formale (caratteristiche del lessico, della sintassi e del ritmo dei versi) e tematico, facendo una schedatura degli elementi di affinità e di contrasto.

238 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Collabora all’analisi

T3

Eugenio Montale

Meriggiare pallido e assorto Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Composto nel 1916 e ripreso nel 1922, è uno dei testi più noti e rappresentativi di Ossi di seppia. È collocato nella sezione omonima subito dopo Non chiederci la parola (➜ T2 ). Lo sfondo arido del paesaggio ligure, colto nel momento più caldo e assolato della giornata, assume tratti simbolici, che si esplicitano in particolare nell’ultima strofa.

Meriggiare1 pallido e assorto2 presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi3 schiocchi di merli4, frusci di serpi. 5

Nelle crepe del suolo o su la veccia5 spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche6.

Osservare tra frondi7 il palpitare 10 lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi8 di cicale dai calvi picchi9. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia 15 com’è tutta la vita e il suo travaglio10 in questo seguitare11 una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia12. La metrica Tre quartine e una strofa di cinque versi composte di versi liberi (novenari, decasillabi, endecasillabi) rimati secondo lo schema: AABB CDCD EEFF GHIGH. I termini a fine verso dell’ultima strofa sono legati da un vistoso gioco di consonanze; C (v. 5 e v. 7) è rima ipermetra, G è imperfetta.

1 Meriggiare: passare il meriggio, cioè le ore vicine al mezzogiorno. Il verbo meriggiare ha ascendenze letterarie (da D’Annunzio a Pascoli, da Gozzano a Boine), ma Montale conferisce alla situazione un

carattere prettamente anti-idillico, associandola al «rovente muro d’orto» del verso successivo e ai due aggettivi che connotano la condizione interiore dell’io lirico («pallido e assorto»). 2 pallido e assorto: i due aggettivi si riferiscono all’io lirico. 3 pruni... sterpi: rovi e sterpaglie. È avvertibile l’eco della descrizione dantesca della selva dei suicidi nel canto XIII dell’Inferno. 4 schiocchi di merli: suoni secchi, prodotti dal canto dei merli. 5 veccia: erba selvatica.

6 biche: mucchi di terra e rifiuti vari ammassati accanto ai formicai. 7 tra frondi: tra le fronde. Forma antica e letteraria. 8 scricchi: rumori secchi, simili a scricchiolii; è il frinire delle cicale. 9 calvi picchi: alture aride, prive di vegetazione. 10 travaglio: pena, fatica. 11 seguitare: seguire, camminando lungo. 12 cocci... di bottiglia: i pezzi di vetro posti in cima ai muri per impedire che si possa scavalcarli.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

La lirica è fondata a prima vista su una rappresentazione paesaggistica: attraverso precisi dettagli e impressioni visive e acustiche, Montale descrive (in particolare nelle prime tre strofe) un paesaggio aspro e inaridito dal sole abbagliante, nel quale si profila, in lontananza, il mare. L’ultima strofa si apre a un’amara riflessione esistenziale. 1. Individua il tema centrale della lirica. 2. A quale ambiente geofisico fa riferimento il poeta nella lirica? Era un ambiente noto al poeta? 3. Da cosa sono accomunate le prime tre strofe? In quale rapporto stanno con l’ultima strofa?

Ossi di seppia 2 239


In questa lirica, composta da Montale appena ventenne, come detto, è già evidente, e qui anzi particolarmente accentuata, la tendenza a obiettivare gli stati d’animo (e più in generale il disagio esistenziale), affidandone la rappresentazione non a enunciazioni astratte, ma a oggetti-immagini emblema: qui in particolare il muro, evocato già nel secondo verso e con più evidente valenza simbolica, nell’ultima strofa. Il sole, a cui spesso nella tradizione letteraria è associato il valore simbolico di luce vivificante, è qui invece bagliore accecante, implacabile calore, che priva di linfa vitale la terra e la vegetazione, desertificando il paesaggio. Quest’ultimo diventa immagine della desolata condizione umana, dell’aridità interiore propria dell’uomo moderno. Il mare è presenza ricorrente negli Ossi di seppia, spesso associato al mutamento, alla metamorfosi, alla liberazione. Ma qui il suo palpitare è lontano, il poeta ne ha una percezione frammentaria («scaglie di mare») tra la vegetazione. Nella lirica anche il soggetto, implicito nelle azioni evocate, è emblema: “voce” delle disperate domande dell’uomo di ogni tempo sul senso della vita. Da qui forse la scelta del poeta, che risulta particolarmente suggestiva, di escludere verbi di modo finito, ricorrendo a una serie di verbi all’infinito (meriggiare, ascoltare, spiar, osservare, sentire). 4. Individua e trascrivi gli elementi del paesaggio che rimandano all’aridità. 5. Quale significato simbolico può avere il fatto che il mare sia percepito come lontano? 6. Spiega il valore simbolico del muro rovente «che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». 7. Il poeta stesso indica il valore metaforico dell’andare costeggiando il muro. Spiega il concetto con le tue parole. 8. I verbi all’infinito creano una dimensione quasi atemporale. Come spieghi la scelta del poeta? Nella loro sequenza i verbi possono connotare una progressione? In che senso? Le scelte stilistico-linguistiche operate da Montale nella lirica, particolarmente attente alla tramatura fonica, sono funzionali a tradurre, in una sorta di fonosimbolismo, il senso della disarmonia, la “pietrificazione interiore”: da qui la selezione di termini che insistono su sonorità aspre, stridenti, disarmoniche. Molto consistente è l’uso di figure retoriche di suono, in particolare onomatopee, allitterazioni, assonanze e consonanze. 9. La lirica è attraversata, come un filo conduttore, dall’iterazione di rime interne. Identificale e cerca di spiegare quale effetto producono. 10. Nella lirica vi sono rimandi precisi al canto XIII (la selva dei suicidi) dell’Inferno dantesco (i termini pruni, sterpi, serpi), ma alle rime petrose del grande poeta fiorentino rimanda anche l’uso di un lessico fonicamente “aspro”. Quale uso fa Montale della citazione o dell’allusione alla tradizione letteraria illustre?

Interpretare

La lirica si può considerare la traduzione del programma, o meglio dell’anti-programma poetico enunciato in Non chiederci la parola, collocata non a caso subito prima. 11. Cerca di spiegare il rapporto tra le dichiarazioni di poetica presenti in Non chiederci la parola e le scelte tematiche e soprattutto stilistico-linguistiche di Meriggiare pallido e assorto, che ne costituiscono una sorta di applicazione. La lirica è certamente memore di una delle poesie più note di D’Annunzio: Meriggio (➜ VOL 3A C10), a cui rimanda direttamente l’incipit. Qualche analogia si può ritrovare nel momento della giornata scelto (appunto il meriggio) e nell’iniziale condizione quasi di passività di fronte allo spettacolo del paesaggio assolato. Ma qui il paesaggio è scabro e quasi piagato dal sole e soprattutto l’esito dell’itinerario evocato da Montale non è certo la fusione panica annunciata con enfasi superomistica da D’Annunzio alla fine della composizione («E la mia vita è divina»), ma la dolorosa consapevolezza del non senso della vita, dell’impossibilità di un positivo rapporto con il mondo, accolta con attonito stupore («triste meraviglia») da Montale. 12. Sviluppa il confronto tra i due testi in rapporto alle diverse figure e poetiche dei due autori.

240 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


T4

Eugenio Montale

LEGGERE LE EMOZIONI

Spesso il male di vivere ho incontrato Ossi di seppia E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Questo “osso breve”, composto probabilmente nel 1924, è una delle più riuscite espressioni della visione del mondo e della poetica di Montale in quegli anni.

Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato1 che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.

AUDIOLETTURA

5

Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza2: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato3.

La metrica Due quartine di endecasillabi, tranne l’ultimo verso (doppio settenario). Lo schema delle rime è ABBA, CDDA.

1 rivo strozzato: un ruscello a cui un ostacolo impedisce di scorrere liberamente. 2 Bene... Indifferenza: non ho conosciuto (nella vita) altro bene, altra possibilità di salvezza, di scampo, al di fuori del miraco-

lo, una condizione “prodigiosa” che crea il distacco dalle cose e dalla sofferenza, un distacco che ci rende simili agli dei («la divina Indifferenza» è il soggetto). Il poeta evoca una condizione interiore di lucido disincanto, di superiore distacco simile all’atarassia (cioè l’assenza di turbamento), l’impassibilità propria del saggio secondo la filosofia epicurea.

3 era... levato: in modo simmetrico alle immagini del «male di vivere» evocate nella prima quartina, Montale sceglie nella seconda tre immagini correlate al concetto di indifferenza: una statua nel sonnolento pomeriggio, una nuvola, un falco che vola in alto nel cielo.

Analisi del testo Un tema leopardiano Nel caso di questa lirica esemplare, Montale sceglie di non mimetizzarsi, ma si identifica palesemente nell’io lirico («ho incontrato»), che mostra di conoscere molto bene l’esperienza del male di vivere, tema fondamentale degli Ossi di seppia. Male di vivere che non va inteso solo come sofferenza individuale legata alla vita del poeta, ma è, leopardianamente, piena consapevolezza della solitudine dell’uomo in un mondo ostile e disarmonico, in cui non solo è preclusa la felicità, la pienezza di vita, ma che è anche impossibile penetrare nella sua essenza.

La contrapposizione male-bene La poesia ha una struttura lineare, fondata sulla netta contrapposizione tra male e bene e sul parallelismo: ognuna delle due strofe è introdotta da una dichiarazione teorica iniziale, a cui seguono tre immagini esplicative, rispettivamente del concetto di male e di bene. Il parallelismo è enfatizzato dall’iterazione anaforica dell’imperfetto era. Mentre per il male di vivere Montale si limita all’esemplificazione, nel caso del bene ritiene necessario precisare che l’unico bene che ha conosciuto è derivato dall’assunzione, probabilmente non facile, né costante nel tempo, di un atteggiamento di distacco dalle passioni e dalla sofferenza: un distacco che rimanda ai precetti della filosofia antica (epicurea e stoica), all’“atarassia”, l’assenza di turbamento che il saggio deve conquistare. Ma l’«indifferenza» di cui Montale parla può ricordare anche l’ultimo, disincantato, Leopardi (A sé stesso).

Ossi di seppia 2 241


Del resto nella lirica coeva Mia vita, a te non chiedo lineamenti, collocata nella raccolta due posizioni prima di Spesso il male di vivere, l’allusione al canto leopardiano è esplicita: «Il cuore che ogni moto tiene a vile» (v. 5).

L’uso paradigmatico del correlativo oggettivo In questa lirica è particolarmente evidente l’uso di immagini che oggettivano una condizionetema, assumendo valore simbolico: a differenza di quanto avverrà nelle Occasioni, il poeta qui illustra in modo scoperto, quasi didascalico, il legame simbolico. Le tre figurazioni scelte per rappresentare il male di vivere alludono tutte in qualche modo, con “fisica” evidenza, alla sofferenza e sono collocate in climax: particolarmente forte, quasi espressionistica, è l’immagine del cavallo stroncato dalla fatica e stramazzato a terra. Per restituire al lettore il senso della «divina Indifferenza» Montale sceglie immagini dichiaratamente opposte alle prime, anche per la contrapposizione spaziale “basso-alto”: la statua, immobile nel sonnolento pomeriggio, è priva di passioni, immagine pietrificata, immobile; la nuvola e il falco sono lontani dalla terra e simboleggiano il distacco e il silenzio.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Qual è l’unico bene conosciuto dal poeta? ANALISI 3. Perché Montale decide di scrivere Indifferenza (v. 6) con la lettera maiuscola? Quale significato assume l’aggettivo divino? 4. Individua nel testo i correlativi oggettivi presenti e associa a ciascuno i concetti e gli stati d’animo espressi dal poeta. STILE 5. Rintraccia nel componimento i suoni aspri e collegali al contenuto espresso dal poeta. 6. Nella prima quartina l’attenzione all’espressività degli effetti fonici intensifica il messaggio: quali suoni prevalgono? Perché? 7. Metti a confronto gli effetti fonici presenti nella prima quartina con quelli nella seconda. Quali considerazioni puoi fare?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 8. Illustra questa poesia di Montale delineandone la vicinanza con il pessimismo cosmico leopardiano espresso in questo passo del 1826 tratto dallo Zibaldone: «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi». Individua le possibili analogie e le differenze, e contestualizza i testi in esame. ESPOSIZIONE ORALE 9. In questo testo il poeta introduce il concetto di imperturbabilità, un atteggiamento di totale distacco emozionale, conseguibile a prezzo di faticoso cammino intrapreso seguendo la tradizione filosofica greca e romana, desueto per la mentalità contemporanea. Si può leggere un’indicazione di vita nei suoi versi, una sorta di antidoto, nel non coinvolgimento per sottrarsi al male di vivere. A tuo parere, è giusto distaccarsi dal mondo per non soffrire? È giusto sopprimere ogni slancio dell’anima, ogni emozione? Quale atteggiamento hai nei confronti della vita: distaccato e razionale o appassionato ed emotivamente coinvolto?

242 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T5

Forse un mattino andando in un’aria di vetro Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Composta nel luglio 1923, la lirica fa parte della sezione Ossi di seppia. È incentrata sul tema del miracolo: qui però il miracolo non è salvifica occasione per sfuggire al male di vivere come ne I limoni, ma improvvisa, sconvolgente rivelazione del nulla, dell’inconsistenza della realtà. Una rivelazione che separa inesorabilmente il poeta dagli “altri”, gli uomini ignari della verità.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida1, rivolgendomi2, vedrò compirsi il miracolo3: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. 5

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto4. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano5, col mio segreto6.

La metrica Due quartine di versi lunghi di varia misura (da 11 a 16 sillabe) a rima alternata ABAB, CDCD; la rima B è ipermetra: miraco(lo): ubriaco. 1 aria... arida: le precisazioni non sono certo accessorie, a cominciare dall’allusione all’aridità, che è sempre simbolo negativo in Montale.

2 rivolgendomi: volgendomi indietro. 3 il miracolo: il termine qui identifica una rivelazione angosciosa, a cui fanno riferimento i due versi successivi. 4 Poi... consueto: poi, di colpo (di gitto) si ripresenteranno, come proiettati su uno schermo (presumibilmente cinematografico), gli elementi del paesaggio per l’abituale inganno. Per inganno si intende l’idea che la realtà esista davvero e non sia pura apparenza, illusione dei nostri sensi.

5 gli uomini che non si voltano: la perifrasi designa gli esseri umani che non nutrono dubbi, che non si pongono interrogativi conoscitivi (come l’uomo sicuro «che l’ombra sua non cura» di Non chiederci la parola). 6 segreto: la scoperta che tutto è un’illusione dei sensi.

Analisi del testo Un tragico privilegio Nella sua prima raccolta, a cominciare da I limoni (➜ T1 ), Montale fa spesso riferimento all’attesa di un miracolo, inteso come una rivelazione inaspettata «che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità», un momento in cui le cose tradiscano «il loro ultimo segreto». Il miracolo si presenta in questa lirica, però, al negativo, come sconvolgente manifestazione del nulla, che l’io lirico percepisce per un attimo. La realtà sensibile è parvenza ingannevole (il nucleo filosofico della poesia rimanda al pensiero di Schopenhauer, che Montale accosta nella prima giovinezza). Una “illuminazione” terrorizzante, che lo fa barcollare come un ubriaco (v. 4) per la perdita di ogni punto di riferimento per orientarsi. Sarà impossibile poi tornare a credere all’«inganno consueto». Il poeta custodirà il suo segreto, impossibile da comunicare alla maggior parte degli uomini, che si identifica in coloro «che non si voltano» (in contrapposizione a «rivolgendomi» riferito all’io lirico), che si affidano fiduciosi e ignari alla vita, diversamente da lui. Egli vive una condizione che è insieme condanna alla solitudine e alla diversità e privilegio di una conoscenza concessa a pochi.

La struttura La suddivisione del testo nelle due quartine corrisponde all’articolarsi quasi geometrico della scena in due momenti distinti: nella prima si verifica la sconvolgente rivelazione del nulla, nella seconda il ricomporsi dell’illusione dei sensi come in un fotogramma cinematografico.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 5 righe il contenuto della poesia e indica il tema centrale. COMPRENSIONE 2. In che cosa consiste la rivelazione illuminante che vive l’io lirico? Quali conseguenze ne derivano? 3. Che cosa differenzia l’io lirico, in cui si rispecchia il poeta, dagli «uomini che non si voltano»? ANALISI 4. Spiega il significato dei vv. 3-4. 5. Esamina la parola miracolo (v. 2) in rapporto al contesto e spiega quale nuovo significato gli attribuisce il poeta. LESSICO 6. Quali campi semantici prevalgono nella poesia? A quali temi sono collegati?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Metti in relazione gli ultimi due versi (vv. 7-8) con la seconda strofa della lirica Non chiederci la parola (➜ T2 ). Quale posizione poetica espone Montale?

Eugenio Montale

T6

Cigola la carrucola del pozzo Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

ANALISI INTERATTIVA

Tema della lirica, composta nel 1924 e sempre appartenente alla sezione Ossi di seppia, è la memoria. Montale sottolinea non solo la labilità del ricordo ma, ancor più, l’irriconoscibilità di ciò (volti, esperienze) che appartiene al passato.

Cigola la carrucola del pozzo1, l’acqua sale alla luce e vi si fonde. Trema un ricordo nel ricolmo secchio2, nel puro cerchio un’immagine ride. 5 Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro3... Ah, che già stride la ruota, ti ridona all’atro fondo4, 10 visione, una distanza ci divide.

La metrica Un’unica strofa di endecasillabi (in cui il v. 7 è spezzato in due emistichi) con rime e assonanze.

1 Cigola la carrucola del pozzo: la ruota scanalata in cui scorre una fune o una catena, che serve per calare e sollevare nel pozzo un secchio d’acqua, producendo un suono stridente. Il critico Mengaldo ha rilevato che nel Notturno di D’Annunzio è presente un’immagine quasi identica,

associata all’emergere del passato, a ulteriore testimonianza dell’“attraversamento” di D’Annunzio da parte di Montale. 2 Trema... secchio: all’acqua del secchio che rispecchia la luce e si fonde con essa, Montale accosta, per associazione analogica, il riemergere di un ricordo luminoso dal passato, forse il volto sorridente di una donna. 3 Accosto... ad un altro: l’io lirico cerca di far suo il ricordo, avvicinandosi al volto

244 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

(quasi cercando di baciarne le labbra), ma il ricordo è labile, evanescente e il passato non appare più recuperabile, è irriconoscibile (si deforma), appartiene a un sé stesso ormai diverso, lontano nel tempo. 4 ti ridona all’atro fondo: ti riconsegna al fondo scuro del pozzo; atro è un latinismo; fondo è in rima imperfetta con fonde al v. 2. C’è un’eco dantesca: «non sì profonde che i fondi [fondali] sien persi [oscuri]», Pd III 12.


Analisi del testo Il tema della memoria Cigola la carrucola nel pozzo anticipa il tema della memoria che ricorrerà nelle Occasioni: in particolare la lirica va posta in rapporto con il mottetto Non recidere, forbice, quel volto, di cui costituisce un’evidente anticipazione (➜ T10b ).

Un’associazione analogica La lirica è costruita sull’equivalenza analogica tra il pozzo, serbatoio a cui si attinge con un secchio l’acqua, e la memoria, serbatoio di ricordi stratificati. Il salire e scendere del secchio grazie alla carrucola mima il meccanismo del ricordo, che affiora temporaneamente per poi nuovamente sprofondare nel magma indistinto del passato.

Il fallimento del recupero memoriale Il tentativo di riportare in vita una figura del passato, presumibilmente una donna, forse morta, fallisce sia per l’evanescenza del ricordo stesso, labile parvenza, sia – e più gravemente – perché il passato evocato risulta irriconoscibile, deformato se lo si guarda con gli occhi del presente: la sua vera immagine appartiene ormai a una persona irrimediabilmente diversa dall’io di oggi. La memoria non appare dunque, in questa, come in altre liriche montaliane, capace di esercitare un ruolo epifanico, come in Proust, né riesce a riportare in vita lo sguardo felice e inconsapevole dell’infanzia e della prima giovinezza, come in Leopardi. Una cesura netta oppone passato e presente.

Una fonte mitologica? La critica ha suggerito la possibile presenza di una fonte classica: il mito di Orfeo, che cerca di sottrarre all’oscurità degli inferi l’amata sposa Euridice ma poi, infrangendo il divieto di volgersi a guardarla, la perde per sempre: Euridice è ricondotta all’Ade, lontana dallo sposo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in un testo di 5 righe il tema centrale di questo componimento. COMPRENSIONE 2. Cosa accade quando il secchio colmo d’acqua viene portato in superficie? STILE 3. Quale figura retorica è presente nell’espressione «un’immagine ride» (v. 4)? 4. Analizza il componimento dal punto di vista sintattico e cerca di rispondere alle seguenti domande: a. Quale costrutto sintattico predomina nel passo: la paratassi o l’ipotassi? b. A cosa è finalizzata la scelta stilistica del poeta in questo caso? c. Come spieghi l’uso dei puntini di sospensione al v. 7?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. La lirica testimonia una visione fortemente pessimistica riguardo al tema del ricordo, che distanzia il giovane autore da modelli filosofici e letterari a lui certo ben presenti. Sviluppa la traccia sulla base delle tue conoscenze.

online T7 Eugenio Montale Casa sul mare Ossi di seppia

Ossi di seppia 2 245


Eugenio Montale

T8

Giunge a volte, repente Ossi di seppia

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

La lirica appartiene alla sezione Mediterraneo, un ampio poemetto in nove “movimenti” (Giunge a volte repente è il quinto), la cui costante è una sorta di dialogo tra l’io lirico e il mare. Se nei primi “movimenti” il mare è visto come simbolo positivo, felice, un’immagine paterna con cui si vive in consonanza, accettandone la legge e cercando di assimilarsi ad essa, dal quinto si profila il distacco dal padre, avvertito come minaccioso, fagocitante e la conseguente scelta della terra, simbolo di un modo di essere che fa sua la presa di coscienza adulta della durezza della vita.

Giunge a volte, repente1, un’ora che il tuo cuore disumano2 ci spaura3 e dal nostro si divide4. Dalla mia5 la tua musica sconcorda6, 5 allora, ed è nemico ogni tuo moto7. In me ripiego8, vuoto di forze, la tua voce pare sorda9. M’affisso10 nel pietrisco che verso te digrada11 10 fino alla ripa acclive12 che ti sovrasta, franosa, gialla, solcata da strosce13 d’acqua piovana. Mia vita è questo secco pendio, mezzo non fine14, strada aperta a sbocchi

La metrica Versi liberi, con rime, assonanze (vv. 9-12) e consonanze (vv. 15-16). 1 repente: all’improvviso. 2 il tuo cuore disumano: il poeta si rivolge al mare. 3 ci spaura: ci impaurisce, ci crea turbamento. spaura è parola leopardiana: L’infinito, v. 8: «il cor non si spaura». 4 dal nostro si divide: e si allontana dal nostro (cuore sottinteso): si crea una distanza profonda tra il mare (e ciò che il mare rappresenta) e il sentire del poeta, come più esplicitamente viene detto al verso successivo. 5 Dalla mia: sottinteso musica.

di rigagnoli, lento franamento. È dessa15, ancora, questa pianta16 che nasce dalla devastazione e in faccia17 ha i colpi del mare ed è sospesa fra erratiche18 forze di venti. 20 Questo pezzo di suolo non erbato19 s’è spaccato perché nascesse una margherita. In lei tìtubo20 al mare che mi offende, manca ancora il silenzio nella mia vita21. Guardo la terra che scintilla22, 25 l’aria è tanto serena che s’oscura23. E questa che in me cresce è forse la rancura24 che ogni figliuolo, mare, ha per il padre. 15

6 sconcorda: non è più in accordo. 7 ed è... moto: e ogni tuo movimento è per me nemico. La disarmonia tra il mare e il poeta diventa aperta ostilità. 8 In me ripiego: mi chiudo in me stesso (allontanandomi dall’abbandono fiducioso in te). 9 sorda: senza suono. 10 M’affisso: guardo fisso. 11 digrada: discende. 12 ripa acclive: riva scoscesa. 13 strosce: rigagnoli, pozzanghere. Voce toscana. 14 mezzo non fine: non punto di approdo, ma attraversamento, momento. Così come l’esistenza è solo un transito. 15 dessa: essa. Riferito alla vita del poeta. 16 questa pianta: probabilmente l’agave

246 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

a cui fa riferimento la lirica L’agave su lo scoglio. 17 in faccia: addosso. 18 erratiche: che soffiano in ogni direzione. Aggettivo di tradizione letteraria. 19 non erbato: privo di vegetazione, secco. 20 In lei tìtubo: identificandomi con essa (la margherita fiorita dall’arido terreno) oscillo, esito di fronte al mare minaccioso. 21 manca... vita: il frastuono invadente del mare impedisce il silenzio in cui potrei forse ritrovare me stesso. 22 scintilla: brilla al sole. 23 l’aria... s’oscura: forse per effetto dell’abbacinamento per eccesso di luce. 24 la rancura: il risentimento, il rancore.


Analisi del testo Il mare: un’immagine simbolica polivalente Centro della sezione Mediterraneo, una sorta di poemetto costituito da nove testi, è l’immagine mitica del mare, che assume diverse, contrastanti valenze simboliche: vitalità, dinamismo metamorfico contrapposti all’inerzia e all’immobilità da un lato, ma anche trasposizione simbolica dell’immagine paterna, che a sua volta può assumere volti differenti, addirittura opposti: esempio da imitare, modello da una parte, dall’altra forza minacciosa, potenzialmente distruttiva. È quest’ultimo volto del mare-padre che emerge in questo testo: un volto che si rivela quasi all’improvviso all’io lirico («Giunge, a volte, repente») e che giustifica il riferimento, espresso nella chiusa, all’ostilità che ogni figlio, nel suo processo di crescita, rivela per il padre.

I correlativi oggettivi della vita Al mare si contrappone, nell’universo simbolico montaliano, in particolare in questa poesia, la terra. Connessi alla terra sono i tre oggetti-emblema che Montale qui sceglie come correlativi per rappresentare la sua esistenza: il secco pendio («Mia vita è questo secco pendio»), l’agave che cresce sospesa sulla scogliera battuta dal vento e resiste ai «colpi del mare», e infine la margherita cresciuta quasi miracolosamente nella spaccatura della terra inaridita dal sole e che oscilla di fronte all’aggressione del vento marino. Il primo elemento rimanda all’abituale paesaggio inaridito, disseccato, privo di linfa vitale, che simboleggia la condizione interiore, priva di illusioni e vitalità, del poeta. L’agave rimanda alla resistenza, alla tenacia di fronte alle avversità e può ricordare la ginestra leopardiana, simbolo di una poesia che non indulge a facili illusioni consolatorie, ma si fa portavoce di un credo coraggioso e razionale. L’identificazione del poeta nell’agave è ancora più esplicita nella poesia L’agave su lo scoglio, nella sezione Meriggi e ombre, in cui l’aggressione del mare, quasi un abbraccio mortale, è descritta con immagini particolarmente forti: «ora son io / l’agave che s’abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d’alghe / che spalanca ampie gole e abbranca rocce» (O rabido ventare di scirocco, vv. 15-19). La margherita infine assomma anch’essa alcune qualità della ginestra leopardiana: è fiorita in un paesaggio desolato, piagato dal sole, ma oppone la sua fragile bellezza al «mare che [mi] offende» (così come il vulcano nella canzone leopardiana). Nell’insieme le tre immagini simboliche affermano il dovere di affrontare la vita e di cercare una difficile identità “adulta”.

Lo stile Evidente nella lirica è la commistione, tipicamente montaliana, di termini aulici e/o di derivazione letteraria (repente, spaura, ripa acclive, erratiche) con termini tratti dalla realtà quotidiana («strosce d’acqua piovana», «sbocchi di rigagnoli»). Sempre attentamente studiati gli effetti fonici, a cominciare dalle assonanze (ad esempio sovrasta / solcata / piovana), alle rime vere e proprie (ad esempio margherita / vita, s’oscura / rancura), alle rime interne (erbato / spaccato) che creano un tessuto ritmico di forte suggestione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. ANALISI 2. Individua nel testo i correlativi oggettivi presenti e associa a ciascuno i concetti e gli stati d’animo espressi da Montale per rappresentare la propria esistenza. 3. Spiega il valore simbolico del mare in questo componimento. LESSICO 4. Quali espressioni indicano la divergenza tra l’io lirico e il mare-padre e l’ostilità minacciosa di quest’ultimo?

Interpretare

SCRITTURA 5. Il distacco e l’ostilità a cui la poesia fa riferimento verso il mare-padre può essere letto come una lettura poetica di un tema universale? (max 15 righe) TESTI A CONFRONTO 6. Traspare nei versi l’eco del testamento spirituale di Leopardi: La ginestra. Fai un confronto tra la lirica montaliana e la canzone leopardiana.

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3

Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera La seconda raccolta Nel 1939 Montale pubblica presso Einaudi la sua seconda raccolta: Le occasioni (una seconda edizione, accresciuta di quattro testi, uscirà l’anno dopo). La raccolta comprende componimenti scritti nell’arco di circa un decennio (1928-1939), ma soprattutto nel biennio 1937-38. Nonostante i tempi infausti (proprio nel 1939 scoppia la Seconda guerra mondiale) la raccolta ebbe notevole risonanza e successo, anche presso un pubblico giovanile (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Montale e i giovani degli anni Trenta e Quaranta, OL) e consolidò la fama che Montale si era già conquistato con Ossi di seppia. Il contesto: la storia contemporanea, Firenze La maggior parte delle poesie contenute nelle Occasioni è composta nel periodo in cui la situazione storica conosce una drammatica svolta: le dittature avviano una politica sempre più aggressiva e oppressiva delle libertà e si va profilando il secondo conflitto mondiale: un clima angoscioso, che indubbiamente influenza alcuni temi e motivi della nuova raccolta e a cui fa più trasparente riferimento la sua ultima sezione. Le occasioni sono però anche il frutto della frequentazione da parte di Montale dello stimolante ambiente culturale fiorentino (a Firenze, Montale si era trasferito nel 1927), che contribuisce a sprovincializzare il poeta, distaccandolo dalle radici liguri e aprendolo alla cultura europea. Negli anni Trenta Firenze, come si è detto, era un centro culturale molto attivo, in cui confluivano scrittori e intellettuali che avrebbero segnato profondamente la cultura letteraria italiana del Novecento: da Gadda a Vittorini, dai poeti ermetici ai giovani narratori che diedero un contributo decisivo al futuro neorealismo, a grandi critici come Contini. Firenze rappresentava allora il centro di resistenza della tradizione umanistica, di una cultura laica e razionalistica contro la barbarie oppressiva del regime. Un ruolo decisivo, in tal senso, fu svolto da riviste come «Solaria», che si aprivano alla civiltà europea contrapponendosi alle tendenze autarchiche alimentate dal fascismo. La città toscana inoltre, essendo collocata ai margini delle trasformazioni economico-sociali che a Milano e Torino promuovevano la nascita dell’industria culturale, si configurava come uno spazio aristocratico in cui era possibile un distanziamento critico rispetto alla nascente società massificata (un aspetto, questo, a cui Montale fu particolarmente sensibile). La struttura La raccolta è organizzata secondo uno schema simile a quello di Ossi di seppia: anche in questo caso c’è un testo emblematico che fa da proemio alla raccolta (Il balcone), a cui seguono quattro sezioni: la principale è la seconda, denominata Mottetti (il termine in ambito musicale designa una composizione polifonica vocale o strumentale, variamente evolutasi nel corso dei secoli, in ambito letterario un componimento poetico breve di carattere eminentemente popolare). I Mottetti delle Occasioni constano di venti brevi liriche che presentano una forte coesione interna e una grande concentrazione lirica, analogamente alla sezione Ossi di seppia della prima raccolta.

248 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Il significato del titolo A eccezione delle ultimissime raccolte, Montale attribuisce sempre al titolo delle sue opere un valore allusivo profondo. In questo caso il suggestivo titolo scelto, Le occasioni (lo spunto è tratto da Goethe), allude a momenti rivelatori, fulminee illuminazioni che possono far balenare il senso della realtà, consentendo di sfuggire alle angustie del contingente. Nel nome di Clizia A partire dall’edizione mondadoriana del 1949, la raccolta è dedicata a Irma Brandeis, americana di origine ebraica, studiosa di Dante, che Montale conosce nel 1933 e con cui ha una relazione durata fino al 1939, quando la donna, in seguito al precipitare della situazione politica e alle persecuzioni antiebraiche, lascia l’Italia. A Irma Brandeis, celata dietro il nome-schermo di Clizia (ma il nome comparirà solo nella Bufera), sono ispirate molte poesie, in particolare dei Mottetti, che possono essere considerati una sorta di mini-canzoniere nel nome di Clizia (vi compaiono anche altre figure femminili, che però, in un certo senso, “prefigurano” Clizia). Una poesia più “oscura”: verso l’allegorismo Le liriche delle Occasioni non fanno più riferimento al paesaggio marino della Liguria, ma a un indeterminato paesaggio urbano, popolato da uomini-automi, uomini-ombre. Le scelte lessicali sono più alte rispetto agli Ossi di seppia, evitano in genere le dissonanze; sul piano metrico tendono a prevalere i metri della tradizione illustre. Ma ciò che colpisce il lettore è soprattutto il carattere “cifrato” della nuova poesia montaliana, sicuramente di più difficile lettura rispetto agli Ossi di seppia. L’oscurità delle Occasioni (che ha indotto in passato ad assimilare arbitrariamente Montale ai poeti ermetici) è il frutto di una precisa scelta del poeta, di cui già si è parlato: Montale imbocca in modo più deciso la strada di una poesia degli “oggetti” già anticipata negli Ossi di seppia, annullando qui deliberatamente ogni elemento commentativo-esplicativo relativo alla situazione (psicologica, spirituale, intellettuale) che sta dietro all’oggetto-emblema e ne costituisce in un certo senso l’antefatto. In questa scelta si avverte la consonanza con la poesia di Eliot, ma, ancor più, con l’allegorismo dantesco. Il tema del tempo e della memoria Nelle Occasioni è centrale la dimensione del tempo e della memoria. Non è certo irrilevante l’influenza di Bergson e soprattutto di Proust nella divaricazione fra tempo interiore, tempo della memoria e tempo spazializzato, che scandisce momenti sempre uguali in un ritmo monotono. Il primo, attraverso folgorazioni improvvise, discontinue e inaspettate, è capace di far rivivere momenti-chiave del passato. Per chi, come Montale, laicamente dubita dell’esistenza di una vita ultraterrena, l’unica forma di sopravvivenza è la memoria: il perdersi dei ricordi condanna l’uomo al “nulla”. Ma il ricordo è per natura labile e il trascorrere inesorabile e distruttivo del tempo può insidiare la memoria personale, allontanando come ne La casa dei doganieri (➜ T10b ) due persone che nel passato si sono incontrate: un’esperienza, un momento straordinario di vita comune non è più condivisibile, risulta a distanza di tempo irriconoscibile. Accorato è allora l’appello che il poeta rivolge al tempo in Non recidere, forbice, quel volto (➜ T10a ) perché gli risparmi almeno un volto caro, che rischia di perdersi nella «memoria che si sfolla». La figura della donna salvifica Associata spesso al tema della memoria è l’evocazione della figura femminile. Si tratta di figure indeterminate, come Arletta, Liuba, Dora Markus, di cui è stato segnalato il carattere di donne fuggitive, immagini evanescenti, destinate a dileguarsi, anche per le avversità della storia. La figura Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera 3 249


dominante nelle Occasioni, e poi nella Bufera, è però Irma Brandeis, che il poeta denominerà Clizia, con riferimento al mito ovidiano della ninfa innamorata di Apollo-Sole, che fu trasformata in girasole, il fiore che si volge costantemente a cercare la luce del sole. Clizia è per lo più assente, lontana (come le figure femminili della poesia trobadorica) e il poeta ne ricerca ansiosamente la presenza, che a volte inaspettatamente si annuncia o si manifesta (più che nella realtà nella mente del poeta, nell’improvviso balenare nella memoria di oggetti e luoghi che la evocano). A Clizia, Montale attribuisce valenze simboliche, connesse nelle Occasioni soprattutto alla chiaroveggenza, alla limpidezza razionale che consente di oltrepassare gli inganni della realtà fenomenica (da qui il costante riferimento al suo sguardo, fisso e luminoso). Ma a Clizia si connette simbolicamente anche il tema della salvezza dalla violenza, dal “buio” della storia grazie ai valori della civiltà, della cultura, a una poesia ispirata all’etica. L’“angelo visitatore” Come si è detto (➜ VOL 1A PAG. 345 VERSO IL NOVECENTO Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante») nell’elaborazione del mito di Clizia, che si manterrà nella Bufera, si avverte l’influenza dello stilnovismo, in particolare dantesco: anche Clizia, come Beatrice, è una sorta di donna-angelo: è Montale stesso ad aver usato in una lettera del 1961 l’espressione visiting angel (“angelo visitatore”) e in queste vesti è raffigurata Clizia, in particolare nella suggestiva lirica Ti libero la fronte dai ghiaccioli. Il poeta invoca e attende il suo soccorso mentre i più, gli uomini-ombra, ne ignorano la missione salvifica. online T9 Eugenio Montale

Ti libero la fronte dai ghiaccioli Le occasioni

Le occasioni EDIZIONI

nel 1939 Montale pubblica la prima edizione e poi nel 1940 la seconda edizione con 4 nuovi testi

TITOLO

fa riferimento a fulminee illuminazioni, che consentono di sfuggire alle angosce della vita

STRUTTURA

4 sezioni precedute da un testo che fa da proemio alla raccolta Il balcone. La seconda sezione è intitolata Mottetti

TEMI

• la dimensione del tempo e della memoria • il ricordo, la figura della donna salvifica, in particolare di Clizia (Irma Brandeis), a cui è connessa la salvezza dal “buio” della storia grazie ai valori della civiltà e della cultura

LINGUA E STILE

• lessico e stile alti • metro della tradizione • uso del correlativo oggettivo

250 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


T10

Il tema del tempo Presentiamo due tra le liriche più note delle Occasioni, dedicate entrambe al tema della memoria e del tempo, centrale nella raccolta.

Eugenio Montale

T10a

Non recidere, forbice, quel volto Le occasioni

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

La poesia, composta nel novembre 1937, fa parte dei Mottetti. Attraverso immagini simboliche viene evocata l’azione distruttiva del tempo, a cui la memoria non può opporsi. La poesia può essere messa a confronto con Cigola la carrucola negli Ossi di seppia, che ne anticipa il tema.

Non recidere, forbice1, quel volto, solo nella memoria che si sfolla2, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre3. 5

Un freddo cala... Duro il colpo svetta4. E l’acacia ferita da sé scrolla5 il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre6.

La metrica Due quartine composte cia-

2 solo... si sfolla: unico rimasto nella

scuna di tre endecasillabi e un settenario irregolarmente collocato (vv. 4 e 7). La disposizione delle rime, non regolare, collega le due strofe: ABAc, DbeC; imperfetta la rima tra sempre (v. 4) e Novembre (v. 8).

memoria che si va svuotando (si sfolla) dei ricordi. 3 non far... di sempre: non ridurre il volto di lei (grande perché ingigantito dal ricordo) a nebbia indistinta come avviene per gli altri miei ricordi. La specificazione di sempre rimanda a un’azione che si è ripetuta nel tempo. 4 Duro... svetta: il colpo (inferto presu-

1 forbice: simbolo-oggetto che allude all’azione del tempo.

mibilmente da un’accetta o da cesoie) colpisce l’albero d’acacia recidendone la cima. Ma svettare significa anche “ergersi”, “guizzare”, con riferimento allora alla lama sollevata in alto prima di colpire l’albero. 5 scrolla: fa cadere a terra. 6 nella prima... di Novembre: nella fanghiglia (belletta è termine dantesco, ma anche dannunziano) che si forma con le prime piogge autunnali.

Analisi del testo Il tema del tempo Tema della composizione è l’azione distruttiva del tempo: la memoria non ha il potere di conservare a lungo i ricordi. Il volto di persone che ci sono state care diventa sempre più sfocato fino a confondersi con altre immagini ormai perdute. L’invocazione del poeta perché almeno il volto della donna amata sia conservato alla sua memoria, come si deduce dalla seconda strofa, rimane inascoltata. Il tema del tempo è centrale nelle Occasioni, ma viene già anticipato negli Ossi di seppia: in particolare esistono evidenti analogie tra Non recidere, forbice, quel volto e Cigola la carrucola. Si tratta di un tema prettamente novecentesco, un vero e proprio filo rosso che attraversa la letteratura europea da Proust, alla Woolf, a Pirandello e Svevo, solo per citare alcuni esempi celebri.

La struttura e l’articolazione simbolica La lirica è articolata in due strofe strettamente correlate sul piano simbolico. La prima è strutturata come una invocazione-deprecazione (affidata ai due imperativi negativi) dell’io lirico al tempo perché risparmi dalla sua azione distruttiva almeno un volto: quello che ancora, vivido, sopravvive nella nebbia dei ricordi ormai evanescenti del poeta. Il tempo è simboleggiato, con evidente connotazione negativa, dalla forbice (che potrebbe richiamare indirettamente l’azione di tagliare, per poi eliminare, le vecchie fotografie).

Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera 3 251


La seconda quartina è a prima vista di carattere denotativo, mentre in realtà è fondata su un più ardito simbolismo. Il legame con la prima è evidente, costituendo la seconda quasi una risposta (negativa) del tempo alla supplica del poeta: come il tempo distrugge ogni immagine del passato sottraendola al poeta, così un colpo forse d’ascia (o di cesoie) inesorabilmente colpisce il ramo di un’acacia; la parte tagliata, poi, trascina con sé il guscio seccato di una cicala che cade nella fanghiglia creata dalle piogge autunnali. Come l’acacia, anche il poeta è ferito (dalla luttuosa perdita del ricordo). Più sottile l’equivalenza tra il guscio di cicala, elemento residuale di qualcosa che è stato vivo (la cicala appunto), e il ricordo di una vita felice ormai passata.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del componimento e poi indica il tema centrale. COMPRENSIONE 2. Quale ricordo il poeta teme di perdere? 3. Che cosa cade dall’albero colpito dall’accetta? Cosa simboleggia? ANALISI 4. Soprattutto la seconda strofa utilizza la poetica del correlativo oggettivo. Spiega in cosa consiste. LESSICO 5. Indica il significato simbolico di questi termini: forbice, nebbia, il colpo, l’acacia ferita, il guscio di cicala.

Interpretare

Collabora all’analisi

T10b

TESTI A CONFRONTO 6. Istituisci un confronto con Cigola la carrucola e con La casa dei doganieri, rilevando analogie e differenze sul piano sia dei contenuti sia della forma (max 15 righe).

Eugenio Montale

La casa dei doganieri Le occasioni

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Pubblicata già nel 1930, la lirica è una delle più antiche delle Occasioni e fa riferimento al paesaggio proprio degli Ossi di seppia: la casa dei doganieri del titolo è una postazione delle Guardia di finanza situata a Monterosso, lungo la costa, già in rovina quando il poeta trascorreva le vacanze nella casa dei suoi familiari. La fanciulla a cui il poeta si rivolge è una figura evanescente, appartenente al passato, forse morta giovane, identificabile con Anna degli Uberti (Annetta-Arletta nella poesia montaliana), una ragazza conosciuta dal poeta durante la giovinezza, qui evocata come irreparabilmente lontana (nella morte o piuttosto per il tempo passato da allora).

Tu non ricordi la casa dei doganieri1 sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri 5 e vi sostò irrequieto2. La metrica Quattro strofe alternate di cinque e sei versi, endecasillabi o, più spesso, ipermetri risultanti dalla associazione di due versi più brevi (ad esempio settenario + quinario al v. 2). Varia la distribuzione delle rime.

1 la casa dei doganieri: la casa in cui vivevano gli addetti al controllo della dogana. 2 lo sciame... irrequieto: la ragazza a cui il poeta si rivolge, anziché attraverso un ritratto fisico, è presentata attraverso la mobilità inquieta dei suoi pensieri. Anche

252 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

di Dora Markus il poeta scrive: «La tua irrequietudine mi fa pensare / agli uccelli di passo...».


Libeccio3 sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è più lieto: la bussola va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi più non torna4. 10 Tu non ricordi: altro tempo frastorna la tua memoria5: un filo s’addipana6.

La casa dei doganieri a Monterosso (in secondo piano, al centro della foto).

Ne tengo ancora un capo7; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà8. Ne tengo un capo; ma tu resti sola 15 né qui respiri nell’oscurità9. Oh l’orizzonte in fuga10, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui?11 (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende...). 20 Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta12. 3 Libeccio: vento di sud-ovest. 4 la bussola... non torna: la bussola, come impazzita, si muove in modo caotico (non indica più il nord) e la somma dei punti dei dadi non è esatta. La bussola e i dadi sono correlativi oggettivi rispettivamente dello smarrimento dovuto al rarefarsi inesorabile del passato e dell’impossibilità di fare calcoli o previsioni sul futuro. 5 altro tempo... la tua memoria: esperienze di vita diverse che si sono succedute nella vita della ragazza confondono i suoi ricordi del passato. 6 un filo s’addipana: un filo si aggomitola avvolgendosi su sé stesso. Il riferimento della metafora è alla memoria. 7 Ne tengo... un capo: in senso metaforico significa che il poeta riesce ancora a trattenere qualche ricordo con la forza della memoria.

8 ma s’allontana... senza pietà: ma il ricordo della casa dei doganieri diventa sempre più labile. Il concetto è affidato al simbolooggetto della banderuola annerita dal fumo del camino (affumicata) che gira senza sosta (ma l’espressione senza pietà aggiunge una connotazione ben più forte). 9 ma tu... nell’oscurità: ma tu sei inesorabilmente lontana. 10 Oh... in fuga: è l’orizzonte marino che si vede lontano. L’immagine simbolica del mare come liberazione rimanda agli Ossi di seppia. 11 Il varco è qui?: la luce della petroliera è immagine simbolica della possibilità di una fuga dal destino, analoga alla “maglia rotta” nella rete. Ma la possibilità della salvezza è quasi smentita dall’immagine che segue, in cui il costante ritorno dell’onda sulla riva scoscesa è simbolo dell’iteratività monotona della vita.

12 Ed io... chi resta: espressione enigmatica, di dubbio significato. «Montale ha voluto così restringere il significato della chiusa: “la fanciulla in questione [...] andò verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo. Io restai e resto ancora. Non si sa chi abbia fatto la scelta migliore. Ma verosimilmente non vi fu scelta” (Montale, Varianti). In realtà, è una clausola gnomica [sentenziosa] che va al di là della situazione concreta e allude all’incertezza dei destini (“chi va” potrebbe avere trovato “il varco”, l’accesso a una dimensione libera dalla necessità, mentre “chi resta” potrebbe essere rimasto al di qua, nella prigione dell’esistenza)» (T. de Rogatis).

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Lo spunto occasionale della poesia (in un certo senso l’“occasione” a cui allude il titolo della raccolta di cui fa parte) può essere stato un ritorno del poeta a Monterosso e la visita alla casa dei doganieri sulla scogliera, sferzata dal vento e ormai da anni in rovina. Alla casa si associa il ricordo di una ragazza, a cui il poeta si rivolge nel corso della lirica. 1. Qual è il tema centrale della poesia? a. L’amore b. Il rimpianto per la giovinezza trascorsa c. La nostalgia delle estati a Monterosso d. Il tempo 2. La ragazza di cui si parla è un’invenzione tutta letteraria o rimanda a una figura realmente conosciuta dal poeta?

Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera 3 253


3. Attraverso quale elemento della sua personalità viene ritratta? 4. Quale ruolo svolge nella poesia? Filo conduttore della lirica è la ripetizione del sintagma «Tu non ricordi» riferito alla donna. Mentre il poeta cerca di riportare in vita le emozioni legate ai momenti passati che lo accomunano alla figura femminile e alla casa dei doganieri («Ne tengo ancora un capo [...] / Ne tengo un capo»), altre esperienze hanno distrutto nella donna, così il poeta immagina, i ricordi legati al luogo affascinante evocato nella poesia e a un tempo per lei ormai “altro” («altro tempo frastorna / la tua memoria»). Il trascorrere distruttivo del tempo ha irreparabilmente allontanato i due e il poeta vive uno smarrimento totale, sentendosi privo di ogni punto di riferimento. 5. Identifica le parole chiave della lirica. 6. All’inizio e alla fine della lirica (vv. 3 e 22) si fa riferimento alla sera. Quale significato riveste il fatto che alla fine Montale parli di mia sera? Presuppone una sorta di percorso? La lirica si fonda su una visione palesemente pessimistica: il corso del tempo trasforma radicalmente le persone («il suono del tuo riso non è più lieto») e rende impossibile re-incontrarsi a distanza di anni, i momenti felici sono irrecuperabili: è significativo l’uso del passato remoto che isola nel continuum della memoria il momento specifico, appunto irripetibile, in cui la giovane donna era entrata nella casa («v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto»). Al passato remoto si contrappone per tutta la lirica il tempo presente: tempo della riflessione e dell’amara constatazione della frattura passato/presente. 7. La lirica è tramata da negazioni: individuale e valutane il significato in rapporto allo svolgimento tematico della lirica. 8. Quale funzione rivestono le due avversative ai vv. 12 e 16? In questa lirica è particolarmente accentuato l’uso di immagini-emblema a cui è affidato il messaggio fondamentale del testo e per le quali si è parlato di “correlativo oggettivo”. 9. Indica il significato simbolico delle seguenti immagini: la casa dei doganieri ............................................................................................................................................................ la bussola impazzita ............................................................................................................................................................. il filo che s’addipana ............................................................................................................................................................ la banderuola che gira senza pietà .............................................................................................................................. Nell’ultima parte della lirica Montale introduce il motivo, già presente in Ossi di seppia, del varco, ovvero la possibilità di sfuggire al rigido meccanismo del reale e, in questo caso, di sconfiggere la distruttiva azione del tempo. Ma si tratta solo di una momentanea speranza che appare subito negata, come la chiusa della poesia sembra dimostrare. 10. A quale immagine simbolica Montale affida qui il tema della fuga, del varco? 11. Quale significato riveste, in rapporto al balenare della salvezza, il riferimento al monotono movimento delle onde che si infrangono sulla scogliera?

Interpretare

L’incipit della poesia, poi ripreso in anafora successivamente, è molto probabilmente un’eco della celebre canzone leopardiana A Silvia: «Silvia, rimembri ancora...». Anche in quel caso è trattato il tema del ricordo, attraverso la mediazione di una figura femminile “assente”. È stato detto che la lirica montaliana può considerarsi una sorta di rovesciamento della poesia leopardiana. 12. Istituisci un confronto tra La casa dei doganieri e A Silvia, evidenziando le consonanze e le divergenze tra i due testi, con particolare riferimento al tema del ricordo.

254 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


T11

La figura salvifica della donna-messaggera Il poeta ricerca con grande affanno la presenza della donna che a volte si palesa attraverso il ricordo del poeta (➜ T11a ), altre volte per mezzo di un oggetto che ne annuncia l'arrivo o attraverso la presenza della stessa in un paesaggio indeterminato (➜ T11b ).

T11a

Eugenio Montale

La speranza di pure rivederti Mottetti E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Datata 1937, la lirica fa parte dei Mottetti e si riferisce al tema ricorrente dell’“assenza” di Clizia. Della donna, il poeta ricerca ansiosamente (ma con scarsa speranza), nella frastornante realtà sensibile, una traccia, un segno, un “barlume”. E forse lo ritrova momentaneamente nel ricordo lontano di una strana apparizione (a cui fanno riferimento gli ultimi tre versi tra parentesi).

La speranza di pure1 rivederti m’abbandonava; e mi chiesi se questo2 che mi chiude ogni senso di te, schermo d’immagini, 5 ha i segni della morte3 o dal passato è in esso, ma distorto e fatto labile, un tuo barbaglio4: (a Modena, tra i portici, un servo gallonato trascinava 10 due sciacalli al guinzaglio).

La metrica Tre strofe di ampiezza diversa e di vari versi, con assonanze e consonanze. 1 pure: ancora. 2 questo: si collega per iperbato a schermo d’immagini. L’espressione ricorda Forse un mattino andando (➜ T5 ) e, come

in quel caso, si riferisce alla realtà fenomenica, per Montale illusoria, che sottrae al poeta la percezione della donna amata («che mi chiude / ogni senso di te»). 3 ha i segni della morte: reca in sé gli indizi di una definitiva lontananza della donna.

4 o dal passato... un tuo barbaglio: oppure se invece brilla in esso dal passato un barlume della tua presenza, anche se deformato e fuggevole.

Analisi del testo L’autocommento di Montale In un articolo sul «Corriere della Sera» (16 febbraio 1950), Due sciacalli al guinzaglio, Montale ha rivelato alcuni dettagli importanti per capire questo mottetto. Lo scrittore spiega l’occasione che dà origine all’immagine ermetica che chiude la lirica: parlando di sé stesso attraverso uno pseudonimo (Mirco), racconta di una scena singolare che gli capitò di vedere a Modena e che in qualche modo gli parve un “segno” di Clizia; rievoca poi il momento in cui la poesia La speranza di pure rivederti affiorò alla sua mente e ci informa sulle ragioni profonde di una correzione al testo effettuata quasi contemporaneamente alla sua ideazione. «Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo “pensiero dominante” [l’espressione, leopardiana, allude all’amore e al pensiero di Clizia], stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire

Le occasioni: il tempo, la memoria, il mito della donna-messaggera 3 255


a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti né bassotti né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: “Che cani sono questi?”. E il vecchio, secco e orgoglioso: “Non sono cani, sono siacalli” (così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia). Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine? Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: “La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio”. S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: “(a Modena, tra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)”. Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano». I portici di Piazza Roma a Modena.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del componimento e indica il tema centrale. SINTESI 2. Sintetizza con parole tue il racconto fatto da Montale e spiegane il significato in rapporto al contenuto della lirica. COMPRENSIONE 3. In che cosa consiste la perdita di speranza di cui parla il poeta all’inizio della poesia? ANALISI 4. In che senso gli ultimi tre versi costituiscono un esempio dei sette che li precedono? 5. Individua la presenza di correlativi oggettivi.

Interpretare

SCRITTURA 6. Tratta sinteticamente (max 20 righe) il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti ai testi studiati: “La figura salvifica di Clizia nella poetica montaliana”.

online T11b Eugenio Montale

Ecco il segno; s’innerva Mottetti

256 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

online T11c Eugenio Montale

Nuove stanze Le occasioni

online

Interpretazioni critiche Giorgio Zampa Montale e i giovani degli anni Trenta e Quaranta


4 La bufera e altro e la prosa 1 La bufera e altro La terza raccolta La bufera è la terza raccolta di Montale, pubblicata nel 1956-1957, che il poeta considerava il suo libro migliore. Le poesie, composte in un ampio arco di tempo (1940-1954), sono distribuite in sette sezioni titolate: Finisterre, Dopo, Intermezzo, “Flashes” e dediche, Silvae, Madrigali privati e Conclusioni provvisorie (costituita da due soli testi: Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero). Da Finisterre alla Bufera Il nucleo originario della raccolta è costituito da Finisterre, 15 poesie composte tra il 1940 e il 1942: Finisterre è la punta estrema della Bretagna che si protende sull’Atlantico, ma il termine è anche allusivo alla “fine del mondo” portata dalla guerra. In Finisterre, che si collega strettamente alle ultime poesie delle Occasioni, centrale è la figura salvifica di Clizia in rapporto, appunto, alla catastrofe bellica. La prima delle poesie, La bufera, reca in epigrafe alcuni versi del poeta francese cinque-seicentesco Agrippa d’Aubigné («I principi non hanno occhi per vedere queste meraviglie, / le loro mani servono solo a perseguitarci...»). In ragione proprio di questi versi, che potevano sembrare allusivi alla dittatura fascista, la pubblicazione in Italia non sarebbe stata possibile. L’amico Contini portò quindi clandestinamente il manoscritto in Svizzera, a Lugano, dove la mini-raccolta fu pubblicata nel giugno 1943. Nel 1956 Finisterre divenne la prima sezione della nuova raccolta La bufera e altro, che deriva il titolo dal componimento d’apertura (La bufera) di Finisterre. Varietà tematica e divenire storico e personale Rispetto alle Occasioni il terzo libro montaliano è senz’altro più complesso e composito, anche perché i testi che vi sono confluiti sono stati composti nel corso di una quindicina di anni. Anni in cui, sul piano storico si succedono eventi epocali e rilevanti mutamenti socio-politici: la tragedia della guerra innanzitutto, la Resistenza, le difficoltà e le delusioni del dopoguerra, la minaccia di un nuovo conflitto, ancora più pericoloso, prospettata dalla Guerra Fredda. Agli avvenimenti storico-politici si sovrappongono quelli della storia personale del poeta: la morte dell’amata madre nel 1942, il trasferimento a Milano nel 1948 e l’inizio del lavoro giornalistico, la lontananza ormai definitiva di Irma-Clizia, il rapporto “matrimoniale” con Drusilla Tanzi e un nuovo legame intellettuale e sentimentale con la poetessa Maria Luisa Spaziani (denominata Volpe nella poesia di Montale). Questo insieme di esperienze, storiche e di vita, spiega la maggiore varietà tematica di questo libro. Un titolo allusivo Il titolo-emblema, come sempre accuratamente scelto da Montale, fa riferimento innanzitutto all’orrore della guerra. Ma la «bufera» è da intendersi, come Montale stesso suggerì, in un senso più ampio: la guerra, nella sua tangibile tragedia, è manifestazione di un Male più generale che da sempre affligge l’uomo: il non senso della realtà, la sua indecifrabilità. Indubbiamente, però, in questa raccolta, in particolare in alcune poesie, come Primavera hitleriana (➜ T13 ) o Il sogno del prigioniero, o ancora lo stesso Piccolo testamento (➜ T15 ), in cui il poeta prende le La bufera e altro e la prosa 4 257


distanze dagli schieramenti ideologici del dopoguerra, i riferimenti storico-politici sono più manifesti che in altre raccolte. Montale si confronta qui in modo più diretto con il proprio tempo: nella Bufera, come lui stesso dichiara, «è vivo il riflesso della mia condizione storica, della mia attualità di uomo».

online

Interpretazioni critiche Enrico Testa, I volti di Clizia ne La bufera

Metamorfosi della figura femminile. Clizia vs Volpe Nella Bufera, in particolare in Finisterre e poi in Silvae, ricompare la figura della donna salvifica, in un rapporto di continuità evidente con alcune poesie delle Occasioni (come Ti libero la fronte dai ghiaccioli o Nuove stanze ➜ T12c OL, vicinissima cronologicamente ai primi testi di Finisterre). Nella Bufera la donna si fa sempre più lontana dall’umano e assume caratteri espressamente religiosi, almeno in alcuni casi (Iride, Primavera hitleriana). Il suo ruolo salvifico non riguarda ormai solo il poeta, ma l’intera umanità: la realizzazione della missione di Clizia tra gli uomini, ormai “figura” di Cristo, passa attraverso il sacrificio, l’annullamento di sé nell’amore di Dio. È bene però sottolineare che i valori connessi alla figura di Clizia e l’interpretazione di questa figura sono complessi, non riducibili a facili schematismi, anche in rapporto con altre figure femminili che emergono nell’opera: in particolare quella della donna la cui identità Montale cela dietro il nome di Volpe (la poetessa Maria Luisa Spaziani), che rimanda a un amore non platonico ma sensuale e terreno (a Volpe sono dedicati i Madrigali privati).

Il tema “privato” dei morti L’accentuarsi della visione pessimistica di Montale sulla possibilità che sul piano storico-politico possa essere sconfitto il male di vivere, la disillusione riguardo al presente, inducono il poeta a rievocare in questa raccolta, in una serie di suggestive liriche (A mia madre, Voce giunta con le folaghe, L’arca), figure di morti a lui cari (la madre, il padre) che appartengono al suo passato personale. Appartenenti a una sorta di aldilà pagano, i morti ritornano sui luoghi a loro cari e online nella memoria del poeta, a volte – come nel caso di Voce giunT12 Eugenio Montale ta con le folaghe – accompagnati proprio da Clizia (“l’ombra fiLa frangia dei capelli La bufera data”), ormai legata a sua volta a un mondo lontano e “altro”.

La bufera e altro EDIZIONI

nel 1956-1957 Montale pubblica la prima edizione

TITOLO

fa riferimento innanzitutto all’orrore della guerra

STRUTTURA

7 sezioni

TEMI

• il non senso della realtà • gli eventi storici epocali: la tragedia della guerra, la Resistenza, le difficoltà e le delusioni del dopoguerra, la minaccia di un nuovo conflitto • la figura della donna salvifica nei confronti dell’intera umanità • le figure di morti cari al poeta

LINGUA E STILE

alternanza di registri alti e bassi, che producono disarmonia legata alla realtà tragica di cui parla

258 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T13

La primavera hitleriana La bufera

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

La poesia, composta a più riprese tra il 1939 e il 1946, appartiene alla sezione Silvae della raccolta La bufera. Prende spunto dall’incontro tra Hitler e Mussolini avvenuto a Firenze nel maggio del 1938 (fatto sotteso anche a Nuove stanze, nelle Occasioni). All’incontro, Montale fa riferimento come a un evento apocalittico, «infernale», consapevole che l’alleanza tra i due dittatori avrebbe presto insanguinato il mondo. Ma il poeta non rinuncia alla speranza di una salvezza-redenzione, che affida alla figura di Clizia, qui presentata in termini espressamente religiosi e cristologici.

Né quella ch’a veder lo sol si gira... Dante (?) a Giovanni Quirini1 Folta la nuvola bianca delle falene impazzite turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette, stende a terra una coltre su cui scricchia come su zucchero il piede2; l’estate imminente sprigiona 5 ora il gelo notturno che capiva nelle cave segrete della stagione morta, negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai3. Da poco sul corso è passato a volo4 un messo infernale5 tra un alalà6 di scherani7, un golfo mistico acceso 10 e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito8, si sono chiuse le vetrine9, povere e inoffensive benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra10, ha sprangato il beccaio11 che infiorava 15 di bacche il muso dei capretti uccisi12, la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue13 s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate, La metrica Tre strofe di diversa ampiezza, composte da versi di misura diseguale.

1 Né quella... si gira...: l’epigrafe è tratta da un sonetto attribuito a Dante e indirizzato a Giovanni Quirini, un poeta del Trecento. Si riferisce a Clizia, che nella mitologia era stata trasformata da Apollo in girasole. 2 Folta... il piede: La nuvola di bianche farfalle notturne (le falene) come impazzite turbina intorno ai pallidi fanali e sugli argini (spallette) dell’Arno e precipitando a terra forma una coltre che scricchiola sotto i piedi come se si calpestasse zucchero. Alcuni interpreti hanno visto nell’immagine apparentemente realistica una trasposizione del turbinìo dei volantini di propaganda lanciati dagli aerei e inneggianti allo storico incontro tra Hitler e Mussolini. 3 l’estate... renai: l’estate ormai vicina (l’incontro si svolse in maggio) sprigiona ora

il gelo notturno che era racchiuso (capiva: latinismo da capere, contenere, qui usato in forma intransitiva) nei nascondigli segreti dell’inverno, negli orti che da Maiano si estendono a queste sponde sabbiose (renai). Maiano è una località a nord-est di Firenze. 4 a volo: velocemente. 5 un messo infernale: si tratta di Hitler. L’espressione può ricordare l’ombroso Lucifero di Piccolo testamento (➜ T15 ). 6 alalà: il saluto fascista usato già da D’Annunzio, che riprendeva il grido di vittoria dei Greci. 7 scherani: letteralmente “sicari”, qui usato per definire i militi fascisti. 8 un golfo mistico... inghiottito: un teatro splendente di luci (il golfo mistico è propriamente lo spazio riservato all’orchestra) e decorato di svastiche lo ha accolto e come fagocitato (inghiottito). Effettivamente l’incontro tra Hitler e Mus-

solini si concluse con una serata di gala al Teatro Comunale di Firenze. 9 si sono chiuse le vetrine: i negozi hanno chiuso in segno di festa. 10 benché... di guerra: si allude allo spirito militarista che caratterizzava anche gli umili bottegai. 11 il beccaio: il macellaio. 12 che infiorava... uccisi: che ornava di bacche il muso dei capretti macellati. Nell’immagine patetica dei capretti si rispecchiano i prossimi massacri della guerra, che i bottegai non riescono a immaginare. 13 la sagra... il sangue: la festa dei negozianti, carnefici a loro volta anche se apparentemente miti (perché festeggiano i dittatori anziché ribellarsi ad essi e diventano quindi corresponsabili delle loro carneficine).

La bufera e altro e la prosa 4 259


di larve sulle golene14, e l’acqua séguita a rodere le sponde15 e più nessuno è incolpevole. Tutto per nulla, dunque?16 – e le candele romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii forti come un battesimo nella lugubre attesa dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando 25 sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi gli angeli di Tobia, i sette, la semina dell’avvenire) e gli eliotropi nati dalle tue mani – tutto arso e succhiato da un polline che stride come il fuoco e ha punte di sinibbio...17 30 Oh la piagata primavera è pur festa se raggela in morte questa morte18! Guarda ancora19 in alto, Clizia, è la tua sorte, tu che il non mutato amor mutata serbi20, 35 fino a che il cieco sole che in te porti si abbàcini nell’Altro e si distrugga in Lui, per tutti21. Forse le sirene, i rintocchi che salutano i mostri nella sera della loro tregenda, si confondono già 40 col suono che slegato dal cielo, scende, vince – col respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci, bianca ma senz’ali di raccapriccio, ai greti arsi del sud...22 20

14 sozzo... golene: immonda danza (il trescone è propriamente un ballo contadino) di ali schiantate, di insetti (larve) caduti sugli argini (golene) dell’Arno. Nell’Inferno (XIV, vv. 40-41), Dante utilizza il termine tresca come sinonimo di un ballo veloce: «Senza riposo mai era la tresca / delle misere mani». Viene ripresa l’immagine iniziale, a simboleggiare qui apertamente il male. 15 l’acqua... le sponde: l’immagine allude allo scorrere indifferente del tempo che cancella colpe e misfatti. 16 Tutto... dunque?: il poeta si chiede se non siano serviti a nulla i tentativi di arginare la barbarie. Il lungo elenco che segue ai vv. 20-28 allude simbolicamente a fatti ed elementi del rapporto tra il poeta e Clizia e, indirettamente, al significato salvifico della sua presenza, che sembra ora vanificato. 17 le candele... di sinibbio: i fuochi d’artificio che nel giorno di san Giovanni (patrono di Firenze) illuminavano lentamente l’orizzonte, e le promesse nel momento dell’addio, scambiate con Clizia che tornava in patria, forti come un rito battesimale; e i girasoli (eliotropi), suo emblema,

mentre si attendeva l’orda delle armate tedesche. Tutto è stato inaridito e vanificato (arso e succhiato) da una neve (polline, si riferisce alla nuvola delle falene nominata all’inizio) che stride come il fuoco e insieme raggela (il sinibbio è un vento freddo del nord). L’ermetico riferimento tra parentesi che interrompe la sequenza (vv. 24-26) sembra alludere, attraverso un immaginoso linguaggio profetico di ascendenza biblica, alla speranza: “ma una stella cadente (il giorno della partenza della donna) attraversò il cielo (rigò l’aria) facendo cadere a poco a poco (stillando) sulle tue terre gelate (allusione all’America del Nord) i sette angeli accompagnatori di Tobia, semi di un bene futuro (la semina dell’avvenire). 18 Oh la piagata... questa morte!: Oh, questa primavera ferita (dalla tragedia storica in atto) è ugualmente (pur) festosa, se riesce a bloccare nel gelo della morte la morte (portata dal messo infernale). 19 Guarda ancora... : nell’ultima parte della poesia Montale si rivolge a Clizia, non solo investita di una missione salvifica,

260 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale

ma presentata in chiave espressamente religiosa come strumento di Dio. 20 tu che... serbi: citazione tratta dallo stesso sonetto dell’epigrafe in cui si allude alla metamorfosi di Clizia in girasole; pur essendo mutata, la ninfa Clizia conserva il suo amore per il sole. Anche la donna amata dal poeta è ormai trasfigurata, ma mantiene il suo amore. 21 fino a che... per tutti: fino a che la luce che porti nascosta dentro di te (il cieco sole) sia abbacinata dalla luce di Dio e si annulli in Lui per il bene di tutti. 22 Forse... del sud: la poesia si chiude con un’immagine trionfante che rappresenta la vittoria del Bene sul Male, non data per certa (Forse...), ma auspicata: lo scampanio proveniente dal cielo vince il suono delle sirene e delle campane che avevano accompagnato i nazi-fascisti (i mostri) nella sera della loro infernale adunata (tregenda). Un’alba (simbolo, già dantesco, di rinascita) si ripresenterà, chiara e purificatrice per l’Italia (del sud, rispetto ai paesi del Nord dove è andata Clizia) che non avrà più i tratti orridi della nebbia bianca di falene.


Analisi del testo Una struttura oppositiva La lirica, tra le più note della Bufera, è divisa di tre strofe di cui la terza (in particolare nella seconda parte) si pone in antitesi alle prime due.

La prima strofa La poesia si apre con un’immagine apparentemente paesaggistica: in una sera fiorentina le farfalle crepuscolari volano come impazzite attorno ai fanali e precipitano a terra, dove formano una coltre che scricchiola sotto i piedi di chi passa. È quasi estate ma fa freddo, come se il gelo, che si immagina tenuto chiuso nell’inverno in zone a nord di Firenze, si sprigionasse improvvisamente. L’allucinata descrizione assume, alla luce di quanto segue, un valore simbolico: la nube bianca di farfalle impazzite, schiacciate con un suono rabbrividente, costituisce un “correlato oggettivo” che allude alla morte e all’orrore, anticipando l’infernale descrizione dell’arrivo di Hitler a Firenze. Il gelo a primavera, sovvertimento di ogni legge e ritmo naturale, diventa a sua volta “figura” del caos storico, dell’oltraggio alla vita che la barbarie nazista produce.

La seconda strofa

Hitler e Mussolini a Firenze (9 maggio 1938).

Irrompe nella lirica la Storia, con una durezza di toni e un’evidenza non consuete in Montale. Il poeta rappresenta con toni apocalittici l’arrivo di Hitler (un messo infernale) a Firenze, fra l’entusiastico omaggio delle milizie fasciste (apostrofati con il termine scherani, cioè “sicari”) e la trepida accettazione della gente comune: se verso il dittatore e i suoi simili lo scrittore ha parole di sdegno violento, non risparmia d’altra parte un duro giudizio («e più nessuno è incolpevole») su quelli che, come i bottegai di Firenze, lo accolgono e chiudono i negozi in segno di festa, inconsapevoli del sangue che sarebbe stato versato ben presto e carnefici, per quanto miti, a loro volta, come dimostra la straziante esibizione dei piccoli capretti uccisi con il muso decorato di bacche.

La bufera e altro e la prosa 4 261


La terza strofa Il vibrante atto di accusa del poeta è interrotto da una domanda che apre la terza strofa, introducendo una nota riflessiva: viene ora introdotta la figura di Clizia attraverso una serie di elementi simbolici che alludono a momenti della sua storia con il poeta e in particolare alla sua partenza. Il poeta si chiede, sconfortato, se è stato inutile, insignificante – di fronte alla tragedia storica, all’apparente trionfo del male – il pegno d’amore lasciatogli da Clizia che partiva, la luce che essa rappresenta. La seconda parte della strofa smentirà il pessimismo del poeta, ma già ai vv. 24-26 alla donna è associata, attraverso una sorta di profezia, la rinascita del bene. Questa sezione è dominata dalla figura di Clizia, ormai lontana dal poeta ma investita di un trionfale ruolo salvifico nei confronti dell’intera umanità: un ruolo che si può realizzare solo annullandosi nell’amore di Dio, facendosene strumento fino al sacrificio di sé: in questo senso Clizia appare qui “figura” di Cristo stesso. Montale sembra aprirsi, forse sulla base della suggestione di Dante, poeta molto amato, a una dimensione cristiana, che tende a fare di Clizia una sorta di novella Beatrice.

Le scelte stilistico-linguistiche L’evento storico dell’arrivo di Hitler a Firenze è rappresentato con scelte lessicali e foniche da cui traspare il netto giudizio del poeta, il suo inorridito sgomento. I termini utilizzati per Hitler, i nazisti e i fascisti che li sostengono rimandano a una dimensione diabolica e criminale (infernale, scherani, orda, i mostri, tregenda); molto marcata è la presenza di suoni aspri e sibilanti (scricchia, sozzo trescone, schiantate, arso, succiato, stride, sinibbio). Alto, quasi profetico, anche per i riferimenti lessicali e iconografici biblici, è il tono poetico impiegato in riferimento a Clizia e all’immagine della luce ad essa associata, che diventa trionfale negli ultimi versi, rimandanti a una dantesca alba di resurrezione, opposta alla luce sinistra delle falene impazzite che apre la lirica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della poesia spiegandone il titolo. COMPRENSIONE 2. A quale evento storico si riferisce la poesia? 3. Cosa chiede il poeta a Clizia nell’ultima parte e cosa si attende da lei? 4. Quale significato simbolico si può attribuire alla scena iniziale? ANALISI 5. Individua le parti in cui la poesia si può dividere, dando un titolo a ognuna. Quale nesso esiste tra le parti? 6. Perché il poeta asserisce che «più nessuno è incolpevole»? 7. Nella poesia si può individuare la tecnica del “correlativo oggettivo”: fai qualche esempio. LESSICO 8. Per il lessico della poesia si è parlato di plurilinguismo: sai spiegare perché STILE 9. Evidenzia come la struttura della poesia sia costruita sull’antitesi e insieme sulla circolarità.?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 10. Montale si confronta qui particolarmente con la storia di quegli anni, con la quale fa interagire la figura chiave della propria vita e della propria poesia: Clizia. In un testo argomentativo evidenzia la visione che il poeta ha degli eventi e delle figure del tempo storico e spiega il senso dell’intervento della figura femminile salvifica su di esso.

262 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T14

L’anguilla La bufera

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

La lirica, composta nel 1948, è stata collocata da Montale, certamente non a caso, al termine della sezione Silvae, la più complessa de La bufera. Si tratta di una delle poesie più note di Montale, nonostante la difficoltà per il lettore di decifrarne i molteplici significati simbolici. È dedicata, come indica il titolo stesso, all’anguilla, di cui viene rappresentato l’itinerario che la porta da remote località del Nord a cercare nei nostri fiumi le condizioni adatte alla riproduzione.

L’anguilla, la sirena1 dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, ai nostri estuari, ai fiumi 5 che risale in profondo, sotto la piena avversa, di ramo in ramo e poi di capello in capello, assottigliati2, sempre più addentro, sempre più nel cuore del macigno3, filtrando 10 tra gorielli di melma4 finché un giorno una luce scoccata dai castagni ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta5, nei fossi che declinano dai balzi d’Appennino alla Romagna6; 15 l’anguilla, torcia, frusta, freccia d’Amore in terra che solo i nostri botri o i disseccati ruscelli pirenaici riconducono a paradisi di fecondazione7; 20 l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione8, la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare La metrica Unica strofa di 30 versi con

3 sempre più addentro… del macigno:

prevalenza di endecasillabi e settenari.

penetrando sempre più all’interno (cuore) della roccia (macigno). 4 filtrando… di melma: infiltrandosi tra i rigagnoli (goriello rigagnolo, termine, dialettale toscano) di fango (melma). 5 finché un giorno… d’acquamorta: finché un giorno un raggio di sole, lanciato come una freccia (scoccata), filtrando tra le foglie dei castagni, illumina (ne accende) il guizzo dell’anguilla in pozze di acqua stagnante (d’acquamorta). 6 nei fossi… alla Romagna: nei fossati che scendono dai rilievi (balzi) dell’Appennino verso la Romagna. 7 l’anguilla... fecondazione: Si apre la seconda parte del testo con una serie di

1 L’anguilla, la sirena: Sirena, creatura metà pesce e metà donna; sin dall’inizio della lirica, si propone un collegamento tra l’animale e Clizia, la donna simbolo della poesia 2 dei mari freddi… assottigliati: In primavera, dai mari baltici, l’anguilla scende verso i mari mediterranei (in realtà l’anguilla vive nelle acque calde), risale controcorrente i fiumi in piena, gli affluenti (ramo in ramo) fino a raggiungere i corsi (di capello in capello) più piccoli e poveri di acqua (assotigliati).

apposizioni che definiscono l’anguilla: torcia, frusta e freccia; si riferiscono sia alla forma allungata, all’andamento guizzante e serpeggiante (frusta), sia al carattere vitale e alla spinta riproduttiva (torcia e freccia) che la assimilano al dio Amore. L’anguilla, torcia, frusta e freccia d’Amore in terra che solo i fossi (botri, termine toscano) italiani (nostri) o i ruscelli poveri d’acqua (disseccati) dei Pirenei riportano ai piaceri (paradisi) dell’accoppiamento. 8 l’anima verde… la desolazione: l’anima verde (l’anguilla, cui viene attribuito un carattere umano, l’anima; verde, il colore dell’animale, ma anche simbolicamente la speranza) che cerca la vita là dove regnano solo aridità (arsura) e solitudine (desolazione).

La bufera e altro e la prosa 4 263


25 incarbonirsi, bronco seppellito9;

l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu 30 non crederla sorella?10 9 la scintilla che dice… bronco seppellito: la scintilla che indica come tutto cominci proprio quando sembra incenerirsi (incarbonirsi), ramo (bronco, termine dantesco, Inferno, XIII, v. 26) ricoperto dal terreno; l’apposizione

scintilla rimanda ai precedenti torcia e guizzo e allude alla lucentezza della pelle dell’animale, ma soprattutto al vigore e alla potenza della sua energia vitale: essa rinasce e permane quando tutto sembra perduto.

10 l’iride breve… sorella: le pupille (iride) piccole (breve), identiche a quelle che racchiudono le tue ciglia (le ciglia di Clizia), e fai brillare integra (intatta) in mezzo agli uomini, immersi nel tuo stesso fango, puoi tu non ritenerle sorelle?

Analisi del testo La struttura La lirica presenta una struttura molto originale: è costituita infatti da un unico periodo di trenta versi chiuso, quasi a sorpresa, da una frase interrogativa in cui viene evocata la figura presumibilmente di Clizia, a cui si rivolge il poeta. Il lettore si accorge solo alla fine che l’anguilla di cui si parla per tutta la lirica è complemento oggetto e non soggetto, dopo aver cercato di verso in verso il verbo reggente attraverso il percorso sinuoso del testo, che mima, in modo quasi virtuosistico, il viaggio difficoltoso e lungo dell’anguilla e ne evoca la metamorfica natura.

La trasfigurazione simbolica dell’anguilla Anche il lettore comune non può non percepire che l’anguilla evocata dal poeta è investita da significazioni simboliche di segno positivo, anche se non è facile individuarle con certezza. Di certo Montale rinuncia fin dall’inizio a una rappresentazione realistica, attribuendo all’anguilla comportamenti che sono propri in realtà del salmone (è il salmone che dai mari del Nord risale faticosamente i fiumi per riprodursi, mentre l’anguilla resta sempre vicino alle foci dei fiumi). All’anguilla il poeta attribuisce, attraverso una lunga serie di apposizioni, che caratterizzano l’intera lirica, una serie di qualità: la sirena (v. 1) allude alla duplice natura dell’animale, pesce di aspetto serpentiforme; i tre sostantivi torcia, frusta, freccia d’Amore in terra (vv. 15-16) fanno riferimento rispettivamente alla luminosità, alla velocità di movimento e all’enigmatico ruolo di messaggero d’amore sulla terra, anche se si tratta dell’amore inteso come dimensione istintuale; l’anima verde (v. 20) contrappone il colore dell’anguilla nell’acqua al paesaggio arido e desolato, dove essa cerca di riprodurre la vita; infine scintilla (v. 23) e iride breve rimandano nuovamente all’area semantica della luce e della speranza. La conclusione della lirica esplicita la correlazione (fortemente sottolineata dai termini in rima gemella / sorella) tra l’anguilla e la donna salvifica. Come Clizia, anche l’anguilla è capace, con strenua resistenza, di rinnovare il miracolo della vita nelle tenebre del male e nella desolazione del presente.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo e indicane il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2. Quale viaggio compie l’anguilla e quale ne è lo scopo? LESSICO 3. Rintraccia tutte le apposizioni riferibili all’anguilla e spiegane il significato STILE 4. Quale figura retorica è rintracciabile nella progressione «per giungere ai nostri mari, ai nostri estuari, ai fiumi»?

Interpretare

SCRITTURA 5. Spiega il senso dell’interrogazione sottesa a tutta la lirica, riguardante il nesso che tiene unite le figure di Clizia e dell’anguilla.

264 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T15

Piccolo testamento La bufera e altro, Conclusioni provvisorie

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Scritta nel 1953, la lirica chiude, insieme al Sogno di un prigioniero, l’ultima sezione de La bufera e altro intitolata Conclusioni provvisorie. Il testo, come segnala anche il titolo, ha perciò il valore di un bilancio della propria esperienza di vita e poetica, per quanto, appunto, “provvisorio”.

Questo1 che a notte balugina2 nella calotta del mio pensiero3, traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato4, 5 non è lume di chiesa o d’officina che alimenti chierico rosso, o nero5. Solo quest’iride posso lasciarti6 a testimonianza 10 d’una fede che fu combattuta, d’una speranza che bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare. Conservane la cipria nello specchietto7 quando spenta ogni lampada 15 la sardana si farà infernale8 e un ombroso Lucifero scenderà su una prora del Tamigi, del Hudson, della Senna scuotendo l’ali di bitume semimozze dalla fatica, a dirti: è l’ora9. 20 Non è un’eredità, un portafortuna che può reggere all’urto dei monsoni sul fil di ragno della memoria, ma una storia non dura che nella cenere

La metrica Versi liberi con frequenti endecasillabi.

1 Questo: si riferisce a lume (v. 5); questo barlume. 2 balugina: lampeggia debolmente. 3 nella calotta del mio pensiero: nel cervello, nella mente. Per sineddoche: la calotta è propriamente la parte superiore della scatola cranica. 4 traccia... calpestato: il pensiero del poeta è paragonato alla traccia biancastra lasciata dalla lumaca o ai frammenti polverizzati di un vetro calpestato. 5 non è... o nero: non è la luce prodotta dalla lampada di una chiesa o di un’offici-

na che viene alimentata da un intellettuale (chierico) di sinistra (rosso) o di destra (nero). Attraverso l’immagine metaforica Montale prende nettamente le distanze dalle due posizioni politiche (comunista e democristiana) che nel dopoguerra si contendevano la scena politica. 6 Solo quest’iride... lasciarti: la luce che il poeta può lasciare in eredità è paragonata all’arcobaleno. 7 Conservane... specchietto: il poeta si rivolge a un’imprecisata figura femminile, invitandola a conservare gelosamente quel che resta del suo messaggio come si fa con la cipria chiusa nel portacipria. L’immagine evoca una dimensione pri-

vata: il “piccolo testamento” del poeta è ben diverso dai proclami pubblici rivolti al paese dai due schieramenti a cui sopra si è fatto riferimento. 8 quando... infernale: allusione indeterminata a un evento apocalittico (forse una catastrofe nucleare), che si protrae e si precisa nei versi successivi; la sardana è una danza frenetica propria della regione della Catalogna. 9 un ombroso... è l’ora: un tenebroso Lucifero (il simbolo del male) scenderà lungo i fiumi che portano alle grandi capitali (Londra, New York, Parigi), scuotendo le ali nere consumate dalla fatica del lungo viaggio per annunciare che è giunta la fine.

La bufera e altro e la prosa 4 265


e persistenza è solo l’estinzione10. 25 Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato non può fallire nel ritrovarti11. Ognuno riconosce i suoi12: l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato 30 laggiù non era quello di un fiammifero13.

10 Non è... l’estinzione: il poeta fa nuovamente riferimento alla labilità del messaggio, dell’insieme di valori che lascerà in eredità, che non può resistere alla violenza della storia: «il dono affidato alla donna, sospeso sul filo della memoria sottile come quello di una ragnatela, non è un portafortuna o un’eredità che può scampare alla catastrofe (all’urto dei monsoni, al soffio violento dei venti); tuttavia solo nel consumarsi fino in fondo

(nella cenere) consiste la durata storica, solo la morte permette la continuità della vita (persistenza)» (Ceserani-De Federicis). 11 Giusto... ritrovarti: giusta era l’indicazione (il riferimento rimane indeterminato): chi l’ha riconosciuta non può sbagliare nel ritrovarti. Versi anche questi enigmatici, che sembrano alludere al ruolo salvifico di una figura femminile imprecisata.

12 i suoi: chi appartiene allo stesso ordine spirituale.

13 l’orgoglio... fiammifero: il mio orgoglio non era fuga dalla realtà e dalle responsabilità etico-civili, l’umiltà non era viltà, la debole luce (con riferimento al messaggio della sua poesia) non era effimera come quella di un fiammifero strofinato. Il poeta rivendica il valore delle proprie scelte, modeste, non appariscenti, ma non per questo insignificanti.

Analisi del testo Il titolo Il titolo funge da guida inequivocabile per decifrare il significato della lirica: Montale tenta di fissarvi il senso della propria vita e di definire la propria identità di poeta, nella prospettiva di lasciare un messaggio, una testimonianza, rivolta innanzitutto a una non precisata figura femminile, che viene evocata al v. 9 e soprattutto al v. 13, in cui si fa riferimento a un oggetto prettamente femminile (il portacipria). Il testamento è però implicitamente rivolto ai lettori, a chi si accosterà alla poesia di Montale. L’aggettivo piccolo attribuito al testamento anticipa la caratterizzazione del proprio lascito morale-spirituale che è sviluppata nella lirica.

Poesia manifesto La riflessione sviluppata da Montale nella lirica è certamente influenzata dal rovente clima ideologico del dopoguerra, dominato da opposti schieramenti politici, dai quali il poeta prende in modo netto le distanze. Più in generale, Piccolo testamento è una sorta di manifesto della posizione etica di Montale e della sua visione riguardo ai compiti dell’intellettuale in una società ancora ferita da drammi storici recenti e in cui potrebbe prospettarsi una nuova, più tragica catastrofe.

Il campo semantico della luce Per articolare il suo messaggio Montale utilizza referenti e immagini che rimandano principalmente al campo semantico della luce: il poeta contrappone, al lume che si accende nelle chiese e nelle officine, alimentato dai chierici rossi o neri e alla lampada destinata a spegnersi del v. 14, la debole scia madreperlacea lasciata dalla lumaca o la polvere dei frammenti di un vetro calpestato, l’iride del v. 8, il tenue bagliore del v. 29. Alla luce è contrapposta la notte in cui il piccolo testamento emerge quasi timidamente nella mente del poeta; ma soprattutto la notte terrificante che, «spenta ogni lampada», scenderà sulla terra (vv. 14-19). All’oscurità allude l’«ombroso Lucifero» con le sue «ali di bitume» che porterà la morte.

Una profezia apocalittica I vv. 13-19 della lirica sono occupati da una sorta di profezia apocalittica, certo suggerita al poeta dai tempi difficili in cui stava vivendo: terminato da pochi anni il conflitto mondiale, la Guerra Fredda creava nuove inquietudini. Il poeta evoca con immagini terrificanti la possibilità di una catastrofe (una guerra nucleare?) che annienti la civiltà occidentale, simboleggiata dalle tre capitali evocate tramite il nome dei fiumi che le attraversano.

266 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Il tema portante della lirica Attraverso il filo rosso delle immagini di luce, Montale oppone ai proclami ideologici del suo tempo, enunciati dagli opposti schieramenti politici (la Democrazia cristiana e il Partito comunista), la propria posizione appartata, il minimale, ma al tempo stesso solido, patrimonio etico e sapienziale che ha costruito nella vita e che considera il principale lascito. È un patrimonio fragile rispetto alla violenza della storia («Non è un’eredità... che può reggere all’urto dei monsoni»), ma è il frutto, degno di legittimo orgoglio, di una fede per la quale il poeta ha combattuto (una fede in senso laico, probabilmente la fedeltà a valori cari a Montale, come la dignità, l’onestà intellettuale, la riservatezza). È su questa base che ci si può riconoscere tra persone simili, legate da un’affinità morale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della poesia in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa chiede metaforicamente il poeta alla figura femminile evocata? Perché affida proprio a lei il bilancio della propria condotta morale? 3. Quale idea di poesia e del compito del poeta nella società puoi dedurre dal testo? ANALISI 4. Individua le immagini e le espressioni che sottolineano la fragilità, il carattere minimale della voce del poeta e quelle invece che esprimono la coscienza orgogliosa del proprio valore. STILE 5. Montale definisce il suo patrimonio morale e spirituale attraverso una serie di negazioni: identificale e spiegane il senso.

Interpretare

SCRITTURA 6. In un’intervista del 1966, rispondendo a una domanda sulla fede, Montale dichiara:

«Se io ho potuto vivere, attraverso prove molto difficili e dolorose [...], se ho potuto vivere e sopravvivere, ho avuto una certa fede. Fede nella poesia intanto, quale è espressa nel Congedo provvisorio. Sarà una fede il cui oggetto può riuscire oscuro, e che consiste soprattutto nel vivere con dignità di fronte a sé stessi, nella speranza che la vita abbia un senso, che razionalmente ci sfugge, ma che vale la pena di sperimentare, di vivere». «Uomini e idee», marzo-aprile 1966, n. 2 in Montale a c. di G. Manacorda, La Nuova Italia, Firenze 1972

Utilizza la citazione per un tuo commento a Piccolo testamento.

La bufera e altro e la prosa 4 267


2 Farfalla di Dinard e Auto da fè: Montale prosatore La prosa Fin da giovane Montale scrive testi in prosa, saggistici o critici. Verso la fine degli anni ’40 questo tipo di produzione si intensifica, in rapporto soprattutto alla collaborazione, iniziata nel 1948, con il «Corriere della Sera». I testi legati alla letteratura sono in parte raccolti nel volume Sulla poesia (1976) e, molti anni dopo la morte dell’autore, in Il secondo mestiere (1996), espressione con cui Montale designava la propria attività giornalistica. Lessico elzeviri Articoli di giornale a tema storico, letterario o artistico e in forma di recensione o di saggio critico, affidati prima solo a intellettuali e poi anche a giornalisti affermati.

Farfalla di Dinard Nel 1956 Montale raccoglie nel volume Farfalla di Dinard prose narrative, ricordi, riflessioni pubblicati come brevi elzeviri sulla terza pagina del Corriere tra il 1946 e il 1953 (seguiranno nel ’60 e nel ’73 due edizioni ampliate). Inizialmente la raccolta era di soli venticinque testi, che arriveranno a cinquanta nell’ultima edizione. Definite dal critico Sergio Antonielli le «Operette morali del nostro tempo», sono accomunate al capolavoro di Leopardi dall’attenzione ai costumi contemporanei, dal tono spesso ironico e satirico e dall’estrema cura stilistico-compositiva. Costituiscono inoltre, come ha osservato Cesare Segre, una testimonianza di temi e immagini comuni alle poesie montaliane, per le quali ci offrono preziose illuminazioni. Auto da fè Si tratta di una raccolta di prose giornalistiche e saggistiche pubblicata nel 1966. L’auto da fé (in portoghese “atto di fede”) nel periodo della Controriforma indicava la proclamazione ufficiale della sentenza pronunciata dall’inquisitore della chiesa cattolica contro chi era riconosciuto colpevole di eresia, e l’esecuzione della stessa. Scegliendo questo titolo Montale vuole alludere, con una sfumatura d’ironia, a un lucido esame delle proprie scelte etiche e artistiche spesso eterodosse, esponendole esplicitamente al giudizio del pubblico che le potrà accettare o condannare. Distribuite in tre sezioni (le prime due indicate da cifre romane, la terza intitolata Francobolli), le prose di Auto da fé si distendono in un ampio arco di tempo (19251966) e ci permettono di cogliere l’evoluzione ideologica del poeta ligure, le sue prese di posizione su tematiche molteplici: dall’arte alla religione, dalla condizione dell’intellettuale agli eventi storici e a quelli di attualità.

Eugenio Montale

T16

Farfalla di Dinard Farfalla di Dinard

E. Montale, Farfalla di Dinard, in E. Montale, Prose narrative, a c. di N. Scaffai, Mondadori, Milano 2008.

Il breve racconto, che dà il titolo all’intera raccolta e la chiude, prende spunto da un soggiorno di Montale nella cittadina di Dinard, in Bretagna: ogni mattina, al tavolino della piazza dove il poeta prendeva il caffè, compariva una piccola farfalla. A distanza di tempo, lasciata ormai Dinard, il poeta si interroga sulla misteriosa visitatrice.

La farfallina color zafferano che veniva ogni giorno a trovarmi al caffè, sulla piazza di Dinard1, e mi portava (così mi pareva) tue notizie, sarà più tornata, dopo la mia partenza, in quella piazzetta fredda e ventosa? Era improbabile che l’algida2 estate bretone suscitasse dai verzieri3 intirizziti tante scintille tutte eguali, tutte 5 dello stesso colore. Forse avevo incontrato non le farfalle ma la farfalla di Dinard e il punto da risolvere era se la mattutina visitatrice venisse proprio per me, se

268 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


trascurasse deliberatamente gli altri caffè perché nel mio (alle Cornouailles4) c’ero io o se quell’angolino fosse semplicemente inscritto in un suo meccanico itinerario quotidiano. Passeggiata mattutina, insomma, o messaggio segreto? Per risolvere il 10 dubbio, la vigilia del ritorno, decisi di lasciare un buon pourboire5 alla cameriera, e insieme il mio indirizzo in Italia. Avrebbe dovuto scrivermi un sì o un no; se la visitatrice si era rifatta viva dopo la mia partenza o se non s’era più lasciata vedere. Attesi dunque che la farfalletta si posasse su un vaso di fiori ed estraendo un foglio da cento, un pezzetto di carta e un lapis chiamai la ragazza. In un francese più 15 esitante del solito, balbettando, spiegai il caso; non tutto il caso, ma una parte. Ero un entomologo6 dilettante, volevo sapere se la farfalla sarebbe tornata ancora, fino a quando poteva durarla con quel freddo. Poi tacqui, sudato e atterrito. «Un papillon? Un papillon jaune?7» disse la leggiadra Filli8 sgranando un par d’occhi alla Greuze9. «Su quel vaso? Ma io non vedo nulla. Guardi meglio. Merci bien, Monsieur10.» 20 Intascò il foglio da cento e si allontanò reggendo un caffè filtro. Curvai la testa e quando la rialzai vidi che sul vaso delle dalie la farfalla non c’era più. 1 Dinard: città sulla costa bretone. 2 algida: fredda. 3 verzieri: orti. 4 Cornouailles: il nome del caffè dove si

5 pourboire: mancia (in francese). 6 entomologo: studioso di insetti. 7 Un papillon...jaune?: una farfalla gialla?

trovava Montale.

8 Filli: nome femminile proprio della po-

(in francese).

esia arcadica che, riferito alla cameriera, suona scherzoso. 9 Greuze: Pittore ritrattista del XVIII secolo. 10 Merci bien, Monsieur: grazie tante, signore.

Analisi del testo Verità o illusione? Il breve racconto offre un esempio significativo del registro comunicativo proprio di non poche prose di Farfalla di Dinard. A questo registro corrisponde un “abbassamento”, con tratti di sorridente ironia (e autoironia), di temi propri dell’immaginario poetico montaliano: in questo caso la comparsa quotidiana della piccola farfalla color zafferano rimanda al tema dell’apparizione della donna “messaggera dell’oltre”. Il poeta si chiede se la farfalla volesse portargli un messaggio da parte della donna amata, assente e lontana. Le elucubrazioni del poeta, le domande che si pone, mimano una sorta di dibattito filosofico, ma è evidente il tono quasi umoristico con cui vengono formulate. La scena del colloquio con la cameriera conferisce infine tratti quasi grotteschi all’intera situazione. Montale dà qui i primi saggi delle scelte che caratterizzeranno la sua ultima produzione, da Satura in poi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale domanda si pone il poeta una volta partito da Dinard? ANALISI 2. Come viene descritta l’estate? Rintraccia e sottolinea nel testo tutti gli aggettivi che caratterizzano il momento descritto. LESSICO 3. Che cosa vuol dire Montale con l’espressione “entomologo dilettante”?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. La comparsa della farfalla rimanda al tema dell’apparizione della donna. Ripercorri le poesie nelle quali compare il tema della donna “messaggera dell’oltre”.

La bufera e altro e la prosa 4 269


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Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 1 La svolta poetica degli anni Sessanta e Settanta Alle radici della nuova poetica montaliana Dopo un lungo silenzio poetico, durato circa quindici anni, nel 1971 Montale pubblica Satura. La nuova raccolta sconcerta, per il considerevole mutamento di tono e linguaggio, il pubblico e la critica, suscitando giudizi contrastanti. Seguiranno Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (usciti nell’Opera in versi, 1980): una produzione molto copiosa, caratterizzata da affinità tematiche e formali e, nel complesso, da un vistoso differenziamento rispetto alla produzione precedente, così che sembra legittimo parlare per tutta questa produzione di un “nuovo” Montale, addirittura di una nuova poetica montaliana. I motivi del cambiamento Il mutamento ha indubbiamente a che fare con la presa di coscienza, da parte di Montale, di quella che Pasolini negli stessi anni definì «mutazione antropologica», ovvero l’insieme delle trasformazioni valoriali e comportamentali indotte dall’avvento della società tecnologica e neocapitalistica. Il giudizio di Montale sul proprio tempo è del tutto negativo e investe, in sintesi, il facile ottimismo frutto del mito del progresso diffuso dai media, la mercificazione volgare e soprattutto il dilagante conformismo, destinato a spegnere l’autonomia morale e intellettuale del singolo individuo. La lucida percezione del definitivo tramonto della civiltà liberale e umanistica, in cui Montale si riconosceva, induce il poeta a cercare nuove strade espressive, adeguate a rappresentare un tempo che evidentemente considera “impoetico”: da qui la scelta, che riguarda tutte le raccolte a partire da Satura, di un abbassamento comico-realistico (in senso dantesco-medievale) dei temi e del registro stilistico, di un andamento prosastico, anziché lirico, e della prospettiva satirica, in particolare per la prima raccolta. Montale stesso definisce in modo icastico questa svolta parlando di una poesia «in pigiama», cioè “abbassata” nei temi e nei toni per il desiderio di sperimentare, giunto ormai alla vecchiaia, nuovi modi di fare poesia, consapevolmente antitetici ai precedenti.

2 Satura La struttura e il titolo Pubblicata nel 1971, Satura raccoglie ben 110 poesie scritte tra il 1962 e il 1970 e distribuite in cinque sezioni: la prima, Il tu, è composta di sole tre liriche; le quattro successive sono disposte in coppie parallele (Xenia I e Xenia II; Satura I e Satura II). Di certo il titolo non è di immediata decifrazione per il lettore comune e già di per sé può testimoniare l’atteggiamento di aristocratico distacco di Montale rispetto alla cultura di massa. Il termine Satura rinvia all’espressione latina satura lanx, “piatto colmo di diversi cibi”, e probabile etimo del genere latino della satira, appunto. Il titolo della raccolta, perciò, da un lato richiama la varietà eterogenea dei temi affrontati (e la conseguente contaminazione di registri espressivi), dall’altro evidenzia il prevalente intento critico-satirico che anima l’opera.

270 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


La scelta dell’“abbassamento” e la persistenza dei temi montaliani In un’intervista di poco successiva all’uscita di Satura, Montale confermò l’“abbassamento” che caratterizzava la sua nuova poesia, parlando di un libro poetico scritto «in pigiama» o al più «in abito da passeggio» rispetto ai precedenti tre «scritti in frac», e sottolineava il fatto che con il passare degli anni aveva scoperto «che si poteva fare altro, l’opposto anche». Effettivamente la poesia di Montale vira ormai per lo più su temi del quotidiano, a volte persino tratti dalla cronaca (come può essere un giorno di sciopero, ad esempio), rinunciando a prima vista ai grandi motivi simbolici. In realtà i temi alti e la riflessione filosofica serpeggiano spesso al di sotto della veste dimessa, come si può notare anche solo dai testi proposti (ad esempio, il tema del tempo o quello dell’illusorietà delle parvenze fenomeniche), ma questi motivi acquistano un nuovo volto, filtrati come sono dalla prevalente dimensione satirico-epigrammatica. Di certo il pessimismo dello scrittore si è radicalizzato: la speranza di un «miracolo» è ormai venuta meno, l’attesa del manifestarsi del Divino nel mondo, che aveva percorso La bufera, è qui negata (Dio è lontano e assente) o irrisa con toni quasi blasfemi: «il regista è occupato, è malato, imbucato / chissà dove [...]» (Götterdämmerung). Il ruolo del poeta nella società della massificazione In Satura (ma anche nelle successive raccolte) il poeta, ormai anziano, si distingue dal mondo massificato per la consapevolezza ironica (e anche autoironica), per la volontà di resistere comunque al caos del mondo e di continuare a interrogarsi sul destino dell’uomo. In ogni caso, però, questa azione può essere perseguita solo nell’isolamento, ormai diventato sempre più la scelta di vita di Montale, convinto che la dimensione pubblica del vivere comporti inevitabilmente la perdita della propria individualità. Alla desolante omologazione, Montale contrappone la difesa dell’irripetibilità individuale e per contro attacca con corrosivo sarcasmo le ideologie collettive: i dogmi rassicuranti della religione, ma anche i laici miti progressisti.

PER APPROFONDIRE

Le scelte stilistico-linguistiche Alle scelte tematiche corrisponde un andamento prosastico, un lessico spesso referenziale, che tende al “basso”, accogliendo persino forme del parlato comune (come o.k. o un caldo bestiale); ma non manca l’inserimento di termini filosofici e letterari, che cozzano con questo tessuto colloquiale. Tipico di Satura, e anche delle raccolte successive, è l’uso a volte ludico della lingua, tra equivoci e veri e propri nonsense, attraverso cui il poeta presumibilmente mira a riprodurre il non-senso del reale e, al contempo, a ironizzare sugli stereotipi linguistici così diffusi nella società dei mass media (ad esempio Auf Wiedersehen ➜ T19 ).

Xenia: un affettuoso omaggio alla moglie scomparsa La sezione Xenia è interamente dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, scomparsa nel 1963 e fino a quel momento quasi del tutto assente dalla poesia di Montale. Gli Xenia – 28 liriche divise in due gruppi speculari di 14 testi – occupano un posto a sé nella raccolta: non a caso furono pubblicati separatamente nel 1966. Il termine xenia (in greco “doni ospitali, omaggi”), usato dal poeta latino Marziale (41-104 circa d.C.) per una sua raccolta di epigrammi (libro XIII), qui è impiegato da Montale per una sorta di omaggio poetico alla cara compagna di vita. Il ruolo di privilegiata interlocutrice, un tempo attribuito alle varie Beatrici o anti-Beatrici (Gerti, Dora Markus, Clizia, Volpe), ora viene assunto dalla moglie, rievocata con affetto e rimpianto. La figura di Drusilla, detta “Mosca” per la sua grave

miopia agli occhi, non ha però un ruolo che si possa definire salvifico, come quello di altre muse ispiratrici di Montale: la sua presenza è associata piuttosto alla chiarezza etica, alla trasparenza intellettuale, la cui esigenza è particolarmente avvertita dal poeta in questo periodo. Se Mosca non possiede «gli occhi d’acciaio» di Clizia (in Nuove Stanze ➜ T11c OL), tuttavia è in grado di “smascherare” il «blabla / dell’alta società», rivelandone la meschinità: «Erano ingenui / quei furbi e non sapevano / [...] / di essere visti anche al buio e smascherati / da un tuo senso infallibile, dal tuo / radar di pipistrello» (Xenia I, 5 ➜ T21 OL). Ma Montale attribuisce a Mosca anche una superiore sapienza, la capacità di andare oltre le apparenze fenomeniche (➜ T22 ).

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 271


Satura

Xenia

EDIZIONI

1971

TITOLO

il termine Satura rinvia all’espressione latina satura lanx (piatto colmo di diversi cibi); quindi richiama la varietà eterogenea dei temi affrontati, ma anche l’intento critico-satirico dell’opera

STRUTTURA

TEMI

LINGUA E STILE

EDIZIONI

1966

TITOLO

il termine xenia (in greco “doni ospitali, omaggi”), usato dal poeta latino Marziale per una sua raccolta di epigrammi, qui è impiegato da Montale per indicare le poesie come un dono alla moglie ospite della sua vita.

STRUTTURA

2 sezioni, ciascuna di 14 poesie dedicate alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963

TEMI

la figura di Drusilla, detta “Mosca” e la sua saggezza quotidiana

LINGUA E STILE

• abbassamento del registro stilistico • andamento prosastico

5 sezioni (110 poesie): Il tu, Xenia I e Xenia II, Satura I e Satura II

• temi del quotidiano, a volte persino tratti dalla cronaca • pessimismo radicalizzato • isolamento del poeta

• abbassamento del registro stilistico • andamento prosastico • forme del parlato comune

3 Le ultime raccolte Gli ultimi lavori Le ultime due raccolte organizzate da Montale durante la sua vita sono Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977); gli Altri versi sono pubblicati nel 1980 per iniziativa dei curatori dell’Opera in versi, R. Bettarini e G. Contini, con l’approvazione dello stesso Montale, ormai gravemente ammalato: si sarebbe spento un anno dopo. Le ultime raccolte confermano le linee tematiche e le scelte stilistiche di Satura, con un’accentuazione – evidenziata dai titoli – del carattere diaristico e cronachistico con cui è registrato l’evento quotidiano, da cui ricavare sempre però un senso che lo trascenda. In queste raccolte si mantiene la dominante prospettiva ironica, la scelta di una poesia colloquiale, desublimata, che esorcizza la “sacralità” della poesia, anche della propria: Montale abbassa infatti al livello del quotidiano e demistifica, in una sorta di riscrittura autoironica, temi e termini chiave della sua precedente produzione “illustre”, da Ossi di seppia alla Bufera, quasi irridendo il ruolo di lirico più importante del Novecento che gli era ormai unanimemente assegnato. Persiste, e anzi si accentua, lo sdegnoso distacco dai propri tempi, impietosamente condannati per la prevalenza della legge del profitto e la caduta di ogni valore.

272 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


PER APPROFONDIRE

Le ultime raccolte TITOLI E PUBBLICAZIONI

Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi è pubblicata nel 1980

STRUTTURA

diaristica e cronachistica

TEMI

• dominante prospettiva ironica • attacco al proprio tempo per la legge del profitto e la caduta di ogni valore

STILE

poesia colloquiale

Il Diario postumo: un giallo filologico Nel 1996, per iniziativa di Annalisa Cima, con cui il poeta fu in rapporto di stretta amicizia negli ultimi anni della sua vita, viene pubblicata presso Mondadori, con note di Rosanna Bettarini e introduzione di Angelo Marchese, una raccolta di 84 poesie dedicate alla Cima, con il titolo di Diario postumo.

A detta della Cima, costituirebbero una sorta di testamento che il poeta le avrebbe chiesto di pubblicare dopo la scomparsa. Nel 1997 il grande filologo Dante Isella ne contestò autorevolmente l’autenticità, dando vita a un’aspra polemica che non è stata ancora definitivamente risolta.

Eugenio Montale

T17

La storia non si snoda La Storia, Satura I

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984.

Riproduciamo la prima delle due parti di cui è costituita la poesia La Storia, composta nel 1969. Si tratta di un testo in cui il registro satirico è impiegato per enunciare una visione scettica e relativistica della storia.

I La storia non si snoda1 come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso 5 molti anelli non tengono2. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco3. La metrica Versi liberi (di varia misura) con rime e assonanze.

1 non si snoda: non si svolge. 2 molti... non tengono: non sono saldi, e quindi infrangono la catena a cui fanno riferimento i vv. 2-3. L’immagine dell’«anello che non tiene», impiegata molti anni prima per indicare la speranza

di trovare un «varco» che infranga il determinismo cosmico, è qui ironicamente usata per contestare la concezione storicistica, sia idealistica sia marxista, secondo la quale nella storia “tutto si tiene”, ovvero tutto è connesso e razionalmente spiegabile. Al contrario, molti eventi sono inspiegabili e irrazionali.

3 nulla... lento fuoco: nella storia non matura lentamente alcun processo (il suo divenire non è lineare ma caotico). Come frequentemente in Satura, Montale usa qui a fini ironico-satirici una metafora gastronomica, che abbassa comicamente il registro (l’andamento della storia è contrapposto all’immagine di una pentola in cui cuoce lentamente qualcosa).

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 273


La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora4. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede 15 nè recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario5. La storia non giustifica e non deplora6, 20 la storia non è intrinseca perché è fuori7. La storia non somministra carezze o colpi di frusta8. La storia non è magistra9 25 di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta10. [...] 10

4 La storia... l’ignora: nella visione hegeliana è lo Spirito che “pensa” a fare la storia, così come in quella marxista è il proletariato (qui definito attraverso la perifrasi «chi l’ignora») che fa (o meglio, deve fare) la storia. Entrambe le concezioni sono recisamente negate da Montale. 5 La storia... nell’orario: per sottolineare l’imprevedibilità degli eventi storici Montale ricorre questa volta a metafore

d’ambito ferroviario: la storia procede cambiando improvvisamente binario e senza rispettare tempi precisi. 6 non giustifica... non deplora: il riferimento polemico è agli storicisti e ai moralisti, che sanno indicare sempre dove sta il bene e deplorare il male. 7 non è intrinseca... fuori: non ha leggi immanenti che la spieghino, perché (le sue ragioni) sono fuori dagli eventi.

8 la storia... frusta: ora è contestata l’idea di un disegno provvidenziale che implichi premi o punizioni. 9 non è magistra: è negato il concetto, tradizionale per i classici e gli umanisti, della storia come magistra vitae, “maestra di vita”. 10 Accorgersene... più giusta: essere consapevoli che la storia non ha nulla da insegnare, né può farlo, non contribuisce certo a migliorarla.

Analisi del testo La contestazione degli schematismi ideologici Più volte, nella sua vicenda personale di uomo di cultura e nel suo itinerario poetico, Montale ha sottolineato la propria libertà intellettuale, il rifiuto dello schieramento entro rassicuranti (ma per lui falsi e costrittivi) recinti ideologici: testimonia questa posizione in particolare Piccolo testamento (➜ T15 ), in cui il poeta prende orgogliosamente le distanze da chi segue «i chierici rossi o neri». Con il passare degli anni Montale accentua ulteriormente l’atteggiamento di sdegnoso distacco da ogni fede, da ogni fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive», per usare una celebre espressione leopardiana. In questa poesia stigmatizza le visioni filosofiche e politiche che, in modo diverso, tendono a vedere nella storia un cammino progressivo, positivo e razionale. Attraverso un’incalzante serie di negazioni («La storia non...», «La storia non è…») Montale delinea, al contrario, una visione della storia, e implicitamente del destino dell’uomo, pessimistica, in cui è assente ogni provvidenzialità e razionalità. Nella propria implacabile analisi, il poeta sovverte ogni credo rassicurante, per approdare alla conclusione che la storia non ha proprio nulla da insegnare (la celebre espressione latina historia magistra vitae è ridotta a pura retorica). Nella seconda parte della poesia («La storia non è poi / la devastante ruspa...», qui non riportata), Montale sviluppa e precisa le dichiarazioni contenute nella prima; ma vi emerge anche, riproposto in una nuova veste, il tema della fuga, della liberazione di pochi dalla catena della condizione umana, la ripresa del motivo del «varco», anche se con una venatura ormai del tutto pessimistica: «Qualche volta s’incontra l’ectoplasma / d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. / Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. / Gli altri, nel sacco, si credono / più liberi di lui».

274 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Un registro anti-lirico e satirico Per trattare il tema (la natura della storia), Montale utilizza un tono prosastico, decisamente anti-lirico. La poesia si fonda su una struttura elencatoria, enfatizzata dall’insistita anafora della parola chiave (la storia). Prevale, a livello sintattico, la coordinazione; il ritmo è franto, con frasi quasi sempre brevi. Il lessico è tratto per lo più dalla realtà quotidiana. Nel loro complesso, le scelte stilistico-linguistiche di Montale sono funzionali a demitizzare un tema, quello del senso della storia, della cultura “alta”, riconducibile in particolare all’ambito filosofico. La prospettiva dello scrittore è antitetica sia al provvidenzialismo cristiano, sia all’idealismo hegeliano e crociano, sia al marxismo: la storia rimane un enigma, procede per vie inesplicabili e imprevedibili.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quali visioni della storia sono oggetto della critica demolitiva del poeta? 3. Quale idea della storia risulta implicitamente sostenuta? STILE 4. Individua i procedimenti retorici attraverso cui il poeta sostiene la propria tesi. 5. Quale struttura sintattica prevale? Quali effetti produce la scelta del poeta? 6. Individua e spiega le varie immagini metaforiche presenti nel testo.

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Interpretare

SCRITTURA 7. La poesia ben testimonia la nuova prospettiva ironico-satirica, le scelte stilistico-linguistiche e più in generale tonali, proprie di Satura: attraverso diretti riferimenti al testo, cerca di evidenziare gli elementi di novità che lo distinguono dalla precedente – e più nota – produzione montaliana. Individui qualche elemento di continuità?

Enrico Testa La poesia di Montale da Ossi di seppia ad Altri versi E. Testa, Montale, Le Monnier, Firenze 2016

Il critico mette in evidenza come Montale occupi una posizione estremamente importante nella poesia italiana e come attraverso la sua attività di intellettuale abbia influenzato anche la cultura del suo tempo.

La prima edizione degli Ossi di seppia è del 1925 e Altri versi, l’ultima raccolta, è del 1980. Un’estensione temporale di scrittura poetica che, mettendo a frutto la longevità dell’autore, attraversa gran parte del Novecento italiano e le sue fasi storiche più importanti: il fascismo, il secondo conflitto mondiale, l’epoca del dopoguerra, il boom 5 economico e l’affermarsi del neocapitalismo e della società di massa. Una transizione che porta dalla civiltà liberale e dai suoi valori, per quanto soffocati dalla dittatura, alla loro cancellazione radicale operata dal dominio dei consumi e da quella che Pasolini chiamò, con una parola che si rivela sempre più azzeccata, l’«omologazione» antropologica degli italiani. 10 La poesia di Montale finisce così per collocarsi — anche per semplice casualità biografica dell’io scrivente — in una posizione centrale nella storia del nostro paese, offrendo di essa, in modi ora trasfigurati ora espliciti, segno ed espressione. Alla centralità cronologica s’accompagna — stavolta per qualità della scrittura e per il

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 275


INTERPRETAZIONI CRITICHE

suo sempre misterioso incrocio con le aspettative di critici e lettori — la centralità poetica e intellettuale. Montale occupa una posizione eminente nella poesia italiana e, come pochi altri, ha contribuito a determinarne caratteri e aspetti, influendo anche, grazie alla sua attività di intellettuale e giornalista, sulla cultura e sui suoi equilibri (un fatto raro, soprattutto su una durata così lunga, e oggi del tutto inimmaginabile). Questo percorso, scandito dalle tappe della sua fama e del suo riconoscimento e 20 glorificazione pubblica, non è però privo di alcuni paradossi. Soprattutto nel suo momento iniziale e in quello conclusivo (bilancio e deduzioni critiche comprese), Montale parte da una condizione che, per quanto oscurata, in Italia, dagli “eroi” dannunziani e dalla loro fortuna, aveva già trovato testimonianze nella letteratura europea ottocentesca (ad esempio nella condizione dell’io spesso rappresentata, 25 almeno a partire da Baudelaire, nella grande lirica moderna o nei personaggi dei romanzi di Flaubert o Dostoevskij o in certi tipi della più eccentrica narrativa tedesca e inglese). Si tratta del sentimento della propria separatezza dal mondo, del senso di disarmonia verso l’esistente e, in genere, verso i suoi ritmi e i suoi riti, e della consapevolezza, insomma, di non essere “portati” per la vita («Sono incapace 30 di vivere. Tutto va molto male» scrive nel ’36 a Sandro Penna). […] La non vita, l’incapacità di accordarsi alle crudeli regole selettive dell’epoca capitalistica — dove «prevale l’idea che sia necessario lottare anche per la semplice sopravvivenza, che si debbano conquistare ogni giorno nuovi privilegi per non perdere quelli che sembravano acquisiti» (Lévi-Strauss) — si legano, in una diagnosi estensibile a 35 tanta arte moderna, alla scrittura, che diviene così il surrogato o la forma sostitutiva di quanto non si è riusciti ad afferrare o a “mordere” dell’esistenza imposta a modello. 15

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprendere e analizzare

Produzione

1. Quali fasi storiche attraversa la poesia di Montale? 2. Che cosa vuol dire l’espressione «omologazione antropologica degli italiani» usata da Pasolini? Quale atteggiamento propone Montale per combattere ciò che l’autore nel testo definisce il «male»? 3. Quale tesi rintracci nel testo sulla poesia di Montale? 4. Quale aggettivo utilizza l’autore per definire la poesia di Montale? 5. Spiega la seguente affermazione del critico: «la scrittura diviene così il surrogato o la forma sostitutiva di quanto non si è riusciti ad afferrare o a “mordere” dell’esistenza imposta a modello». Argomenta la tua risposta con opportuni riferimenti alla produzione di Montale.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità La lirica di Montale La storia non si snoda – in particolare i due versi La storia non è magistra / di niente che ci riguardi – approda a un radicale pessimismo che con spirito dissacratorio esprime il proprio dissenso rispetto all’interpretazione umanistica e progressista della storia. Questa critica demolitiva, consegnata dal poeta alla raccolta Satura, sottrae alla storia ogni possibile funzione o insegnamento. Sei d’accordo con la tesi sostenuta da Montale? Occorre dunque arrendersi, assumendo l’abito di una disincantata accettazione e considerare la storia estranea nei confronti dell’individuo? Esponi le tue riflessioni in merito, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

276 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Eugenio Montale

T18

EDUCAZIONE CIVICA

Il raschino Satura I

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984.

LEGGERE LE EMOZIONI

nucleo Cittadinanza digitale competenza 10

La poesia, scritta nel 1968, testimonia la polemica di Montale verso le ideologie ottimistiche, espressa con il tono colloquiale proprio della raccolta.

Credi che il pessimismo sia davvero esistito? Se mi guardo d’attorno non ne è traccia. Dentro di noi, poi, non una voce 5 che si lagni. Se piango è un controcanto per arricchire il grande paese di cuccagna ch’è il domani1. Abbiamo ben grattato con il raschino ogni eruzione del pensiero2. Ora 10 tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, escluso il nero3.

La metrica Versi liberi. 1 Se piango... il domani: l’infelicità (nel mondo di oggi) è solo un controcanto, una voce alternativa (in musica, una melodia secondaria, che si contrappone alla melodia principale), per far risaltare la visione ottimistica del futuro, presentato dai media come il mitico “paese di cuccagna”.

2 Abbiamo... del pensiero: noi uomini

3 il nero: l’esclusione del nero dai colori

d’oggi abbiamo eliminato ogni forma di pensiero originale. Il raschino, o raschietto, era uno strumento (una piccola lamina col manico), impiegato dai monaci amanuensi nel Medioevo per eradere sulla pergamena ciò che era scritto in modo da poterla riutilizzare per nuovi testi.

della tavolozza allude metaforicamente all’eliminazione di ogni forma di pessimismo in una società improntata al materialismo edonistico e in cui vige l’obbligo della risata superficiale, dell’ottimismo.

Analisi del testo La polemica di Montale La poesia inizia con una domanda provocatoria che si riferisce all’uomo a lui contemporaneo, alla società a lui coeva. Guardandosi intorno sembra che non ci sia traccia di pessimismo, che esso sia scomparso e che sia presente solo la voce di coloro che presentano l’Italia come il mitico “paese di cuccagna”. Il poeta, come sempre nelle poesie, si pone al di fuori e al di là di questa società costituita da siffatte persone. L’accusa che il poeta rivolge alla società è molto grave: aver distrutto il pensiero critico e originale, l’essersi uniformati per obbedire a chi, per propri interessi, spinge a far pensare che l’infelicità non esista, che il materialismo sia la chiave del benessere.

L’eco di Leopardi Leggendo la poesia sembra echeggiare la critica di Leopardi alla società settecentesca nella poesia La ginestra («secol superbo e sciocco») nei confronti de «le magnifiche sorti e progressive». Leopardi, così come Montale, polemizza nei confronti dei modelli culturali del suo tempo, prendendo le distanze dalle ideologie ottimistiche che, esaltando il progresso, instillano negli uomini false promesse di felicità.

Giacomo Leopardi.

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 277


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché l’infelicità è un controcanto (v. 5)? 2. Qual è l’obiettivo polemico di Montale? STILE 3. Il testo è costruito su una serie di immagini metaforiche: individuale e spiegane il senso. 4. Presenta qualche caso di enjambement significativo in questo passo, indicando gli effetti prodotti.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Commenta con parole tue la tesi sostenuta da Claudio Scarpati a proposito di questo componimento e, alla luce di questa interpretazione, rifletti sul ruolo assunto da Montale come coscienza critica del proprio tempo: «… [Il raschino] è una satira della felicità, del progresso, dei nuovi entusiasmi del consumismo liberatore che il potere economico e i suoi messaggeri, i mass media, propugnano. Montale ne coglie la sostanza nell’abolizione fittizia del senso della contraddizione, del pungolo del pensiero, e nella mostruosa eliminazione del pianto che ci riduce a grotteschi forzati del riso» (max 30 righe).

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Cittadinanza digitale

competenza 10

ESPOSIZIONE ORALE 6. Le riflessioni di Eugenio Montale sono ancora attuali, se guardiamo la realtà che circonda? Ritieni che le sue considerazioni in merito alla corsa per la realizzazione personale da conseguire a ogni costo, proposta dai social come traguardo libero da impacci, modello di vita in cui vengono esorcizzate fatica e sofferenza, siano veritiere e fondate?

LEGGERE LE EMOZIONI

online T19 Eugenio Montale

Auf Wiedersehen Satura II

Eugenio Montale

T20

LEGGERE LE EMOZIONI

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale Satura, Xenia II, 5

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984.

Composto nel novembre 1967, il testo è collocato al quinto posto nella seconda sezione degli Xenia, dedicati alla moglie, Drusilla Tanzi. Il poeta si rivolge a lei con affetto e rimpianto, rievocando la loro lunga vita insieme. La lirica introduce anche il tema, caro a Montale fin dagli anni giovanili, della realtà come illusoria apparenza.

Ho sceso, dandoti il braccio1, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio2. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono 5 le coincidenze, le prenotazioni3, le trappole, gli scorni di chi crede La metrica Due strofe di versi liberi di varia lunghezza (fino a 16 sillabe, v. 1); rare le rime. 1 dandoti il braccio: il poeta si rivolge alla moglie morta. 2 Anche così... viaggio: il viaggio della vi-

ta, che il poeta ha percorso con la moglie, è stato lungo, ma ora che lei è scomparsa gli appare comunque breve. 3 né più... le prenotazioni: ricorrendo a un lessico appartenente al campo semantico ferroviario, Montale spiega che non

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ha più bisogno ormai di coincidenze e prenotazioni (fuori di metafora, allude alla sua ormai disincantata saggezza o forse al fatto che il viaggio stesso sta per terminare anche per lui).


che la realtà sia quella che si vede4. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più5. 10 Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue6. 4 le trappole... che si vede: Montale si considera estraneo ormai ai trabocchetti e agli smacchi (scorni) che la vita riserva a chi non ha ancora conquistato la consapevolezza che le apparenze fenomeniche

(«la realtà... che si vede») non sono reali. 5 si vede di più: volutamente Montale equivoca tra l’atto fisico del “vedere” (che non avrebbe certo potuto essere potenziato dalla moglie che, come si sa, vedeva

pochissimo) e il “vedere” in senso conoscitivo. 6 le sole vere... le tue: la moglie sapeva vedere meglio di lui oltre le apparenze; pupille è sineddoche per “occhi”.

Analisi del testo Tra dialogo e soliloquio Lo spunto della poesia è il commosso ricordo e il rimpianto struggente per la moglie scomparsa («ora che non ci sei è il vuoto», «è stato breve il nostro lungo viaggio»). Nella serie degli Xenia, Montale tenta di istituire un colloquio intimo con Mosca sulla base della vita trascorsa insieme, degli oggetti condivisi, delle conversazioni tenute negli anni. Ma il dialogo si riduce a un soliloquio per l’assenza della donna, per la sua incolmabile lontananza dal poeta, rimasto solo con le sue amare riflessioni in una realtà in cui non si riconosce e che disprezza.

Oltre la dimensione privata Anche questo testo, come altri Xenia, non rimane però limitato all’ambito dei ricordi privati, ma introduce un tema filosofico caro a Montale fin dalla sua prima produzione: la non realtà del mondo fenomenico. Nel ricordo del poeta era proprio Mosca che lo guidava a oltrepassare l’ingannevole mondo sensibile: egli si appoggiava al suo braccio nello scendere le scale (simbolo del cammino dell’esistenza) perché gli occhi della donna, per quanto indeboliti, erano molto più capaci di quelli del poeta di cogliere la verità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta il contenuto della poesia. COMPRENSIONE 2. A quale gesto e a quale situazione usuale che accomunava la coppia si fa riferimento nel testo? ANALISI 3. Che cosa significa l’espressione paradossale «è stato breve il nostro lungo viaggio»? 4. A che cosa allude l’espressione al v. 2 «è il vuoto ad ogni gradino»? 5. Quale figura retorica si può riconoscere nell’espressione «un milione di scale»? 6. Rintraccia i termini che fanno riferimento al tema del “viaggio”: a quale impianto metaforico riconducono? Qual è il legame con il tema del “vedere”? LESSICO 7. Il testo è percorso dal riferimento al “vedere” e alla vista: individua le diverse connotazioni del campo semantico della vista, in riferimento agli “altri’, a Montale e alla moglie. 8. Come definiresti il lessico impiegato?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 9. La lirica è incentrata sulla percezione della mancanza incolmabile della persona cara scomparsa ed è venata dalla nostalgia, dal rimpianto di consueti gesti affettuosi a cui si deve rinunciare per sempre; al contempo, Montale mette a fuoco il ruolo insostituibile che la compagna ha avuto per lui. Hai vissuto la perdita di una persona cara nella tua vita? Che cosa hai provato?

online T21 Eugenio Montale

Non ho mai capito se io fossi Satura, Xenia I, 5

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 279


Eugenio Montale

T22

Dopopioggia Quaderno di quattro anni

E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984.

Una passeggiata lungo la riva del mare dopo la pioggia offre al poeta l’occasione, in questa breve poesia del 1975, per una riflessione solo apparentemente scherzosa.

Sulla rena bagnata appaiono ideogrammi a zampa di gallina1. Guardo addietro ma non vedo rifugi o asili di volatili. Sarà passata un’anatra stanca, forse azzoppata. 5 Non saprei decrittare2 quel linguaggio

se anche fossi cinese. Basterà un soffio di vento a scancellarlo. Non è vero che la Natura sia muta. Parla a vanvera e la sola speranza è che non si occupi 10 troppo di noi.

La metrica Versi in prevalenza endeca-

1 ideogrammi... gallina: strani segni che

sillabi (anche ipermetri: ad esempio v. 6 e v. 8).

ricordano le tracce lasciate dalle zampe di una gallina.

2 decrittare: decifrare, interpretare.

Analisi del testo Un messaggio indecifrabile Il poeta si trova su una spiaggia. Ha da poco piovuto e la sabbia è quindi ancora umida. Allo sguardo del poeta appaiono degli strani segni impressi sulla rena bagnata che ricordano gli ideogrammi cinesi. Presumibilmente si tratta delle impronte lasciate da un volatile, ma diventano per Montale emblema del linguaggio stesso della Natura (qui personificata attraverso la maiuscola): un linguaggio incomprensibile, perché è la Natura stessa a produrre messaggi privi di senso («parla a vanvera»).

Radicale pessimismo La conclusione del breve testo rovescia con un tono sarcastico ogni prospettiva provvidenzialistica, finalistica: Montale ha ormai acquisito un pessimismo radicale, ma al tempo stesso un distacco che costituisce forse la realizzazione piena della “divina Indifferenza” di cui si parla in un celebre testo degli Ossi di seppia (➜ T4 ). Se la Natura è solo un insieme di forze irrazionali, l’uomo può solo temere la sua azione, che potrebbe essere minacciosa o addirittura annichilente. Meglio dunque che non si occupi delle sorti dell’uomo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto della poesia. COMPRENSIONE 2. Il poeta evoca una situazione apparentemente banale (delle tracce sulla rena bagnata dopo la pioggia), da cui però prende le mosse una riflessione sostanzialmente filosofica. Quali ipotesi formula Montale su di esse? Quale conclusione trae? ANALISI 3. Spiega il legame fra titolo e componimento. LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini propri del registro quotidiano e motivane l’uso da parte del poeta. Quali termini appartengono al registro colto?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. L’ultima parte della poesia, ispirata a un radicale pessimismo, ha un tono leopardiano. Quale legame ti sembra si possa istituire tra le considerazioni di Montale e quelle di Leopardi relative alla Natura? Per rispondere rileggi Il Dialogo della Natura e di un Islandese, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

280 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Fissare i concetti Eugenio Montale La biografia 1. Quali eventi caratterizzano gli anni fiorentini? 2. Che cosa accade durante gli anni milanesi? 3. In che modo vive l’autore l’ultimo decennio della propria vita? La visione del mondo 4. Come spiegheresti l’espressione “pessimismo combattivo” riferita a Montale? 5. Che cos’è il senso di “disarmonia” che il poeta avverte? 6. Chi, secondo Montale, può avere la possibilità di un “varco”? 7. Quale ruolo hanno le figure femminili? Le scelte ideologiche e politiche 8. Quali posizioni assume Montale in campo politico? 9. Quale giudizio esprime sulla società di massa e neocapitalistica? L’idea montaliana della poesia 10. Come nasce la poesia montaliana? 11. Quale visione della poesia esprime nelle proprie liriche? 12. Quali ne sono i modelli? 13. Quale differenza c’è tra Montale e Ungaretti? 14. Che cos’è il correlativo oggettivo? Ossi di seppia 15. Qual è il significato del titolo e la sua struttura? 16. Quali sono i nuclei tematici di Ossi di seppia? 17. Quali scelte espressive compie l’autore? Le occasioni 18. In quale periodo storico è stata scritta la raccolta? 19. Quale struttura presenta e qual è il significato del titolo? 20. A che cosa è dovuta la sua oscurità? 21. Quali sono i temi trattati? La bufera e altro 22. Qual è il significato del titolo? 23. Quali temi sono presenti nella raccolta e a quali eventi essa fa riferimento? 24. Quale trasformazione subisce la figura femminile? Farfalla di Dinard e Auto da fé: Montale prosatore 25. Di quali argomenti si occupa Montale in Farfalla di Dinard? 26. A che cosa vuole alludere Montale con la scelta del titolo della raccolta Auto da fé? Satura e le ultime raccolte 27. A che cosa è dovuto il mutamento dell’ultima produzione rispetto alla produzione precedente? 28. Quale significato si attribuisce al titolo della raccolta di poesie Satura e come è strutturato? 29. Quali sono i temi trattati in Satura? 30. Quali scelte stilistico-espressive Montale compie nella raccolta Satura? 31. Che cosa vuol dire il titolo Xenia, a chi sono dedicate le poesie e perché? 32. Quali analogie e quali differenze ci sono tra le ultime raccolte e Satura?

Un nuovo Montale: da Satura alle ultime raccolte 5 281


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Eugenio Montale E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984

Gloria del disteso mezzogiorno Ossi di seppia Gloria del disteso mezzogiorno quand’ombra non rendono gli alberi, e più e più si mostrano d’attorno per troppa luce, le parvenze, falbe1. 5

10

Il sole, in alto, – e un secco greto. Il mio giorno non è dunque passato: l’ora più bella è di là dal muretto che rinchiude in un occaso scialbato2. L’arsura, in giro; un martin pescatore volteggia s’una reliquia di vita. La buona pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia più compita.

1 falbe: giallo scuro, tendente al rosso. 2 occaso scialbato: tramonto sbiadito.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza in 5 righe il contenuto della poesia; individua parole chiave e tema centrale. 2. Che cos’è il «secco greto» (v. 5)? 3. Perché la pioggia viene definita «buona» (v. 11)? 4. Spiega il significato del v. 6 in rapporto al contesto. 5. Analizza il livello metrico-ritmico del componimento. 6. Individua gli elementi naturali evocati nella poesia e spiega, con riferimento al tema centrale, il valore simbolico dei singoli oggetti evocati e dell’azione rappresentata. 7. Ricerca le antitesi presenti nel componimento; spiegane l’utilizzo in rapporto alla tematica trattata. 8. Quali suoni predominano nella seconda e terza quartina? Qual è la loro funzione? 9. Analizza il testo dal punto di vista lessicale, individuando i termini propri del registro alto e motivandone l’utilizzo da parte dell’autore. Secondo te, il registro di questa lirica si distanzia da quello di altri testi montaliani? Perché?

Produzione

Il concetto centrale della lirica è la gioia più bella concessa all’uomo, che consiste non nell’appagamento del desiderio, ma nell’attesa di esso. Il tema dell’attesa accomuna questo componimento a Il sabato del villaggio di Leopardi, ma il discorso lirico si sviluppa con modalità diverse. Fai un confronto tra i due testi ed evidenzia le possibili analogie e differenze.

282 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Eugenio Montale, È ancora possibile la poesia. Prolusione alla consegna del premio Nobel, dicembre 1975

«Nel mondo c›è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi. Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel 5 senso peggiore della parola. L’arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L’esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano 10 per esorcizzare l’orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di sé stesso?»

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il contenuto del testo. 2. Che cosa intende l’autore con l’espressione «Nel mondo c’è largo spazio per l’inutile»? 3. Anche l’arte è sottoposta alle leggi del mercato: quali sono le conseguenze che questo fenomeno comporta?

Produzione

Il poeta polemizza con la corsa inarrestabile dei mutamenti culturali e degli stravolgimenti conseguenti, puntando in particolare sulla mercificazione e sull’effetto che ha sui giovanissimi, anticipando il fenomeno della critica del consumismo. Interpreta inoltre i primi grandi raduni giovanili sotto l’egida della musica rock come momenti in cui si esorcizza la propria solitudine. Esprimi la tua posizione in merito, a partire dalle tue conoscenze ed esperienze.

Verso l’esame di Stato 283


Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da un’intervista radiofonica a Montale condotta dalla Rai nel 1951, in seguito raccolta in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1976

«Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo. Ma credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l’arte, in una società migliore della nostra. 5 Platone bandiva i poeti dalla Repubblica; in certi paesi di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano dei fatti loro (cioè della poesia) anziché dei fatti collettivi della loro società. In un mondo unificato dalla tecnica (e dal prevalere di una ideologia) io non credo che i poeti “individualisti” potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri). È 10 possibile concepire un mondo in cui il benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all’inadattamento e allo scompenso di infime minoranze. In ogni modo questa ottimistica prospettiva lascia aperto il dissidio fra l’individuo e la società. È altrettanto possibile l’ipotesi che il dissidio sia risolto manu militari (con la forza), sopprimendo l’individuo inadattabile. Quello che appare invece 15 improbabile e indimostrabile è l’automatico o rapido avvento di una età dell’oro (nelle arti) non appena sia mutata la struttura sociale.»

Sul rapporto fra arte e politica (in concreto: fra il poeta e l’attualità, fra il mestiere di scrittore e l’impegno civile) Montale, nel corso della propria vita, ha sentito più di una volta quasi l’obbligo di esprimersi; non si trattava di affermazioni suggerite soltanto dalle circostanze, visto che il poeta le ha riprese più tardi, anche dopo la caduta del fascismo. Nel testo riportato, tratto da un’intervista del 1951, distingue in modo netto gli avvenimenti della storia sociale e politica, e «la condizione umana in sé considerata», che egli ritiene sia il vero argomento della poesia. La poesia dunque non sposa ideologie, ma parla all’uomo dell’uomo. Discuti la posizione di Montale e sostieni con chiarezza il tuo punto di vista con argomenti ricavati dalle tue conoscenze scolastiche ed extrascolastiche e con esemplificazioni tratte dalle tue esperienze di vita. Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima, in una sintesi coerente, il contenuto.

284 Il Novecento (Prima parte) 4 Eugenio Montale


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura Eugenio Montale cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita ispirata alla decenza quotidiana Nato a Genova nel 1896, sin dalla giovinezza Montale mostra interesse verso gli studi letterari e filosofici e un’inclinazione per la misura e la compostezza (la “decenza quotidiana”). Inizia a poetare appena ventenne e, dopo l’esperienza della guerra e l’incontro con artisti e intellettuali, presenta la propria, strutturata, visione del mondo già quando compone Ossi di seppia, nel 1925. Nel 1927 si trasferisce a Firenze e intensifica i contatti con gli scrittori che vivono in città, emergendo quale personalità di spicco; qui nel 1939 esce Le occasioni, la seconda raccolta. Durante la guerra vive appartato e, da antifascista, partecipa alla Resistenza. Nel 1948 si trasferisce a Milano e inizia a collaborare, in qualità di giornalista, con il «Corriere della sera». Solo nel 1956 viene pubblicato il terzo lavoro, La bufera e altro, mentre nel decennio successivo Montale ottiene riconoscimenti nazionali e internazionali che culminano con l’assegnazione, nel 1975, del premio Nobel per la letteratura. Negli anni ’70 escono Satura (1971), Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977), testimonianze di un nuovo modo di fare poesia. Il poeta muore nel capoluogo lombardo nel 1981.

La visione del mondo Nell’atteggiamento di Montale confluisce un personale disagio esistenziale, un senso profondo di scissione, di “disarmonia” avvertito, come egli stesso dice, a prescindere dalle circostanze storiche, pur negative. Questo nucleo pessimistico originario è poi alimentato da letture filosofiche appartenenti all’area dell’esistenzialismo. Importante è poi l’influsso della filosofia contingentista di Boutroux (1845-1921), che offre a Montale spunti per il motivo, ricorrente nella sua poesia, del varco, una miracolosa infrazione del determinismo alienante della realtà fenomenica a cui Montale non smette mai di credere e che si assocerà, a partire dalle Occasioni, soprattutto al ruolo salvifico della figura femminile. Le scelte ideologiche e politiche Individuo misurato e razionale, geloso della propria indipendenza intellettuale, mosso da un atteggiamento liberale, Montale conserva sempre una visione spiritualmente aristocratica della cultura e quindi critica verso la cultura di massa e la società capitalistica che si affermano nel secondo dopoguerra. L’idea montaliana della poesia La visione che Montale ha della poesia può sembrare a prima vista contraddittoria: da un lato egli tende a relativizzare o addirittura minimizzare la poesia e a considerare il poeta un uomo non certo più importante degli altri; dall’altro pensa che la poesia possa difendere i valori più alti della civiltà e opporsi alla barbarie. Certo la visione dolorosamente pessimistica di Montale non gli consente di formulare i messaggi altisonanti dei «poeti laureati», punti di riferimento della nazione, né d’altra parte la poesia può assumere un ruolo “rivelatore”, come nei simbolisti francesi o descrivere l’essenza del reale, come in Ungaretti. La poesia non ha nulla di positivo da affermare, ma può solo testimoniare leopardianamente il negativo della condizione umana. Nell’ultima fase della sua opera emerge una componente diaristico-autobiografica associata a un tono satirico, ritenuto necessario per descrivere una società senza senso, i cui elementi sono preda di una mercificazione senza limiti.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 285


2 Ossi di seppia

Il titolo e la struttura Il primo e più noto libro di poesie di Montale esce in una prima edizione nel 1925, in un momento storico drammatico: è in atto la trasformazione del fascismo in dittatura liberticida. Ossi di seppia, titolo della prima raccolta, è il primo esempio dei titoli-emblema propri di Montale. In questo caso il poeta allude all’aridità interiore, frutto dello scacco esistenziale e conoscitivo che caratterizza l’io lirico, ma più in generale l’uomo contemporaneo: la pienezza del vivere è preclusa, l’uomo è imprigionato nel chiuso determinismo della dimensione fenomenica e non può cogliere l’essenza della realtà. La disposizione delle liriche, distribuite in quattro sezioni, vuole comunque tracciare un itinerario, dal trionfo della negatività all’auspicio di una possibile nuova armonia con la natura e la vita. I nuclei tematici La visione montaliana si spiega lungo l’opera attraverso temi ricorrenti. Il più importante è quello dell’insensatezza della vita, che provoca una tensione conoscitiva della realtà che, tuttavia, non può essere mai completa, né dal punto di vista esteriore né da quello interiore. Di qui deriva l’impotenza della poesia a trasmettere messaggi utili al lettore. Il superamento di questa condizione («il varco») è più sperato-atteso che vissuto e si configura in rari momenti “miracolosi”, portatori di senso e vitalità. Già in Ossi di seppia Montale rifiuta di porre l’“io” al centro della sua poesia e di abbandonarsi all’effusione lirica dei propri stati d’animo e sceglie con decisione una poesia degli “oggetti”, che traduca con evidenza sensibile i concetti-chiave della sua poesia: in questo caso egli attinge le immaginiemblema dallo scabro e assolato paesaggio delle Cinque Terre, che si affaccia sul mar Ligure. Le scelte espressive Sul piano stilistico-linguistico Montale rifiuta, come dichiara nella poesia-manifesto I limoni, una poesia eloquente, sontuosa, come quella dannunziana: non mancano in realtà echi di D’Annunzio e della tradizione letteraria, ma immessi in un tessuto linguistico che predilige suoni aspri, dissonanti, secondo il modello dell’espressionismo vociano e di Dante stesso.

occasioni: il tempo, la memoria, 3 Le il mito della donna-messaggera La seconda raccolta di Montale, pubblicata nel 1939 (l’anno in cui inizia la Seconda guerra mondiale), presenta alcuni importanti elementi evolutivi rispetto agli Ossi di seppia. Tende qui a scomparire il riferimento al paesaggio ligure, in rapporto a nuove suggestioni, legate al ricco ambiente culturale fiorentino e alla collaborazione con la rivista «Solaria» (con la conseguente apertura alla cultura europea). Lo stile è più elevato, sono meno presenti dissonanze tra aulico e prosaico. Montale fa un uso più consapevole e radicale del correlativo oggettivo, in spontanea convergenza con la poetica di Eliot, che va conoscendo in modo più approfondito: decide ora di annullare nella sua poesia il momento commentativo-riflessivo che giustificava l’uso di una determinata immagine e si limita ad affidare le sue tematiche all’oggetto simbolico: ne risulta una poesia più “cifrata” e difficile, anche in rapporto a una visione elitaria della cultura. Centrale nella nuova raccolta è il tema della memoria, del ricordo, concepito come “occasione” capace di conferire all’effimero, come scrive Montale, «sembianza d’eterno». Per lo più è però rappresentata la sconfitta della memoria personale, incapace di arginare il trascorrere distruttivo del tempo. Il tema del miracolo, già presente in Ossi di seppia, si collega qui al ruolo di una figura femminile, messaggera salvifica, dietro cui si cela Irma Brandeis, una giovane studiosa di Dante amata da

286 Il Novecento (Prima parte) Eugenio Montale


Montale, poi denominata Clizia nella Bufera, che, essendo ebrea, lascerà l’Italia nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi antisemite. Tratteggiata in modi che richiamano lo stilnovismo dantesco, Clizia simboleggia nelle Occasioni la chiaroveggenza, la “resistenza” della cultura di fronte ai tempi oscuri e alla barbarie.

4 La bufera e altro e la prosa

La bufera e altro Pubblicata nel 1956, la terza raccolta montaliana riunisce poesie scritte nel tempo della guerra e nel dopoguerra. Il confronto con la Storia, come Montale stesso ebbe a sottolineare, entra in questa raccolta in modo molto più marcato. Si tratta di un confronto del tutto negativo: la storia è dominata dal male e dall’ingiustizia, il che spiega la ripresa della figura della donna-angelo in chiave addirittura religiosa: Clizia è ormai rappresentata, per lo meno in alcune poesie, come “figura” di Cristo, chiamata al sacrificio per tutti gli uomini. La trasfigurazione allegorica della donna rivela qui in modo più netto l’influenza di Dante e della Commedia; ad essa, comunque, si associa la figura di una donna (denominata Volpe, dietro cui si cela la poetessa Maria Luisa Spaziani) che appare contrapposta a Clizia perché espressione di un amore terreno e sensuale. Verso la fine della raccolta la fiducia in un riscatto dal male della storia sembra venir meno e non a caso si rievocano persone care al poeta ma venute a mancare: unici legami con un mondo ormai trascorso. Nella parte conclusiva della raccolta Montale affida alla lirica Piccolo testamento il proprio lascito morale. Farfalla di Dinard e Auto da fé: Montale prosatore Negli anni ’40, quando lavora al «Corriere della sera», Montale intensifica la produzione in prosa. Nel 1956, poi, raccoglie in Farfalla di Dinard testi pubblicati sul giornale. I lavori, con tono ironico e stile curato, mostrano attenzione al costume e aiutano a comprendere meglio la produzione poetica dell’intellettuale. Auto da fé è una raccolta di prose giornalistiche e saggistiche del 1966. Con ironia, Montale riesamina le proprie scelte etiche e artistiche del periodo 1925-1966, esponendole esplicitamente al giudizio del pubblico.

nuovo Montale: da Satura 5 Un alle ultime raccolte La svolta poetica degli anni Sessanta e Settanta Nel 1971, dopo quindici anni di silenzio poetico, Montale pubblica Satura. Diventano dominanti un registro satirico e un andamento antilirico e prosastico, corrispondenti al giudizio negativo del poeta sull’omologazione della società di massa, schiava del consumismo, degli slogan pubblicitari e di falsi miti progressisti e alla consapevolezza della scomparsa della civiltà umanistica e liberale. Si tratta di una produzione nel suo complesso diversa dalle raccolte precedenti, in cui Montale sceglie nuove strade poetiche, adeguate a un contesto in cui la poesia “alta”, “sublime” non ha più senso. Satura L’opera è divisa in cinque sezioni. I contenuti sono intrisi di pessimismo, veicolato al lettore attraverso la trattazione di temi legati alla vita quotidiana e l’uso di un lessico “basso”; l’unico modo di resistere al caos del mondo massificato è l’isolamento. Le ultime raccolte Gli ultimi lavori sono Diario del ’71 e ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1980), che confermano la prospettiva, i temi e lo stile di Satura, così come il distacco dal mondo coevo, elaborato da riflessioni che prendono spunto da avvenimenti quotidiani.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 287


Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina di far parte della redazione di una rivista culturale che si occupa di letteratura e di essere stato inviato, il 10 dicembre del 1975, a Stoccolma alla cerimonia di conferimento del Nobel per fare un’intervista a Eugenio Montale, in occasione dell’assegnazione del premio. Costruisci le risposte sulla base delle tue conoscenze relative al pensiero di Montale e possibilmente facendo riferimento ad alcuni suoi testi. Se lo ritieni opportuno, utilizza anche i seguenti contributi: – http://www.corriere.it/reportage/senza-categoria/2015/il-grazie-di-montale-al-premio-nobel/ – http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1975/montale-lecture-i.html – http://www.nobelprize.org/mediaplayer 2. Utilizza la lirica montaliana Cigola la carrucola del pozzo (➜ T6 ) come spunto per scrivere un testo narrativo che abbia come tema il ricordo. 3. Prova a riscrivere il componimento di Montale Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale (➜ T20 ) sotto forma di lettera scritta idealmente alla moglie.

Lavoro di gruppo

4. Svolgi con i tuoi compagni una ricerca sul web a proposito dei luoghi montaliani, fornendo un’adeguata sitografia. a. Analizzate a piccoli gruppi un luogo tra i più significativi della vita del poeta. b. Presentate il luogo scelto con un elaborato multimediale (PowerPoint, blog, sito ecc.), abbinate al luogo un testo letterario (o parte di testo) dell’autore, relazionate in classe cercando di mettere in evidenza il legame stabilito tra poeta e luogo, la sua valenza simbolica, se si tratta di uno spazio reale o di un paesaggio poetico.

Competenza digitale

5. “Le figure femminili nella poesia di Saba e di Montale” Ricerca sul libro di testo e su eventuali altre fonti (altri libri, siti web ecc.) dei dati biografici dei due poeti in riferimento alla tematica proposta. Lettura delle seguenti liriche, oltre a quelle antologizzate inerenti alla tematica: • Saba: Anniversario, Tre poesie alla balia, Donna, Eros. • Montale: Dora Markus, A Liuba che parte, L’anguilla, Ti libero la fronte dai ghiaccioli. La classe si divide in cinque gruppi, quattro dei quali affrontano la ricerca: 2 gruppi per le ricerche biografiche 1 gruppo per analisi liriche di Saba 1 gruppo per l’analisi delle liriche di Montale. Ogni gruppo stenderà un report che verrà illustrato alla classe. Il quinto gruppo raccoglierà gli esiti dei lavori per produrre un elaborato multimediale riassuntivo, che a sua volta illustrerà alla classe.

288 Il Novecento (Prima parte) Eugenio Montale


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

5 Alla ricerca del “reale”

In controtendenza rispetto al gusto dominante negli anni Venti, che in ambito narrativo prediligeva la prosa d’arte e il frammento estremamente curato sotto il profilo stilistico, già nel 1923 il critico Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) autore di un romanzo molto significativo, Rubè (1921), aveva prospettato la necessità di dar vita a una riedificazione del romanzo, nel suo scritto Tempo di edificare, recuperando la grande lezione della narrativa naturalista e verista. Di fatto alla fine degli anni Venti è solo Moravia con Gli Indifferenti a dar vita a un romanzo in qualche misura realistico, ma si tratta di un caso isolato, che in nessun modo poteva costituire un paradigma. Saranno invece gli scrittori in genere definiti “meridionalisti” che, negli anni Trenta, riaprendo il modello verista con nuove motivazioni etico-politiche, getteranno le basi di un nuovo realismo, poi continuato dalla corrente neorealista, nata dal dramma della guerra e dalla Resistenza.

voce del Sud 1 Ladell’Italia, dimenticato dalla Storia

Moravia 2 Alberto tra realismo

ed esistenzialismo 289


1

La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia La letteratura meridionalistica Nel Novecento un gruppo di scrittori, di origine meridionale, eredita la grande lezione di Verga, che le circostanze storiche rendevano particolarmente attuale e vitale. Si tratta degli scrittori in genere definiti “meridionalisti” perché nelle loro opere (racconti e romanzi) è protagonista il Sud d’Italia. Il rinnovato interesse al meridione conosce due momenti fondamentali: il primo si colloca intorno agli anni Trenta, nel periodo dunque del fascismo: la rappresentazione del Sud presente nelle opere di Corrado Alvaro (Gente in Aspromonte ➜ T1 ) e di Ignazio Silone (Fontamara➜ T2a ), composte entrambe nel 1930, si contrappone volutamente alla propaganda del regime, che tendeva a diffondere una visione ottimistica e mistificante dell’Italia, rivelando al contrario le condizioni di arretratezza ed estrema povertà in cui vivevano i contadini del meridione. Un secondo momento riguarda il periodo della Resistenza e l’immediato secondo dopoguerra quando, in nome della poetica neorealista, gli scrittori avvertono la necessità di un nuovo impegno civile e la letteratura stessa diventa una forma di militanza politica. Anche in questo caso lo sfondo prevalente delle rappresentazioni è il tempo del fascismo: racconti e romanzi costituiscono una vibrante denuncia dell’oppressione secolare delle masse contadine del Sud, che durante il fascismo si intensifica ulteriormente grazie alla convergenza di interessi tra il nuovo potere e gli antichi privilegi feudali. Ma non manca in alcuni scrittori un interesse che travalica la denuncia politica e si lega alla scoperta e valorizzazione del patrimonio di miti, credenze, usi che caratterizzano la arcaica civiltà contadina: è il caso del fortunato romanzo-memoriale di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1945), frutto del periodo in cui l’autore, in quanto antifascista, era stato mandato al confino in un piccolo paese della Lucania (la Basilicata). Ambientato invece tra l’unità d’Italia e la grande guerra e composto all’inizio degli anni Settanta è il suggestivo romanzo di Giuseppe Dessì Paese d’ombre che riprende i moduli del romanzo storico per rappresentare una saga familiare in un piccolo paese della Sardegna e mettere a fuoco i gravi problemi dell’isola e delle popolazioni contadine.

1 Corrado Alvaro e il lirismo estetizzante di Gente in Aspromonte La biografia Corrado Alvaro nasce a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, nel 1895. Dopo gli studi liceali, partecipa alla Prima guerra mondiale ed è ferito nei pressi di San Michele del Carso. Nel 1916 inizia l’attività di giornalista, che svolgerà per tutta la vita, e che lo porta spesso all’estero. Nel 1919 si trasferisce a Milano e collabora al «Corriere della Sera». Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. All’occupazione tedesca di Roma deve fuggire a Chieti sotto falso nome. Nel 1951 il suo romanzo Quasi una vita vince il premio Strega. Muore a Roma nel 1956, lasciando incompiuti alcuni romanzi. La raccolta Gente in Aspromonte Pubblicata nel 1930, Gente in Aspromonte è una raccolta di tredici racconti ambientati nel mondo primitivo e povero delle campagne calabresi. Il più lungo dei racconti, che dà il titolo a tutta la raccolta, narra

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le vicende della famiglia del pastore Argirò, i cui due figli, Benedetto e Antonello, cercano in modi diversi, ma tutti inutili, di riscattarsi da una condizione di secolare povertà. Il primo studia in seminario; il secondo invece, lavora come manovale lontano dal paese per mantenere il fratello agli studi. Ritornato a casa Antonello, esasperato da angherie che la giustizia ufficiale sembra ignorare, si ribella e inizia una vita da fuorilegge, fatta di continue razzie nelle proprietà dei possidenti del luogo, grazie alle quali aiuta i poveri del suo paese, fino a quando sarà arrestato. Prosa lirica e prospettiva estetizzante La vita dei contadini calabresi è raffigurata attraverso una prosa raffinata ed evocativa, ricca di figure retoriche e intonazioni liriche. La trasfigurazione lirica non esclude completamente l’analisi sociologica, né la prospettiva di denuncia, ma rimane l’elemento preponderante nell’opera e, come è stato notato dalla critica, ne costituisce anche il limite intrinseco. Si percepisce infatti nell’opera di Alvaro una tensione irrisolta fra la dimensione della memoria – che conferisce all’evocazione dei luoghi nativi dello scrittore un’aura mitica e nostalgica – e la genuina volontà di denuncia, frutto della consapevolezza da parte dell’autore della necessità di un riscatto di quelle terre da un secolare sfruttamento. Come ha notato il critico Carlo Salinari, «si ritroverà il migliore Alvaro quando la sua Calabria cessa di essere un rifugio romantico e decadente, un’oasi di originaria innocenza, e diventa la Calabria reale con i suoi pastori e la loro vita di stenti e di miseria»; ma sono rari momenti, in un’opera che resta essenzialmente dominata da una visione estetizzante del mondo contadino, vicina tutto sommato a certo decadentismo di gusto dannunziano.

PER APPROFONDIRE

Gente in Aspromonte DATA

1930

GENERE

raccolta di racconti

CONTENUTO

rappresentazione in chiave lirica della vita dei contadini calabresi, denuncia sociale attraverso una prospettiva estetizzante

STILE

prosa evocativa e lirica

Letteratura e mondo rurale: un filo rosso nella tradizione letteraria italiana Nella letteratura italiana, dalle origini ad ampia parte del Novecento, è costante il riferimento al mondo della campagna, ma le modalità della rappresentazione mutano in modo considerevole non solo in rapporto all’evolvere delle dinamiche storico-sociali e ai modelli culturali dominanti nelle varie epoche, ma anche in relazione alla personalità degli autori. Nella cultura medievale, in relazione al disprezzo rivolto a chi lavora i campi, prevale una rappresentazione comico-satirica che trova espressione nel fortunato genere della “satira del villano”. La raffinata cultura umanistico-rinascimentale preferisce invece ritrarre il mondo della campagna attraverso una stilizzazione idillica che riprende modelli classici. Nell’età romantica la poetica realista che ispira ampia parte

della narrativa ottocentesca induce gli scrittori, al contrario, a rifiutare una rappresentazione idealizzata del mondo della campagna: ne offrono ampia testimonianza gli scorci realistici di vita paesana presenti nei Promessi sposi e ancor più la cosiddetta narrativa “rusticale”. All’indomani dell’unificazione del paese, la presa di coscienza delle difficili condizioni del popolo, impone la centralità del tema sociale e meridionale. È Giovanni Verga con i suoi romanzi e le sue novelle il più significativo interprete di questa nuova tendenza. Descrivere il mondo rurale (o quello dei pescatori dei Malavoglia) si coniuga, per Verga, con l’intento di dare voce e dignità letteraria ai “vinti” della storia, il che comporta il recupero della loro lingua, del loro sistema di valori, del loro immaginario arcaico.

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Corrado Alvaro

T1

Il mondo magico e arcaico dei pastori Gente in Aspromonte

C. Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano 2000

È la parte iniziale del lungo racconto Gente in Aspromonte: consiste in un’ampia descrizione dell’ambiente dove si svolgerà l’azione.

Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta che protegge le spalle, come si vede talvolta qualche dio 5 greco pellegrino e invernale1. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie2 fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero3 verdastro rinforzato d’erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia4 le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i 10 lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti, screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto5 delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figurina da mettere sulla conocchia6, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle 15 soglie delle tane7, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano8, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura9. Allora la luna nuova avrà spazzata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi10 delle chiacchiere e dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra11. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero 20 scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici. Arriva di quando in quando la nuova12 che un bue è precipitato nei burroni, e il paese, come una muta di cani, aspetta l’animale squartato, appeso in piazza, al palo del macellaio, tra i cani che ne fiutano il sangue e le donne che comperano a poco prezzo. 25 Né le pecore né i buoi né i porci neri appartengono al pastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno del mercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina13. Nella solitudine ventosa della montagna il pastore fuma la crosta della pipa14, guarda saltare il figlio come un capriolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell’acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. 30 Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, dà fiato alla zampogna, e tutti 1 come si vede… invernale: il significativo paragone tra l’abbigliamento dei pastori dell’Aspromonte e quello di una non meglio identificata divinità antica (forse Hermes-Mercurio, spesso raffigurato in veste di pellegrino) rimanda fin dall’inizio dell’opera a un ambito mitologico e arcaico. 2 le caldaie: i grandi calderoni dove veniva bollito il latte appena munto. 3 il siero: è il liquido che resta alla formazione del formaggio (a cui sono aggiunte erbe aromatiche).

4 gonfia: fa maturare. 5 stecche da busto: le stecche rigide che si usavano per i busti degli abiti femminili.

6 conocchia: strumento usato per la filatura a mano. 7 tane: sono i miseri tuguri dove i pastori trovano riparo nei lunghi mesi del pascolo, contrapposte alle case di muro di cui si parla poco più avanti. 8 al piano: in pianura. 9 albero dolce della pianura: in un’espressione fortemente condensata, l’albero che cresce in pianura (in contrapposizione agli

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alpeggi) è definito dolce perché il vederlo corrisponde alla fine della solitudine e al recupero degli affetti familiari. 10 grevi: alla lettera “piene”, ma l’aggettivo (così come, più esplicitamente il successivo sostantivo sospiri) allude alla sofferenza delle donne lontano dai pastori. 11 mandra: mandria. 12 nuova: notizia. 13 dalla marina: dal mare, dalla costa. 14 la crosta della pipa: i residui di tabacco che si raggrumano al fondo del fornello della pipa.


pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono15 i vicoli coi lor grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all’improvviso come passerotti, e i vecchi che non si possono più muovere fissano l’ultimo filo di luce, e 35 le vecchie rinfrescano all’aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia del vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d’un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nelle giornate della 40 montagna come un fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra16. 15 si empiono: si riempiono. 16 Quel vino… di mandra: per i pastori, prigionieri della povertà che li costringe ad accontentarsi, per calmare la propria

sete, del latte della mandria che stanno accudendo, il ricordo del vino visto come una sorta di miraggio nella casa del signore diventa come un fuoco dissetante (forte

ossimoro che esprime tutta la forza di un desiderio inappagato).

Analisi del testo Una dimensione favolosa e atemporale Le prime pagine del racconto lungo Gente in Aspromonte sono una descrizione dell’ambiente in cui si svolgerà l’azione che rifugge da qualsiasi intento realistico, e che tende piuttosto a suggerire l’impressione di un’atmosfera fuori dal tempo e dallo spazio. Più che alla resa documentaria della vita dei pastori, Alvaro sembra interessato a creare impressioni, soprattutto visive, capaci di ammaliare il lettore, e di trasportarlo in un’atmosfera sospesa, priva di una precisa caratterizzazione storica: si veda ad esempio il passaggio che descrive le caldaie per la bollitura del latte, con la marcata contrapposizione coloristica tra il nero delle caldaie stesse (che richiama poi il nero del cappuccio indossato dai pastori) e il bianco della neve, implicitamente legato al bianco del latte; o anche, poco più avanti, la sapiente tavolozza che si viene a creare con l’immagine della quercia verde (che riprende il colore verdastro del siero di latte) che «gonfia le ghiande pei porci neri». Più che alla storia, il mondo qui raffigurato sembra appartenere alla dimensione del mito, o comunque di un passato ancestrale, arcano, indefinito.

Toni lirici e preziosismi linguistici A questa descrizione densa di suggestioni trasfiguranti e lontana da tratti realistici corrisponde una lingua ricercata, qua e là fin cesellata: lontanissima dalle consuetudini comunicative del mondo rappresentato, incline piuttosto al lirismo e alla sfumatura colta. Non a caso, per la prosa di Alvaro si è parlato di “aura dannunziana”: rimanda al D’Annunzio delle novelle abruzzesi il ricorso a termini desueti, di gusto poetico e talvolta un poco artificioso, quale fiasca, coltelluzzi, mandra. Si aggiunga per un effetto di studiata letterarietà anche la ricchissima aggettivazione e il ricorso frequente a paragoni.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo (max 10 righe), privilegiando lo specifico contenuto descrittivo del racconto. COMPRENSIONE 2. La dichiarazione che apre il passo e l’intero brano ti sembra motivata dal seguito del testo? ANALISI 3. Si è detto che la raffigurazione di Alvaro ricorre abbondantemente a suggestioni visive, a elementi coloristici: motiva il giudizio attraverso qualche riferimento al testo. STILE 4. Individua nel testo termini ed espressioni riconducibili a uno stile lirico. 5. A quale campo semantico appartiene la maggior parte degli aggettivi qualificativi?

Interpretare

SCRITTURA 6. Il passo rappresenta in modo lirico il mondo dei pastori, ma non sono assenti spunti di denuncia: individuali e commentali adeguatamente (max 10 righe).

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2 Ignazio Silone e il romanzo di denuncia: Fontamara online

Video e Audio Trailer del film Fontamara (1980) di Carlo Lizzani

La biografia Ignazio Silone (pseudonimo di Secondo Tranquilli) nasce in provincia dell’Aquila nel 1900; perde l’intera famiglia nel terremoto della Marsica del 1915. Fin dal 1917 figura a capo delle prime leghe rosse dei contadini abruzzesi, e comincia l’attività giornalistica nell’ambito di periodici di militanza politica. Al congresso di Livorno (1921) partecipa alla fondazione del Partito comunista. Dopo l’avvento del fascismo, fugge all’estero, dove continua a fare politica. Nel 1930, durante le persecuzioni e le purghe staliniane, si stacca dal partito, ma non abbandona l’attività antifascista. Negli anni della dittatura scrive molte opere, tutte pubblicate all’estero: Fontamara (1933), Pane e vino (1936), La scuola dei dittatori (1938), Il seme sotto la neve (1941) e l’opera teatrale Ed egli si nascose (1944). Dopo la guerra va sempre più orientandosi verso un socialismo ispirato ai valori cristiani, che connota la sua successiva produzione: Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), L’avventura d’un povero cristiano (1968), a cui va aggiunto il memoriale Uscita di sicurezza (1965). Muore a Ginevra nel 1978. Fontamara Il primo e più noto romanzo di Ignazio Silone è Fontamara scritto nel 1930 quando lo scrittore, militante antifascista, era esule in Svizzera. Pubblicato in tedesco nel 1933, il romanzo conosce presto grande fama all’estero (verrà tradotto in ben 27 lingue), mentre per vederlo pubblicato in Italia occorrerà aspettare il 1946. Fontamara è ambientato in un immaginario paesino del più profondo e povero Abruzzo, Fontamara appunto, del tutto simile a quello dove lo scrittore era nato: il paesaggio, la vicenda, i personaggi raffigurati attingono alla memoria di Silone stesso, attivo fin dall’adolescenza nella mobilitazione politica dei contadini abruzzesi, i cafoni . I cafoni Assuefatti da secoli a essere sfruttati dal potere latifondista, privi di istruzione e di qualsiasi elementare forma di coscienza civile, a Fontamara i cafoni vivono giornate uguali l’una all’altra, schiavi di una condizione di povertà accettata come inesorabile legge della natura. Sono incapaci di comprendere il corso della storia, che con l’ascesa del fascismo si configura per loro in nuove, più violente e umilianti forme di sopraffazione.

Parola chiave

La vicenda Fontamara racconta il tentativo di reazione a questo rassegnato fatalismo da parte della piccola comunità abruzzese, che trova il suo oscuro “eroe” nel giovane Berardo Viola, nipote di un uomo arrestato per attività sovversiva, che trova il riscatto da una vita di miseria e frustrazioni con una morte coraggiosa. Dichiara infatti di essere lui un rivoltoso ricercato dalla polizia, il Solito sconosciuto, così da consentire a quest’ultimo di proseguire la sua attività a favore dei poveri e degli oppressi.

cafone Cafone è una parola meridionale che significa semplicemente “contadino” ed è in questa accezione che viene usato nel romanzo di Silone. Già negli anni di composizione del romanzo però, il termine era anche diventato sinonimo di “persona rozza, ignorante e maleducata”: un uso figurato e negativamente connotato ancora oggi molto diffuso. Nella lunga prefazione al romanzo, Silone si dichiara consapevole che in Italia il nome cafone è usato come offesa, ma aggiunge: «io l’adopero in questo libro nella certezza che

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quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore». Per Silone i cafoni sono certo innanzitutto i contadini del suo paese, a cui il suo romanzo è dedicato, ma al contempo quella di cafone, nella risentita denuncia dello scrittore, tende a diventare una categoria antropologica più generale: cafoni sono i contadini poveri di tutto il mondo, a tutte le latitudini, capaci di intendersi anche senza parlare la stessa lingua, sulla base di esperienze simili e di un comune vissuto.


Proprio il misterioso personaggio indurrà i fontamaresi a fondare un loro giornale e a tentare di ribellarsi. La loro presa di coscienza finirà in un bagno di sangue, ma il titolo che i "cafoni" avevano scelto per il giornale locale – «Che fare?» – indica di per sé un’embrionale presa di coscienza della necessità di agire per conquistare finalmente una dignità umana e sociale. Una voce narrante corale Silone immagina che nel luogo del suo esilio giungano tre fontamaresi (il vecchio padre, la madre, un figlio) sfuggiti alla sanguinosa repressione che ha sconvolto il paese. La narrazione dei fatti è delegata a loro, in particolare al marito e alla moglie che, con l’uso frequente del pronome personale “noi” alludono però all’intera comunità dei cafoni di Fontamara, di cui essi si fanno portavoce e interpreti: quello di Fontamara è perciò di fatto una sorta di narratore corale, organico al mondo narrato, secondo una prospettiva verghiana. Proprio questa “delega” narrativa, questa rappresentanza autorale, significativa anche sul piano ideologico, consente a Silone di evitare per lo più i toni nostalgico-sentimentali. «In che lingua devo raccontare questa storia?» Silone cerca di adottare una prospettiva realistica, funzionale agli obiettivi di denuncia che si propone. Se il mondo che ritrae si contrappone polemicamente, per sua stessa dichiarazione, a certe immagini pittoresche e stereotipate del Sud, anche la lingua da usare per narrare i fatti di Fontamara dovrà essere allora lontana da ogni deformazione letteraria, sforzarsi di tradurre il modo di pensare dei cafoni di Fontamara «senza allusioni, senza sottintesi, chiamando pane il pane e vino il vino». Da qui la scelta di uno stile semplice, con netta prevalenza della paratassi, di modi espressivi del parlato e di un lessico piano, per non dire disadorno.

Famiglie di coloni abruzzesi, ritratti con i conti Durini, proprietari delle terre (1935).

Fontamara GENERE

romanzo

DATA

1933 in Svizzera, 1946 in Italia

CONTENUTO

denuncia delle condizioni dei cafoni ovvero dei contadini abruzzesi

NARRATORE

corale

STILE

semplice e paratattico

LESSICO

piano

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Dessì e Paese d’ombre: una saga familiare 3 Giuseppe nel mondo arcaico della Sardegna La biografia Giuseppe Dessì (1909-1977) nasce a Cagliari, da una famiglia originaria di Villacidro, dove trascorre l‘infanzia. Frequentando il liceo classico di Cagliari ha la fortuna di incontrare come insegante lo storico Delio Cantimori, che ne segue e ispira la formazione. Dopo la laurea in Lettere a Pisa, diventa insegnante e poi provveditore agli studi in varie città d’Italia, ma coltiva sempre la sua passione per la narrativa. Un romanzo con tratti autobiografici Nel 1972 lo scrittore sardo pubblica il romanzo Paese d’ombre, insignito quello stesso anno con il prestigioso premio Strega. Ambientato in un piccolo paese dell’interno della Sardegna tra l’Unità d’Italia e il primo dopoguerra, il romanzo è in parte autobiografico: Norbio, il paesino del Campidano (zona a sud-ovest della Sardegna) in cui si svolge la maggior parte delle vicende, è Villacidro, terra d’origine della famiglia dello scrittore; il protagonista, Angelo Urias, rispecchia la figura del nonno di Dessì, illuminato sindaco del paese, mentre lo scrittore stesso si ritrae nel piccolo Marco, l’erede della famiglia. La ripresa del romanzo storico Paese d’ombre è un’opera dal solido impianto narrativo, per certi aspetti tradizionale, fondata sulla fiducia dell’autore che scrivere romanzi voglia dire ancora soprattutto narrare una storia e proporre una chiara (e persino educativa) visione del mondo. L’opera ricostruisce la vita del protagonista Angelo Urias e la vicenda della sua famiglia sullo sfondo dello scorrere della Storia e, parallelamente, illumina la condizione del popolo in una zona periferica dell’Italia unita, cioè la Sardegna: in particolare la Sardegna dell’entroterra, una terra in cui persistono secolari usanze, pregiudizi, tradizioni, una società arcaica, chiusa al mondo esterno, «da sempre avvezza ad aspettarsi dai forestieri soltanto soprusi». Nel riprendere sostanzialmente il modello del romanzo storico, Dessì non muove da un’ottica culturale e ideologica nostalgica e passatista, ma dalla risentita coscienza della realtà attuale della sua isola, preda di nuove speculazioni e della rapacità di chi detiene il potere economico. Le modalità narrative Anche nelle modalità narrative il romanzo di Dessì riprende e rivitalizza la tradizione: la vicenda del protagonista, dall’infanzia alla vecchiaia, è narrata linearmente, senza salti temporali da una voce narrante in terza persona superiore al mondo narrato (ma che a quel mondo manifesta piena adesione). I personaggi, infine, sono tratteggiati in modo deciso, senza ambiguità, e sono portatori in modo evidente di valori (o disvalori) etici, così da favorire la partecipazione del lettore alla storia raccontata. I personaggi Totalmente “positivo” è il personaggio di Angelo Urias, così come indiscutibilmente positive sono altre figure fondamentali, come Sofia, la madre, Valentina, la sposa bambina che muore di parto, Antonio Ferraris, il funzionario venuto dal Nord, che, pur appartenendo agli “oppressori” piemontesi, comprende i problemi della popolazione e della terra sarda, e il vecchio avvocato don Francesco Fulgheri, anticlericale, repubblicano, difensore dei poveri e degli oppressi che, preso a benvolere Angelo, lascia a lui e sua madre ogni suo avere. La vicenda Proprio da questa inaspettata eredità prende avvio il romanzo, dopo la morte tragica, frutto di una oscura vendetta, di don Francesco. Angelo e la madre, da poveri contadini, si ritroveranno proprietari terrieri (ma generosamente resti-

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tuiranno ampia parte delle terre ereditate alla altera famiglia di don Francesco). Angelo saprà assumere la sua nuova identità sociale di possidente senza alterigia, mantenendosi fedele alla sua visione onesta e laboriosa della vita e all’amore per la sua terra, di cui individua con chiarezza e lungimiranza, quasi con una precoce coscienza ambientalista, i problemi: in particolare quello del disboscamento selvaggio, frutto di leggi dissennate, che il governo dell’Italia unita intensifica ulteriormente per ricavare carbone dalle ricche foreste, provocando gravi danni ambientali, come allagamenti e frane. Angelo riuscirà a diventare proprietario della grande foresta di Aletzi, impedendone così lo sfruttamento. Le sue doti di equilibrio, saggezza, di dinamismo e apertura moderata alle novità della vita moderna ne fanno una figura di riferimento nel paese (di cui diventerà sindaco). Realizzando numerose opere pubbliche e ricomprando i boschi circostanti, cercherà di consegnare ai suoi discendenti, dopo una vita lunga e operosa, un paese più moderno e giusto.

T2

I difficili rapporti tra comunità di paese e stato I brani proposti ci presentano due piccoli borghi, il primo in Abruzzo e il secondo in Sardegna, che, pur essendo geograficamente lontani, possono essere idealmente avvicinati. Entrambi devono affrontare il problema del difficile rapporto con lo stato, nel quale le comunità locali non si riconoscono.

Ignazio Silone

T2a

I «cafoni» e lo stato: due universi incommensurabili

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Fontamara I. Silone, Fontamara, Mondadori, Milano 1982

All’inizio di Fontamara si presenta l’incontro tra i cafoni, gli abitanti del paesino immaginario in cui è ambientata l’azione del romanzo, e un “cittadino”, un funzionario inviato dal governo per far firmare loro una petizione che si tradurrà in un danno per loro (come poi si scoprirà). Il brano mette in scena lo scontro fra due mondi lontani e destinati all’incomunicabilità: il mondo ambiguo della burocrazia governativa e quello chiuso e statico della tradizione contadina.

La luce doveva essere tagliata al primo gennaio1. Poi al primo marzo. Poi al primo maggio. Poi si disse: «Non sarà più tolta. Sembra che la regina sia contraria. Vedrete che non sarà più tolta.» E al primo giugno fu tagliata. Le donne e i bambini che erano in casa furono gli ultimi ad accorgersene. Ma noi 5 che tornavamo dal lavoro – quelli che erano stati ai mulino e tornavano per la strada rotabile2, quelli che erano stati alla contrada del cimitero e tornavano giù dalla montagna, quelli che erano stati alla cava di sabbia e tornavano costeggiando il fosso, quelli che erano stati a giornata3 e tornavano un po’ da tutte le parti – a mano a mano che si faceva scuro e vedevamo le luci dei paesi vicini accendersi e 10 Fontamara sbiadirsi, velarsi, annebbiarsi, confondersi con le rocce, con le fratte, con 1 La luce… gennaio: al paese di Fontama-

2 strada rotabile: strada percorribile con

ra deve essere tolta la luce elettrica, per i mancati pagamenti delle bollette.

veicoli a ruote.

3 erano stati a giornata: sono lavoranti giornalieri, cioè ingaggiati giorno per giorno.

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i mucchi di letame, capimmo subito di che si trattava. (Fu e non fu una sorpresa.) Per i ragazzi fu anzi motivo di baldoria4. Da noi i ragazzi non hanno spesso motivi di baldoria e quando capitano, povere creature, ne approfittano. Così quando arriva una motocicletta, quando due asini si accoppiano, quando si incendia un camino. 15 […] Davanti alla cantina di Marietta, attorno al tavolo messo per strada, ci fermammo Michele Zompa ed io; e subito dopo sopravvenne Losurdo con l’asina che aveva portato alla monta5; e dopo venne anche Ponzio Pilato6 con la pompa per insolfare7 sulla schiena; e dopo arrivarono Ranocchia e Sciarappa che erano stati a potare; e 20 dopo arrivarono Barletta, Venerdì Santo, Ciro Zironda, Papasisto e altri che erano stati alla cava di sabbia. E tutti insieme parlavamo della luce elettrica, delle tasse nuove, delle tasse vecchie, delle tasse comunali, delle tasse statali, ripetendo sempre la stessa cosa, perché son cose che non mutano. E senza che noi ce ne accorgessimo, era giunto un forestiero. Un forestiero con la bicicletta. Era difficile dire chi 25 potesse essere, a quell’ora. Ci consultammo tra noi, con lo sguardo. Era veramente strano. Quello della luce non era. Quello del comune nemmeno. Quello della pretura nemmeno. D’aspetto era un giovanotto elegantino. Aveva una faccia delicata, rasata, una boccuccia rosea, come un gatto. Con una mano teneva la bicicletta per il manubrio, e la mano era piccola, viscida, come la pancia delle lucertole, e su 30 un dito portava un grande anello, da monsignore. Sulle scarpe portava delle ghette bianche. Un’apparizione incomprensibile, a quell’ora. Noi cessammo di parlare. Era evidente che quel fringuellino8 era arrivato con l’avviso di una nuova tassa. Su questo non c’era da avere dubbi. Nessun dubbio ch’egli avesse fatto un viaggio inutile e che i suoi fogli avrebbero subito la stessa fine di quelli di 35 Innocenzo La Legge9. Il punto da chiarire era un altro: su che cosa fosse ancora possibile mettere una nuova tassa. Ognuno di noi, per proprio conto, pensava a questo e con lo sguardo interrogava gli altri. Ma nessuno sapeva. Forse sul chiaro di luna? […] Quando vedemmo i fogli, ci guardammo tra noi e non avemmo più dubbi. I fogli erano lì (i fogli della nuova tassa). Rimaneva da sapere di che tassa si trattasse. 40 Infatti il forestiero cominciò a parlare. Capimmo subito che era uno di città. Rare parole capivamo di tutto quello che diceva. Ma non riuscivamo a capire di che tassa si trattasse. Forse sul chiaro di luna? Intanto si era fatto tardi. Noi eravamo lì, con gli strumenti di lavoro, con le zappe, i picconi, i bidenti, le pale, la pompa da insolfare e l’asina di Losurdo. Alcuni se ne andarono. Da lontano cominciarono a sentirsi le voci delle 45 mogli che chiamavano. Venerdì Santo, Barletta e Papasisto se ne andarono. Sciarappa e Ranocchia ascoltarono ancora un po’ la filastrocca10 del cittadino e poi se ne andarono anche loro. Losurdo voleva restare, ma l’asina, ch’era stanca, lo indusse a partire. Assieme al cittadino, restammo in tre. Quello continuava a parlare. Ogni tanto ci guardavamo tra noi, ma nessuno capiva. Voglio dire, nessuno capiva su che cosa 50 fosse stata imposta una nuova tassa.

4 baldoria: spasso, divertimento. 5 alla monta: ad accoppiarsi. 6 Ponzio Pilato: è il primo della serie di soprannomi di contadini.

7 insolfare: inzolfare, cioè irrorare di zolfo (le piante).

8 quel fringuellino: l’immagine metafori-

ca allude all’aspetto dello sconosciuto, che si presenta con tratti accurati e aggraziati (come quelli di un uccellino delicato), persino leziosi, percepiti come negativi dagli astanti e dal narratore. 9 Innocenzo La Legge: è l’esattore comunale, simbolo odiato della Legge dello

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Stato, con la quale, è identificato, come dimostra il soprannome datogli dai fontamaresi. I cafoni di Fontamara lo accolgono a schioppettate, e i suoi fogli vengono solitamente usati “per gli usi domestici”. 10 la filastrocca: qui nel senso figurato di “discorso monotono”.


Alla fine il forestiero finì di parlare. Si rivolse a me che gli ero più vicino, mi presentò un foglio bianco, mi porse un lapis11 e mi disse: «Firma.» Perché firmare? Che c’entrava la firma? Di tutta la sua filastrocca non avevo capito 55 dieci parole. Ma anche se avessi capito tutto, perché firmare? Io lo guardai con indifferenza e neppure gli risposi. Quello si rivolse allora al cafone che era vicino, a me, gli mise davanti il foglio, gli porse il lapis e disse: «Firma. Ti renderai benemerito.» 60 Nemmeno quello gli rispose e lo guardava con indifferenza assoluta, come un albero o un sasso. Il forestiero si rivolse al terzo cafone, gli mise davanti il foglio, gli porse il lapis e disse: «Comincia tu. Dopo di te, vedrai, firmeranno anche gli altri. » Fu come se avesse parlato al muro. Nessuno fiatò. Ma se neppure sapevamo di che 65 si trattasse, perché dovevamo firmare? Noi stavamo dunque a guardare senza fiatare e quello andò su tutte le furie e, dal tono come parlava, pensavamo che dovesse dire degli improperi contro di noi. Noi aspettavamo che lui si decidesse a parlare della nuova tassa, ma lui parlava di altro. A un certo punto, egli prese un frustino che aveva attaccato al telaio della biciclet70 ta e si mise ad agitarlo contro di me, in modo da toccarmi quasi la faccia. «Parla, parla» gridava «cane, verme, maledetto. Perché non parli? Perché non vuoi firmare?» Ci vuol altro con me, per farmi perdere la pazienza. Gli feci dunque capire che non eravamo idioti. Gli feci capire che avevamo compreso e che tutte le sue chiacchiere non potevano toglierci dalla testa che si trattasse di una nuova tassa. «Insomma», 75 gli dissi annoiato «sbrigati e spiegaci di che tassa si tratta.» Quello mi guardò come se avessi parlato ebraico. «Parliamo e non ci capiamo», disse scoraggiato. «Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua.» Questo era vero, e chi non lo sa? Un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi. Quando lui parlava era un cittadino, non poteva cessare di essere un citta80 dino, non poteva parlare che da cittadino. Ma noi eravamo cafoni. Noi capivamo tutto da cafoni, cioè, a modo nostro. Migliaia di volte, nella mia vita, ho fatto questa osservazione: cittadini e cafoni sono due cose differenti. In gioventù sono stato in Argentina, nella Pampa12; parlavo con cafoni di tutte le razze, dagli spagnuoli agl’indii, e ci capivamo come se fossimo stati a Fontamara; ma con un italiano che veniva 85 dalla città, ogni domenica, mandato dal consolato, parlavamo e non ci capivamo; anzi, spesso capivamo il contrario di quello che ci diceva. Lì, nella nostra fazenda13, c’era perfino un portoghese sordomuto, un peone14, un cafone di laggiù: ebbene, ci capivamo senza parlare. Ma con quell’italiano del consolato non c’erano cristi15.

11 lapis: matita. 12 Pampa: la vasta pianura dell’Argentina, del Sud del Brasile e dell’Uruguay, destinata alle colture e all’allevamento.

13 fazenda: fattoria in portoghese (specie in terre coltivate a caffè). 14 peone: in spagnolo, bracciante agricolo, lavoratore a giornata non qualificato (in genere riferito a indiani e meticci dell’America centro-meridionale).

15 non c’erano cristi: non c’era modo di intendersi (espressione ellittica del parlato).

La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia 1 299


Analisi del testo Il microcosmo chiuso di Fontamara

Quella di Fontamara è una piccola comunità rurale, la cui vita è ritmata dalle attività dei campi e da consuetudini antiche. Nelle prime pagine del romanzo, da cui è tratto il testo proposto, il narratore ne costruisce efficacemente il ritratto: gli abitanti del paesino sono rappresentati attraverso i loro mestieri, in una sorta di “presepe laico” («quelli che erano stati al mulino… quelli che erano stati alla contrada del cimitero… quelli erano stati alla cava di sabbia…») che li descrive mentre rientrano dal lavoro. Li ritroviamo poi contrassegnati dai soprannomi tipici delle consuetudini paesane (un uso già dei Malavoglia), e assistiamo quindi alla loro discussione, con ogni probabilità simile, come il narratore ci fa capire, a tante altre analoghe («ripetendo sempre la stessa cosa, perché son cose che non mutano»). Sono discorsi stimolati dalla sospensione della corrente elettrica, e incentrati sulle tasse, percepite come inique da chi vive stretto nei bisogni immediati di una difficile quotidianità (lavorare, sfamarsi, sopravvivere). In questo panorama d’immutabile staticità si inserisce inaspettatamente “il cittadino”, del quale la comunità contadina avverte subito l’estraneità: lo contraddistinguono la bicicletta (per i fontamaresi segno di una ricchezza assolutamente irraggiungibile), l’aspetto «elegantino», la «boccuccia rosea, come un gatto» e la mano «viscida come la pancia delle lucertole». I diversi elementi della descrizione esprimono l’istintiva diffidenza con cui i cafoni accolgono l’estraneo che, nel loro punto di vista, dev’essere senz’altro venuto a portare qualche nuova tassa.

Lo stato, entità lontana e nemica

È l’eterno dramma del Sud che Silone mette in scena nel suo romanzo: una terra dimenticata dal potere centrale che tacitamente confida nella passività di una popolazione ormai assuefatta da secoli alla sofferenza e alla rassegnazione. Per Fontamara, che diventa qui il simbolo di tutto quanto il Sud contadino, lo stato è una realtà non solo remota ed estranea, ma soprattutto nemica, apportatrice non di benessere ma di tasse e vessazioni, una realtà la cui logica rimane sempre e comunque incomprensibile. Il “cittadino” materializzatosi misteriosamente per le vie del paese, che di quello stato è l’emissario e in un certo senso il simbolo, diventa così inevitabilmente l’oggetto della rancorosa diffidenza degli abitanti di Fontamara.

Antropologia del cafone

Attraverso Fontamara e i suoi abitanti, Silone ci descrive quella che considera una condizione, per così dire, universale: quella del cafone, il povero, l’oppresso, lo sfruttato, sempre la stessa in qualsiasi contesto storico o geografico. Una categoria antropologica più che sociale, accomunata da un destino di ingiustizia e ignoranza che potrebbe essere superato soltanto attraverso una presa di coscienza e un impegno personale, come quelli tentati, nel corso del romanzo, da Berardo Viola o dal cafone Scarpone. È su questa identità di destini che si fonda la comprensione senza limiti né di spazio né di tempo che vige tra cafoni, mentre con i «cittadini» (quelli che altrove Silone chiama i «galantuomini») una vera comunicazione diventa impossibile: «cittadini e cafoni sono due cose differenti».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale novità turba la monotona vita del piccolo paese? Si tratta di una novità inattesa? Come si configura agli occhi dei fontamaresi? TECNICA NARRATIVA 2. A chi appartiene la voce narrante in prima persona?

online T2b Giuseppe Dessì

Un funzionario piemontese e i problemi di una piccola comunità sarda Paese d’ombre

ANALISI 3. Il funzionario è connotato dal narratore in senso negativo. Individua gli elementi della sua descrizione che ne testimoniano l’estraneità e la superiorità sociale rispetto all’umile realtà del paese e quelli che esprimono la diffidenza dei fontamaresi fatta propria dalla voce narrante.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 4. Spiega e commenta la frase del funzionario: «Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua», in rapporto al contesto in cui è pronunciata e, più in generale, in rapporto alla differenza invalicabile che separa cittadini e cafoni. Credi che oggi i rapporti tra cittadini e lo stato, soprattutto nelle zone più arretrate del nostro paese, siano più collaborativi? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

300 Il Novecento (Prima parte) 5 Alla ricerca del “reale”


Levi e Cristo si è fermato a Eboli: 4 Carlo tra memoria e documento socio-antropologico

Carlo Levi fotografato da Paolo Monti.

La biografia Carlo Levi nasce a Torino nel 1902. Qui si laurea in medicina, ma non svolgerà mai la professione, dedicandosi invece alla pittura e alla letteratura. Durante il fascismo aderisce al movimento clandestino “Giustizia e Libertà” e conosce l’esperienza del carcere. Nel 1935 viene mandato al confino in Lucania, esperienza dalla quale trarrà la sua opera più famosa, Cristo si è fermato a Eboli (1945), scritta durante i mesi drammatici dell’occupazione tedesca. Dopo la raccolta di saggi di carattere politico Paura della libertà (1946), in cui riflette sulla natura dei totalitarismi, nel 1950 Levi pubblica L’orologio, un romanzo oggi riscoperto dalla critica: ambientato a Roma, rappresenta la crisi degli ideali resistenziali nel dopoguerra. Tra saggio e racconto è Le parole sono pietre (1955), dedicato alla Sicilia. Altri libri sono frutto di esperienze di viaggio, ma sempre centrale rimane la riflessione etico-politica. Nel 1963 e nel 1968 Levi è eletto al Senato come indipendente nelle liste del Partito comunista. Muore nel 1975. Un libro-documento, un titolo suggestivo Cristo si è fermato a Eboli (1945) è frutto del periodo (tra il 1935 e il 1936) che Carlo Levi, torinese di nascita, trascorse in un piccolo paese della Lucania (l’odierna Basilicata), Aliano (nel libro è chiamato Gagliano), dove era stato mandato al confino per attività antifascista. Il romanzo è perciò innanzitutto un memoriale dell’anno di confino, che diventa però anche e soprattutto un documento eloquente delle difficili condizioni di vita e dell’emarginazione del meridione, “scoperte” da un intellettuale del Nord. Il titolo, che, per la sua suggestione ha contribuito non poco al successo del libro, è spiegato dall’autore stesso nelle pagine introduttive: la “civiltà” non è mai arrivata in quelle terre desolate e dimenticate da tutti, un mondo «serrato nel dolore e negli usi… negato alla Storia e allo Stato», i cui abitanti addirittura non si considerano “cristiani”, cioè uomini, ma bestie. Neppure Cristo è mai arrivato là, si è fermato a Eboli (è una cittadina della Campania) «dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania». Il ritratto di un’Italia sconosciuta Il romanzo di Levi è stato scritto negli anni della Resistenza e del neorealismo, quando l’attività letteraria – in particolare il genere romanzo – doveva rispondere a obiettivi di impegno civile e politico. Nel libro è certamente presente una finalità di denuncia, che emerge soprattutto in alcune sezioni dell’opera (in particolare quella dedicata alla visita della sorella o, nella parte conclusiva del romanzo le pagine di taglio saggistico che ospitano un’analisi impietosa della “questione meridionale”). Levi documenta le misere condizioni, la sofferenza di una zona dell’Italia immobile nei secoli, priva di istruzione, falcidiata dalla malaria a causa di gravi carenze alimentari e condizioni igieniche da terzo mondo: un volto della nazione che la trionfalistica propaganda fascista aveva sempre cercato di nascondere e negare. L’obiettivo di divulgare quanto aveva personalmente visto induce lo scrittore a dare alla sua testimonianza un solido impianto realistico (tra cronaca e reportage) e a utilizzare una sintassi che cerca di essere sempre chiara e lineare e una lingua piana, senza ricorrere al dialetto che ne avrebbe inevitabilmente limitato la comprensibilità. La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia 1 301


online

Video e Audio Trailer del film Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi

Il fascino di un mondo primitivo e “magico” Ma il romanzo è forse maggiormente caratterizzato dall’interesse del narratore per un mondo primitivo e magico, ricco di ancestrali tradizioni, di credenze superstiziose, che egli scopre gradualmente e da cui per certi aspetti resta ammaliato. Di fronte a questo mondo “diverso”, Levi assume un atteggiamento di rispetto e sostanziale adesione, accettandolo senza giudicare e facendosene anzi interprete. Lo testimoniano le pagine dedicate alle credenze e alle pratiche magiche che per gli abitanti di Gagliano sono “realtà” quanto la loro dura esistenza nei campi: questo universo alieno e inquietante è impersonificato soprattutto dalla figura di Giulia, la domestica-strega al cui fianco vive per mesi il protagonista. L’atteggiamento del narratore rispecchia quello dell’autore stesso, non a caso pienamente accettato, come si comprende nelle ultime pagine del romanzo, dalla comunità contadina di Gagliano («Tu sei gaglianese ormai… Resta con noi contadini»), proprio perché ha cercato di comprenderne nel profondo la mentalità arcaica, mentre i notabili del luogo (dal podestà, ai medici, al povero don Luigino) non hanno per essa che ostentato disprezzo.

Cristo si è fermato a Eboli GENERE

romanzo

DATA

1945

CONTENUTO

rappresentazione del mondo primitivo e magico di un paesino della Lucania

STILE

uso di una lingua piana e di una sintassi lineare, rifiuto del dialetto

Carlo Levi

T3

L’arrivo a Gagliano Cristo si è fermato a Eboli

C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori, Milano 1975

Appena arrivato a Gagliano, il protagonista è avvicinato da un drappello di persone che richiedono il suo aiuto di uomo di scienza e di città per salvare un compaesano colpito da febbri malariche. È l’incontro tra due mondi, due culture, due universi lontanissimi che non potranno mai capirsi fino in fondo.

Scaricato e consegnato al segretario comunale, un uomo magro e secco, duro d’orecchio, con dei baffi neri a punta sul viso giallo, e la giacca da cacciatore, presentato al podestà e al brigadiere dei carabinieri, salutati i miei custodi che si affrettavano a ripartire, rimasi solo in mezzo alla strada. Mi accorsi allora che il paese non si 5 vedeva arrivando, perché scendeva e si snodava come un verme attorno ad un’unica strada in forte discesa, sullo stretto ciglione di due burroni, e poi risaliva e ridiscendeva tra due altri burroni, e terminava sul vuoto. La campagna che mi pareva di aver visto arrivando, non si vedeva più; e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come librate nell’aria; e d’ognintorno altra

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argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare. Le porte di quasi tutte le case, che parevano in bilico sull’abisso, pronte a crollare e piene di fenditure, erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sì che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte. Seppi poi 15 che è usanza porre questi stendardi sulle porte delle case dove qualcuno muore, e che non si usa toglierli fino a che il tempo non li abbia sbiancati. In paese non ci sono veri negozi, né albergo. Ero stato indirizzato dal segretario, in attesa di trovare una casa, ad una sua cognata vedova, che aveva una camera per i rari viandanti di passaggio, e che mi avrebbe anche dato da mangiare. Erano 20 pochi passi dal municipio, una delle prime case del paese. Così, prima di dare una occhiata più approfondita alla mia nuova residenza, entrai dalla vedova, per una delle porte a lutto, con le mie valige ed il mio cane Barone, e mi sedetti in cucina. Migliaia di mosche anneravano l’aria e coprivano le pareti: un vecchio cane giallo stava sdraiato in terra, pieno di una noia secolare. La stessa noia, e un’aria di di25 sgusto, di ingiustizia subìta e di orrore, stavano sul viso pallido della vedova, una donna di mezza età, che non portava il costume1, ma l’abito comune delle persone di condizione civile, soltanto con un velo nero sul capo. Il marito era morto tre anni prima, di una brutta morte. Era stato attratto da una strega contadina con dei filtri d’amore, ed era diventato il suo amante. Era nata una bambina; e poiché egli, 30 a questo punto, aveva voluto troncare la relazione peccaminosa, la strega gli aveva dato un filtro per farlo morire. La malattia era stata lunga e misteriosa, i medici non sapevano che nome darle. L’uomo aveva perse le forze, ed era diventato scuro nel volto, finché la sua pelle divenne colore del bronzo, sempre più nera, ed egli morì. La moglie, una signora, era rimasta sola, con un ragazzo di dieci anni, e poco denaro, 35 con cui doveva ingegnarsi a vivere. Per questo affittava la stanza: la sua condizione era così intermedia tra quella dei galantuomini2 e quella dei contadini; aveva insieme, degli uni e degli altri, le maniere3 e la povertà. Il ragazzo era stato messo in collegio dai preti, a Potenza; e ora era in casa per le vacanze; silenzioso, ubbidiente e mite, già segnato dall’educazione religiosa, con i capelli rasi4 e il vestitino grigio del collegio 40 abbottonato fino al collo. Ero da poco nella cucina della vedova e le chiedevo le prime notizie del paese, quando si batté alla porta, e alcuni contadini chiesero timidamente di entrare. Erano sette o otto, vestiti di nero, con i cappelli neri in capo, gli occhi neri pieni di una particolare gravità. – Tu sei il dottore che è arrivato ora? – mi chiesero. – Vieni, 45 che c’è uno che sta male –. Avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avevano sentito che io ero un dottore. Dissi che ero dottore, ma da molti anni non esercitavo; che certamente esisteva un medico nel paese, che chiamassero quello; e che perciò non sarei venuto. Mi risposero che in paese non c’erano medici, che il loro compagno stava morendo. – Possibile che non ci sia un medico? – Non ce ne 50 sono –. Ero molto imbarazzato: non sapevo davvero se sarei stato in grado, dopo tanti anni che non mi ero occupato di medicina, di essere di qualche utilità. Ma come resistere alle loro preghiere? Uno di essi, un vecchio dai capelli bianchi, mi 10

1 costume: abito tradizionale del luogo, indossato allora dalle donne del popolo. 2 galantuomini: termine con cui usual-

mente nella cultura meridionale erano indicate le persone che non vivevano del lavoro dei campi, in genere possidenti o

almeno benestanti rispetto ai mezzadri o ai braccianti. 3 le maniere: i modi.

La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia 1 303


si avvicinò e mi prese la mano per baciarla. Credo di essermi tratto indietro, e di essere arrossito di vergogna, questa prima volta come tutte le altre poi, nel corso 55 dell’anno, in cui qualche altro contadino ripeté lo stesso gesto. Era implorazione, o un resto di omaggio feudale5? Mi alzai, e li seguii dal malato. La casa era poco discosta. Il malato era sdraiato in terra vicino all’uscio, su una specie di barella, tutto vestito, con le scarpe e il cappello. La stanza era buia, a malapena potevo discernere, nella penombra, delle contadine che si lamentavano e 60 piangevano: una piccola folla di uomini, di donne e di bambini erano sulla strada, e tutti entrarono in casa e mi si fecero attorno. Capii dai loro racconti interrotti che il malato era stato portato in casa da pochi minuti, che arrivava da Stigliano, a venticinque chilometri di distanza, dove era stato condotto sull’asino per consultare i medici di là, che c’erano sì dei medici a Gagliano, ma non si consultavano perché 65 erano medicaciucci, non medici cristiani6; che il dottore di Stigliano gli aveva detto soltanto di tornare a morire a casa sua; ed eccolo a casa, e che io cercassi di salvarlo. Ma non c’era più nulla da fare: l’uomo stava morendo. Inutili le fiale trovate a casa della vedova, con cui, per solo scrupolo di coscienza, ma senza nessuna speranza, cercai di rianimarlo. Era un attacco di malaria perniciosa7, la febbre passava i limiti 70 delle febbri più alte, l’organismo non reagiva più. Terreo, stava supino sulla barella, respirando a fatica, senza parlare, circondato dai lamenti dei compagni. Poco dopo era morto. Mi fecero largo; e me ne andai, solo, sulla piazza, donde la vista si allarga per i burroni e le valli, verso Sant’Arcangelo. Era l’ora del tramonto, il sole calava dietro i monti di Calabria e, inseguiti dall’ombra i contadini, piccoli nella distanza, 75 si affrettavano per i sentieri lontani nelle argille8, verso le loro case. 4 rasi: tagliati cortissimi, quasi rasati. 5 Era… feudale: sconcertato dal gesto del

6 medicaciucci… cristiani: con due

contadino, il narratore pensa che possa trattarsi dell’eredità di un costume feudale, in origine riservato ai proprietari dei latifondi e in seguito a chi si presentava agli

espressioni della parlata locale, a medicastri, medici da strapazzo, si contrappongono medici cristiani, capaci, ma anche umani e misericordiosi.

occhi dei contadini come uomo di potere.

7 malaria perniciosa: la più grave forma di malaria, con febbri altissime e delirio.

8 argille: le colline argillose e brulle del paesaggio lucano (cfr. rr. 8-11).

Analisi del testo Il primo incontro con Gagliano L’arrivo del confinato al paese di Gagliano fin dai primi momenti è connotato come approdo a una dimensione “altra” rispetto ai parametri culturali del narratore, in cui egli è introdotto brutalmente, senza alcuna preparazione: i participi passati scaricato e consegnato sottolineano la sensazione di spaesamento e alienazione vissuta dal personaggio, ridotto quasi a un oggetto recapitato in un luogo se non ostile comunque avvertito come straniero. Il paese, che «non si vedeva arrivando», assume ai suoi occhi l’aspetto di un’apparizione inquietante e misteriosa («terminava nel vuoto»), collocato com’è in un modo che sembra quasi sfidare le normali leggi della gravità («sullo stretto ciglione di due burroni», «le case stavano come librate nell’aria», «le porte di quasi tutte le case… parevano in bilico sull’abisso, pronte a crollare») e immerso in un paesaggio “lunare”. Intensifica ulteriormente la percezione del narratore il lugubre addobbo con cui si presenta il paese, pieno ovunque di drappi neri (primo segno di quel patrimonio di tradizioni antichissime che il narratore imparerà a conoscere durante il suo anno di confino). Il colore nero, che qui fa la sua prima apparizione, nel corso del romanzo sarà un elemento ricorrente, diventando una sorta di emblema della amara vita dei contadini.

Una cultura ancestrale e misteriosa, avvicinata con lo sguardo del cronista Affiorano nel brano i segni della cultura arcaica in cui la vita del paese è immersa: un fitto tessuto di credenze e tradizioni che non si può decifrare con gli strumenti della logica e della

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razionalità normalmente applicati alla realtà moderna e urbana. E il narratore, infatti, lo avvicina senza formulare giudizi, con l’atteggiamento piano di un cronista che, con la maggior precisione possibile, descrive una realtà nuova, cercando di far proprio un punto di vista che normalmente non gli appartiene: indicativi al proposito sono il modo e il tono con cui è riferita l’incredibile vicenda dell’uomo morto «di una brutta morte».

Il rispetto reverenziale per l’uomo di città Si percepisce chiaramente nel passo l’atteggiamento ossequioso con cui gli abitanti di Gagliano accolgono l’uomo venuto dalla città del Nord, portatore di una cultura sentita come superiore. Il suo arrivo entra immediatamente nella categoria dei fatti di cui “si parla” in giro («Avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avevano sentito che io ero dottore»), e la condotta degli uomini del paese che vengono a richiedere il suo aiuto rivela che essi collocano il nuovo arrivato a un livello molto più alto rispetto al proprio, tanto da assumere nei suoi confronti gesti di vera e propria deferenza: la timidezza con cui entrano nella casa dove lui è ospite, l’abito che si intuisce essere quello “buono” (il morto stesso è già vestito…), il baciamano, una pratica che diventerà comune nei confronti del narratore, come intuiamo dalle sue stesse parole.

Una lingua semplice e diretta Il brano rappresenta in modo esemplare lo stile diretto e semplice scelto da Carlo Levi per raccontare la sua esperienza, tutto volto alla comprensibilità più immediata. I periodi sono brevi e lineari, prevale la costruzione paratattica: l’unico congiuntivo ricorre in un’esortazione in discorso indiretto libero che, non a caso, esprime il punto di vista del narratore («certamente esisteva un medico nel paese, che chiamassero quello»). Il lessico appartiene per lo più a un registro quotidiano e colloquiale, senza forme dialettali: l’unico termine estraneo al vocabolario italiano è medicaciucci, e comunque il significato è immediatamente intuitivo in contesto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Perché le porte di quasi tutte le case erano incorniciate di stendardi neri? Quale funzione ha l’intervento chiarificatore del narratore? ANALISI 3. Rintraccia nel testo gli indizi che possono aiutare a ricostruire l’ottica con cui gli abitanti di Gagliano vedono il nuovo arrivato. 4. Quali sono invece le impressioni che il nuovo arrivato riceve dal mondo in cui si ritrova? Distingui le impressioni relative all’ambiente naturale da quelle relative al contesto sociale e umano. 5. L’elemento coloristico ha particolare rilevanza nella descrizione di Carlo Levi (che era anche un valente pittore); in questo caso domina il colore nero: rintraccia i riferimenti a questo colore presenti nel testo e cerca di interpretarne il significato.

Interpretare

SCRITTURA 6. Alla luce dell’analisi svolta, approfondisci le ragioni storico-sociali dell’arretratezza e delle misere condizioni di alcune zone dell’Italia in un testo di massimo 15 righe. Interpreta il testo, commentando quanto lo stesso Levi dichiara nella sua prefazione al romanzo: «Come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore». TESTI A CONFRONTO 7. Leggi il passo ➜ T4 OL tratto dal romanzo Accabadora (2009) di Michela Murgia (1972-2023), ambientato in Sardegna nei primi anni Cinquanta del XX secolo. Ti sembra che il mondo rappresentato dall’autrice sia molto diverso da quello descritto da Levi in Cristo si è fermato a Eboli? Motiva la tua risposta con puntuali riferimenti ai brani letti.

online T4 Michela Murgia

Riti magici in una Sardegna ancestrale Accabadora, cap. IV

La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia 1 305


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Alberto Moravia tra realismo ed esistenzialismo 1 Un protagonista della vita culturale italiana Alberto Moravia (1907-1990) sia come scrittore sia come intellettuale ha svolto nella cultura italiana del Novecento un ruolo critico importante prima nei confronti del fascismo e della borghesia, in seguito dell’ideologia comunista, di cui pure aveva condiviso valori e speranze, e infine dei miti consumistici del neocapitalismo. Nella sua vastissima produzione narrativa, che si sviluppa lungo un ampio arco temporale, il filo conduttore, pur nella specificità delle varie fasi, è costituito dall’analisi della crisi morale della borghesia. All’inizio il giudizio critico di Moravia si fonda sulla conoscenza diretta del mondo borghese a cui lui stesso appartiene, mentre nel dopoguerra si avvale degli strumenti teorici forniti dalla filosofia esistenzialistica, dal marxismo e dalla psicoanalisi. Della borghesia lo scrittore mette a fuoco con razionalità illuministica la degradazione morale, soprattutto durante il fascismo, attraverso figure di giovani (a partire dal personaggio di Michele negli Indifferenti) e di intellettuali che si sentono estranei al mondo borghese e lo disprezzano, ma d’altra parte sono incapaci di sottrarsi a quella appartenenza se non con un gesto autodistruttivo.

Alberto Moravia.

La biografia Alberto Pincherle (Moravia era il cognome della nonna paterna che egli assume come pseudonimo letterario) nasce nel 1907 a Roma da una famiglia della ricca borghesia. Una grave forma di tubercolosi ossea contratta all’età di nove anni gli impedisce di compiere studi regolari. La sua formazione letteraria avviene perciò da autodidatta, attraverso la lettura sistematica delle opere dei grandi drammaturghi italiani e stranieri (Goldoni, Molière, Shakespeare), dei classici (da Dante ad Ariosto a Manzoni e Dostoevskij) e anche di autori della moderna tradizione europea come Rimbaud, Proust e Kafka. Nel 1929, a soli ventidue anni, pubblica a proprie spese il romanzo Gli indifferenti, che ottiene un successo immediato rendendolo famoso. Negli anni successivi si dedica a un’intensa e regolare attività di collaborazione con giornali e riviste e alla produzione letteraria; il secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (1935), non ripete il successo del primo anche in seguito a un’esplicita segnalazione del Ministero della cultura popolare di ignorarlo in quanto non allineato (come, d’altronde, già Gli indifferenti) ai dettami del regime fascista. Tra il 1934 e il 1935 Moravia soggiorna negli Stati Uniti, dove su invito di Giuseppe Prezzolini tiene alla Columbia University di New York un ciclo di conferenze sul romanzo italiano; compie poi viaggi in Cina e in Grecia, oggetto di reportage. Ritornato in Italia, sposa nel 1941 la scrittrice Elsa Morante; nello stesso anno esce il romanzo La mascherata, ritratto satirico del fascismo. Durante l’occupazione tedesca di Roma lo scrittore (di origine ebrea da parte del padre) fugge dalla città per evitare l’arresto e si rifugia con la moglie a Fondi, nella

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zona già liberata dagli alleati: da questa esperienza nasce il romanzo La ciociara (1957). Dal dopoguerra l’intensa produzione di romanzi e racconti, alcuni dei quali trasposti in film di successo, è accompagnata dal costante intervento, attraverso la stampa, sui più svariati temi del dibattito culturale del dopoguerra, documentato in particolare dalla raccolta di saggi L’uomo come fine (1964). Dopo aver espresso, alla fine degli anni Cinquanta, le sue riserve sul socialismo sovietico nel reportage Un mese in Urss, Moravia diventa un punto di riferimento della cultura italiana di sinistra che non si riconosce più nel modello sovietico; affianca alla precedente collaborazione al «Corriere della Sera» quella al settimanale «L’Espresso» (espressione di quella sinistra) e la direzione della rivista «Nuovi Argomenti», insieme a Pier Paolo Pasolini ed Enzo Siciliano. Nell’ultima fase la produzione più interessante dello scrittore è costituita dalle prose di viaggio e dagli scritti di critica cinematografica. Muore a Roma nel 1990.

2 Le fasi della narrativa moraviana Nella vasta produzione narrativa (romanzi e racconti) di Moravia si possono distinguere tre fasi. La rappresentazione della crisi della borghesia La prima fase della sua produzione, aperta da Gli indifferenti, comprende le opere composte dal 1929 al 1945: tema ricorrente è la crisi della borghesia, rappresentata con crudo e impietoso realismo sulla base delle esperienze esistenziali dell’autore, come lui stesso ha dichiarato. Motivi dominanti risultano il sesso e il denaro che, secondo Moravia, si configurano nella società borghese come mezzi di dominio sulle persone. Alla prima fase appartengono anche due romanzi dedicati al mondo degli adolescenti: Agostino (1945) e La disubbidienza (1948). Nel primo il protagonista reagisce al senso di esclusione nei confronti del mondo degli adulti cercando un rapporto con i propri coetanei, ma il suo tentativo di essere accolto da un gruppo di ragazzi proletari, lontani dal suo ceto sociale e con una visione spregiudicata e precocemente “adulta” della vita, si risolve in un’esperienza negativa. Anche nella Disubbidienza il protagonista è un adolescente, che appartiene alla borghesia e gode dei privilegi di quel ceto finché la scoperta che nel sistema di valori dei genitori la religione e il denaro hanno la stessa importanza lo induce alla “disubbidienza”, espressa nella forma del rifiuto: di mangiare, di giocare con i compagni, di studiare, degli oggetti a cui era più affezionato, diventati per lui simboli dell’attaccamento borghese alla proprietà. Infine, seppellisce il denaro che possiede, dopo averlo stracciato, scoprendo di provare nei confronti di esso un «odio profondo; come si odia qualcuno che ci ha dominato e contro cui ci si è ribellati». La crisi esistenziale del ragazzo culmina in una lunga malattia fisica. Sarà la prima esperienza erotica a riconciliarlo con la vita, nell’adesione alle sue espressioni più elementari. L’avvicinamento alla poetica neorealista Nei romanzi più significativi del secondo periodo, dal 1947 al 1957, Moravia si avvicina al neorealismo, pur non identificandosi fino in fondo nei principi che lo ispiravano: ne deriva innanzitutto la scelta di personaggi del popolo che incarnano un modello umano positivo, contrapposto al mondo borghese secondo lo schematismo proprio della visione populistica comune a non pochi romanzi di quel tempo. Nella Romana (1947) la protagonista-narratrice Adriana è una ragazza del popolo di grande bellezza e sensualità: ingannata dall’uomo che amava e che si illudeva di sposare, si abbandona a Alberto Moravia tra realismo ed esistenzialismo 2 307


relazioni squallide e pericolose, ma mantiene la sua forza vitale e una sorta di purezza morale, mentre i suoi amanti, fascisti e antifascisti, risultano tutti personaggi negativi. Nella Ciociara (1957) Cesira, la protagonista, dopo le terribili prove subìte insieme alla figlia durante la guerra, matura la consapevolezza della necessità di un riscatto politico per chi, come lei, è vittima della violenza della storia. Dal romanzo è stato tratta la celebre versione cinematografica diretta da Vittorio De Sica (1960). Della stessa fase sono i Racconti romani (1954) e i Nuovi racconti romani (1959). L’ultima produzione Nell’ultimo periodo, dall’inizio degli anni Sessanta alla morte, l’ambito in cui lo scrittore colloca le vicende descritte torna a essere il mondo borghese, ma nello sguardo pessimistico dell’autore la crisi di valori si è fatta sempre più profonda. Ritornano temi già indagati nella prima fase, ora affrontati con altri strumenti teorici, come già detto: il sentimento di estraneità e passività nei confronti della vita, la mancanza di un significato all’esistere collegano direttamente alla prima opera La noia (1960), una sorta di romanzo-saggio in cui l’impegno ad analizzare prevale sulla narrazione e lo stile si fa fortemente raziocinante. La “noia” a cui fa riferimento il titolo è un malessere profondo che investe il rapporto dell’individuo con il mondo, una condizione esistenziale che presenta espliciti riferimenti alle tesi sostenute nel romanzo-saggio La nausea (1938) del filosofo francese Jean-Paul Sartre, vero e proprio manifesto dell’esistenzialismo (➜ SCENARI PAG. 58 D7 OL). Alla critica nei confronti della società borghese che Moravia aveva sviluppato negli Indifferenti attraverso la denuncia dell’ipocrisia e la mancanza di valori autentici, subentra un vero e proprio smarrimento esistenziale per il quale non sembra esservi rimedio. Seguono negli anni successivi i tentativi di romanzo sperimentale, influenzati dalle esperienze del nouveau roman francese e della neoavanguardia italiana (il Gruppo 63): l’esempio più significativo è L’attenzione (1965). Le opere successive riprendono i temi consueti (in modo meno convincente), con riferimento all’attualità (ad es. il terrorismo in La vita interiore, 1978, la paura per una catastrofe atomica in L’uomo che guarda, 1985) e alla condizione di alienazione prodotta dalla società dei consumi. Alla multiforme produzione narrativa va aggiunta una ricca produzione saggistica, a cominciare da L’uomo come fine del 1964. Importanti anche i reportages scritti in occasione dei numerosi viaggi dello scrittore in varie parti del mondo: Un’idea dell’India (1962), La rivoluzione culturale in Cina (1967) e altri.

Le diverse fasi della produzione narrativa di Moravia date

caratteristiche

opere

1929-45

sesso e denaro come nuove forme di potere e dominio

Gli indifferenti, Agostino

1947-57

personaggi popolani portatori di un modello positivo

La romana, La ciociara, Racconti romani, Nuovi racconti romani

1960-90

analisi profonda della società e della crisi della borghesia

La noia, L’attenzione, La vita interiore

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Gli indifferenti

online

Video e Audio Su Youtube scene dal film Gli indifferenti di Francesco Maselli (1964)

Il ritratto impietoso di una classe sociale e di un’epoca Gli indifferenti, romanzo d’esordio di Alberto Moravia, pubblicato nel 1929 quando lo scrittore era poco più che ventenne, è considerato il suo capolavoro. Nel romanzo Moravia smaschera l’immagine idealizzata della famiglia borghese, denunciando la crisi morale che si cela dietro le convenzioni e le ipocrite difese che la sostengono. Il quadro che ne esce – di una classe sociale e di un’epoca – è del tutto negativo: nelle relazioni sociali ma anche in quelle familiari dominano il denaro e il sesso, la vita è scandita dai riti del divertimento e da frivole occupazioni. I protagonisti della vicenda (la vedova Mariagrazia con i figli Michele e Carla e Leo, l’amante della donna) rappresentano emblematicamente il vuoto dei valori che, nella visione dell’autore, caratterizza ormai l’istituzione familiare. Un’opera di successo, osteggiata dal regime Il romanzo fu accolto alla sua uscita da un grande successo di critica e di pubblico. Il regime fascista lo considerò un libro “pornografico”, accusando l’autore di dare troppo spazio al sesso, e ne condannò il disfattismo nella rappresentazione della borghesia; all’opposto, il romanzo fu interpretato come una sorta di manifesto contro l’ipocrisia morale del fascismo, in cui potevano riconoscersi i giovani, gli intellettuali e tutti coloro che l’oppressione del regime, l’impossibilità di alternative, aveva resi “indifferenti”, proprio come i protagonisti del romanzo. In realtà Moravia (anche perché quando iniziò a scrivere il romanzo non aveva ancora diciassette anni) non aveva alcuna intenzione programmatica di critica antiborghese, come più volte ebbe a precisare in seguito (➜ D1 ). La componente critica è il frutto della perfetta oggettività con cui il giovanissimo scrittore rappresenta una famiglia borghese tipo. Sul piano propriamente letterario la critica apprezzò il realismo dell’opera che fu vista come l’auspicato ritorno al romanzo, dopo l’egemonia della prosa d’arte e del frammentismo che si erano affermati negli anni Venti. La lingua si indirizza verso un italiano medio, neutro, in cui trova espressione «l’intenzionale squallore dello stile» (G.L. Beccaria). Un «romanzo di personaggi» Gli indifferenti è stato definito dallo stesso autore «romanzo di personaggi e di situazioni»: infatti è principalmente alla caratterizzazione dei quattro personaggi principali che Moravia affida la propria visione critica del mondo borghese. Michele Personaggio-simbolo del romanzo è il giovane Michele, personificazione dell’indifferenza; la parola tematica del romanzo, appunto, “indifferente”, è pronunciata proprio da lui, per definire il suo stato d’animo e il suo rapporto con la realtà. Distaccato e disinteressato nei confronti del denaro e degli oggetti simbolo del successo borghese come l’automobile, Michele disprezza l’amante della madre, che considera emblema di quei valori, ma in realtà ha con Leo (e con ciò che Leo rappresenta) un rapporto ambivalente: sogna infatti di conquistare una posizione nella società proprio grazie al suo aiuto. La ribellione che nutre nei confronti dell’amante della madre, ma anche dei valori borghesi, non trova un modo concreto di manifestarsi e rimane così pura velleità: la sua indifferenza è la reazione all’incapacità di trovare una via d’uscita alla sua angoscia esistenziale. Mariagrazia La madre di Michele e Carla è una donna di mezz’età che cerca invano di nascondere i segni del tempo. Incapace di rinunciare all’amore, nonostante comprenda che l’amante è ormai stanco di lei e la tradisce, è il prototipo della ipocrisia borghese: finge davanti ai figli che Leo sia solo un caro amico di casa, si atteggia Alberto Moravia tra realismo ed esistenzialismo 2 309


a sostenitrice della morale di fronte ai tradimenti dell’amante di cui giudica le amiche proponendosi come modello di serietà. Al personaggio è simbolicamente (ed emblematicamente) connesso il tema della “maschera”, che emerge nel I capitolo al momento dell’ingresso in scena di Mariagrazia: «nell’ombra la faccia immobile dai tratti indecisi e dai colori vivaci pareva una maschera stupida e patetica». Nell’ultimo capitolo, in una scena che si richiama circolarmente all’inizio, Mariagrazia si prepara con Carla per un ballo in maschera, ignara di quanto è avvenuto alla figlia. Carla La figlia Carla è una giovane donna stanca e disgustata dalla situazione familiare, che coglie in tutto il suo squallore; vorrebbe cambiare, ma non ha la forza per farlo, ed è ben consapevole che l’egoismo materno la condanna a non avere futuro: nessun uomo della sua condizione sociale vorrà sposare una ragazza come lei, priva della rispettabilità e del denaro che sa essere i requisiti necessari per il matrimonio borghese che la madre vorrebbe per lei, senza rendersi conto che proprio con il suo comportamento impedisce alla figlia quel futuro. Alla fine, cede alle profferte erotiche di Leo e acconsente al matrimonio riparatore che lui le propone per il proprio tornaconto economico. Leo Leo Merumeci, l’amante di Mariagrazia, incarna quelli che per Moravia sono i disvalori del mondo borghese del suo tempo: il sesso, l’attaccamento al denaro, il rapporto con le persone inteso esclusivamente come possesso; anche Carla per lui è una “cosa” da possedere, quando decide di sedurla. Il matrimonio che le propone, «con quella risolutezza e precisione che metteva in tutti i suoi affari», è in realtà una trattativa economica, a cui si rassegna temendo di perdere l’affare della villa. Tra narrazione e teatro È stato notato che il romanzo fonde elementi narrativi e componenti proprie della sceneggiatura teatrale. Del dramma, a cui Moravia stesso dichiarò di aver fatto riferimento, il romanzo condivide l’essenzialità della struttura, la tendenza alla concentrazione per quanto riguarda sia il tempo e i luoghi, sia il numero molto ridotto dei personaggi: la vicenda si svolge nell’arco di due soli giorni, luogo principale è la villa degli Ardengo (solo poche scene si svolgono nella casa di Leo e di Lisa o negli spazi aperti della città); i personaggi sono solo cinque (tenuto conto anche di Lisa, che ha comunque un ruolo meno importante degli altri). Inoltre ampio spazio hanno i dialoghi, e le frequenti indicazioni sulle posizioni, i gesti, i toni di voce dei personaggi richiamano le didascalie teatrali. Della tragedia manca però – oltre all’esito tragico – anche la tensione: i momenti “drammatici” come le scenate di Michele (anche quando progetta di uccidere Leo) si smontano e finiscono in niente. Nella narrazione l’andamento è ripetitivo per il riproporsi di situazioni (ad es. i tentativi di seduzione da parte di Leo nei confronti di Carla) ma anche di atmosfere e ambienti, in corrispondenza con la vicenda stessa, in cui non c’è un vero sviluppo: la ribellione e il cambiamento non avvengono, la situazione rimane statica e senza una vera conclusione. L’ambiente Gli interni in cui si svolge in prevalenza la vicenda sono descritti con precisione e ricchezza di particolari (➜ T5 ). Le descrizioni non si limitano però a ricreare il contesto borghese a cui i protagonisti appartengono: ambienti e oggetti sembrano talvolta partecipi degli stati d’animo dei personaggi: ad esempio l’elemento decorativo dello specchio assume una funzione emblematica in particolare per il personaggio di Carla: davanti ad esso la giovane donna si interroga sul suo futuro ed esprime i dubbi sulla propria condizione esistenziale e sulla propria identità. Anche l’alternanza dell’oscurità e della luce assume in alcuni momenti un significato simbolico. Se la presenza della luce rimanda a una possibilità di azione (seppur

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limitata e in realtà sempre disattesa), l’oscurità simboleggia l’atmosfera oppressiva e malsana che pervade la casa e allude alla dimensione interiore dei personaggi: nel caso di Leo e Mariagrazia alla loro ambiguità morale, nel caso invece di Carla e Michele alla loro condizione psicologica di incertezza riguardo al loro destino. Uno stile semplificato funzionale alla “dimostrazione” La cifra stilistica tipica degli Indifferenti (come anche nelle opere successive di Moravia) è la semplificazione dei modi espressivi, in corrispondenza con l’impianto strutturale: il lessico è semplice e con tendenza alla ripetizione, a livello sintattico si nota l’iterazione di moduli elementari; tali scelte sono funzionali all’obiettivo dello scrittore di fare del romanzo uno strumento di dimostrazione (quasi un “teorema”) della sua visione del mondo, su cui richiama l’attenzione del lettore attraverso i procedimenti citati, rinunciando a una scrittura formalmente più ricercata. La trama Mariagrazia Ardengo, vedova di mezza età con due figli, poco più che ventenni, Carla e Michele, è legata a Leo Merumeci; questi ufficialmente è solo un amico di famiglia e mantiene il rapporto con la donna per sfruttarla finanziariamente e impadronirsi della villa di cui è proprietaria. All’insaputa di Mariagrazia, Leo cerca di sedurre Carla, approfittando del suo desiderio di liberarsi di una situazione sempre umiliante. Quando Carla si accorge che è lei l’oggetto delle attenzioni dell’uomo, non riesce a trovare altra via di uscita dallo squallore della sua vita se non cedendo alle vaghe promesse di Leo di un futuro diverso. Michele, consapevole della doppiezza di Leo, gli manifesta il suo disprezzo e in varie occasioni si produce in sterili gesti di ribellione che falliscono sempre; ma più spesso si lascia irretire dalle adulazioni e dalle promesse dell’uomo, incapace com’è di reagire all’“indifferenza”, cioè alla propria mancanza di autentico interesse e passione nei confronti della vita e delle persone. Informato da Lisa (ex amante di Leo) delle mire di Leo nei confronti di Carla, Michele, disgustato, compera una pistola, va a casa dell’uomo e lo minaccia; ma quando spara si accorge di aver dimenticato di caricare l’arma (segno evidente dell’ambivalenza dei suoi propositi e della sua sostanziale inettitudine). Cerca poi di convincere la sorella ad abbandonare l’amante, prefigurando un futuro diverso con la vendita della villa mentre Leo, per timore di perdere l’affare, chiede a Carla di sposarlo. La ragazza si limita a rimandare ogni decisione. Il romanzo non ha una vera conclusione: nel finale Carla va a una festa in maschera con la madre, rinviando la rivelazione dei suoi progetti matrimoniali, da lei ritenuti ormai l’unica possibilità di un cambiamento, nella convinzione che gli interrogativi esistenziali di Michele siano complicazioni inutili.

Gli indifferenti GENERE

romanzo

DATA

1929

TEMI

denuncia dell’ipocrisia della borghesia dell’epoca fascista; disvalori della famiglia borghese

STILE

lessico semplice con tendenza alla ripetizione

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Alberto Moravia

«Così ho scritto Gli indifferenti»

D1

In un’intervista immaginaria con sé stesso pubblicata sul «Corriere della Sera» (2 aprile 1986), Moravia fornisce alcune interessanti delucidazioni sulla stesura e sui caratteri del suo più celebre romanzo.

[…] Avevo sedici anni e alcuni mesi; avevo lasciato da poco il sanatorio Codivilla, a Cortina d’Ampezzo, dove avevo passato due anni per curarmi la tubercolosi ossea di cui ero malato dall’età di nove anni. Sono andato non tanto lontano da Cortina, a Bressanone, nell’ottobre 1925 e lì, in albergo, ho cominciato a scrivere Gli indifferen5 ti. Le mie idee erano chiare ma puramente letterarie. Amavo il teatro, ero convinto che la tragedia fosse la vetta della letteratura. Volevo scrivere una tragedia in forma di romanzo, fondendo la tecnica teatrale con quella narrativa. Ecco tutto. […] Nel mio caso, io conoscevo soltanto la vita in famiglia, come tutti i ragazzi della mia età; ma non sapevo di conoscerla. Così, quando iniziai a scrivere Gli indifferenti 10 non sapevo assolutamente di cosa avrei parlato. Ma avevo quell’ambizione astratta del dramma in forma di romanzo che si è subito rivelata adattissima al tema della vita in famiglia. Insomma l’idea astratta della tragedia ha funzionato da detonatore per la mia inconscia, esplosiva conoscenza della vita familiare.

Concetti chiave Genesi di un capolavoro

Moravia, quasi ottantenne, in un’intervista immaginaria con sé stesso, rievoca il momento in cui iniziò a scrivere Gli indifferenti. Dopo essere uscito dal sanatorio di Cortina d’Ampezzo, nel quale era stato ricoverato per due anni per curare una forma di tubercolosi ossea che lo affliggeva dall’infanzia, durante un soggiorno in albergo a Bressanone, intraprende la stesura dell’opera. Data la giovane età, il ragazzo non conosce ancora il mondo e la sua ispirazione risulta essere puramente letteraria e fondata sull’intento di scrivere una tragedia in forma di romanzo, per rappresentare l’unica realtà che conosce: la vita in famiglia. Ecco spiegata la genesi degli Indifferenti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato delle parole di Moravia che concludono l’intervista: «Insomma l’idea astratta della tragedia ha funzionato da detonatore per la mia inconscia, esplosiva conoscenza della vita familiare».

Interpretare

LETTERATURA E NOI 2. Gli indifferenti sono stati interpretati dalla critica come il manifesto della dissacrazione dei valori borghesi dell’Italia fascista, ma Moravia, in più occasioni, ebbe a dire che nel momento in cui intraprese la stesura del romanzo, non aveva alcuna intenzione programmatica di critica antiborghese. Ritieni che talvolta le interpretazioni critiche vadano al di là delle intenzioni degli autori? In un testo di massimo 15 righe, rifletti sul rapporto tra critica e opere letterarie, facendo riferimento al tuo percorso scolastico e alle tue letture personali.

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Alberto Moravia

T5

Ritratto di famiglia in un interno Gli indifferenti, cap. II

A. Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, Milano 1974

I personaggi del romanzo si ritrovano insieme a cena, come succede in tutte le famiglie; qui la situazione è però complicata. Dalla presenza dell’amante della madre: pur fingendo un semplice rapporto di amicizia per ragioni di convenienza sociale, Mariagrazia non riesce a trattenersi dal fare all’amante una scena di gelosia, incurante del disagio dei figli. Il testo proposto offre una campionatura delle tematiche fondamentali e delle soluzioni narrative del romanzo.

Sotto il lampadario a tre braccia il blocco bianco della tavola scintillava di tre minute schegge1 di luce, i piatti, le caraffe, i bicchieri, come appunto un blocco di marmo appena scalfito dagli scalpellini; c’erano delle macchie, il vino era rosso, il pane marrone, una minestra verde fumava dal fondo delle scodelle; ma quel candore le 5 aboliva e splendeva immacolato tra quattro pareti su cui, per contrasto, tutto, mobili e quadri, si confondeva in una sola ombra nera; e già seduta al suo posto, cogli occhi attoniti2 fissi nel vapore della vivanda, Carla aspettava senza impazienza. Prima dei tre3 entrò la madre, colla testa voltata verso Leo che la seguiva, dichiarando con voce ironica ed esaltata: «Non si vive per mangiare, ma si mangia per 10 vivere… invece lei fa tutto l’opposto… beato lei». «Ma no… ma no…» disse Leo entrando a sua volta e toccando con un gesto sfiduciato, per pura curiosità, il termosifone appena tiepido; «lei non mi ha capito…: io ho detto che quando si fa una cosa non bisogna pensare ad altro…; per esempio quando lavoro non penso che a lavorare… quando mangio non penso che a man15 giare… e così di seguito… allora tutto va bene…». «E quando rubi4?» avrebbe voluto domandargli Michele che gli veniva dietro: ma non sapeva odiare un uomo che a malavoglia invidiava. «In fondo ha ragione» si disse andando al suo posto; «io penso troppo». «Beato lei», ripeté la madre sarcastica «invece a me tutto va male». Sedette, assunse 20 un aspetto di triste dignità e cogli occhi bassi rimescolò col cucchiaio la minestra, affinché si freddasse. «E perché tutto va male?» domandò Leo sedendosi a sua volta. «Io al suo posto sarei felice: una graziosa figlia… un figlio intelligente e pieno di belle speranze… una bella casa… cosa si può desiderare di più?». 25 «Eh lei mi capisce a volo5» disse la madre con un mezzo sospiro. «Io no, a rischio di passare per ignorante le confesso che non capisco nulla…». La minestra era finita, Leo posò il cucchiaio: «E del resto siete tutti malcontenti voi… non creda signora di esser la sola… vuol vedere?... Dunque, tu Carla, di’ la verità, sei contenta tu?...». 30 La fanciulla alzò gli occhi: questo spirito gioviale e falsamente bonario inaspriva la sua impazienza: ecco, ella sedeva alla tavola familiare, come tante altre sere; c’erano i soliti discorsi, le solite cose, più forti del tempo, e soprattutto la solita luce 1 minute schegge: piccoli raggi. 2 attoniti: spalancati a guardare quello che le stava davanti come se le suscitasse stupore.

3 Prima dei tre: sono Mariagrazia, Michele e Leo. 4 E quando rubi: Michele ha appena saputo che la villa di famiglia diventerà

proprietà di Leo come risarcimento del prestito da lui fatto alla madre. 5 Eh… volo: allusione ai tradimenti dell’amante che la rendono infelice.

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senza illusioni e senza speranze, particolarmente abitudinaria, consumata dall’uso come la stoffa di un vestito e tanto inseparabile dalle loro facce, che qualche volta 35 accendendola bruscamente sulla tavola vuota ella aveva avuto la netta impressione di vedere i loro quattro volti, della madre, del fratello, di Leo e di se stessa, là, sospesi in quel meschino6 alone; c’erano dunque tutti gli oggetti della sua noia, e ciononostante Leo veniva a pungerla proprio dove tutta l’anima le doleva7; ma si trattenne: «Infatti potrebbe andare meglio», ammise; e riabbassò la testa. 40 «Ecco», gridò Leo trionfante, «glielo avevo detto… anche Carla, ma non basta… pure Michele, sicuro… Non è vero Michele che pure a te le cose vanno male?». Anche il ragazzo prima di rispondere lo guardò. «Ecco», pensava «ora bisognerebbe rispondergli per le rime, ingiuriarlo, far nascere una bella questione e alfine rompere con lui»; ma non ne ebbe la sincerità; calma mortale8; ironia; indifferenza. 45 «E se tu la facessi finita?» disse tranquillamente; «lo sai meglio di me come vanno le cose». «Eh furbacchione…» gridò Leo «furbacchione di un Michele… vuoi evitare la risposta, vuoi passarci sopra… ma è chiaro che anche tu sei un malcontento, altrimenti non faresti quella faccia lunga come la quaresima9». Si servì dal piatto che la came50 riera gli porgeva; poi: «Ed io invece signori miei tengo ad affermare che tutto mi va bene, anzi benissimo e che sono contentissimo e soddisfattissimo e che se dovessi rinascere non vorrei rinascere che come sono e col mio nome: Leo Merumeci». «Uomo felice!» esclamò Michele ironico; «ma almeno dicci come fai». «Come faccio?» ripeté l’altro colla bocca piena; «così… ma volete sapere invece», 55 egli soggiunse versandosi da bere, «perché voi tre non siete come me?». «Perché?». «Perché» egli disse «vi arrabbiate per delle cose che non meritano…». Tacque e bevve; seguì un minuto di silenzio; tutti e tre, Michele, Carla e la madre si sentivano offesi nel loro amor proprio; il ragazzo si vedeva com’era, miserabile, indifferente e sfiduciato, 60 e si diceva: «Ah vorrei vederti in queste mie condizioni»; Carla pensava alla vita che non cambiava, a quelle insidie10 dell’uomo, e avrebbe voluto gridare: «Io ho delle vere ragioni»; ma per tutti e tre fu la madre impulsiva e loquace che parlò. L’essere stata accomunata coi figli in quella generale tendenza al malcontento, per il gran concetto in cui ella si teneva, l’aveva ferita come un tradimento; l’amante 65 non solamente l’abbandonava ma anche si burlava di lei: «Va bene», disse alfine dopo quel silenzio, con la voce ironica e malevola di chi vuole attaccar briga11; «ma io, caro lei, ho delle buone ragioni per non esser contenta». «Non ne dubito» disse Leo tranquillamente. «Non ne dubitiamo» ripeté Michele. 70 «Non sono più una bambina come Carla», continuò la madre in tono risentito e commosso, «sono una donna che ha avuto delle esperienze, che ha avuto dei dolori, oh sì, molti dolori» ella ripeté eccitata dalle sue parole; «che è passata attraverso molte noie12 e molte difficoltà, e ciò nonostante ha saputo sempre serbare intatta la propria dignità e sempre mantenersi superiore a tutti, sì, caro Merumeci» ella 75 proruppe amara e sarcastica; «a tutti quanti compreso lei…». 6 meschino: debole. 7 veniva a… le doleva: la colpiva laddove provava una grande sofferenza. 8 mortale: totale, assoluta.

9 come la quaresima: espressione colloquiale per indicare l’aspetto triste di chi pratica il digiuno quaresimale. 10 quelle insidie: nel capitolo precedente, prima di cena, Leo ha tentato di sedur-

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re Carla ed è stato interrotto dall’arrivo della madre. 11 vuole attaccar briga: ha voglia di litigare (espressione colloquiale). 12 noie: problemi.


«Non ho mai pensato che…» incominciò Leo; ora tutti comprendevano che la gelosia della madre aveva trovato una via e l’avrebbe percorsa per intero; tutti prevedevano con noia e disgusto la meschina tempesta che si addensava in quella luce tranquilla della cena: 80 «E lei caro Merumeci» continuò Mariagrazia fissando sull’amante gli occhi spiritati; «ha parlato pocanzi molto leggermente… io non sono una di quelle sue eleganti amiche senza tanti scrupoli per la testa, che non pensano che a divertirsi e a tirare avanti, oggi uno, domani un altro, alla meno peggio… no, lei s’inganna… io mi sento molto ma molto diversa da quelle signore…». 85 «Non ho voluto intendere questo…». «Io sono una donna», continuò la madre con crescente esaltazione «che potrebbe insegnare a vivere a lei e a tanti altri pari suoi, ma che ha la rara delicatezza o la 13 al diapason stupidaggine di non mettersi in prima fila, di parlar poco di se stessa e perciò è più forte: al tono quasi sempre misconosciuta e incompresa… ma non per questo» ella disse alzando più alto. Propriamente, il diapason 90 la voce al diapason più forte13; «non perché sono troppo buona, troppo discreta, è l’estensione dei troppo generosa, non per questo, ripeto, ho meno delle altre il diritto di domansuoni che una voce o uno strumendare di non venire insidiata ad ogni momento da chicchessia…». Diede un ultimo to musicale può folgorante sguardo all’amante e poi abbassò gli occhi e si diede macchinalmente a percorrere dal più cambiar di posto gli oggetti che le stavano davanti. basso al più alto.

Analisi del testo Personaggi borghesi messi a nudo I personaggi in scena sono i protagonisti della vicenda: oltre ai figli e alla madre, è presente l’amante di Mariagrazia, Leo, a cui la donna dà del lei, illudendosi di celare la vera natura del loro rapporto. La conversazione a tavola fra i personaggi diventa lo specchio delle loro personalità, a loro volta esemplificative, anche se in forme opposte, della crisi della società e della famiglia borghese che Moravia vuol rappresentare. Fin dalle prime battute rivolte dalla donna all’amante è evidente il suo risentimento, che finisce per diventare il filo conduttore del dialogo: all’accusa di interessarsi solo al cibo (rr. 9-10), fa seguire un apprezzamento ironico («beato lei») in implicita contrapposizione con la propria presunta sensibilità e spiritualità. Leo, intento a mangiare e bere, propone la sua elementare filosofia di vita («quando si fa una cosa non bisogna pensare ad altro»), schernendo i presenti incapaci di dare la giusta importanza alle cose della vita («vi arrabbiate per delle cose che non meritano») ed esibendo la propria situazione fortunata senza preoccuparsi di urtare la loro sensibilità (rr. 50-57). All’autocelebrazione dell’amante corrisponde quella di Mariagrazia che, sentendosi offesa dalla sua critica, risponde con un lusinghiero autoritratto, come rappresentante di una moralità superiore (in realtà definita a propria misura). Sono gli sguardi e i pensieri di Michele e Carla a smascherare l’immagine compiaciuta di Leo, mettendone a nudo la disonestà e il cinismo: il primo pensa che è un ladro («E quando rubi?»), la seconda ricorda tra sé gli approcci erotici («le insidie») dell’uomo e il tentativo di sedurla avvenuto prima di cena. Contrastano con l’assenza di valori e l’ipocrisia degli adulti l’infelicità e l’inquietudine dei due giovani, il cui riconoscimento doloroso del proprio disagio esistenziale e della propria impotenza è affidato ai soliloqui rivelatori del loro mondo interiore: mentre Mariagrazia e Leo esibiscono la loro aridità morale nel discorso diretto, imponendola agli altri, Carla e Michele manifestano il disgusto nei confronti della situazione familiare fra sé e sé perché per i loro sentimenti non c’è ascolto da parte di chi dovrebbe, come la madre, avere un funzione di guida.

Il ruolo “rivelatore” del rituale del pasto L’episodio si svolge in un interno tipico della vita familiare borghese, la sala da pranzo; l’ambiente è descritto con pochi dettagli essenziali, come nella didascalia di un copione teatrale: mentre il resto della stanza è avvolto nell’ombra, la luce del lampadario si concentra sul tavolo, illuminando la tovaglia candida con le suppellettili per il pasto e i colori dei cibi che sembrano macchie in quel biancore. È stato osservato che nel romanzo i momenti ricorrenti

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dei pasti (oltre alla cena qui riportata, il pranzo del cap. VI, la cena del cap. VII, il pranzo del cap. XII ➜ T6 OL) hanno una funzione strutturante, rappresentano «gli assi attorno ai quali la vicenda propriamente ruota» (Stroppini). In questa scena, come negli episodi equivalenti, si stabilisce una corrispondenza tra la ritualità della situazione e il “dramma” di Michele e Carla, di cui anticipano l’esito: «si può facilmente verificare un nesso forte e ben visibile tra la descrizione di tali scene e la insistenza sulla consuetudine, sull’angustia di vita e di prospettive che i due giovani percepiscono. In sostanza alla scelta della restrizione di spazio e di tempo risponde pienamente la sottolineata angustia degli ambienti e la carica bloccata degli avvenimenti; e dunque la costruzione del romanzo è motivata dall’idea portante di far vivere e poi precipitare, nelle occasioni rituali di riunione familiare o parafamiliare, le aspirazioni, le angosce, le potenziali e mai pienamente realizzate collisioni tra i personaggi, bloccati, ancora prima che dagli altri, da se stessi, dalla propria fragilità, dalla inconsistenza del loro ribellismo» (Stroppini).

La ribellione mancata di Carla e Michele I pensieri di Carla rilevano la continuità delle situazioni e dei gesti, rimarcata dalla ripetizione lessicale («c’erano i soliti discorsi, le solite cose, più forti del tempo, e soprattutto la solita luce senza illusioni e senza speranze; […] c’erano dunque tutti gli oggetti della sua noia»), continuità tutt’altro che rassicurante: al contrario simboleggia la prigione da cui vorrebbe evadere, ma che non trova la forza di contestare veramente; la constatazione del ripetersi sempre uguale delle situazioni avvalorerà in lei l’idea che la vita non può cambiare, diventando come una “filosofia”, quasi a giustificare la sua incapacità di ribellarsi, di tradurre il suo disgusto in una nuova scelta di vita. A sua volta Michele vive la contraddizione tra il desiderio di ribellione nei confronti di Leo e la segreta invidia per il suo successo, mentre lui si sente impotente e inetto. Alla fine, rinuncia a ribellarsi, scegliendo l’“indifferenza”: «“Ecco”, pensava “ora bisognerebbe rispondergli per le rime, ingiuriarlo, far nascere una bella questione e alfine rompere con lui”; ma non ne ebbe la sincerità; calma mortale; ironia; indifferenza».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Qual è, secondo Leo, la causa del malcontento di Mariagrazia, Carla e Michele? ANALISI 3. Attraverso il ritratto impietoso della famiglia borghese, lo scrittore ne denuncia la crisi morale. Rintraccia nel testo termini ed espressioni a sostegno di questa tesi. 4. Analizza il riferimento allo sguardo e gli occhi: all’inizio Carla ha gli occhi fissi: la sua visuale è circoscritta, come se non potesse vedere altro o al di fuori di quella zona limitata; anche lo sguardo della madre è fisso sul piatto. Quale significato lo scrittore attribuisce a questo atteggiamento comune a madre e figlia? TECNICA NARRATIVA 5. Negli Indifferenti la tecnica narrativa si fonde con quella teatrale: il suo autore dichiarò in seguito che nelle sue intenzioni doveva essere «un dramma travestito da romanzo». Individua nel testo gli elementi che a tuo avviso avvalorano quella definizione.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Negli Indifferenti, Moravia delinea un ritratto familiare. Nel tuo percorso di studi hai incontrato altri “ritratti di famiglia” in diversi contesti socio-culturali e in differenti epoche storiche, dai Promessi Sposi ai romanzi di Svevo alle opere di Pirandello ecc. In un testo di massimo 20 righe, esponi le tue riflessioni sul ruolo chiave che la famiglia ricopre in ambito letterario.

online T6 Alberto Moravia

«Sedettero… nella fredda sala da pranzo» Gli indifferenti, cap. XII

316 Il Novecento (Prima parte) 5 Alla ricerca del “reale”


Agostino

PER APPROFONDIRE

Nel breve romanzo Agostino (composto nel 1942 e pubblicato nel 1945) Moravia rappresenta le inquietudini dell’adolescenza, in particolare in rapporto alla scoperta della sessualità. Il protagonista, Agostino, è un tredicenne, poco più di un bambino anche per l’educazione protettiva ricevuta nell’ambiente borghese a cui appartiene, che lo ha lasciato completamente ignaro della vita sessuale. Ha un rapporto di attaccamento ancora infantile con la madre (il padre è morto), ancora giovane e bella. Quando, durante una vacanza al mare, nel loro rapporto idillico ed esclusivo, si insinua una figura maschile, un “giovane bruno” che corteggia la madre, il ragazzo prova un’acuta gelosia. Deluso dalla madre, Agostino ricerca fortemente la compagnia di coetanei, ma gli amici di un tempo ormai lo annoiano e viene affascinato da una banda di ragazzini dei bagni popolari, che fanno capo al bagnino Saro, un omosessuale. Essi saranno il tramite all’iniziazione sessuale di Agostino (anche in altre opere sull’adolescenza i coetanei hanno questo ruolo, ad esempio nei Turbamenti del giovane Törless di Robert Musil ➜ VOL 3A C16). Nel caso di Agostino essi non diventano gli alleati da lui ricercati nel distacco dall’infanzia, anche per la diversa classe sociale a cui il protagonista appartiene: la volgarità con cui gli rivelano le loro conoscenze in merito al sesso (riferite prima alla madre e poi all’amore omosessuale), la crudele derisione di cui lo fanno oggetto, determinano nel ragazzo una sensazione di angoscioso smarrimento. Dopo le rivelazioni dei compagni, la figura materna stessa perde i connotati protettivi e rassicuranti per diventare fonte per Agostino di una turbata curiosità sessuale. Nel finale, la madre gli promette che da quel momento in poi lo tratterà «come un uomo» e non più come un bambino, ma Agostino sa di non essere ancora un uomo e che «molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse». Nelle sue parole l’adolescenza appare dunque come una penosa fase di transizione e la scoperta della sessualità un doloroso fardello.

Il tema dell’identità giovanile Il tema dell’identità giovanile non è nuovo nel romanzo: secondo il critico Franco Moretti, il romanzo è il genere letterario che individua nella giovinezza la parte più significativa dell’esistenza, assegnandole ampio spazio fin dalle sue origini settecentesche. Nel Settecento e nell’Ottocento il racconto dei conflitti e delle “prove” adolescenziali e giovanili risulta per lo più funzionale a illuminare un percorso di maturazione dei protagonisti: ne deriva un vero e proprio genere, di grande fortuna nel tempo, il cosiddetto romanzo di formazione (➜ VOL 2A C8). La narrativa novecentesca, in sintonia con la concezione problematica della realtà e dell’identità individuale che contraddistingue il XX secolo, mette in rilievo soprattutto la rappresentazione del disagio interiore degli adolescenti e dei giovani, condotta con gli strumenti analitici della psicologia o anche (come nel caso di Agostino di Moravia) della psicoanalisi; tuttavia anche nei romanzi novecenteschi non manca la dimensione della “formazione”, che si può considerare un copione narrativo sostanzialmente costante nel tempo, anche se viene adattato alle dinamiche sociali e comportamentali proprie della modernità (e della postmodernità).

Lungo l’arco del Novecento, ma anche in tempi più vicini a oggi, sono molteplici i romanzi e i racconti dedicati a storie di adolescenti e di giovani. Nella grande varietà delle vicende e degli ambienti sociali evocati (borghese, popolare, contadino ecc.) ricorrono alcune costanti, che rimandano a esperienze effettivamente costitutive dell’adolescenza e della prima giovinezza: l’iniziazione sessuale, il conflitto generazionale, la ricerca di alleati nel distacco dalla famiglia, ma anche il rapporto problematico con i coetanei, l’esperienza dolorosa dell’esclusione e della solitudine, il difficile ingresso nel mondo adulto. Ritroviamo alcuni di questi motivi in tre romanzi di formazione della prima metà del Novecento, dedicati alla figura dell’adolescente, che riteniamo particolarmente significativi: Il garofano rosso di Elio Vittorini (uscito a puntate su «Solaria» dal 1933 al 1936 e in volume nel 1948 ➜ T7b ), Agostino (1945) di Alberto Moravia, e L’isola di Arturo (1957), considerato il capolavoro di Elsa Morante (➜ C14). Ma si potrebbe ricordare anche Con gli occhi chiusi (1919) di Tozzi (➜ VOL 3A C15), per lo meno nella prima parte del romanzo, dedicata agli anni dell’adolescenza del protagonista, Pietro, in un difficile contesto socio familiare.

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T7

Adolescenza e formazione I passi proposti toccano il tema del percorso di formazione attraversato da due adolescenti del secolo scorso, ma che ha dei tratti di grande attualità. Il primo è tratto da Agostino di Alberto Moravia, il secondo dal Garofano rosso di Elio Vittorini.

Alberto Moravia

T7a

L’adolescenza, «un’età di difficoltà e di miserie»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

Agostino A. Moravia, Agostino, Bompiani, Milano 1989

Nel brano antologizzato avviene la seconda fase dell’iniziazione del protagonista al mondo adulto, condotta in modo brutale dai ragazzi conosciuti ai bagni popolari, molto più esperti delle cose della vita di Agostino, che fin dall’inizio essi tendono a schernire e a emarginare. Dopo le rivelazioni, avvenute alla mattina, sul rapporto sessuale fra uomo e donna (che inducono Agostino a scoprire, con turbamento, la femminilità della madre) è la volta delle relazioni omosessuali.

[Nel pomeriggio Agostino accetta l’invito del bagnino Saro a raggiungere sulla sua barca a vela il gruppo dei ragazzi su una spiaggia distante. Durante il tragitto, l’uomo tenta di sedurre Agostino che, pur non capendo nella sua ingenuità quegli approcci, lo respinge. Quando arrivano a destinazione, il protagonista è accolto da sarcastiche allusioni a quello che può essere successo sulla barca con il bagnino, di cui gli altri conoscono le tendenze sessuali.] La barca filò dritta verso la sponda, quindi il Saro diede un colpo al timone mettendola di traverso; e gettatosi sulla vela l’abbracciò, la ridusse e la calò. La barca si dondolò immobile nell’acqua bassa. Il Saro prese dal fondo della barca un ancorotto e lo lanciò in mare. “Si scende,” disse. Scavalcò il bordo della barca e camminando 5 nell’acqua andò incontro ai ragazzi che lo aspettavano a riva. Agostino vide i ragazzi affollarglisi intorno con una specie di applauso che il Saro accolse scuotendo il capo. Altro applauso più clamoroso salutò anche il suo arrivo; e per un momento si illuse che fosse di amichevole cordialità. Ma subito si accorse che si sbagliava. Tutti ridevano, tra sarcastici e sprezzanti. Berto gridò: “E bravo il 10 nostro Pisa1 a cui piacciono le gite in barca”, il Tortima gli fece un versaccio accostando la mano alla bocca; gli altri facevano eco. Persino Sandro, di solito così riservato, gli parve che lo guardasse con disprezzo. Quanto al negro, badava a saltellare intorno al Saro che camminava avanti a tutti incontro2 al fuoco che i ragazzi avevano acceso sulla spiaggia. Stupito, vagamente allarmato, Agostino andò con gli 15 altri a sedersi intorno al fuoco. I ragazzi avevano fatto con la sabbia compressa e bagnata una specie di rozzo cunicolo3. Dentro vi bruciavano pigne secche, aghi di pino e sterpaglia. Collocate di traverso sulla bocca del cunicolo, una decina di pannocchie di granturco arrostivano lentamente. Presso il fuoco si vedeva, sopra un giornale, molta frutta e un grosso coco20 mero. “E bravo il nostro Pisa,” riprese Berto come si furono seduti, “tu e Homs ormai siete compagni… avvicinatevi l’uno all’altro… siete, come dire?, fratelli… lui è moro, tu sei bianco, ma la differenza è poca… a tutti e due vi piace di andare in barca…” 1 Pisa: è il soprannome con cui Agostino viene chiamato dai ragazzi del bagno

Vespucci, a cui ha raccontato di abitare a Pisa.

318 Il Novecento (Prima parte) 5 Alla ricerca del “reale”

2 incontro: verso. 3 cunicolo: una buca.


Il negro ridacchiava, soddisfatto. Il Saro, accovacciato, badava a rigirare le pannocchie sul fuoco. Gli altri sghignazzavano. Berto spinse la derisione fino a dare uno 25 spintone ad Agostino buttandolo contro il negro, in modo che per un momento essi furono addossati l’uno all’altro, l’uno ridacchiante nella sua bassezza e come lusingato4, l’altro incomprensivo5 e pieno di ripugnanza6. “Ma io non vi capisco,” disse ad un tratto Agostino. “Sono andato in barca… che male c’è?” “Ah, che male c’è?... è andato in barca… che male c’è,” ripeterono molte voci iro30 niche. Alcuni si tenevano la pancia dal gran ridere. “Eh già, che male c’è?” ripeté Berto rifacendogli il verso, “non c’è nessun male… anzi, Homs pensa che sia proprio un bene… non è vero, Homs?” Il negro assentì, giubilante7. Ora ad Agostino cominciava ad albeggiare8, seppure in maniera confusa, la verità; che non poteva fare a meno di stabilire un nesso tra 35 quelle beffe e lo strano contegno del Saro durante la gita. “Non so che cosa volete dire,” dichiarò, “io in questa gita in barca non ho fatto nulla di male… Saro mi ha fatto recitare delle poesie… ecco tutto.” “Ah… ah… le poesie,” si sentì gridare d’ogni parte. “Non è vero Saro che ho detto la verità?” gridò Agostino rosso in viso. 40 Il Saro non disse né sì né no; contentandosi di sorridere e sogguardandolo9, si sarebbe detto, con curiosità10. I ragazzi scambiarono questo contegno in apparenza indifferente e in realtà traditore e vanitoso, per una smentita ad Agostino. “Si capisce,” si udiva ripetere da molte voci, “va a chiedere all’oste se il vino è buono11… non è vero Saro? Bella questa… ah, Pisa, Pisa…” 45 Il negro, soprattutto, vendicativo, pareva godersela. Agostino gli si rivoltò e gli domandò bruscamente tremando per la collera: “Che hai da ridere?” “Io nulla,” disse quello scostandosi. “E non vi litigate… Saro penserà lui a mettervi d’accordo,” disse Berto. Ma già i ragazzi, come se la cosa a cui alludevano fosse pacifica e non meritasse più neppure 50 di essere discussa parlavano d’altro. Raccontavano come si fossero insinuati in un campo e vi avessero rubato il granturco e la frutta; come avessero veduto il contadino venirgli incontro furioso, armato di fucile; come fossero scappati e il contadino avesse sparato una fucilata di sale senza tuttavia colpire nessuno. Le pannocchie intanto erano pronte, rosolate e abbrustolite sul fuoco quasi spento. Il Saro le tolse 55 dal fornello e, con il solito paterno compiacimento, le distribuì a ciascuno. Agostino approfittò di un momento che tutti erano intenti a mangiare, e con una capriola si fece presso a Sandro che un po’ in disparte sgranocchiava il suo granturco. “Io non capisco,” incominciò. L’altro gli lanciò uno sguardo d’intelligenza e Agostino comprese che non aveva bisogno di dire altro. “È venuto il moro in tramvai12”, 60 pronunziò Sandro lentamente, “e ha detto che tu e il Saro siete andati in barca.” “Ebbene, che male c’è?” “Io non c’entro,” rispose Sandro gli occhi rivolti a terra, “sono affari vostri… ma il Saro,” egli non finì la frase e guardò Agostino. 4 l’uno… lusingato: nella sua pochezza (bassezza), il ragazzo si diverte della presa in giro nei confronti di Agostino ed è compiaciuto di essere paragonato a lui. 5 incomprensivo: incapace di comprendere.

6 pieno di ripugnanza: disgustato per quella vicinanza non voluta. 7 giubilante: visibilmente contento. 8 albeggiare: diventare chiara. 9 sogguardandolo: guardandolo a occhi bassi.

10 con curiosità: il bagnino è stupito dalla reazione ingenua di Agostino. 11 va… buono: detto popolare per dire che la testimonianza o il giudizio non è veritiero quando vi è un interesse personale. 12 tramvai: il tram su binari in uso in quel periodo.

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“E allora?” “Beh… io col Saro solo non ci andrei in barca.” “Ma perché?” Sandro si guardò intorno e poi abbassando la voce diede ad Agostino la spiegazione che questi presentiva senza rendersene conto. “Ah,” fece Agostino. E senza potere dire di più tornò al gruppo. 75 Accovacciato in mezzo ai ragazzi, con quella sua testa bonaria e fredda reclinata sulla spalla, il Saro pareva proprio un buon papà tra i suoi figlioli. Ma Agostino ora non poteva guardarlo senza un odio fondo, più forte ancora di quello che provava contro il negro. […] 80 Ora provava un vago, disperato desiderio di varcare il fiume e allontanarsi lungo il litorale, lasciando alle sue spalle i ragazzi, il Saro, la madre e tutta la vecchia vita. Chissà che forse, camminando sempre diritto davanti a sé, lungo il mare, sulla rena bianca e soffice, non sarebbe arrivato in un paese dove tutte quelle brutte cose non esistevano. In un paese dove sarebbe stato accolto come voleva il 85 cuore, e dove gli sarebbe stato possibile dimenticare tutto quanto aveva appreso, per poi riapprenderlo13 senza vergogna né offesa, nella maniera dolce e naturale che pur doveva esserci e che, oscuramente, presentiva. Guardava alla caligine14 che sull’orizzonte avvolgeva i termini del mare, della spiaggia e della boscaglia e si sentiva attratto da quella immensità come dalla sola cosa che avrebbe potuto 90 liberarlo dalla presente servitù. Le grida dei ragazzi, che si avviavano attraverso la spiaggia verso la barca, lo destarono da queste dolenti fantasie. Uno di loro agitava i suoi vestiti, Berto gridava: “Pisa… si parte.” Si scosse e, camminando lungo il mare raggiunse la banda. […] […] I ragazzi incitavano Agostino a cantare anche lui, tutti si erano accorti della 95 sua cupezza; ma nessuno gli parlava se non per canzonarlo e pungerlo. Agostino ora provava un senso di oppressione e di chiuso dolore che il mare fresco e ventilato e l’incendio magnifico del tramonto sulle acque violette gli rendevano più amaro e insoffribile15. Gli pareva sommamente ingiusto che in quel mare, sotto quel cielo, corresse una barca come la loro, così colma di cattiveria, crudeltà e di 100 perfida corruzione. Quella barca traboccante di ragazzi in tutto simili a scimmie gesticolanti e oscene, con quel Saro beato e gonfio al timone, gli pareva, tra il mare e il cielo, una vista triste e incredibile. A momenti si augurava che affondasse; e pensava che sarebbe morto volentieri tanto si sentiva anche lui infetto di quella impurità e come bacato. […] Si rendeva oscuramente conto di essere 105 entrato, con quella funesta giornata, in un’età di difficoltà e di miserie, ma non riusciva ad immaginare quando ne sarebbe uscito. La barca errò per un pezzo sul mare, giungendo fin quasi al porto e poi tornando indietro. Come approdarono, Agostino corse via senza salutare nessuno. Ma poi, a poca distanza, rallentò il passo. Volgendosi indietro, vide lontano, sulla spiaggia rabbuiata16, i ragazzi che 110 aiutavano il Saro a tirare a secco la barca. 70

13 per poi riapprenderlo: per conoscere la realtà della vita sessuale senza i sentimenti negativi suscitati dai commenti volgari dei ragazzi.

14 caligine: nebbia (dovuta al caldo). 15 insoffribile: insopportabile.

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16 rabbuiata: per il calar del sole.


Analisi del testo La rivelazione traumatica del mistero del sesso Come si è detto, l’episodio rappresenta la seconda tappa della iniziazione di Agostino alla sessualità e anche questa, come la precedente (che aveva coinvolto dolorosamente l’immagine materna), si risolve in un’esperienza traumatica. Il profondo turbamento che le allusioni, sempre più scoperte, dei ragazzi, suscitano in Agostino è reso da un’immagine scopertamente simbolica (in un passo qui non riportato): «Tutto era oscuro in lui e intorno a lui. Come se invece della spiaggia, del cielo e del mare risplendenti di sole non vi fossero state che tenebre, nebbia e forme indistinte e minacciose». Il disagio interiore del protagonista sfocia nel desiderio di fuga e nell’elaborazione di una dimensione fantastica alternativa alla realtà, come spesso accade agli adolescenti nell’iniziale contatto con la condizione adulta: alla realtà negativa in cui si sente immerso, alle “brutte cose” che ha appena appreso, Agostino contrappone l’immagine di un mondo ideale, connotato dall’accoglienza, dalla purezza e dalla dolcezza: «Chissà che forse, camminando sempre diritto davanti a sé, lungo il mare, sulla rena bianca e soffice, non sarebbe arrivato in un paese dove tutte quelle brutte cose non esistevano. In un paese dove sarebbe stato accolto come voleva il cuore, e dove gli sarebbe stato possibile dimenticare tutto quanto aveva appreso, per poi riapprenderlo senza vergogna né offesa, nella maniera dolce e naturale che pur doveva esserci e che, oscuramente, presentiva». Alla fantasticheria positiva segue però – nell’acuta analisi psicologica che lo scrittore fa dello stato d’animo del suo personaggio – la coscienza della condizione presente, affidata nel testo a un’immagine così densa di elementi negativi da potersi considerare espressione di una pulsione depressiva, a sua volta tipica dell’adolescenza: la barca, guidata da Saro-Caronte, diventa una sorta di incarnazione del male («così colma di cattiveria, di crudeltà e di perfida corruzione») e i ragazzi vengono assimilati, nello sguardo angosciato del ragazzo, a «scimmie gesticolanti e oscene». L’idea angosciosa di aver contratto una sorta di “infezione” («si sentiva anche lui infetto di quella impurità e come bacato»), provoca in Agostino un vero e proprio desiderio di morte (si augura che la barca affondi e lui stesso muoia) per ritrovare la perduta innocenza dell’infanzia.

L’esperienza dell’esclusione Nel passo si conferma e intensifica la condizione di esclusione dal gruppo che il protagonista ha già vissuto nel suo primo incontro con i ragazzi del bagno Vespucci la mattina dello stesso giorno. L’atteggiamento discriminatorio nei confronti di Agostino, giustificato con la sua presunta devianza sessuale, è in realtà originato dalla privilegiata condizione sociale e dalla differente educazione, che rendono Agostino un “diverso” rispetto all’universo popolano e volgare dei ragazzi. Ne deriva per il protagonista un sentimento doloroso di solitudine, già avvertito quando la madre ha infranto il rapporto esclusivo con lui. Agostino si è ormai allontanato dall’inconsapevolezza e innocenza dell’infanzia, ma al contempo l’età adulta risulta per lui una dimensione ancora sconosciuta; non più bambino, e non ancora uomo, Agostino è entrato nell’adolescenza, «un’età di difficoltà e di miserie», i cui confini nel tempo risultano vaghi e indeterminati.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Dove si svolge la scena? 3. Quali sentimenti suscitano in Agostino le recenti scoperte? Quale visione ha della sessualità? ANALISI 4. Osserva e illustra la corrispondenza tra lo stato d’animo di Agostino e le immagini della natura nei momenti più significativi dell’episodio: dopo la rivelazione di Sandro, durante il bagno nello stagno, durante la passeggiata lungo il litorale, durante il ritorno in barca e nel distacco dal gruppo.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

SCRITTURA 5. Racconta un’esperienza di esclusione che hai vissuto da parte del gruppo di coetanei o di cui sei stato/a testimone. Puoi scegliere la narrazione in prima persona, con l’analisi interiore o la cronaca dell’episodio fatta da un narratore esterno.

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Elio Vittorini

T7b

Un’amicizia speciale: Alessio e Tarquinio Il garofano rosso, cap. II

E. Vittorini, Il garofano rosso, Mondadori, Milano 1974

L’amicizia del protagonista con Tarquinio Masséo, il ragazzo più grande che ha un ruolo importante nella sua formazione e che diventa per lui una sorta di modello da imitare, è delineata nel passo nel suo carattere di intenso scambio di idee e interessi: simbolo di questo rapporto speciale è la “cava”, la tipografia, dove i due si sono conosciuti.

Tarquinio Masséo era un ragazzo di diciott’anni, che per una complessa vicenda di bocciature non aveva preso a tempo la licenza ginnasiale e ora si preparava da esterno per quella del Liceo. In pensione c’era per questo; ma con quali professori studiasse non si sapeva; e quando noi tornavamo, di luglio, ai nostri paesi, soltanto 5 lui, come non avesse parenti, restava a godersi l’estate della città coi bagni, le orchestrine a mare, e i varietà all’aperto. Raccontava poi delle ballerine ch’erano venute a pensione ai nostri posti e delle prove di ballo ch’esse facevano, ancora in pigiama o in camicia, nella grande sala comune tutta la mattinata. In quella nostra pensione della signora Formica ce l’avevo portato io. 10 L’avevo conosciuto una sera del ’22 nella bottega d’un fabbro-tipografo dove si stampava un giornaletto di scolari su carta grossa come da pacchi, a quanto ricordo. Si entrava nel ridotto tipografico passando per la caverna delle incudini, tra le scintille, e spesso non si entrava nemmeno, ci si fermava sulla soglia a guardare maestro e garzoni affaccendati intorno a un cavallo, poiché spesso, quel fabbro, ferrava anche cavalli. 15 Si divenne amici, io e Tarquinio, continuando tutte le sere tra le sette e le otto a frequentare quella bottega, anche quando il giornale smise di uscire. “La cava” la chiamavamo. «Allora t’aspetto alla cava» mi diceva Tarquinio ogni volta salutandomi con un cenno per aria della sua mano. 20 E “cava” non era soltanto la bottega, ma quell’ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso, su quell’ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci, là dentro, rosicchiando castagne secche, di donne, di terre, di bastonate1, d’aeroplani e automobili, di gioco del calcio, di libri e di avvenire. Era quello che avevamo in comune. 25 «Allora presero Liebknecht2, mentre dormiva, e lo portarono dal generale. Dunque non volete sciogliere la lega? Disse il generale. Perché dovrei scioglierla? Disse Liebknecht. Se la sciolgo chi difenderà il popolo di Berlino dagli uomini come voi? Bene, disse il generale e lo congedò con una stretta di mano. Da un’altra porta entrava Rosa Luxemburg che avevano presa anch’essa mentre dormiva. E Liebknecht scese le scale senza nessuno che 30 lo accompagnasse, mentre Rosa Luxemburg rispondeva le stesse cose di lui al generale. Uscì Liebknecht e c’erano sulla porta quattro bavaresi che lo aspettavano. Due gli misero le manette, e due con la mazza di ferro dietro alle spalle lo massacrarono. Così è finita con questa carogna, dissero. E cominciarono con Rosa Luxemburg che scendeva le scale, usciva e altri due bavaresi le misero le manette, altri due con la mazza di 35 ferro la massacrarono…» Questo raccontava Tarquinio, e diventava tra noi comune. 1 bastonate: riferimento alla violenza delle squadre fasciste, verso cui il protagonista prova una sorta di attrazione perché la ritiene un’iniziazione all’età adulta.

2 Liebknecht: Karl Liebknecht (1871-1919) fondò nel 1918 con Rosa Luxemburg – filosofa ed economista di origine polacca (1871-1919), oltre che militante politica –

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la Lega di Spartaco, il Partito comunista tedesco; vennero assassinati l’anno successivo, a Berlino, durante la repressione dei moti operai.


Tutte le cose ch’egli sapeva diventavano tra noi comuni. I suoi libri diventavano i miei libri, le sue idee diventavano le mie idee, la sua logica diventava la mia logica. E questo accomunarci, questo riconoscerci nelle nostre aspirazioni di ragazzi, noi chiamavamo “la cava”. 40 Tarquinio parlava di tutto questo anche nei caffè, con gli altri, ma allora non era, “la cava”. Pareva non potesse esserci “cava” fuori di quell’ora, quegli scalpiti di cavalli, quel buio e quei lumi, quelle castagne secche che rosicchiavamo, quei garzoni fabbri e maniscalchi, quel padrone fabbro e maniscalco, quella bottega. «Ah, è come cospirare qui!» diceva Tarquinio. 45 Raccontava anche di sé, naturalmente, del suo paese favoloso, Quero, dove non era stato più da dieci anni, dei suoi genitori morti, della sua parentela sconosciuta, della sua infanzia tra alte montagne. «Ogni contadino, ogni pastore abita in una reggia, a Quero» diceva. «La loro vita è umile, ognuno fa umili lavori e si ciba di ulive, ricotta e montone ma ognuno abita una 50 casa di re. Oh se solo si potesse abitare tutti case di re! Ci fu un gran re negli antichi tempi che riempì Quero di fontane e di statue». E raccontava: «Nella mia casa c’erano scalinate di marmo, alti cancelli di ferro battuto, e grandi balconi a pancia sul fiume… Nelle stanze il soffitto era profondo come le cupole delle chiese… E dal cortile entrava fogliame di nespoli a tutte le finestre… Ma 55 c’erano sempre temporali» raccontava «e io tremavo pei fulmini che vedevo strappar giù le teste alle statue… Non potevo soffrire la luce dei lampi, sai. Del tuono non mi importava ma la luce mi dava ai nervi. Anche ora, del resto…». Così egli dava via anche le sue paure, e qualche volta io lo burlavo e lui diceva: «È 60 incredibile Mainardi3, come non capisci niente». Io allora restavo mortificato e dopo un po’ raccontavo anche io una mia paura ed era lui, allora, a burlarmi: «Questa è una paura stupida» diceva. E si litigava. «Ci sono paure stupide e paure intelligenti?» dicevo io. «Altro che!» lui diceva. «Altro che! La 3 Mainardi: è il cognome del progente si allea nelle paure. E tu vedi come i bravi e i giusti siano alleati in una paura tagonista, Alessio, 70 intelligente… Come i perfidi siano alleati in una paura idiota! L’umanità è tutta divisa che l’amico usa nei momenti di attrito. da patti e alleanze contro le paure…»

Analisi del testo Il protagonista Il protagonista del romanzo, Alessio Mainardi, è un adolescente di famiglia borghese, come Agostino nel romanzo di Moravia, che racconta in prima persona le sue esperienze dall’età di sedici anni e in cui per più aspetti Vittorini si autoritrae. L’azione si svolge principalmente a Siracusa, città natale di Vittorini, a partire dal 1924, anno del delitto Matteotti. In primo piano nell’opera sono innanzitutto l’amicizia con Tarquinio, uno studente più grande di due anni, e il legame con il gruppo di compagni di scuola, con cui condivide abitudini, speranze, passioni politiche, luoghi di ritrovo. Ad avviare Alessio alla consapevolezza di sé non è la scuola (rappresentata nel romanzo più come ostacolo che luogo di crescita intellettuale), ma l’amore: prima quello platonico per Giovanna, una compagna di liceo (che gli dà in pegno il garofano rosso che dà il titolo al romanzo), poi il rapporto erotico con Zobeida, una bella e misteriosa prostituta. Fondamentale per la maturazione del protagonista è anche la passione politica, con l’infatuazione per la violenza fascista da lui vissuta come un momento della sua crescita, imprescindibile dall’affermazione della forza fisica. In Alessio subentrerà però un’embrionale coscienza etica attraverso il contatto con quello che il protagonista chiama «il mondo offeso»: la scoperta che i suoi coetanei, figli degli operai del padre, non possono continuare a studiare come lui lo rende

Alberto Moravia tra realismo ed esistenzialismo 2 323


consapevole dell’ingiustizia delle differenze sociali, che condannano alcuni a un ruolo subalterno. Alla fine, Alessio si scopre diverso rispetto al modello di vita familiare e paterno e questa presa di coscienza lo induce a cercare un’emancipazione che coincide con l’ingresso nella vita adulta.

La “cava”, un luogo simbolo Mentre l’amore, simbolicamente rappresentato dal garofano rosso che gli viene donato dalla liceale oggetto della sua ammirazione e da lui conservato, è vissuto dal protagonista – come spesso accade nell’adolescenza – solo nella dimensione fantastica, come un’aspirazione e una conquista irraggiungibile, l’amicizia è un’esperienza reale e positiva, contraddistinta dalle idee e dagli interessi che il compagno più grande mette in comune con lui (nel testo il termine comune è ripetuto, come le espressioni equivalenti – «i suoi libri diventavano i miei libri» –, secondo un procedimento che diventerà una caratteristica delle opere successive di Vittorini). L’io narrante ricorda i discorsi fatti in un elenco che ne evidenzia il carattere totalizzante per un giovane: «tutte le cose che avevamo da dirci […] di donne, di terre, di bastonate, d’aeroplani e automobili, di gioco del calcio, di libri e di avvenire». La condivisione riguarda anche gli aspetti più intimi, dalla storia personale (l’infanzia di Tarquinio è rievocata in una dimensione favolosa) alle paure segrete, queste oggetto di presa in giro ma anche di vicinanza emotiva, come avviene con chi si è scelto come una sorta di alter ego, e spunto di riflessione per quelle più generali dell’“umanità”. Il loro rapporto è identificato dai due amici nella “cava”, la tipografia dove si sono incontrati la prima volta e che ne è diventato il contenitore privilegiato, luogo reale e insieme mitico, ambiente fisico e dimensione di comunicazione esclusiva («Tarquinio parlava di tutto questo anche nei caffè, con gli altri, ma allora non era la “cava”», r. 38).

“Un’educazione” politica Nel ricordo del protagonista hanno un posto importante i discorsi politici con l’amico: oltre alle discussioni sulle violenze del fascismo (le bastonate), dai racconti di Tarquinio emergono le vicende dei protagonisti della rivoluzione spartachista (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg), puniti barbaramente con la morte per la loro coerenza ai valori professati. Nel particolare contesto dei primi anni Venti, in cui ha inizio il romanzo, contraddistinti da posizioni ideologiche talora confuse, nei due rivoluzionari tedeschi potevano identificare le loro aspirazioni di giustizia sociale anche quei giovani (“i fascisti di sinistra”) che attribuivano al nascente partito fascista un programma antiborghese e anticapitalista.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Spiega le affermazioni di Tarquinio a proposito delle “paure” che dividono l’umanità: a quali si riferisce, a tuo avviso? ANALISI 3. Sottolinea nel testo i termini che indicano la comunanza degli interessi e delle idee tra i due amici. 4. Accanto alla dimensione realistica è presente nel romanzo una componente lirica: evidenzia nel passo alcuni esempi. STILE 5. Tarquinio è riconosciuto dall’io narrante come un modello: quali espressioni lo rivelano?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di massimo 3 minuti, prendendo in considerazione il testo proposto, spiega perché Il garofano rosso di Vittorini può essere considerato un romanzo di formazione.

Fissare i concetti Alla ricerca del “reale” 1. Quale rappresentazione del mondo contadino emerge in Gente in Aspromonte? 2. Gente in Aspromonte può essere definito un racconto di denuncia sociale? 3. Quali sono i principali temi toccati da Silone in Fontamara? 4. Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo che si colloca tra memoria e documento storico? Perché? 5. Quale esperienza segnò la vita del giovane Moravia? 6. Quali fasi ha attraversato la produzione narrativa di Moravia? 7. Quale rappresentazione della borghesia emerge dalla lettura degli Indifferenti? 8. Come viene rappresentato il mondo dell’adolescenza in Agostino?

324 Il Novecento (Prima parte) 5 Alla ricerca del “reale”


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura Alla ricerca delcortese “reale” nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla Storia

Negli anni Trenta del Novecento, durante il periodo fascista, si assiste in Italia a una stagione di rinnovato interesse letterario per il meridione, di cui la propaganda del regime tendeva a diffondere una visione positiva, tacendo però sulle condizioni di arretratezza e povertà in cui si trovavano i contadini del Sud d’Italia. A questa visione mistificante si oppone un gruppo di scrittori, in genere definiti “meridionalisti” proprio perché i loro racconti e i loro romanzi hanno come protagonista il meridione. I principali autori di questa stagione letteraria sono Corrado Alvaro (1895, San Luca, RC – 1956, Roma) con la raccolta di 13 racconti Gente in Aspromonte, ambientata nelle campagne calabresi, e Ignazio Silone (1900, Pescina, AQ – 1978, Ginevra) con Fontamara, un romanzo ambientato in un immaginario paesino del più profondo e povero Abruzzo. Negli anni Quaranta del Novecento, durante il periodo della Resistenza e l’immediato dopoguerra, si manifesta un secondo momento “meridionalista”. Anche le opere di questo nuova stagione letteraria hanno come sfondo prevalente il tempo del fascismo e costituiscono una vibrante denuncia dell’oppressione secolare delle masse contadine del Sud, ma molti autori manifestano anche un interesse per il mondo primitivo e magico dell’arcaica civiltà contadina. È il caso di Carlo Levi (1902, Torino – 1975, Roma), autore del romanzo-memoriale Cristo si è fermato a Eboli (1945), ambientato in un paese della Lucania, e di Giuseppe Dessì (1909, Cagliari – 1977, Roma) con Paese d’ombre, che riprende i moduli del romanzo storico per rappresentare una saga familiare in un piccolo comune della Sardegna.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 325


2 Moravia tra realismo ed esistenzialismo

Un protagonista della vita culturale italiana Alberto Moravia (pseudonimo di Alberto Pincherle) nasce a Roma nel 1907 da una ricca famiglia borghese. All’età di nove anni si ammala di una grave forma di tubercolosi ossea che gli impedisce di compiere studi regolari e lo costringe a formarsi da autodidatta. Nel 1929 pubblica il romanzo Gli indifferenti, che riscuote subito un grande successo rendendo Moravia famoso. Soggiorna negli Stati Uniti tra il 1934 e il ’35, dopodiché viaggia in Cina e Grecia. Tornato in Italia, nel 1941 sposa Elsa Morante. Con lei si rifugerà a Fondi (in provincia di Latina) durante l’occupazione nazista di Roma; da quest’esperienza nasce il romanzo La ciociara del 1957. Alla fine degli anni Cinquanta Moravia diventa un punto di riferimento della cultura italiana di sinistra. Collabora con diversi quotidiani e riviste e dirige con Pasolini ed Enzo Siciliano la rivista «Nuovi Argomenti». Muore a Roma nel 1990.

Le fasi della narrativa moraviana La prima fase della produzione moraviana comprende le opere composte dal 1929 al 1945: tema ricorrente è la crisi della borghesia, rappresentata con crudo realismo. Immagini topiche della produzione di questi anni risultano essere il sesso e il denaro che secondo l’autore la società borghese utilizza come mezzi di dominio sulle persone. Il romanzo Gli indifferenti (1929), considerato il capolavoro di Moravia, inaugura questa prima fase, cui appartengono anche due opere dedicate al mondo degli adolescenti: i romanzi Agostino (1945) e La disubbidienza (1948). La seconda fase, dal 1947 al 1957, è caratterizzata da un avvicinamento da parte di Moravia al neorealismo. Da qui deriva innanzitutto la preferenza per personaggi del popolo che incarnano un modello umano positivo, contrapposto al mondo borghese. Le opere più significative di questa fase sono i romanzi la Romana (1947) e la Ciociara (1957) e le raccolte Racconti romani (1954) e Nuovi racconti romani (1959). L’ultima fase della produzione di Moravia si colloca tra l’inizio degli anni Settanta e il 1990, anno della morte dell’autore. Il centro d’interesse di Moravia torna a essere la crisi del mondo borghese, ormai caratterizzato da un disagio e un malessere sempre più profondi. La prima opera di questo periodo, La noia (1960), è un romanzo-saggio chiaramente ispirato alle tesi de La nausea di Sartre, manifesto dell’esistenzialismo francese. Seguono L’attenzione (del 1965, un tentativo di romanzo sperimentale), La vita interiore (1978) e L’uomo che guarda (1985).

Zona Competenze Scrittura EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

1. Riferendoti alla sezione intitolata “La voce del Sud dell’Italia, dimenticato dalla storia”, ritieni che oggi le cose siano cambiate? Ti sembra che gli obiettivi 1 e 16 dell’Agenda 2030 siano facilmente perseguibili nei territori descritti?

competenza 5

Scrittura

2. Moravia, negli Indifferenti, ha tratteggiato il ritratto della famiglia borghese sotto il regime fascista. Prova a descrivere, in un testo di massimo 25 righe, dopo aver fatto una breve ricerca inerente al quadro normativo che regola il diritto di famiglia, le caratteristiche della famiglia di oggi.

326 Il Novecento (Prima parte) Alla ricerca del “reale”


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese

Elio Vittorini e Cesare Pavese hanno svolto un ruolo molto importante nella cultura del loro tempo, innanzitutto come modelli letterari a cui si ispirerà il neorealismo (rispettivamente con i romanzi Conversazione in Sicilia, 1933 e Paesi tuoi, 1941) e anche come organizzatori di cultura. Certamente per entrambi la generica etichetta di “realismo” risulta restrittiva, poiché si allontanano visibilmente e consapevolmente da quella rappresentazione diretta della realtà che è (o dovrebbe essere) propria del realismo, per rivestire la loro rappresentazione di implicazioni simboliche e di scelte espressive che rifiutano una riproduzione mimetica. Da qui la definizione, usata da alcuni critici, di “realismo mitico” per alludere alle caratteristiche, del tutto particolari, del loro realismo.

Vittorini, 1 Elio un militante

della cultura deluso dalle ideologie

Pavese: 2 Cesare un universo simbolico legato alla campagna

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1

Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 1 La vita Un siciliano inquieto Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908 in una famiglia modesta (il padre era ferroviere). Avviato agli studi tecnici, si mostrò presto insofferente a essi e si creò una propria cultura da autodidatta. Lasciata giovanissimo la Sicilia, visse e lavorò per brevi periodi a Roma e poi si trasferì dal 1930 al 1938 a Firenze, allora centro della cultura italiana. Qui collaborò alla rivista «Il Bargello», dove maturò una posizione ideologica ascrivibile al cosiddetto “fascismo di sinistra”, che nel movimento fascista apprezzava l’iniziale spirito antiborghese.

online

Video e audio Elio Vittorini si racconta. Contributo trasmesso da Rai Scuola

L’interesse alla cultura straniera e il rapporto con “Solaria” Lettore appassionato della letteratura inglese e soprattutto americana, in netta contrapposizione al culto fascista della letteratura “strapaesana”, Vittorini era convinto che la cultura italiana dovesse aprirsi a quella europea, secondo i grandi modelli di Joyce, Proust, Kafka. Una posizione che lo porta a entrare in contatto con la rivista «Solaria», dove pubblica la raccolta di racconti Piccola borghesia (1931) e dove esce a puntate (193334) il suo primo romanzo Il garofano rosso che, bloccato dalla censura per oscenità, sarà pubblicato in volume solo nel 1948. Tra il 1935 e il 1936 scrive Erica e i suoi fratelli, un romanzo sociale, pubblicato nel 1954. La vicenda, ambientata nel sottoproletariato urbano, ha per protagonista la giovane Erica, costretta a prostituirsi per mantenere la numerosa famiglia. È il primo di una serie di romanzi che, con caratteri diversi, rappresentano personaggi del popolo. Tra il 1933 e il 1943, Vittorini traduce le opere di narratori inglesi e americani, contribuendo in modo determinante alla diffusione in Italia di queste letterature. Nel 1941 cura per la casa editrice Bompiani l’antologia Americana. Bloccata dalla censura fascista, l’antologia viene pubblicata l’anno dopo con la prefazione di Emilio Cecchi, dopo la soppressione della maggior parte delle note di Vittorini. Il garofano rosso e il ribellismo rivoluzionario fascista Il garofano rosso (➜ C5 T6b ) è un romanzo di formazione: vi si narra la formazione politica e sentimentale e l’iniziazione sessuale del liceale Alessio Mainardi, dietro al quale si profila la figura dell’autore stesso da ragazzo. Nella prefazione al romanzo, scritta alla fine del 1947 (nella quale lo scrittore interpreta e giudica tutta la sua produzione fino a quell’anno), Vittorini ne sottolinea il valore di documento dell’infatuazione della sua generazione per il fascismo, motivata soprattutto dal fascino della violenza: Alessio, il protagonista, vede nel fascismo la possibilità di sfogare il suo giovanile ribellismo, la sua «voglia di fucilate». La guerra di Spagna: l’embrione di una coscienza antifascista Nella stessa prefazione del Garofano rosso, Vittorini ricorda il ruolo svolto dalla guerra di Spagna (1936-39) nella maturazione politica sua (e di altri giovani intellettuali), che lo porterà fuori dal fascismo e lo indurrà a scegliere di militare nell’opposizione. In quell’occasione storica Vittorini vive (e la rievoca attraverso la scrittura romanzesca)

328 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


una trasformazione etica prima ancora che politica, fondata sulla scoperta-rivelazione di una fede umanitaria, sul sentimento di fratellanza con gli esseri umani, in particolare gli oppressi. Da questa condizione psicologica nasce il capolavoro Conversazione in Sicilia, la cui celebre introduzione costituisce un documento storico-generazionale ancora oggi di forte suggestione (➜ T1a ). Milano, la Resistenza, «Il Politecnico» Nel 1938 Vittorini si trasferisce a Milano e partecipa attivamente alla Resistenza (opera nell’ambito della diffusione della stampa clandestina), a cui dedica Uomini e no (1945), uno dei romanzi più noti su quell’esperienza; l’opera è accolta da un grande consenso, anche perché pubblicata nel clima euforico della Liberazione. Ritorna in esso la tematica oppressioppressori, “uomini-non uomini” che già ricorreva in Conversazione in Sicilia, ma con maggiore evidenza drammatica e concretezza storica: il romanzo è infatti calato nella lotta antifascista a Milano. Anche per il suo valore espressamente civile e documentario di uno dei periodi più tragici della storia italiana, il romanzo adotta modi stilistici per lo più realistici. Nei primi anni del dopoguerra Vittorini dirige con entusiasmo la rivista militante «Il Politecnico», ma la vita della rivista è molto breve (1947-1949): le pubblicazioni cessano in seguito alla polemica che lo contrappone a Togliatti. Deluso e amareggiato, nel 1951 lo scrittore esce dal Partito comunista. Riprende a scrivere romanzi, ma senza trovare più la felice ispirazione della Conversazione: tra il 1947 e il 1950 escono Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, La garibaldina. All’inizio degli anni Cinquanta comincia Le città del mondo, un romanzo allegorico di carattere utopico che, dopo vari tentativi, abbandonerà definitivamente nel 1955.

PER APPROFONDIRE

Un attento operatore culturale In seguito all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica (1956), Vittorini abbandona la militanza politica e si dedica totalmente all’attività a lui particolarmente congeniale, quella di operatore culturale: dal 1951 al 1958 dirige “I gettoni” di Einaudi, collana destinata a scrittori emergenti; negli ultimi anni della sua vita dirigerà la collana di scrittori stranieri “Medusa” di Mondadori. Nel 1959 fonda con Italo Calvino la rivista «Il menabò» che avvia il dibattito sulla necessità di un rapporto fra letteratura e nuova realtà, in cui era iniziato il boom industriale (➜ C13). Nel 1957 aveva pubblicato da Bompiani il suo Diario in pubblico, cronistoria delle varie occasioni intellettuali della sua vita, corredate da pagine saggistiche o giornalistiche che egli considerava particolarmente significative; postuma (1967) uscirà una raccolta degli scritti dei suoi ultimi anni di vita, Le due tensioni. Vittorini muore a Milano nel 1966.

Il mito della letteratura americana A partire dagli anni Trenta-Quaranta, si diffonde in Italia un vivo interesse per la narrativa degli Stati Uniti d’America, la cui conoscenza fu favorita da un’intensa attività di traduzione. Ebbero un ruolo importante in questo ambito Pavese (che si era laureato sul poeta americano Whitman e che scrisse numerosi saggi sugli scrittori americani, poi raccolti in La letteratura americana e altri saggi) e Vittorini, anch’egli traduttore di varie opere e soprattutto curatore dell’antologia Americana pubblicata da Bompiani nel 1941. Bloccata in un primo tempo dalla censura fascista, l’antologia sarà ripubblicata nel 1942. Sugli scrittori italiani ebbe grande influenza in particolare la

narrativa americana che si era sviluppata tra il primo e il secondo dopoguerra: autori come William Faulkner (1897-1962), Ernest Hemingway (1899-1961), John Steinbeck (1902-1968), John Dos Passos (1896-1970) diventano modelli per uno stile narrativo realistico e incisivo, antiletterario, capace di rappresentare con forza i “fatti” più che soffermarsi sull’analisi psicologica dei personaggi, anche se ai fatti stessi conferisce in alcuni casi un’aura epica. Nell’Italia soggetta alla dittatura fascista, l’America rappresentava il paese della libertà, un paese giovane e vitale, ricco di energie positive, in cui poteva realizzarsi l’“avventura”, il cambiamento dei destini individuali e collettivi.

Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 1 329


2 Pellegrinaggio nel «mondo offeso»: Conversazione in Sicilia Un libro chiave Pubblicato nel 1938-39 sulla rivista fiorentina «Letteratura» e poi in volume presso Bompiani nel 1941, Conversazione in Sicilia è considerato il capolavoro di Vittorini e un libro di riferimento nella storia del Novecento. Il romanzo è incentrato sul motivo tradizionale del viaggio, che si configura per il protagonistanarratore (in cui si rispecchia l’autore stesso) come un itinerario etico-conoscitivo: gli incontri che Silvestro si trova a vivere sul treno che lo porta in Sicilia e quelli che vive una volta giunto nel paese natale attivano dentro di lui un processo di autocoscienza che si identifica nella scoperta del «mondo offeso» e nella convinzione della necessità di compartecipare alla sofferenza dell’uomo, superando l’inerzia (la «quiete di non speranza»), il senso di rabbiosa impotenza (gli «astratti furori») da cui prende le mosse il romanzo. Un romanzo antirealistico e allegorico Conversazione in Sicilia è un romanzo con forte portata ideologica, ma Vittorini proietta il messaggio che gli sta a cuore trasmettere in una dimensione lirico-simbolica. Non c’è un vero e proprio intreccio, non ci sono neppure vere e proprie “azioni”: il libro è costituito da una serie di quadri giustapposti incentrati sulla “conversazione” (che dà il titolo al romanzo) tra il protagonista-narratore e una serie di personaggi-emblema, che svolgono ognuno una funzione simbolica nella progressiva educazione (o rieducazione) ideologica di Silvestro. Da qui l’assenza di una loro caratterizzazione realistica sul piano fisico e psicologico, e addirittura di nomi propri, sostituiti a volte da un dettaglio del loro aspetto (Coi Baffi, Senza Baffi), da denominazioni quasi favolose (Il Gran Lombardo) o dal semplice riferimento alla professione che esercitano (L’arrotino). Vittorini crea nel romanzo un clima poetico, mitico, attraverso precise scelte stilistiche: in particolare, grazie agli effetti ritmici ottenuti dalle simmetrie, dalle continue iterazioni di singole parole e interi sintagmi (anche di capitolo in capitolo) entro una sintassi essenziale, quasi esclusivamente paratattica, in cui il lessico (in prevalenza termini medi) è usato in modo allusivo-evocativo più che referenziale. La struttura e la vicenda Conversazione in Sicilia è suddiviso dall’autore in cinque parti, a cui si aggiunge un brevissimo epilogo: • Prima parte Il romanzo si apre con un celebre prologo (➜ T1a ), in cui l’io narrante esprime la stagnante condizione psicologica ed etica del protagonista che precede (e in parte motiva) il viaggio intorno a cui si articola il romanzo. Silvestro, lontano da molti anni dalla terra d’origine, la Sicilia, decide di andare a trovare la madre. Sul treno incontra vari personaggi: agli oppressi (come il povero contadino che mangia disperato le arance che non riesce a vendere) si contrappongono gli oppressori, come i due arroganti questurini in licenza chiamati Coi Baffi e Senza Baffi; c’è poi chi è apertamente schierato dalla parte degli oppressi, come il misterioso Gran Lombardo, che spiega a Silvestro la necessità di assumere «nuovi doveri e più alti verso gli uomini». • Seconda parte Arrivato a Neve, un paesino tra le montagne nel cuore della Sicilia, Silvestro ritrova la madre Concezione; parlando con lei rivive l’infanzia, sua e del fratello. • Terza parte Accompagnando la madre nel suo giro consueto tra i malati del paese, a cui fa le iniezioni, Silvestro conosce da vicino la miseria e la sofferenza. Si rafforza in lui la determinazione di dover stare dalla parte di chi soffre («Non ogni uomo è uomo allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto che è perseguitato»).

330 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


• Quarta parte In questa parte è fondamentale per Silvestro l’incontro, “la conversa-

zione” con alcune figure del paese che, distinguendosi dall’inconsapevolezza e dalla fatalistica rassegnazione degli altri, solidarizzano con gli “offesi” e non si rassegnano alle ingiustizie della storia: l’arrotino Calogero e i suoi amici Ezechiele e Porfirio. • Quinta parte In una scena surreale, Silvestro parla con una presenza fantasmatica che si rivela essere suo fratello Liborio, morto nella guerra di Spagna. Davanti a un monumento bronzeo dedicato ai caduti del paese, egli cerca di esaltare il loro sacrificio, nell’ottica retorica della storia ufficiale, ma avverte la voce del fratello morto che, attraverso un’interiezione («Ehm!»), subito fatta propria da tutti i personaggi presenti, di per sé squalifica ogni retorica bellica. • Epilogo Concluso il suo viaggio, Silvestro si congeda dalla madre, pronto ormai ad assumere «nuovi doveri». Il romanzo si chiude così circolarmente riprendendo il concetto espresso dal Gran Lombardo nel prologo.

Conversazione in Sicilia GENERE

romanzo antirealistico e allegorico

DATA DI PUBBLICAZIONE

1938-39

STRUTTURA

• suddivisione in cinque parti • serie di quadri giustapposti • assenza di una vera e propria trama

CONTENUTO

viaggio come itinerario etico-conoscitivo

STILE

• lessico utilizzato in modo allusivo-evocativo • presenza di iterazioni • sintassi essenziale e quasi esclusivamente paratattica

R. Guttuso, Occupazione delle terre incolte in Sicilia, olio su tela, 1949 (Gemäldegalerie, Dresda).

Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 1 331


T1

Dall’inerzia alla solidarietà

online T1a Elio Vittorini

«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori» Conversazione in Sicilia, cap. I

T1b

Nel primo brano (➜ T1a OL) si analizza la condizione di apatia e di indifferenza in cui vive il protagonista Silvestro indifferente alle sofferenze altrui; nel secondo brano (➜ T1b ) Vittorini colloca come protagonisti gli uomini che provano dolore per le sofferenze altrui e per coloro che subiscono ingiustizie.

Elio Vittorini

LEGGERE EDUCAZIONE LE EMOZIONI ALLE RELAZIONI

«Uno che soffre per il dolore del mondo offeso» Conversazione in Sicilia, cap. XXXVII E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino 1973

Siamo nella quarta parte del romanzo. Accompagnato dall’arrotino e dal sellaio di cavalli Ezechiele, Silvestro fa la conoscenza di Porfirio, il venditore di panni. Anch’egli, come gli altri due artigiani, appartiene agli “eletti”, che soffrono per il dolore del «mondo offeso» e che riconoscono in Silvestro uno di loro.

L’arrotino disse allora: – Parlagli del nostro amico, Ezechiele. – Che amico? – la voce chiese. 5 Un’umana forma si mosse, dietro a quella voce, nel buio, e parve che si movesse tutto il buio: era gigantesca. Fuori da tanto uomo, venuto vicino a me nel chiarore della porta, la bella voce calda chiese di nuovo: – Che amico? Questo signore qui? – Questo signore, – l’uomo Ezechiele rispose. – Come te, Porfirio, e come Calogero arrotino, come me, come certo molti altri sulla faccia della terra, egli è uno che 10 soffre per il dolore del mondo offeso. – Ah! – esclamò l’immenso uomo. Mi venne ancora più vicino e una tepida brezza, suo fiato, mi scompigliò i capelli sulla fronte. – Ah! – egli esclamò di nuovo. Scese la sua larga mano dall’alto, cercò la mia e me la strinse in una stretta che, 15 malgrado tutto, era gentile. – Mi compiaccio, – egli disse di sopra alla mia testa. E rivolgendosi agli altri chiese: – Soffre, avete detto? Scirocco caldo era il suo fiato nei miei capelli e, sempre tenendomi la mano con forza gentile, l’uomo ripeté: – Mi compiaccio... 20 – Prego, – risposi io. – Non c’è di che. – Oh! – l’uomo disse. – C’è molto di che. Sono onoratissimo. E io: – Mio è l’onore. E l’uomo: – No, tutto mio, signore –. E di nuovo rivolgendosi agli altri, mentre volavano i miei capelli sotto il suo fiato, di nuovo chiese: – Egli soffre, dunque? 25 – Sì, Porfirio, – l’uomo Ezechiele rispose. – Soffre e non per sé stesso. – Non per le piccolezze del mondo, – spiegò l’arrotino. – Non perché gli hanno 1 Forbici... l’arrofatto la contravvenzione, non perché ha cercato di giocare un piccolo scherzo al tino: nel lessico dell’arrotino, forbici suo simile... e coltelli simboleg– No, – l’uomo Ezechiele disse. – È per il dolore universale che soffre. giano la ribellione contro la sopraffa- 30 E l’arrotino disse: – Per il dolore del mondo offeso. zione e l’ingiustizia Nel buio l’omone Porfirio mi toccava ora la testa, la faccia, e di nuovo esclamò: – sociale. Anche nel cap. XXXV l’arrotiAh! – Poi disse: – Capisco e apprezzo. no aveva fatto ri– Forbici e coltelli! – urlò allora l’arrotino1. ferimento a lame, coltelli, punteruoli. – Forbici? – ripeté piano l’uomo Porfirio. Era una massa di buio, con un calore che

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gli usciva da qualche parte a girar tra noi come benefica corrente del golfo, e con vento in cima, e con voce dolce, profonda. – Coltelli? – egli ripeté. E dolcemente, 35 profondamente disse: – No, amici, non coltelli, non forbici, nulla di tutto questo occorre, ma acqua viva2... [...] Eravamo immersi nella notte, ormai, e le voci si abbassarono, nessuno più avrebbe potuto udirci parlare. Stavamo vicini, con le teste vicine, e l’uomo Porfirio era come un enorme cane nero di San Bernardo che tenesse raccolti tutti e sé stesso 40 nel calore del suo pelo. A lungo egli parlò dell’acqua viva; e parlò l’uomo Ezechiele, parlò l’arrotino; e le parole furono notte nella notte e noi fummo ombre, io credevo di essere entrato in un conciliabolo di spiriti. Poi la voce dell’uomo Porfirio tornò alta. – Andiamo. Vi offro un bicchier di vino da Colombo, – egli disse. E tirò giù il panno appeso alla porta, chiuse, ci condusse avvolti nella sua calda corrente per la strada. 2 acqua viva: all’immagine, di sapore quasi evangelico, è difficile far corrispondere un significato univoco. Presumibilmente Por-

firio contrappone alla sommaria visione della giustizia dell’arrotino («forbici... coltelli»), da realizzarsi attraverso la lotta ar-

mata, l’idea di una rigenerazione profonda dell’umanità, simboleggiata dall’acqua viva (che potrebbe rimandare al rito battesimale).

Analisi del testo Il mondo offeso Al centro del dialogo presentato nel capitolo, Vittorini colloca «il dolore del mondo offeso». Gli uomini che sentono vivo il dovere della solidarietà, non possono che soffrire, in una lunga catena di dolore, per chi è costretto a subire ingiustizie. Di fronte al patimento dei propri simili, Silvestro e i suoi conoscenti mostrano la loro compartecipazione e sottolineano quanto l’autentica capacità di entrare in contatto con il dolore altrui porti a dolersi «per il dolore del mondo offeso», per il dolore universale e non «per le piccolezze del mondo». Dietro questa constatazione, in controluce, si colloca il giudizio politico di Vittorini, che pensa che la violenza e i soprusi continueranno a perpetuarsi nel mondo a causa della mancanza di solidarietà tra gli uomini. Per superare le diseguaglianze e cancellare le ingiustizie, bisogna mettere da parte l’indifferenza e smettere di soffrire solo per sé stessi.

La conversazione Il dialogo tra Silvestro e gli altri “eletti” rispecchia lo stile del romanzo e ruota attorno a frasi chiave che ne condensano il significato più profondo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nel testo vengono contrapposti due tipi di sofferenza: spiega con parole tue la differenza tra i due modi di soffrire evocati nel dialogo. 2. Perché Vittorini aggiunge la qualifica “l’uomo” a Ezechiele e Porfirio? 3. Il nome Ezechiele rimanda a un profeta biblico (autore del Libro di Ezechiele): pensi che sia casuale la scelta di un nome biblico per uno degli interlocutori di Silvestro? ANALISI 4. L’ambientazione spazio-temporale ti sembra realistica? Motiva la tua risposta con riferimenti al testo. STILE 5. Come in tutto il romanzo, anche in questo capitolo Vittorini dà vita a un clima mitico, fiabesco, e conferisce alla sua prosa un andamento lirico: individua le ripetizioni, le anastrofi, le espressioni metaforiche e analogiche.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 6. Viene suggerita, in qualche modo, una soluzione al problema del dolore, del mondo offeso? (max 2 minuti) 7. Vittorini, attraverso i personaggi del romanzo, mostra come nel mondo l’egoismo prevalga di gran lunga sulla solidarietà. Tu, personalmente, come ti rapporti agli altri? Riesci a provare empatia e capire lo stato d’animo di chi entra in contatto con te?

Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 1 333


3 Uomini e no ll bene e il male nella guerra partigiana Il romanzo Uomini e no di Elio Vittorini, che mette in scena la lotta partigiana a Milano, è scritto a ridosso della guerra, e pubblicato già nel giugno 1945. Alle altre opere dello stesso periodo esso è accomunato dal proposito di testimoniarne gli orrori, le atrocità, la disumanizzazione. Ma il romanzo (come è preannunciato dal titolo) è attraversato anche da una riflessione problematica – di carattere esistenziale assoluto più che storico-politico – sul rapporto tra il male e la condizione umana. La trama Nell’inverno del 1944 Enne 2 (Enne è abbreviazione di Naviglio, la zona milanese in cui opera il suo gruppo), uno dei capi dei GAP (Gruppi di azione patriottica) della Resistenza milanese, insieme ai compagni, organizza un attentato contro i tedeschi e i fascisti del tribunale repubblichino, in cui vengono uccisi quattro ufficiali e il capo del tribunale. All’annuncio della rappresaglia, i partigiani decidono di attaccare nuovamente il tribunale, per impedirne la riunione. Il piano ha successo, ma la reazione è feroce: sono passati per le armi non solo prigionieri politici detenuti a San Vittore ma anche civili, fra i quali un vecchio, delle donne, dei ragazzi e una bambina. Per terrorizzare la popolazione, i morti sono lasciati esposti nelle strade e piazze del centro. Dinanzi ai loro corpi passano alcuni personaggi del libro, fra cui Enne 2 e Berta (la donna da lui amata e che lo ricambia ma che, per uno scrupolo borghese, non osa abbandonare il marito). In seguito Enne 2 è riconosciuto durante un fallito attentato a Cane Nero, feroce capo fascista ma, deluso per il rifiuto di Berta e straziato per la morte di tanti compagni, rinuncia a fuggire e aspetta da solo nella sua casa lo scontro finale con l’ufficiale, in cui trova la morte; prima, però, affida a un giovane operaio, che aveva inutilmente cercato di indurlo a fuggire, il compito di continuare la lotta. Il giudizio etico sulle azioni partigiane Oltre alla narrazione della guerra partigiana in città, il romanzo propone alcuni spunti di riflessione etica. L’evento centrale è un sanguinoso attentato ai danni dei nazifascisti, organizzato dai partigiani, seguito dalla rappresaglia in cui, secondo la regola nazista, per ogni tedesco sono uccisi dieci italiani. Tale tragica ritorsione suscita un interrogativo, affrontato anche nella realtà storica da molti partigiani: è lecito combattere i tedeschi a questo prezzo? Nel romanzo proprio Enne 2, pur essendo l’organizzatore dell’atto terroristico, esprime dei dubbi per le rappresaglie che ne sarebbero seguite («Che me ne sembrerebbe di dover essere fucilato con altri trentanove per quattro canaglie che i patrioti hanno tolto di mezzo?»), ma, dopo averne discusso, i partigiani giungono unanimi alla conclusione che la lotta deve comunque essere condotta con ogni mezzo, perché è giusta in assoluto. Una considerazione che si lega al nucleo riflessivo del libro, in cui, con uno stacco dalla narrazione evidenziato da caratteri tipografici corsivi, il narratore prende direttamente la parola per giudicare se la guerra partigiana, con il suo carico di morte, possa essere ancora considerata umana. Lo scrittore riprende considerazioni già introdotte in Conversazione in Sicilia, per cui è più umano chi soffre ed è perseguitato, ma in questo libro aggiunge che lo è anche chi combatte per liberarsi, per reagire all’oppressione. Disumana è invece senza ombra di dubbio la ferocia dei nazisti che si accaniscono contro i civili indifesi (➜ T2 ) e compiono misfatti come quello del capitano Clemm, che fa sbranare dai cani un povero venditore ambulante, colpevole di aver ucciso per autodifesa una cagna aggressiva e feroce.

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La raffigurazione idealizzata dei militanti della Resistenza Tale contrapposizione, tipica dello spirito del neorealismo, appare per certi aspetti semplificatoria, soprattutto perché si accompagna a una rappresentazione eccessivamente idealizzata dei partigiani, descritti senza eccezione come uomini pacifici, costretti ad azioni violente estranee alla loro indole: «Coriolano era un uomo semplice: aveva una faccia aperta e buona, e spesso diceva: “Io non so”. Ma anche Mambrino aveva una faccia buona, l’aveva tonda e buona. E Barca Tartaro l’aveva ferma e buona. Pico Studente l’aveva acuta e buona. Tutti questi uomini erano semplici, erano pacifici, semplici». La ripetizione insistita dell’aggettivo buona è spia evidente di una visione che prescinde da sfumature e distinguo. Liberazione individuale/collettiva Un altro tema messo in evidenza nel libro di Vittorini è il rapporto fra liberazione individuale e collettiva. Attraverso una struttura narrativa originale, alla narrazione degli episodi della Resistenza sono infatti intercalati, ancora in corsivo, interventi in cui il narratore si rivolge direttamente al protagonista a proposito del suo rapporto difficile con Berta, la donna amata, che non può assicurargli la felicità, perché manca del coraggio e della forza di carattere necessari a troncare un legame matrimoniale infelice, per unirsi all’uomo che ama. Così il protagonista, che lotta per la liberazione collettiva ma è incapace di realizzare quella individuale, cade in uno stato d’animo tormentato: deciso e risoluto nella guerra partigiana, ma anche sfiduciato e alla fine desideroso di “perdersi” nella scelta suicida di non allontanarsi da Milano. Dall’intellettuale all’operaio La resa finale di Enne 2 è riconducibile a un nodo centrale nell’opera di Vittorini: il ruolo dell’intellettuale. Prima di farsi uccidere, Enne 2 lascia l’eredità della lotta a un operaio, che, nonostante un iniziale cedimento quando non ha il coraggio di uccidere un tedesco dall’aspetto triste e mite, è deciso a «imparare fino in fondo» a combattere. Lo spostamento della prospettiva dall’intellettuale all’operaio, che meglio del primo trova in sé la determinazione per proseguire la lotta, riflette lo spirito della Resistenza quale poteva essere sentita nel 1945, quando la visione del Partito comunista, enfatizzando il ruolo degli operai come protagonisti rivoluzionari, dominava l’interpretazione della lotta resistenziale e della storia.

Uomini e no

GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1945

CONTENUTO

• messa in scena della lotta partigiana a Milano • testimonianza degli orrori della guerra • raffigurazione idealizzata dei militanti della Resistenza

Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie 1 335


T2

Elio Vittorini

I morti parlano ai vivi Uomini e no E. Vittorini, Uomini e no, Mondadori, Milano 1990

Passando per largo Augusto, nel centro di Milano, Berta e altri personaggi sono colpiti da uno spettacolo atroce: per terrorizzare la folla e stroncarne i propositi di fiancheggiare la Resistenza, i corpi degli uccisi dai nazifascisti sono esposti al pubblico.

I morti al largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, 5 anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva 10 bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa. Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva 15 di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava. […] Ma c’era anche la bambina. Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva, mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l’avevano 20 presa e messa al muro avesse di colpo fatta la strada che la separava dall’essere adulta. La sua testa era piegata verso l’uomo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia dell’uomo che pendeva un poco dalla parte di lei. Perché lei anche? 25 Gracco vide passare un altro degli uomini che aveva conosciuto la sera prima, il piccolo Figlio-di-Dio, e fu un minuto con lui nella sua conversazione eterna. Rivolse a lui il movimento della sua faccia, quella ruga improvvisa in mezzo alle labbra, quel suo sguardo d’uomo dalle tempie bianche; e Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi. Ma poi restò dov’era. Perché lei? il Gracco chiedeva. Figlio-di-Dio rispose nello stesso 30 modo, guardandolo. Gli rimandò lui pure la domanda: Perché lei? Perché? la bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi? Essa parlò con l’uomo morto che gli era accanto. Lo domandano, gli disse. Non lo sanno? 35 Sì, sì, l’uomo rispose. Io lo so. Noi lo sappiamo. Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo sanno. Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpir

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l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura. Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura. 45 Aveva paura il Gracco? O Figlio-di-Dio? Scipione? Barca Tartaro? Non potevano averne. O poteva averne Enne 2? Non poteva averne. Allo stesso modo ogni uomo ch’era nella folla non aveva paura. Ognuno, appena veduti i morti, era come loro, e comprendeva ogni cosa come loro, non aveva paura come non ne avevano loro. 40

Analisi del testo Reale e surreale Il passo, uno dei più suggestivi del libro, trae ispirazione da episodi reali della guerra, come quello accaduto il 10 agosto 1944: la fucilazione di partigiani e antifascisti, poi esposti in piazzale Loreto a Milano; i «morti abbandonati nelle piazze» della lirica di Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici (➜C2 T5a ). Vittorini immagina che una scena simile si svolga, sempre a Milano, in largo Augusto, e che, nascosti tra la folla, la osservino i personaggi del romanzo Berta, Enne 2, Gracco e i partigiani autori dell’attentato che scatenò la rappresaglia. Nella scena si compenetrano una cruda raffigurazione della realtà (nelle immagini quasi fotografiche e simili a inquadrature filmiche del dettaglio dei piedi, alcuni scalzi, altri nelle scarpe; del corpo straziato della bambina; del primo piano del suo volto, reso serio e quasi adulto dalla morte), con l’elemento surreale e fantastico, che da Conversazione in Sicilia caratterizza i libri di Vittorini, con l’intento di andare oltre la denuncia e trasfigurare liricamente i fatti.

La “conversazione” con i morti I morti sono visti dapprima con gli occhi della folla, che li scopre a poco a poco, disseminati lungo il tragitto; poi la focalizzazione si sposta su uno dei compagni di Enne 2, Gracco, presentato come curioso, incline a riflettere: i suoi Perché? (ma tutti coloro che assistono al truce spettacolo si pongono le stesse domande) scandiscono fittamente la pagina, accrescendone l’intensità drammatica. Tra Gracco e un altro partigiano, Figlio-di-Dio, lì incontrato per caso (ma, per prudenza, i due fingono di non conoscersi), si svolge un dialogo silenzioso fatto di sguardi. Ma una conversazione più profonda si sviluppa con i morti, immaginati come depositari di verità universali, solitamente nascoste agli uomini. La risposta, fornita in modo asseverativo dal narratore onnisciente, ha a che fare con il senso complessivo del libro: uccidere degli innocenti inermi (la bambina e il vecchio), esporne senza rispetto i corpi, nega i valori che ci rendono uomini; è l’agire disumano del lupo che, volendo annientare chi lo contrasta, ottiene l’effetto opposto, indurre a combatterlo a ogni costo. Quando si supera il limite della disumanità, il timore è vinto dall’imperativo morale di difendere le ragioni dell’umanità. Il romanzo assume qui uno stile alto, lirico, quasi poetico, scandito e cadenzato dalle anafore delle parole chiave (i morti, guardava, nessuno) e dall’iterazione ossessiva e martellante delle domande di significato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché i morti sono lasciati insepolti sulla piazza? Perché nessuno domanda spiegazioni sulle ragioni per cui sono stati uccisi? Chi è il lupo di cui si parla nel testo? ANALISI 2. Che cosa sottolinea il dettaglio dei teschi con le tibie incrociate sui berretti dei militi? STILE 3. Nel testo ricorrono figure retoriche proprie della poesia: individuale e spiega le ragioni del loro utilizzo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto questo testo di Vittorini con i versi di Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici (➜C2 T5a ) dal punto di vista stilistico e tematico. Come reagiscono i due scrittori di fronte allo strazio della guerra? Quali tragiche immagini dell’orrore della guerra evocano e perché? Esponi le tue riflessioni in un testo di max 15 righe.

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Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 1 Una figura complessa di intellettuale Tra le Langhe e Torino Cesare Pavese (1908-1950) nasce a Santo Stefano Belbo, piccolo paese delle Langhe, dove la sua famiglia trascorreva le vacanze estive. Dai ricorrenti periodi di villeggiatura in campagna il futuro scrittore ricaverà suggestioni, impressioni, immagini che gli si radicheranno dentro, alimentando il suo immaginario artistico, che rimarrà legato al mondo della campagna langarola in un modo indissolubile. L’altro polo in cui si svolge la sua breve esistenza è la vicina Torino, dove Pavese studia prima al liceo D’Azeglio e poi all’università, laureandosi in lettere; nel capoluogo piemontese svolge principalmente anche la sua attività lavorativa, collaborando in ruoli importanti con l’emergente casa editrice Einaudi (fondata nel 1933). L’interesse per la letteratura americana Come Elio Vittorini (anch’egli collaboratore alla Einaudi) Pavese è interessato in particolare alla letteratura americana e contribuisce a diffonderne in Italia la conoscenza: dopo la tesi di laurea sul poeta Walt Whitman (1819-1892), si dedica a un’intensa attività di traduttore (traduce romanzieri come Faulkner, Steinbeck, Dos Passos; ma soprattutto è notevole la traduzione di Moby Dick di Melville, nello stesso anno in cui si laurea, 1932). Nella cultura americana Pavese vedeva l’espressione di un’autenticità, e comunque un modello antitetico al provincialismo e alla retorica del regime fascista. Porta segni evidenti dell’amore per la letteratura americana il libro di poesie Lavorare stanca, del 1936; allo stile di James Cain (autore del romanzo Il postino suona sempre due volte) si ispira – per esplicita dichiarazione di Pavese – il suo primo romanzo, Paesi tuoi (pubblicato nel 1941), considerato alla sua uscita una ripresa della narrativa naturalista. L’antifascismo, il confino, il problema dell’impegno-disimpegno Già dagli anni liceali Pavese aveva fatto parte di un gruppo di giovani antifascisti, cresciuti alla scuola del professor Augusto Monti, alcuni dei quali sarebbero diventati figure di spicco della cultura di opposizione al regime (lo stesso editore Giulio Einaudi o Leone Ginzburg). La frequentazione di ambienti antifascisti e il possesso di lettere compromettenti sono la causa nel 1935 del suo arresto e della condanna al confino per un anno in un paesino calabrese. Successivamente, nella tragica parabola del fascismo e negli anni della Resistenza, Pavese vedrà incarcerati o uccisi non pochi amici. Dal canto suo lo scrittore non assunse una posizione attiva e preferì l’isolamento, pur tormentato dal rimorso per la propria inazione: una condizione riflessa nella vicenda di Corrado, il protagonista del racconto lungo La casa in collina, pubblicata insieme a Il carcere nel 1949 con il significativo titolo evangelico Prima che il gallo canti, allusivo al tema del tradimento e della fuga dall’impegno. Il dopoguerra: il tentativo di rompere l’isolamento Dopo la Liberazione, anche Pavese sembra partecipare al clima generale di fattivo impegno degli intellettuali per la ricostruzione del paese prostrato dalla dittatura e dalla guerra: si iscrive al Pci, collabora con vari articoli al giornale «l’Unità» (ma i rapporti con il partito diventano presto assai difficili). Del clima ideologico di quegli anni risente il romanzo Il compagno (1947), unico libro politicamente impegnato di Pavese.

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online

Video e Audio

PER APPROFONDIRE

Cesare Pavese e la sua solitudine Estratto da Cult Book (Rai Storia)

Un intellettuale controcorrente Più significative sono in realtà altre opere, che si ricollegano all’interesse di Pavese per il mito e l’etnologia, centrale nella sua poetica: la raccolta di racconti e saggi Feria d’agosto (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 366) e soprattutto i Dialoghi con Leucò (1947), riscrittura in chiave moderna dei miti classici (➜ T6 ). L’opera sconcerta pubblico e critica, anche perché contraddiceva vistosamente l’interpretazione corrente, che faceva di Pavese uno scrittore neorealista e risultava del tutto anomala nel panorama letterario di quegli anni. Ma “anomale” per la cultura italiana di quegli anni – e finalizzate a sprovincializzarla – sono anche le scelte compiute da Pavese come dirigente editoriale presso Einaudi: nel 1948 riesce a realizzare, insieme al filosofo e antropologo Ernesto de Martino, il progetto di una “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, che sarà nota come “Collana viola”, dal colore della copertina (➜ PER APPROFONDIRE, Cesare Pavese ed Ernesto de Martino). Vi sono pubblicate opere dello stesso de Martino (il suo Il mondo magico, nel 1948, fu il primo volume), dello psicologo e psicoanalista tedesco Carl Gustav Jung (1875-1961), dello storico delle religioni e dei miti, l’ungherese Károly Kerényi (1897-1973), dello studioso di religioni Mircea Eliade, di origini rumene, di Vladimir Propp, linguista e antropologo russo; nomi allora del tutto sconosciuti in Italia. Il successo, la sconfitta esistenziale, il suicidio Nel frattempo Pavese diventa famoso: le sue opere riscuotono un certo successo, nel 1950 pubblica il suo ultimo romanzo, La luna e i falò e vince il premio Strega per la trilogia La bella estate. I lusinghieri riconoscimenti non bastano tuttavia ad arginare il grave disagio esistenziale, il disadattamento, l’inettitudine a vivere che Pavese si porta dentro da sempre e che le numerose delusioni amorose (ultima quella legata all’attrice americana Constance Dowling) contribuirono ad acuire. Un disagio di cui resta una toccante testimonianza nelle pagine di uno straordinario diario (all’interno del quale molte sono riflessioni di poetica), steso dal 1936 alla morte, che l’autore intitola Il mestiere di vivere. Nella notte del 26 agosto 1950 Pavese si toglie la vita in un albergo torinese, lasciando le sue ultime parole («Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi») sul risvolto di copertina dei Dialoghi con Leucò, l’opera a lui più cara.

Cesare Pavese ed Ernesto de Martino Nel 1948, durante quello che può essere considerato il periodo più intenso e fecondo della carriera letteraria di Pavese, venne avviata dalla casa editrice Einaudi una nuova collana, nota come “Collana viola”, che apriva su un campo di studi ancora pressoché inesplorato nel panorama culturale italiano: si tratta della “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, progettata e curata da Cesare Pavese insieme al filosofo, etnologo e antropologo Ernesto de Martino (1908-1965). La collaborazione con de Martino fu molto importante per Pavese e gli offrì nuove e più vaste prospettive sulle tematiche del mito e della campagna che lo scrittore stava affrontando nella propria produzione narrativa. Si può affermare questo sebbene il lavoro dello studioso non fosse dedicato all’ambiente più tipico dei romanzi di Pavese – le Langhe – e nonostante fra i due non sempre ci sia stata una completa identità di visione sul modo di gestire la collana. A questo proposito, infatti, non vanno dimenticati gli anni in cui avveniva questa operazione culturale: quelli del secondo dopoguerra, con il ricordo del fascismo e del nazismo ancora dolorosamente vivo. Poteva apparire azzardato proporre la pubblicazione di testi dai quali poteva derivare una visione sostanzialmente irrazio-

nalistica, che vedeva nel mito il nucleo fondante della storia, e molti dei quali avevano contribuito a formare l’humus culturale del nazionalsocialismo. E proprio questa fu la principale ragione di disaccordo tra de Martino e Pavese: se il primo aveva una posizione più cauta e meditata, insistendo per corredare i libri maggiormente “problematici” con introduzioni apposite che ne spiegassero il contesto e mettessero in guardia dagli eventuali rischi di derive irrazionaliste, l’autore dei Dialoghi con Leucò, invece, rifiutava recisamente questo tipo di atteggiamento (arrivò a definirlo una politica “da pretini”) e si batté sempre per presentare i testi nel modo più snello possibile, lasciandoli alla libera interpretazione dei lettori. Ma, al di là dei dissidi e per quanto difficile, l’incontro fra i due intellettuali rimase un momento fondamentale nella vita culturale di Pavese, che ammirava la novità del metodo di indagine adottato dall’antropologo, fondato su un’amplissima interdisciplinarità che metteva in relazione psichiatria e psicologia, storia delle religioni e antropologia culturale, etnomusicologia, letteratura e cinematografia, in una visione quanto mai ricca e complessa che divenne imprescindibile per tutti i successivi studi del settore.

Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 2 339


2 La campagna di Pavese: un mondo mitico e ancestrale La centralità e la specificità del tema della campagna Non poche opere di Pavese sono ambientate nella campagna delle Langhe piemontesi, terra d’origine dello scrittore, il cui paesaggio segnò in maniera indelebile il suo immaginario: in particolare Paesi tuoi (1941), La casa in collina (1949) e La luna e i falò (1950 ➜ T8 , T9 ). Ma, al di là del recupero di un determinato contesto geografico e sociale come sfondo, è il rapporto viscerale che Pavese ebbe con la terra della sua infanzia ad alimentare nel profondo la sua ispirazione, legandosi strettamente alla poetica del mito che è centrale nell’opera dello scrittore: ritraendo la civiltà contadina, Pavese non intendeva infatti creare un quadro realistico e sociologico di una certa condizione (magari con intendimenti ideologico-politici), ma si riproponeva invece di portare alla luce temi e immagini di stampo mitico. Solo per un equivoco e un sostanziale fraintendimento Pavese poté dunque essere scambiato per uno scrittore realista, antesignano della corrente neorealista: un fraintendimento dovuto alla crudezza di certi temi e immagini della sua opera, al linguaggio asciutto e antiletterario, ispirato alla letteratura americana; ma anche al contesto storico in cui Pavese scrive e pubblica: gli anni della guerra, della Resistenza e dell’immediato dopoguerra, in cui “impegno” e “realismo” sono per gli scrittori imperativi categorici. Un realismo simbolico Se è vero che Pavese non si propone intenti documentari, d’altra parte la sua opera attinge sempre ad avvenimenti reali (e storici, come appunto la guerra o la Resistenza) e introduce riferimenti precisi anche terminologici alle attività della campagna; ma lo fa per portare alla luce significati esistenziali assoluti e atemporali. Pavese stesso definisce con chiarezza l’ambizioso obiettivo che si proponeva come scrittore in una nota del Mestiere di vivere (14 dicembre 1939): «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo. Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti». Un equilibrio che lo scrittore riteneva realizzato nei suoi romanzi degli anni fra il 1947 e il 1949: La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La luna e i falò. Il meccanismo della regressione, il tema del “ritorno” All’origine dell’universo poetico di Pavese sta il trauma del distacco dall’amata terra langarola, che nel suo caso coincide significativamente con la fine dell’infanzia: scrivere si configura allora per Pavese innanzitutto come un “ritorno”, nel tentativo di recuperare il patrimonio di immagini, sensazioni, percezioni, visioni infantili depositate nella memoria e legate al mondo delle Langhe. Da quanto appena detto si comprende perché quello del “personaggio che ritorna” è figura ricorrente nell’opera di Pavese e la sigilla circolarmente: nella Luna e i falò, ultima opera, il ritorno di Anguilla al paese dell’infanzia dopo lunghi anni d’assenza (➜ T9a ) riprende da vicino la situazione evocata nella prima poesia di Pavese, I mari del Sud, che apre la raccolta Lavorare stanca. L’impossibile recupero del passato In realtà è impossibile recuperare del tutto le proprie radici, il “paese lontano” di cui dentro ci resta la struggente nostalgia. Fortemente simbolica in questo senso è la pagina in cui Anguilla torna a rivedere la cascina della sua infanzia: tutto è uguale, anche gli odori, eppure al contempo tutto è diverso; la frattura con il passato è simboleggiata dalla scomparsa dei noccioli, che diventa segno tangibile di un cambiamento inesorabile. E i falò, che nei ricordi infantili del protagonista erano accesi nelle feste di campagna per propiziare il raccolto, sotto gli occhi di Anguilla adulto diventano orribili simboli di morte (come il rogo della cascina della Mora, appiccato per follia, o il falò che

340 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


alla fine del romanzo distrugge il corpo della bella Santa, giustiziata come spia dai partigiani ➜ T9b ). «Il passato non torna» sentenzia, in uno dei più suggestivi Dialoghi con Leucò, la ninfa Calipso a Odisseo, smanioso di tornare alla sua Itaca. La poetica del mito Quella di Pavese non è però semplicemente, come potrebbe sembrare, una poetica della memoria, perché lo scrittore innesta sui ricordi personali la propria complessa visione del mito, componente fondamentale della poetica (le riflessioni sul mito sono affidate, oltre che a varie notazioni del Mestiere di vivere, anche a due saggi: Del mito, del simbolo e d’altro e Il mito). La vera poesia (con questo termine facciamo riferimento anche alla narrativa) per Pavese nasce sempre dal mito – da un patrimonio simbolico misterioso e magmatico che vive sia nell’individuo sia nella collettività – al quale la poesia deve dare forma intellegibile e comunicabile, ricreando attraverso il ritmo la rete simbolica, il “disegno” che è sotto la superficie degli eventi, e che per lui rimanda sempre ai temi chiave dell’esistenza umana, agli archetipi in cui, secondo la psicologia di Jung, si manifesta l’inconscio collettivo: il sangue, il sesso, la morte, che l’incivilimento tende a occultare e censurare.

Lessico mitopoietico Relativo alla creazione di miti.

Infanzia e campagna Luoghi elettivi della visione mitica sono per Pavese l’infanzia, nella quale stanno le radici di ogni nostra percezione ed esperienza del mondo (quella che vediamo, egli scrive, «è sempre una seconda volta») e al contempo il mondo primitivo, ancestrale, anteriore alla storia e alla razionalità, della campagna, con i suoi riti millenari, contrapposti al mondo della città e alla storia. Nell’equiparazione tra infanzia mitopoietica e mondo primitivo ferino si avverte l’influenza del pensiero di Giambattista Vico (1668-1744), che Pavese lesse e meditò a più riprese; ma la visione della campagna come teatro di pulsioni selvagge, di primordiale violenza, particolarmente presente nell’opera di Pavese, è debitrice (oltre che di certo D’Annunzio) soprattutto dello studio di testi etno-antropologici, intrapreso da Pavese con particolare intensità tra il ’43 e il ’44: in particolare il celeberrimo Il ramo d’oro (1915) di James Frazer (un ampio saggio sulle culture e il pensiero primitivi in relazione al mito, alle pratiche magiche e alle manifestazioni religiose). Ad esempio, da Frazer derivano l’uso simbolico dell’immagine del covone, della luna in collina, la visione della terra “sessuata”, ricorrenti nella sua opera narrativa. È questo il retroterra di una scena centrale di Paesi tuoi, solo apparentemente naturalistica: la ferina sensualità di Talino esplode nell’uccisione della sorella, la cui morte per dissanguamento acquista quasi un significato sacrificale (in rapporto alla mietitura, momento fondamentale della vita della campagna, in cui avviene il tragico fatto di sangue) e rimanda a riti agresti antichissimi. Mito e destino Il tema del mito si associa in Pavese a quello, per lui particolarmente angoscioso, del destino (Pavese scrive, al proposito, anche un saggio: La poetica del destino): l’infanzia è non solo il tempo della conoscenza mitica, che l’uomo adulto rivive di fronte a certe scene, a certi luoghi “unici”, ma è anche quello in cui la vita umana si fissa per sempre in eventi, esperienze uniche, che si ripeteranno inesorabilmente nel corso dell’esistenza. Nelle sue molteplici letture, Pavese incontrò anche il pensiero di Freud e fece proprie le intuizioni freudiane sulla rilevanza fondamentale dell’infanzia, che interpretò in modo cupamente pessimistico, ricavandone l’idea di un destino ciecamente predeterminato, che non lascia spazio alla libertà dell’individuo: «ciò che si fa, si farà ancora e anzi si è già fatto in un passato lontano», scrive ancora nel Mestiere di vivere. Se nell’infanzia già è iscritto tutto il futuro, questa verità si fa ancora più evidente nel mondo contadino, dove ogni cosa sembra accadere quasi per generazione spontanea e ogni gesto è avvolto in un alone di inconsapevolezza. Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 2 341


3 La produzione poetica Una scelta opposta all’ermetismo Fin dagli anni Trenta, Cesare Pavese percorre la strada della poesia-racconto, in contrasto con l’allora dominante Ermetismo, che egli considera troppo intellettualistico e astratto. Nella prima raccolta Lavorare stanca, uscita nel 1936 nelle edizioni di “Solaria” (e nel 1943 in un’edizione riveduta), propone composizioni dal carattere narrativo, con vicende articolate nel tempo e con diversi personaggi: si tratta però di figure con scarsi tratti individuali, che sono soprattutto emblemi di una condizione umana, in alcuni casi simili ai personaggi dei suoi romanzi. Il principale è l’adolescente (Pavese descrive la raccolta come «l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza»); ricorrono l’uomo solo, il vecchio, colui che ha viaggiato e che ritorna, tutti accomunati dal desiderio di scoprire il mondo, e dalla delusione di non averlo trovato pari alle aspettative. Questi personaggi, emblematici e stilizzati, assumono le connotazioni di figure mitiche. Ne è un esempio la poesia Ulisse che, pur rappresentando con un certo realismo il rapporto padre-figlio in una realtà contadina, assimila il protagonista alla figura di Ulisse, per lo scrittore incarnata dall’adolescente alla scoperta del mondo (➜ T3a ). Proprio perché lontane dalla lirica tradizionale, le poesie-racconto di Pavese richiedono una metrica diversa da quella canonica; perciò lo scrittore crea un verso lungo, ispirato a quello del poeta americano Walt Whitman (1819-1892). L’ultima raccolta Più lirica che narrativa è invece l’ultima raccolta poetica di Pavese, uscita postuma nel 1951, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, in realtà costituita da due nuclei diversi: nove poesie del 1945 e dieci del 1950; di queste ultime, due in inglese dedicate all’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore infelice dello scrittore. Abbandonando la poesia-racconto proprio negli anni del neorealismo, lo scrittore piemontese, ancora una volta in controtendenza rispetto online al proprio tempo, compone una poesia incentrata sull’elogio T3 Le raccolte poetiche della donna: memore del biblico Cantico dei cantici, sottolinea T3a Cesare Pavese il rapporto (centrale anche nella sua narrativa) fra la donna e L’adolescente come nuovo Ulisse gli elementi della natura, ma esprime al contempo, come nella Lavorare stanca, Ulisse T3b Konstantinos Kavafis famosa Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la sofferenza interiore Ulisse adolescente e il desiderio di morte che lo tormentano. Poesie, Itaca

Le raccolte poetiche Lavorare stanca

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

METRICA

versi lunghi

versi brevi

CONCEZIONE DELLA POESIA

poesia-racconto

poesia come espressione lirica

TEMI

personaggi emblemi di una condizione umana: l’adolescente, il vecchio

elogio della donna e al contempo sofferenza interiore, desiderio di morte

342 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


T4

Poesie per Constance Dowling Si riportano due poesie dedicate alla donna amata da Pavese Costance Dowling.

T4a

Cesare Pavese

Hai un sangue, un respiro C. Pavese, Le poesie, Einaudi, Torino 1998

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Hai un sangue, un respiro. Sei fatta di carne di capelli di sguardi anche tu. Terra e piante, 5 cielo di marzo, luce, vibrano e ti somigliano – il tuo riso e il tuo passo come acque che sussultano – la tua ruga fra gli occhi 10 come nubi raccolte – il tuo tenero corpo una zolla nel sole. Hai un sangue, un respiro. Vivi su questa terra. 15 Ne conosci i sapori le stagioni i risvegli, hai giocato nel sole, hai parlato con noi. Acqua chiara, virgulto

[21 marzo 1950]

La metrica Due strofe di settenari.

T4b

primaverile, terra, germogliante silenzio, tu hai giocato bambina sotto un cielo diverso, ne hai negli occhi il silenzio, 25 una nube, che sgorga come polla dal fondo. Ora ridi e sussulti sopra questo silenzio. Dolce frutto che vivi 30 sotto il cielo chiaro, che respiri e vivi questa nostra stagione, nel tuo chiuso silenzio è la tua forza. Come 35 erba viva nell’aria rabbrividisci e ridi, ma tu, tu sei terra. Sei radice feroce. Sei la terra che aspetta. 20

Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi C. Pavese, Le poesie, Einaudi, Torino 1998

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso 5 o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi 10 nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 2 343


Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. 15 Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti. [22 marzo 1950]

La metrica Due strofe di novenari.

Analisi del testo Il mistero della donna Le due poesie, composte a distanza di un giorno, il 21 e il 22 marzo del 1950, sono entrambe dedicate a Constance Dowling, attrice amata da Pavese. Nella prima, con un motivo ripreso dal Cantico dei cantici, il fascino misterioso della figura femminile è paragonato a tutti gli aspetti più splendidi e gioiosi della natura. Ma nella lode si insinuano elementi di segno opposto: un senso di estraneità, dovuto non solo all’origine americana della donna (vv. 22-23: «tu hai giocato bambina / sotto un cielo diverso»), ma anche all’impossibilità di penetrarne l’anima, sottolineata dal ricorrere insistito della parola chiave silenzio («ne hai negli occhi il silenzio», v. 24). Poiché, inoltre, la natura è fondata sull’alternanza degli opposti, sull’avvicendarsi della vita e della morte, anche la donna, riportata a tale archetipo, riunisce in sé le opposte connotazioni: è infatti paragonata alle cose più vivide e luminose («cielo di marzo, luce, / vibrano e ti somigliano», vv. 5-6), ma è anche «la terra che aspetta» (v. 39), simbolo di morte. Può infatti dispensare la beatitudine, ma anche la disperazione, e il desiderio di annientamento. La simbologia di morte è ancora più accentuata in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, in cui il viso della donna amata si associa al pensiero della morte e del suicidio, ossessivo per il poeta come un «vizio assurdo».

Le immagini della solitudine L’impossibilità di stabilire un rapporto con la donna amata, che darebbe un senso alla vita, fa avvertire più profondamente la solitudine del poeta, di cui il volto della donna diviene emblema: ricorrono nella poesia ancora i richiami al silenzio e all’impossibilità di comunicare, che rendono più tragica la disperazione («un grido taciuto, un silenzio», v. 7). Il volto della donna è quello che lei stessa vede nello specchio quando è sola, un’immagine che la racchiude come in un cerchio. L’uomo e la donna sono chiusi ciascuno nella propria solitudine, per l’impossibilità di realizzare un rapporto d’amore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale differenza riscontri nei due testi in merito al tema trattato? ANALISI 2. Che cosa intende esprimere il poeta attribuendo l’aggettivo insonne (v. 3) alla morte? 3. Nel primo testo (➜ T4a ) si crea una rete di corrispondenze fra la donna e la natura. A quali elementi naturali è paragonata la donna? Quali qualità ha in comune con ciascuno di essi? 4. Nel secondo testo (➜ T4b ) ricorre due volte l’immagine dello specchio: quali significati assume? LESSICO 5. Silenzio è una parola ricorrente nei due testi. Quali significati assume? Perché è così spesso ripetuta?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. Un tema fondamentale dei due testi è il rapporto fra la vita e la morte. In un intervento orale di max 5 minuti spiega quanto questo tema sia centrale negli autori del Novecento che hai incontrato nel tuo percorso di studi.

344 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


4 La produzione narrativa La prima stagione narrativa Dopo la raccolta giovanile Ciau Masino (pubblicata postuma nel 1968), nel periodo tra il 1936 e il 1938 Cesare Pavese scrive una serie di racconti, pubblicati postumi prima con il titolo complessivo di uno di essi, Notte di festa (1953) e poi come Racconti (1960). Paesi tuoi Il primo romanzo di Pavese è Paesi tuoi (1939), ambientato nelle Langhe, che alla sua uscita (1941) fu un caso letterario: il pubblico rimase colpito dalla violenza di certe scene (l’uccisione di Gisella) e dal riferimento ad argomenti tabù come l’incesto; la critica vide nel romanzo, a livello tematico e anche stilistico, un esempio di narrativa neorealista. L’ambiente culturale di allora non seppe cogliere il significato eminentemente simbolico del romanzo. La trama La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, Berto, un meccanico torinese. Uscito di prigione, accetta la proposta dell’ex compagno di cella Talino di seguirlo in campagna, nella sua cascina, dove avrebbe potuto trovare un lavoro e una sistemazione. Per Berto ciò significa abbandonare il mondo della città per immergersi in una realtà primitiva e sconosciuta. Giunto alla cascina, a Berto viene affidata da Vinverra, il rozzo e autoritario padre di Talino, la manutenzione e l’uso della trebbiatrice. Oltre a Vinverra e a Talino, nella cascina vivono la madre e quattro sorelle. Per una di loro, Gisella, il protagonista comincia a provare una forte attrazione. Ma con il passare dei giorni Berto comincia a sospettare che Talino abbia avuto con Gisella un rapporto incestuoso. Durante i lavori della mietitura, esplode improvvisa e inaspettata la tragedia: quando Gisella porge a Berto il secchio d’acqua perché si disseti, Talino, colto da un attacco di bestiale gelosia, uccide la sorella piantandole un forcone nel collo. Talino è arrestato dai carabinieri mentre Berto ritornerà a Torino.

Paesi tuoi GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1940

AMBIENTAZIONE

tra le Langhe e Torino

CONTENUTO

rappresentazione della realtà primitiva della campagna, vista attraverso gli occhi di un cittadino

Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 2 345


T5

Cesare Pavese

Il difficile approccio di Berto al mondo della campagna Paesi tuoi

C. Pavese, Le poesie, Einaudi, Torino 1998

Tratto dalle prime pagine del romanzo, questo brano racconta l’ultima parte del viaggio di Berto e Talino da Torino a Monticello: una sorta di iniziazione al mondo della campagna in cui già affiorano alcuni degli elementi simbolici ricorrenti nel romanzo.

– E quando cominciano queste colline? – Subito. Ero stufo di vedere binari1, stufo. Talino aveva le scarpe rotte, ma lui magari andava scalzo. Guardavo le mie che tenevano ancora, e mi viene in mente che potevo pren5 derne un paio a Pieretto, tanto per un pezzo non ne avrebbe più avuto bisogno2. Chi sa Michela3, se l’aveva capita che non ero il suo stupido4? Magari credeva che fossi scappato per paura, e rideva. Poteva ridere sì, perché sarebbe stato meglio girare al fresco per Torino, adesso che veniva sera, e mangiare un boccone tranquillo, coi miei soldi in tasca. 10 – Noi andiamo sulla collina? – dico a Talino. – Se vogliamo. C’è la vigna. – Ma la cascina è in piano? – Sicuro. – E la barba te la fai a casa? 15 Talino rideva. – E il paese dov’è? A fondo valle? Finalmente arriva il treno, adagio, che sembrava Talino quando traversa una strada. Forza! Una volta montati e partiti, comincia a far fresco per il movimento, e corriamo a randa di5 un fianco boscoso. Talino non si sedeva e tira fuori il suo foglio. 20 Poi viene un milite e si conoscevano e si mettono a discorrere, e quello mi guarda. Io fumavo e prendevo dell’aria. Talino si sporge e mi chiama a vedere dalla sua parte. C’era una collinaccia che sembrava una mammella, tutta annebbiata dal sole, e le gaggie della ferrata6 la nascondono, poi la fanno vedere un momento, poi entriamo in una galleria e fa fresco 25 come in cantina ma si dimenticano di accendere la luce. Grido allo scuro: – Cosa c’è da vedere? – Non sono io, – mi risponde il milite. – Restate al vostro posto –. Mi era venuto lui sotto le mani. Quando tornammo al chiaro, mi volto a Talino e lo vedo di nuovo ficcato a spor30 gersi, che sventolava le mani come una donna e si voltava e rivoltava col fazzoletto per traverso. – Senti l’odore della stalla? – volevo chiedergli, ma lui si godeva fin il 1 Ero stufo di vedere binari: i due, partiti da Torino, si trovano a Bra, una stazione intermedia, dove stanno attendendo il treno che li porterà a Monticelli. 2 Pieretto... bisogno: un amico di città di Berto, finito a sua volta in galera (da qui l’allusione al fatto che per un po’ non avrebbe avuto bisogno delle scarpe).

3 Michela: l’amante di Pieretto, una ragazza facile con cui Berto si accompagna la sera che esce di prigione. 4 il suo stupido: il suo zimbello, cioè oggetto di derisione (espressione colloquiale, mutuata dal dialetto). 5 a randa di: rasente.

346 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese

6 le gaggie della ferrata: gli alberi di gaggìe che crescevano lungo la ferrovia (la strada ferrata). Sono probabilmente robinie o false gaggie (piante del genere acacia, con ramoscelli spinosi e fiori penduli con infiorescenze a racemi, molto diffuse nel Nord Italia).


fresco della corsa tant’era contento. – Adesso la collina gira e si vedono le piante giuste, – dice mostrandomi la cima col dito. – Noi stiamo su quella in faccia7. 35 A parte l’aria del finestrino, c’era di bello che, infilate le colline, viaggiavamo all’ombra. Le foglie sventolavano a due dita dal treno. Poi sento che rallenta rallenta e si ferma sotto un picco. – Cosa è successo? C’è qualcuno sulla linea? – Siamo arrivati, – mi grida Talino. Lo diceva lui, ma invece ci toccò metterci a piedi per una strada dove si pigliavano 40 storte tant’era la polvere, e Talino si ferma su un paracarro e si leva le scarpe e rimbocca i calzoni, dicendo: – La polvere te le mangia –. Le calze non le aveva. Lega le scarpe per le stringhe e se le butta a tracolla. – E dov’è Monticello? – gli chiedo. – Di qui non si vede –. Avevamo dietro la testa una collina, bassa come una casa. La nostra strada un po’ saliva e un po’ scendeva, e mi volto a guardare la collinetta e gli 45 dico: – Dov’è il mammellone? – Questa, – dice Talino. – Ma se prima sembrava una montagna! – Noi andiamo sulla collina in faccia. Di là vedrai che è una montagna. Mi guardavo bene intorno, per sapere all’occasione ritornare e saltare sul treno. Ma treno, ferrata e stazione, era tutto sparito. – Sono proprio in campagna, – mi dico, – qui più nessuno mi trova. 50 Cammina e cammina per quella bassa8, cominciamo a vedere dietro le piante una collina che cresce. – È ancora lunga? – Meno male che il sole calava e pigliava di fianco le gambe di Talino e i paracarri e la polvere, e le indorava, come i fari di un’auto di notte. Poi usciamo dalle piante e si vede un collinone tutto vigne e cascine e boscoso, e pelato sulla punta. 55 – Dov’è Monticello? – Da casa lo vediamo. È sul fianco della mammella, – e, dicendo, gli scappa da ridere. Mi volto e rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta. E Talino rideva dentro la barba, da goffo, come se fosse proprio davanti a una donna 60 che gli mostrasse la mammella. Scommetto che non ci aveva mai pensato. 7 Noi siamo... in faccia: noi (Talino e la sua famiglia) abitiamo su quella di fronte.

8 bassa: bassura, zona depressa, cioè più bassa delle terre adiacenti.

Analisi del testo Città e campagna: due universi antitetici A detta dello stesso Pavese, Paesi tuoi è un romanzo fondato sulla contrapposizione tra città e campagna: una contrapposizione di natura non sociale, bensì antropologica, chiaramente percepibile fin dalle prime pagine. Berto – cittadino di nascita, di professione meccanico – guarda il mondo nel quale sta entrando con una sorta di disprezzo misto a timore: «Guardali bene, Berto», si dice fra sé e sé, «è in mano a questa gente che ormai ti sei messo», poco prima del brano antologizzato, riferendosi alla gente di campagna. Al giovane di città la campagna appare subito come un mondo “diverso”, ruvido e scostante come il vestiario dei campagnoli che il narratore osserva al mercato nella piazza di Bra, mentre lui e Talino attendono che venga l’ora del loro treno per Monticello: «C’erano i banchi delle camicie, delle maglie e dei berretti, che facevano sudare solo a passargli davanti, perché in campagna è tutto spesso, dalla pelle dei piedi al fustagno dei calzoni». Il viaggio verso Monticello, di cui il brano appena letto rappresenta l’ultima parte, diventa così per Berto una sorta di salto nel vuoto, un’esperienza assoluta e totalizzante, che lo inquieta, come si capisce dalla raffica di ansiose domande che rivolge a Talino nell’ultimo tratto del viaggio, intuendo che la sua esistenza sta per subire una svolta radicale: «– Sono proprio in campagna, – mi dico, – qui più nessuno mi trova», è l’angustiato commento che a un certo punto si lascia sfuggire.

Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna 2 347


La rivincita del “goffo di campagna” Nelle pagine che precedono questo brano Berto aveva definito con sprezzo i contadini «goffi di campagna» e lo stesso appellativo, alla fine del testo, è riferito anche a Talino. La sufficienza con cui il cittadino considera il rozzo campagnolo però viene a cadere quando quello si ritrova, smarrito e privo degli abituali parametri di riferimento, in campagna. Al contrario, il rozzo Talino sembra acquistare una spavalderia sempre maggiore mano a mano che si immerge nel suo ambiente. Così lo descrive poco prima il narratore, mentre i due girano per la piazza del mercato di Bra, in un caldo che per il cittadino Berto è insopportabile: «E Talino andava deciso, scontrandosi nella gente, allargando le gambe perché ci passassero i cani, senza neanche asciugarsi il collo con quel fazzoletto rosso che gli faceva triangolo sulla spalla». Di fronte ai timori e al disorientamento sempre più marcato di Berto, a mano a mano che si avvicina la meta del viaggio, il contadino Talino assume il ruolo di guida e autorevole interprete. Ma, nonostante l’“immersione” di Berto in questo mondo, una sua vera comprensione dell’universo contadino non ci sarà mai, e Talino stesso rimarrà sempre per lui un mistero indecifrabile.

La collina-mammella Affiorano in questa pagina di Paesi tuoi alcuni degli elementi simbolici che torneranno più volte come motivi ricorrenti nel corso del romanzo. L’immagine più forte ed evocativa tra quelle che compaiono nel brano è quella della collina-mammella, che costituisce il primissimo contatto di Berto con il paese di Talino («C’era una collinaccia che sembrava una mammella») e che tornerà ripetutamente nel corso della narrazione, trasposizione visiva del concetto di «terra sessuata» che Pavese aveva mutuato dalle sue letture d’ambito etnografico: una metafora ossessiva che allude anche all’idea del sesso come forza oscura e ancestrale, capace, come avviene nel romanzo, di scatenare impulsi primordiali come l’incesto e generare una violenza incontrollabile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In quale contesto avviene il dialogo tra i due personaggi? 2. Quale significato rivestono le assillanti domande di Berto a Talino? ANALISI 3. Il paesaggio collinare, nello sguardo del narratore, subisce una trasformazione: di che tipo si tratta? A tuo parere, è solo un paragone originale o è qualcosa di più? Spiega in che senso (max 5 righe). STILE 4. Individua le principali scelte stilistico-linguistiche adottate da Pavese e trascrivile in uno schema.

Interpretare

SCRITTURA 5. La trama del romanzo ha un senso eminentemente simbolico; rintraccia nel testo letto gli elementi simbolici oltre quello della collina-mammella già indicato nell’analisi del testo (max 20 righe).

La bella estate Avviato nel 1940 e ripreso successivamente, il romanzo (o piuttosto racconto lungo) è pubblicato nel 1949 insieme ad altri due romanzi brevi: Il diavolo sulle colline e Tra donne sole con il titolo complessivo La bella estate. Nella presentazione Pavese parla dei tre romanzi definendoli «tre romanzi di scoperta della città [Torino] e della società, di giovanili passioni, di entusiasmi e di sconfitte». La bella estate si potrebbe definire un amaro “romanzo di formazione” di cui è protagonista un’adolescente, la sedicenne Ginia, che conosce il sesso, la solitudine e la caduta delle illusioni. La spiaggia Scritto tra la fine del 1940 e l’inizio del 1941, e pubblicato nello stesso anno, il romanzo – che si svolge fra Torino, Genova, le Langhe e una località marina – è la storia di una crisi coniugale (alla fine ricomposta) fra Doro, un amico di infanzia del narratore in prima persona, e Clelia. Presenta vari temi e scenari tipici della narrativa pavesiana, rimasti però qui irrisolti.

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Le due opere chiave sul mito Feria d’agosto Pubblicata nel 1946, Feria d’agosto è una raccolta di racconti, prose poetiche e brevi saggi (particolarmente importante è lo scritto Del mito, del simbolo e d’altro), organizzata in tre sezioni intitolate Il mare, La città e La vigna, che corrispondono ad altrettanti macrotemi simbolici. Alla sua pubblicazione suscitò molta perplessità perché contraddiceva vistosamente l’etichetta di un Pavese neorealista. Il titolo, di ascendenza dannunziana, fa riferimento a un particolare periodo della vita della campagna, quando non si lavora, il mese delle feste che precede il tempo della vendemmia. La sospensione delle attività crea le condizioni perché ci siano i momenti di contemplazione, l’immersione nella dimensione mitica che ci porta a contatto coi “luoghi unici” (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 366). Dialoghi con Leucò L’opera in cui Pavese mette in scena direttamente il mito, senza schermi narrativi, è Dialoghi con Leucò, composti tra il 1945 e il 1947. Oltre che alla mitologia greca, l’opera si richiama a una illustre tradizione letteraria, da Luciano di Samosata alle Operette morali di Leopardi, ma nei 27 brevi dialoghi tra dèi, eroi, ninfe, uomini, Pavese immette anche acquisizioni della psicoanalisi e dell’antropologia realizzando una singolare commistione fra antico e moderno, rispecchiata anche nello stile, molto spesso sostenuto e letterario ma anche, nel caso, colloquiale e vicino al parlato. Attraverso la messa in scena dei miti antichi, spogliati di ogni veste classico-erudita, Pavese ha voluto creare una sorta di enciclopedia simbolica dell’esperienza umana, ma soprattutto trasporre in una forma illustre i temi chiave del proprio immaginario (il sangue, il sesso, la morte, il destino, il ritorno).

Feria d’agosto GENERE

raccolta di racconti, prose poetiche e brevi saggi

DATA DI PUBBLICAZIONE

1946

STRUTTURA

tre sezioni

CONTENUTO

rappresentazione mitica della campagna nel momento della sospensione delle attività agricole

Dialoghi con Leucò GENERE

dialoghi che costituiscono un’opera composita, sul modello delle Operette morali di Leopardi

DATA DI PUBBLICAZIONE

1945-47

TEMI

interesse per la psicoanalisi, la psicologia e il mito

STILE

sostenuto e letterario, ma anche colloquiale

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T6

Cesare Pavese

L’isola, il tema pavesiano del ritorno Dialoghi con Leucò Nel testo, dialogano due personaggi dell’Odissea di Omero: Odisseo e la ninfa Calipso, che da anni trattiene l’eroe sull’isola di Ogigia promettendogli l’immortalità, sebbene quello si strugga dal desiderio di ritornare a Itaca. Ricorrono temi cari a Pavese come il destino, la morte, la ricerca di un meta-paese in cui placare le sue inquietudini.

C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947

Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno, restò nove anni sull’isola di Ogigia, dove non c’era che Calipso, antica dea. [parlano Calipso e Odisseo] Calipso. Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola. Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino1. Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi2? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre. Odisseo. Una vita immortale. Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. Ma se 10 Calipso. ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto? Odisseo. Io credevo immortale chi non teme la morte. Calipso. Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto. Perché i discorsi che da solo vai facendo tra gli scogli? 15 Odisseo. Se domani io partissi tu saresti infelice? Calipso. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte3, non uscirai da quel destino che conosci. Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa? 20 Odisseo. Calipso. Ma posare la testa e tacere4, Odisseo. Ti sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, chi è Calipso? 25 Odisseo. Ti ho chiesto se tu sei felice. Calipso. Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi d’uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse5? 30 5

1 un grosso destino: un destino fatale, pesante da sopportare. 2 Che t’importa... che cercavi: l’isola dove è trattenuto Ulisse (l’isola di Ogigia) non è Itaca, la patria che egli brama di raggiungere; ma Calipso suggerisce a Odisseo che ogni isola è l’isola, per ciò che simboleggia: l’approdo della vita umana, in cui finalmente tacciono le inquietudini e domina un eterno presente senza aspettative. Come Calipso asseri-

sce più sotto, immortale è «chi accetta l’istante, chi non conosce più un domani». 3 l’orizzonte: la parola qui ha valore metaforico e simbolico; l’orizzonte che Odisseo deve imparare ad accettare, secondo Calipso, è il limite che circoscrive le illusorie proiezioni di vita degli uomini. È significativo – e ribadisce il valore simbolico del riferimento – che Odisseo subito dopo precisi: «Si tratta sempre di accettare (nella vita) un orizzonte».

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4 Ma posare... e tacere: quella che Calipso propone all’eroe è una sorta di nonvita, l’assenza di gioie, dolori, rimpianti, passioni. La smania di partire di Odisseo è invece alimentata proprio dai ricordi del passato e dai sogni sull’avvenire. 5 Ma non senti... scomparse: nell’isola, ormai completamente deserta, regna un silenzio irreale, ma si avverte ancora che qualcosa vi è accaduto, che qualcuno ci viveva in tempi remoti.


Odisseo. Dunque anche tu parli agli scogli? Calipso. È un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino6. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi 35 mi stancai; passò del tempo, non mi volli più muovere. Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte [...]. Odisseo. Ma non eri immortale? 40 Calipso. E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo come me, su quest’isola? Odisseo. Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare. 45 Calipso. È un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso. Odisseo. Non ti basta che sono con te quest’oggi? Calipso. Non sei con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte dí quest’isola. E non sfuggi al rimpianto. Odisseo. Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. 50 Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch’eri sola e ch’eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l’hai voluto. Calipso. Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chi sa quando e tu sei giunto in questo 55 sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio. Odisseo. Sei tu, la signora, che parli? Calipso. Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato 60 un’altr’isola in te. Odisseo. Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere. Calipso. Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. 65 Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso7, potrai ancora riconoscere le case, le tue case? Odisseo. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me. Calipso. Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli o un po’ di 70 fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare. Odisseo. Saprò almeno che devo fermarmi.

6 Nel vecchio... era destino: Calipso ricorda quando era potente, al tempo dei “vecchi dèi”, i Titani, nella mitologia greca simbolo delle forze primordiali della natu-

ra, del caos, contrapposti agli dei dell’Olimpo che prevalsero sui Titani. Calipso scelse di fuggire i conflitti nel tempo immobile dell’isola.

7 i mostri e l’Eliso: nelle sue avventurose peregrinazioni per mare (Oceano), Odisseo ha incontrato il mostruoso Ciclope ed è disceso nel regno dei morti (Eliso).

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Calipso. Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo... Odisseo. Non sono immortale. Calipso. Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto? Odisseo. Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa. Calipso. Dimmi. Odisseo. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

Analisi del testo Codice mitologico e temi esistenziali Il dialogo mette in scena un colloquio tra l’eroe omerico Odisseo (Ulisse) e la maga Calipso sullo sfondo della sua isola, Ogigia. L’argomento del dialogo è la volontà dell’eroe di lasciare l’isola per tornare a Itaca; intenzione a cui Calipso cerca di opporre l’offerta dell’immortalità. È facile intuire però che, attraverso l’uso del codice mitologico e di riferimenti classici, Pavese vuole in realtà trattare tematiche attuali e in particolare quelle, ricorrenti nelle sue opere, che la mitologia eleva al di sopra della sfera individuale e autobiografica. Per Pavese, del resto, il mito è sempre qualcosa di attuale, non ha un senso codificato una volta per tutte, può sempre assumere significati simbolici nuovi (a differenza dell’allegoria che si fissa in un’unica allusione).

Due personaggi simbolici Attraverso i personaggi di Ulisse e Calipso, Pavese rappresenta simbolicamente due diversi atteggiamenti e scelte di vita dell’uomo: Odisseo-Ulisse, in parziale coerenza con il personaggio omerico, simboleggia l’inappagamento, l’ansiosa ricerca di sempre nuove mete («Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma più», gli dice Calipso), l’incapacità di riconoscere e accettare l’“orizzonte”, rinunciando una volta per tutte al condizionamento dei ricordi del passato e alle speranze di vita. Calipso, pur con qualche superstite contraddizione (e la principale è proprio la sua necessità che Ulisse rimanga con lei, come l’eroe le fa osservare), simboleggia l’atteggiamento opposto: quello di chi ha rinunciato alle speranze, ha imparato ad “accettare l’istante”, a “posare la testa e tacere”. L’immortalità che promette all’eroe coincide in fondo con il vivere in un tempo immobile, in una sorta di sonno perenne, che assomiglia alla morte.

Il tema del non-ritorno e dello snaturamento del passato Nella parte finale del dialogo emerge un tema centrale nella riflessione di Pavese e ricorrente nella sua opera: il tema del ritorno, che si configura però sempre come una delusione e assume dunque i tratti del non riconoscimento, e quindi del non-ritorno. Calipso chiede all’eroe, “che porta l’isola in sé”, se riuscirà davvero, quando vi sarà approdato, a riconoscere Itaca, o piuttosto la ritroverà inesorabilmente mutata, perduta e non riuscirà a condividere con altri, che ne hanno ormai un’altra, la propria immagine di Itaca, che ha le sue radici in un passato ormai lontano. Il tema del passato che non ritorna («Nulla regge all’andare del tempo» dice Calipso) è “narrativizzato” soprattutto nella Luna e i falò: si pensi in particolare alla scena in cui Anguilla non ritrova più nel paesaggio di casa i nocciòli, che per lui erano parte fondamentale dell’identità di quel luogo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Indica i temi principali del testo. ANALISI 2. Spiega e commenta il significativo paragone che Calipso usa a proposito delle case di Itaca quando Odisseo le rivedrà: «Le case saranno come il viso di un vecchio».

Interpretare

SCRITTURA 3. Un critico ha definito i Dialoghi con Leucò «dialoghi con sé stesso attorno a sé stesso». Sulla base del testo letto, come interpreti questo giudizio? Motiva la tua risposta in un testo di max 10 righe.

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Il tema politico e il rapporto tra l’intellettuale e la storia Il compagno Pubblicato nel 1947, è l’unico romanzo impegnato in senso politico, scritto non a caso nel periodo in cui Pavese scelse di iscriversi al Partito comunista. Ambientato a Torino e poi a Roma, negli anni della guerra di Spagna, narra – con un certo schematismo – della maturazione etica e della nascita di una coscienza politica in Pablo, giovane piccolo-borghese che, dopo varie vicende, decide di impegnarsi in prima persona nella lotta contro il fascismo. La casa in collina Considerato da alcuni il capolavoro della narrativa di Pavese, La casa in collina è pubblicato nel 1949, insieme al racconto giovanile Il carcere, nel volume con il titolo evangelico Prima che il gallo canti. Centrale nel romanzo, ambientato tra Torino e le colline circostanti negli anni della Resistenza, è l’incapacità di agire del protagonista, Corrado (in cui si proietta l’autore stesso): figura abulica, incapace delle scelte esistenziali ed etico-politiche che il momento richiederebbe (non ha il coraggio di aderire alla lotta partigiana). La “collina” evocata dal titolo è il simbolo della sua fuga dalla tragedia della storia e dalle responsabilità individuali. La trama L’azione si svolge durante gli ultimi due anni di guerra. Corrado, il narratore, è un professore di scienze di Torino: per sfuggire ai bombardamenti, che non danno tregua alla città, si rifugia in collina, dove viene ospitato da due donne, Elvira e sua madre. È una fuga che diventa il simbolo di un intero atteggiamento esistenziale: Corrado vive con distacco e apatia la tragedia della guerra, ma anche sul piano personale sembra che nulla riesca a coinvolgerlo veramente. In una casa-osteria dove si discute di politica e di antifascismo, Corrado rivede Cate, una giovane donna con cui anni prima aveva avuto una relazione. Cate ha un figlio, Dino, diminutivo di Corradino, di cui Corrado potrebbe essere il padre (ma Cate si rifiuta di confermarlo). Intanto, intorno a lui si va organizzando il movimento partigiano, di cui anche Cate entra a far parte; ma Corrado, ancora una volta, non sa decidersi ad abbandonare la sua solita vita. Caduto il regime, ecco gli orrori della guerra civile, i rastrellamenti tedeschi, la paura delle rappresaglie. Il gruppo di Cate e la stessa Cate sono scoperti e deportati; anche Corrado è ricercato ma, grazie a Elvira, riesce a nascondersi in un collegio di Chieri insieme a Corradino. Quest’ultimo però se ne andrà, presumibilmente per entrare nella lotta partigiana e Corrado decide di ritornare al paese d’origine, nelle Langhe. Ma la fuga nei luoghi dell’infanzia appare fallimentare, perché morte e desolazione sono arrivate anche lì. Di fronte alla guerra il protagonista capisce che è impossibile sottrarsi alla storia e che fino a quel momento ha vissuto «un solo lungo isolamento, una futile vacanza».

La casa in collina GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1949

AMBIENTAZIONE

tra Torino e le colline circostanti durante la Resistenza

TEMI

• incapacità di agire del protagonista • fuga dalla tragedia della storia e dalle responsabilità individuali

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Analisi passo dopo passo

T7

Cesare Pavese

La collina, “un modo di vivere” La casa in collina

C. Pavese, La casa in collina, Einaudi, Torino 1990

Queste prime pagine de La casa in collina già prospettano i temi fondamentali del romanzo: il particolare rapporto con la campagna, il valore simbolico della collina, ma soprattutto il tema della solitudine e dell’inazione del protagonista, nel quale si rispecchia l’autore stesso.

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia1. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava2, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere3. Per esempio, non 5 vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo4: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto 10 notturno degli allarmi5, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava6 a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita. Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condan15 nata7, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. 20 Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sì. Gli sfollati dei 25 prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch’io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e

1 Già... la boscaglia: la frase, aperta dal riferimento temporale indeterminato (in altri tempi), fin dall’inizio del romanzo, introduce la collina in un’atmosfera mitica. Da un punto di vista geografico, sono le colline attorno a Torino. 2 dalla città... oscurava: la città è ovviamente Torino, nella quale in tempo di guerra, come in ogni altra città, vigeva il coprifuoco e perciò si imponeva l’ordine militare a tutti i civili (a eccezione di chi avesse uno speciale permesso rilasciato

dalle autorità) di restare nelle proprie abitazioni durante le ore notturne, spegnendo anche ogni tipo di luce. 3 un modo di vivere: per il protagonistanarratore, alla collina si associa la scelta di una vita isolata. 4 quelle colline... adesso vivo: per il valore di simbolo fondamentale che la collina riveste nel suo immaginario, il narratore non vede differenze tra le colline di Torino, da dove inizia la narrazione, e quelle delle Langhe, dove si rifugia alla fine del

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L’apertura del romanzo mette subito in primo piano l’ambiente della collina, che dà il titolo all’opera. L’indeterminatezza temporale («si diceva... ci tornavo»), accentuata dal sintagma quasi da favola dell’incipit (in altri tempi) fa della collina un luogo mitico: non a caso, allo sguardo del protagonista le colline del torinese (quelle) e le colline delle Langhe, dove ha passato l’infanzia ed è tornato alla fine a vivere (queste), si identificano. Entrambe sono la collina, che il narratore definisce significativamente «un modo di vivere». Apparentemente il protagonista è accomunato alla varia umanità che sfolla in collina per sfuggire ai pericoli dei bombardamenti. In realtà, il narratore vive da tempo la dimensione della collina, ama ritrovarvisi ogni sera e la guerra da lassù sembra solo un accidente a cui la campagna e la collina sono estranee e indifferenti; così come il narratore non mostra tristezza di fronte ai drammatici eventi che accadono in città.

romanzo. Queste ultime sono rievocate nostalgicamente come luogo dell’infanzia. 5 degli allarmi: delle sirene che annunciavano incursioni aeree e invitavano la popolazione a scendere nei rifugi sotterranei. 6 sfollava: in quegli anni di guerra il verbo sfollare indicava l’allontanarsi dei civili (gli sfollati) dal luogo di residenza abituale, per sottrarsi al pericolo dei bombardamenti. 7 condannata: proprio perché sarebbe stata colpita dai bombardamenti.


mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce. Allora la notte si passava in città. Non si sapeva ch’era un tempo così breve8. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri più futili. Si viveva, o così si credeva, con gli altri e per gli altri. Devo dire – cominciando questa storia di una lunga illusione 35 – che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo9 quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella 40 casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi 45 in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute. Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi10 e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano 50 cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno11. Quella specie di sordo rancore12 in cui s’era conchiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte. Di nuovo stasera salivo la collina; imbruniva, e di là dal 55 muretto sporgevano le creste. Belbo, accucciato sul sentiero, mi aspettava al posto solito, e nel buio lo sentivo uggiolare. Tremava e raspava. Poi mi corse addosso saltando per toccarmi la faccia, e lo calmai, gli dissi parole13, fin che ricadde e corse avanti e si fermò a fiutare un tronco, felice. 60 Quando s’accorse che invece di entrare sul sentiero proseguivo verso il bosco, fece un salto di gioia e si cacciò tra le piante. È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre14, le vite nascoste, e moltiplica per noi il piacere 65 delle scoperte. Fin da ragazzo mi pareva che andando per i boschi senza un cane avei perduto troppa parte della vita e dell’occulto della terra15. [...] Belbo correva avanti e indietro sul sentiero e m’invi70 tava a cacciarmi nel bosco. Ma quella sera preferii soffer30

8 un tempo così breve: è il tempo che

11 un contegno: un atteggiamento suffi-

precede la guerra. 9 affittavo: prendevo in affitto. 10 accucciarsi: verbo usato solitamente per gli animali (“rintanarsi, rifugiarsi nella cuccia”); qui allude metaforicamente a un ripiegamento in sé.

cientemente dignitoso. 12 sordo rancore: presumibilmente, nei confronti del mondo o del destino. 13 gli dissi parole: lo sgridai, lo apostrofai con male parole (espressione dal dialetto piemontese).

Il passo evidenzia il modo del tutto personale in cui il protagonista vive l’esperienza della guerra, occasione che legittima il suo isolamento dal mondo, il rifiuto di ogni coinvolgimento, per il quale la guerra fornisce un comodo alibi. Indirettamente il narratore dà un giudizio severo sul proprio atteggiamento, tutto sommato egoistico e per certi aspetti meschino, in tempi così gravi: quali espressioni te lo fanno capire? Quella stessa guerra che gli ha offerto l’occasione per giustificare la sua fuga dalla realtà potrebbe scuoterlo dal suo torpore, inducendolo a schierarsi e a uscire dal limite ristretto del proprio io.

14 forre: strette gole fra pareti scoscese. 15 dell’occulto della terra: della vita misteriosa della natura, che sfugge agli esseri umani, ma che il cane sa percepire

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marmi su una svolta della salita sgombra di piante, di dove si dominava la gran valle e le coste. Così mi piaceva la grossa collina, serpeggiante di schiene e di coste, nel buio. In passato era uguale, ma tanti lumi la punteggiavano, una 75 vita tranquilla, uomini nelle case, riposo e allegrie. Anche adesso qualche volta si sentivano voci scoppiare, ridere in lontananza, ma il gran buio pesava, copriva ogni cosa, e la terra era tornata selvatica, sola, come l’avevo conosciuta da ragazzo. 80 Dietro ai coltivi16 e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l’antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure dell’infanzia.

In poche righe si alternano in modo ambiguo varie dimensioni temporali in rapporto alla percezione che l’io narrante ha della collina: il passato remoto della sua infanzia, quando la collina era disabitata; il passato recente, precedente alla guerra, quando la collina era punteggiata di luci e la vita era tranquilla e felice; il momento attuale, in cui essa appare nel buio: ma è un buio che “pesa” sull’anima.

16 coltivi: terreni coltivati.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A quale sfondo storico fa riferimento il testo? Indica i riferimenti che consentono di individuarlo. 2. L’ultima parte del testo è incentrata sul cane Belbo che accompagna il protagonista nelle sue escursioni nella campagna. Che cosa ricerca costui attraverso la compagnia del cane? ANALISI 3. Più che il narratore, protagonista è la collina: condividi questo giudizio? Quali caratteristiche della collina sono messe in evidenza nel brano? Quali significati simbolici le vengono associati? 4. Quale idea ti sei fatto del protagonista dal passo? Tracciane un sintetico ritratto sulla base degli indizi testuali.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. La collina è una delle immagini più ricorrenti nell’opera di Pavese (compresa la poesia), così da costituire un nucleo simbolico di particolare significato. Ma le valenze simboliche associate alla collina mutano nelle varie opere e addirittura all’interno di una stessa opera: cerca di evidenziarlo attraverso un confronto fra il testo tratto da Paesi tuoi (➜ T5 ) e il passo tratto da La casa in collina.

L’ultimo romanzo La luna e i falò L’ultimo romanzo, scritto di getto negli ultimi mesi del 1949 (ma in realtà frutto di una lunga gestazione), viene pubblicato nel 1950, pochi mesi prima della morte di Pavese, che lo considerava il culmine (e insieme la conclusione) della propria parabola narrativa. È forse il romanzo che meglio esemplifica il cosiddetto “realismo simbolico”, come appare già dal suggestivo titolo, allusivo al mondo mitico della campagna, che è quasi un personaggio accanto al protagonista, soprannominato Anguilla, e ai comprimari, Nuto (l’amico di un tempo) e Cinto (proiezione di Anguilla bambino). Se la luna rappresenta i ritmi perenni della campagna, i falò sono il simbolo del cambiamento traumatico che il romanzo mette in scena. Anguilla, tornato al suo paese delle Langhe per “conoscere sé stesso”, compie una personale recherche nei luoghi del suo passato, ma solo per scoprire che i falò della sua infanzia si sono trasformati in orribili simulacri di morte.

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La trama Il romanzo ha come protagonista e narratore Anguilla, un trovatello che, dopo aver fatto fortuna in America, ritorna al paese delle Langhe dove è cresciuto, alla ricerca delle proprie radici e della propria identità. Anguilla guarda ormai con scettico distacco i miti e i valori del mondo contadino, a differenza dell’amico Nuto (che nell’adolescenza di Anguilla era stato una sorta di figura paterna e un punto di riferimento granitico). Nuto non si è mai allontanato dal paese e rappresenta la continuità delle tradizioni arcaiche della campagna, le semplici certezze che Anguilla ha perduto. La narrazione procede seguendo il filo dei ricordi, delle riflessioni e dei pensieri del protagonista, giustapponendo particolari ed episodi in un ordine del tutto soggettivo. Prima viene rievocata l’infanzia del protagonista, cresciuto lavorando in campagna, alla cascina della Gaminella, che egli torna a rivedere e dove ora vive Valino, un contadino abbrutito dalla miseria e dalla fatica, con la sua famiglia. Anguilla si affeziona al figlio sciancato di Valino, Cinto, un ragazzo in cui rivede sé stesso. Nella narrazione irrompe quindi il ricordo dell’adolescenza, vissuta alla cascina della Mora, dove viveva il sor Matteo con le sue tre figlie: Irene, Silvia e la piccola Santa, la più bella di tutte. Anguilla viene a La luna e i falò sapere che Irene e Silvia sono morte (ed entrambe in circostanze drammatiche), e la sorte di Santina è avvolta nel mistero. Nell’ultima parte del romanGENERE romanzo zo il Valino, in un improvviso attacco di follia, uccide i familiari, dà fuoco alla casa e si suicida. 1949, poco prima della DATA DI Anguilla affiderà Cinto, unico sopravvissuto, a PUBBLICAZIONE morte di Pavese Nuto prima di andarsene nuovamente. Da Nuto verrà a sapere la verità sulla tragica fine di Santa: rappresentazione in uccisa come spia dai partigiani e il suo cadavere chiave simbolica del dato alle fiamme. E con l’immagine del falò che CONTENUTO mondo mitico della riduce in cenere il corpo di Santa, simbolicamencampagna te, si chiude il romanzo. V. van Gogh, Contadino che brucia le erbacce, olio su tela, 1833 (Drent Museum, Assen).

online T8 Cesare Pavese

Il passato non torna La luna e i falò, cap. I

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T9

Il tema dei falò Si riportano due brani sul tema dei falò: filo rosso di tutto il romanzo. Nel primo (➜ T9a ) si tratta della superstizione contadina sul potere dei falò per propiziare il raccolto; il secondo (➜ T9b ) parla del falò con connotazioni tragiche, metafora della follia.

T9a

Cesare Pavese

«Chi sa perché mai si fanno questi fuochi...» C. Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi, a c. di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000

La luna e i falò, cap. IX I due passi antologizzati sono tratti dal capitolo IX, in cui si intrecciano i principali temi del romanzo e trova spiegazione l’enigmatico e suggestivo titolo dell’opera. Nel primo passo Anguilla parla con Cinto, il figlio di Valino, che ora vive alla Gaminella; nel secondo con Nuto, l’amico di un tempo, reincontrato al suo ritorno al paese (lasciato vent’anni prima per cercar fortuna in America). Oggetto dei dialoghi è la credenza contadina sul potere dei falò che i contadini accendono per propiziare la fertilità dei campi: una credenza che Anguilla ormai rifiuta, così come l’idea, sostenuta da Nuto, che le fasi lunari influenzino la vita della campagna; la dittologia la luna e i falò ricorre più volte, a sottolinearne la fondamentale valenza simbolica.

– Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di San Giovanni1 tutta la collina era accesa. – Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola2 dice che una volta ci bruciavano delle fascine. 5 Il Piola era il suo Nuto3, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando. – Chi sa perché mai. – dissi, – si fanno questi fuochi. Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa piovere... Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno... Dappertutto 10 accendono il falò. – Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa. Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me. – Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dei coltivi4? – dissi. – L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le vie, nei gerbidi5... 15 – Non si può mica bruciare la vigna, – disse lui ridendo. – Sì, ma invece il letame lo metti nel buono6... [...] Nuto non disse niente7. M’ero già accorto che della Mora non non parlava volentieri.

1 La notte di San Giovanni: la notte del 24 giugno, festa di san Giovanni, particolarmente celebrata nel mondo contadino. 2 Il Piola: un ragazzo amico di Cinto. 3 Il Piola... Nuto: come Anguilla rivede in Cinto sé bambino, allo stesso modo il rapporto che Cinto ha con il Piola gli ricorda quello che egli aveva con Nuto, che ora ha rivisto adulto. E Anguilla stesso, in un gioco di proiezioni “a scatola cinese”, si accorge di assumere verso Cinto l’at-

teggiamento che, in passato, Nuto aveva avuto verso di lui, come precisa qualche riga dopo («Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me»). 4 coltivi: cfr. la nota 16 in T7 . 5 gerbidi: terreni inadatti alle coltivazioni, brulli e occupati da sterpaglie (voce usata in Piemonte). 6 nel buono: nel terreno da coltivare (termine dialettale).

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7 Nuto non disse niente: Anguilla ha appena affermato l’importanza che ha avuto per lui crescere accanto a delle donne giovani (e conturbanti, agli occhi di un povero ragazzetto) come le figlie del sor Matteo alla cascina La Mora, dove era andato a lavorare, ma dal suo silenzio si accorge che Nuto non ha voglia di parlarne. La ragione si comprenderà solo alla fine del romanzo (➜ T9b ).


Con tanto che mi aveva raccontato8 degli anni di musicante9, il discorso più vecchio, 20 di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. – Fanno bene sicuro, – saltò10. – Svegliano la terra11. – Ma, Nuto, – dissi, – non ci crede neanche Cinto. 25 Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace. – Questa è nuova, – dissi. – Allora credi anche nella luna? – La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza12. Prova a tagliare a luna piena 30 un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina13 la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano. Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le più grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che 35 Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo14.

8 Con tanto… raccontato: sebbene mi avesse raccontato. 9 anni di musicante: per molti anni Nuto aveva suonato il clarino nella banda e alle feste di paese. 10 saltò: sbottò. 11 Svegliano la terra: ne attivano le energie, la rendono fertile.

12 Allora credi... per forza: Anguilla provoca Nuto con una domanda sulla luna, che svela una visione scettica nei confronti delle credenze del mondo contadino; al contrario, Nuto sostiene con forza quelle che considera verità indiscutibili («La luna [...] bisogna crederci per forza»).

13 Una tina: un tino, recipiente con doghe di legno destinato alla fermentazione dell’uva. 14 Ma prima... campagnolo: per comprendere la luna e i falò Anguilla deve riscoprire le proprie radici contadine.

Analisi del testo Anguilla-Pavese e “la luna e i falò” Anguilla proviene dalla realtà contadina, ma se ne è ormai distaccato da molti anni. L’azione del romanzo lo coglie nel momento del suo cammino esistenziale in cui “ritorna” e cerca di riannodare le fila del suo passato, in modo che esse lo aiutino a capire chi è veramente. Da qui la sua duplice posizione riguardo all’universo (diciamo “antropologico”) del mondo contadino che il testo evidenzia: da un lato Anguilla si riconosce nella tradizione (parlando del falò: «Noi li facevamo sempre», «i vecchi dicevano che fa piovere»); dall’altro, nella condizione di chi ha conosciuto il mondo, ostenta uno scetticismo razionalistico verso certe credenze, sia con Cinto sia con Nuto, rappresentanti entrambi – seppur a un diverso livello di consapevolezza – della continuità delle antiche tradizioni e della loro validità. Solo riprendendo il contatto viscerale con la sua terra Anguilla potrà ridiventare, come Nuto e Cinto, parte di quel mondo e sarà nuovamente in grado di comprenderlo e accettarlo. Alla fine del capitolo il protagonista significativamente conclude: «Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo più di saperla». Nell’atteggiamento equivoco e complesso di Anguilla si rispecchia l’autore stesso, colto intellettuale che ha lasciato da tanti anni il mondo della sua infanzia, ma al contempo non ha cessato di rimpiangerlo e si ripropone con le sue opere di riportarlo alla luce per ritrovare le sue radici.

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Il personaggio di Nuto Nel passo emerge già il personaggio di Nuto, che assume nel romanzo un ruolo molto rilevante. Ispirato, per esplicita dichiarazione di Pavese, a una figura reale (quella di Pino Scaglione), Nuto rappresenta la saggezza contadina nelle sue immobili certezze (la luna e i falò), l’accettazione incondizionata della tradizione. Egli fa risaltare, per contrasto, le contraddizioni, l’insicurezza, la labile identità del protagonista (dietro cui non è difficile intravedere l’autore stesso, come per altri personaggi-chiave dell’opera pavesiana). In realtà Nuto, a differenza di Anguilla, chiuso nei suoi fantasmi interiori, crede nel cambiamento, che però non deve essere una fuga snaturante (e in fondo comoda) dalle proprie radici, come ha fatto l’amico emigrando in America: il cambiamento si fa sul posto, e riguarda la giustizia sociale, la risoluzione dei problemi di miseria e ignoranza dei contadini. Anche in ambito politico Nuto si contrappone a Anguilla: durante la Resistenza, Anguilla era lontano, mentre Nuto era presente e attivo nella lotta, e viveva di persona i drammi del tempo (simboleggiati dall’atroce morte di Santa, la cui rievocazione chiuderà l’opera ➜ T1a ).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il dialogo in non più di 5 righe. COMPRENSIONE 2. Chi tra i personaggi menzionati si fa portavoce delle tradizioni contadine? 3. A che cosa si può ricondurre l’usanza contadina di accendere i falò nella notte di San Giovanni? ANALISI 4. Da cosa sono accomunati Nuto e Cinto, nonostante le differenze di età e di condizione?

Interpretare

T9b

ESPOSIZIONE ORALE 5. Spiega in rapporto al contesto e commenta (max 3 minuti) il giudizio polemico di Nuto secondo cui «superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza».

Cesare Pavese

La fine di Santa: «come il letto d’un falò» C. Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi, a c. di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000

La luna e i falò, capp. XXXI-XXXII Prima della partenza dal paese natale, Anguilla trascorre un’ultima giornata con Nuto. È una conversazione importante, durante la quale l’amico d’infanzia rivela al narratore la verità sulla morte di Santina, la più giovane delle figlie di sor Matteo. Il romanzo si chiude con l’immagine, di forte portata simbolica, del segno lasciato sulla terra dal cadavere bruciato della ragazza, «come il letto d’un falò», quasi una degenerazione dei mitici falò festivi che avevano illuminato l’infanzia del protagonista.

– Tanto vale che te lo dica, – fece Nuto d’improvviso, senza levare gli occhi, – io so come l’hanno ammazzata. C’ero anch’io. Si mise per la strada quasi piana che girava intorno a una cresta. Non dissi niente e lo lasciai parlare. Guardavo la strada, giravo appena la testa quando un uccello o 5 un calabrone mi piombava addosso. C’era stato un tempo, raccontò Nuto, che, quando lui passava a Canelli per quella strada dietro il cinema, guardava in su1 se le tendine si muovevano. La gente ne dice tante. Alla Mora ci stava già Nicoletto2, e Santa, che non poteva soffrirlo, appena morta la madre era scappata a Canelli, s’era presa una stanza, e aveva fatto 10 la maestra. Ma col tipo che lei era, aveva subito trovato da impiegarsi alla Casa 1 guardava in su: verso la finestra di Santa.

2 Nicoletto: un cugino che amministrava la tenuta della Mora dove Santina era cresciuta.

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del fascio3, e dicevano di4 un ufficiale della milizia, dicevano di un podestà, del segretario, dicevano di tutti i più delinquenti là intorno5. Così bionda, così fina, era il suo posto salire in automobile e girare la provincia, andare a cena nelle ville, nelle case dei signori, alle terme d’Acqui6 – non fosse stato quella compagnia. Nuto 15 cercava di non vederla per le strade, ma passando sotto le sue finestre alzava gli occhi alle tendine. Poi con l’estate del ’437 la bella vita era finita anche per Santa. Nuto, ch’era sempre a Canelli a sentire notizie e a portarne, non aveva più alzato gli occhi alle tendine. Dicevano che Santa era scappata col suo capomanicolo a Alessandria. 20 Poi era venuto settembre8, tornati i tedeschi, tornata la guerra – i soldati arrivavano a casa per nascondersi, travestiti, affamati, scalzi, i fascisti sparavano fucilate tutta la notte, tutti dicevano: «Si sapeva che finiva così». Era cominciata la repubblica. Un bel giorno Nuto sentì dire che Santa era tornata a Canelli, che aveva ripreso l’impiego alla Casa del fascio, si ubriacava e andava a letto con le brigate nere9. [...] 25

[Il racconto di Nuto prosegue, con Santa che inaspettatamente entra a far parte della Resistenza, finché non viene scoperto il suo doppio gioco e il comando partigiano decide di giustiziarla.]

– Baracca10 mi tenne tre giorni quassù11, un po’ per sfogarsi a parlarmi di Santa, un 30 po’ per esser certo che non mi mettevo in mezzo. Un mattino Santa tornò, accompagnata. Non aveva più la giacca a vento e i pantaloni che aveva portato tutti quei mesi. Per uscire da Canelli s’era rimesso un vestito da donna, un vestito chiaro da estate, e quando i partigiani l’avevano chiamata su da Gaminella era cascata dalle nuvole... Portava delle notizie di circolari repubblichine12. Non servì a niente. Baracca 35 in presenza nostra le fece il conto di quanti avevano disertato per istigazione sua, quanti depositi avevamo perduto, quanti ragazzi aveva fatto morire. Santa stava a sentire, disarmata, seduta su una sedia. Mi fissava con gli occhi offesi, cercando di cogliere i miei... Allora Baracca le lesse la sentenza e disse a due di condurla fuori. Erano più stupiti i ragazzi di lei. L’avevano sempre veduta con la giacchetta e la cin40 tura, e non si capacitavano adesso di averla in mano vestita di bianco. La condussero fuori. Lei sulla porta si voltò, mi guardò e fece una smorfia come i bambini... Ma fuori cercò di scappare. Sentimmo un urlo, sentimmo correre, e una scarica di mitra che non finiva più. Uscimmo anche noi, era distesa in quell’erba davanti alle gaggie. Io più che Nuto vedevo Baracca, quest’altro morto impiccato13. Guardai il muro 45 rotto, nero, della cascina, guardai in giro, e gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c’è caso che un giorno la trovino? hanno trovato quei due14... Nuto s’era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. 3 Casa del fascio: la sede locale fascista. 4 dicevano di...: allusione alle voci che circolavano sugli amanti della ragazza (personaggi importanti del regime: con milizia si fa riferimento al corpo di polizia civile, le camicie nere; il podestà ricopriva la carica di sindaco nel Ventennio; il segretario era il federale che dirigeva una federazione del partito). 5 i più... là intorno: il giudizio è naturalmente frutto del punto di vista di Nuto. 6 terme d’Acqui: Acqui Terme, comune

nell’alto Monferrato (Alessandria). 7 con l’estate del ’43: con la caduta del fascismo, avvenuta alla fine di luglio del 1943. 8 settembre: Nuto si riferisce all’8 settembre, data dell’armistizio con gli alleati e inizio della guerra civile, con la nascita della Repubblica di Salò (la repubblica) e della Resistenza contro i nazifascisti. 9 le brigate nere: il corpo paramilitare fascista della RSI, attivo nell’Italia settentrionale fra l’estate del 1944 e la fine della guerra.

10 Baracca: è il nome di battaglia di un capo partigiano. 11 quassù: Baracca si trova in una casa isolata nella parte alta delle colline, dove ha convocato Nuto. 12 circolari repubblichine: documenti e dispacci della Repubblica di Salò. 13 quest’altro... impiccato: anche Baracca in seguito era stato catturato e ucciso. 14 hanno trovato quei due: Anguilla si riferisce al rinvenimento dei cadaveri di due repubblichini, avvenuto poco tempo prima.

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– No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece 50 tagliare tanto sarmento15 nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò. 15 sarmento: tralcio della vite.

Analisi del testo La metamorfosi di un simbolo I falò a cui fa riferimento il titolo costituiscono il filo rosso simbolico della narrazione e ne segnalano il significato profondo complessivo. Già nella prima parte del romanzo lo scetticismo del protagonista adulto ridimensiona il fascino mitico dei falò contadini che tante volte aveva visto da bambino, riducendoli a testimonianza di pure e semplici superstizioni, di cui non si sa più capire il significato e la funzione. Ma nella conclusione, l’immagine mitica del fuoco e del falò assume connotazioni addirittura tragiche: diventa metafora del non-senso, della follia nel rogo appiccato da Valino, che consuma le persone e i luoghi della Gaminella, e simbolo della violenza della Storia nel falò in cui si consuma il bel corpo di Santa.

La dolorosa maturità e la fine del passato mitico Le dolorose vicende evocate si iscrivono per Anguilla in una specie di doloroso congedo dal passato, dall’infanzia, dal paese: la Gaminella, il luogo delle prime memorie, è distrutta con i suoi abitanti (tranne Cinto che, a fianco di Nuto, conoscerà un percorso certo diverso da quello di Anguilla); anche il mondo della Mora dove Anguilla è stato adolescente è scomparso: le belle ragazze “sveglie”, Irene e Silvia dei ricordi del narratore, sono morte drammaticamente; ma è soprattutto la tragica fine di Santa, con il rogo che ne consuma il corpo, a siglare la fine della “festa” della giovinezza. «La maturità è tutto» reca La luna e i falò come epigrafe (da Re Lear shakespeariano), ma la maturità porta lutto e fine delle illusioni, come la tragica fine di Pavese, pochi mesi dopo aver pubblicato il romanzo, sembra dimostrare. Ad Anguilla, che ha compiuto il proprio doloroso cammino in un mondo che non sarà mai più quello che ha lasciato, non resta che andarsene, come ’Ntoni Malavoglia, come lui sradicato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo in non più di 10 righe. ANALISI 2. Indica i riferimenti presenti nella vicenda di Santa che rimandano a un preciso contesto storico-politico. 3. Santa è una figura di donna affascinante, spregiudicata e sconcertante: sfrutta la sua bellezza, la sua carica di seduzione e fa il “doppio gioco”, cercando di mettersi dalla parte di chi vince (o può vincere). Traccia un sintetico ritratto del personaggio sulla base di quanto hai letto.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Il romanzo di Pavese ripercorre il tema del “ritorno” alle proprie radici, a un mondo che non sarà mai più quello che si è lasciato. Il personaggio di Anguilla ricorda da vicino il giovane ’Ntoni Malavoglia, come lui sradicato e costretto ad andarsene dal paese natio, alla ricerca di sé stesso. Metti a confronto i due personaggi rilevando possibili analogie e differenze.

Fissare i concetti Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese 1. Perché Vittorini può essere definito un “militante della cultura”? 2. Quali sono i temi affrontati in Conversazione in Sicilia? 3. Quale immagine della Resistenza emerge in Uomini e no? 4. Quali sono i tratti distintivi della produzione poetica di Pavese? 5. Qual è il tema centrale de La casa in collina? 6. Qual è il romanzo di Pavese che meglio rappresenta le caratteristiche del realismo simbolico?

362 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) Larealismo Il letteratura “mitico” cortese nella di Vittorini Franciae feudale Pavese

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Elio Vittorini, un militante della cultura deluso dalle ideologie

La vita Elio Vittorini nasce a Siracusa nel 1908. Lasciata la Sicilia ancora giovanissimo, si trasferisce a Firenze e si avvicina al “fascismo di sinistra”, antiborghese. Appassionato di letteratura inglese e soprattutto americana, Vittorini ne traduce e diffonde le opere (ad esempio nell’antologia Americana del 1941), convinto che la cultura italiana debba aprirsi a influssi internazionali. Pubblica Piccola borghesia (1931) e Il garofano rosso (1933-34), il primo lavoro, un romanzo di formazione censurato e ripubblicato solo nel 1948 che illustra l’infatuazione della sua generazione per il fascismo, ma anche la nascita di una coscienza antidittatoriale e umanitaria in seguito ai fatti della guerra di Spagna; segue Erica e i suoi fratelli (1935-36), un romanzo sociale che illumina la condizione degli strati più popolari della società, seguito dal celebre Conversazione in Sicilia (1938-39). Durante la guerra partecipa attivamente alla Resistenza, a cui dedica Uomini e no (1945), uno dei romanzi più noti su quell’esperienza; tra il 1947 e il 1950 continua l’attività di scrittore (sebbene con minor ispirazione rispetto al periodo precedente) e negli anni successivi si allontana anche dalla militanza politica nel partito comunista, disilluso dal sostegno dei compagni italiani alla politica estera sovietica. Negli anni Cinquanta continua però a lavorare nel mondo della cultura, dirigendo collane presso Einaudi e Mondadori e collaborando con intellettuali del calibro di Italo Calvino. Muore a Milano nel 1966. Pellegrinaggio nel «mondo offeso»: Conversazione in Sicilia Considerato il capolavoro di Vittorini, Conversazione in Sicilia (1938-39) è un’opera incentrata sul motivo del viaggio rielaborato in senso etico-conoscitivo: mediante diversi incontri, il protagonista – di ritorno al paese natale sull’isola – scopre il «mondo offeso» e la necessità di compartecipare alla sofferenza dell’uomo, superando inerzia e impotenza. Gli interlocutori, che compaiono nei dialoghi di cui si costituisce il libro, sono personaggi-emblema, simboli delle fasi della progressiva educazione (o rieducazione) ideologica di Silvestro, personaggio principale, immerso in un contesto delineato in senso mitico tramite una sintassi essenziale e paratattica scandita da continue ripetizioni di parole e sintagmi. Uomini e no Il romanzo Uomini e no racconta la lotta partigiana a Milano seguendo le vicende di un membro dei GAP e mostrando le conseguenze di attentati compiuti contro tedeschi e fascisti. Pubblicato già nel giugno 1945, vuole testimoniare gli orrori di quel periodo storico, ma al contempo stimolare anche una riflessione esistenziale sul rapporto tra il male e la condizione umana: in particolare sul prezzo che si è disposti a pagare per liberarsi dall’oppressione e su quali criteri rendano “umana” una guerra, oltre che sul ruolo degli intellettuali in tali situazioni. Nonostante la significatività e l’importanza dell’opera, in parte il pensiero dell’autore pecca di semplicismo e di eccessiva idealizzazione della figura del partigiano, probabilmente e comprensibilmente come risultato del clima ideologico del periodo storico e culturale nel quale il libro è stato scritto.

Sintesi

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2 Cesare Pavese: un universo simbolico legato alla campagna

Una figura complessa di intellettuale Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo (in provincia di Cuneo), un piccolo paese delle Langhe che influenzerà per tutta la vita il suo immaginario artistico. Studia e vive anche a Torino, dove svolge anche la propria attività lavorativa collaborando con la casa editrice Einaudi (fondata nel 1933). Anche Pavese è interessato alla letteratura americana e contribuisce a diffonderne in Italia la conoscenza con la sua attività di traduttore, vedendovi un modello di autenticità antitetico al provincialismo e alla retorica del regime fascista. Porta segni evidenti dell’amore per la letteratura americana il libro di poesie Lavorare stanca (1936) e il suo primo romanzo, Paesi tuoi (1941), considerato alla sua uscita una ripresa della narrativa naturalista. Per le sue idee antifasciste, Pavese viene arrestato nel 1935 e condannato al confino per un anno in un paesino calabrese. Negli anni della Resistenza, però, lo scrittore non sa assumere una posizione attiva, ma preferisce l’isolamento, pur tormentato dal rimorso per la propria passività: una vicenda trasposta in La casa in collina, pubblicata insieme a Il carcere nel 1949. Nel dopoguerra si avvicina ad ambienti di sinistra: del clima ideologico di quegli anni risente il romanzo Il compagno (1947), unico libro politicamente impegnato di Pavese. In altre opere, invece, si legge l’interesse per il mito e l’etnologia, centrale nella sua poetica: la raccolta Feria d’agosto e soprattutto i Dialoghi con Leucò (1947), anomala riscrittura in chiave moderna dei miti classici. Nel frattempo Pavese diventa famoso: le sue opere hanno successo, nel 1950 pubblica il suo ultimo romanzo, La luna e i falò e vince il premio Strega per la trilogia La bella estate. I lusinghieri riconoscimenti non bastano tuttavia ad arginare il grave disagio esistenziale, ulteriormente peggiorato da numerose delusioni amorose e raccontato in un diario steso dal 1936 alla morte, intitolato Il mestiere di vivere. Nella notte del 26 agosto 1950 Pavese si toglie la vita in un albergo torinese. La campagna di Pavese: un mondo mitico e ancestrale Molte opere di Pavese sono ambientate nella campagna delle Langhe; questa zona del Piemonte è la terra d’origine dello scrittore e il suo paesaggio ne segna in maniera indelebile l’immaginario, restando sempre associato all’idea di infanzia, da recuperare attraverso la scrittura: quindi l’autore non intende creare un quadro realistico e sociologico di una certa condizione, ma si ripropone invece di portare alla luce temi e immagini di stampo mitico, significati esistenziali assoluti e atemporali. Tipica nel lavoro dello scrittore, non a caso, è allora la figura del “personaggio che ritorna”; ma altrettanto presente è l’impossibilità di recuperare del tutto le proprie radici, il “paese lontano” di cui dentro ci resta la struggente nostalgia. Dunque, Pavese non è uno scrittore realista, antesignano della corrente neorealista, sebbene la crudezza di certi temi e immagini della sua opera e il linguaggio asciutto e antiletterario possano farlo pensare. Allo stesso tempo la sua non è una poetica della memoria, perché lo scrittore innesta sui ricordi personali la propria complessa visione del mito, patrimonio simbolico misterioso singolare e collettivo che, unico tra tutte le cose, può originare la vera poesia. Attraverso il mito, Pavese rilegge appunto l’infanzia e al contempo la campagna: mondo primitivo, ancestrale, anteriore alla storia e alla razionalità, teatro di pulsioni selvagge. Il tema del mito si associa a quello del destino: l’infanzia è non solo il tempo della conoscenza mitica, ma è anche quello in cui la vita umana si fissa per sempre in eventi, esperienze che si ripeteranno in modo predeterminato, esattamente come avviene nella vita in campagna, guidata da logiche e abitudini inesorabili. La produzione poetica Fin dagli anni Trenta, Pavese rifiuta l’Ermetismo. Nella prima raccolta, Lavorare stanca (1936), sceglie la via della poesia-racconto in versi lunghi, popolata da personaggi emblematici e stilizzati, quasi come figure mitiche.

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Più lirica è invece l’ultima raccolta poetica di Pavese, uscita postuma nel 1951, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: in controtendenza rispetto al proprio tempo, egli compone una poesia incentrata sull’elogio della donna, non tralasciando di indicarne il legame con i temi della natura e della morte. La produzione narrativa Alla prima parte della produzione narrativa di Pavese si iscrivono: la raccolta giovanile Ciau Masino (pubblicata postuma nel 1968); i racconti, pubblicati postumi prima con il titolo complessivo di uno di essi, Notte di festa (1953) e poi come Racconti (1960); il suo primo romanzo, Paesi tuoi (1939), che colpisce per la violenza di certe scene e che venne attribuito alla corrente neorealista. Sono da comprendere anche due altri lavori, La spiaggia (1941) e La bella estate (1949). A una fase posteriore appartengono Feria d’agosto (1946), una raccolta di racconti, prose poetiche e brevi saggi, e Dialoghi con Leucò (1947), 27 brevi dialoghi tra dèi, eroi, ninfe, uomini, nei quali Pavese introduce nozioni di psicoanalisi e di antropologia, dando forma nobile ai temi del proprio immaginario. Trattano il tema politico e quello del rapporto tra intellettuale e storia opere quali Il compagno (1947), l’unico romanzo impegnato in senso politico di Pavese, e La casa in collina (1949), centrato sull’incapacità di agire del protagonista, in fuga dalla storia e dalle responsabilità individuali. L’ultimo romanzo, pubblicato poco prima di morire nel 1950, è La luna e i falò, l’opera che meglio esemplifica il cosiddetto “realismo simbolico”: il protagonista, tornato nelle Langhe, compie un viaggio nei luoghi del suo passato, ma solo per scoprire che i falò di campagna della sua infanzia si sono trasformati in orribili simulacri di morte.

Zona Competenze Esposizione orale

1. In un intervento orale di max tre minuti, prova a spiegare per quale motivo alla produzione letteraria di Vittorini può essere applicata l’etichetta di “realismo mitico”.

Scrittura

2. In un testo di max 10 righe, prova a individuare le caratteristiche della rappresentazione della Resistenza in Uomini e no di Vittorini. 3. In un testo di max 15 righe spiega come viene rappresentato il mondo della campagna nelle opere di Pavese.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 365


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Cesare Pavese

La vigna, un luogo mitico Feria d’agosto C. Pavese, Tutti i racconti, a c. di M. Masoero, Einaudi, Torino 2002

Tratta dall’ultima sezione della raccolta Feria d’agosto, La vigna (di cui riproduciamo la prima parte) illustra con evidenza che nell’opera di Pavese la campagna non è tanto un ambiente realistico, con le sue specifiche connotazioni naturali e socioantropologiche, bensì un’inesauribile riserva di miti e immagini simboliche, come appunto la vigna qui descritta, sospesa in una dimensione atemporale e assoluta, e colta attraverso la percezione mitopoietica della realtà tipica dell’infanzia.

Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica1. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. È un cielo sempre tenero e maturo, dove non mancano 5 – tesoro e vigna anch’esse2 – le nubi sode3 di settembre. Tutto ciò è familiare e remoto – infantile, a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo. La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa d’inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro. Basta pensare alle ore 10 della notte, o del crepuscolo, in cui la vigna non cade sotto gli occhi4 e si sa che si distende sotto il cielo, sempre uguale e raccolta. Si direbbe che nessuno vi ha mai camminato, eppure c’è chi la lavora a tralcio e alla vendemmia è tutta gaia di voci e di passi. Ma poi se ne vanno, ed è come una stanza in cui da tempo non entra nessuno e la finestra è appesa al cielo. Il giorno e la notte vi regnano; 15 a volte vi fa fresco e coperto – è la pioggia – , nulla muta nella stanza, e il tempo non passa. Neanche sulla vigna il tempo passa; la sua stagione è settembre e torna sempre, e appare eterna5. Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo6. 1 le cortine… porta magica: i filari (delle vigne) che si susseguono, stendendosi come cortine (tendaggi) per un lungo tratto, ricordano una soglia oltre cui si trova una dimensione misteriosa (porta magica, in contrapposizione a vista familiare, come in seguito familiare e remoto).

Comprensione e analisi

Interpretazione

2 tesoro e vigna anch’esse: anch’esse (le nubi) con una valenza magica che va oltre la loro consistenza materiale e il loro aspetto (espressione analogica). 3 sode: compatte. 4 non cade sotto gli occhi: non è vista da nessuno, perché nessuno vi lavora.

5 la sua stagione... appare eterna: nella vigna regna l’eterna ciclicità delle stagioni, segnalata dal ritorno ogni anno del rito della vendemmia, che si svolge a settembre. 6 Solamente un ragazzo... il ragazzo: solo l’infanzia possiede lo sguardo mitico, e per l’uomo adulto rivivere questo sguardo equivale a ritrovare la propria infanzia.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Spiega il significato dell’immagine metaforica di «porta magica». 2. Nel testo sono presenti varie immagini metaforiche riconducibili al campo della rappresentazione teatrale: rintracciale e cerca di spiegarne il significato in rapporto al contesto e al tema più generale del racconto. 3. Come ti sembra descritta la vigna? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo. 4. Il testo è un bell’esempio di prosa poetica: sai individuare qualche elemento che confermi tale giudizio? Prova a descrivere, ispirandoti alla prosa poetica di Pavese, un luogo simbolo dell’infanzia.

366 Il Novecento (Prima parte) 6 Il realismo “mitico” di Vittorini e Pavese


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

7 Temi e forme del fantastico novecentesco

La letteratura fantastica ha sempre attratto e affascinato i lettori. Anche nel Novecento esiste una ricca produzione narrativa che si iscrive nel macrogenere del fantastico, sia in Italia sia in vari paesi stranieri. Di certo il fantastico novecentesco ha però caratteri diversi rispetto all’Ottocento: agli scenari soprannaturali si sostituisce la dimensione del quotidiano, alla paura una più sottile inquietudine, mentre emergono tematiche esistenziali e/o filosofiche, e le vicende spesso hanno carattere simbolico. È il caso del più celebre scrittore italiano ascrivibile al “fantastico”: Dino Buzzati, autore di innumerevoli racconti e del fortunato romanzo Il deserto dei Tartari. Particolare spessore filosofico hanno i sofisticati racconti dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, mentre in altri autori il “codice” fantastico viene impiegato per obiettivi di denuncia etico-politica, come nel Maestro e Margherita del russo Bulgakov, o nel romanzo 1984 di Orwell, oggi più che mai attuale, in cui si immagina un regime totalitario ipertecnologico che controlla le masse, annullando la libertà di pensiero.

maestri del fantastico 1 Inovecentesco in Italia e “usi” del 2 Testimonianze fantastico fuori d’Italia 367


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I maestri del fantastico novecentesco in Italia 1 Le nuove forme di rappresentazione del fantastico La letteratura fantastica aveva conosciuto particolare fortuna tra Settecento e Ottocento (basti pensare a grandi scrittori come Hoffmann e Poe), ma non scompare certo nel Novecento. È frequente la consapevole ripresa da parte degli scrittori novecenteschi di aspetti del fantastico ottocentesco che costituivano ormai un “codice”: una rivisitazione che risulta in linea con la tendenza tipica del Novecento a una letteratura “di secondo grado”, alla citazione dei modelli, al riuso dei materiali narrativi. Naturalmente però le forme che la dimensione del fantastico assume nel Novecento sono molto diverse rispetto alle origini del genere. L’angoscia del quotidiano Già nel secondo Ottocento emerge una dimensione del fantastico meno visionaria e “spettacolare” rispetto alla produzione sette-ottocentesca, caratterizzata dalla ricorrente presenza di apparizioni soprannaturali, dall’incursione di fantasmi, di vampiri sullo sfondo di una natura paurosa, di castelli fatiscenti. All’angoscia dell’aldilà, tipica del fantastico ottocentesco, si sostituisce l’angoscia dell’aldiqua: è la stessa normalità ad assumere nel Novecento connotati da incubo. L’assurdo, l’indecifrabile si insinua nella vita di tutti i giorni e risulta ancora più angoscioso dell’infrazione paurosa dei confini tra mondo terreno e ultraterreno propria della letteratura fantastica ottocentesca: si pensi a un racconto esemplare in questo senso come La metamorfosi di Kafka (1912 ➜ VOL 3A C15). La rinuncia alla paura e l’emergere della dimensione simbolica Il fantastico novecentesco evita di suscitare emozioni forti e in genere rinuncia all’ingrediente della paura, connaturato al fantastico ottocentesco, e tende invece a coinvolgere l’intelletto, la riflessione del lettore, come avviene in Calvino (➜ C20): e in Borges (➜ T6 OL). Nel Novecento, inoltre, il fantastico assume tratti marcatamente simbolici: è ancora il caso di Borges o talvolta di Savinio (➜ T4 ); addirittura una “parabola allegorica” si può definire il soggetto del celebre romanzo di Buzzati Il deserto dei Tartari (➜ T1 ), ma la definizione vale anche per altri suoi racconti (ad esempio il celeberrimo Sette piani).

Rappresentazioni del fantastico a confronto fra Sette-Ottocento

nel Novecento

scenari soprannaturali

situazioni quotidiane, normali

paura per l’ignoto

angoscia e assurdo del quotidiano

368 Il Novecento (Prima parte) 7 Temi e forme del fantastico novecentesco


Una letteratura non più solo europea Mentre il fantastico sette-ottocentesco risulta radicato nel cuore della vecchia Europa (dalla Germania alla Francia all’Inghilterra), nel fantastico novecentesco emergono aree lontane dall’Europa: in particolare l’area sudamericana, nella quale la dimensione mitica e fantastica risulta quasi una cifra distintiva della produzione narrativa. Nomi autorevoli in questa area geografica, tra molti altri, sono Borges, Cortázar e García Márquez (➜ T9 ).

2 L’affermazione del fantastico nella cultura italiana Nei primi decenni del Novecento si affaccia con una certa autorevolezza alla dimensione del “fantastico” anche l’Italia, rimasta ai margini di questa tendenza letteraria in epoca romantica per la sostanziale preclusione del nostro romanticismo all’universo del fantastico, anche in seguito al “veto” del nostro maggiore prosatore romantico, Manzoni, e in seguito per la prevalenza del verismo (anche se nel secondo Ottocento non mancano interessanti incursioni nella dimensione fantastica con la scapigliatura ➜ VOL 3A C2). L’emergere in Italia di una letteratura qualificata di segno “fantastico” si colloca tra gli anni Venti e Trenta, in concomitanza con l’affermazione, in ambito artistico, della corrente “metafisica”, rappresentata essenzialmente da Carlo Carrà e da Giorgio de Chirico e al cosiddetto “realismo magico” di pittori come Felice Casorati. Certamente all’affermazione del fantastico in ambito narrativo contribuì anche la conoscenza della psicoanalisi, con la conseguente esplorazione della dimensione dell’inconscio. Testimoni di alto livello della produzione di carattere fantastico sono autori come Bontempelli, Buzzati, Savinio, Landolfi, ma al fantastico si può in parte ascrivere anche l’ultima produzione narrativa di Pirandello che si colloca appunto tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta: ad esempio la novella Una giornata (➜ VOL 3A C17), o i racconti in cui emerge una dimensione onirica (come Effetti d’un sogno interrotto) o surreale (come Soffio). Il “realismo magico” di Bontempelli Già negli anni Venti esercita un ruolo fondamentale nell’orientare alcuni scrittori al surreale e al fantastico Massimo Bontempelli (Como 1878 - Roma 1960). La produzione maggiore di Bontempelli si ascrive al cosiddetto “realismo magico” (termine derivato dalla pittura) per la tendenza dello scrittore a osservare la realtà e a riconoscervi la presenza dell’elemento magico, straordinario. Bontempelli rifiuta la separazione tra fantasia e realtà: occorre per lui rappresentare nei dettagli la realtà concreta, facendo aleggiare su di essa un’atmosfera di magia, d’inquietudine, di mistero. Per esemplificare che cosa intendeva con la formula “realismo magico”, Bontempelli citava l’esempio della pittura quattrocentesca (da Masaccio a Mantegna a Piero della Francesca) nella quale vedeva la coesistenza di un preciso realismo e di un’atmosfera di magico stupore, quasi una sorta di “surreale nel reale”. Nel 1926 Bontempelli fonda a Roma la rivista «900», che promuove e diffonde i principi estetici del “realismo magico” e sostiene la necessità di un’arte moderna, popolare, lontana da ogni impegno socio-politico o anche genericamente educativo e aperta a ospitare l’assurdo, l’imprevedibile. Del Bontempelli “fantastico” ricordiamo in particolare i racconti lunghi La scacchiera davanti allo specchio (1922), ispirata al tema, ricorrente nella letteratura fantastica, dello specchio, ed Eva ultima (1923); ma la sua produzione è ben più ampia e si estende anche al teatro (Nostra Dea, 1925 e Minnie, la candida, 1927).

I maestri del fantastico novecentesco in Italia

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Il fantastico iper-razionale di Calvino Anche certa produzione calviniana, seppur con opportune distinzioni, si può ricondurre al filone del fantastico: non è un caso che Italo Calvino (1923-1985) (➜ C20), diventato famoso come autore resistenziale con Il sentiero dei nidi di ragno, curasse nel 1956 una raccolta delle Fiabe italiane. Del resto, fin dal primo romanzo egli aveva rivelato una propensione alla trasfigurazione fantastica del reale, e peraltro proprio dalle fiabe derivò alcuni schemi narrativi. Gli autori a lui più cari (e che più lo influenzano) sono Ariosto, con i suoi intrichi di ricerche e incontri meravigliosi, e Borges, con i suoi sentieri bipartiti e i suoi labirinti, con i quali trova grande affinità proprio per la commistione fra razionalismo, indagine filosofica e modi narrativi fantastici. Calvino impiega il fantastico in alcune delle sue prove migliori, come la serie di Marcovaldo del 1963, per dare voce a temi di stretta attualità come l’alienazione urbana e il rapporto uomo-natura; mentre una sofisticata operazione intellettuale sta alla radice delle Cosmicomiche (1965), in cui utilizza i dati scientifici e lo stesso linguaggio della scienza per creare un universo paradossale e surreale all’interno del quale riflette in modo corrosivo sulla realtà contemporanea.

3 Il fantastico allegorico di Buzzati Uno scrittore-giornalista Dino Buzzati (San Pellegrino, Belluno 1906-Milano 1972) è stato uno scrittore di successo innanzitutto per il celebre romanzo Il deserto dei Tartari (1940), e poi per molte raccolte di racconti. Buzzati stesso attribuiva questo consenso alla propria capacità di scrivere in modo chiaro, senza annoiare i lettori. Uno stile che gli derivava dalla sua professione di giornalista (fu per moltissimi anni redattore e inviato speciale al «Corriere della Sera») e che la critica accademica giudicò a lungo ordinario, addirittura sciatto, mentre in realtà rispondeva a una precisa scelta comunicativa dello scrittore. Il successo di pubblico, tuttavia, in un certo senso costituì un limite per Buzzati, perché lo indusse nel tempo a ripetersi, da un lato sfruttando le tecniche narrative più collaudate, legate in genere all’abile costruzione di un effetto di suspense, e dall’altro applicando costantemente alle situazioni rappresentate significazioni simboliche fin troppo scoperte, di sapore kafkiano. I racconti Nei suoi numerosi racconti (ricordiamo, tra le altre, le raccolte: I sette messaggeri, 1942; Paura alla Scala, 1949; Il crollo della Baliverna, 1954; Sessanta racconti, 1958; Il colombre, 1966; La boutique del mistero, 1968; Le notti difficili, 1971) Buzzati crea una felice commistione fra una rappresentazione fantastico-surreale e riferimenti realistici, e a volte addirittura cronachistici, nella convinzione che «il fantastico che funziona artisticamente è proprio quello che è rappresentato in forma quanto più possibile reale». Buzzati desume dalla lezione di Poe, che considerava il primo suo maestro, la costruzione di un crescendo narrativo che trova sbocco comunemente in una “catastrofe” anche se poi la sua scrittura, sempre piana e misurata, è ben lontana dalla “poetica dell’eccesso” di Poe. Buzzati sullo sfondo di un dipinto da lui stesso realizzato.

370 Il Novecento (Prima parte) 7 Temi e forme del fantastico novecentesco


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Gallery Buzzati: un pittore prestato alla letteratura?

I temi A livello tematico i racconti di Buzzati ruotano attorno a una ristretta gamma di soggetti, di carattere esistenziale, ispirata a una visione pessimistica della vita: il tema dell’attesa della realizzazione, inevitabilmente frustrata dal lento trascorrere del tempo, la presenza incombente della morte, l’impossibilità di prevedere gli eventi e di orientare la propria vita per l’influenza di forze misteriose e ineluttabili, di fronte a cui l’uomo non ha alcun potere. Ricorrente è in Buzzati l’uso del racconto come apologo: in proposito, spesso si è parlato di un’influenza anche troppo diretta di Kafka, ma lo scrittore ha sempre ribadito di aver scritto Il deserto dei Tartari, e anche la raccolta I sette messaggeri, che già contiene l’universo tematico e simbolico buzzatiano, prima di aver letto Kafka. Si tratterebbe dunque di una consonanza e non di imitazione. L’immaginario angosciato di Buzzati trova piena espressione anche nella pittura, nel disegno e nel graphic novel, cui lo scrittore si dedicò con pari interesse (anzi, nella speranza di ottenerne maggiori riconoscimenti che nella scrittura…) e che riscuote ancor oggi attenzione e consenso.

Il deserto dei Tartari online

Video Trailer del film di Valerio Zurlini (1976) dal romanzo di Buzzati

Con Il deserto dei Tartari (1940) Buzzati inaugura il filone del fantastico a cui rimarrà prevalentemente legata la sua produzione, in un tempo in cui emergeva nella narrativa italiana la tendenza opposta della denuncia sociale e dell’adesione a una poetica realista. Quello di Buzzati è un fantastico prettamente novecentesco, anche per la forte incidenza della dimensione simbolica. La genesi autobiografica Buzzati stesso ebbe a dichiarare che il romanzo gli fu ispirato dalla vita in redazione al «Corriere della Sera», dalla routine del lavoro la cui ripetitività gli sembrava potesse non aver mai fine, nell’attesa di una “grande occasione” che gli cambiasse la vita e che forse non sarebbe arrivata mai. Si vedeva come in uno specchio nei colleghi più anziani, alla soglia ormai della pensione, le cui ambizioni e illusioni si erano consumate nel lento trascorrere di giorni sempre uguali. La trama Il romanzo è ambientato in una fortezza militare, la Fortezza Bastiani, che domina dall’alto una pianura arida e sassosa detta “il deserto dei Tartari” (perché in tempi remoti si favoleggiava fosse stata abitata da quel popolo). A questa postazione è destinato il protagonista, il giovane tenente Giovanni Drogo, una volta terminata l’Accademia militare. Nella fortezza vige una rigida disciplina militare e continuano i rituali tipici di addestramento anche se nessun nemico, da tempo immemorabile, è apparso all’orizzonte e la fortezza ha perso ormai ogni funzione. Ma i militari continuano a vivere nell’attesa di «cose fatali», nell’assurda speranza che i Tartari si presentino e ognuno possa dimostrare nel combattimento il proprio valore, e riscattare così nell’eroismo del combattimento lo sterile trascorrere di giorni uguali e inutili. Chi entra nella fortezza stenta a uscirne, avvinto da una sorta di fascinazione: il capitano Ortiz, che Drogo incontra nella valle prima di salire alla fortezza, vi si trova all’inizio del romanzo da diciotto anni, il maggiore Tronk da ventidue. Persino il sarto, che pure asserisce di trovarvisi in via «assolutamente eccezionale», ci vive da quindici anni. Un fotogramma del film Il deserto dei Tartari del 1976.

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Anche Drogo, che avrebbe dovuto fermarsi nella fortezza per breve tempo, finisce per restarvi, irretito dai rituali a loro modo rassicuranti e dal fascino del luogo, ma nella ferma convinzione che il futuro gli riservi in qualsiasi momento la possibilità di partire. Quando, dopo quattro anni, Drogo torna a casa in licenza, scopre la sua incapacità di reinserirsi nel mondo: anche l’amore è per lui ormai solo un pallido ricordo. Alla fine del romanzo Drogo ha 54 anni ed è gravemente malato, ma non vuole lasciare la fortezza, come gli consiglia il medico, perché ha paura di perdere l’occasione tanto attesa. Ed effettivamente, un giorno, soldati nemici si presentano al confine e la fortezza si prepara all’agognata battaglia, ma proprio allora i superiori congedano Drogo perché deve lasciar libera la stanza per i soldati di rinforzo in arrivo. L’ufficiale lascia amareggiato la fortezza e, in una locanda, affronta, in solitudine, la vera sfida dell’esistenza umana: quella con la morte. Le tecniche narrative Il deserto dei Tartari è un romanzo alquanto anomalo nel panorama della letteratura italiana dei primi decenni del Novecento: il protagonista non è connotato, è un tipo qualunque, forse perché deve appunto rappresentare, nella struttura simbolica del romanzo (quasi una “parabola”), la condizione dell’uomo in generale. Sebbene ci siano particolari realistici nella descrizione della vita dei soldati alla fortezza, lo spazio è fondamentalmente antirealistico: i contorni geografici sono indistinti (la fortezza è ai confini di un fantomatico «regno del nord») e si contrappongono vistosamente alla dimensione realistica della città, da cui il romanzo prende le mosse e in cui il protagonista si reimmerge per breve tempo. L’intreccio è ridotto ai minimi termini: quasi nulla di significativo, che si possa definire un “evento”, accade alla Bastiani, in cui il tempo, vero protagonista del romanzo, consuma lentamente le persone, come erode le mura della vecchia fortezza. Nella strutturazione dell’esile trama Buzzati enfatizza la ripetizione: l’incontro, denso di significato, tra Drogo giovanissimo (cap. II) e Ortiz, già maturo e disilluso, è replicato con evidente valore simbolico nel cap. XXV, verso la fine del romanzo, nella scena che vede Drogo, a sua volta invecchiato e deluso nelle sue aspirazioni di gloria, incontrare una giovane recluta che sale alla fortezza. Interessante nel romanzo è la voce narrante, che interviene spesso commentando le poche azioni e soprattutto i pensieri in modo a volte lirico a volte riflessivo; un narratore che si pone in stretta contiguità psicologica in particolare con il protagonista, di cui spesso quasi prolunga le riflessioni, senza che si verifichi uno stacco fra narratore e personaggio. Quanto allo stile, la scrittura di Buzzati è, come è tipico dello scrittore, piana, scorrevole, priva di asperità stilistiche.

Il deserto dei Tartari PUBBLICAZIONE

1940

GENERE

romanzo con commistione di reale e fantastico

TEMI

temi esistenziali: il tempo dell’attesa

STILE

scorrevole e privo di asperità

372 Il Novecento (Prima parte) 7 Temi e forme del fantastico novecentesco


Dino Buzzati

T1

«Le pagine grige dei giorni» Il deserto dei Tartari, XXVI

D. Buzzati, Opere scelte, a c. di G. Carnazzi, Mondadori, Milano 1998

È vicina la conclusione del romanzo. Il tenente Ortiz, dopo un servizio decennale, è congedato per limiti di età e lascia la Fortezza Bastiani, accompagnato per un breve tratto da Drogo.

Cadendo l’una sull’altra le pagine grige dei giorni, le pagine nere delle notti, aumentava in Drogo ed Ortiz (e forse anche in qualche altro vecchio ufficiale) l’affanno di non fare piú in tempo. Insensibili alla rovina1 degli anni, gli stranieri non si muovevano mai, come se fossero immortali e non gli importasse di sprecare per 5 gioco lunghe stagioni2. La Fortezza invece conteneva poveri uomini, indifesi contro il lavoro del tempo, e il cui termine ultimo3 si avvicinava. Date che una volta erano parse inverosimili, da tanto lontane, si affacciavano ora improvvisamente al vicino orizzonte, ricordando le dure scadenze della vita. Ogni volta, per poter continuare, bisognava farsi un sistema nuovo, trovare nuovi termini di paragone, consolarsi con 10 quelli che stavano peggio. Fino a che pure Ortiz dovette andare in pensione (e nella pianura del nord4 non si scorgeva il minimo indizio di vita, neppure un minuscolo lume). Il tenente colonnello Ortiz diede le consegne al nuovo comandante Simeoni, riuní la truppa nel cortile, eccettuati naturalmente i drappelli in servizio di guardia, tenne con stento 15 un discorso, montò sul proprio cavallo con l’aiuto dell’attendente e uscí dalla porta della Fortezza. Un tenente e due soldati gli erano di scorta. Drogo lo accompagnò fino al ciglione della spianata, dove si salutarono. Era il mattino di una grande giornata estiva, nel cielo passavano nuvole le cui ombre macchiavano stranamente il paesaggio. Sceso da cavallo, il tenente colonnello Ortiz 20 stette in disparte con Drogo, ed entrambi tacevano non sapendo come darsi l’addio. Poi uscirono parole stentate e banali, quanto diverse e piú povere da ciò ch’essi avevano in cuore. «Per me adesso cambia la vita» disse Drogo. «Vorrei venire via anch’io quasi. Ho quasi voglia di dare le dimissioni.» 25 Ortiz disse: «Tu sei ancora giovane! Sarebbe una stupidaggine, tu farai ancora in tempo!». «In tempo a che cosa?» «In tempo per la guerra. Vedrai, non passeranno due anni» (cosí diceva ma in cuor suo sperava di no, in realtà egli si augurava che Drogo se ne tornasse come lui, 30 senza avere avuto la grande fortuna; gli sarebbe parsa una cosa ingiusta. E sí che per Drogo aveva amicizia, e gli desiderava ogni bene). Ma Giovanni non disse niente. «Vedrai, non passeranno due anni, effettivamente» insistette allora Ortiz sperando di essere contraddetto. 35 «Altro che due anni» fece finalmente Drogo. «Dei secoli passeranno, e non basta. 1 alla rovina: al trascorrere inesorabile. 2 gli stranieri... stagioni: gli stranieri di cui si parla sono i leggendari nemici che dovrebbero attaccare prima o poi la for-

tezza. Essi soli sembrano indifferenti al trascorrere del tempo che invece avviluppa i militari della fortezza senza che se ne rendano conto.

3 termine ultimo: è la fine della vita. 4 pianura del nord: lo sterminato deserto che si stende alle spalle della Fortezza.

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Oramai la strada è abbandonata, dal nord non verrà piú nessuno.» E benché queste fossero le sue parole, la voce del cuore era un’altra: assurdo, refrattario agli anni5, si conservava in lui, dall’epoca della giovinezza, quel fondo presentimento di cose fatali, un’oscura certezza che il buono della vita fosse ancora da cominciare. 40 Tacquero ancora, accorgendosi che quel discorso li andava separando. Ma che cosa potevano dirsi, vissuti insieme quasi trent’anni fra le stesse mura, con i medesimi sogni? Le loro due strade, dopo tanto cammino, ora si dividevano, una di qua e una di là si allontanavano verso paesi ignoti. «Che sole!» disse Ortiz e guardava, con gli occhi alquanto appannati dall’età, le 45 mura della sua Fortezza da abbandonare per sempre. Esse apparivano sempre le stesse, con l’identico colore giallastro, il loro volto romanzesco. Ortiz le guardava intensamente e nessuno fuori che Drogo avrebbe potuto indovinare quanto soffrisse. «Fa caldo davvero» rispose Giovanni, ricordandosi di Maria Vescovi6, di quel lontano colloquio nel salotto, mentre scendevano melanconici gli accordi del pianoforte. 50 «Una giornata calda, effettivamente» aggiunse Ortiz e i due si sorrisero; un istintivo cenno di intesa come per dire che conoscevano bene il significato di quelle stupide parole. Ora una nuvola li aveva raggiunti con la sua ombra, per qualche minuto l’intera spianata divenne scura e balenò per contrasto il sinistro splendore della Fortezza, ancora immersa nel sole. Due grandi uccelli roteavano sopra la prima ridotta7. 55 Si udí lontano, quasi impercettibile, un suono di tromba. «Hai sentito? la tromba» disse il vecchio ufficiale. «No, non ho sentito» rispose Drogo, mentendo, poiché sentiva vagamente di fare cosí piacere all’amico. «Forse mi sarò sbagliato. Siamo troppo distanti, effettivamente» ammise Ortiz, tre60 mandogli la voce, e poi aggiunse con fatica: «Ti ricordi la prima volta, quando sei arrivato qui e ti sei spaventato? Non volevi rimanere, ti ricordi?» Drogo riuscí a dire soltanto: «Molto tempo fa...». Un curioso nodo gli chiuse la gola. Poi Ortiz disse ancora una cosa, dopo essere corso dietro ai suoi pensieri: «Chi lo sa» disse «forse in una guerra potevo servire. Può darsi che riuscissi utile. In una 65 guerra; e per il resto zero, come si è visto». 5 refrattario agli anni: in contrasto con gli anni che erano passati.

6 Maria Vescovi: la ragazza un tempo amata da Giovanni.

7 ridotta: piccola fortificazione, avamposto.

Analisi del testo Il congedo Nel passo, collocato quasi alla conclusione del romanzo, è presentato il momento dell’addio tra il tenente colonnello Ortiz, che ormai vecchio deve lasciare la sua Fortezza, e Drogo. Ortiz, molti anni addietro, era stata la prima persona appartenente al mondo della Fortezza che il protagonista aveva incontrato proprio mentre, ventenne speranzoso, si avviava a cavallo a destinazione ed era stato il primo a farlo avvicinare all’ambiguo fascino del luogo dove egli avrebbe trascorso una lunga parte della sua vita. Ora anche Drogo ormai non è più giovane: come in uno specchio, nel compagno che ha atteso per tutta la vita l’occasione gloriosa che non è mai arrivata, si delinea il suo stesso destino. Nel momento del congedo, i due ufficiali comprendono che un nemico ben più temibile dei Tartari li sta attendendo e sentono in loro stessi la consapevolezza che ciò che li aspetta è soltanto il nulla e avvertono la paura di non fare più in tempo. Sullo sfondo appare la Fortezza con le sue mura dal volto romanzesco e il suo sinistro splendore, passano le nuvole che macchiavano stranamente il paesaggio e oscurano il cielo a sottolineare l’angoscia esistenziale dei

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due uomini, che si misurano con il loro fallimento, due uomini che non sanno come darsi l’addio e che riescono a scambiarsi soltanto «parole stentate e banali, quanto diverse e più povere da ciò ch’essi avevano in cuore».

Stranieri e poveri uomini Nella prima parte del brano emerge ancora una volta la profonda differenza che distingue gli stranieri dai poveri uomini che vivono all’interno della Fortezza. I primi, cioè i leggendari nemici che avrebbero dovuto attaccare la fortezza, come se fossero immortali appaiono indifferenti di fronte al trascorrere inutile del tempo, mentre i secondi, i militari, appaiono indifesi contro il lavoro del tempo. Lo stile è piano e scorrevole ma carico di valenze simboliche: le parole non pronunciate e gli elementi del paesaggio sono i testimoni di un faccia a faccia nel segno del senso della fine. La stanza, olio su tela di Dino Buzzati, 1968.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente il contenuto del passo (max 8 righe). COMPRENSIONE 2. Che cosa intende dire Ortiz a Drogo quando gli dice «tu farai ancora in tempo!»? ANALISI 3. Presenta i due personaggi e rispondi: che cosa accomuna Ortiz e Drogo? Che cosa li distingue? 4. Prova a rintracciare nel passo proposto elementi che delineano un’atmosfera sospesa e quasi onirica.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina una diversa continuazione del romanzo. Che cosa potrebbe decidere di fare Drogo?

online T2 Dino Buzzati Strane coincidenze Il crollo della Baliverna

4 L’immaginario ossessivo di Landolfi Uno scrittore schivo e poco frequentato Tommaso Landolfi (Pico Farnese 1908 Roma 1979) è uno scrittore di cui la critica riconosce l’importanza nella letteratura italiana del Novecento, ma che tuttora continua a essere poco conosciuto e poco letto. La ragione può consistere nel fatto che Landolfi è uno scrittore particolarmente complesso, che non si presta a essere ricondotto sotto “etichette” didattiche semplificanti e non si può facilmente inscrivere in precise correnti letterarie. Landolfi condusse una vita appartata e si tenne lontano dagli ambienti letterari e culturali alla moda, verso i quali manifestò sempre un atteggiamento di scettico

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e ironico distacco, dietro il quale si celava una visione del mondo amaramente pessimistica. «È il solo scrittore contemporaneo – scrive Contini nel 1968, nella Letteratura dell’Italia unita – che abbia dedicato una minuziosa cura, degna d’un dandy romantico (quale Byron o Baudelaire), alla costruzione del proprio “personaggio”: un personaggio notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore». Un’opera multiforme e complessa La produzione di Landolfi (in particolare la prima fase di essa) è comunemente ascritta al “fantastico surreale”; ma; come si è detto, ogni etichetta è inadeguata a definire l’universo multiforme e complesso di Landolfi, frutto anche di una vasta conoscenza delle letterature straniere (in particolare di quella francese e di quella russa, di cui era anche traduttore): nei suoi racconti si avverte l’eco di autori come Hoffmann e Dostoevskij, Poe e Gogol. Il fantastico di Landolfi rimanda a un immaginario con tratti marcatamente nevrotici e addirittura ossessivi, passibile di indagini anche psicoanalitiche: non è casuale la ricorrente presenza nei suoi racconti di elementi macabri e di un vero e proprio “bestiario” allucinante e repellente (scarafaggi, topi, ragni): significativi in questo senso due racconti come Mani e Le labrene. La dimensione ironica In seguito (dagli anni Cinquanta alla morte) la produzione dello scrittore è caratterizzata da una maggiore propensione all’autobiografismo, con tratti costantemente ironici e autoironici. Particolarmente significativo è l’interesse di Landolfi verso la parodia degli stereotipi linguistici che, in quegli stessi anni, lo accomuna all’ultimo Montale, da Satura in poi. Del resto, fin dalle prime prove, Landolfi sembra usare una prosa attardata, addirittura classicheggiante, mentre in realtà usa il linguaggio della tradizione in modo ironico e “novecentesco” anche perché vi associa una tematica indubbiamente moderna, con conseguenti effetti di “straniamento”. Dedicato al tema del linguaggio è il racconto antologizzato (➜ T3 OL). La produzione Oltre alle varie raccolte di racconti, ricordiamo Dialogo dei massimi sistemi (1937), Il mar delle blatte e altre storie (1939), La bière du pecheur (“La birra del pescatore”, o anche “La bara del peccatore”: il titolo in francese, senza accenti, gioca sull’ambiguità semantica) del 1953, Rien va (1963), Des mois (1967), Le labrene (1974), A caso (1975). Landolfi ha scritto anche libri di poesie (Viola di morte, 1972 e Il tradimento, 1977) e tre romanzi brevi: Racconto d’autunno (1947), Cancroregina (1950) e La pietra lunare (1939), quest’ultima considerata una delle sue opere più rappresentative.

Tommaso Landolfi in una foto di Ugo Mulas.

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La pietra lunare Il romanzo narra la storia enigmatica dell’amore tra un giovane e una ragazzacapra, Gurù, intermediaria fra il mondo animale e quello umano, sullo sfondo di un paesaggio irreale: un’esperienza che condurrà il protagonista, guidato dallo strano essere, a sprofondare nei meandri oscuri dell’inconscio, nel lato “notturno” del sé, per poi riemergerne. Centrale nel testo è il motivo della fascinazione misteriosa della Luna (che ricorre anche nel racconto Il lupo mannaro). Non a caso l’autore inserisce in un’appendice al romanzo una serie di passi dello Zibaldone di Leopardi relativi alla Luna, proposti come una sorta di giudizio sull’opera di Landolfi.

La pietra lunare PUBBLICAZIONE

1939

GENERE

romanzo

TEMI

vicini al surrealismo

STILE

linguaggio della tradizione usato in modo ironico

online T3 Tommaso Landolfi La poltrona stregata Questione d’orientamento, Del meno

5 L’universo onirico e surreale di Savinio Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea de Chirico, Atene 1891 - Roma 1952) è un autore versatile e geniale, che solo dagli anni Settanta del Novecento è al centro dell’attenzione critica. La sua opera rimane comunque ancora riservata per lo più a una fruizione elitaria per il carattere raffinato e complesso della sua scrittura, che alterna grottesco e sublime, razionalità, gusto del paradosso, giochi di parole. Lo accomunano a Landolfi, un altro grande scrittore che da tempo si sta rivalutando, lo scetticismo aristocratico e ironico, la non appartenenza a schieramenti politici e letterari, la raffinata cultura, aperta alla dimensione europea più che italiana. L’esistenza stessa di Savinio si svolge su scenari europei: dalla Grecia dove nacque e visse l’infanzia, a Parigi dove si trasferisce nel 1910 e dove frequenta personaggi di spicco dell’avanguardia come Picasso, Apollinaire, Cocteau. Una personalità artistica eclettica Il talento artistico di Savinio si esplica non solo nella letteratura, ma anche nel giornalismo, nel teatro, nella musica e soprattutto nella pittura (come il ben più celebre fratello, Giorgio de Chirico), alla quale si dedica in modo sistematico dopo il nuovo trasferimento a Parigi nel 1926 (tornerà in Italia solo nel 1935), a contatto con i maggiori rappresentanti del surrealismo francese: Breton, Eluard, Aragon e in particolare Max Ernst. Straordinarie sono le sue figure soggette a metamorfosi, che poi ricorrono anche nei suoi testi letterari in un gioco di costanti rimandi tra opera pittorica e opera letteraria.

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La poetica dello “sguardo infantile” La prima prova narrativa, definita una sorta di “incunabolo” dei principali temi e motivi dell’opera di Savinio, è Hermafrodito, pubblicata a episodi sulla «Voce» e poi in volume nel 1918: un insieme eterogeneo di prose e versi che già affonda nel retroterra autobiografico dell’autore, a cui attingerà costantemente anche la sua pittura e a cui fanno poi riferimento Tragedia dell’infanzia (1937) e Infanzia di Nivasio Dolcemare (1941; Nivasio è anagramma di Savinio). In questi testi Savinio definisce le basi della sua poetica: essa ha il suo fulcro nell’adozione di uno sguardo infantile, programmaticamente lontano nella sua libertà fantastica dalla logica adulta: uno sguardo irrazionale, visionario, ma al contempo portatore di una visione ferocemente demistificante delle ipocrisie e dei rituali sociali della vita adulta, che si traduce spesso in immagini grottesco-mostruose. Sul piano della tecnica narrativa, l’adozione di quest’ottica visionaria, del tutto soggettiva, porta alla dissoluzione della “forma-romanzo”: la narrazione si traduce nella registrazione disordinata di aneddoti e ricordi, accostati senza alcuna gerarchia e ordine compositivo. Ma, nella sofisticata scrittura di Savinio, affiora comunque la dimensione dell’io adulto, dotato di una vastissima cultura, in particolare nelle immagini derivate dalla cultura classica e dalla mitologia. La vicinanza al surrealismo L’opera di Savinio (che deve ancora essere esplorata compiutamente) è stata accostata al surrealismo, movimento a cui la cultura italiana rimane nel complesso estranea (forse l’unico ad aver tentato l’esperienza della “scrittura automatica” è il poeta e narratore Antonio Delfini, 1907-1963). L’emergere di contenuti psichici del profondo e di immagini oniriche lasciate liberamente rifluire certamente avvicina la scrittura di Savinio al surrealismo, ma su di essi lo scrittore applica comunque poi il filtro della razionalità e della sua raffinata cultura. Tra le opere significative di Savinio, oltre a quelle citate, sono da ricordare Ascolto il tuo cuore, città (1941) dedicata a Milano, e le biografie immaginarie Narrate, uomini, la vostra storia (1942).

Alberto Savinio, Ulisse. L’arte e il mito (1929).

Casa «la Vita» Nella più importante raccolta di racconti di Savinio, Casa «la Vita» (1943), che prende il titolo dall’ultimo racconto (➜ T4), ricorre nuovamente la dimensione autobiografica nella riproposta della figura di Nivasio, qui adulto, e di “controfigure” come Aniceto o il signor Munster. Temi fondamentali della raccolta, come l’autore stesso spiega nella suggestiva prefazione, sono l’incombere della morte e, connesso, quello del trascorrere inesorabile del tempo. «Ho cominciato a pensare alla morte quando ho cominciato a pensare... È possibile pensare e non pensare alla morte?».

Casa «la Vita» PUBBLICAZIONE

1940

GENERE

raccolta di racconti

TEMI

incombere della morte, il trascorrere inesorabile del tempo

STILE

scrittura raffinata e complessa

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Alberto Savinio

Un itinerario onirico-simbolico

T4

Casa «la Vita» A. Savinio, Casa «la Vita», Adelphi, Milano 1989

Il protagonista-narratore del racconto lungo che chiude l’omonima raccolta di Savinio è un giovane di vent’anni, Aniceto. Il racconto si apre con il protagonista che all’alba esce di casa (dove vive con l’anziana madre) per andare alla stazione a prendere un treno per Arona, da dove intende fare una gita sul lago Maggiore. Nel lasciare la casa, dove la madre ancora dorme, il giovane prova un inspiegabile sentimento di angoscia, come se compisse un gesto in qualche modo definitivo. Visita le Isole Borromee, Pallanza, Intra e quindi al crepuscolo si avvia per ritornare a casa. Ma è attratto inspiegabilmente da una valletta laterale verso cui si incammina. All’improvviso sente un suono di violino che gli sembra familiare e, seguendolo, arriva a una casa a più piani illuminata come per una festa. Il cancello è aperto, nel giardino ben curato la posizione delle poltrone di vimini e le suppellettili danno l’impressione che delle persone siano state lì, fino a pochi attimi prima. Guidato, quasi magicamente attratto, dal suono del violino che ripete stranamente sempre lo stesso motivo, Aniceto entra nella casa e ne percorre, sempre più sgomento, tutte le stanze... Ecco il momento in cui Aniceto arriva alla casa misteriosa.

Ogni traccia di abitazione scomparve. Gli alberi si infoltivano dalle parti, s’addensavano le ombre della notte. Nell’ultima luce del giorno, quasi la luce stessa si fosse fatta suono, Aniceto1 udì il suono di un violino. Dove aveva udito quel motivo? 5 Nel filo di quel suono continuò a camminare. È più che una villa: è una casa alta, a più piani, tutta illuminata. Aniceto crede che le luci del crepuscolo si riflettano nelle finestre e le facciano brillare. Poi si accorge che brillano egualmente anche le finestre delle altre facciate. Del resto il sole è tramontato da un pezzo, il cielo si copre del turchino della notte, e quella poca 10 luminosità rosa che indugia a occidente non è tale da accendere bagliori. Uno spicchio di luna brilla solitario. Quella casa non è una casa privata. Forse un albergo. È pieno di ospiti. E stasera c’è festa a bordo... Perché ha detto «a bordo»? Nella sua mente si è formata un’analogia tra questa casa illuminata e un transatlantico di notte in mezzo all’oceano, le fiancate rigate di luci. [Aniceto entra facilmente nella casa misteriosa perché la porta d’ingresso è solo socchiusa; ma, appena entrato, la porta si richiude cigolando dietro di lui. Il suono del violino si avverte più forte e Aniceto pensa che il misterioso violinista sia in una camera dell’ultimo piano. Dall’atrio entra in un salotto illuminato, anch’esso deserto. Anche in questo luogo, dove aleggia un leggero profumo femminile che suscita inquietudine nel protagonista, ci sono tracce di recenti presenze, come già nel giardino: un ricamo posato sul bracciolo di una poltrona, un libro aperto su un leggìo (è Dico a te, Clio dello stesso Savinio), una sigaretta accesa posata sul portacenere, carte da gioco sparpagliate su un tavolino, le candele accese su un tavolo da pranzo, resti del cibo ancora nei piatti. Su una mensola una bottiglia di ricostituente contro l’astenia, che la madre faceva prendere ad Aniceto per “tirarlo su”. Ma sull’etichetta è scritto in matita un nome femminile: Isabella... A una fanciulla da lui amata, di nome Isabella, Aniceto aveva pensato mentre era a pranzo alle isole Borromee. Da questo momento sono le tracce di una figura femminile che il protagonista ricerca nella casa.] 1 Aniceto: il nome del protagonista è un antico nome augurale greco che significa “invincibile”.

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Poiché non ha trovato nessuno in salotto, nessuno in sala da pranzo, nessuno in cucina, Aniceto si sente autorizzato a salire al primo piano. Passa davanti all’Ermete lampadoforo2 tirandosi da una parte, nel timore che Ermete gli sbatta il suo globo luminoso in testa. Comincia a salire. Perché camminare sul margine dei gradini? Aniceto si fa ardito e comincia a calpestare la guida tigrata3: a calpestarla «da pa20 drone». Che strano sentimento! Gli pare di camminare nei ricordi. A poco a poco, su questa casa deserta e illuminatissima, Aniceto si sente dei diritti. Aprono sul corridoio le porte delle camere. Aniceto si fa coraggio e dalla soglia grida: «Nessuno?». Gli risponde il suono del violino. Prima d’inoltrarsi, Aniceto guarda un’ultima volta l’atrio giù in fondo, come dal bastingaggio4 di una nave guarderebbe 25 il porto dal quale è per5 staccarsi per sempre. La prima camera è tinta di un rosa infantile. La bimba6 è appena uscita. C’è ancora il suo odore di pulcino profumato di talco. Nel mezzo è il garten7 cinto dalla ringhieretta di legno, il materassino sul quale Isabella può giocare senza farsi male... Ha veramente pensato «Isabella»? Aniceto guarda quel segnetto a matita8 sul muro 30 rosa, quel numero, quella data, quel nome: il nome è quello. E se fosse nel bagno? Aperta la porticina rosa, Aniceto sente in faccia il caldo del vapore. Sull’acqua le ninfee della saponata galleggiano ancora in movimento, gli asciugamani sono stesi sulle sedie bianche. Prima di uscire Aniceto torna a guardare quel segnetto sul muro, quella data, quella «statura». Ma perché quel violino ripete 35 sempre lo stesso motivo? Le ricerche di Aniceto più non sono indeterminate. Ora egli sa «chi» va cercando in quella casa. E con mano tremante, ansioso della desiderata sorpresa, apre quella porta... Sua madre aveva fatto fare per lui, da Sadun il falegname, quella scrivania alta a 40 piano inclinato, da starci davanti in piedi, affinché perdesse il vizio di stare curvo mentre scriveva. Quella scrivania egli l’ha tatuata interamente, l’ha coperta di graffiti e disegni intagliati col temperino e riempiti d’inchiostro, ognuno dei quali rappresenta un simbolo diverso della noia ispirata dalla versione latina, dalla lezione di storia, dal problema di geometria. 45 È una scrivania alta a piano inclinato, perché Isabella perda il vizio 9... Ma quanto meno «rovinata»! Si vede che su questa scrivania lavora una giovinetta. Sul piano inclinato le Vite di Cornelio Nepote10 sono aperte a pagina 126. Accanto è un quaderno nel quale alcune righe sono tracciate di una scrittura svogliata: «Quando invece preparerai la guerra ingannerai te stesso se non mi avrai posto...». Dopo la 50 parola «posto» la scrittura è interrotta, una macchiolina d’inchiostro brilla come un lucido occhietto. Aniceto si china: la macchiolina è fresca. Andare nella camera adiacente passando per il corridoio, prolungherebbe questo 15

2 Ermete lampadoforo: la scala che conduce ai piani superiori della casa è illuminata da una sfera luminosa, retta da una statua del dio Mercurio (Hermes per i greci). Da qui il termine dotto grecizzante lampadoforo (“che porta la lampada”). 3 la guida tigrata: la passatoia (in tessuto a strisce alterne, di due tinte diverse), tappeto lungo e stretto che corre nella parte centrale della scalinata.

4 bastingaggio: il parapetto dei ponti esterni delle navi (termine nautico). 5 è per: sta per. 6 La bimba: il riferimento rimane misterioso, indeterminato: la stanza rosa dove entra Aniceto è certo la stanza di una bambina piccola, ma di chi si tratta? 7 garten: box per i giochi infantili, come si capisce dalla descrizione che segue.

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8 quel segnetto a matita: il segno sul muro registra la statura della bambina. 9 È una scrivania... perda il vizio: la scrivania diventa ora quella di Isabella ragazzina, anche lei evidentemente incline a stare curva mentre scriveva. 10 le Vite di Cornelio Nepote: si tratta delle biografie di uomini illustri, il De viris illustribus dello scrittore latino Cornelio Nepote, di cui Isabella sta traducendo dei passi.


gioco a nascondarella, lo renderebbe più tormentoso. Con due salti Aniceto è all’uscio di comunicazione: lo apre. 55 Confusione di abiti per tutta la camera, sulle sedie, sulle poltrone, sul canapè, persino sul comò. Aperti i battenti del grande armadio nel fondo, negli specchi del risvolto rilucono le luci interne tra le quali, come in un teatro, vivono appesi e schierati altri abiti: da mattino o da passeggio, da sera o da campagna, ornati o disadorni, estivi o invernali, di mezza stagione o neutri. 60 Scarpe gettate alla rinfusa sul tappeto: stivaletti a bottoni laterali e scarpe da montagna, scarpine di raso e scarpe «ortopediche» con altissime suole di sughero. Un grosso libro sul comodino stringe tra le pagine un tagliacarte d’argento. Aniceto guarda il titolo: Furore11. Anche lei12! Sul letto è steso un abito da sposa, bianco, lungo, le braccia aperte: la sposa stessa, senza testa, senza mani, passata sotto il rullo compressore 65 che in Piemonte chiamano pistapere13. Ai piedi del letto due scarpine d’argento: una in piedi, l’altra piegata sul fianco, come una navicella che ha fatto naufragio. Aniceto afferra l’abito. Vuol salvare la sposa. L’abito è ancora caldo. Aniceto ci affonda la faccia, beve quell’odore. Si precipita fuori della camera – la porta è aperta – un grido gli sfugge: «Isabella!». Il violino lassù continua a sonare. 70 Per «salvare la sposa», Aniceto sale in un lampo al secondo piano. Una infilata di camere confuse gli ritarda la meta. Una è piena di mappamondi, carte geografiche, bussole, sestanti, microscopii, attrezzi per la pesca, fucili, cartuccere, carnieri; l’altra è adorna di quadri cubisti14, busti di muse e divinità pagane, tavole anatomiche, un manichino con una coroncina d’alloro sul cranio di legno; un’altra ancora 75 è tappezzata di fotografie in ingrandimento: Strawinski15 al pianoforte, Greta Garbo da Cristina di Svezia16, Leonardo da Vinci in abito sportivo con la Leica17 a tracolla. Infine, e al tatto stesso della maniglia, Aniceto sente che questa è la «loro» camera. Il letto – il «loro» letto – è disfatto. Il pigiama di lui, la camicia da notte di lei, trasparente, così sottile che a prenderla in mano... Aniceto la prende in mano, calda 80 ancora dì lei, odorosa ancora di lei, e la camicia da notte – più docile di lei – gli si raccoglie tutta nel pugno. Dalla parte di lei, una rivista illustrata giace sullo scendiletto, caduta dalla mano inertizzata18 dal sonno, aperta alla pagina in cui Angelo, spilungone e allucinato, ha lasciato crollare il suo corpo celeste su la poltrona degli uomini19. 85 Se un dubbio rimane ancora ad Aniceto... La vigilia20, prima di mettere la sveglia alle cinque, Aniceto, che sentiva svegliarsi la sua nevralgia dentaria, aveva preso una compressa di cibalgina, poi aveva riposto la fialetta nel cassetto del comodino. Aniceto apre il cassetto: la fialetta è lì. Ora Aniceto è sicuro: è sicuro che dietro quella porta... 11 Furore: il più celebre romanzo dello scrittore statunitense John Steinbeck, pubblicato nel 1939. 12 Anche lei: l’esclamazione si può considerare un’“intrusione” dell’autore, che si sovrappone ad Aniceto commentando (forse non positivamente) la scelta di lettura di Isabella. 13 pistapere: è il mangano, apparecchio un tempo usato per stirare (è una conca riscaldata a vapore, nella quale ruota un cilindro rivestito di feltro in modo che la

biancheria sia stirata mediante compressione fra conca e cilindro). 14 quadri cubisti: quadri di pittura cubista, tendenza artistica dell’avanguardia primo-novecentesca. 15 Strawinski: Igor Stravinskij (1882-1971), compositore e pianista, di origine russa, famoso soprattutto come autore delle musiche di celebri balletti (La sagra della primavera, 1913). 16 Greta Garbo da Cristina di Svezia: la grande attrice svedese (1905-1990), ritratta

nelle vesti della regina di Svezia, interpretata in un celebre film del 1933. 17 Leica: marchio storico tedesco di macchine fotografiche ottiche. 18 inertizzata: resa inerte. 19 Angelo... uomini: Angelo è uno dei racconti di Casa «la Vita»: la storia, surreale, parla di un vero angelo costretto a vivere tra gli uomini dopo essere caduto dal cielo per i bombardamenti. 20 La vigilia: la sera prima.

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Sì: essa è stata in questa camera. Rimane il tacchettio dei suoi passi sul pavimento lustro, il suono della sua voce nell’aria. Che altro? Il suo pianto... [...] Aniceto arriva lentamente all’ultimo piano. Il suono del violino, chiarissimo ormai, viene dall’ultima camera, in fondo al corridoio. Aniceto apre la prima porta. È una 95 camera da letto. Illuminatissima come tutte le altre, ha, diversamente dalle altre, un aspetto disabitato. In questo letto coperto da una coperta di seta color vino, si capisce che da più anni nessuno ha dormito. Aniceto solleva la coperta fenduta21 in più parti e tarlata, scopre il materasso chiazzato di macchie di umidità, il guanciale senza federa. Sul comodino è una bottiglia vuota, cui un bicchiere capovolto fa da coperchio. Sul 100 centrino è ricamato col cotone rosso: «Buona notte». [...]. I suoi occhi incontrano sulla parete gli occhi di un ritratto, di una vecchia signora dai capelli bianchi. Di chi sono quegli occhi? Dove ha visto quegli occhi? Di «quante» sono quegli occhi? Un libro è caduto sullo scendiletto, è nascosto per metà sotto il comodino. Aniceto lo raccoglie, lo posa sul centrino. Sono le Operette morali di Leopardi22 in edizione del 1860. Aniceto 105 apre il cassetto: una parrucca, una dentiera23... Come può essere? È assurdo! Quanto tempo Aniceto è rimasto davanti a quel letto? Prima di uscire gli sale alle labbra l’augurio ricamato sul centrino, ma il libro ora nasconde alcune lettere e si legge soltanto «Buotte». Aniceto apre la porta della seconda camera: è illuminatissima ma vuota. Della terza 110 camera: è illuminatissima ma vuota. Della quarta: è illuminatissima ma vuota. Continua fino in fondo al corridoio. È stanco. Sente un grave peso sulle spalle. È davanti alla camera del violinista. Il suono è ormai così vicino... Più in là non si può andare: è l’ultima camera. Il motivo lento, monotono, continua a ripetersi con insistenza crudele. Aniceto sa che dietro quella porta troverà riuniti tutti gl’inquilini 115 della casa. Tutti coloro che finora non è riuscito a incontrare. E vorrebbe non aprirla quella porta. Vorrebbe non vederle quelle persone. Vorrebbe non farsi vedere da quelle persone. Vorrebbe soprattutto non vedere l’insistente, il monotono, il crudele violinista. Ma come fare? È stanco... Apre la porta. 120 La camera è vuota. Vuota di tutti gl’inquilini della casa. Vuota di mobili. Vuota del... Un leggio di ferro, magrissimo, è in mezzo alla camera. Un quaderno di musica è aperto sul leggio; e davanti al leggio, all’altezza della spalla di un uomo che non c’è, un violino è sospeso in aria, sul quale l’archetto scende e risale, scende e risale, scende e risale. 125 Aniceto è di là dallo stupore, di là dalla paura. Solo questa stanchezza gli rimane. Allora, sul quaderno di musica, la pagina di destra comincia a poco a poco a sollevarsi... Assieme col terrore, tutta la perduta vitalità rientra d’impeto nel petto di Aniceto. Il motivo tanto ripetuto è arrivato al termine: un nuovo motivo comincerà sull’altra 130 pagina, forse una pagina bianca. 90

21 fenduta: lacerata. 22 Operette morali di Leopardi: è un’opera molto amata da Savinio. Questo, e altri riferimenti, come quello al Viaggio sentimentale di Sterne tradotto da

Foscolo (presente in un altro punto del testo non antologizzato), o, ancor più la citazione di opere di Savinio stesso, sovrappongono ad Aniceto la figura reale dell’autore.

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23 una parrucca, una dentiera: la camera è quella della madre. All’inizio del racconto sono infatti nominati gli stessi oggetti come appartenenti alla madre sessantenne.


Aniceto esce di corsa dalla camera, non arriva allo scalone in fondo al corridoio, ma trova alla sua destra una porta aperta e l’inizio di una scala, e si butta giù a precipizio. Scende tanti piani per la scala di servizio, quanti ne ha saliti per lo scalone. Questa porticina dà probabilmente sul giardino. Il battente resiste. Aniceto 135 spinge con tutte le sue forze. Un vento impetuoso irrompe come il più screanzato degli intrusi e lo butta indietro. Il vento gli ha sconvolto i capelli. Aniceto tira fuori un pettinino e uno specchietto. Lo specchietto gli mostra la faccia di un vecchio: un vecchio di sessant’anni. Se stamattina, quando è partito da Milano, lui aveva vent’anni e sua madre sessanta, 140 ora che lui stesso ne ha sessanta... Capisce la sua angoscia di stamattina. Quando voleva tornare indietro per salutare sua madre. Nella visita di questa casa illuminata e deserta, ha dunque percorso tutta la sua vita? Si ravvia i radi capelli bianchi, poi si guarda attorno. Poco prima credeva di essere 145 arrivato in fondo a una scala, ma aveva sbagliato. Le pareti a strisce di legno lucono24 di vernice bianca. Nella bottiglia di cristallo infissa nel portabottiglia da rullio, l’acqua agita dei bagliori turchini. Il letto è a cuccetta, sulla riversina25 del lenzuolo è impressa la sigla della società di navigazione. La porta ora oppone minore resistenza. Il vento è un po’ caduto. La tolda è bagnata. 150 Spruzzi saltano su dal bastingaggio, che il vento gli sbatte in faccia. Orizzonte non si scorge, solo le creste bianche delle onde che fuggono nell’oscurità. E un immenso rumore di mare. Aniceto pensa che se questa è la nave della morte e questo il mare dell’eternità... Sente un grande sollievo.

24 lucono: rilucono, brillano. 25 riversina: o rovescina, la parte del lenzuolo, spesso ricamata, che si rovescia sopra le coperte.

IMMAGINE INTERATTIVA

Alberto Savinio, La sposa fedele, 1930-31 (Galleria dello Scudo, Verona).

I maestri del fantastico novecentesco in Italia

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Analisi del testo Dai tempi narrativi al presente “acronico” Il racconto è scandito in due parti dall’uso differente dei tempi verbali: nella prima parte i tempi sono il passato remoto o l’imperfetto, la seconda è caratterizzata dal tempo presente. Lo stacco è netto e improvviso: «... continuò a camminare. È più che una villa...». La scelta non è certo casuale: la prima parte del racconto ha infatti un carattere che si potrebbe genericamente definire “realistico”, mentre nella seconda il presente “acronico” segnala lo slittamento della narrazione verso una dimensione onirico-fantastica. Allo stesso modo si passa da una descrizione di spazi verosimili agli interni antirealistici della casa, luogo dell’immaginario e dell’inconscio del protagonista.

Lo schema topico del viaggio Savinio utilizza in modo preminente per questo suggestivo racconto il codice spaziale: il racconto prende infatti le mosse da un viaggio “fuori” dalla casa materna, nella quale si intuisce (ci riferiamo alla prima parte del racconto, non riportata) che il protagonista viva una vita angusta e soffocata dal rapporto simbiotico con la madre, ormai sentito come un peso. Vengono quindi nominati i luoghi dove egli si sposta, luoghi reali nella zona del lago Maggiore (Arona, l’Isola Bella, Stresa, Pallanza). Ma il viaggio devia poi verso una dimensione interiore: l’esplorazione della casa misteriosa costituisce infatti un appuntamento con i propri ricordi e forse ancor più con i propri fantasmi interiori. Lo spostamento dal “fuori” al “dentro” è mediato da un suono misterioso: le note ripetute di un violino (che sono come un filo d’Arianna prima nel guidare il protagonista alla casa misteriosa, poi all’interno di essa), nell’esplorazione delle varie stanze fino alla sorprendente conclusione. Allo stesso modo in Mia madre non mi capisce (un racconto che ha strette analogie con Casa «la Vita» e che appartiene alla stessa raccolta), è un lamento misterioso a condurre il protagonista entro uno spazio “altro” che si rivela essere lo spazio onirico dell’infanzia, in cui reincontra la madre.

Dal fantastico all’“allegorico” Il racconto utilizza abilmente gli espedienti classici del fantastico (in particolare l’infrazione della direzionalità del tempo) e crea un’efficace suspense attraverso una serie di enigmi che inducono il lettore a porsi delle domande: come mai gli abitanti della casa sono improvvisamente spariti? Chi suona il violino? La misteriosa figura femminile che sembra vivere (o essere vissuta) nella casa, chi è veramente? L’ambiguità riguardo a quest’ultima è creata dal nome: Isabella. Isabella è la piccola bimba nella stanza rosa (la figlia?), Isabella è l’adolescente che traduce dal latino, Isabella è la sposa del protagonista, ma Isabella è anche il nome della madre, come è detto all’inizio del racconto. Le diverse Isabelle si sovrappongono negli occhi del ritratto della vecchia signora che Aniceto vede nella stanza della madre, dove si ritrova nel suo ansioso peregrinare. Che sia la stanza della madre è inequivocabilmente provato dal ritrovamento della parrucca e della dentiera che sono nominate all’inizio. Verso la fine del racconto emerge e prevale su quella fantastica la dimensione allegorica: la casa misteriosa, come dice il titolo, è la vita stessa; il cammino all’interno di essa del protagonista, che all’improvviso si scopre vecchio, lo porta infine alla morte. La casa diventa una nave che affronta il mare oscuro dell’ignoto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché Aniceto «sa “chi” va cercando in quella casa»? 2. Che cosa rappresenta il suono fascinatore del violino? Perché non c’è (o non si vede) nessun musicista a suonarlo? ANALISI 3. L’itinerario del protagonista ha a che fare con la dimensione dello spazio o con quella del tempo? 4. Quale sconvolgente rivelazione vive il protagonista alla fine della sua “ricerca”? 5. Quando inizia a salire la grande scalinata che porta ai piani superiori Aniceto percepisce all’improvviso di avere «dei diritti» su quella casa, «gli pare di camminare nei ricordi». Spiega il significato di queste espressioni, importanti per comprendere il senso complessivo del racconto.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Il racconto di Savinio mostra affinità con la novella di Pirandello Una giornata (pubblicata sul «Corriere della Sera» il 24 settembre 1936 ➜ C17): fai un confronto che metta in rilievo analogie e differenze.

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2

Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 1 Il fantastico “filosofico” di Borges Un classico del Novecento Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899 - Ginevra 1986) è ormai considerato un classico del Novecento, anche per i forti legami che collegano la sua opera alla grande tradizione europea, da Omero ad Ariosto a Joyce. In Europa, del resto, egli visse con la sua famiglia dal 1914 al 1921: furono anni decisivi per la sua formazione intellettuale, cosmopolita, anni in cui conobbe a fondo, oltre ai classici greci e latini, la letteratura italiana, francese e tedesca. In un suo scritto egli dichiara di aver vissuto la sua infanzia più che in una precisa zona del mondo (nella fattispecie Buenos Aires) nella ricchissima biblioteca del padre, che, inglese per parte di madre, vi aveva raccolto libri della letteratura inglese, da Hawthorne a Poe, da Melville a Kipling e Stevenson, che saranno i modelli per la narrativa di Borges. Anni dopo la biblioteca ritorna nella vita dello scrittore: nel 1938 inizia a lavorare nella Biblioteca municipale di Buenos Aires, che già precedentemente aveva esplorata da lettore onnivoro. Di essa diventa direttore nel 1955, quando già si è manifestata la grave malattia ereditaria agli occhi, che lo porta alla cecità: non potrà più leggere ma solo ricordare (e la memoria letteraria di Borges è davvero straordinaria). L’immagine simbolica della Biblioteca Non a caso dunque la “biblioteca” è immagine simbolica molto amata da Borges e costituisce il soggetto di uno dei suoi più celebri racconti: La biblioteca di Babele (nella raccolta Finzioni) che più di ogni altro testo può mostrare lo stile narrativo iper-intellettualistico di Borges: l’io narrante, immagine anche troppo evidente dell’uomo, descrive nell’intero racconto le prerogative della Biblioteca, dove vive da sempre e dove morirà, tra non molto tempo, essendo ormai alla fine della vita. La Biblioteca fin dalla prima riga è identificata nell’Universo: «La Biblioteca esiste ab aeterno» recita il primo degli assiomi scanditi dal narratore. Alla struttura della Biblioteca sembra presiedere un ordine che si rivela invece insensato e indecifrabile e l’uomo, «imperfetto bibliotecario» che vi vive vi ricerca invano affannosamente un senso, che è il senso stesso della vita umana (a questa incessante e sempre vana ricerca alludono i riferimenti, spesso cifrati, che sono fatti nel racconto, alle varie indagini filosofiche e religiose che si sono susseguite nel tempo). Jorge Luis Borges.

Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 2 385


«Tutto accade per diventare libro» Borges utilizza la prediletta dimensione del fantastico per esplorare tematiche filosofiche, come quella del tempo (➜ T6 OL), della presenza di Dio, della natura del reale: per Borges la realtà è indecifrabile mistero, “labirinto” (altra immagine-simbolo prediletta dallo scrittore accanto a quella della biblioteca e dello specchio) in cui l’uomo si aggira in cerca di qualche segno rivelatore. Se la realtà è priva di consistenza oggettiva, paradossalmente è più “reale” proprio il mondo di carta in cui si ritrovano e ritornano temi e segni familiari: Borges pensa infatti che ogni scrittura (compresa la sua) sia una “riscrittura”, perché tutto è già stato detto da qualcun altro e verrà ridetto in futuro: questa concezione ha a che fare con la visione borgesiana del tempo, che non ha una natura rettilinea ma circolare, in cui tutto torna. Concetto che Borges deriva dalle religioni e filosofie orientali. Una dimensione postmoderna Raffinato erudito, Borges costruisce molti suoi racconti, più che su riferimenti reali, sulla letteratura stessa e proprio per questo è considerato uno degli autori emblematici del postmoderno: «La maggior parte di quello che scrivo nasce da quel che leggo»; e più che le esperienze della vita, è il mondo dei libri quello in cui si muove la sua scrittura sofisticata e intellettualistica, che rifiuta categoricamente ogni forma di realismo: «Tutto accade per diventare libro». Per la sua natura razionalistica il fantastico di Borges è vicino a quello di Calvino, che del resto ammirava lo scrittore argentino: Borges può anche utilizzare modalità narrative codificate, ad esempio quelle canoniche del poliziesco, ma sempre per proporre alla fine una tematica di tipo filosofico, relativa all’enigma della condizione umana, in una prospettiva comunque laica. Le opere La vena narrativa di Borges si esprime al meglio nel racconto breve: le due raccolte meritatamente più celebri sono Finzioni (1944: per l’autore finzione è un’invenzione intellettuale che sottende un significato allegorico) e L’Aleph (1949: aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico) a cui seguono Il manoscritto di Brodie (1970) e Il libro di sabbia (1975). Mescolano prosa e poesia due raccolte degli anni Sessanta: L’artefice (1960) e L’elogio dell’ombra (1965). Del 1984 è Atlante, una suggestiva raccolta di appunti sui viaggi compiuti con la scrittrice argentina María Kodama, in cui i luoghi visitati si trasformano in luoghi simbolici che riconducono all’immaginario borgesiano. Legate al suo interesse preminente per il fantastico sono l’Antologia della letteratura fantastica, scritta in collaborazione con il narratore argentino Adolfo Bioy Casares e pubblicata nel 1940, e il fascinoso Manuale di zoologia fantastica (con Margarita Guerrero, 1957). René Magritte, L’equatore, 1939 (collezione privata).

Opere di Borges Jorge Luis Borges

• Finzioni • L’Aleph

• racconti sofisticati, ricchi di riferimenti colti e filosofici e di immagini emblematiche • uno scrittore “filosofo”

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Jorge Luis Borges

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

Un racconto-parabola Parabola del Palazzo, L’artefice

J.L. Borges, Tutte le opere, a c. di D. Porzio, Mondadori, Milano 2008, vol. I

Esemplare per illustrare la natura dell’immaginario fantastico borgesiano e le peculiarità della sua scrittura, il breve racconto Parabola del Palazzo rivela fin nel titolo una tendenza ricorrente nell’opera dello scrittore argentino: anche quando non espressamente indicato, molti suoi racconti tendono ad assumere il carattere di una parabola su temi a lui cari (come ad esempio nel celebre La casa di Asterione o nella stessa Biblioteca di Babele).

Quel giorno, l’Imperatore Giallo mostrò il suo palazzo al poeta1. Si lasciarono indietro, in lunga sfilata, le prime terrazze occidentali che, come gradini di un quasi infinito anfiteatro, declinano verso un paradiso o giardino2 i cui specchi di metallo e le cui intricate siepi di ginepro prefiguravano già il labirinto3. Lietamente si per5 dettero in esso, dapprima come se condiscendessero a un giuoco e poi non senza inquietudine, perché i suoi diritti viali peccavano per una curva appena percettibile ma continua e segretamente erano cerchi4. Verso la mezzanotte, l’osservazione dei pianeti e l’opportuno sacrificio d’una tartaruga permisero loro di sciogliersi da quella regione che pareva stregata, ma non dal sentimento d’essere perduti, che li 10 accompagnò sino alla fine. Anticamere e cortili e biblioteche percorsero poi e una sala esagonale con una clessidra5, e una mattina scorsero da una torre un uomo di pietra, che poi perdettero di vista per sempre. Molti splendenti fiumi attraversarono in canoe di sandalo, o un solo fiume più volte. Passava il séguito imperiale e la gente si prosternava, ma un giorno giunsero a un’isola dove ci fu chi non fece così, 15 perché non aveva mai visto il Figlio del Cielo e il carnefice dovette decapitarlo. Nere chiome e nere danze e complicate maschere d’oro videro con indifferenza i loro occhi; il reale si confondeva col sognato o, per meglio dire, il reale era una delle configurazioni del sogno6. Pareva impossibile che la terra fosse altro che giardini, acque, architetture e forme di splendore. Ogni cento passi una torre tagliava l’aria; 20 per gli occhi il loro colore era identico, ma la prima era gialla e l’ultima scarlatta, tanto delicate erano le gradazioni e così lunga la teoria7 delle torri. Ai piedi della penultima, il poeta (che stava come estraneo agli spettacoli ch’erano la meraviglia di tutti) recitò la breve composizione che oggi uniamo indissolubilmente al suo nome e che, come sogliono ripetere gli storici più eleganti, gli procurò l’im25 mortalità e la morte. Il testo è andato perduto; c’è chi sostiene che constava di un verso; altri, di una sola parola. Quel ch’è certo e incredibile è che nella poesia stava intero e minuzioso il palazzo enorme, con ciascuna delle celebri porcellane e ciascun disegno di ciascuna porcellana e le penombre e le luci dei crepuscoli e ciascun istante sventurato o felice delle gloriose dinastie di mortali, di dèi e di draghi che avevano

1 Quel giorno… al poeta: il racconto si iscrive in una dimensione temporale indeterminata, così come sono indefiniti i due personaggi (il poeta, l’Imperatore Giallo, presumibilmente appartenente a una dinastia di imperatori della Cina). 2 un paradiso o giardino: in greco, appunto, paradiso significa “giardino”. La

precisazione nasce da una considerazione erudita della cultura in Borges. 3 il labirinto: ecco una delle immaginisimbolo predilette da Borges. 4 i suoi dritti... cerchi: l’impercettibile metamorfosi che dalla linea retta muta i viali in cerchi è specchio della visione della realtà di Borges come sfuggente ed enigmatica.

5 una clessidra: rimando al tema del Tempo, centrale nell’opera di Borges (che nella sua abitazione a Buenos Aires teneva esposta una grande clessidra). 6 il reale... sogno: ricorrente nell’opera di Borges il tema dell’indistinzione tra sogno e realtà. 7 teoria: sequenza.

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abitato in esso dall’interminabile passato. Tutti tacquero, ma l’Imperatore esclamò: «Mi hai rapito il palazzo!» e la spada di ferro del carnefice falciò la vita del poeta. Altri raccontano diversamente la storia. Nel mondo non possono esservi due cose uguali; bastò (ci dicono) che il poeta pronunciasse la poesia perché il palazzo sparisse, come abolito e folgorato dall’ultima sillaba. Tali leggende, naturalmente, non 35 sono che finzioni letterarie. Il poeta era schiavo dell’Imperatore e morì come tale; la sua composizione cadde nell’oblio perché meritava l’oblio e i suoi discendenti cercano ancora, e non la troveranno, la parola dell’universo8. 30

8 la parola dell’universo: la parola che possa spiegare o intuire l’universo.

Analisi del testo Un compendio del fantastico borgesiano Nella sua brevità il testo costituisce quasi un compendio dei motivi più tipici di Borges, delle caratteristiche della sua scrittura e della particolare fisionomia che assume il “fantastico” nella sua opera. Quest’ultimo è impiegato in modo tutto novecentesco, in rapporto a una visione della realtà che ha perso ogni connotato di assoluta oggettività. Tipicamente novecentesco è inoltre l’uso allegorico del fantastico: nelle intenzioni dell’autore, il racconto si configura come una parabola. Proprio per questo risultano del tutto indeterminati e favolosi la dimensione spazio-temporale e gli stessi personaggi (il poeta e l’Imperatore Giallo) non hanno alcun connotato psicologico o sociologico che li identifichi. Nel testo sono chiamate a raccolta le immagini-simbolo care a Borges: il Palazzo (forse memore del Palazzo ariostesco d’Atlante, ben noto a Borges) è trasposizione simbolica della realtà, analoga alla biblioteca: è immenso, sembra moltiplicarsi a mano a mano che i due lo percorrono. Il palazzo include il labirinto, che simboleggia una realtà metamorfica, illusoria, presenta un ordine apparente (così come la biblioteca), ma mette in scacco l’uomo, che non riesce a comprenderne le leggi. Altra presenza borgesiana è il sogno a cui il testo fa diretto riferimento in un’asserzione “teorica”: «il reale si confondeva col sognato o, per meglio dire, il reale era una delle configurazioni del sogno». Il sogno, ingrediente canonico del fantastico, è presenza costante nell’opera di Borges, ispira molti suoi testi. Qui è significativa la non distinzione sogno-realtà: il palazzo esiste davvero o è un sogno bellissimo? Si ricordi che Borges era completamente cieco, e “vedeva” solo nel ricordo o, appunto, solo sognando, ed effettivamente il bellissimo palazzo ha i tratti del sogno con i suoi giardini, acque, fiumi. Centro del racconto è il momento in cui il poeta descrive con le sue parole, forse con una sola parola, le meraviglie del palazzo. L’imperatore lo fa uccidere perché gli ha “rubato il palazzo”. Ricorre qui il tema borgesiano del potere della letteratura, capace di possedere il mondo nella parola, di renderlo “reale”, e addirittura di sostituirlo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché l’imperatore fa uccidere il poeta? ANALISI 2. Quali aspetti rendono il racconto lontano da ogni prospettiva realistica? 3. Nel racconto viene nominata a un certo punto una clessidra, richiamo alla visione borgesiana del Tempo, che non ha una natura rettilinea ma circolare, in cui tutto torna: rifletti sulla modalità con cui Borges utilizza la dimensione del fantastico per esplorare una tematica filosofica, come quella indicata.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. L’immagine-simbolo del “labirinto”, tra le predilette dal grande scrittore argentino, allude a una concezione non lineare, intricata, tortuosa della realtà: quale visione dell’esistenza umana vi è associata? La condividi? Come vivi la realtà della vita?

online T6 Jorge Luis Borges Un racconto sul tema del tempo Il miracolo segreto, Finzioni

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2 Bulgakov: fantastico e critica etico-politica Michail Bulgakov (1891-1940) è stato giornalista, romanziere e drammaturgo. Ha operato nella Russia post-rivoluzionaria a partire dal 1924, anno in cui pubblica su rivista le prime puntate del romanzo La guardia bianca, che incontra subito l’ostilità della censura. A causa dei contenuti religiosi e ferocemente satirici delle sue opere, è stato sottoposto alla pesante censura del regime stalinista che gli impedì anche l’espatrio, dopo aver proibito la rappresentazione dei suoi testi teatrali e la pubblicazione delle sue opere. È morto lasciando molti scritti inediti, tra cui il suo capolavoro: il romanzo Il Maestro e Margherita, che aveva iniziato nel 1928 e aveva portato avanti, riscrivendolo e correggendolo, fino agli ultimi giorni di vita. L’unica copia dattiloscritta (il manoscritto venne distrutto) è stata conservata dalla moglie di Bulgakov. Il romanzo è stato pubblicato solo nel 1966 sulla rivista «Moskva», ma mutilato da massicci interventi censori. Solo nel 1973, nell’Unione Sovietica, si è potuto leggere integralmente il romanzo, ormai conosciuto e apprezzato negli altri paesi, compresa l’Italia (dove è stato tradotto per la prima volta nel 1967).

Il Maestro e Margherita: un romanzo del “dissenso”

Michail Bulgakov.

Il Maestro e Margherita rappresenta in modo efficace la cosiddetta letteratura del dissenso nella Repubblica russa sovietica. In quegli anni in cui dominava (e dominerà a lungo) un regime totalitario e repressivo la cultura era soggetta a pesanti imposizioni ideologiche: non solo veniva ostacolata e censurata ogni forma di critica al regime, ma in campo artistico era condannato come “borghese” tutto ciò che aveva a che fare con l’intuizione libera, la fantasia, la dimensione onirica, l’inconscio. In evidente sfida alle direttive del regime, Bulgakov coraggiosamente sceglie di utilizzare il filtro del fantastico e del grottesco (egli stesso definisce fantastico il suo romanzo) per rappresentare in modo critico la realtà intellettuale e politica moscovita, non senza dolorosi risvolti autobiografici: nella figura del Maestro perseguitato e rinchiuso nel manicomio si riflette l’autore stesso. La struttura e le tecniche narrative Il Maestro e Margherita è un romanzo di 32 capitoli titolati, più un epilogo. Assai originale è la struttura, che vede la sovrapposizione (in una sorta di “doppio romanzo”) di una narrazione che riguarda la Russia post-rivoluzionaria e di un’altra (quattro ampi capitoli) incentrata sulla figura di Ponzio Pilato e sulla Passione di Gesù, non senza richiami profondi tra le due narrazioni: al centro del “romanzo di Pilato” è infatti la riflessione sulla natura negativa del Potere, che, nella Repubblica Russa di Bulgakov, mostrava il suo volto più sinistro. Ai “due romanzi” corrispondono diverse modalità di scrittura: il romanzo di Pilato non presenta interventi dell’autore, è condotto con una narrazione impersonale, quasi oggettiva, nell’altro l’autore è sempre presente e intrattiene un dialogo con il lettore e con i personaggi stessi. Al registro sostanzialmente lirico-tragico del primo, si contrappone quello buffonesco-satirico del secondo. Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 2 389


Il soggetto Il romanzo principale è ambientato a Mosca e fa riferimento soprattutto al mondo degli intellettuali e del teatro cui Bulgakov apparteneva: l’autore immagina che un terzetto di diavoli arrivi a Mosca. Ognuno dei tre ha una specifica fisionomia: il professor Woland, erudito e uomo di mondo (➜ T7 OL), il cinico, ipocrita, imbroglione Korov’ev, alias Fagotto, e infine il gatto parlante Behemoth, emanazione bestiale di Satana allo stato puro. Il terzetto, grazie alle facoltà soprannaturali di cui dispone (apparire e scomparire, assumere l’aspetto di altre persone), sconvolge la vita di Mosca, in particolare il mondo intellettuale. In una ridda indiavolata di vicende vengono smascherate l’ipocrisia della cultura allineata alle direttive del regime, le meschinità della burocrazia e le carenze della società comunista. Particolarmente godibile è il capitolo XII in cui il terzetto si esibisce in scene di magia che la dirigenza del Partito ha consentito a patto che si sveli al pubblico l’inganno: al contrario, il terzetto diabolico, getterà lo scompiglio, dimostrando che la magia esiste davvero e smascherando ferocemente le meschinità umane dei dirigenti. In un manicomio, dove anche i dissidenti sono internati come pazzi, il poeta di regime Ivan incontra il Maestro, proiezione dell’autore, che gli racconta del suo amore per Margherita, che non ha più potuto rivedere, e del romanzo online su Pilato, la cui pubblicazione è impedita dalla censura. T7 Michail Bulgakov Uno strano incontro Durante un sabba suscitato da Woland, finalmente il Maestro è Il Maestro e Margherita, cap. I liberato dal manicomio e si ricongiunge all’amata Margherita.

Il Maestro e Margherita

PUBBLICAZIONE

iniziato nel 1928; pubblicato postumo nel 1966 con ampi interventi di censura; il testo integrale viene pubblicato in Unione Sovietica soltanto nel 1973, mentre circolava da tempo in altri paesi. In Italia fu tradotto nel 1967

GENERE

romanzo

STRUTTURA

32 capitoli titolati e un epilogo. Presenza di un “doppio romanzo”: “romanzo moscovita” e “romanzo di Pilato”

CONTENUTO

rappresentazione critica della realtà intellettuale e politica moscovita

FINALITÀ

uso del fantastico per dare voce al dissenso e alla critica del mondo sovietico

STILE

il “primo” romanzo ha un registro lirico-tragico, il “secondo” un registro buffonesco-satirico

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3 L’antiutopia di Orwell Uno scrittore “impegnato” 1984 è il titolo di un celebre romanzo dello scrittore inglese George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair (1903-1950). Nato in India (il padre era un funzionario dell’Impero britannico in India), Orwell studiò in Inghilterra, ma tornò in India nel 1922 per arruolarsi nella polizia imperiale. La conoscenza della dura realtà del colonialismo è alla base del primo romanzo, Giorni birmani (1934). Ritornato in Inghilterra, Orwell decide di diventare scrittore, affrontando la miseria e facendo il lavapiatti e il commesso per mantenersi. La conoscenza diretta delle difficili condizioni di vita degli ambienti sociali più bassi, lo porta ad accostarsi a posizioni politiche socialiste e a maturare un’idea impegnata del mestiere di scrittore. Nel 1937 partecipa alla guerra civile spagnola militando nelle file repubblicane; un’esperienza da cui nasce Omaggio alla Catalogna (1938), dove, oltre alla condanna del fascismo, emerge la denuncia dei metodi antidemocratici del Partito comunista. Nel 1945 pubblica La fattoria degli animali (Animal Farm), una favola satirica in cui è rappresentato in forma allegorica il fallimento della rivoluzione comunista. Il libro ebbe un successo internazionale. Tra il 1947 e il 1948 scrive il suo secondo, celebre romanzo: 1984, segnato da un cupo pessimismo sul futuro dell’umanità. Pubblicato nel 1949, anche questo romanzo riscosse grande successo. Orwell morì nel 1950.

1984: un romanzo distopico

George Orwell alla BBC nel 1943.

Il romanzo deriva il titolo dalla data in cui si immagina lo svolgimento dei fatti narrati. La data è ricavata invertendo le ultime due cifre dell’anno (1948) in cui Orwell stese la seconda redazione del romanzo. Allo scrittore sembrava che il 1984 fosse un tempo abbastanza lontano per ambientarvi una situazione fantastica, ma d’altra parte ancora abbastanza vicino al tempo in cui scriveva e al pubblico dei lettori: il successo immediato del libro ne testimonia la stringente attualità. Gli eventi narrati si svolgono in un futuro presentato come raccapricciante. Nel mondo vi sono ormai solo tre superstati: Oceania, Eurasia e Estasia, continuamente in guerra tra di loro. Londra, dove la vicenda è ambientata, fa parte dell’Oceania, ma l’Inghilterra è ormai ridotta a un’area marginale e Londra stessa è resa ormai irriconoscibile: nell’antica capitale regnano la tristezza, lo squallore, determinati dall’azione massificante di un’ideologia politica volta al controllo totale della vita pubblica e privata. Essa ha al vertice il Grande Fratello, onnipresente in immagine e attraverso gli slogan in ogni luogo, ma che nessuno conosce. Ne eseguono le volontà le autorità del “Partito” attraverso i vari ministeri, come quello dell’Amore, della Verità ecc. Sui cittadini viene esercitato un controllo capillare: ognuno è osservato costantemente attraverso telecamere poste anche nelle abitazioni, con lo scopo di renderli del tutto succubi del sistema, azzerando ogni loro sentimento e ogni libera espressione critica di pensiero. È già operativo un programma per omologare anche il linguaggio (è quella che nel romanzo viene chiamata neolingua). In questo contesto si inserisce la vicenda del protagonista, Winston Smith, funzionario del Ministero della Verità, che si innamora di Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 2 391


Julia e riesce a trovare un rifugio nascosto per incontrarsi con lei. Si lega anche a un movimento di resistenza interna (detto la Fratellanza) che intende rovesciare l’odiato regime. Ma tutto si rivela un inganno: in realtà è sempre stato spiato e il movimento stesso è opera di provocatori. Arrestato e torturato, finirà per rinnegare la donna amata e accettare come unico oggetto d’amore il Grande Fratello. Un messaggio attuale Il romanzo di Orwell, che si inscrive nel genere dell’antiutopia (➜VOL 2A C5), è certo motivato da una visione profondamente pessimistica: lo scrittore proietta in un futuro non troppo lontano, esasperandole, le strategie del consenso di massa che le dittature avevano applicato con gli esiti tragici che tutti conoscevano. Ispira l’opera il timore che la sopraffazione da parte di ideologie totalitarie, sostenuta da mezzi tecnologici sempre più avanzati e sofisticati, possa ripresentarsi in forme ancora più gravi. L’invenzione fantastica è quindi finalizzata qui a un monito forte, rivolto anche ai lettori futuri: in un’era ipertecnologica come la nostra, la terribile fantasia di Orwell mantiene ancora tutta la sua sconcertante attualità.

1984 DATA

scritto tra il 1947 e il 1948; pubblicato nel 1949

GENERE

romanzo distopico

CONTENUTO

rappresentazione di un mondo futuro dominato dalle strategie del consenso di massa supportate dall’ipertecnologia

FINALITÀ

uso del fantastico per affermare una visione pessimistica del futuro

George Orwell

T8

Il Grande Fratello vi guarda 1984

G. Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, intr. di A. Chiaruttini, Mondadori, Milano 1973

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Cittadinanza digitale competenza 12

È l’inizio del romanzo, che introduce l’inquietante atmosfera che domina nell’opera e il suo tema portante.

Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell’ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui. 5 L’ingresso rimandava odore di cavoli bolliti e di vecchi tappeti sfilacciati. Nel fondo, un cartellone a colori, troppo grande per essere affisso all’interno, era stato inchio-

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dato al muro. Rappresentava una faccia enorme, più larga d’un metro: la faccia d’un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli. Winston s’avviò per le scale. Era inutile tentare l’ascensore. Anche nei 10 giorni buoni funzionava di rado, e nelle ore diurne la corrente elettrica era interrotta. Faceva parte del progetto economico in preparazione della Settimana dell’Odio1. L’appartamento era al settimo piano e Winston, che aveva i suoi trentanove anni e un’ulcera varicosa sulla caviglia destra, saliva lentamente, fermandosi ogni tanto per riposare. A ciascun pianerottolo, proprio di fronte allo sportello dell’ascensore il 15 cartellone con la faccia enorme riguardava dalla parete. Era una di quelle fotografie prese in modo che gli occhi vi seguono mentre vi muovete. IL GRANDE FRATELLO vi guarda, diceva la scritta appostavi sotto. Dentro all’appartamento una voce dolciastra leggeva un elenco di cifre che aveva qualche cosa a che fare con la produzione della ghisa. La voce veniva da una 20 placca di metallo oblunga, simile a uno specchio opaco, che faceva parte della superficie della parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò un poco, ma le parole si potevano distinguere, tuttavia, sempre assai chiaramente. Quell’apparecchio (che veniva chiamato teleschermo) si poteva bensí abbassare ma non mai annullare del tutto. Si diresse alla finestra, piccola fragile figuretta, la cui 25 magrezza era accentuata dalla tuta azzurra in cui consisteva l’uniforme del Partito. I capelli erano biondi, molto chiari, il colorito della faccia lievemente sanguigno, la pelle raschiata da ruvide saponette e da lamette che avevano perso il filo da tempo, e dal freddo dell’inverno che proprio allora era finito. Fuori, anche attraverso i vetri chiusi della finestra, il mondo pareva freddo. Giù, 30 nella strada, mulinelli di vento giravano polvere e carta straccia a spirale e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse d’un luminoso azzurro, nessun oggetto all’intorno sembrava rimandare il colore, con l’eccezione dei cartelloni che erano incollati da per tutto. La faccia dai baffi neri riguardava da ogni cantone. Ce n’era una proprio nella casa di fronte. Il grande fratello vi guarda, diceva la scritta, mentre gli occhi 35 neri fissavano con penetrazione quelli di Winston. Più sotto, a livello della strada, un altro cartellone, stracciato a un angolo, sbatteva col vento, scoprendo e nascondendo, alternativamente, la parola SOCING2. Lontano, un elicottero volava fra un tetto e l’altro, se ne restava librato per qualche istante come un moscone, e poi saettava con una curva in altra direzione. Era la squadra di polizia, che curiosava 40 nelle finestre della gente. Le squadre non erano gran che importanti tuttavia. Quella che soprattutto contava era la polizia del pensiero, la cosiddetta Psicopolizia. Alle spalle di Winston la voce del teleschermo barbugliava ancora qualcosa sulla produzione della ghisa e il completamento del Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualsiasi suono che Winston avesse prodotto, 45 al disopra d’un sommesso bisbiglio, sarebbe stato colto; per tutto il tempo, inoltre, in cui egli fosse rimasto nel campo visivo comandato dalla placca di metallo, avrebbe potuto essere, oltre che udito, anche veduto. Naturalmente non vi era nessun modo per sapere esattamente in quale determinato momento vi si stava guardando. Quanto spesso e con quali principi la Psicopolizia veniva a interferire sui cavi che vi riguardavano, 50 era pura materia per congetture. E sarebbe stato anche possibile che guardasse tutti, 1 Settimana dell’Odio: i sudditi di Oceania (il continente formato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America) pe-

riodicamente erano addestrati a odiarsi e ad amare solo il Grande Fratello.

2 SOCING: la sigla significa “Socialismo inglese”.

Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 2 393


e continuamente. Ad ogni modo avrebbe potuto cogliervi sul vostro cavo in qualsiasi momento avesse voluto. Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito, e che a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto. 55 Winston teneva le spalle voltate al teleschermo. Era piú sicuro: sebbene, come anche lui sapeva benissimo, perfino un paio di spalle può essere rivelatore. Un chilometro lontano, il Ministero della Verità, da cui dipendeva il suo impiego, si levava alto e bianco sul tetro paesaggio. Questa, pensò con una sorta di vaga nausea, questa era Londra, la città principale di Pista Prima, che era la terza delle più popolose 60 province di Oceania3. [...] Il Ministero della Verità, Miniver in neolingua4, era molto diverso da ogni altra costruzione che si potesse vedere all’intorno. Consisteva, infatti, in una enorme piramide di lucido, candido cemento, che saliva, a gradini, per cento metri. Dal luogo dove si trovava Winston si potevano leggere, stampati in eleganti caratteri sulla sua 65 bianca facciata, i tre slogans del Partito: LA GUERRA È PACE LA LIBERTÀ È SCHIAVITÚ L’IGNORANZA È FORZA Si diceva che il Ministero della Verità contasse tremila locali sul livello del terreno e 70 altrettanti in ramificazioni sotterranee. Sparsi nel centro di Londra, c’erano altri tre edifici d’aspetto e di mole simili. Essi facevano parere così microscopiche tutte le altre case, che dal tetto degli Appartamenti della Vittoria avreste potuto abbracciarli tutt’e quattro con la stessa occhiata. Erano le sedi dei quattro Ministeri nei quali era divisa tutta l’organizzazione governativa. Il Ministero della Verità che si occupava 75 della stampa, dei divertimenti, delle scuole e delle arti. Il Ministero della Pace, che si occupava della guerra. Il Ministero dell’Amore che manteneva l’ordine e faceva rispettare la legge. E il Ministero dell’Abbondanza che era responsabile dei problemi economici. Ecco i loro nomi in neolingua: Miniver, Minipax, Minamor, Minabbon5. Il Ministero dell’Amore era quello che piú incuteva paura. Sulle sue pareti non 80 s’aprivano finestre. Winston non era mai stato dentro al Ministero dell’Amore, e nemmeno s’era mai azzardato a entrare nel raggio d’un mezzo chilometro da esso. Era impossibile entrarci altro che per rigorose ragioni d’ufficio, e anche allora attraverso un labirinto di passaggi protetti dal filo spinato, porte d’acciaio e feritorie nascoste, provvedute da mitragliatrici. Anche le strade che conducevano ai recinti 85 erano sorvegliate da un corpo di guardie in uniforme nera, con spaventevoli facce da gorilla e armato di pesanti mazze. Winston si volse di scatto. Fece assumere alla sua fisionomia l’espressione di tranquillo ottimismo che era opportuno mantenere allorché ci si rivolgeva verso il teleschermo.

3 Oceania: cfr. nota 1. 4 neolingua: la “nuova lingua” che in alcuni decenni soppianterà del tutto in Oceania l’inglese e la cui diffusione è promossa dal regime, evidentemente per ragioni politiche. Assai significativa (e di agghiacciante attualità) è l’Appendi-

ce al romanzo: I principi della neolingua (➜ ANALISI DEL TESTO). 5 Miniver... Minabbon: i vari ministeri, contrassegnati da sigle, assolvono compiti esattamente contrari alla loro denominazione: il Ministero della Verità è deputato alla falsificazione delle notizie e delle

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informazioni, nel Ministero dell’Amore («quello che incuteva più paura») ci si occupa di eliminare nelle persone ogni sentimento, il Ministero della Pace promuove la guerra, il Ministero dell’Abbondanza è preposto a non assicurare il benessere alla maggior parte delle persone, e così via.


Analisi del testo Un’inquietante profezia Nella prefazione a una nuova edizione del libro (avvenuta proprio nel 1984), Umberto Eco scrive: «Quello che Orwell fa non è tanto di inventare un futuro possibile ma incredibile, quanto di lavorare di collage su un passato credibilissimo perché è già stato possibile. E di insinuare il sospetto [...] che il mostro del nostro secolo fosse la dittatura totalitaria e che, rispetto al meccanismo fatale del totalitarismo, le differenze ideologiche contassero in fondo pochissimo [...]. Certamente questa è stata una delle buone ragioni che hanno fatto del libro un grido di allarme, un richiamo e una denuncia, ed è anche per questo che il libro ha affascinato decine di milioni di lettori in tutto il mondo». Eco però aggiunge che i lettori degli anni Ottanta, a quarant’anni dalla pubblicazione del libro, ritrovavano in esso nuovi motivi di attualità: «i lettori hanno continuato a leggere 1984 come un libro sull’attualità, più che come un libro sui futuribili. [...] La satira di Orwell colpisce non solo il nazismo e il comunismo sovietico, ma la stessa civiltà di massa borghese». Eco si sofferma in particolare sull’analogia inquietante tra la neolingua di Oceania e la lingua dei telequiz e della pubblicità. Indubbiamente esistono nel romanzo non pochi elementi di sorprendente attualità: il pericolo che una tecnologia sempre più avanzata possa essere usata come strumento di controllo sociale; che certi spettacoli televisivi di particolare successo possano condizionare i comportamenti di massa; che le notizie possano essere manipolate e strumentalizzate da un potere forte innanzitutto economicamente, sono reali prospettive e non certo fantascienza.

La neolingua Nel testo, a proposito delle sigle che denominano i vari Ministeri, si fa allusione alla neolingua: si tratta dell’invenzione forse più terribile di Orwell per dare concretezza all’idea di potere totalitario e alla società di automi da esso voluta che lo scrittore ritrae in 1984. Orwell spiega organicamente la natura della neolingua e addirittura le sue strutture sintattiche e le caratteristiche lessicali in un’Appendice al romanzo (I principi della Neolingua) che costituisce forse una delle parti più inquietanti e “attuali” di esso, come già Eco sottolineava nella sua prefazione al libro. La neolingua, scrive Orwell nell’Appendice, «era stata inventata per venire incontro alle necessità ideologiche del Socing, o Socialismo inglese […]. Ci si riprometteva che la neolingua sostituisse l’Archeolingua (ovvero l’inglese comune, come si potrebbe anche chiamare) press’a poco attorno all’anno 2050». L’autore spiega che l’obiettivo principale era quello di rendere gradualmente impossibile «un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing)». Nuove parole erano coniate, eliminate le parole indesiderabili o eliminati quei significati che dovevano essere cancellati in riferimento a un determinato termine: ad esempio la parola libero poteva essere usata in una frase come “Questo campo è libero da erbacce” ma non nel significato di “intellettualmente libero” poiché, non esistendo più la libertà politica e intellettuale, doveva essere cancellato il concetto di essa e la parola che vi alludeva. Parole come “onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza e religione” cessavano semplicemente di esistere, erano, in neolingua, archepensare (modo di pensare arcaico) o addirittura psicoreato. Ma la neolingua mirava in generale a una riduzione al minimo delle parole e dei significati, così che venisse eliminata ogni sfumatura: «ogni riduzione rappresentava una conquista, perché più piccolo era il campo della scelta e più limitata era la tentazione di lasciar spaziare il proprio pensiero».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Attraverso quali strumenti i cittadini vengono condizionati? Attraverso quali mezzi è controllata la loro vita? 2. Quale significato rivestono all’interno del regime totalitario in cui è immaginata la vicenda gli slogan stampati sulla facciata del Ministero della Verità? ANALISI 3. Individua nel testo i dettagli che indicano o alludono alla decadenza della città di Londra e all’impoverimento dei cittadini.

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Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Cittadinanza digitale

competenza 12

SCRITTURA 4. Si afferma che il messaggio contenuto nel romanzo di Orwell, motivato dalla sua personale e pessimista visione della realtà, in un’era ipertecnologica come la nostra, mantenga ancora tutta la sua sconcertante attualità. Sei d’accordo con questa affermazione? Quali elementi, a parer tuo, consentono alla terribile fantasia di Orwell di mantenersi ancora attuale? Perché la figura del Grande Fratello, divenuta poi metafora dell’occhio sempre vigile e avvolgente del potere, capace di violare la privacy, continua a esercitare ancora oggi una preoccupante fascinazione? Sviluppa una tua riflessione critica sul tema (max 20 righe).

Sguardo sul cinema The Truman Show

PER APPROFONDIRE

Nel 1998, con la regia di Peter Weir e Jim Carrey nel ruolo del protagonista, esce The Truman Show, un film ispirato al genere televisivo del reality show, che iniziava allora ad affermarsi. Nel film si narra la vicenda di Truman Burbank, un trentenne impiegato in una compagnia di assicurazioni, a cui tutti sembrano voler bene per il suo carattere allegro e spontaneo. Truman vive a Seahaven, una linda e rassicurante cittadina al centro di un’isola. Il giovane ignora di essere, fin dal momento della sua nascita, il protagonista di un reality seguito in tutto il mondo. La sua vita è seguita dalle telecamere 24 ore su 24, la cittadina stessa è un gigantesco set televisivo, tutto è finto anche se apparentemente reale (persino il giorno, la notte, la pioggia sono prodotti artificialmente). Anche gli abitanti della cittadina sono in realtà attori con una parte stabilita dal copione televisivo, compresi la moglie, la madre e l’amico del cuore di Truman. Autore e regista del reality è Christof (interpretato dallo straordinario Ed Harris), presentato nel film come un vero e proprio dio-demiurgo. Con implacabile cinismo, Christof pilota e manipola la vita di Truman secondo le esigenze dell’audience altissima del programma. Improvvisamente Truman inizia a intuire la spaventosa verità; decide allora di fuggire verso la libertà su una barchetta a vela, nonostante il suo terrore del mare. In una scena di

fortissimo impatto, Truman scopre che il “mare” è in realtà un bacino d’acqua chiuso da un fondale di cartapesta dipinto, contro cui la barca va a sbattere. Nonostante Christof cerchi di convincerlo che la vita “finta” è migliore di quella reale che sta fuori dallo studio, Truman sceglie la vita e si congeda dai suoi milioni di fan scomparendo dal video per sempre. La vicenda di Truman (il nome sembra allusivo: true in inglese significa “vero” e Truman è appunto l’unico essere autentico in un mondo finto) può essere considerata una metafora del potere manipolatorio dei media, nei confronti del quale il regista Peter Weir pronuncia una vibrante accusa, ancora più attuale oggi che alla fine degli anni Novanta.

Il Grande Fratello televisivo Grande Fratello è un reality show trasmesso su Canale 5 a partire dal 2000 e tratto da un format della casa di produzione olandese Endemol, denominato Big Brother, nato nel 1999. Il format si è diffuso in tutto il mondo, dalla Colombia all’Albania alle Filippine, diventando il simbolo stesso dei reality show. Anche in Italia Il Grande Fratello ha avuto molto seguito fra i telespettatori (la prima edizione raggiunse addirittura il 60% di share) e ha continuato a essere proposto fino al 2015, anche se nelle ultime edizioni si è verificato un progressivo calo di interesse. Da qui la decisione di sostituirlo con II Grande Fratello VIP (arrivato alla settima edizione) in cui i protagonisti sono figure dello spettacolo o comunque note al pubblico. Il titolo e i caratteri principali del reality richiamano in modo evidente il romanzo di Orwell 1984. Anche nel reality i concorrenti venivano osservati 24 ore su 24 da telecamere collocate in vari punti della casa (denominata La Casa) che li accoglieva per tutta la durata dello show (si è arrivati addirittura a sei mesi di permanenza nell’undicesima edizione) e i telespettatori avevano modo di partecipare a ogni

momento della loro vita, di osservarne e giudicarne i comportamenti. I concorrenti vivevano relativamente isolati dalla società in una sorta di microcosmo e non potevano usare telefoni e computer. Quando lo desideravano potevano confidarsi con il Grande Fratello, che rimaneva un’entità anonima, in una stanza insonorizzata dalle pareti rosse. I concorrenti erano, nella idea originaria, persone qualsiasi, appartenenti a ogni ceto sociale, per favorire l’autoidentificazione degli spettatori e fare della Casa uno specchio verosimile della società (in qualche caso sono stati scelti volutamente rappresentanti delle cosiddette “minoranze”, come un omosessuale dichiarato, due individui che avevano cambiato sesso, o anche portatori di handicap). Il reality fondava la sua attrattiva su una componente voyeuristica: la possibilità di spiare indisturbati le “vite degli altri”, nei quali era facile identificarsi perché erano persone qualunque. Una dinamica analoga si ritrova oggi nella fascinazione esercitata dalla possibilità di poter partecipare, grazie ai social, alla vita degli influencer più noti e seguiti.

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4 Il “realismo magico” di García Márquez Il realismo magico Il capolavoro di Gabriel García Márquez (1928-2014), Cent’anni di solitudine (1967) è oltremodo rappresentativo di un carattere tipico della letteratura latino-americana del Novecento, cioè la commistione tra realismo delle descrizioni, attenzione alla dimensione storica e dimensione mitico-fiabesca, o più in generale fantastica. Un carattere che la critica ha sintetizzato nella formula “realismo magico” o in quella meno nota, ma forse più calzante, ideata dallo scrittore cubano Alejo Carpentier, di «reale-meraviglioso». Il romanzo di García Márquez ebbe enorme successo in Italia e in Europa e la cosa non stupisce: lo scrittore colombiano testimoniava la vitalità del genere romanzo con un’opera dall’intreccio affascinante e personaggi “forti”, in un periodo in cui in Europa i dibattiti critici ne decretavano la morte. La vita Gabriel García Márquez nasce nel 1928 ad Aracataca, sulla costa caraibica della Colombia. Fino all’età di otto anni vive con i nonni paterni. Sono anni importantissimi per la sua formazione e ricchi di suggestioni destinate ad alimentare in seguito la sua ispirazione come narratore: se la figura del nonno, che gli narrava epiche vicende di guerra, ispirerà numerosi suoi personaggi, dai racconti della nonna trarrà invece la dimensione magica e soprannaturale che caratterizza la sua opera. Dopo gli studi liceali, nel 1947 Márquez inizia a frequentare la facoltà di legge, prima a Bogotá, poi, per il clima di violenza che regna nella città, a Cartagena. Ma alla fine agli studi di legge preferisce la letteratura. La sua formazione avviene sui grandi autori europei, da Cervantes a Mann e, in seguito, Virginia Woolf. Tuttavia, a spingerlo a scrivere – disse – fu la lettura del racconto La metamorfosi di Kafka. All’attività di scrittore ha alternato quella di giornalista impegnato. Le vicissitudini politiche dell’America latina portano García Márquez in Europa, da Ginevra a Roma (dove inizia a interessarsi di cinema), a Londra, a Parigi. Tornato poi nel 1957 in America latina, si infiamma per la causa della rivoluzione cubana. In seguito, si sposterà da Città del Messico a Barcellona, sempre accompagnando l’impegno civile e politico alla scrittura. Nel 1967 raggiunge un successo mondiale con Cent’anni di solitudine e nel 1982 riceve il Nobel per la letteratura, pronunciando in quell’occasione un discorso dal significativo titolo: La solitudine dell’America latina. Al suo capolavoro seguono altri romanzi importanti: L’autunno del patriarca (1975), Cronaca di una morte annunciata (1981), L’amore al tempo del colera (1985) fino all’ultimo Memoria delle mie puttane tristi (2005). Muore nel 2014.

Gabriel García Márquez.

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Cent’anni di solitudine online

Video Lo scrittore Alessandro Baricco racconta Cent’anni di solitudine

La trama Il romanzo Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad) fa parte di una specie di “ciclo” incentrato sull’immaginario villaggio di Macondo. L’idea iniziale di questo ciclo risale a molti anni prima della stesura dell’opera (a questa raccolta ideale appartengono anche a vario titolo i romanzi Foglie morte, Nessuno scrive al colonnello e La mala ora, che nel loro insieme costituiscono una preparazione al capolavoro saggiandone temi e situazioni). Nel romanzo García Márquez narra la storia, attraverso varie generazioni, per cento anni appunto, della famiglia Buendía, a partire dalla fondazione di Macondo: il capostipite, José Arcadio, accompagnato dalla moglie Ursula, guida un gruppo di pionieri nella foresta tropicale dove fonda un villaggio (in Macondo rivive in parte Aracataca, luogo natale dell’autore). La storia termina con la morte orribile del neonato ultimo discendente della stirpe dei Buendía, che secondo la profezia è nato con una coda di porco, e con la fine stessa di Macondo dopo un diluvio biblico. Seguendo le vicende delle varie generazioni dei Buendía, il narratore onnisciente alterna il riferimento a eventi reali – che appartengono alla storia dell’America latina, come la sanguinosa guerra civile che si svolse in Colombia tra il 1899 e il 1902, o che rimandano comunque a una precisa realtà storico-sociale (come lo sfruttamento da parte della compagnia statunitense per il commercio delle banane) – alla dimensione magico-fiabesca. Essa ha le sue radici nel patrimonio di narrazioni e di memorie dell’infanzia sedimentate nell’immaginario di Márquez: eventi del tutto irreali, o soprannaturali, come l’ascesa al cielo di Remedios la bella, la presenza di fantasmi, premonizioni e prodigi, sono inseriti con assoluta naturalezza e senza che la voce narrante istituisca la benché minima distinzione rispetto al piano storico-realistico. Anche la rappresentazione della natura contribuisce a creare il particolare clima “magico” del romanzo: «diventa animata, concretizza sentimenti, annuncia avvenimenti, rivela segreti» (Segre). Il tempo del romanzo, come è stato notato, è un tempo circolare (un «tempo curvo» secondo la definizione di Cesare Segre), fluido: si muove in avanti, con anticipazioni, e all’indietro, con regressioni, con assoluta libertà e indistinzione tra passato, presente, futuro, in rapporto a una visione ciclica e “mitica” degli eventi.

Cent’anni di solitudine DATA

1967

GENERE

romanzo

CONTENUTO

rappresentazione della storia generazionale della famiglia Buendía in chiave magico-fiabesca

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Gabriel García Márquez

T9

La solitudine di Macondo Cent’anni di solitudine

G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad. di E. Cicogna, Mondadori, Milano 1988

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Siamo nelle pagine iniziali del romanzo. José Arcadio Buendía, patriarca della famiglia e fondatore di Macondo, dopo un indefinito periodo idillico della vita del villaggio, avverte l’inquieto bisogno di trovare una via che colleghi Macondo alla civiltà, da dove provengono le invenzioni che di tanto in tanto gli zingari fanno conoscere al villaggio. Si avventura così nella sierra con gli stessi uomini che erano con lui quando aveva fondato Macondo.

José Arcadio Buendía ignorava completamente la geografia della regione. Sapeva che verso oriente c’era la sierra1 impenetrabile e al di là della sierra l’antica città di Riohacha2, dove in epoche remote – come gli aveva raccontato il primo Aureliano Buendía, suo nonno – Sir Francis Drake3 si dava allo sport di cacciare i caimani a 5 cannonate; poi li faceva rammendare e riempire di paglia per portarli alla regina Isabella. Nella sua gioventù, lui e i suoi uomini, con donne e bambini e animali e ogni sorta di utensili domestici, avevano attraversato la sierra in cerca di uno sbocco sul mare, e dopo ventisei mesi avevano abbandonato l’impresa e fondato Macondo per non dover intraprendere il cammino di ritorno. Era, quindi, una via che non gli 10 interessava, perché poteva condurlo soltanto al passato. Verso sud c’erano i pantani, coperti da una eterna crema vegetale, e il vasto universo della palude grande, che secondo la testimonianza degli zingari non aveva confini. La palude grande si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti, dove c’erano cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna, che perdevano i naviganti 15 con la malìa delle loro tette madornali4. Gli zingari5 navigavano per sei mesi su quella rotta prima di raggiungere il nastro di terraferma sul quale passavano le mule della posta. In base ai calcoli di José Arcadio Buendía, l’unica possibilità di contatto con la civiltà era il cammino del nord. Perciò munì di utensili per disboscare e di armi da caccia gli stessi uomini che lo avevano accompagnato nella fondazione di 20 Macondo: buttò in uno zaino i suoi strumenti di orientamento e le sue mappe, e intraprese la temeraria avventura. Durante i primi giorni non incontrarono seri ostacoli. Scesero lungo la pietrosa sponda del fiume fino al luogo in cui anni prima avevano trovato l’armatura del guerriero6, e lì penetrarono nel bosco per un sentiero di aranci silvestri7. Alla fine 25 della prima settimana, uccisero e arrostirono un cervo, ma si accontentarono di mangiarne la metà e di salare il resto per i prossimi giorni. Con questa precauzione cercavano di rimandare la necessità di continuare a nutrirsi di pappagalli, la cui carne bluastra aveva un aspro odore di muschio. Poi, per più di dieci giorni, non

1 sierra: catena montuosa, o contrafforte, caratterizzata dalla linea di cresta dentellata (Spagna e America latina). 2 Riohacha: porto sulla costa atlantica della Colombia. 3 Sir Francis Drake: corsaro inglese (1540-1596) che la regina Elisabetta I (qui confusa con Isabella di Spagna, protettrice di Colombo) fece baronetto.

4 cetacei... madornali: il riferimento alla mitica figura delle sirene introduce già alla dimensione del “meraviglioso”. 5 zingari: sono un universo umano mobile che proviene da luoghi remoti e porta a Macondo novità scientifiche vere o presunte tali, curiosità affascinanti, come la calamita che José Arcadio acquista per andare in cerca di oro.

6 l’armatura del guerriero: grazie alla calamita vendutagli dagli zingari, José Arcadio aveva ritrovato un’armatura del XV secolo, all’interno della quale c’era lo scheletro calcificato di un uomo, certo un europeo arrivato lì nell’avventura coloniale. 7 silvestri: selvatici.

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rividero il sole. La terra diventò molle e umida, come cenere vulcanica, e la vegetazione fu sempre più insidiosa e si fecero sempre più lontani i trilli degli uccelli e lo schiamazzo delle scimmie, e il mondo diventò triste per sempre. Gli uomini della spedizione si sentirono oppressi dai loro ricordi più antichi in quel paradiso di umidità e di silenzio, anteriore al peccato originale, dove gli stivali affondavano in pozze di oli fumanti e i machetes8 facevano a pezzi gigli sanguinosi e salamandre 35 dorate. Per una settimana, quasi senza parlare, avanzarono come sonnambuli in un universo di afflizione, appena illuminati dal tenue riverbero di insetti luminosi e coi polmoni oppressi da un soffocante odore di sangue. Non potevano ritornare, perché il sentiero che andavano aprendo al loro passaggio tornava a chiudersi in poco tempo, con una vegetazione nuova che vedevano crescere quasi sotto i loro 40 occhi. «Non importa» diceva José Arcadio Buendía. «L’essenziale è non perdere l’orientamento.» Affidandosi sempre alla bussola, continuò a guidare i suoi uomini verso il nord invisibile, finché pervennero a uscire dalla regione incantata. Era una notte fonda, senza stelle, ma l’oscurità era impregnata di un’aria nuova e pulita. Sfiniti per la lunga traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per 45 la prima volta dopo due settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e polveroso nella silenziosa luce del mattino, c’era un enorme galeone spagnolo. Leggermente piegato a tribordo9, dalla sua alberatura intatta pendevano i brandelli squallidi della velatura, tra sartie adorne di orchidee. Lo scafo, coperto da una nitida corazza di remora10 50 pietrificata e di musco11 tenero, era fermamente inchiavardato12 in un pavimento di pietre. Tutta la struttura sembrava occupare un ambito proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del tempo e alle abitudini degli uccelli. Nell’interno, che la spedizione esplorò con un prudente fervore, non c’era altro che un fitto bosco di fiori. 55 Il ritrovamento del galeone, indizio della vicinanza del mare, frantumò l’impeto di José Arcadio Buendía. Riteneva una burla del suo avverso destino l’aver cercato il mare senza trovarlo, a costo di sacrifici e patimenti incalcolabili, e trovarlo adesso che non l’aveva cercato, messo lì sulla loro strada come un ostacolo inevitabile. Molti anni dopo, il colonnello Aureliano Buendía13 percorse di nuovo la regione, 60 quando era ormai un regolare tragitto di posta, e l’unica cosa che trovò della nave fu l’ossatura carbonizzata in mezzo a un prato di papaveri. Finalmente convinto che quella storia non era stata un prodotto dell’immaginazione di suo padre, si chiese come mai quel galeone avesse potuto addentrarsi fino a quel punto in terraferma. Ma José Arcadio Buendía non si prospettò quella preoccupa65 zione quando trovò il mare, al termine di altri quattro giorni di viaggio, a dodici chilometri di distanza dal galeone. I suoi sogni terminarono davanti a quel mare color cenere, schiumoso e sudicio, che non meritava i rischi e i sacrifici della sua avventura. «Diamine!» gridò. «Macondo è circondata dall’acqua da ogni parte.» 30

8 machetes: grossi coltelli usati nell’America latina per tagliare la canna da zucchero, o per aprire sentieri nella fitta vegetazione delle foreste.

9 a tribordo: a dritta, cioè sul lato del natante che si trova a destra di chi guarda verso prua. 10 remora: pesce dal corpo lungo e slanciato; con una specie di ventosa, situata sul capo, si attacca ad altri grossi pesci o a natanti.

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11 musco: muschio. 12 inchiavardato: serrato, bloccato. 13 il colonnello Aureliano Buendía: è il figlio di José Arcadio.


Analisi del testo Il tema della solitudine Il suggestivo titolo del romanzo mette in primo piano il tema della solitudine, che attraversa l’opera e connota le storie dei singoli personaggi, ma identifica anche Macondo: microcosmo lontano dal mondo civile, i cui abitanti stentano a uscire, e quando lo fanno restano delusi e frustrati, come qui José Arcadio, il suo fondatore. Dopo una dura marcia nell’ostile foresta, scopre solo l’isolamento, la “solitudine” fisica di Macondo: «“Diamine!” gridò. “Macondo è circondata dall’acqua da ogni parte”». Secondo la critica, solitudine è parola chiave per leggere l’intero romanzo: solitudine è l’incapacità di comunicare, ma anche la tendenza alla fuga dalla realtà. Márquez riflette nella storia di Macondo la storia stessa dell’America latina: l’indifferenza, l’indolenza, l’assenza di solidarietà che ne hanno favorito prima lo sfruttamento coloniale, l’imperialismo e infine l’affermarsi delle dittature.

La natura tra reale e fantastico L’avanzata degli uomini alla ricerca del “varco” che avrebbe dovuto mettere Macondo in contatto col mondo è destinata allo scacco: Macondo è irrimediabilmente isolata, circondata dalle acque di una vasta palude e, poco lontano, dal mare. In questo senso il galeone, relitto che viene dal passato, che appare quasi per magia agli occhi attoniti dei suoi abitanti, è materializzazione simbolica e rivelatrice di quel mare «schiumoso e sudicio» che trascina i sogni di José. L’itinerario degli uomini attraverso la fittissima vegetazione è una discesa verso il nulla, non ha un approdo. La natura, metamorfica, si colora di significati simbolici, diventa proiezione degli stati d’animo degli uomini: natura avversa, che sembra tagliare per sempre la possibilità del ritorno indietro, ma anche fascinosa. Il testo è un bellissimo assaggio del modo di raccontare di Márquez: visionario, onirico, anche quando sembra realistico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SINTESI 1. Sintetizza il brano (8 righe circa). SCRITTURA 2. Facendo riferimento al brano, rifletti sulla rappresentazione della natura che contribuisce a creare il particolare clima “magico” del romanzo e spiega, in un testo di massimo 15 righe: • in quale rapporto è la natura con gli avvenimenti narrati; • perché è possibile affermare che la natura rappresenta lo stato d’animo dei personaggi; • quali significati simbolici connotano la natura magica del romanzo; • per quale ragione la solitudine del protagonista (e in generale del villaggio di Macondo) si proietta nella solitudine del paesaggio. 3. La parola chiave per leggere il capolavoro di Márquez è solitudine, presentata come incapacità di comunicare, ma anche come fuga dalla realtà. Come vivi tu la solitudine? Quale delle due componenti della solitudine che caratterizzano il romanzo ti sembra più vicina al tuo modo di essere?

Fissare i concetti Temi e forme del fantastico novecentesco 1. Qual è l’importanza del romanzo Il deserto dei Tartari di Buzzati? 2. Perché l’opera di Savinio è stata accostata al surrealismo? 3. Quali sono le caratteristiche del fantastico allegorico di Buzzati? 4. Quali sono le caratteristiche del fantastico nelle opere di Landolfi? 5. Perché il modo di raccontare di Márquez è definito «visionario, onirico, anche quando sembra realistico»? 6. Perché Il Maestro e Margherita di Bulgakov può essere definito un romanzo del “dissenso”? 7. A quale genere appartiene il romanzo di Orwell 1984?

Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia 2 401


Il Novecento (Prima parte) Temi e forme del fantastico novecentesco

Sintesi con audiolettura

1 I maestri del fantastico novecentesco in Italia

Nel Novecento continua in Europa una ricca produzione narrativa che si può ricondurre al genere del fantastico. Ma nuove sono le modalità di rappresentazione: tra le principali l’emergere della dimensione filosofica e simbolica, l’esplorazione dell’inconscio, l’immissione del fantastico nel quotidiano, la rinuncia alla componente canonica della paura tipica del fantastico ottocentesco. Anche in Italia si producono opere narrative di alto livello che in vario modo si possono ricondurre al fantastico. Tre sono gli autori principali: Buzzati, Landolfi e Savinio. Ma anche Calvino, in alcune fasi della sua produzione, utilizza il codice fantastico, associandolo alla componente iper-razionale tipica della sua personalità di scrittore. Dino Buzzati (1906-1972) è stato autore molto popolare, in particolare con Il deserto dei Tartari e con le molte raccolte di racconti. Il romanzo evidenzia in modo emblematico i temi cari allo scrittore, che sono sempre di carattere esistenziale: la frustrazione delle aspirazioni, il logorio del tempo, l’incombere della morte. Nei racconti si possono notare la commistione, tutta novecentesca, di reale-quotidiano e dimensione fantastica, la propensione a strutturare intrecci di carattere simbolico, la grande abilità nel costruire la suspense. Tommaso Landolfi (1908-1979) è uno scrittore da tempo considerato dalla critica uno dei grandi del Novecento, ma è tuttora poco noto al vasto pubblico, soprattutto per il carattere sofisticato e raffinato della sua scrittura. In Landolfi il fantastico, che caratterizza soprattutto la sua prima produzione, ha tratti marcatamente surreali ed è espressione di componenti inconsce. Nella sua ampia produzione spicca il romanzo La pietra lunare, storia surreale dell’amore tra un giovane e una ragazza-capra. Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea de Chirico, 1891-1952) è autore complesso, aperto alle suggestioni culturali europee. Pittore d’avanguardia, vicino al surrealismo, anche nelle sue prove letterarie Savinio si affida a una poetica dichiaratamente antirealistica, incentrata sull’adozione di un punto di vista infantile e visionario. Dominano nei suoi romanzi e racconti (la raccolta principale è Casa «la Vita») prospettive oniriche, contenuti inconsci, associati spesso a immagini di ascendenza mitologica.

2 Testimonianze e “usi” del fantastico fuori d’Italia

Jorges Luis Borges Uno dei più grandi scrittori contemporanei è l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). L’opera di Borges riflette la sua vastissima cultura, anche perché spesso, in una prospettiva prettamente post-moderna, egli costruisce i suoi racconti proprio a partire da un testo o da una suggestione letteraria. Il ricorso assai frequente al fantastico da parte dello scrittore argentino si spiega con la sua concezione poetica dichiaratamente antirealistica: in lui il fantastico si lega alla costante riflessione su

402 Il Novecento (Prima parte) Temi e forme del fantastico novecentesco


temi filosofici novecenteschi, come il tempo e il destino dell’uomo in un universo le cui leggi sono indecifrabili. I racconti di Borges si aprono sempre a significazioni simboliche: sono ricorrenti “la biblioteca” e “il labirinto”. Michail Bulgakov La fama dello scrittore russo Michail Bulgakov (1891-1940) è soprattutto legata al romanzo Il Maestro e Margherita, a cui lavora fino alla morte: l’opera rimane a lungo inedita per i temi satirici della narrazione in un contesto politico (i decenni immediatamente successivi alla rivoluzione russa) di intolleranza verso le voci critiche o dissenzienti. Il romanzo è infine pubblicato nel 1966, anche se con forti interventi della censura. Potrà essere letto nella sua versione integrale solo nel 1973, diventando presto un best seller anche in Europa. Bulgakov sceglie polemicamente di utilizzare il codice fantastico, in tempi di obbligatorio “realismo socialista”, per denunciare la natura oppressiva e totalitaria del regime comunista seguito alla rivoluzione, soprattutto per quanto riguarda la condizione degli intellettuali. George Orwell 1984 è l’opera più nota di George Orwell (pseudonimo dello scrittore inglese Eric Arthur Blair, 1903-1950), insieme alla favola allegorica e satirica La fattoria degli animali. La data che costituisce il titolo rimanda all’anno in cui Orwell iniziò a comporre il romanzo (1948), con inversione degli ultimi due numeri. Lo scrittore inglese immagina un futuro non troppo lontano (neppure quarant’anni) in cui si afferma un regime totalitario. Un’autorità minacciosa e potente che nessuno ha mai visto – Il Grande Fratello – controlla capillarmente non solo la vita pubblica ma anche quella privata dei cittadini, con l’obiettivo di eliminare in essi ogni forma di pensiero e persino di linguaggio libero. Proprio in un’era ipertecnologica come la nostra, l’opera di Orwell mostra tutta la sua inquietante attualità. Gabriel García Márquez Il capolavoro dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez (1927-2014) è considerato Cent’anni di solitudine (1967), un’opera emblematica di quella commistione fra dimensione storico-realistica e mitico-fantastica che è caratteristica della narrativa latino-americana e che è stata definita con la formula sintetica di “realismo magico”. Figura nota a livello internazionale per il suo costante impegno civile e politico, Márquez ha ottenuto nel 1982 il premio Nobel. Nel suo capolavoro narra la storia della famiglia Buendía sullo sfondo delle vicende storico-politiche del suo paese, ma nella dimensione reale si insinua costantemente, senza alcuno stacco che segnali il passaggio, la componente mitico-fantastica

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo di massimo 10 righe definisci i caratteri del fantastico novecentesco e spiega perché esso eviti di suscitare emozioni forti, rinunciando in genere all’ingrediente della paura.

Scrittura creativa

2. Scrivi un racconto che contenga gli elementi tipici della narrazione buzzatiana.

Competenza digitale

3. Sintetizza in forma multimediale i tratti salienti del “fantastico” fuori d’Italia e presenta il tuo lavoro alla classe.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 403


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

8 Carlo Emilio Gadda LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Gadda visto da sé medesimo... Il 21 maggio 1918, durante la prigionia seguita al disastro di Caporetto, Gadda annota:

Non è cosa nuova per me essere mal giudicato nella vita; riconosco in me difetti gravissimi, qualità negative: (ipersensibilità, timidezza, pigrizia, nevrastenia, distrazione fino al ridicolo). Ma troppo severi e troppo superficiali sono i giudizî che fanno di me anche molti che credono di conoscermi a fondo. La mia adorata mamma essa stessa non mi ha sempre compreso; ciò anche perché io sono essenzialmente infelice nel contegno e nell’espressione1; l’unica espressione vivida e corretta, di cui posso rispondere, è l’espressione mediante il pensiero scritto. [...] Così nella vita mi occorse2 sovente, lo confesso a me medesimo, di passare per imbecille, o per orgoglioso, o per egoista, o per pazzo: mentre ero distratto, timido, riservato, stanco. C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Saggi, giornali, favole e altri scritti, vol. II, Garzanti, Milano 2008 1 nel contegno e nell’espressione: nel modo di atteggiarmi e di esprimermi. 2 mi occorse: mi capitò.

...e da un noto giornalista Nel resoconto di un’intervista rilasciata da Gadda per il settimanale «L’Espresso» (1o luglio 1962), il giornalista Andrea Barbato traccia questo ritratto del modo di vivere schivo e della personalità umana di Gadda.

Vive solo, in una piccola casa sepolta da libri e riviste d’ogni tipo, vigilato da una portiera che si capisce abituata a respingere gli importuni. Non esce quasi mai, frequenta solo pochissimi amici; e questo non per diffidenza o superbia, ma solo per una naturale ritrosia che lo fa sembrare quasi misantropo. Quando si riesce ad arrivargli davanti, allora si scopre che è garbato e civilissimo, pieno d’attenzioni e di complimenti; anche nel parlare trova sempre, quasi naturalmente, frasi argute e infiorate di parole inconsuete, il suo periodo si piega sempre verso l’ossequio e alla cortesia, non c’è frase sua che non termini con un «se non le dispiace», «se posso dire quello che penso», «mi scusi se dico la mia opinione». C.E. Gadda, L’apotema del mattone, in «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, Adelphi, Milano 1993

404


Carlo Emilio Gadda è oggi inserito stabilmente nel canone dei più grandi scrittori della letteratura italiana. La sua opera – scoperta e apprezzata solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento – ha il principale modello di riferimento in Alessandro Manzoni, milanese come Gadda, a cui lo avvicina l’attitudine razionalistica, la visione del ruolo conoscitivo ed etico della letteratura, la diagnosi impietosa dei mali della società, lo scavo nelle profondità dell’animo umano. La sua visione della realtà e dell’uomo, nutrita di complesse nozioni filosofiche, è incentrata sull’idea che tutto quanto accade nella storia, nella realtà e nella vita dell’individuo sia frutto di una straordinaria complessità di cause e concause. Una concezione sintetizzata nell’immagine metaforica del «garbuglio», che lo scrittore tenta di sbrogliare, anche attraverso i moderni strumenti della psicoanalisi. Lo stile personalissimo di Gadda è caratterizzato dalla ardita mescolanza di registri e linguaggi, nota come pastiche, che corrisponde a una realtà caotica e sfuggente a ogni definizione.

1 Ritratto d’autore 2 La visione del mondo di Gadda: 3 Laun narrativa itinerario conoscitivo La cognizione 4 Leggere del dolore 405 405


1 Ritratto d’autore 1 Vita di un ingegnere-filosofo-scrittore VIDEOLEZIONE

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

1890

Un’infanzia povera di affetti Carlo Emilio Gadda nasce a Milano nel 1893 da una famiglia della borghesia lombarda. Il padre, Francesco, molto più anziano della moglie Adele Lehr, sposata in seconde nozze, muore quando Carlo Emilio ha solo 15 anni. L’infanzia del futuro scrittore, povera di affetti e caratterizzata da un’educazione severa, ha lasciato su una personalità costituzionalmente fragile e insicura segni dolorosi e immedicabili («Tutte le volte che vado al passato» scriverà «non ci vedo che dolore»). In più occasioni Gadda stigmatizza l’inadeguatezza educativa dei genitori, forse amplificandone la portata in rapporto alla consapevolezza della propria fragilità: «Le prove sostenute nella mia infanzia sono state tali, per circostanze familiari, da scuotere qualunque sistema nervoso: figuriamoci il mio, il mio di me, che avevo paura a salutar per via un mio compagno o la mia maestra, che immelanconivo o impaurivo all’avvicinarsi della sera» (Giornale di guerra e di prigionia). Oltre agli errori educativi, Gadda rimprovera al padre l’inettitudine agli affari (intraprese un’attività, poi fallita, di coltivazione di bachi da seta, che ridusse la famiglia quasi alla povertà). Ma soprattutto inopportuna fu la costruzione, per ragioni di decoro borghese, di una villa a Longone, in Brianza, che nel rabbioso ricordo di Gadda diventa la casa «fottuta e strampalata». Per mantenere la villa, soprattutto dopo la morte del padre, la famiglia è infatti costretta a duri sacrifici. Verso la madre, donna energica e severa, punto di riferimento assoluto della sua vita, Gadda nutrirà sempre un misto di rancore e sensi di colpa: l’accuserà di averlo costretto, nonostante la sua propensione per gli studi letterari e filosofici, a iscriversi alla facoltà di ingegneria, convinta com’era che gli aprisse la strada a una professione remunerativa.

Cronologia interattiva

1900

1914

1922

Scoppio della Prima guerra mondiale.

1910

Marcia su Roma. Inizia il governo di Mussolini.

1920

1930

1936

Muore la madre. 1893

Carlo Emilio Gadda nasce a Milano.

1912

Si iscrive alla facoltà di ingegneria. 1915-1917

Partecipa alla guerra come alpino.

406 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

1922-1931

Lavora come ingegnere prima in Argentina poi in varie località italiane.


L’esperienza traumatica della guerra Nel 1915, interrotti gli studi universitari, Gadda combatte come ufficiale degli alpini sul fronte dell’Adamello. Partecipa alla guerra con profonda convinzione e senso del dovere, considerandola un evento positivo («La mia idea era di andare all’ultima guerra del Risorgimento», ebbe a dire in un’intervista) e un’occasione preziosa per mettersi alla prova di fronte al pericolo. Sul fronte ben presto però rileva le mancanze, l’impreparazione e persino il cinismo dei comandanti. La guerra, immaginata come macchina perfetta, si rivela invece emblema del “disordine”, prima testimonianza di quel “pasticcio” del mondo che è al centro dell’immaginario gaddiano. In seguito alla rotta di Caporetto (25 ottobre 1917) Gadda è fatto prigioniero e deportato, esperienza che vive con profonda umiliazione. Quando ritorna dalla prigionia, più di un anno dopo, si sente colpevole di non aver fatto abbastanza per la patria. Per di più, al suo ritorno ha la tragica notizia della morte del fratello Enrico, appena ventunenne. Dall’esperienza della guerra deriva il Giornale di guerra e di prigionia (diario steso tra l’agosto del 1915 e il dicembre 1919, pubblicato solo nel 1955), fitto di notazioni autobiografiche assai importanti per ricostruire la figura dello scrittore milanese. Un ingegnere-filosofo Nel 1920 Gadda si laurea in ingegneria elettrotecnica e due anni dopo si reca per qualche tempo in Argentina per lavoro (da questo paese trarrà spunto per l’ambientazione del romanzo La cognizione del dolore). Ritornato in Italia, sarà a Roma nel 1925 e alle dipendenze della società Ammonia Casale lavorerà fino al 1931 in varie località d’Italia e d’Europa, per poi allestire la centrale elettrica del Vaticano. Nel frattempo, studia con autentica passione filosofia ma, pur rimanendogli solo la discussione della tesi (su Leibniz), non si laureerà mai. Frutto di questi anni di riflessione filosofica è la Meditazione milanese (1928), di cui lo studioso Gian Carlo Roscioni ha sottolineato (nello studio La disarmonia prestabilita del 1969) l’originalità teoretica, frutto della presenza in Gadda di vere e proprie doti speculative. Si tratta di un testo assai importante per comprendere il retroterra della narrativa gaddiana, che rimanda sempre alle acquisizioni fondamentali del suo pensiero.

1939

1945-1946

1940

1950

Inizia la Seconda guerra mondiale.

1968

Fine della Seconda guerra mondiale.

Scoppia la contestazione giovanile.

1960

1970

1950

1963

Pubblica La cognizione del dolore.

Si trasferisce a Roma dove lavora in Rai. 1940

Si trasferisce a Firenze. Abbandona la professione di ingegnere.

1980

1973

Muore a Roma.

1957

Pubblica Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Ritratto d’autore

1 407


Una cultura interdisciplinare Il retroterra culturale di Gadda è assai ricco, addirittura enciclopedico: oltre alla filosofia (in particolare Kant, Leibniz, Spinoza), le sue conoscenze spaziano dalla matematica alla fisica (Einstein, De Broglie), alle scienze della natura (la teoria dell’evoluzione), alle letterature antiche e moderne. L’interdisciplinarità della sua cultura personale, che ne fa un unicum tra gli scrittori italiani, ha a che fare con il bisogno, presto avvertito da Gadda, di porre un argine agli schematismi sciocchi, ai falsi miti, che derivano anche, secondo lui, da una cultura «a senso unico», di fatto limitata, che non riesce davvero a cogliere la complessità del reale. In ambito propriamente letterario la cultura di Gadda ha un taglio più europeo che nazionale. In questa prospettiva è spiegabile la sua adesione al programma della rivista «Solaria», impegnata a combattere la miope autarchia culturale voluta dal regime fascista (molti scritti di Gadda prima di essere editi in volume saranno pubblicati su «Solaria»). La morte della madre: uno spartiacque esistenziale Nel 1936 muore la madre e l’evento attiva nello scrittore un processo doloroso ma insieme vitale (soprattutto per gli straordinari esiti letterari che ne conseguono) di autoanalisi: ne derivano i primi sette capitoli, scritti di getto, della Cognizione del dolore, romanzo fortemente autobiografico, pubblicati sulla rivista «Letteratura» tra il 1938 e il 1941. Ma dalla morte della madre derivano anche scelte esistenziali risolutive, o comunque determinanti nella vita di Gadda: innanzitutto la vendita, pur tra mille sensi di colpa, dell’odiata casa di Longone, quindi l’abbandono del mestiere di ingegnere (quella che egli chiamava la «schiavitù ingegneresca») e la correlata scelta del lavoro letterario come occupazione fondamentale, nonostante le possibili difficoltà economiche che questa scelta avrebbe comportato (e di fatto comportò).

online

Video Gadda in TV: lo scrittore parla del pubblico, degli autori prediletti, del Pasticciaccio

Da Firenze a Roma: la scelta della letteratura Nel 1940, in conseguenza delle radicali scelte di vita fatte, Gadda si trasferisce a Firenze, allora importante centro culturale. Qui frequenta il mitico caffè delle Giubbe Rosse, pur con la riservatezza e l’assenza di protagonismo che sempre lo caratterizzarono come persona e intellettuale, e diventa amico in particolare di Montale. Nel 1944 pubblica L’Adalgisa, un’opera “milanese”, come recita il sottotitolo Disegni milanesi. Due anni dopo (1946-47) viene pubblicato a puntate sempre su «Letteratura» il secondo importante romanzo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Nel 1950 riesce a ottenere un impiego alla Rai e si trasferisce a Roma. Come redattore dei servizi culturali del “Terzo Programma” mostrerà inaspettate capacità organizzative e relazionali. Si dimetterà nel 1955 per raggiunti limiti di età. Il successo, gli ultimi anni Nel 1957 la pubblicazione del Pasticciaccio in volume gli dà un’inaspettata fama persino tra il grande pubblico. Schivo, ombroso, lo scrittore vive con imbarazzo il successo, ulteriormente amplificato dalla pubblicazione in volume, nel 1963, della Cognizione del dolore: il romanzo vince il Premio internazionale di letteratura e Gadda diventa addirittura una celebrità; gli editori si contendono gli inediti gaddiani e fanno a gara per pubblicare i suoi scritti, nonostante la loro incompiutezza. Gli ultimi dieci anni lo vedono sempre più preda della nevrosi, afflitto da complessi di persecuzione ormai deliranti e da paure che lo costringono a una vita quasi da recluso nel suo appartamento in via Blumenstihl, a Monte Mario. Si spegne nel 1973. Al suo capezzale i pochi veri amici si avvicendano per leggergli passi dei Promessi sposi, il capolavoro, da lui particolarmente amato, di un altro grande milanese.

408 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


2 La visione del mondo 1 L’ideologia politica e sociale Un borghese conservatore, critico acerrimo della borghesia Borghese per estrazione familiare e per formazione, Gadda era fondamentalmente un conservatore: si definiva un “liberale”, aveva grande rispetto per il capitalismo e una dichiarata ammirazione per la Confindustria, mentre era infastidito dagli entusiasmi degli intellettuali di sinistra per la “questione meridionale” e aborriva il culto del “nazional-popolare” che imperversava nella cultura progressista italiana dopo la scoperta degli scritti di Gramsci (pubblicati postumi, nel dopoguerra). D’altra parte, Gadda fu al tempo stesso un implacabile critico della borghesia, della sua “doppia morale”, del suo culto ipocrita delle apparenze. Per Gadda la borghesia aveva tradito i valori di laboriosità, decoro, moralità che la connotavano un tempo per far propri rituali narcisistici. Gadda difende la proprietà, ma condanna la degenerazione di questo principio in meschina grettezza e in ostentazione: in particolare egli ritrae con feroce ironia la borghesia milanese, che conosceva bene dal momento che ne faceva parte. Il frutto più noto di questa visione critica sono i Disegni milanesi nell’Adalgisa. Dal nazionalismo interventista all’antifascismo Nella giovinezza Gadda è un convinto interventista, aderisce con entusiasmo alla mobilitazione per servire la patria. Rimane però poi fortemente deluso dalla guerra e disgustato dal clima che si viene a creare nel primo dopoguerra, dall’incipiente volgarità dei costumi, come scrive nella Madonna dei filosofi: «Anche il mondo del dopoguerra gli pareva troppo sciatto, troppo volgare, troppo dominato dal caffè concerto, dai rivenditori di motociclette, troppo popolato d’asini in tocco e di villani indomenicati: con analfabetissime donne, sazie d’ogni cibo, sdraiate nelle fanfaronesche automobili de’ spaccamonti falliti». All’inizio vede positivamente l’ascesa del fascismo come strumento politico per ripristinare l’ordine e la pace sociale; già verso la fine degli anni Venti, però, inizia in lui un ripensamento che diventa poi aperto dissenso, per approdare infine alla corrosiva e impietosa critica al regime e al narcisismo osceno del suo capo nel dissacrante saggio Eros e Priapo.

Eros e Priapo È un saggio la cui composizione risale al 1944-45, più o meno lo stesso periodo in cui Gadda componeva il Pasticciaccio, ed è incentrato sulla visione che Gadda aveva maturato del fascismo. Gadda con Giulio Einaudi in visita al Presidente della Repubblica Antonio Segni per fare dono del libro La cognizione del dolore.

La visione del mondo 2 409


Non si tratta certo di un’indagine storiografica, ma di un’analisi, condotta attraverso strumenti psicoanalitici, sulla psicologia di massa che portò in Italia vasti strati sociali a aderire incondizionatamente e fanaticamente al fascismo (manca perciò, perché non rientra nelle intenzioni di Gadda, il riferimento agli aspetti economici e sociali). Il titolo si spiega leggendo anche solo poche pagine del saggio: l’ascesa di Mussolini è interpretata da Gadda (e condannata per questo duramente) come trionfo dell’irrazionalità, abdicazione collettiva al controllo della ragione. Il duce si è presentato alle masse (soprattutto femminili) come simbolo di virilità (Priapo è il dio romano della fecondità): con il suo esibizionismo istrionico e favorendo il culto della personalità ha fondato il suo potere sullo sfruttamento cinico dei più bassi istinti. Il saggio fornisce un esempio estremo del pastiche stilistico gaddiano: in questo caso la pirotecnica inventività linguistica è al servizio dell’indignazione di Gadda, della sua polemica verso il regime. La seconda parte del saggio, meno convincente, è fondata su un’analisi del fenomeno del narcisismo. Dopo una revisione, motivata dalla crudezza di molte immagini, Eros e Priapo fu pubblicato solo nel 1967.

Mussolini marcia con passo romano, 1938. Questa foto fu censurata dallo stesso Mussolini.

Eros e Priapo GENERE

saggio

DATA DI COMPOSIZIONE

1944-45, pubblicato nel 1967

CONTENUTO

STILE

410 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

• indagine sulla psicologia di massa attraverso strumenti psicoanalitici • satira contro Mussolini

inventiva linguistica al servizio dell’indignazione


Carlo Emilio Gadda

T1

EDUCAZIONE CIVICA

Un ritratto corrosivo del fascismo e una testimonianza del pastiche

nucleo Costituzione competenza 2

Eros e Priapo C.E. Gadda, Eros e Priapo, in Saggi, giornali, favole e altri scritti, vol. II, Garzanti, Milano 2008

Quelle che seguono sono le pagine iniziali dell’ampio saggio Eros e Priapo. La pirotecnica inventività linguistica di Gadda è qui al servizio di una dura satira del regime e del capo del fascismo.

Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare1, pervennero2 a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione3 totale dei segni della vita. 5 Ogni fatto o atto della vita e della conoscenza è reato per chi fonda il suo imperio sul proibire tutto a tutti, coltello alla cintola. Si direbbe che la coscienza collettiva, e la singula, oltraggiate dal coltello, dal bastone, dall’olio4, dall’incendio, e di poi messe in bavaglio da disperati tramutatisi per scaltrita suasione5 in soci nel grido e nell’armi, dalle carceri, dalle estorsioni, 6 10 dal veto imposto per legge, se legge fu quella, a ogni forma del libero conferire e prima che tutto alle stampe, dalla sempiterna frode ond’era spesa la parola e l’intendimento e poi l’atto, dalla concussione7 sistematica esaltata al valore e direi al decoro formale di un’etica nicomachèa8, dalla tonitruante logorrea9 d’uno o d’altro poffarbacco10, dalla folle corsa verso l’abisso e, ad ultimo, dalla strage, dalla rovina 11 12 15 del paese, si direbbe codesta coscienza l’abbî trovato ricetto , quasi oltre lor lagune i Veneti, così ella in una zona munita dall’acque, contro la storia spaurata13. Si direbbe riparasse, codesta coscienza, di là dall’odio e dalla bestiaggine: tra profughi, perseguitati, carcerati, oltraggiati e congiunti e figli di deportati e di fucilati: e la risorga alfine come dal nero fondo della miniera alla luce, chiedendo a Dio di poter 20 proferire le parole della vita. Con proibire tutto a tutti, la delinquente brigata14 ha garentito a sé ogni maggior comodità e sicurezza, dello illecito contro eventuali masnade concorrenti; simile a chi crea una riserva da cacciare e da raccogliere15 a sua posta16, senza tema17 e senza

1 Li associati... guatare: gli adepti al Partito fascista che per più di un ventennio sono riusciti a derubare a loro piacimento («taglieggiare a lor posta») e a coprire di vergogna l’Italia e infine a farla precipitare in una condizione così infelice che persino Dio ha paura di guardare a essa (è evidente già nell’apertura del passo la gustosa parodia del linguaggio del Principe: precipitarla, ruina, abisso sono termini propri del lessico di Machiavelli). 2 pervennero: arrivarono. 3 la obliterazione: l’annullamento. 4 olio: uno dei più umilianti strumenti della repressione fascista era la somministrazione di olio di ricino ai dissidenti.

5 scaltrita suasione: autoconvincimento non esente da un tornaconto personale. 6 dal veto... conferire: dal veto imposto per legge a ogni forma di libera associazione, se si può parlare in questo caso di legge. 7 concussione: reato commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri inducendo qualcuno a dare indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità. 8 etica nicomachèa: riferimento al trattato, in 10 libri, del filosofo greco Aristotele (dedicato al figlio Nicomaco) su questioni etiche. 9 tonitruante logorrea: tonante diluvio di parole (tonitruante è termine aulico e raro).

10 d’uno o d’altro poffarbacco: di questo o quell’arrogante.

11 si direbbe codesta coscienza: ripresa dalla r. 7 del sogg. la coscienza collettiva, e la singula; anche in seguito, alla r. 17. 12 l’abbî... ricetto: abbia trovato riparo. 13 la storia spaurata: il periodo storico dominato dal terrore. 14 la delinquente brigata: si riferisce al governo fascista e ai suoi fiancheggiatori. 15 una riserva... raccogliere: una riserva dove cacciare e raccogliere frutti della terra. 16 a sua posta: a suo piacimento, con diritto esclusivo. 17 tema: timore.

La visione del mondo 2 411


pericolo, e’ suoi adepti simulare grinta e ringhiare, dormir soavi o sedere al gioco senz’opera quanto gli è piaciuto e paruto18; e dar di mazza o di stocco19, fucilare, deportare, bavare e gracidare nelle concioni20 e delirare nelle stampe21; il Vigile dei destini principe22 ragghiare23 da issu’ balconi24 ventitré anni, palagiare la campagna brulla di inani marmi e cementi, e voltar gli archi da trionfo, anticipati alla cieca ad ogni sperato trionfo e assecurata catastrofe25. 30 […] Egli, dico il Cupo nostro26, e’ volle da prima alla su’ gloria, minacciosa gloria, la baggiana criminalata ad Affrica27: ch’era del caffè poco pochino e dello istrombazzato e inesistente petrolio: e dell’oro e del platino, gràttati!: e del carcadè28: paventando la ciurma non si stesse cheta, mobile e tumultuaria ch’ella fu sempre e divertita 35 alle fanfare e agli svèntoli, se non a gittarle quell’offa dentro le fauci isciocchissime, (1935), di quella bambinesca scipioneria: dove andarono al sale da ottanta a novanta miliardi lire, in asfaltare le bassure clorurate della Dancalia, dopo aver pagato, per ogni sacco di cemento, oro, il passaggio a i’ ccanale29. […] Porgeva egli alla moltitudine l’ordito della sua incontinenza buccale, ed ella vi 40 metteva spola di clamori, e di folli gridi, secondo ritmi concitati e turpissimi. Kùcè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè30. La moltitudine, che al dire di messer Nicolò amaro la è femmina, e femmina a certi momenti nottìvaga, simulava a quegli ululati l’amore e l’amoroso delirio31 […]. Su issu’ poggiuolo32 il mascelluto33, tronfio a stiantare34, a quelle prime strida della ragazzaglia e’ gli era già ebbro d’un suo pazzo smarrimen45 to, simile ad alcoolòmane, cui basta annasare il bicchiere da sentirsi preso35 […]. 25

18 paruto: parso. 19 dar di... stocco: colpire con mazze o spade (lo stocco è una spada più corta a sezione triangolare). 20 bavare... concioni: sbavare e gridare (propriamente gracidare è il verso della rana) nelle assemblee. 21 delirare nelle stampe: dire cose deliranti nei comunicati. 22 il Vigile... principe: il sovrano vigile dei destini (sottinteso della nazione): Mussolini (l’espressione è evidentemente sarcastica). 23 ragghiare: ragliare (come un asino). 24 da issu’ balconi: dai suoi balconi; si allude al balcone di piazza Venezia a Roma da dove il duce era solito arringare la folla. 25 palagiare... catastrofe: si allude alle vane opere architettoniche (inani marmi e cementi) esaltanti il regime, compresi gli archi di trionfo, costruiti prima di trionfi sperati, che in realtà si risolvevano in sicure catastrofi. 26 il Cupo nostro: si allude all’espressione accigliata che il duce era solito esibire nelle occasioni pubbliche. 27 la baggiana... ad Affrica: sull’avventura coloniale voluta dal fascismo Gadda

esprime un duro giudizio definendola sciocca (baggiana) azione criminale e più avanti bambinesca scipioneria (con riferimento alle guerre puniche e a Scipione l’Africano). 28 carcadè: bevanda di color rosso leggermente acidula, ricavata dai petali dei fiori della pianta omonima, specie erbacea tropicale, simile all’ibisco. 29 ch’era del caffè... a i’ ccanale: più che da ragioni economiche (caffè, petrolio, metalli preziosi), l’avventura africana, secondo Gadda, è stata motivata dalla necessità di soddisfare le masse irrequiete (definite sprezzantemente ciurma), sempre desiderose di fanfare da guerra e bandiere, dando loro in pasto il miraggio di una grande impresa (l’offa è una piccola focaccia di farro in uso presso i romani). Il riferimento alle fauci, qui definite sciocchissime, delle masse, in cui viene gettata l’offa dell’impresa d’Africa, rievoca il gesto rituale con cui nell’Eneide la Sibilla getta nelle fauci spalancate di Cerbero una focaccia soporifera. La campagna d’Africa costerà agli italiani cifre esorbitanti impiegate per asfaltare zone prive di ogni attrattiva. Con bassure clorurate della Dancalia

412 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

si fa riferimento a quella regione fra Etiopia ed Eritrea ricca di potassio. 30 Porgeva egli... Kù-cè: l’immagine utilizza il lessico della tessitura: Mussolini, con i suoi torrenziali discorsi («incontinenza buccale») porge alla massa l’ordito, su cui essa, esaltata dalle parole del dittatore, passa la spola, rappresentata dalle grida ritmate, inneggianti al duce. 31 La moltitudine... amoroso delirio: si fa qui esplicito riferimento al legame in certo qual modo erotico, seduttivo, tra il duce e la folla, folla che Machiavelli considerava femmina e femmina in alcuni casi disposta a prostituirsi (a questa tendenza allude l’aggettivo composto nottìvaga, cioè “desiderosa della notte”). Le urla di invocazione al duce erano il corrispettivo di una sorta di amoroso delirio. 32 Su issu’ poggiuolo: cfr. nota 24. 33 il mascelluto: Mussolini, che aveva una mascella prominente. 34 a stiantare: fino a scoppiare. 35 simile... preso: l’ebbrezza che il duce provava per le grida della folla viene paragonata alla condizione di un alcolizzato che annusa un bicchiere di alcol e subito ne è alterato.


Analisi del testo Un feroce ritratto del regime fascista e del suo capo Dopo essere stato inizialmente favorevole all’ascesa del fascismo, Gadda ne divenne in breve tempo un fierissimo avversario. Eros e Priapo, redatto verso il 1944, è il frutto di una rilettura critica, anche alla luce delle teorie psicoanalitiche, del fenomeno del fascismo e del consenso di massa che seppe istituire. Del fascismo Gadda esaspera i tratti grotteschi e persino comici, una scelta qui evidente nel ritratto caustico degli atteggiamenti di Mussolini e della folla osannante che lo sostenne per anni. Ma il registro grottesco, a tratti anche comico, non esclude da parte di Gadda un giudizio storico molto severo, anche di tipo morale, sul ventennio fascista, considerato un lungo periodo di inganni e mistificazioni, oltre che di diffusa corruzione. Gadda vede in Mussolini il principale responsabile della degenerazione della miglior tradizione liberale borghese, e al tempo stesso la suprema incarnazione del narcisismo, compresa l’esibizione volgare della virilità.

Uno stile “ibrido” Gadda dà voce alla sua indignazione con il suo solito stile volutamente ibrido, esempio canonico di pastiche, cioè di commistione voluta di stili e linguaggi. Termini realistici – come baggiana criminalata, usato a proposito dell’impresa d’Africa, delinquente brigata – sono mischiati a termini aulici, a stilemi addirittura trecenteschi e cinquecenteschi (posta, tema, turpissimi e così via). Assai significativo, a livello ideologico, è l’ammiccamento evidente nel passo al Principe di Machiavelli, e in particolare al capitolo conclusivo dell’opera, in cui il grande scrittore fiorentino introduce l’appello, denso di riferimenti profetico-cristiani, alla casata dei Medici perché liberino l’Italia e la risollevino dalla grave crisi, dalla ruina, dall’abisso in cui era precipitata all’inizio del Cinquecento. Nella rappresentazione gaddiana si configura come un’anticipazione della rovina dell’Italia fascista. Ma, cinquecento anni dopo, nessun “principe” si profilava all’orizzonte per salvare lo sciagurato paese, anzi il principe era l’oppressore stesso, capace di conquistare l’appoggio incondizionato delle masse attraverso volgari e perversi meccanismi di seduzione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quali sono gli aspetti grotteschi del regime? ANALISI 3. Rintraccia nel testo le ragioni del consenso di massa al fascismo.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

SCRITTURA 4. In Eros e Priapo Gadda mette in luce negativa i meccanismi del fanatismo di massa e il culto della personalità che, durante il ventennio, aveva portato a identificare in Mussolini un capo assoluto e indiscutibile. Dopo aver fatto una ricerca in Rete sulla tutela normativa che la nostra Legislazione prevede per evitare il ritorno del fascismo, scrivi un testo di massimo 15 righe, dove esponi il risultato della tua indagine e le tue riflessioni in merito.

La visione del mondo 2 413


2 La “filosofia” gaddiana La Meditazione milanese Gadda è uno scrittore in cui, più di ogni altro, creazione letteraria e riflessione filosofica interagiscono al punto da risultare indistinguibili. Per comprendere le sue opere e le sue stesse scelte linguistiche, è necessario far riferimento al loro sostrato filosofico, che risulta definito già verso la fine degli anni Venti, quando Gadda scrive la Meditazione milanese (inedita fino al 1974). Non si tratta di un trattato filosofico canonico perché le argomentazioni sono spesso intrecciate a immagini metaforiche di sapore letterario (➜ D1 ), il filo del discorso è interrotto da continue digressioni (come del resto è tipico della scrittura gaddiana) e il linguaggio stesso è più espressivo che referenziale. La realtà come insieme di “sistemi” Uno dei concetti chiave presenti nella Meditazione e nell’opera narrativa di Gadda è quello della realtà come “sistema” o meglio insieme di “sistemi” (l’io stesso è un “sistema”) che sono interdipendenti, per cui ogni elemento interagisce con gli altri e li “trasforma” continuamente. In rapporto a questa visione della realtà, complessa e mutevole, per Gadda una delle fondamentali operazioni del conoscere è la distruzione delle convinzioni precedenti. Di fatto la scrittura gaddiana inclina sempre verso la deformazione grottesca: Gadda è un distruttore delle false conoscenze, degli idoli, dei miti, frutto di nozioni schematiche e quindi, per definizione, parziali. Allo stesso modo lo scrittore trasforma/deforma l’istituto della lingua, che è peraltro da lui concepita come sistema in continuo divenire: ogni operazione linguistica è necessariamente deformante, il che non equivale a un’operazione gratuita, fine a se stessa; per Gadda l’intervento dello scrittore sulla lingua è sempre sforzo di comprensione-traduzione globale della complessità della realtà. L’immagine del “garbuglio” e il bisogno dell’“ordine” Altro principio importante enunciato nella Meditazione è la demolizione del nesso deterministico causaeffetto: per ogni fenomeno non esiste infatti una sola causa, ma ne esistono molte, se è vero che la realtà è un insieme di sistemi connessi in molteplici relazioni. Ogni fenomeno rimanda a grovigli di rapporti, che è impossibile decifrare in modo univoco, perché si moltiplicano all’infinito. L’immagine-chiave che definisce nell’immaginario gaddiano tale concezione è il “garbuglio” (➜ T3 ). D’altra parte, in Gadda è costante lo sforzo per affermare l’“ordine”, il dominio degli schemi razionali sul “disordine”, così da sbrogliare il garbuglio del mondo. Se alla fine la ragione fallisce, Gadda non accetta di considerare questo fallimento come definitivo, appagandosi (e quasi compiacendosi) dell’immagine del “labirinto” come Borges (➜ C7 T5 ); crede comunque disperatamente alla possibilità che il filosofo sia in grado di costruire una mappa organica del mondo. In un bellissimo passo della Meditazione milanese (➜ D1 ) traccia un ritratto elogiativo del filosofo, come eroe della conoscenza razionale, quasi un don Chisciotte che lotta eroicamente contro l’irrazionale emergente, contrapponendosi agli esseri umani preda degli istinti. L’esplorazione dell’io e il dovere della consapevolezza Ma Gadda sa bene che il filosofo non ha solo da sfidare il disordine caotico del mondo attraverso la luce della ragione, ma deve anche lottare contro le pulsioni minacciose dell’Io (l’Es freudiano), contro le “bestie nere” dell’inconscio che si annidano dentro di lui, contro il “pasticcio-groviglio” della sua stessa psiche: il cammino della conoscenza (e della

414 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


scrittura narrativa) riguarda dunque in Gadda anche, e forse primariamente, l’esplorazione dei meandri oscuri dell’io: la sua narrativa è sempre in ogni caso tramata di motivi autobiografici. Lo scrittore milanese considera un dovere la consapevolezza: non esistono i “normali” ma solo gli inconsapevoli, immersi nelle loro «bambinesche certezze» che occultano (ma non annullano) le nevrosi. In Come lavoro scrive parole illuminanti al riguardo (➜ D2 ): è proprio dall’inconsapevolezza che germogliano secondo lui i peggiori difetti dell’umanità, primo tra tutti il narcisismo, l’egoismo cieco che si traduce in smania di possesso. L’io è «il più lurido di tutti i pronomi», scrive nella Cognizione del dolore in una celebre invettiva contro l’ipertrofia dell’io. Come scrittore Gadda non ha paura di esplorare e mettere a nudo le proprie angosce, al punto che la scrittura si configura per lui come una sorta di “viaggio” all’interno e alla scoperta di esse, mediato dagli strumenti della psicoanalisi, conosciuta e apprezzata fin dalla fine degli anni Venti (PER APPROFONDIRE, Gadda e la psicoanalisi PAG. 452).

Meditazione milanese GENERE

trattato filosofico non canonico di carattere espositivo-argomentativo

DATAZIONE

scritto negli anni Venti e pubblicato nel 1974

TEMI

esplorazione dell’io

◗ Umberto Boccioni, Stati d’animo Quelli che restano, 1911 (Museo del Novecento, Milano).

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Carlo Emilio Gadda

Il filosofo

D1

Meditazione milanese C.E. Gadda, Meditazione milanese, Einaudi, Torino 1974

Il breve passo risulta estremamente significativo della visione che ha Gadda della figura del filosofo, ritratto con tono ispirato e poetico.

Il filosofo, indagatore ed escogitatore1, è e deve essere la ragione pacatamente ed eroicamente integrantesi: non vanità, non grido cieco di dolore o di fame o di libidine, non piaggeria del pensiero comune e nemmeno preconcetta ripulsa di esso2, non ornatezza di atteggiamenti ma quasi intrinseca concatenazione e flusso di 5 posizioni reali3, che interpreta e lega, che vede e ricerca, che constata e costruisce, che accumula e perfeziona. Egli, immerso nella buia notte, cava4 dall’ombra le cose con il getto luminoso della potente analisi: ivi sono le porte paurose delli anditi5 neri, e sono immobili e chiuse. Strane bestie vi dormono nello strame6 della pigrizia e della sensualità loro e sono li umani7. Ma neri cubi di ombra si sfaldano, come 10 blocchi enormi di una rovinosa frana: e appaiono e si creano forme nuove e distinte e concatenazioni infinite nel flusso e nella deformazione infiniti. 1 escogitatore: pensatore. 2 non piaggeria... di esso: non servilismo nei confronti del pensiero comune e neppure pregiudiziale rifiuto di esso.

3 non ornatezza... reali: non esibizione di atteggiamenti esteriori ma intimo e coerente percorso razionale. 4 cava: trae.

5 anditi: corridoi, ambienti di passaggio, angoli riposti. 6 strame: giaciglio di fieno o paglia dove si coricano gli animali. 7 li umani: gli esseri umani.

Concetti chiave Un’immagine poetica del filosofo

Colpisce nel breve testo il linguaggio densamente metaforico e addirittura poetico con cui Gadda delinea l’immagine del filosofo. Per lui il filosofo è un eroe della conoscenza che possiede il dono di una limpida razionalità: questa gli consente di fronteggiare le emozioni e le passioni che invece irretiscono gli esseri umani. È evidente la forte contrapposizione che Gadda istituisce fra il filosofo e gli uomini, significativamente ridotti al rango di bestie, mentre il filosofo è una sorta di superuomo che abbatte «con il getto luminoso della potente analisi» i muri d’ombra che impediscono di conoscere la verità. Sembra di avvertire nel passo l’eco dei diversi elogi che il poeta latino Lucrezio (I sec. a.C.) rivolge al filosofo Epicuro nel poema De rerum natura.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Dopo la prima, icastica, definizione, il ritratto del filosofo viene costruito in modo essenzialmente negativo, cioè attraverso l’indicazione di cosa non è il filosofo. Individua queste “qualità” per Gadda negative e commentale. STILE 2. Individua e interpreta le immagini metaforiche.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Istituisci un paragone fra il testo di Gadda e uno degli elogi a Epicuro contenuti nel De rerum natura di Lucrezio, individuando le analogie.

416 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


Carlo Emilio Gadda

“Normale” e “anormale”

D2

I viaggi la morte C.E. Gadda, I viaggi la morte, in Saggi, giornali, favole e altri scritti, vol. I, Garzanti, Milano, 2008

Nello scritto Come lavoro Gadda distingue tra “normali” e “anormali”.

Il cosiddetto «uomo normale» è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi [...]. In realtà, la differenza tra il normale e lo anormale è questa qui: questa sola: che il normale non ha coscienza, non ha nemmeno il sospetto metafisico, de’ suoi stati 5 nevrotici o paranevrotici1, gli uni su gli altri così mirabilmente agguainati2 da essere inturgiditi a bulbo, a cipolla3: non ha dunque, né può avere, coscienza veruna4 del contenuto (fessissimo) delle sue nevrosi: le sue bambinesche certezze lo immunizzano dal mortifero pericolo d’ogni incertezza: da ogni conato5 d’evasione, da ogni tentazione d’apertura di rapporti con la tenebra, con l’ignoto infinito6: mentreché7 lo 10 anomalo raggiunge, qualche volta, una discretamente chiara intelligenza degli atti8: e delle cause, origini, forma prima, sviluppo, sclerotizzazione postrema9, e cessazione con la sua propria morte delle sue proprie nevrosi.

1 paranevrotici: prossimi alla nevrosi. 2 agguainati: stratificati gli uni sugli altri come in una serie di guaine; è un’immagine ricorrente in Gadda. 3 inturgiditi... cipolla: l’accumularsi strato su strato degli assetti nevrotici della personalità è paragonato da Gadda alla for-

mazione di un bulbo, di una cipolla che si può sfogliare. 4 coscienza veruna: alcuna consapevolezza. 5 conato: tentativo. 6 rapporti... infinito: rapporti con tutto ciò che sta “oltre” la dimensione superficiale dell’io, sia all’interno di esso (il profondo,

l’inconscio) sia al di fuori, verso il mistero del cosmo. 7 mentreché: mentre invece. 8 intelligenza degli atti: comprensione delle manifestazioni. 9 sclerotizzazione postrema: assestarsi della nevrosi in una forma stabile e ultima (postrema, termine dotto).

Concetti chiave Nel distinguere gli uomini in “normali” e “anormali”, Gadda ribadisce che non è la nevrosi a differenziarli, ma la sciocca inconsapevolezza dei “normali”, che ignorano tutto di sé. Gadda, naturalmente, si ascrive alla seconda categoria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Spiega la frase: «Le sue bambinesche certezze lo immunizzano dal mortifero pericolo d’ogni incertezza». STILE 2. Individua le accumulazioni e spiegane il significato espressivo all’interno del brano.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. «Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi»: la frase appartiene alla Coscienza di Zeno di Svevo. Istituisci un confronto fra il passo di Gadda che hai letto e la posizione di Svevo riguardo al rapporto “sani/malati”. Argomenta le tue considerazioni in un breve testo (max 15 righe) e metti in luce le analogie e le differenze riscontrate. ESPOSIZIONE ORALE 4. Dopo aver letto PER APPROFONDIRE Gadda e la psicoanalisi (PAG. 418) prepara un intervento orale di massimo tre minuti per spiegare quale importanza ha avuto la psicoanalisi per Gadda.

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PER APPROFONDIRE

Gadda e la psicoanalisi Un precoce interesse Gadda si avvicina alla psicoanalisi fin dal 1926, ma già dagli anni liceali aveva iniziato a leggere testi di psicologi prefreudiani (Charcot, Breuer) a testimonianza di un’attrazione precoce verso l’esplorazione del profondo dell’io, che trova la sua motivazione nel disadattamento alla vita che caratterizzava lo scrittore fin dagli anni giovanili. Nella sua biblioteca erano presenti ben sette testi di Freud: Psicopatologia della vita quotidiana, Introduzione alla psicoanalisi, Saggi di psicoanalisi, Saggi di psicoanalisi applicata, Totem e tabù, Il disagio della civiltà, Nuovi saggi di psicoanalisi, ma certo ne lesse anche altri. Così dice Gadda, intervistato da Arbasino, sul suo approccio alla psicoanalisi: «A proposito di psicanalisi devo dire che mi sono avvicinato ad essa negli anni fiorentini dal ’26 al ’40 quando l’insieme delle dottrine e delle ricerche di questa grande componente della cultura moderna era visto popolarmente come operazione diabolica e quasi infame, per la crassa opaca ignoranza di molti grossi tromboni della moraloneria e della cultura ufficiale dell’epoca […]. Alla psicanalisi mi sono avvicinato e ne ho largamente attinto idee e movimenti conoscitivi con una intenzione e in una consapevolezza nettamente scientifico-positivistica, cioè per estrarre da precise conoscenze dottrinali e sperimentali un sovrappiù moderno della vecchia etica, della vecchia psicologia». Le motivazioni autobiografiche Al di là delle sue dichiarazioni di principio, l’interesse spiccato dello scrittore per la psicoanalisi, non certo scontato in quegli anni, deriva da motivazioni autobiografiche ben più che culturali: Gadda sentiva il bisogno di risalire ai traumi infantili che avevano condizionato negativamente la sua vita, avvertiva l’impellente desiderio di comprendere le radici della sua nevrosi. Il saggio Psicoanalisi e letteratura Nel 1946, a conferma del fatto che la psicoanalisi fu un interesse-chiave per Gadda, scrive

addirittura un saggio: Psicoanalisi e letteratura. Sulla base delle teorie freudiane il saggio attacca le visioni idilliche del rapporto genitori-figli «come certa edificazione semplificante vorrebbe darci a bere» e affronta argomenti scottanti (soprattutto a quei tempi) parlando anche di sevizie da parte degli adulti fatte passare per educazione (soprattutto nel caso in cui il bambino non soddisfa per il suo aspetto sgradevole le aspettative, le pulsioni narcisistiche dei genitori, come nel caso di Leopardi). È evidente nel saggio il pressante risvolto autobiografico: passando in rassegna le acquisizioni basilari della psicoanalisi, Gadda esplora la sua stessa difficile infanzia, trovando in Freud conferma autorevole dei traumi subiti. La psicoanalisi sarà fonte nell’opera di Gadda di metafore e immagini e sarà un’arma concettuale in più per combattere l’odiata retorica. L’analisi del narcisismo in Eros e Priapo Il massimo utilizzo degli strumenti psicoanalitici è nella seconda parte del saggio Eros e Priapo, quando Gadda, dopo aver attaccato con violenza sarcastica Mussolini, si sofferma sulle dinamiche del narcisismo (➜ T1 ). Fortissima in Gadda è la polemica contro l’ipertrofia dell’io che produce lo scatenarsi sfacciato dell’eros, l’ostentazione smaccata e volgare della virilità: di questo atteggiamento, che si contrappone alle istanze di ordine, decoro e razionalità care a Gadda, sono incarnazioni figure come Foscolo, Napoleone, ma soprattutto l’aborrito Mussolini, «Priapo Ottimo massimo». C.E. Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, Adelphi, Milano 1993; E. Gioanola, L’uomo dei topazi. Saggio psicanalitico su C.E. Gadda, Il Melangolo, Genova 1977 (ora Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari, Jaca Book, Milano 2004)

3 L’idea di letteratura. Le scelte stilistiche La critica alla retorica e al “bello scrivere” Non esiste un testo specifico che raccolga in modo organico le riflessioni di Gadda sulla letteratura e sulla propria poetica narrativa. Le sue considerazioni al proposito sono sparse in vari testi: particolarmente importanti Tendo al mio fine (1931; poi posto in apertura a Il castello di Udine) e la raccolta di saggi I viaggi la morte (pubblicata nel 1958). All’interno di questi ultimi è interessante lo scritto Come lavoro, in cui Gadda demolisce l’idea romantica di scrittore (➜ D3a ). Per Gadda narrare non è mai concessione al “bello scrivere”, alla retorica sentimentale, esibizione dell’io ma, come egli stesso scrive in I viaggi la morte, «l’indefettibile strumento per la scoperta e l’enunciazione della verità»: Gadda si accosta allo scrivere con un’ottica positivistico-scientifica e insieme con una grande passione etica, che lo porta inevitabilmente a respingere con forza l’inautentica ricerca dei bei suoni attraverso le parole di cui era stato prototipo autorevole D’Annunzio.

418 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


I modelli letterari di Gadda Per il fine etico della scrittura, per l’impegno nel portare alla luce la verità e trasmetterla ai lettori, Gadda è stato avvicinato a Manzoni. Manzoni era del resto l’autore da lui prediletto: del suo illustre predecessore, come risulta dall’Apologia manzoniana, pubblicata su «Solaria» nel 1927, Gadda ammirava l’interesse per la storia, la sottile analisi razionale, la ricerca di una lingua antiaccademica, ma soprattutto la severa motivazione etica che ispira le sue opere. Oltre a Manzoni, le letture predilette di Gadda sono Dante (e significativamente non Petrarca, in cui coglieva evidentemente aspetti di inautenticità), Machiavelli, Parini, Belli, Leopardi; mentre non ama, per ragioni facilmente intuibili, Carducci e D’Annunzio e addirittura odia Foscolo, a cui dedica un feroce pamphlet: Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (1967). Più in generale Gadda rimproverava alla cultura letteraria italiana l’eccessiva concessione alle passioni, la tendenza al sentimentalismo, ma anche l’assenza di contatti con il sapere scientifico: «La prima colpa che le faccio […] è di essere refrattaria alla storia naturale, d’ignorare le ere geologiche, il darwinismo, […] Malpighi e Spallanzani; la seconda è quella d’una scarsa predisposizione alla cultura economistica e matematica […]. Infine, la cultura italiana è fatta di toc-toc, d’impulsi, di batticuore, della retorica delle buone intenzioni. Manca un sottofondo logico e riflessivo». La funzione della letteratura: rappresentare la complessità del reale, smascherare le ipocrisie La letteratura è concepita da Gadda come strumento per smascherare le ipocrisie e le miserie dell’io e della società. Essa assume, fin dal giovanile Giornale di guerra e di prigionia, il carattere di un «tribunale giudicante»: da qui la frequenza, che la critica ha rilevato nei suoi scritti, di metafore processuali. Per Gadda scrivere è sempre «aprire un’istruttoria» sul problema del male per risalire analiticamente alle cause, per investigare il mistero che sta dietro le cose, anche se non si arriverà magari mai a risolvere il “giallo”, come succede nei suoi due romanzi. In questa ottica Gadda lavorava accumulando minuziosamente dettagli su dettagli e forse per questo ha lasciato incompiuti i suoi romanzi, perché l’indagine non finisce mai. La critica al Neorealismo Proprio perché la sua narrativa presuppone uno scavo analitico nel profondo, Gadda era critico nei confronti della narrativa neorealista: riteneva che nelle sue opere ci fosse maggiore realismo che in quella, e rifiutava l’accusa di cerebralismo. Però occorreva intendersi sul concetto di “reale”, e in proposito scrive in Un’opinione sul neorealismo (1950 ➜ C9 D1b ): «In rapporto alla concezione filosofica che sopra si è brevemente illustrata, la letteratura non può farsi interprete di un univoco punto di vista, né di una concezione deterministica del rapporto tra comportamenti, cause sociali, ereditarietà come nel naturalismo, né può fornire alla fine una Grande integrazione, 1957 (Museo del Novecento, Milano).

La visione del mondo 2 419


verità indiscussa: se la realtà è complessa catena di concause, è “garbuglio”, non è più possibile una narrazione lineare e organica, ma solo una scrittura frammentaria e perennemente inconclusa». Una dichiarazione estremamente significativa.

Uno stile originalissimo Il pastiche Fin dalle sue prime prove narrative Gadda inaugura uno stile suo, per il quale il filologo e critico Gianfranco Contini ha parlato di pastiche, alludendo con questo termine al singolare mix di stili e linguaggi dalla più disparata provenienza, che conferisce caratteri del tutto originali alla prosa gaddiana. Sempre Contini, recensendo Il castello di Udine, avvicina Gadda ai poeti “maccheronici” del Rinascimento per la tendenza allo stravolgimento parodico e grottesco di materiali colti di cui fu maestro il lombardo Teofilo Folengo nel suo Baldus (1521). Le scelte stilistico-linguistiche dipendono dalla visione gaddiana della realtà poco sopra illustrata: proprio la concezione di una realtà complessa induce in Gadda l’insoddisfazione nei confronti sia della lingua d’uso «piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, uguale», sia della logorata lingua letteraria, entrambe inadeguate, a suo parere, a esprimere il magma della realtà. Da qui la rivendicazione di un’assoluta libertà dello scrittore nell’uso della lingua, che comporta la contaminazione di diversi registri e linguaggi.

online

Per approfondire Il furore della parola: Gadda e Céline

Lo scopo del pastiche Il pastiche consente, da un lato, di aderire alla complessità del reale, di alludere al generale disordine del mondo; dall’altro, di polemizzare per dar voce a dissacranti invettive, o per lo meno per ironizzare sulle miserie e debolezze umane (comprese le proprie). Per lo stile di Gadda si è parlato spesso di “barocco”, ma lo scrittore si irritava con chi lo accusava di stravaganza e barocchismo, come dichiara nella presentazione della Cognizione del dolore nell’edizione del 1963: «Il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna, nelle stesse espressioni del costume […] barocco è il mondo e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».

online D3a Carlo Emilio Gadda

PER APPROFONDIRE

«Non cerco polli da dovergli buttare perle false» I viaggi la morte

D3b Carlo Emilio Gadda

La scrittura come “vendetta” Intervista al microfono

D3c Carlo Emilio Gadda

«Il fatto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia» Un’opinione sul neorealismo

online D4 Louis-Ferdinand Céline La vera natura dei Bianchi Viaggio al termine della notte

Le componenti del pastiche La lingua di Gadda presenta un impasto di elementi lessicali provenienti da disparate aree linguistiche, liberamente contaminate tra di loro: • forme dialettali (in particolare il lombardo, il milanese, il vernacolo toscano, e in seguito il romanesco, ma non solo: si pensi al molisano del commissario Ingravallo del Pasticciaccio); • apporti da lingue straniere (in particolare francese e spagnolo); • termini popolari e gergali, accostati magari in poche righe ad arcaismi, latinismi e grecismi; • lingue speciali, dalla scienza alla tecnica al diritto, lingue dei mestieri, apprezzate da Gadda per la precisione definitoria; • lingua della tradizione letteraria, i cui termini sono però impiegati in modo che Gadda definisce spastico: con questo

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aggettivo egli allude alla “torsione” iper-espressiva o ad accostamenti stridenti. Spesso un lessico aulico viene impiegato per rappresentare una realtà bassa e viceversa un lessico basso viene utilizzato in rapporto a un soggetto nobile ed elevato; • arditi neologismi, in cui «si nota una spiccata passione per l’onomatopea» (Ferrero), come in questi pochi esempi: glugolando, frinfinare, e per i composti: grammofono-digestione, occhi-gemme ecc. Al pastiche lessicale si associa nel ricchissimo stile gaddiano l’uso ricorrente di figure retoriche quali la metafora, la metonimia, il mascheramento e l’iperbole (da sempre strumento prediletto della poesia eroicomica). Vero e proprio stilema gaddiano è l’enumerazione.


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Gianfranco Contini Gadda appartiene alla razza dei supremi macaronici G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, Firenze 1968

Gianfranco Contini (1912-1990), amico personale di Gadda, oltre che suo estimatore, ha contribuito a farne conoscere la grandezza e l’originalità di scrittore, un’originalità che il critico riconduce soprattutto allo stile espressionista, alla scrittura “deformata”, lontana da canoni classicheggianti. Per lui lo stile gaddiano discende dal filone che, dall’anticlassicismo cinquecentesco di Folengo e Rabelais (e, in misura minore, dalle scelte linguistiche “irregolari” di alcuni scapigliati), porta, nei tempi moderni, a Joyce e a Céline.

Violento ma squisito scrittore, per venti o trent’anni letto e celebrato solo da una piccola schiera di avanguardia, Gadda conta1 oggi fra i più celebri, se non popolari, anche fuori d’Italia (traduttori ardimentosi hanno vòlto il Pasticciaccio perfino in francese e in tedesco). E di ciò è da congratularsi col gusto del 5 pubblico, solo in parte dovuto all’equivoco che lo interpretava precursore (involontario) del tanto più pallido (e ideologicamente condizionato) neorealismo dialettaleggiante del secondo dopoguerra2 [...]. Gadda appartiene alla razza dei supremi «macaronici»3 quali Teofilo Folengo (Merlin Cocai) e il suo coetaneo francese Rabelais4: di essa nei tempi moderni il decisivo caposcuola è, per Ulys10 ses e per Finnegans Wake, James Joyce. Questi non sono ovviamente «fonti» di Gadda, ma suoi colleghi di alta statura nel tipo formale che si potrebbe definire di manierismo espressionistico: «mostruosa miscela» (come la Bruyère5 scrisse di Rabelais) di elementi linguistici disparati, maneggiati con estrema sapienza, volta a rendere, con effetti di grottesco enorme (anche se i moventi possano es15 sere, ed è spesso il caso di Gadda, strazianti) e con un’intrepidità realistica non arretrante innanzi ad alcuna risorsa scatologica od oscena6, il caos d’una cultura e d’un mondo in crisi. Fatti analoghi, anche se in meno ingenti proporzioni, non erano mancati al secondo Ottocento e al primo Novecento italiano, anche lombardo: il nome più importante è quello di Carlo Dossi7 [...], ma un luogo ri20 levante fuori di Lombardia spetta anche a Giovanni Faldella e a Vittorio Imbriani (almeno Alpinisti ciabattoni del vercellese A.G. Cagna8, amico e discepolo ideale del Faldella, era noto a Gadda). Una satira ora bonaria ora feroce dei costumi e dei miti della borghesia lombarda nutre il primo Gadda; e vi s’innesta il senso della propria infelicità infantile, costretta nella morsa di quelle abitudini familia25 ri, con la crescente nevrosi movente da tali traumi e dall’atrocità della guerra. 1 conta: è annoverato. 2 dovuto all’equivoco... dopoguerra: secondo un’interpretazione che Contini considera del tutto fuorviante, Gadda era apparso – in particolare per l’uso di elementi dialettali in alcune sue opere – un precursore del Neorealismo, al quale in realtà nulla (né le scelte ideologiche né quelle letterarie) lo poteva accomunare. 3 «macaronici»: si tratta di una categoria ideata da Contini e da lui impiegata in modo metastorico per raggruppare più autori accomunati dall’uso deformante del linguaggio. Propriamente il termi-

ne si riferisce alla lingua maccheronica (risultato di una commistione di lessico latino e volgare o dialettale con morfologia, sintassi, metrica e prosodia latine) impiegata da Teofilo Folengo (1491-1544 ➜ VOL1B PAG. 135) per il suo poema Baldus (ma in uso da tempo, ad esempio in ambienti goliardici). 4 Rabelais: François Rabelais (14941553), autore del romanzo Gargantua e Pantagruel (➜ VOL1B PAG. 142). 5 la Bruyère: il moralista francese Jean de La Bruyère (1645-1696), autore di celebri aforismi. 6 intrepidità... oscena: ardimento re-

alistico che si mostra capace di attingere anche agli ambiti del corporeo e dell’osceno. 7 Carlo Dossi: Carlo Dossi e gli autori di seguito citati sono riconducibili a vario titolo al movimento tardo-ottocentesco della scapigliatura. Contini li ascrive alla categoria dei «macaronici» (cfr. nota 3) per il gusto della trasgressione linguistica e dell’invenzione espressiva. 8 Alpinisti ciabattoni... Cagna: la fama di Achille Giovanni Cagna (1847-1931) è legata al romanzo citato (del 1888), che racconta la villeggiatura di una coppia piccolo-borghese di commercianti.

La visione del mondo 2 421


INTERPRETAZIONI CRITICHE

[...]. Alla fase milanese succede quella, più acerba e polemica, che all’ingrosso si può qualificare fiorentina. La più ricca di succhi, poeticissima, è quella romanesca del Pasticciaccio: ad esso e a molte altre pagine lo stimolo polemico più immediato viene dalla lungamente repressa avversione al fascismo. [...]. 30 È stato più di una volta discusso, e non sempre senza semplicismo, se la titanica esagitazione stilistica del tipo di Gadda9 abbia un significato rivoluzionario o viceversa, come qualcuno non ha mancato di asserire, reazionario-conservatore. Premesso che nel caso di Folengo e Rabelais si irride energicamente [...] a una cultura conservatrice, e in quello di Joyce l’esplorazione del profondo fa saltare in aria le 35 inibizioni della morale vittoriana e del cattolicesimo irlandese, bisogna ammettere che molte «ribellioni» stilistiche moderne sono fondamentalmente individualiste e anarchiche: così che, dei contemporanei per qualche verso assimilabili a Gadda (seppure con assai minor carica poetica), uno, il francese Louis-Ferdinand Céline10, poté finire antisemita e collaborazionista, un altro, il tedesco Günter Grass11, si po40 ne dimostrativamente al limite della sinistra democratica. Quelli di Gadda [...] sono indubbiamente «fatti personali»: dagli echi tuttavia amplificati in un mondo senza certezze, sebbene la parte negativa e sofferente di Gadda (quella positiva è in una potente carica vitale, naturalmente ottimistica) attesti una dolente nostalgia di certezza, la lacerante delusione d’un uomo d’ordine deluso dalla storia sua e di tutti. 9 la titanica... Gadda: l’eccesso oltranzista che caratterizza sul piano stilistico scritture come quella di Gadda. 10 Louis-Ferdinand Céline: è considerato uno dei grandi scrittori del Novecento europeo (1894-1961). La sua opera più importante, e suo primo romanzo, è

Viaggio al termine della notte (1932). È la storia di Ferdinand Bardamu, volontario nella Prima guerra mondiale, e delle sue tragicomiche avventure in Francia, in America, in Africa; a livello stilistico, è caratterizzato dalla contaminazione tra lingua popolare e lingua colta con fre-

quente uso di iperboli ed ellissi PER APPROFONDIRE, Il furore delle parole Gadda e Céline, PAG 459). 11 Günter Grass: scrittore tedesco (19272015). Ha ottenuto il successo mondiale con Il tombino di latta, pubblicato nel 1959.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Come fu erroneamente letto in un primo tempo Gadda? 2. Indica gli autori che Contini considera appartenenti alla categoria dei «macaronici» e spiega con parole tue le caratteristiche linguistiche che il critico identifica come comuni alla loro scrittura. 3. Quali due fasi presenta la scrittura gaddiana? 4. Nell’ultima parte del testo si fa riferimento al possibile risvolto ideologico-politico dell’espressionismo stilistico di Gadda (e di altri «macaronici»): qual è al proposito il giudizio di Contini? 5. Gianfranco Contini, nell’apertura del passo, sottolinea come l’opera di Gadda sia stata letta e apprezzata per venti o trent’anni soltanto da una «piccola schiera di avanguardia». Rifletti sul tema della fama in ambito letterario e sul fatto che molti grandi autori hanno avuto un riconoscimento tardivo. Esponi le tue considerazioni in merito, facendo riferimento al tuo percorso scolastico e alle tue letture personali.

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La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo 1 Alle radici del narrare gaddiano

L’aspirazione a una rappresentazione “totale” del mondo e la condanna all’incompletezza L’opera narrativa di Gadda è segnata da un paradosso di fondo: da una parte lo scrittore milanese aspira a testimoniare, attraverso la scrittura narrativa, una conoscenza il più possibile completa e veritiera del mondo, a fornire una mappa che “ordini” i dati che cadono sotto l’esperienza dell’osservatore; dall’altra, proprio questa esigenza, quasi ossessiva, di “inquadramento” e insieme di “totalità rappresentativa”, condanna la scrittura gaddiana all’incompletezza, al frammentismo: nella rappresentazione irrompono continuamente nuovi elementi e le digressioni spezzano la linea principale del narrare accumulando nuovi dati. Dall’ossessione della precisione derivano le stesure estenuanti protratte negli anni, l’interruzione di vari progetti e la non conclusione dei due romanzi principali, che mancano di un vero e proprio finale risolutivo. Frammenti per un unico libro in progress L’opera narrativa di Gadda, proprio per quanto si è detto, non mostra una reale evoluzione nel tempo, che implichi una significativa trasformazione delle tematiche o dello stile. I vari testi si riprendono e si intersecano, quasi a costituire un unico libro, una sorta di macrotesto, in cui i testi minori anticipano, o completano, o amplificano i temi proposti nei testi maggiori. Gadda stesso considerava i suoi racconti come tessere di un cammino di esplorazione conoscitiva che si ampliava negli anni. Nella sua idea, la scrittura era dunque costituzionalmente in progress perché in stretto e costante rapporto con le progressive acquisizioni conoscitive. La centralità della dimensione autobiografica: la “cognizione” e il “dolore” Gadda, come già si è detto, è indotto a scrivere dal desiderio di conoscere, e di conoscere innanzitutto le radici dolorose della sua nevrosi: fin dal Giornale di guerra e di prigionia la scrittura gaddiana nasce «materiata» della sua vicenda umana (Ferretti). Già nel diario giovanile emergono la “cognizione” e il “dolore”, binomio che rifluisce nel titolo dell’omonimo romanzo e che schematizza il contrasto tra desiderio di raggiungere la piena consapevolezza conoscitiva, e sofferenza esistenziale, che comporta necessariamente il disordine interiore. Nel proprio disordine interiore, nella propria sofferenza Gadda affonda senza alcuna reticenza il bisturi della sua analisi fin dall’inizio della sua esperienza di scrittore. Le tecniche narrative Gadda prende le mosse dal racconto naturalistico, a cui lo avvicina la sua ottica positivistico-scientifica, ma se ne distanzia subito, così come si differenzia in modo netto dai “realismi” del suo tempo per una ricerca più approfondita delle “cause” che stanno dietro i fenomeni e i comportamenti. Il suo modo di narrare in realtà non ha veri modelli e risponde solo all’originalità della sua visione del mondo: Gadda non rispetta i vincoli della trama, la necessità del finale; nel suo modo di narrare prevalgono le spinte centrifughe, dovute al suo sguardo analitico online che rifugge costituzionalmente dalla sintesi, che potrebbe comportaT2 Carlo Emilio Gadda re una semplificazione schematizzante: la sua narrativa procede così Un esempio delle tecniche narrative gaddiane per accumulo e trova la sua forma più tipica nel “catalogo”. Lo si vede I viaggi la morte bene nel testo che riportiamo dall’Incendio di via Keplero (➜ T2 OL). La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo 3 423


2 Un quadro d’insieme della narrativa gaddiana Dal Giornale alla Meccanica: il tema autobiografico della Prima guerra mondiale Il Giornale di guerra e di prigionia Gadda nasce come narratore con il Giornale di guerra e di prigionia (scritto tra 1915 e 1919 ma edito solo nel 1955) che contiene un insieme di materiali biografici fondamentali per conoscere l’autore e documentarne la precoce sperimentazione nell’uso del registro grottesco-deformante e del plurilinguismo. Questa sperimentazione stilistica prende avvio dall’esperienza della partecipazione alla guerra. Gadda vede il crollo dei suoi ideali e matura, a contatto con la tragica realtà della trincea, un giudizio duro sull’umanità, in particolare sui superiori; ma il giudizio impietoso coinvolge anche l’io narrante, poiché sperimenta sul campo le sue debolezze di carattere e ha una prima lampante rivelazione di quella nevrosi che lo affliggerà tutta la vita e che rappresenterà pienamente nella Cognizione del dolore. Il castello di Udine Sul tema della guerra Gadda torna più di dieci anni dopo con cinque prose scritte all’inizio degli anni Trenta e poi raccolte con prose di argomento diverso nel Castello di Udine (1934). La guerra viene ora, nel ricordo, celebrata e idealizzata come l’esperienza migliore della sua vita, nostalgicamente rimpianta, anche se la rappresentazione delle battaglie inclina a un gusto espressionista più che elegiaco-memoriale. Nella raccolta entrano poi testi di vario argomento: interessante in particolare, nella seconda parte, Crociera mediterranea, in cui Gadda già sperimenta quella critica alla borghesia (di cui qui è ironizzato il gusto per il viaggio avventuroso) che dominerà nelle sue più celebri prove narrative. Alla sofisticata erudizione di Gadda e alle sue non comuni competenze linguistiche risponde l’invenzione di un commentatore, che fornisce delle note esplicativo-commentative al testo. A questa figura Gadda dà il nome di Feo Averrois: un nome che rimanda ironicamente al grande filosofo arabo Averroè, commentatore di Aristotele, e che è ottenuto dalla manipolazione di un verso dell’Inferno dantesco: «Averoìs che ’l gran comento feo» (If IV 144). In realtà, come notò subito Gianfranco Contini (lo scopritore di Gadda con un saggio su «Solaria» del 1934), il commento consente a Gadda di sdoppiarsi e di utilizzare lo spazio delle note per amplificare il testo e presentarlo in una luce diversa. Apre il libro una delle prime dichiarazioni di poetica di Gadda: Tendo al mio fine, in cui l’autore enuncia l’adozione della “deformazione” tematica e linguistica che caratterizzerà il suo modo di scrivere. La meccanica La Prima guerra mondiale fa da sfondo anche al primo vero e proprio romanzo di Gadda (dopo l’incompiuto Racconto italiano di ignoto del Novecento, steso nel 1924). Scritto tra il 1928 e il 1929, La meccanica è pubblicato solo nel 1970, con tre capitoli inediti nella seconda parte in cui domina la raffigurazione dell’atrocità della guerra. Il romanzo ha al centro un triangolo amoroso, che vede coinvolti la bellissima popolana Zoraide, prima incarnazione del personaggio femminile della popolana, un giovane borghese appassionato di meccanica e il marito della donna, il falegname socialista Luigi.

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La Madonna dei filosofi Il primo libro pubblicato di Gadda è La Madonna dei filosofi (edizioni di «Solaria» 1931). Con quest’opera (che contiene racconti scritti tra il 1928 e il 1929 e per lo più già editi su «Solaria») lo scrittore milanese si presenta alla scena letteraria italiana dei primi anni Trenta caratterizzandosi come autore irregolare per quei tempi e sostanzialmente estraneo alle correnti dominanti. Il primo racconto, intitolato Teatro, manca di intreccio ed è un quadro socio-antropologico più che un racconto vero e proprio. Qui Gadda dà già un saggio eloquente della satira antiborghese che costituirà una delle tendenze dominanti della sua opera, ritraendo con ferocia il cattivo gusto del pubblico che assiste a un insulso melodramma, esso stesso esempio, per l’enfasi retorica che lo caratterizza, di mediocrità e volgarità. A questo testo fa da pendant Cinema (nella quarta sezione della raccolta): in questo racconto, dalle caratteristiche analoghe a Teatro (anche qui non c’è intreccio), un ragazzo di buona famiglia, di buona cultura ma squattrinato, in cui lo scrittore si identifica, una domenica finisce in un cinema. Qui si immerge in un universo popolare a cui il narratore sa bene di non appartenere, ma che guarda tutto sommato con simpatia e a cui aderisce la lingua, usata con funzione mimetica e non satirica. Una delle migliori prove narrative di Gadda è considerato il racconto eponimo (cioè, che le dà nome) della raccolta, La Madonna dei filosofi, in cui si ritrova una delle molte proiezioni autobiografiche dell’autore, nel personaggio del bizzarro e nevrotico ingegner Barolfo, appassionato di filosofia, che intreccia una relazione con la giovane Maria Ripamonti, nobile e ricca, che ha perso il suo fidanzato in guerra. Il tentato omicidio dell’ingegner Barolfo a opera di una ex amante (che sostiene di aver avuto un figlio da lui) rimanda al copione giallistico-poliziesco che ritornerà nel Pasticciaccio.

L’Adalgisa L’Adalgisa è una raccolta di dieci «disegni milanesi» (così li definisce l’autore nel sottotitolo) pubblicati a Firenze nel 1944. La silloge accoglie materiali narrativi precedenti anche di molti anni, di eterogenea provenienza, ma collegati dal riferimento al mondo della borghesia milanese: di essa Gadda intendeva rappresentare, attraverso una serie di “affreschi” (tale il significato del termine disegni), la crisi nel dopoguerra che porta al fascismo. La storia del testo Come è stato dimostrato dalle indagini filologiche del critico Dante Isella, ben sei testi dell’Adalgisa (tra cui il racconto eponimo) attingono a un progetto narrativo abbandonato (Un Cagnaccio di San Pietro, La ragazza e lo specchio, 1932 (Galleria nazionale, Roma).

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fulmine sul 220) che sarebbe dovuto diventare un romanzo e la cui prima ideazione risale al 1931: per la forte omogeneità dovuta alla ricorrenza di personaggi e situazioni, i sei testi costituiscono una sorta di “miniromanzo” all’interno della silloge, e in questa prospettiva vanno letti. Due testi, infine, Strane dicerie contristano i Bertoloni e Le navi approdano al Parapagàl, già apparsi in rivista, appartengono alla Cognizione del dolore, anche se qui sono presentati come racconti autonomi. Importante è nella raccolta l’apparato delle note, nel quale Gadda spiega e giustifica la forte volontà mimetica dei “modi mentali”, dei “modi idiomatici”, dell’impasto lessicale proprio della precisa zona di Milano che lo ha ispirato. «Il Robespierre della borghesia milanese» Nell’Adalgisa si può ritrovare una vera e propria «fotografia collettiva, completa di nonne, zie, infanti idolatrati: è il ritratto impietoso di una borghesia incolta, gretta, bigotta, negata all’umorismo [...]. Sullo sfondo, la Milano positivista, orgogliosa del “noster Politéknik”, provvista di istituti caritatevoli e filantropici, di circoli linguistici, che avvia al rito del concerto le sue giovanette, onde ne ricavino un certificato di nobile sentire, prima di iniziare una carriera coniugale, senza scosse» (Ferrero). Alludendo alla satira della borghesia milanese da lui portata avanti in molti suoi testi, Gadda stesso si attribuisce una significativa etichetta: in una lettera parla di sé come del Robespierre della «sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante, consigliante, sentenziante, giudicante e stentatamente grammaticante» (la perifrasi si riferisce a Milano, città in cui si mangia molto spesso la trippa, “busecca” in dialetto milanese). Il corrosivo ritratto della borghesia milanese trionfa nella raccolta L’Adalgisa, ma di fatto percorre come un filo rosso la maggior parte dell’opera di Gadda: da un lato nello scrittore permane l’ammirazione per lo spirito pratico, l’efficienza e la produttività economica della borghesia, dall’altro, già nella Madonna dei filosofi attacca la supponenza, il conformismo della nuova borghesia, in cui vanno prevalendo il cattivo gusto e il narcisismo esibizionistico. Gentiluomo d’altri tempi, nostalgico di un mondo scomparso, Gadda colpisce, con un vero e proprio furore dissacratorio, le figure-tipo della borghesia del suo tempo, i rituali, i simboli, e anche gli stereotipi linguistici. L’universo popolare Al ritratto negativo della borghesia fa da contrappunto la povera gente del popolo: i garzoni, le pollivendole, le serve, le lavandaie. Verso l’universo popolare Gadda talvolta mostra simpatia, attratto dalla sua vitale autenticità, ma certo non lo idealizza (anche per un innato spirito aristocratico) ed è lontano dal contrapporre le virtù popolari alla decadenza conclamata della classe borghese. Il personaggio di Adalgisa Tra popolo e borghesia si colloca Adalgisa, protagonista dell’omonimo racconto, uno dei più riusciti personaggi di Gadda. Ex cantante lirica di umili origini, dal popolino è salita al livello borghese sposando il ragionier Carlo, di cui è poi rimasta vedova, e dalla cui famiglia è sempre stata sprezzantemente respinta. Gadda si accanisce spesso sulle figure femminili (probabilmente a causa del suo difficile rapporto con la madre): nella sua opera la satira antiborghese si salda assai spesso alla misoginia e alla critica della struttura familiare, ma non tutti i personaggi femminili sono negativi, soprattutto se appartenenti al mondo popolare, come appunto Adalgisa.

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Giornale di guerra e di prigionia GENERE

documento autobiografico costituito dall’unificazione di diari stesi quando Gadda era volontario sul fronte di guerra

DATAZIONE

steso tra il 1915 e il 1919 ma pubblicato nel 1955

CONTENUTO

rappresentazione della tragica vita di trincea

Il castello di Udine GENERE

raccolta di prose

DATA DI PUBBLICAZIONE

1934

TEMI

idealizzazione della guerra

La meccanica GENERE

primo romanzo, incompiuto, di Gadda

DATAZIONE

scritto tra il 1928 e il 1929 e pubblicato nel 1970

CONTENUTO

triangolo amoroso sullo sfondo della Prima guerra mondiale

La Madonna dei filosofi GENERE

raccolta di racconti con una forte dimensione autobiografica

DATA DI PUBBLICAZIONE

1931 sulla rivista «Solaria»

CONTENUTO

satira antiborghese

L’Adalgisa GENERE

raccolta di 10 racconti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1944

CONTENUTO

ritratto ironico e caricaturale della borghesia milanese nel periodo che dal primo dopoguerra sfocerà nel Fascismo

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3 I due romanzi principali La cognizione del dolore Della Cognizione del dolore, il primo dei due romanzi principali di Gadda, parleremo diffusamente più avanti. Qui ci limitiamo a un inquadramento sintetico dell’opera. Pubblicata la prima volta in volume nel 1963, ha una storia editoriale complessa (era stata composta molti anni prima, verso la fine degli anni Trenta). Il romanzo ha al centro la figura tormentata di Gonzalo, alter ego dell’autore, come lui affetto da un “male oscuro”, scontento di sé e del mondo (La cognizione del dolore è l’opera più autobiografica di Gadda). Gonzalo è un ingegnere che, quando non è assente per lavoro, vive con la madre vedova nella villa che il padre ha voluto edificare. L’ambientazione della vicenda è fittizia: i fatti si svolgono nel tempo in cui il romanzo è composto (e quando in Italia domina il fascismo) in un immaginario paese sudamericano, il Maradagál, ma il richiamo alla Brianza dove si trovava la villa dei Gadda è palese (Longone nel libro diventa Lukones, Milano è Pastrufazio).

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana La storia del testo Verso la fine del 1945, colpito da un fatto di cronaca nera, Gadda scrive di getto quello che molti considerano il suo capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un romanzo in forma di “giallo”: l’intreccio ruota infatti intorno a un’inchiesta poliziesca relativa a un furto di gioielli e a un omicidio. Ampia parte del romanzo è pubblicata a puntate sulla rivista fiorentina «Letteratura» tra il 1946 e il 1947 (circa sei capitoli su dieci). Solo dieci anni dopo (1957) esce in volume, e porta con sé i segni di un tormentato lavoro correttorio a livello linguistico; inoltre, se alcune parti vengono ampliate, è però eliminato un intero capitolo che avrebbe incrinato la suspense, suggerendo in modo esplicito la soluzione del giallo. L’indicazione esplicita del colpevole, peraltro, si ha nella sceneggiatura cinematografica firmata da Gadda stesso all’inizio degli anni Cinquanta (Il palazzo degli ori) poi mai trasformata in film. La trama Il romanzo è ambientato a Roma nel 1927. Figura principale (se non vero e proprio protagonista) è il commissario Francesco Ingravallo, di origine molisana, detto “don Ciccio”: Ingravallo è un commissario-filosofo, che rifugge, per la sua forma mentale, dalle semplificazioni banalizzanti, poiché pensa che dietro ogni evento delittuoso esista un “groviglio” di moventi. Gadda presta al commissario alcune sue fondamentali convinzioni filosofiche, com’è evidente fin dalla descrizione in apertura dell’opera (➜ T3 ). La struttura Il romanzo può essere diviso in due parti, corrispondenti rispettivamente ai primi 5 capitoli (ambientati nel mondo della ricca borghesia a Roma) e agli ultimi 5 (relativi soprattutto al mondo del sottoproletariato sia urbano sia della campagna laziale). Capp. 1-5 La storia prende il via da un furto di gioielli su cui il commissario deve indagare e che avviene in un palazzo di via Merulana a Roma, abitato da ricchi borghesi, alcuni dei quali «pescecani di guerra» (cioè arricchiti con traffici speculativi illeciti): la vedova Menegazzi, una matura nobildonna veneziana, è stata aggredita e derubata da un rapinatore dal volto nascosto da una sciarpa verde. Sullo stesso pianerottolo abitano i coniugi Remo e Liliana Balducci, che il commissario frequenta: mentre il marito è un uomo volgare e donnaiolo, la signora Liliana

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è una giovane donna raffinata e dolce, intristita dalla mancanza di figli, che cerca di compensare circondandosi di giovani domestiche e ospitando e sostenendo economicamente (è molto ricca) delle “nipoti” che si rivelano non sempre raccomandabili e che ne tradiscono la fiducia. Il commissario è attratto platonicamente dalla giovane donna e ne intuisce il dramma profondo. Dopo solo tre giorni dal furto, Ingravallo riceve la tragica notizia che la signora Liliana è stata brutalmente assassinata in casa sua: il narratore si sofferma a lungo sulla descrizione della scena del delitto e del corpo della morta. La doppia inchiesta affidata al commissario Ingravallo mira a stabilire un possibile collegamento tra il furto e l’omicidio, data la loro concomitanza logistica e la vicinanza temporale. Sospettati inizialmente sono un giovane cugino di Liliana, da lei beneficato, e lo stesso marito, ma la fretta, imposta dal regime, di additare all’opinione pubblica un colpevole, induce la polizia ad arrestare un abitante del palazzo, il commendator Angeloni, un uomo malinconico, “colpevole” solo (secondo la propaganda demografica del fascismo) di essere celibe. La lettura del testamento di Liliana, presentata dal suo confessore, don Lorenzo Corpi, conferma la sua infelicità (e quasi un suo inconscio desiderio di morte, che già il commissario aveva intuito): la giovane signora beneficia in particolare le domestiche e le “nipotine”. Capp. 6-10 A partire dal sesto capitolo e fino al nono, la prospettiva sociale del romanzo si amplia, spostandosi dall’ambiente borghese al sottoproletariato borgataro e da Roma alla campagna laziale: costituisce un elemento importante nelle indagini un biglietto di tram per i Castelli (località nei dintorni di Roma) trovato nella casa della Mantegazzi. Le indagini, gestite ora dal brigadiere Pestalozzi, si focalizzano sull’equivoca bottega della vecchia megera Zamira (in realtà un centro di prostituzione e di protezione della piccola criminalità). Nel nono capitolo i gioielli sono ritrovati in un pitale pieno di noci in un cadente casello ferroviario. È arrestato per furto un venditore di porchetta, fratello del fidanzato di Ines, una popolana che era stata alle dipendenze della Zamira e che era stata una delle “nipotine” di Liliana Balducci. Nel decimo capitolo ritorna in scena Ingravallo, assente dal settimo, che nella campagna romana va a interrogare Assuntina (detta Tina), ex domestica dei Balducci. Il furto è stato risolto, ma non l’omicidio. Ingravallo vuole arrestare Tina, se non come assassina certo come complice del delitto, ma il romanzo si chiude con il grido della donna che si proclama innocente. L’animosità del commissario si smonta e la verità appare lontana. Il contesto politico Il romanzo è ambientato nel 1927, in un preciso momento della storia italiana: Mussolini sta per diventare il “Duce”. In quel periodo cruciale il regime avvia una politica di moralizzazione e di tutela dell’ordine pubblico per conquistare i favori della media e piccola borghesia, enfatizzando la “sicurezza” garantita dal governo, che annuncia in toni reboanti di voler ripulire Roma dai ladri e dai mendicanti. In realtà la sicurezza consisteva soprattutto nella deliberata sparizione dai giornali dei casi di cronaca nera. In questa politica si inscrive anche la rapida individuazione di colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica, come il povero commendator Angeloni, identificato come soggetto sospetto perché celibe in tempi in cui gli italiani venivano incitati al matrimonio e alla procreazione. Nel quarto capitolo Gadda introduce una digressione polemica (come fortemente polemico è ogni altro riferimento al regime fascista) sui

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metodi d’indagine dell’epoca, alla ricerca a ogni costo di un colpevole: è il caso, ai tempi clamoroso, di Gino Girolimoni, il “mostro di Roma”, qui denominato Pirroficoni, accusato pregiudizialmente di violenze a bambine, in realtà del tutto innocente. Il fascismo costituisce uno sfondo certo non insignificante del romanzo, di cui occorre tenere debito conto per comprenderlo nel suo insieme. Un giallo senza finale o lo smontaggio del genere giallo? Il Pasticciaccio delude le aspettative del lettore comune, perché manca di un finale risolutivo: infatti non si scopre chi ha ucciso Liliana Balducci. Incompiutezza o volontà dell’autore? In un’intervista al collega Alberto Moravia (nel dicembre 1967 sul «Corriere della Sera») Gadda parla, a proposito del finale, di una scelta voluta, finalizzata a «chiudere in apocope drammatica il racconto che tendeva a deformarsi». Se ne deduce che deliberatamente Gadda avrebbe voluto evitare il classico finale dei racconti gialli – modello a cui pure il Pasticciaccio si richiama – anche perché pensava così di poter incontrare con questo romanzo un pubblico di lettori più vasto, come effettivamente avvenne. Di fatto Gadda smonta dall’interno il genere giallo, mostrandone le debolezze (del resto lo stesso Ingravallo, il problematico commissario-filosofo, è l’antitesi del commissario-tipo dei gialli). Mentre nel giallo canonico il lettore è alla fine gratificato e tranquillizzato dalla presenza sicura di un colpevole, «per Gadda il capro espiatorio non esiste, è un alibi: il colpevole è sempre altrove; e quel reale che vien dato per certo esiste come parvenza» (Ferrero). Additare un colpevole corrisponderebbe a fare un romanzo d’evasione, di intrattenimento, mentre a Gadda preme risalire (la vera indagine è questa) a tutto quello che sta dietro il delitto. La metafora del “pasticcio” L’obiettivo di Gadda è anche in questo caso eticoconoscitivo: «scoprire il ventaglio delle concause che hanno permesso al male di manifestarsi un’altra volta» (Ferrero), quel male di cui il corpo straziato di Liliana è quasi la tangibile materializzazione. Il senso del romanzo e dell’indagine in esso sviluppata, come già nella Cognizione, è il problema di come il Male si annidi nelle pieghe dell’animo umano e di conseguenza nella società. Ma la natura umana si rivela un tale garbuglio che nessuna indagine può venirne a capo: la verità è infatti per Gadda sempre sotto, dentro (come insegna la psicoanalisi), e non è detto che possa mai venire alla luce. Da qui appunto il “non finale”: il grido di Assuntina che protesta la sua innocenza è in un certo modo la rivelazione dell’impotenza a cui la ricerca di Ingravallo (ma, in senso lato, ogni ricerca di responsabilità) è condannata, perché il garbuglio resiste a ogni sforzo per decifrarlo. Da qui il titolo del romanzo, e anche la tecnica narrativa, che tende a riprodurre il pasticcio: la narrazione non segue uno sviluppo lineare, ma è il risultato dell’accumulo di materiali in perpetuo divenire fino al finale aperto.

Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana GENERE

romanzo in forma di “giallo” ma senza soluzione

DATA

pubblicato su rivista tra il 1946 e il 1947 e in volume nel 1957

AMBIENTAZIONE

Roma borghese e delle borgate durante il Fascismo

TEMI

impotenza dell’uomo di fronte al garbuglio

LINGUA E STILE

anche la tecnica narrativa riproduce il “pasticcio” del titolo

430 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


Carlo Emilio Gadda

T3

Il ritratto del commissario Ingravallo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1971

È questa la pagina, giustamente celebre, che apre il Pasticciaccio, presentando la figura del commissario Ingravallo, figura cardine del romanzo.

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio1. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile2: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi3, onnipresente su gli affari tenebrosi4. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti 5 e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici5 dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale6 gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un 10 ricordo della collina molisana7. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire8 adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista9, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che for15 mavano il tormentato contesto del di lui tempo10. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!» Era, per lei, lo «statale distintissimo» lungamente sognato, preceduto da cinque A11 sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi12» e non ostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che 20 nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda... sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione13... che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato14 e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire 25 che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano15, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume16».

1 don Ciccio: don è titolo onorifico d’uso nell’Italia meridionale. 2 comandato alla mobile: assegnato in servizio alla Squadra mobile; è terminologia del linguaggio burocratico. 3 ubiquo ai casi: dovunque presente nelle indagini: ubiquo è un latinismo. 4 tenebrosi: oscuri, difficili da risolvere. 5 bernoccoli metafisici: protuberanze della fronte (sede del pensiero). 6 il magro onorario statale: il modesto stipendio di funzionario dello stato. 7 collina molisana: il commissario è originario del Molise. 8 a non dire: per non dire. 9 quell’arruffio... imprevista: quella con-

fusione di continui squilli di telefono e di impreviste comunicazioni della polizia (spedite in buste gialle). 10 del di lui tempo: della sua giornata. 11 preceduto da cinque A: un tempo, le inserzioni nelle pagine degli annunci sui quotidiani esordivano spesso con “AAA cercansi/affittansi…”. 12 Era per lei... affittasi: la signora che ha affittato una stanza al commissario ha specificato nell’inserzione dell’offerta sul quotidiano di Roma «Il Messaggero» che offriva una stanza soleggiata: quella che definisce un’esca con cui è riuscita ad attirare l’affittuario ideale, che per lei coincide con il commissario Ingravallo, per il quale

nutre una vera e propria venerazione, anche perché era riuscito a farle togliere una multa che le era stata inflitta per non aver chiesto la licenza di affittacamere. 13 licenza di locazione: permesso di affitto. 14 governatorato: termine con cui all’epoca era definito il comune di Roma. 15 lo portavano... mano: espressione idiomatica con una inflessione romanesca (parma per “palma”) che significa: lo tenevano tutti in grande considerazione. 16 me butto a fiume: mi uccido (romanesco).

La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo 3 431


Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come 30 pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea17 (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano 35 poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate18 catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica19 40 nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali20 convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai 45 filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant21, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare 50 la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo22 della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti23. «Quanno me chiammeno!... Già. Si me chiammeno a me... può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà24...» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. 55 La causale apparente, la causale principe25, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ 60 stancamente, «ch’i’ femmene se retroveno addo’ n’i vuò truvà26». Una tarda riedizione italica del vieto27 «cherchez la femme28». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare29 che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto30 di affettività31, un

17 teoretica idea: idea filosofica. 18 inopinate: inaspettate. 19 un vortice... ciclonica: termini appartenenti alla meteorologia. 20 causali: cause, moventi (termine giuridico). 21 Aristotele... Kant: il filosofo greco (384322 a.C.) e quello tedesco (1724-1804) sono qui associati per il loro ruolo primario nella definizione del concetto di causalità. 22 pìceo: color pece.

23 «suoi» delitti: i reati sui quali investigava. 24 Quanno... sberretà: quando mi chiamano! Già. Se chiamano proprio me... si può stare sicuri che si tratta di un guaio: qualche groviglio da sbrogliare (sberrettare è termine dell’area abruzzese-molisana); gliuommero o gliommero è voce del dialetto napoletano, dal lat. glomere(m), a sua volta da glomus, -meris “gomitolo”. 25 principe: principale.

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26 ch’i’ femmene... truvà: che le donne si trovano dove non le vuoi trovare.

27 vieto: antiquato, vecchio. 28 cherchez la femme: letteralmente “cercate la donna”, detto francese che indica nella donna, e nell’eros, la causa di molti guai. 29 significare: dire. 30 un quanto: termine tratto dalla fisica quantistica. 31 affettività: pulsione emotiva.


certo «quanto di erotia32», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo33, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono 70 come non altre ad accileccare34 gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti35. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei 75 taliani36, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso37: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta38, regolarmente spenta. 65

32 erotia: neologismo gaddiano, per alludere alla pulsione sessuale. 33 più edotto… secolo: più informato e conscio dei molti aspetti della vita.

34 accileccare: abbindolare (termine della

36 la baracca dei taliani: espressione

tradizione toscana). 35 una terminologia... matti: allusione al linguaggio della psicoanalisi che, alla fine degli anni Venti, era ancora frainteso e ridicolizzato.

ironica per intendere l’Italia (taliani per italiani con aferesi). 37 non se... inteso: non se ne curava. 38 sigheretta: sigaretta (romanesco).

Analisi del testo Un ritratto pluriprospettico Il romanzo si apre con una presentazione apparentemente canonica di quello che il lettore immagina subito trattarsi di un personaggio importante, dato lo spazio che gli viene riservato: si tratta del commissario Ingravallo, che coordinerà le indagini sul furto (e poi sull’omicidio) di via Merulana. La fisionomia del commissario emerge da più punti di vista: in questo senso la pagina che apre il romanzo già offre un saggio eloquente della prospettiva polifonica che anima la scrittura di Gadda. La descrizione è affidata alla voce narrante in terza persona: il suo aspetto fisico non è gradevole (in particolare colpisce il dettaglio della capigliatura scurissima che sembra un vello o una parrucca e che parte da metà fronte), il vestiario è modesto e trascurato, non appare nemmeno molto intelligente, data la «sonnolenza dello sguardo», il «fare un po’ tonto». Con questa prima presentazione contrasta la nota dissonante dell’invidia di cui è fatto segno in ufficio, a cui si allude nella prima riga e che viene ribadita verso la fine del testo. Evidentemente il dottor Ingravallo è abile, capace, e proprio per questo ricercato per i casi particolarmente difficili (dove c’è qualche gliuommero, cioè qualche garbuglio), come lui stesso ammette nel passo in discorso diretto: «Quanno me chiammeno...». Efficienza e particolare senso del dovere si aggiungono al ritratto attraverso le ammirate parole della padrona di casa, che introduce bruscamente nella narrazione il suo punto di vista: essa vede in Ingravallo il prototipo dello «statale distintissimo» di cui andava in cerca, ligio al dovere («Ieri mi è tornato che faceva giorno!») e a cui peraltro è grata di averle fatto togliere la multa per non aver richiesto la licenza di affittare. Lo spazio maggiore della presentazione è occupato dal riferimento da parte del narratore alle «teoretiche idee» del commissario, che fanno di lui un commissario-filosofo, alter ego di Gadda stesso. Infine (rr. 63-77), dove si fa riferimento all’onnipresenza dell’eros nei delitti (erotia) e ai libri strani che secondo varie voci egli leggeva (verosimilmente libri di psicoanalisi), si introduce il punto di vista dei colleghi di Ingravallo, invidiosi per la particolare sagacia del commissario, ma anche sospettosi verso le «questioni un po’ da manicomio», l’uso di una «terminologia

La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo 3 433


da medici dei matti» alle quali per formazione e cultura sono refrattari e a cui invece, per risolvere i suoi garbugli, si rivolgeva Ingravallo: secondo loro servivano solo ad accileccare gli sprovveduti. La “voce” è sempre quella del narratore, ma il discorso indiretto libero restituisce il punto di vista dei colleghi, che contrappongono ai fumi e alle filosoficherie di Ingravallo il loro pragmatico sapere di poliziotti («Per la pratica ci vuol altro! [...] pazienza [...] stomaco [...] senso di responsabilità e decisione»).

Le “teoretiche idee” di Ingravallo-Gadda Al modesto aspetto dell’Ingravallo, Gadda contrappone la sua originale visione del mondo, che riproduce alcune sue fondamentali idee filosofiche: in particolare la riflessione sul concetto di causa che lo porta a sostenere la necessità di rivedere il concetto di relazione causa-effetto quale era stato elaborato dalla tradizione filosofica (da Aristotele a Kant). Non solo ogni delitto, ma ogni evento è scatenato da «una molteplicità di causali convergenti», ovvero da una molteplicità di concause che convergono a creare un vortice inestricabile. Da qui il garbuglio. Naturalmente in questo caso i riferimenti filosofici sono “abbassati”, o addirittura grottescamente deformati: si veda in particolare la similitudine «come si storce il collo a un pollo». Può essere ricondotto agli interessi gaddiani (e in particolare alla lettura delle opere di Freud) anche il riferimento all’erotia, al movente erotico che sta spesso dietro, secondo il commissario, anche a delitti in cui sembra primario l’interesse. Anche in questo caso l’allusione alle teorie freudiane è abbassata quasi a un livello comico: «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà».

Il pastiche stilistico È evidente il plurilinguismo che caratterizza lo stile gaddiano. Qui esso ha a che fare anche con la molteplicità dei punti di vista e delle “voci” a cui si è fatto riferimento. Il testo è scritto in un italiano standard, in cui si innestano espressioni colte (zolfanello illuminatore, tempo incubatorio) o letterarie (ubiquo, inopinate) e termini filosofici e giuridici. Nelle frasi in discorso diretto del commissario domina il dialetto (in particolare il molisano); nel discorso indiretto libero, che riproduce il parlato-pensato della padrona di casa, domina invece il romanesco.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo in 10 righe. COMPRENSIONE 2. «L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente». Che cosa intende affermare Gadda rivisitando il concetto di “causa”? ANALISI 3. Sintetizza la filosofia di vita del commissario. TECNICA NARRATIVA 4. Nel passo dedicato alla padrona di casa di Ingravallo puoi riscontrare un esempio della tecnica narrativa “digressiva” propria di Gadda? STILE 5. Identifica i principali paragoni e le metafore, quindi spiegane il significato in rapporto al contesto. 6. Rintraccia nel testo parole ed espressioni caratteristiche del plurilinguismo gaddiano.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Il commissario Ingravallo ha non pochi tratti comuni con il giudice D’Andrea della Patente di Pirandello: fai un confronto tra i due personaggi.

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4 Leggere La cognizione del dolore 1 Il titolo e le circostanze della composizione Perché “cognizione” Il titolo offre già una chiave di lettura del romanzo e ne mostra il carattere speculativo e filosofico. Gadda utilizza non la parola più comune, “conoscenza”, ma un sinonimo a prima vista più letterario (“cognizione” è usato da Machiavelli, Leopardi, Manzoni). Non si tratta però di una ricercatezza stilistica, ma della scelta precisa di uno scrittore che pondera ogni singola parola per definire con la massima esattezza possibile ogni oggetto, ogni concetto. “Conoscenza” implica un sapere definitivamente acquisito, mentre “cognizione”, come lo stesso Gadda precisa a proposito del suo romanzo in un’intervista del 1963, definisce un processo conoscitivo di «graduale avvicinamento ad una determinata nozione». Ciò vale tanto più in quanto il tema del romanzo è il dolore, «il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato [insanabile, senza rimedio]» (P. II, VI). Gli eventi biografici alla base dell’opera La cognizione del dolore, considerata dall’autore la sua opera più importante, è anche la più autobiografica. Lo dimostra innanzitutto la figura del protagonista, don Gonzalo, trasparente alter ego dell’autore: ne rispecchia infatti non solo i tratti somatici e caratteriali, ma anche la storia personale, dai difficili rapporti con la madre, alla traumatica partecipazione alla Prima guerra mondiale, alla perdita del fratello minore durante lo stesso conflitto. La natura autobiografica del romanzo è rivelata anche dallo stretto rapporto tra la sua composizione, iniziata nel 1937, e due avvenimenti chiave nella biografia di Gadda: la morte della madre, nel 1936, e la vendita della detestata casa di Longone, nel 1937. Scrivere in quel momento significava per Gadda tentare di chiarire a sé stesso le ragioni del proprio disadattamento alla vita, fare i conti con una storia passata difficile e in particolare analizzare il suo complesso rapporto con la madre, i sentimenti contrastanti di amore e odio, rabbia e rimorso che lo caratterizzavano e che sopravviveranno alla morte stessa della donna. Le fasi di scrittura del libro Proprio per l’urgenza biografica che la ispira, l’opera è scritta inizialmente di getto, tra il 1938 e il 1941 e pubblicata, in uno stato provvisorio, a puntate sulla rivista «Letteratura» (altri due capitoli, come si è detto, entrano a far parte dell’Adalgisa, un terzo della raccolta Novelle dal Ducato in fiamme). Nel 1963, incalzato dalla casa editrice Einaudi, che gli affianca come redattore Gian Carlo Roscioni (poi divenuto uno dei più importanti critici dell’opera gaddiana), lo scrittore, pur senza ancora terminarlo, arriva finalmente a pubblicare il libro che lo consacra come uno dei più grandi autori del Novecento italiano (correda l’opera un saggio introduttivo del critico Gianfranco Contini). Nel 1970 Gadda appresta una nuova e più ampia versione dell’opera, aggiungendo due parti intermedie, ma non la risoluzione finale del “giallo”; non perché la vicenda, del tutto lineare, non possa facilmente trovare un compimento, ma per una sorta di resistenza

Leggere La cognizione del dolore 4 435


dello scrittore alle conclusioni, che considerava sempre riduttive e semplificatorie rispetto alla complessità del reale. Dato il modo di procedere di Gadda nella composizione (lavorava per frammenti, predisponendo poi ipotesi su come legarli in una trama), sono rimasti vari passi non inclusi nell’opera, alcuni dei quali furono inseriti nell’edizione critica, curata nel 1987 da Emilio Manzotti, con un’appendice di materiali inediti e un commento.

2 La trama e la struttura La trama Il libro, povero di eventi (tutto ciò che davvero conta è già avvenuto nel passato), ruota intorno alla nevrosi del protagonista e alla sua insofferenza per la realtà degradata che lo circonda, e al conflittuale e ambivalente rapporto di amoreodio con la madre. La vicenda si svolge tra gli anni Venti e Trenta ed è ambientata in un immaginario paese di lingua spagnola del Sud America, il Maradagàl (travestimento parodico della Brianza, dove si trovava la villa del Longone). Nel paese, appena uscito da una guerra con il confinante Parapagàl, si sta affermando un’associazione di sedicenti ex combattenti e reduci di guerra, in realtà personaggi equivoci, che con minacce e ricatti inducono i proprietari delle ville a farsi “proteggere” versando in cambio del denaro (dietro queste figure si celano le camicie nere fasciste). A Lukones (deformazione spagnolesca per Longone) esponente di tale organizzazione è un inquietante personaggio detto Manganones. Pochi rifiutano tale illegale “protezione”, e fra questi don Gonzalo Pirobutirro, un hidalgo, nobile spagnolo di piccolo casato, nevrotico, che lavora a Pastrufazio (Milano) e vive d’estate in una casa di campagna a Lukones con la vecchia madre. Contro di lei Gonzalo ha incoercibili accessi d’ira, dovuta a motivi passati (la durezza di lei quando Gonzalo era bambino) e presenti (l’eccessiva disponibilità e generosità della donna verso gli abitanti del villaggio, considerati dal figlio volgari e indegni profittatori). Dopo aver licenziato il servo Giuseppe e dopo un’ennesima lite con la madre, Gonzalo lascia per sempre la casa; la stessa notte la donna viene trovata moribonda, vittima di una feroce aggressione. La mancanza di una conclusione non permette di individuare con certezza il responsabile: molti indizi fanno pensare a una vendetta del Manganones, ma certamente anche il figlio è, almeno moralmente, colpevole della morte della donna, per averla lasciata sola e senza protezione. La struttura L’esile trama del romanzo non è che un traliccio narrativo su cui l’autore si diverte a ironizzare con coincidenze inverosimili e personaggi caricaturali, come i contadini (denominati peones) che circondano la Signora, la madre di Gonzalo che così desidera essere chiamata per testimoniare il suo prestigio sociale. Il romanzo, composto di scene quasi indipendenti l’una dall’altra, legate soltanto da esili raccordi, è suddiviso in due parti, la prima di quattro capitoli, la seconda di cinque, che si differenziano soprattutto per il registro stilistico. Prima parte La prima parte del romanzo fornisce l’antefatto del dramma e, attraverso un narratore onnisciente, con un registro spesso grottesco e ironico, presenta la società dell’Italia-Maradagàl e il protagonista don Gonzalo, dapprima attraverso il punto di vista ostile e svalutante degli abitanti del paese e quindi attraverso le angosciate confidenze dello stesso Gonzalo al dottore del paese, con il quale intrattiene un lungo dialogo di carattere a tratti filosofico.

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Seconda parte I temi introdotti nella prima parte, nella seconda acquistano una risonanza più tragica e profonda e anche il registro muta di conseguenza. Fin dall’apertura («Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? Di una vita»), attraverso il discorso indiretto libero, emerge anche il punto di vista della madre angosciata e smarrita. In questa seconda parte lo spazio narrativo si restringe, quasi claustrofobicamente, alla casa, dove la madre e il figlio, ciascuno rinchiuso nel proprio isolamento interiore, ripercorrono angosciosamente la propria vita, vedendola declinare verso la solitudine, la disperazione, il nulla. Durante un temporale, simbolo del male incombente su di lei, la donna vaga sola nella villa, cercando, senza trovarle, ragioni di conforto che leniscano la sua solitudine; anche il figlio, prima di arrivare a minacciare di morte la madre, ripercorre amaramente gli oltraggi della sua esistenza, traendone sempre più furiose ragioni di odio e di risentimento verso di lei e verso la degradata società che lo circonda.

3 I temi Un romanzo “filosofico” Più che un romanzo, La cognizione del dolore è un’indagine analitica sulle cause del male e della sofferenza, che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e le loro molteplici relazioni: un tessuto estremamente complesso che ha il suo centro focale nel tema dell’oltraggio, il male che non trova risarcimento perché distrugge i rapporti su cui, secondo la filosofia gaddiana esposta nella Meditazione milanese, si fonda la precaria unità dell’individuo. L’organizzazione del romanzo si basa sull’opposizione, di ascendenza manzoniana, tra il mondo come è e come invece dovrebbe essere, tra il degradato mondo reale e un mondo ideale, «di lucido rigore, di magnanime virtù, di laborioso adempimento» (Manzotti), vivente ormai soltanto nelle elette letture filosofiche di Gonzalo che, chiuso nella sua stanza, studia l’etica kantiana (la «metafisica dei costumi») e i dialoghi platonici (il Parmenide, il Simposio, il Timeo e le Leggi, che, abbandonando la casa paterna, significativamente lascia aperte sulla pagina in cui si parla della città ideale e dove si può leggere: «Ma le leggi della perfetta città devono...»). La critica al degrado della società Sotto il velo scherzoso dell’esotico mondo del Maradagàl, che consente a Gadda un distanziamento dalla stretta attualità, non è difficile riconoscere l’Italia del primo dopoguerra e individuare alcuni precisi bersagli polemici: l’opportunismo dei molti che hanno tratto vantaggio dalla guerra, per lo più senza averla combattuta, cosa atrocemente offensiva per chi, come il protagonista (e come l’autore), l’ha affrontata per un alto ideale patriottico, con perdite devastanti (la morte del fratello); la violenza del fascismo, con la sua illegalità trionfante; lo smarrimento dei valori, sostituiti dalla corsa individualistica all’arricchimento e al vantaggio personale. Al tema sociale del libro si collega in particolare un’impietosa analisi critica della borghesia italiana, ormai lontana dalle qualità che ne avevano contraddistinto l’ascesa politica e sociale, priva di senso dello Stato, e perciò pronta ad assoggettarsi a un’organizzazione criminale come il Nistituós de vigilancia (allegoria del fascismo) e a sacrificare il bene comune e il rispetto della legge alla egoistica difesa dei propri interessi economici e della propria tranquillità. Nel romanzo è contrapposta la borghesia educata al senso del dovere e dello Stato – rappresentata simbolicamente da un immaginario antenato (➜ T6a OL) ma anche dal colonnello medico che sma-

Leggere La cognizione del dolore 4 437


schera gli imbrogli del Manganones, finto sordo di guerra – a quella emergente, dedita a una sfacciata esibizione di ricchezze (➜ T6b ) per lo più accaparrate in modi truffaldini e illeciti. Soprattutto nella prima parte del romanzo, la critica alla decadenza della società italiana trova accenti di grottesca ironia e di vera e propria comicità. Come, ad esempio, nelle pagine dedicate allo scempio architettonico della Brianza, a opera di architetti a cui tutto era «passato pel capo, […] salvo forse i connotati del Buon Gusto», nel costellare la campagna di ville pretenziose e volgari (➜ T5 ). Il gusto della caricatura emerge anche nelle pagine dedicate agli idoli letterari dell’epoca, come il poeta vate, Carlos Caçoncellos, «grande epico maradagalese» – trasparente caricatura di D’Annunzio, che, da esteta, «educando rose e amaranti» nella sua villa, una dimora fatiscente, rifiuta sdegnosamente di adibir cure al pollaio che gli consente di aver qualcosa da mangiare. In un mondo volgare che considera ormai irreparabilmente degradato e che disprezza, Gonzalo non può in alcun modo inserirsi e sceglie quindi di non vivere, chiudendosi in un totale isolamento, preda di un rancore crescente. Nell’incapacità di agire in modo costruttivo il personaggio di Gonzalo può essere accostato alla figura novecentesca dell’“inetto”, non a caso per lo più legata a rapporti problematici con le figure genitoriali, come nella Cognizione del dolore (Tozzi, Svevo, Moravia). Il conflitto con la madre: la prospettiva psicoanalitica La sofferenza di Gonzalo, che ne mina la capacità di agire e di aprirsi alla vita, ha un’origine più personale e profonda rispetto alle cause sociali: il conflitto irrisolto con la figura materna. Come La coscienza di Zeno, La cognizione del dolore è un romanzo psicoanalitico: nel rappresentare il rapporto tra il figlio e la madre, Gadda utilizza infatti categorie proprie della teoria freudiana, che aveva iniziato a conoscere già dalla fine degli anni Venti (➜ PER APPROFONDIRE, Gadda e le pscioanalisi, pag. 452). L’adozione di una prospettiva psicoanalitica è evidente già nell’intensità con cui Gadda evoca il punto di vista del protagonista bambino, quando la madre lo dominava con una durezza e un’intransigenza definite “sadiche”, negandogli la tenerezza di cui la sua età avrebbe avuto bisogno. La logica dell’inconscio freudiano emerge poi in diversi momenti del romanzo, sia quando il protagonista esprime attraverso un sogno angoscioso, che racconta al dottore, il desiderio inconscio che la madre muoia (➜ T7 ), sia in un evidente “atto mancato” che conferma le sue pulsioni aggressive nei confronti della madre: non soltanto Gonzalo licenzia il contadino Giuseppe (l’unico che avrebbe potuto opporsi all’aggressione notturna, o almeno dare l’allarme) ma, pur sapendo benissimo (tanto che lo spiega al medico) che il muro di cinta era del tutto insufficiente per una villa isolata, non fa assolutamente nulla per risolvere il problema. Il narcisismo: male individuale e male sociale Oltre al tema edipico, ricorrente nel romanzo novecentesco, La cognizione del dolore sviluppa un altro importante spunto attinto dalla psicoanalisi freudiana: la categoria del narcisismo, che offre a Gadda una chiave interpretativa delle dinamiche psicologicosociali di sorprendente modernità. Giorgio de Chirico, Il figliol prodigo, 1922 (Museo del Novecento, Milano).

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Il narcisismo , tema a cui Gadda dedica una particolare attenzione anche teorica (ad esempio nel dialogo L’egoista, nei Viaggi la morte, ma anche in Eros e Priapo, ➜ T1 ), è elemento di congiunzione nel romanzo fra il “male sociale” e quello personale. In un famoso passo dedicato a un caustico ritratto dei ricchi borghesi al ristorante, Gadda li rappresenta autocompiaciuti nel rimirarsi nello specchio delle pupille altrui, nell’offrire un’immagine esteriore di prestigio e di successo, a cui non corrisponde alcuna sostanza (➜ T6b ). La stessa tendenza narcisistica è da Gonzalo rimproverata ai genitori: la casa in Brianza, attorno a cui ruota la narrazione, secondo don Gonzalo-Gadda, sarebbe stata la più rovinosa manifestazione delle «cariche narcissiche [narcisistiche] de’ suoi generanti [genitori]», che avevano posto al di sopra di tutto, e in particolare del benessere dei figli (a cui avevano imposto umilianti privazioni) i falsi idoli della proprietà e della considerazione sociale.

Parola chiave

L’illusoria consistenza dell’“io” Al narcisismo si collega un altro elemento tematico centrale nel romanzo: l’illusoria consistenza dell’io, che si ritrova peraltro negli autori di altri grandi romanzi-saggio del Novecento, da Pirandello a Svevo, da Musil a Joyce. Se per l’autore ogni realtà fenomenica deve essere pensata come un sistema di relazioni infinite e in continuo mutamento, l’io non fa eccezione e non può essere concepito come uno stabile aggregato, se non da «mentalità pleistoceniche», con una tendenza estrema alla semplificazione. Si comprende dunque perché, durante la conversazione con il dottore, Gonzalo esploda in una violenta invettiva contro l’“io”, «Il più lurido di tutti i pronomi!», perché fonte dei più gravi errori etici, quando si pretende di puntellarne l’inconsistenza con un illusorio egocentrismo e con emanazioni narcisistiche come appunto il culto della proprietà. La fragilità dell’identità individuale si rivela in modo drammatico quando si dissolvono le relazioni su cui si fondava la sua illusoria consistenza. È il tema gaddiano dell’“oltraggio” di cui si è detto: essendo l’animo umano il risultato di una rete di rapporti che lo sostanziano, quando questi vengono meno si avvia un processo di dissoluzione (il «male invisibile») che spegne lo slancio vitale dell’individuo, di cui la morte è soltanto l’ultimo atto. Ne è doloroso esempio l’anziana madre, che si aggira nella casa, un tempo sentita come parte integrante del proprio “io” e come scopo principale della vita, fonte d’illusoria sicurezza. Ormai smarrita in una completa solitudine, dissoltisi i rapporti che davano senso alla sua vita, non riesce neppure più a ricordarsi di come un tempo fosse stata «donna, sposa, e madre»: morti il marito e un figlio, le resta un figlio ostile e rancoroso (Gonzalo), che è ormai per lei un estraneo minaccioso.

narcisismo Il termine “narcisismo” deriva dal mito di Narciso, giovane di stupenda bellezza, innamorato della propria immagine riflessa al punto da morirne: secondo una versione del mito, Narciso precipitò nell’acqua per afferrarla; secondo un’altra (narrata nelle Metamorfosi di Ovidio III, 339-510), si consumò per la passione impossibile da appagare: al suo posto nacque il fiore del narciso. Nel saggio Introduzione al narcisismo (1914), Freud distingue un narcisismo primario, fase

normale nello sviluppo affettivo del bambino, e secondario, patologico ripiegamento sull’Io. Il narcisismo non significa amore di sé, ma amore della propria immagine riflessa: incapace di amare (sentimento che implica la capacità di uscire da sé per accogliere l’altro), il soggetto investe su un io esteriore, dipendendo così dal giudizio degli altri e facendo corrispondere a una grandiosa immagine di sé un sostanziale vuoto interiore.

Leggere La cognizione del dolore 4 439


4 Il plurilinguismo L’aspirazione a uno stile “totale” La ricchezza tematica della Cognizione del dolore, che spinge la sua investigazione nei campi più diversi, dalla psicologia, alla psicoanalisi, alla storia, all’ambito sociale, alla filosofia, è tale che il libro è stato visto come una sorta di Divina commedia novecentesca, con un carattere di itinerario etico-conoscitivo «non meno morale di quello dantesco» (Robert S. Dombroski). Come quella di Dante anche la scrittura di Gadda aspira alla “totalità”: da qui la scelta del plurilinguismo, carattere essenziale dello stile gaddiano, che proprio nella Cognizione del dolore trova la sua più straordinaria espressione. Pier Paolo Pasolini ha osservato che in ogni frase di Gadda «si può vedere un fulmineo compendio della storia linguistica – e quindi della storia tout court – d’Italia. C’è il Trecento, il rinascimento, il barocco, il classicismo, il romanticismo e il Novecento: magari in sei righe»: tanto più ciò avviene in questo romanzo, in cui trovano posto insieme l’invettiva, la satira, il grottesco (finalizzato a mettere in luce il fondo meschino e abietto del comportamento umano), la resa mimetica dei linguaggi di massa (per metterne in evidenza la stolta vacuità), l’elevatezza aulica della tradizione classica, con i suoi termini arcaici e preziosi, impiegata con effetti di contrasto parodico, le «improvvise accensioni liriche» (Segre) e gli squarci di linguaggio sublime ed elegiaco, per esprimere la tragedia del vivere e la “cognizione del dolore”. Uno scrittore “difficile” A questo punto bisogna riconoscere che proprio per lo spessore semantico del suo linguaggio Gadda è uno scrittore difficile. Perciò la Cognizione del dolore non può essere letta come un qualsiasi romanzo, ma richiede un notevole impegno per riuscire a cogliere (con l’aiuto, quasi indispensabile, di note esplicative) il gioco delle allusioni e dei riferimenti e le connessioni fra i molteplici campi della vastissima cultura, umanistica e scientifica, padroneggiata dall’autore: ma, per chi non si sentisse pronto ad affrontare un impegno del geonline nere, Gadda è uno scrittore che può essere apprezzato anche T4 Carlo Emilio Gadda «Ogni oltraggio è morte» nella misura di una singola pagina, che spesso cela dentro di La cognizione del dolore parte I, cap. I sé tutto un mondo.

La cognizione del dolore GENERE

romanzo “autobiografico” di carattere speculativo e filosofico

AMBIENTAZIONE

la vicenda si svolge in un immaginario paese sudamericano dietro al quale si cela la Brianza

DATA

iniziato nel 1937, pubblicato su rivista a puntate tra il 1938 e il 1941 e in volume nel 1963

STRUTTURA

il romanzo, suddiviso in due parti, è incompiuto e ha un’esile trama

TEMI

riflessione sul tema dell’oltraggio; riflessione sul mondo come è e come, invece, dovrebbe essere; critica al degrado sociale; analisi, in chiave psicoanalitica, del rapporto con la madre

STILE

pastiche, impasto linguistico. Nella prima parte registro ironico e grottesco, nella seconda registro prevalentemente tragico e liricodrammatico

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Carlo Emilio Gadda

T5

L’ambientazione nel Maradagàl-Italia: le ville in Brianza, emblema di uno snobistico cattivo gusto

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 7

La cognizione del dolore parte I, cap. I C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a c. di E. Manzotti, Einaudi, Torino 1987

Questo brano è un esempio del registro comico che, soprattutto nei primi capitoli, fa da contrappunto al tragico, nella estrema varietà di toni e di stili che costituisce un elemento del fascino del romanzo. Nel primo capitolo del libro, dopo aver introdotto il tema dei rapporti politici e sociali del dopoguerra nel Maradagàl, trasparente controfigura dell’Italia, l’autore riprende in modo ironico il topos ottocentesco della descrizione del paesaggio in cui si inquadrano le vicende narrate. Rappresenta perciò la Brianza, devastata dal cattivo gusto dei moderni architetti.

Poiché tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani1, salvo forse i connotati del Buon Gusto. Era passato2 l’umberto3 e il guglielmo4 e il neo-classico e il neo-neoclassico5 e l’impero6 e il secondo impero7; il liberty8, il floreale, il corinzio9, il pompeiano10, l’angioino11, l’egizio-sommaruga12 e il coppedè-alessio13; e i casinos 5 di gesso caramellato di Biarritz14 e d’Ostenda15, il P.L.M.16 e Fagnano Olona17, Montecarlo, Indianòpolis18, il Medioevo, cioè un Filippo Maria di buona bocca19 a braccetto col Califfo20: e anche la regina Vittoria (d’Inghilterra), per quanto stravaccata su di un’ottomana turca21: (sic). E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, di marmo rosa: e occhi di bue da non dire, 10 veri oblò del càssero22, per la stireria e la cucina; col tinello detto office23: (la qual

1 pastrufaziani: milanesi (nella Cognizione del dolore, Pastrufazio è Milano). Si ricordi che Gadda, ingegnere, aveva frequentato il Politecnico di Milano. 2 Era passato: la descrizione del succedersi degli stili, devastanti come il passaggio delle truppe dei lanzichenecchi, ricalca ironicamente l’attacco «Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli ecc.» (I promessi sposi, XXX). 3 umberto: umbertino, stile eclettico e monumentale, che si espresse in Italia negli anni del regno di Umberto I (18781900). 4 guglielmo: si riferisce probabilmente all’architettura in voga sotto l’imperatore Guglielmo II di Germania (1888-1918). 5 neo-neoclassico: aggettivo coniato da Gadda. 6 impero: stile neoclassico del periodo napoleonico, diffuso tra il 1805 e il 1814 e oltre. 7 secondo impero: stile del secondo Ottocento, dell’epoca di Napoleone III; riprende lo stile impero, ma con lo spirito eclettico dell’epoca, lo rende meno severo, più raffinato ed elegante.

8 liberty: stile formatosi verso il 1890 e in voga fino alla Prima guerra mondiale, chiamato anche art nouveau o stile floreale, che si caratterizza per le forme morbide e sinuose. 9 corinzio: stile dell’antichità greca. 10 pompeiano: stile ispirato alle scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei. 11 angioino: stile derivato dal gotico francese, diffuso nel napoletano a partire dalla dominazione angioina del sec. XIII. 12 egizio-sommaruga: ibrido immaginato da Gadda fra l’arte egizia e le opere di Giuseppe Sommaruga, architetto milanese del primo Novecento, esponente dell’art nouveau. 13 coppedè-alessio: altro ibrido fra lo stile rinascimentale di Galeazzo Alessi, architetto del Cinquecento, e Gino Coppedè, architetto attivo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dallo stile eclettico e ornamentale, con alcuni caratteri del liberty. 14 Biarritz: località balneare della Francia, sul golfo di Guascogna. 15 Ostenda: città del Belgio sul mare del Nord.

16 P.L.M.: abbreviazione per il treno di lusso Paris-Lyon-Méditerranée.

17 Fagnano Olona: paese di cui era originaria la famiglia Gadda. 18 Indianòpolis: Indianapolis, capitale dello stato dell’Indiana (USA). 19 Filippo... bocca: Filippo Maria Visconti duca di Milano (1392-1447). Pietro Verri nella sua Storia di Milano lo definisce un «principe da nulla» e sottolinea come la rozza imperizia del principe sia testimoniata dall’aver fatto coniare monete con errori nel suo nome. 20 Califfo: massima carica politica islamica. 21 ottomana turca: gioco di parole tra un tipo di divano alla turca trasformabile in letto e i turchi ottomani. 22 occhi di bue… càssero: parte più elevata e più forte di un castello, e, per analogia, in nautica, la parte sopraelevata della nave sopra il ponte di coperta, detta anche castello di poppa, di solito destinata agli alloggi, quindi con oblò (occhi di bue). 23 office: nelle case signorili, locale di servizio, situato tra la cucina e la sala da pranzo.

Leggere La cognizione del dolore 4 441


parola esercitava un fascino inimmaginabile sui novelli Vignola24 di Terepáttola25). Coi cessi da non poterci capire26 se non incastrati, tanto razionali erano, di cinquantacinque per quarantacinque; o, una volta dentro, da non arrivar nemmeno al sospetto del come potervisi abbandonare: cioè a manifestazione alcuna del proprio 15 libero arbitrio. Ché, per quanto libere, sono però talvolta impellenti e dimandano, comunque, un certo volume di manovra. Con palestra per i ragazzi, se mai volessero cavarsi lo sfizio; non parendogli essere abbastanza flessuosi e snodati tra una bocciatura e l’altra, tra il luglio e l’ottobre. Con tetto a terrazzo per i bagni di sole della signora, e del signore, che aspiravano già da tanto tempo, per quanto invano, 20 sia lei che lui, alla bronzatura permanente (delle meningi), oggi cosí di moda. Con le vetrate a ghigliottina27 uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode28. 24 novelli Vignola: emuli di Jacopo Ba-

26 capire: stare dentro. Il latinismo (è l’in-

rozzi (1507-1573) detto Vignola dal suo luogo di nascita; fu architetto, pittore e trattatista. 25 Terepáttola: nel romanzo questo nome nasconde Lecco.

finito del lat. volgare, dal classico capio) è ovviamente usato in senso ironico, dato il contesto. 27 vetrate a ghigliottina: finestra a scorrimento verticale.

28 alla quale... sode: in una nota dell’Adalgisa, l’autore scrive: «Esempi innumeri di case inabitabili per troppo ampie vetrate: luce e vento e calore non sono sempre amici dell’uomo».

Analisi del testo Il “catalogo degli stili” e l’enumerazione caotica Il brano è un esempio di un motivo topico dello stile di Gadda, spesso ripreso dai suoi imitatori: l’enumerazione caotica, con funzione parodica. La comicità scaturisce dall’enfatizzazione caricaturale con cui sono ritratti gli edifici per le villeggiature brianzole, con i costruttori impegnati a inseguire i mutevoli, e spesso dissennati, dettati della moda in campo architettonico. Il catalogo stigmatizza lo scempio del paesaggio, in primo luogo per il sovrapporsi delle tendenze architettoniche più disparate, comunque estranee alla storia e alla tradizione del luogo. Si affacciano inopinatamente edifici ispirati a tutte le epoche e a tutti i luoghi della terra, dalla oscura provincia lombarda, all’esotica Asia (in un passo non antologizzato edifici simili a pagode sono accostati ad altri simili a chalet svizzeri), ai paesi nordici, all’America e persino a un treno di lusso, il P.L.M. Ad accentuare l’effetto comico, si aggiungono mostruosi ibridi, commistioni di stili del tutto incompatibili, come «l’egizio-sommaruga», improbabile incrocio fra lo stile dell’antico Egitto e quello di Sommaruga, celebre architetto, attivo nel primo ventennio del Novecento. Lo scrittore non risparmia poi i suoi strali all’architettura funzionale e razionale del Novecento, che sarcasticamente accusa di essere del tutto aliena da criteri di logica e praticità, una critica probabilmente formulata con qualche cognizione di causa, avendo l’autore conseguito la laurea in ingegneria presso il Politecnico di Milano.

Una trasparente allegoria L’ironia del catalogo degli stili è intensificata dall’allusione ai Promessi sposi (la presenza del romanzo manzoniano è spesso ravvisabile in filigrana nella Cognizione): il succedersi caotico e catastrofico delle mode architettoniche è descritto con espressioni che ricalcano quelle utilizzate da Manzoni per rappresentare le ondate devastatrici dei lanzichenecchi, nelle scorrerie nel territorio lombardo. Oltre all’indignazione per lo scempio architettonico (testimoniata anche da alcune lettere di Gadda), il passo rivela però anche una più sottile intenzione: il devastato paesaggio brianzolo è l’equivalente visivo della caotica situazione italiana del primo dopoguerra, emblema evidente della dimenticanza, da parte dei lombardi, della grande lezione dell’Illuminismo e del Positivismo. Attraverso la descrizione delle brutture architettoniche, lo scrittore denuncia i difetti della nuova borghesia: la volgarità, l’esibizionismo, i gusti provinciali, l’ignoranza della storia dell’arte, la vacua corsa al possesso, lo sfrenato individualismo dimentico del contesto sociale e civile. Il moltiplicarsi irrazionale, anarchico ed esibizionistico degli stili riflette perciò, per analogia, l’individualismo esasperato e l’assenza di senso civico che il romanzo denuncia negli italiani.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che senso è possibile intravedere nel testo una critica alla borghesia, la classe sociale di riferimento di tutto il romanzo? ANALISI 2. Il passo è un esempio evidente di ironia: attraverso quali mezzi è realizzata e quale ne è l’obiettivo polemico?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 7

T6

SCRITTURA 3. Il passo tocca un tema di grande attualità: lo scempio edilizio che deturpa il paesaggio italiano. Con Gadda siamo alla fine degli anni Trenta del Novecento; Calvino denuncia la speculazione edilizia negli anni Sessanta (C20). Dopo aver analizzato l’articolo 9 della nostra Costituzione, esponi in un testo di massimo 15 righe se ti sembra che oggi ci sia una maggiore coscienza etica ed estetica nella tutela del nostro paesaggio.

La distanza tra l’etica del passato e la degenerazione della borghesia contemporanea Nella Cognizione del dolore il male di Gonzalo non deriva solo da cause individuali, ma anche dal pervertito ordine sociale. Oggetto di critica è in particolare la borghesia, classe sociale a cui Gadda stesso apparteneva e di cui condivideva i valori, denunciandone al contempo la degenerazione. A incarnare le virtù borghesi e civiche Gadda crea la figura di un immaginario antenato: un governatore spagnolo integerrimo, rigoroso e coerente nell’anteporre l’interesse dello Stato a quello individuale, e tuttavia mal compreso e mal ripagato: «morto povero, senza un orecchio, e guercio: per aver lasciato anche un occhio in guerra». Ben distanti da questa ideale figura sono i borghesi arricchiti contemporanei di Gonzalo, spesso profittatori di guerra, frequentatori di ristoranti di lusso, e appagati nella loro vacua vanità dall’ostentazione della propria superiore condizione sociale ed economica.

online T6a Carlo Emilio Gadda

L’antenato di Gonzalo, esempio di antiche virtù La cognizione del dolore

Carlo Emilio Gadda

T6b

L’esibizione narcisistica dei borghesi nei ristoranti di lusso

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

La cognizione del dolore parte II, cap. VI C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a c. di E. Manzotti, Einaudi, Torino 1987

Gonzalo è seduto a tavola con la madre, ma il suo pensiero è altrove. In realtà egli sta accumulando ragioni di risentimento. Pensa a come gli ideali patriottici e di virtù civili concepiti nella giovinezza siano stati traditi in una società il cui emblema sono i «manichini ossibuchivori», i clienti borghesi di un ristorante di lusso, compiaciuti dell’esibito ossequio dei camerieri e, narcisisticamente, della loro stessa immagine, riflessa negli sguardi ammirati degli altri.

Gonzalo seguitava a fissare come un sonnambulo, senza vederli, il servito1, la tovaglia, il cerchio della lucernetta sulla tavola. Poco piú fumo, oramai, dalla scodella, verso i fastigi della tenebra2. 1 servito: portata. 2 i fastigi... tenebra: la parte alta della stanza, avvolta nell’oscurità.

Leggere La cognizione del dolore 4 443


Dove andava la sua conoscenza umiliata, coi lembi laceri della memoria nel vento senza piú causa né fine? Dove agivano le menti operose circa la verità, con la loro sicurezza giusta, illuminata da Dio3? Camerieri neri, nei «restaurants», avevano il frac, per quanto pieno di padelle4: e il piastrone d’amido, con cravatta posticcia5. Solo il piastrone s’intende: cioè senza che quella imponentissima fra tutte le dignità pettorali arrivasse mai a radicarsi in una 10 totalitaria armonia, nella fisiologia necessitante d’una camicia6. La quale mancava onninamente7. Pervase da un sottile brivido, le signore: non appena si sentissero onorare dell’appellativo di signora da simili ossequenti fracs8. «Un misto panna-cioccolatto per la signora, sissignora!». Era, dalla nuca ai calcagni, come una staffilata di dolcezza, 15 la «pura gioia ascosa» dell’inno9. E anche negli uomini, del resto, il prurito segreto della compiacenza: su, su, dall’inguine verso le meningi e i bulbi10: l’illusione, quasi, d’un attimo di potestà marchionale11. Dimenticati tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte, le barricate, le comuni12, le minacce d’impiccagione ai lampioni, la porpora al Père Lachaise13; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono 20 dei distesi, dei rifiniti14; e le cagnare15 e i blocchi le guerre e le stragi, d’ogni qualità e d’ogni terra; per un attimo! per quell’attimo di delizia. Oh! spasimo dolce! Procuratoci dal reverente frac: «Un taglio limone-seltz16 per il signore, sissignore! Taglio limone-seltz al signore!». Il grido meraviglioso, fastosissimo, pieno d’ossequio e d’una toccante premura, piú inebriante che melode elisia di Bellini17, rimbalzava 25 di garzone in garzone, di piastrone in piastrone, locupletando18 di nuovi sortilegi destrogiri gli ormoni marchionici del committente19; finché, pervenuto alla dispensa, era: «un taglio limone-seltz per quel belinone d’un 12820!». 5

3 Dove... Dio: in un vagare della coscienza, che sembra seguire verso l’alto il fumo dalla scodella, Gonzalo ricerca, senza trovarlo, il senso della sua vita, prima nella memoria, poi nei princìpi etici delle menti illuminate da Dio, ma l’immagine poi evocata dei borghesi al ristorante gli fa comprendere l’inattualità dei suoi ideali. I lembi laceri della memoria rimandano alla dissoluzione dell’io, tema della Cognizione. 4 padelle: larghe macchie d’unto. Il termine appartiene a un registro colloquiale. 5 il piastrone… posticcia: il plastron, lo sparato o pettorale inamidato (parte anteriore inamidata e talvolta staccabile della camicia da uomo) con un’ampia cravatta con il nodo fatto, che copriva quasi totalmente lo sparato. 6 senza che quella… d’una camicia: senza che quel segno di dignità (sparato della camicia e cravatta), imponente al massimo grado, fondasse le proprie radici nell’armonia, necessaria per la completezza del sistema, di una vera e propria camicia. Ossia: della camicia esiste solo la parte visibile, lo sparato. L’espressione aulica e ridondante ha un’evidente funzione ironica. 7 onninamente: del tutto (latinismo, ovviamente con funzione ironica). 8 ossequenti fracs: riferimento agli ze-

lanti camerieri. La metonimia rende in modo efficace la spersonalizzazione dei rapporti. Ciò che importa è il lusso della messinscena, la falsa apparenza di solerzia e di premura dei camerieri, l’essere da loro chiamati “Signori”. 9 Era... inno: ironizzando, il compiacimento dei borghesi viene paragonato alla gioia dell’amore mistico, con una citazione della Pentecoste di Manzoni, in cui le pure gioie ascose (v. 134) sono quelle dell’amore divino delle suore; anche l’ossimoro staffilata di dolcezza richiama il linguaggio mistico. 10 i bulbi: parte del midollo spinale che penetra nel cranio. 11 potestà marchionale: potere di un marchese. Obbediti dai servizievoli camerieri, i borghesi si illudono per un attimo di essere come gli antichi nobili. 12 le comuni: la Comune di Parigi (1871), in cui il popolo prese il potere. 13 la porpora... Lachaise: il sangue dei fucilati contro un muro del Père Lachaise, il cimitero parigino dove si erano asserragliati gli ultimi superstiti della Comune parigina. 14 il caglio nero… rifiniti: il sangue rappreso e raggrumato sui morti distesi a terra, sui cadaveri, come nel quadro di Goya. La rappresentazione vuole evocare

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l’orrore dell’esecuzione del celebre quadro di Goya al Prado di Madrid (Le fucilazioni del 3 maggio, degli insorti spagnoli contro Napoleone, 1814). L’immagine, che rende tangibile la violenza della storia, è un esempio dello stile espressionistico del romanzo. 15 cagnare: chiasso fastidioso e assordante, come di cani che abbaiano. 16 Un taglio limone-seltz: è una preparazione (ora passata di moda) a base di gelato, o sorbetto, di limone in un bicchiere da bibita, con l’aggiunta di acqua di selz, presentata con cannuccia e cucchiaino a manico lungo. 17 melode elisia di Bellini: melodia celestiale di Bellini. Vincenzo Bellini (18011835) è uno dei più celebri compositori d’opera dell’Ottocento. 18 locupletando: arricchendo. Il forte latinismo è usato in chiave ironica. 19 di nuovi... committente: di nuove magie di combinazioni chimiche gli ormoni nobiliari (di marchese) del cliente che aveva fatto l’ordinazione. Con intento parodico, Gadda accosta al lessico lirico ed elevato quello tecnico della chimica organica. Egli stesso ricorda in una nota come destrogiri sia un termine della chimica organica, della geometria e della cristallografia.


Sí, sí: erano consideratissimi, i fracs. Signori serî, nei «restaurants» delle stazioni, e da prender sul serio, ordinavano loro con perfetta serietà «un ossobuco con risotto». 30 Ed essi, con cenni premurosi, annuivano. E ciò nel pieno possesso delle rispettive facoltà mentali. Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione gli uni gli altri. Gli attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapzione d’un molleggio21 adeguato all’importanza del loro deretano, nella dignità del 22 35 comando . Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, «quanto è fesso!» [...]. Tutti, tutti: e piú che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi! A nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri23, putacaso, dei bambini di tre anni. 40 Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitarî: neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio. E quella era la vita. 45 Fumavano. Subito dopo la mela. [...] Cosí rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori. Molte réclames di tabacchi, o di liquori, dei piú oleosi e giallo verdi, erano state 50 inspirate, in tutto il Sud-America, dalla eleganza dei polsi delle loro camicie. Sulla retrocoperta del Fray Mocho24, ad esempio, si vedeva di frequente il fumo d’una sigaretta a esalare dalla bocca d’un tale verso il soffitto, cioè verso il limite fisico della pagina: in tenui volute, elegantissime: e il gomito era sulla tavola, e il bicchierino oleoso. E il polsino, e le dita «aristocratiche», e la sigaretta, erano alti e invidiabili 25 55 davanti la virile cera di digestione (del buco e osso), con baffi, per quanto opportunamente cimati26. Anime ardenti, sognanti, di giovani, per lo più fattorini di studio delle classi giovani e lavoranti-parrucchieri, fantasticavano di poter arrivare a tanto: un giorno! Dagli Appennini alle Ande27. Con quella sigaretta tra medio e indice, quel bicchierino giallo sulla tavola, quel polsino, quei gemelli da polso. Oh! 60 sí, sí! Quello, veramente, lo si vedeva ch’era arrivato a poter dire di se stesso: «Yo soy un hombre28». Non era una faccia di bischero: no, no.

20 per quel belinone d’un 128: per quell’imbecille (termine dialettale genovese) d’un 128 (è il numero del tavolino). Come i camerieri sono per i clienti solo fracs, e non persone, i clienti per i camerieri sono numeri. 21 Gli attavolati... molleggio: quelli seduti ai tavolini si sentivano affratellati (sodali) nella posizione impettita, nell’uso temporaneo di un sedile molleggiato; usucapzione deriva dal termine giuridico usucapione, che indica un possesso derivato dall’uso per un periodo di tempo stabilito dalla legge.

22 nella dignità del comando: dando ordini, si mostrano altezzosi (come se fossero su un trono). 23 bischeri: stupidi (termine è del dialetto toscano). 24 Fray Mocho: un giornale argentino. 25 cera: aspetto del volto (da cui si arguisce lo stato di salute o la disposizione d’animo). 26 cimati: spuntati alla cima. 27 Dagli Appennini alle Ande: il riferimento ironico è a un famoso racconto mensile (all’interno della narrazione del libro Cuore di De Amicis, 1886 ➜ V5M3U1),

il cui protagonista, un giovane ragazzo, giunge da solo dall’Italia in Argentina per cercare la madre, là emigrata per lavoro; dopo molte vicissitudini, riesce infine a trovarla. Il racconto diventa perciò emblema di una cosa a lungo desiderata, e infine raggiunta. 28 Yo... hombre: io sono un uomo (in spagnolo).

Leggere La cognizione del dolore 4 445


Analisi del testo I borghesi al ristorante: la recita del potere Si è detto che nella Cognizione del dolore Gadda esalta i valori della borghesia a cui era stato educato, ma mette impietosamente in luce anche i limiti e le angustie di questa stessa classe sociale. A tale proposito, è esemplare la scena dei ricchi borghesi in un ristorante di lusso. Gadda impiega le straordinarie risorse del suo stile per mettere in luce la ridicola vanità di una borghesia che si compiace di rituali mondani finalizzati a ostentare la propria superiore condizione sociale. Anche il servizio impeccabile e ossequioso dei camerieri non è altro che una recita, volta a tranquillizzare i borghesi sulla saldezza della loro posizione sociale, nella realtà storica continuamente messa in crisi dalle rivendicazioni delle classi sociali inferiori. Quella dei camerieri è dunque una finzione rassicurante: investiti del loro ruolo (al punto che non appaiono neppure più persone ma ossequenti fracs), essi simulano uno zelo e una deferenza che illude i borghesi di essere rispettati e riveriti come lo erano un tempo i nobili, conti e marchesi, serviti da uno stuolo di vassalli e di subordinati. In realtà è tutto falso, a partire dall’elegante divisa dei camerieri: la cravatta a farfalla è posticcia, la camicia è solo un “pettorale” inamidato, e a ben guardare, il frac è pieno di macchie. Del resto, la finzione vale anche per i clienti del ristorante: le sedie, su cui siedono impettiti, quasi fossero su un trono, sono in usucapzione, cioè solo temporaneamente da loro usufruibili. Il periodo (rr. 12-27) è costruito su un crescendo iperbolico, con un finale che provoca l’ilarità del lettore, quando il «grido meraviglioso, fastosissimo» dell’ordinazione, che rimbalza di cameriere in cameriere, appagando la vanità dei ricchi clienti fino a farli giungere, comicamente, a un piacere a livelli di estasi mistica (significativa l’ironica citazione manzoniana) e insieme di fisico godimento (il piacere non scende dal cervello, ma vi sale). Sulla soglia della cucina si rivela però la prosaica realtà: calato il “sipario” della finzione ben si vede quale sia la considerazione dei camerieri per i ricchi clienti: «un taglio limone-seltz per quel belinone d’un 128!».

Il narcisismo borghese dei «manichini ossibuchivori» La prima parte del testo si chiude su un primo piano del borghese soddisfatto che, con compiaciuta affettazione, fuma voluttuosamente una sigaretta. Rispecchiandosi negli sguardi degli altri clienti, secondo un tipico meccanismo narcisistico, si illude di offrire un’immagine di prestigio, successo ed eleganza. La descrizione di un così futile gesto, che potrebbe apparire eccessivamente analitica, ricorda Il giorno di Parini: come il poeta settecentesco si soffermava nella descrizione insistita dei vuoti rituali mondani del Giovin signore e dei suoi pari per denunciare la decadenza della classe nobiliare, così Gadda rivela e condanna la vacuità di una società che affida il suo prestigio non a virtù reali, ma a un’immagine esteriore di successo. Dietro la maschera non c’è nulla: con una delle più felici invenzioni lessicali, definisce i borghesi al ristorante «manichini ossibuchivori»; i manichini, che ricordano la pittura di De Chirico, alludono al vuoto interiore e all’assenza di valori, mentre il neologismo ossibuchivori per l’immediata analogia con le definizioni di categorie della specie animale (erbivori, carnivori ecc.), indica la degradazione della razionalità, tratto distintivo dell’uomo, a una condizione sub-umana.

Gadda e la società dei consumi Il lucido sguardo di Gadda, mezzo secolo fa, riusciva già a cogliere con estrema acutezza i meccanismi psicologici della società dei consumi, narcisisticamente fondati sull’esibire un’immagine esteriore di lusso e di successo: un’analisi oggi sempre più spesso ribadita da psicologi e sociologi (➜ PER APPROFONDIRE La società del narcisismo, PAG. 470). Coglie anche l’influenza delle immagini pubblicitarie nella costruzione dell’identità, come per il giovane fattorino che aspira, come suprema meta della vita, a sedere anch’egli ai tavolini di un caffè alla moda, elegante come l’uomo della pubblicità di liquori.

L’arma del pastiche Dal punto di vista stilistico, attraverso l’arma della parodia e del pastiche linguistico, Gadda disseziona impietosamente le false certezze borghesi, sgretolando l’inconsistente tessuto delle loro illusioni. Il pastiche fa conflagrare nella dissonanza i più diversi linguaggi, da quelli aulici della letteratura, compresa quella mistica («la “pura gioia ascosa” dell’inno»), alla lirica («melode elisia di Bellini»), ai pretti latinismi come locupletando, al linguaggio giuridico (usucapzione), ai numerosi richiami alla biologia («meningi e i bulbi; sortilegi destrogiri; ormoni marchionici»), che segnalano il carattere materiale e istintivo delle delizie borghesi, alle

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parole di crudo realismo “pittorico” dei fucilati alla Goya, a diretti epiteti dialettali (belinone, bischero). La commistione di registri dello stile gaddiano riflette l’adozione di diversi punti di vista: ad esempio, al registro del narratore, che con termini duramente espressivi denuncia la drammatica violenza della storia («il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti»), si contrappone il lessico volgare («le cagnare») di chi, da buon borghese indifferente, è solo urtato dal rumore e dalla confusione delle manifestazioni.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che rapporto lega i camerieri ai clienti borghesi del ristorante? Che cosa li accomuna? 2. Il riferimento alle complesse (e angosciose) elucubrazioni filosofiche di Gonzalo che apre il passo ti sembra fine a se stesso o pensi che possa in qualche modo essere collegato al seguito? ANALISI 3. Quale funzione, nell’interpretazione del passo, riveste l’immagine dello “specchio” («rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui»)? STILE 4. Gadda sviluppa nel testo una critica aspra alla borghesia, usando in questo caso in modo apertamente satirico il purilinguismo. Indica: a. i punti del testo in cui si verifica uno scontro fra prosaicità della situazione e scelta di immagini o di un lessico alto, aulico, letterario; b. espressioni di livello “basso”, magari appartenenti al parlato dialettale, e spiegane la funzione in rapporto al contesto.

Interpretare

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SCRITTURA 5. Nella rubrica domenicale Breviario del «Sole 24 ore» del 29 ottobre 2023, il cardinale Gianfranco Ravasi (1942) ha scritto queste eloquenti parole:

Credete a me: se hai un soldo, vali un soldo. Amara considerazione emessa da uno che se ne intendeva. A parlare è, infatti, Trimalcione durante la celebre cena che lo vede protagonista e che è incastonata nel romanzo latino Satyricon di Petronio, un autore del I secolo del quale lo storico romano Tacito ci ha lasciato un rapido ritratto. Il protagonista di quel frammento è un uomo che ostenta ricchezza, che esalta lo scialo e l’eccesso e che, quindi, disprezza la persona semplice, il povero. Purtroppo la sua tesi è da sempre una legge e lo è ancora oggi: l’unità di misura del valore e del successo è nel possesso di beni materiali ed economici in maniera esorbitante. Non mi importa come li si è acquistati, anche perché il denaro contiene in sé un autodetergente che rende immacolato come giglio anche il corrotto. Al contrario, chi stringe tra le mani un solo soldo è guardato con supponenza come un incapace e viene persino emarginato. Certo, questa è una riflessione bollata come moralistica, ma è una verità che spesso ha alimentato la letteratura, senza però incidere nella convinzione comune. Ecco, allora, l’ansia incessante dell’accumulo; l’adorazione idolatra di «mammona», il vocabolo di matrice fenicia usato da Gesù per denunciare questa perversione; ecco anche l’implacabile vizio capitale dell’avarizia, l’«antica lupa che più di tutte l’altre bestie ha preda per la sua fame sanza fine cupa», come ammoniva Dante; e ancora ecco la terribile piaga dell’usura che si accanisce proprio su chi ha un solo soldo ed è in difficoltà. Ma nonostante queste degenerazioni alla fine domina la fredda e ironica voce di Trimalcione: «Chi ha molti soldi naviga con vento sicuro». Rifletti sul tema dell’asservimento al dio denaro e al culto dell’apparire che da sempre governano la vita degli uomini ed esponi le tue considerazioni in un testo di massimo 20 righe.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

6. Rileggi con attenzione gli obiettivi 2 e 10 dell’Agenda 2030. Quale attinenza possono avere, secondo te, con il passo che hai appena letto?

Leggere La cognizione del dolore 4 447


PER APPROFONDIRE

La società del narcisismo Con notevole acutezza, anticipando quanto sociologi e psicologi avrebbero teorizzato decenni dopo sull’argomento, Gadda individua il narcisismo come carattere peculiare della modernità. In un dialogo del 1953, L’egoista (poi pubblicato nella raccolta I viaggi la morte), Gadda, con le parole di uno dei personaggi, Teofilo, così descrive la figura del narcisista: «Il narcisista finisce per vedere unicamente se stesso. Dimentica l’obiettivo reale dell’amore per cadere innamorato dello specchio, che è quel terzo ente o terzo strumento che ha il merito di riprodurre in bellezza l’immagine idolatrata. A questa immagine il narcisista conferisce il più idolatrato dei nomi: e questo nome è un pronome: Io». L’immagine dello specchio è ulteriormente precisata dall’altro protagonista del dialogo, Crisostomo: «Oltre che dello specchio di vetro e di mercurio, il narcisista o narcissico si compiace di quell’altro specchio, non meno solleticante, che è lo specchio delle reazioni psichiche altrui. Negli altri, nel prossimo, negli occhi delle belle, nel saluto allegro dei commilitoni, nella parlata grave e nell’arcano verdetto dei sofi [sapienti], egli intende avere uno specchio, e soltanto uno specchio, dal quale esige l’approvazione, la richiesta d’a-

T7

more, la muta lode, il plauso reiteratamente gracchiato. “Sei irresistibile” deve dire lo specchio degli occhi, delle glottidi, delle reazioni psichiche altrui. Guai all’anima sua ove putacaso dicesse: “Mi hai proprio l’aria di uno scemo”». Appaiono evidenti le analogie con la descrizione dei borghesi al ristorante nel ➜ T6b . Con la sua opera Gadda, come Svevo e Saba, testimonia il profondo impatto della psicoanalisi freudiana sulla narrativa novecentesca. La denuncia di un dilagare della tendenza narcisistica nella società attuale appare poi singolarmente anticipatrice: opere saggistiche successive di decenni – fra le quali possono essere di utile lettura, anche per la loro relativa semplicità, quelle di Christopher Lasch, Alexander Lowen e Gustavo Pietropolli Charmet – confermano le intuizioni gaddiane, dato che quella odierna, come ormai antropologi, sociologi, psicologi hanno riconosciuto, è più che mai la società dell’immagine, e dunque la società del narcisismo. C. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 2001; A. Lowen, Il narcisismo, Feltrinelli, Milano 2001; G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari 2008.

Il romanzo psicoanalitico Carlo Emilio Gadda

T7a

Il sogno-desiderio di Gonzalo La cognizione del dolore parte I, cap. III

C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a c. di E. Manzotti, Einaudi, Torino 1987

Il dottor Higueroa va a visitare Gonzalo che attende la madre, recatasi al cimitero. Il loro dialogo è interrotto dall’arrivo di un bambino a cui la madre dà gratuitamente lezioni di francese. Gonzalo lo scaccia con durezza, lasciandosi andare a un’ira violenta perché la madre, severissima con lui da piccolo, ora concede la sua materna attenzione ai più vari beneficiari. Nell’ira, si lascia sfuggire con il medico il racconto di un sogno fortemente emblematico e rivelatore dell’inconscio.

«[...] Ecco che arriva la carità, la bontà!…». Urlava. «Le lezioni di francese, arrivano! In coppa ai vitelli1… A gratis2. Sull’orlo della fossa3… per gli altri…! per il peone4… per il nipotino… qualunque cosa, pur che sia per gli altri… per gli altri!». Il medico taceva, confuso: vergognandosi di quel mezzo centimetro di barba, si 5 sarebbe detto: in realtà meravigliato, addolorato. Senza poter giustificare in alcun

1 Ecco che… ai vitelli: il tono è sarcastico: Gonzalo aveva prima biasimato l’abitudine della madre a bavare bontà su vitelli e cani randagi; implicitamente, il ragazzino

ignorante e poco portato agli studi è paragonato a un vitello, un animale (In coppa, “su, sopra” in dialetto napoletano). 2 A gratis: formula scorretta, diffusa specie in Lombardia (ancor oggi) a livello

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popolare, per il lat. gratis, “gratuitamente, senza compenso”. 3 sull’orlo della fossa: quando sta per morire. Il riferimento è alla madre. 4 il peone: il contadino.


modo ciò che udiva, ciò che vedeva, capí tuttavia che un qualcosa di orrido stava ribollendo in quell’anima. Pensò di incanalare altrove le idee del malato, se idee eran quelle. Il figlio si ricompose: parve ridestarsi da un’allucinazione: lo guardò: lo fissava come 10 gli domandasse, a lui, «che cosa ho detto?», come implorasse «mi dica che cosa ho detto!… Stavo male! non ha veduto? Non ha veduto che stavo male?… Perché non ha voluto credermi, non ha voluto soccorrermi?… Avevo smarrito il discorso… che cosa dicevamo…». I suoi occhi rinvennero a una espressione di angoscia. Un passo correva di fuori, discendendo, d’uno stupido folletto5; sotto cui franavano i sassi 15 della stradaccia, dopo il cigolío del cancello, ch’era pitturato di verde. «… Sono stato un bimbo anch’io…», disse il figlio. «… Allora forse valevo un pensiero buono… una carezza, no; era troppo condiscendere… era troppo!» e l’ira gli tornava nel volto, ma si spense. Poi riprese: «… La mamma è spaventosamente invecchiata… è malata… forse sono stato io… Non so darmi pace… Ma ho avuto 20 un sogno spaventoso…». «Un sogno?… e che le fa un sogno?… È uno smarrimento dell’anima… il fantasma di un momento…». «Non so, dottore: badi… forse è dimenticare, è risolversi6! È rifiutare le scleròtiche figurazioni della dialettica7, le cose vedute secondo forza…». 25 «Secondo forza?… che forza?…». «La forza sistematrice del carattere8… questa gloriosa lampada a petrolio che ci fuma di dentro,… e fa il filo, e ci fa neri di bugíe9, di dentro,… di bugíe meritorie, grasse, bugiardosissime… e ha la buona opinione per sé, per sé sola… Ma sognare è fiume profondo, che precipita a una lontana sorgiva, ripúllula nel mattino di verità10». 30 Parve incredibile al dottor Higueróa che un uomo di corporatura normale, alta anzi, di condizione socialmente cosí «elevata», potesse lasciarsi ancorare a delle sciocchezze come quelle. Ma lo sgomento e la tristezza erano troppo evidenti nello sguardo; di persona che teme, che ha un qualcosa che l’occupa, un rimorso; terrore, odio? anche nel sole pieno: nel canto, nella pienezza dolce e distesa della terra. 35 «… Un sogno… strisciatomi verso il cuore… come insidia di serpe. Nero. Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era piú possibile ricostituire il tempo degli atti possibili11, né cancellare la disperazione… né il rimorso; né chiedere perdono di nulla… di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre… carezzarla… oh! aiutarla… Ogni finalità, ogni possi40 bilità, si era impietrata nel buio12… Tutte le anime13 erano lontane come frantumi di mondi; perse all’amore... nella notte… perdute… appesantite dal silenzio, conscie del nostro antico dileggio14… esuli senza carità da noi nella disperata notte…

5 d’uno stupido folletto: il bambino, impaurito da Gonzalo, scappa. 6 risolversi: decidere. 7 le scleròtiche… dialettica: i rigidi schemi della logica. 8 La forza... carattere: l’impulso coordinante e razionalizzante dell’io (che può portare a ostinarsi nell’errore, mentre il sogno manifesta la verità profonda dell’inconscio). 9 questa... bugíe: la metafora della lampa-

da a petrolio indica il fatto che le rappresentazioni coscienti dell’io sono spesso erronee. 10 che precipita... verità: che risale verso una sorgente lontana e si effonde nella luce della verità. 11 ricostituire... possibili: recuperare il tempo in cui fosse possibile agire. La morte ha annullato la possibilità di riparare il male compiuto.

12 si era impietrata nel buio: nell’ellittica e intensa espressione coesistono due metafore: il buio e il pietrificarsi, l’impossibilità di mutare gli eventi. 13 Tutte le anime: la madre e il fratello. 14 del nostro... dileggio: delle nostre antiche derisioni sprezzanti, scherni oltraggiosi. Le offese del passato al fratello e alla madre sono ormai definitive e irreparabili, fissate per sempre dalla loro morte.

Leggere La cognizione del dolore 4 449


E io ero come ora, qui. Sul terrazzo. Qui, vede?… nella nostra casa deserta, vuotata dalle anime… e nella casa rimaneva qualche cosa di mio, di mio, di serbato… ma 45 era vergogna indicibile alle anime… degli atti, delle ricevute… non ricordavo di che15… Le more della legge avevano avuto chiusura16… Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria… nozione definita, incancellabile… Delle ricevute… che tutto, tutto era mio! mio!… finalmente… come il rimorso. E il sogno, un attimo!, si riprese17 in una figura di tenebra… là!… là, dove sono andato 50 or ora, ha visto? al cantone18 della casa… Ecco, vede? là… nera, muta, altissima19: come rivenuta dal cimitero. Forse, col suo silenzio, arrivava alla gronda20: sembrò velo funereo, che ne ricadesse… Forse era al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo… Non suffusa d’alcuna significazione d’amore, di dolore21… Ma nel silenzio. Sotto il cielo di tenebra… Veturia, forse, la madre immobile di Coriolano, velata22… 55 Ma non era la madre di Coriolano! oh! il velo non mi ha tolto la mia oscura certezza: non l’ha dissimulata al mio dolore. Conoscevo, sapevo chi era. Non poteva esser altro23… altissima, immobile, velata, nera… Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento ad 60 ogni segno d’amore: era ferma oramai… Era un pensiero… nel catalogo buio dell’eternità24… E questa forza nera, ineluttabile… piú greve di coperchio di tomba… cadeva su di lei! come cade l’oltraggio25 che non ha ricostituzione nelle cose26… Ed era sorta in me, da me!… E io rimanevo solo. Con gli atti… scritture di ombra… le ricevute… nella casa vuotata delle anime… Ogni mora aveva raggiunto il tempo, 65 il tempo dissolto…». Le cicale franàrono27 nella continuità eguale del tempo, dissero la persistenza: andàvano ai confini dell’estate. Il dottor Higueróa sembrava cercar le betulle, bianche virgole nei querceti a tramontana di Lukones28.

15 degli atti... di che: allusione al passaggio di proprietà della villa a Gonzalo, erede della madre; la smemoratezza è un tentativo dell’inconscio di censurare il desiderio di Gonzalo – realizzato nel sogno e sentito come aggressione alla madre – di essere l’unico proprietario della villa. 16 Le more... chiusura: gli indugi delle procedure legali avevano avuto termine. 17 si riprese: continuò. 18 cantone: angolo. 19 altissima: per gli antichi le ombre dei trapassati erano più grandi dei viventi. Forse si sovrappone anche il ricordo infantile, quando la madre appariva alta al bambino.

20 col suo... gronda: fra l’altezza e il silenzio è stabilita una connessione, perché entrambi sono segno che non è la madre viva a tornare, ma il suo fantasma. 21 d’alcuna... dolore: non prova più i sentimenti degli uomini; suffusa: soffusa. 22 Veturia... velata: l’apparizione della madre velata in un primo momento ricorda a Gonzalo la figura della madre di Coriolano che, nell’omonima tragedia di Shakespeare (che attinge per la vicenda agli storici classici Livio e Plutarco), si presenta al figlio vestita a lutto e lo fa desistere dal rancore ostinato contro la patria, che lo aveva indotto ad allearsi con i Volsci, nemici di Roma, e a combattere contro la propria patria.

450 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

23 Non... altro: Gonzalo non ha dubbi che si tratti della madre.

24 nel catalogo... eternità: nell’insieme delle cose esistite, e ora finite in eterno. 25 oltraggio: come in ➜ T4, indica l’offesa che dà l’avvio alla dissoluzione dell’individuo. 26 che non ha... cose: che è irreversibile. 27 franàrono: cessarono. Il tempo del sogno è concluso, mentre persiste il tempo reale, ambedue accompagnati dal frinire delle cicale. 28 a tramontana di Lukones: a nord di Longone.


Analisi del testo Il sogno di Gonzalo e la psicoanalisi Nel testo emerge la dimensione psicoanalitica presente nella Cognizione del dolore. È noto come per Freud il sogno sia per lo più espressione di un desiderio inconscio e proprio questo è il significato profondo del sogno di Gonzalo narrato al medico: diviso tra l’amore per la madre, il rancore per la durezza educativa che essa aveva esercitato nella sua infanzia, e la puerile gelosia per la generosità e la gentilezza riservata invece agli altri (in particolare al bambino), Gonzalo arriva a desiderarne inconsciamente la morte. Il sogno “mette in scena” la morte della madre, in certo qual modo anticipandola. Il protagonista, che oscilla tra “dolore” e lucida “chiaroveggenza” (come l’autore stesso, che in Gonzalo si rispecchia), considera il sogno come via privilegiata per accedere a una verità profonda, posseduta dall’inconscio, rappresentata da un fiume che risale alla sorgente, nel mattino luminoso, e posto in contrasto con la tendenza dell’io cosciente a oscurare la verità, a sua volta espressa dalla metafora di una lampada a petrolio che illumina ma che col suo fumo annerisce.

La casa vuota e l’immagine della madre morta Il sogno inizia con l’immagine della casa vuota, materializzazione onirica della volontà di Gonzalo di esserne l’unico padrone. Il possesso della casa, probabilmente avvertito come risarcimento per l’affetto negato della madre, appaga la brama istintiva ed egoistica di Gonzalo, ma è accompagnato da un rimorso lacerante: una condizione emotiva effettivamente vissuta da Gadda stesso, divenuto unico erede dell’odiata casa di Longone dopo la morte della madre (è utile ricordare che la composizione del romanzo si colloca a ridosso di questi eventi). Nella seconda parte del sogno la madre compare, velata. La sua figura appare ieratica, più grande di quella reale, come gli antichi immaginavano i fantasmi dei morti. La scena ha un’aura di tragedia, accentuata dal richiamo a una scena del Coriolano (1607-08) di Shakespeare, in cui la madre Volumnia appare al figlio in abiti di lutto, rimproverandolo per la sua ira implacabile e il desiderio di vendetta, che l’aveva spinto a combattere contro la propria patria. Lo stesso rimprovero potrebbe essere rivolto a Gonzalo, che non riesce a superare il desiderio di vendicarsi per un passato ormai lontano. Nel sogno Gonzalo appaga tale desiderio “uccidendo” la madre: la «forza nera» che incombe su di lei sorge infatti da lui stesso e, come osserva il critico Elio Gioanola, non è che «il fantasma creato dalle personali ossessioni matricide» del protagonista. In una nota della Cognizione del dolore Gadda osserva come il desiderare la morte della madre sia per Gonzalo come ucciderla: «Forse a lato della realtà fisica, meccanica, bassamente stereometrica, bassamente storica = corre una trama spaventosa e vera, uno spaventoso pensiero. E la cosa o l’atto pensato è più vero dell’accaduta o dell’eseguito. E Dio vede il pensiero, l’immaginato. E, anche non vedesse, si rifiutasse di vedere, (ché tutto può, Dio), l’immaginazione, il delirio rimarrebbero e l’anima si perde nell’imaginare, non nel compiere». Ma ciò che nel sogno angoscia Gonzalo è l’irreversibilità della morte, dopo la quale non è più possibile alcun atto di riparazione, e la memoria degli atti compiuti rimane impietrata nel rimorso, poiché la fluidità della vita, aperta al possibile, si arresta, simile a lava indurita come pietra.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto informativo del testo (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Che cosa dice Gonzalo al dottor Higueroa dopo il proprio violento sfogo contro la madre? ANALISI 3. La prima parte del brano fornisce elementi chiave per comprendere il rapporto tra Gonzalo e la madre: cerca di illuminare la natura di questo rapporto, certamente “irrisolto”. 4. Il dottore ti sembra un interlocutore all’altezza di Gonzalo? Motiva la tua risposta. STILE 5. Rintraccia nel testo le caratteristiche tipiche dello stile gaddiano.

Interpretare

SCRITTURA 6. Sulla base di quanto hai appreso sulla figura di Gadda cerca di illustrare il doloroso risvolto autobiografico di questo passo (come del resto del successivo ➜ T7b ).

Leggere La cognizione del dolore 4 451


Carlo Emilio Gadda

T7b

LEGGERE LE EMOZIONI

Il male oscuro La cognizione del dolore parte II, cap. VI La povera madre aveva lentamente compreso. Ora ella vedeva il buio di quell’anima. Lentamente, per aver lottato a lungo nella sua speranza così vivida, nella sua gioia: prima di abbandonarsi a comprendere. Un sentimento non pio, e si sarebbe detto un rancore profondo, lontanissimo, s’era andato ingigantendo nell’animo del figliolo: 5 quel solo1 che ancora le appariva, talvolta, all’incontro, sorridendole e chiamandola “mamma, mamma”, se pur non era sogno, sulle vie della città e della terra. Questa perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere, pareva riuscire alle occasioni e ai pretesti da una zona profonda, inespiabile, di celate verità2: da uno strazio senza confessione. 10 Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre3 persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere4 d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato5. […] Pace non conosceva Gonzalo, né conoscerebbe6 la madre, accudendo in quelle 15 stoviglie7, le parve di dover disperare: il viso di lui, sconvolto, denunciava, a certi momenti, ch’egli non poteva aver ragione del suo delirio8. Non beveva mai liquori. Non fumava. Non era neppur possibile che dopo lo stento faticoso de’ suoi giorni, così avaramente retribuiti dalla Companìa de Destribuciòn9, ci fosse denaro per gli alcaloidi10 costosi di cui avevano riferito, fino a quel tempo, i 20 giornali, un po’ tutti, sia del Maradagàl vincitore che del debellato Parapagàl: di cui spilluzzicava11 anche, non appena le venisse fatto, certa letteratura12 d’avanguardia tra ribelle e satanica insediatasi nelle edicole delle stazioni. D’altronde egli lavorava, per quanto malvolentieri, proprio come sognano le madri che abbia a lavorare il loro figlio, cioè impartendo ordini ai dipendenti: alle ore d’agio13, dopo aver distribuito 25 milioni di chilowattore a tutti i cotonifici del Nevado Bajo14, alle fabbriche invitte, allora, trovato un minuto a se stesso, apriva i libri, stanco, senza aver mai modo di leggerli interi. A certe ore pareva malato nel volere. “Un po’ di buona volontà...”, gli diceva la mamma, sorridendogli, studiandosi dargli animo15, e indurre un po’ di sereno su 30 quel volto. “La volontà...”, rispondeva, “che è indispensabile agli assassini...”. Ciò la impauriva, cercava di mutar discorso.

1 quel solo: il solo figlio che le rimaneva (dopo la morte dell’altro, in guerra). 2 Questa perturbazione... celate verità: questo violento turbamento doloroso, più forte di ogni sollecitazione alla moderazione dettata dalla volontà, pareva riemergere in occasioni pretestuose da una zona profonda dell’io dove si annidano verità nascoste, inconfessabili (l’inconscio). 3 le universe... delle gran cattedre: si allude alle categorizzazioni del sapere universitario.

4 fulgurato scoscendere: rapido precipitare. 5 immedicato: mai guarito. 6 conoscerebbe: avrebbe conosciuto. 7 accudendo… stoviglie: lavando le stoviglie. 8 aver ragione… delirio: vincere il suo delirio. 9 Companìa de Destribuciòn: Compagnia di Distribuzione dell’energia elettrica. 10 alcaloidi: sinonimo di stupefacenti.

452 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

11 spilluzzicava: leggiucchiava. 12 certa letteratura...: si allude a una produzione narrativa di consumo, come quella, a suo tempo notissima, di Pitigrilli. 13 ore d’agio: nei momenti di pausa. 14 Nevado Bajo: immaginaria catena montuosa. 15 studiandosi… animo: cercando di fargli coraggio.


Analisi del testo La diagnosi del male di vivere di Gonzalo Il passo si colloca nella seconda parte del romanzo, in cui emerge sempre più la dimensione tragica e il registro stilistico vira prevalentemente, come in questo caso, verso tratti lirico-drammatici. In primo piano è la dolorosa presa di coscienza da parte della madre della malattia del figlio. I suoi comportamenti rabbiosi le appaiono ormai frutto del “male oscuro”, del “buio dell’anima”, di cui la scienza non è ancora riuscita a chiarire le cause. La madre ha ormai compreso che le radici degli atteggiamenti di Gonzalo stanno nel profondo della sua psiche, in un territorio misterioso per entrare nel quale né lei né il figlio possiedono le chiavi. Altre spiegazioni dei comportamenti di Gonzalo, come l’abuso di alcol o l’uso di sostanze stupefacenti, a cui si allude nel passo, risultano impraticabili, anche perché Gonzalo lavora normalmente e ha un lavoro di una certa responsabilità. Alla paralisi della volontà (che ne fa un esempio della figura dell’“inetto” novecentesco) Gonzalo non sa reagire e alle affettuose parole della madre, che lo invitano ad avere “un po’ di buona volontà”, reagisce con una frase terribile, che atterrisce la povera donna e che sembra profetizzare un atto di violenza estrema che prima o poi Gonzalo potrebbe compiere.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del passo in massimo 3 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa spaventa la madre di Gonzalo?

Interpretare

PER APPROFONDIRE

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Gonzalo è affetto dal “male oscuro” che ha le sue origini profonde nel difficile rapporto con la figura materna. Oggi molti adolescenti vivono “il buio dell’anima”, il dramma della depressione e dell’incapacità di adattarsi alla vita. Sei mai entrato in contatto con qualcuno che soffre di questo disagio?

Il male oscuro di Giuseppe Berto Nel 1964, un anno dopo La cognizione del dolore, viene pubblicato un romanzo di carattere fortemente autobiografico che riprende letteralmente nel titolo la suggestiva definizione data da Gadda alla nevrosi di Gonzalo: Il male oscuro di Giuseppe Berto. Il romanzo conquista sia il Premio Viareggio che il Campiello, colpisce positivamente la critica (Gadda stesso se ne mostrerà entusiasta), ma ha anche grande successo nel pubblico: in anni in cui anche in Italia cominciava a diffondersi la conoscenza della psicologia e della psicoanalisi, i lettori erano particolarmente affascinati dal tema del disagio psichico. Il romanzo è infatti il memoriale di una nevrosi (vissuta realmente anche dall’autore) e del tentativo di curarla, narrati direttamente dal protagonista, uno scrittore (alter ego di Berto) che dalla provincia va a Roma alla ricerca della gloria, ma finisce per vivere ai margini del mondo del cinema e della letteratura che contava (rappresentata allora da figure di scrittori di successo come Moravia). La nevrosi, il “male oscuro” del protagonista, ha le sue radici primarie

nel rapporto conflittuale con il padre, che ha determinato in lui un grave disadattamento al vivere: un momento chiave, analogamente a quanto avviene nella Coscienza di Zeno, è proprio la morte del padre (che il narratore abbandona, con successivi gravissimi sensi di colpa, sul letto di morte). Analogamente al capolavoro sveviano anche nel Male oscuro il protagonista, un inetto irrisolto, si rivolge alla psicoanalisi per cercare di guarire, affidandosi a un terapeuta in cui si rispecchia la figura dell’analista freudiano a cui Berto stesso si affidò e che riuscì per lo meno a consentirgli di superare il blocco che gli impediva di scrivere. La tecnica narrativa impiegata da Berto è molto diversa da quella di Svevo e anche da quella di Gadda: il resoconto della discesa del narratore nel profondo della propria psiche è trasmesso al lettore attraverso una sorta di flusso di coscienza, che accumula, senza quasi ricorrere alla punteggiatura, impressioni ed esperienze, mimando la modalità con cui un paziente in cura da uno psicoanalista espone disordinatamente il suo pensiero e le sue emozioni.

Leggere La cognizione del dolore 4 453


Carlo Emilio Gadda

T7c

La violenza verso la madre e l’addio di Gonzalo alla casa La cognizione del dolore parte II, cap. viii

C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a c. di E. Manzotti, Einaudi, Torino 1987

Mentre il figlio è in camera a leggere, la madre riceve i contadini del paese nella casa in cui Gonzalo avrebbe voluto «custodita la gelosa riservatezza dei loro cuori soli». La violenta reazione del figlio, come in altri casi analoghi, appare del tutto sproporzionata: minaccia di uccidere la madre e abbandona la casa, presagendo che sarebbe stato per sempre.

La madre gli apparve davanti curva, serena, guardandolo. Il volto, dalle orbite gonfie, dalla pelle cascante, quasi giallo1, non riesciva2 piú ad esprimere la tenerezza interiore: come se l’inesorabile3 già lo avesse allontanato da ogni possibilità di espressione: ma l’amore si palesava dal tentativo del sorriso, dalla tensione degli 5 occhi, che l’età aveva fatto presbiti. «Vuoi il caffè?», gli chiese dolcemente. Egli la guardò senza rispondere, poi disse, torvo: «Perché tutti quei maiali4 per casa?». La mamma allora si atterrí. Lo aveva creduto calmo. «… Erano venuti… un momento…», balbettò: «… a portarmi i funghi… poveretti…», 10 e fece per allontanarsi come volesse rientrare e prendere il cestello di sulla5 tavola, per mostrarglielo. In realtà tentò di fuggire: atterrita. Egli la trattenne per un braccio, con violenza: «… non voglio, non voglio maiali in casa…», urlò, accostando ferocemente il volto a quello della mamma. La mamma ritrasse il capo appena, chiuse gli occhi, non poté congiungere le mani sul grembo, come di solito faceva, 15 perché egli le teneva un braccio sollevato: il braccio terminava a una mano alta, stecchita, senza piú forza: a una mano incapace d’implorare. La lasciò subito, e allora il braccio ricadde lungo la persona. Ma ella non osò risollevare le palpebre. La parte superiore della testa, la fronte, assai alta e le tempie, sopra le arcate degli occhi, chiusi, parve il volto di chi si raccolga nella ricchezza silente e profonda 20 dell’essere, per non conoscere l’odio: di quelli che tanto ama! Cosí riferisce Svetonio di Cesare, che levasse la toga al capo, davanti la subita lucentezza delle lame6. Un disperato dolore occupò l’animo del figliolo: la stanca dolcezza del settembre gli parve irrealtà, imagine fuggente delle cose perdute, impossibili. Avrebbe voluto 25 inginocchiarsi e dire: «perdonami, perdonami! Mamma, sono io7!». Disse: «Se ti trovo ancora una volta nel braco8 dei maiali, scannerò te e loro…». Questa frase non aveva senso, ma la pronunziò realmente (cosí certe volte il battello, accostando, sorpassa il pontile9).

1 dalle orbite... quasi giallo: sul volto ci sono tutti i segni della morte vicina. 2 riesciva: riusciva. 3 l’inesorabile: la morte. 4 quei maiali: Gonzalo si riferisce ai contadini del paese, accolti in casa dalla madre. 5 di sulla: dalla. 6 Cosí riferisce... lame: nel De vita Caesarum (I, 82), Svetonio scrive che quando

Cesare si vide assalito dai pugnali, si coprì il capo con la toga; subita lucentezza: improvviso luccicare. 7 perdonami... io: i sentimenti di Gonzalo sono ambivalenti: odia la madre, ma nello stesso tempo la ama più di ogni altra cosa. 8 braco: fango sudicio. È evidente il ricordo dell’Inferno dantesco («come porci in brago» If VIII 50).

454 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

9 il battello... il pontile: il senso della similitudine è che le parole di minaccia di Gonzalo vanno oltre le sue intenzioni, a causa dell’ira da cui è dominato. Nella Cognizione del dolore le similitudini e le metafore relative alla navigazione sono ricorrenti.


Traversò la terrazza e la sala, rovesciò a terra il cestello con tutti i funghi; gettò via dal piatto la viscidezza gialla della bestia10, senza toccarla. Salí alla sua camera, dove, aperto alla pagina, lo attendeva il libro. Prese invece la valigetta, la riempí confusamente del necessario, povera suppellettile, ridiscese tutte le scale, uscí da basso. I lari11 gli dicevano senza poterlo seguire, gli dicevano dalla camera «Addio! Addio». 35 La madre, dal terrazzo, lo vide allontanarsi e discendere lungo il sentiero dei campi, dal terrazzo dov’era rimasta. Lo salutava mentalmente, chiamandolo, chiamandolo, col nome che gli aveva dato, lontana dolcezza degli anni. Quando piú vigorosi e verdi infoltivano gli ippocastani, sui viali dei bastioni spagnoli12. Poi i fumi delle ville esalarono dai colmigni13, al limite del lontano occidente. 40 Mezz’ora dopo il treno sibilò rotolando sulla torbiera14: come su un mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra15. 30

10 la viscidezza... bestia: il pesce viscido

13 colmigni: comignoli. Il finale dell’e-

15 come su... di tenebra: l’immagine fi-

e giallastro, quindi poco fresco, che una contadina aveva venduto alla madre di Gonzalo. 11 I lari: secondo i latini, le divinità protettrici della casa. 12 sui viali... spagnoli: sui viali dove sono i resti delle mura spagnole di Milano.

pisodio ricalca quello della prima egloga delle Bucoliche di Virgilio, in cui Melibeo si allontana dai suoi campi, mentre scende l’oscurità e i comignoli dei casolari lontani cominciano a fumare. 14 torbiera: depressione del suolo profonda e acquitrinosa.

nale del capitolo è volutamente ambigua: non si dice se Gonzalo sia salito sul treno che si allontana, per lasciare nell’incertezza su chi abbia aggredito la madre. L’immagine della casa afferrata da «lingue di tenebra», dalle ombre notturne, prefigura la violenza.

Analisi del testo Il tema dell’“oltraggio” Il passo è uno dei più drammatici e tragici della Cognizione del dolore. Il risentimento di Gonzalo, accumulato fin dall’infanzia, esplode in una manifestazione di vero e proprio odio; sentimento che, nel “groviglio” del cuore umano, coesiste in modo ambivalente con l’amore, che però il protagonista, nell’enormità del proprio dolore, non riesce più a esprimere. L’esplosione rabbiosa è preparata da un lungo passo in cui Gonzalo ripercorre le tappe salienti del proprio “male di vivere”: dai traumi infantili, a quando, tornando come reduce dalla Prima guerra mondiale, era stato circondato da una folla di milanesi inferociti contro i militari; ripensa anche alla propria infanzia sacrificata dai genitori all’ambizione della “villa” e alla durezza della sua educazione, e sente la propria nullità e l’insignificanza della propria vita.

Il matricidio immaginato L’oltraggio arrecato dal mondo suscita in Gonzalo un impulso distruttivo che si riversa tutto sulla madre, vista come la prima responsabile del proprio dolore. Il desiderio (ambivalente perché coesistente con un altrettanto intenso amore) che la madre muoia, già espresso nel sogno, si traduce ora in una vera e propria minaccia. Da questo momento Gonzalo diviene potenzialmente un matricida, perché compie un “oltraggio” (l’offesa irreparabile alla vita e alla dignità) verso di lei, distruggendo il nodo di relazioni che ne sosteneva l’io: l’orgoglio di sentirsi chiamare Signora, il prestigio sociale nel piccolo paese e la sua idea di sé come borghese generosa nei confronti del popolo, e infine (soprattutto) il suo ruolo di madre che il figlio annulla con l’esibizione del suo odio e del suo disprezzo. Da qui al “matricidio” il passo è breve: per questo Gadda lascia in sospeso la conclusione perché, pur non concretizzando l’idea che il figlio possa essere l’assassino della madre, l’idea del matricidio deve aleggiare sulla narrazione. Nelle sue note, Gadda aveva immaginato una conclusione del romanzo, poi abbandonata, in cui il Manganones aggrediva la madre, ed ella, scambiandolo per il figlio, moriva convinta di essere stata uccisa da colui che aveva generato: in questo modo il matricidio, pur non compiuto nella realtà, avrebbe preso consistenza nella mente della madre.

Leggere La cognizione del dolore 4 455


L’addio alla casa Il secondo tema del testo è l’addio alla casa. Si tratta di un tema topico, con diversi esempi letterari: si pensi anche solo ai Promessi sposi o ai Malavoglia, in cui l’addio alla casa è visto come un distacco dal passato, accompagnato da rimpianto e nostalgia (➜ PER APPROFONDIRE, Un’immagine-simbolo: la casa). Il tono della narrazione muta: da violento e drammatico, diviene lirico ed elegiaco, con richiami letterari, come quello al finale della prima bucolica virgiliana («Poi i fumi delle ville esalarono dai colmigni, al limite del lontano occidente» Virgilio, Bucoliche, I, 82-83). L’addio è accompagnato da suggestioni simboliche, culminanti nel finale, in cui la casa appare «un mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra»: il cromatismo al nero della scena è allegoria del male. Hanno un valore emblematico anche il libro lasciato aperto da Gonzalo e il riferimento, di origine classicheggiante, ai lari: proprio perché indissolubilmente legati alla casa, i numi tutelari non possono seguire Gonzalo, ma dalla camera gli dicono tristemente addio. Quando, timorosi per la sorte della madre, gli abitanti del paese entrano nella casa, si recano dapprima nella stanza del figlio, che trovano immersa in un’immobilità sospesa che simboleggia il mondo del puro ideale, di cui sono emblemi il libro aperto sull’utopia platonica delle Leggi e l’immagine del fratello morto eroicamente in guerra, prima che sia contaminato dalla degradata realtà: «Sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo. Uno degli intrusi indugiò a guardare la fotografia, e lesse poi alcune righe nel libro aperto. “... Ma le leggi della perfetta città devono...”».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in non più di 5 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa minaccia di fare Gonzalo? ANALISI 3. Il passo mette a confronto madre e figlio ormai verso la conclusione del romanzo: cerca di delineare le rispettive dinamiche psicologiche.

PER APPROFONDIRE

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Istituisci un confronto tra l’addio di Gonzalo alla casa, il celebre «Addio, monti» dei Promessi sposi e l’addio di ’Ntoni alla casa del nespolo che chiude I Malavoglia e metti in evidenza le possibili analogie e differenze (max 15-20 righe).

Un’immagine-simbolo: la casa Nella letteratura la casa assume spesso un valore simbolico (si veda in questo stesso volume Casa «la Vita» di Savinio, ➜ C7 T4 ) Nella Cognizione del dolore la casa appare come un’immagine simbolica dell’io: il protagonista, pur detestandola, vuole preservare la casa da ogni intrusione. Anche i diversi locali hanno un valore simbolico: la cantina in cui si rifugia la madre quando scoppia un violento temporale assume il carattere metaforico di una discesa nelle profondità del proprio essere e insieme di una prefigurazione della morte; la terrazza, invece, appare come il luogo della contemplazione, mentre la cucina, di solito cuore affettivo della casa, è non a caso qui il luogo dove il conflitto tra la madre e il figlio si manifesta in modo più violento. Lo psicoanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) sostiene che il rapporto simbolico che lega la casa all’io emerga anche

456 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda

nel linguaggio onirico e ricorda un suo sogno ricorrente, in cui scopriva una parte della casa di cui aveva sempre ignorato l’esistenza, e che rappresentava una possibilità di sviluppo sconosciuta al suo io cosciente. Non sorprende perciò che la rappresentazione della casa sia un motivo topico della letteratura, dai Malavoglia di Verga, alle case degli esteti decadenti contrapposte per la loro raffinatezza alla volgarità del mondo moderno, al “nido” pascoliano, allo spazio interno claustrofobico degli Indifferenti di Moravia: gli esempi, tutti connotati da un intenso valore emotivo, si potrebbero moltiplicare. Ricorrente nell’immaginario letterario (e filmico) è anche il motivo dell’addio alla casa. Dare l’addio alla casa significa cambiare, abbandonare, con un taglio netto, magari traumatico (come nel caso di Gonzalo), il modo di vita del passato.


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Guido Piovene Un giudizio a caldo sulla Cognizione del dolore G. Piovene, «La cognizione del dolore» di Gadda, capolavoro tragico di valore europeo, «La Stampa», 24 aprile 1963

Nel 1963 Einaudi pubblica in volume La cognizione del dolore: è l’avvio della fama di Gadda. A pochi giorni dalla pubblicazione, lo scrittore Guido Piovene (1907-1997) recensisce il romanzo sul quotidiano «La Stampa».

[...] Anche l’altro romanzo incompiuto di Gadda, il Pasticciaccio ecc. [brutto de via Merulana] e molti suoi racconti toccano altezze inconsuete nella letteratura contemporanea. Ma propendo a credere che La cognizione del dolore sovrasti tutto quello che Gadda ha scritto. 5 Mi sembra d’essere di fronte a un capolavoro tragico, che è d’oggi e insieme pieno di antiche risonanze, impastato della nostra vita eppure come risalito da tempi remoti. Costituisce, lo dirò di passaggio, una provvidenziale smentita a quanti ritengono che la letteratura sia destinata a diventare un fatto stagionale, in cui ogni ondata di prodotti ingoia quella precedente e la qualità principale di chi scrive 10 è il tempismo1. La cognizione del dolore riemerge dopo oltre vent’anni e si pone naturalmente, senza sforzo, alla punta della letteratura attuale: oggi, è il suo vero tempo per apparire; il futuro, per dare piena misura di se stessa2. [...] Il motivo principale del libro è, in una villa di collina, il rancore del figlio Gonzalo per la vecchia madre, che avrebbe dovuto arrivare, nella parte finale del 15 romanzo non eseguita, fino al matricidio indiretto. Rancore, perché? Secondo la notizia3 che accompagna il libro, Gonzalo accusa sua madre «di scendere a patti con la società, di rispettare le vane istituzioni, le illusorie virtù e le convenzioni del mondo». Ma forse v’è un’altra ragione. Ancorata nel suo mondo dai valori antichi, la madre l’ha tenuto fuori da quello degli uomini brutali, cialtroni, idioti, 20 ma capaci di vivere perché si illudono di vivere: degli uomini che dicendo «io, io» credono di dir qualcosa; fuori del «rosso calore della vita», anche se basso e cieco, e invece confinato nella solitudine e nel dolore mortale della conoscenza, quella conoscenza fatale, irrimediabile, da cui non si torna più indietro. Due per me sono i blocchi di pagine culminanti. La rievocazione, sorgente dal 25 fondo della nevrastenia-sapienza di Gonzalo, della folla borghese costipata nella città; variopinta ma identica, in preda dei riflessi condizionati, acefala4 e vitale, invidiata e odiata, ognuno frenetico e credulo in un «io» che non c’è. La scena, per esempio del ristorante, degli avventori che mangiano gli ossobuchi, covati con lo sguardo carezzoso dell’odio5. [...] 30 Dall’altro lato, Gonzalo; le pagine, anche maggiori, del dialogo con il medico, che cerca di portargli l’inutile suo buon senso e i suoi inutili tentativi consolatori; e in cima a tutto la pagina del sogno rivelatore6. È, quello di Gonzalo, un dolore «senza ragione», perciò anche definitivo, assoluto, indipendente dai pretesti che può offrire

1 Costituisce... il tempismo: l’osservazione di Piovene si spiega nel contesto dei primi anni Sessanta, in cui l’editoria andava assumendo sempre più una conformazione industriale. 2 La cognizione... di se stessa: capitoli del romanzo di Gadda, non ancora organizzati in un libro unitario, erano stati pubblicati sulla rivista «Letteratura» oltre

vent’anni prima, tra il 1938 e il 1941; ma giustamente Piovene ne sottolinea l’attualità, e anzi pensa che l’opera rivelerà appieno la sua grandezza solo nel futuro. 3 la notizia: la scheda editoriale. 4 acefala: può significare irragionevole o incoerente oppure senza una guida (alla lettera “senza testa”).

5 covati... dell’odio: contemplati (dall’autore) con uno sguardo d’odio così forte e insistente da risultare compiaciuto (carezzoso vale “carezzevole, avvolgente”). Il riferimento è all’episodio in T6b . 6 sogno rivelatore: si tratta del sogno che Gonzalo rivela al medico, in cui immagina la morte della madre.

Leggere La cognizione del dolore 4 457


INTERPRETAZIONI CRITICHE

a se stesso [...]. La conoscenza come infelicità, e il rancore verso la madre che gli 35 ha impedito di sfuggire alla conoscenza. [...] Di qui dovrebbe cominciare una vera critica, parlando anche del linguaggio, che in Gadda è una traduzione stilistica dei motivi morali. [...]. La rappresentazione della borghesia faccendiera, godereccia o virtuosa, non è mai stata in Gadda così feroce. Ma Gonzalo guarda anche il popolo con antipatia, paura; quell’odiato «peone», an40 che lui pieno d’«io», di richieste, di rivendicazioni, minaccioso per la sua avarizia! Ma lo scrittore contrappone ai furori del personaggio alte pagine di pietà per gli umili, d’un manzonismo lungamente filtrato, trasformato, mischiato a una materia diversa; che sanno anche di rimorso; che suonano come un risarcimento (anche in Manzoni era forse così) per la prima reazione oscura di apprensione e di ostilità. 45 È un libro che segna qualcosa nella letteratura europea. Vi sono i grandi temi del mondo d’oggi, ma interiorizzati senza residuo, interamente tramutati in fantasmi interiori, attraverso la macina dell’apprensione dolorosa, di quella che ho chiamato una nevrastenia sapiente. E la riuscita artistica è di una sicurezza, di un’evidenza assolute. È un genere di libro che può scrivere solo chi è disposto a pagarlo caro, 50 nella sua vita e nei suoi nervi: come del resto tutte le vere opere d’arte. Gadda tra l’altro ci ricorda, in tempi di polemiche inconcludenti, che cosa significa essere uno scrittore, con la verità perentoria del fatto compiuto.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è per Piovene il motivo principale del romanzo di Gadda? 2. Cerca di spiegare il senso del binomio indissolubile «nevrastenia-sapienza» (anche «nevrastenia sapiente», r. 44) che secondo Piovene caratterizza il personaggio di Gonzalo (ma anche il suo autore). 3. Per Piovene, quale atteggiamento ha Gadda nei confronti del popolo e che cosa può accomunarlo al Manzoni dei Promessi sposi? 4. Nella pagina di Piovene si fa riferimento alla critica al narcisismo, agli “uomini che dicendo «io, io» credono di dir qualcosa”, motivo unificante nella Cognizione del dolore. Rifletti sull’attualità del tema ed esponi le tue riflessioni sulla diffusione del narcisismo nella nostra epoca.

Fissare i concetti Carlo Emilio Gadda Ritratto d’autore 1. Perché l’infanzia e la gioventù di Gadda segnarono tutta la sua vita in maniera traumatica? 2. Gadda partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale. Come visse quest’esperienza? 3. Quanto ha inciso sulla produzione letteraria di Gadda il suo essere ingegnere-filosofo? La visione del mondo e la narrativa di Gadda 4. Quali aspetti del fascismo sono condannati in Eros e Priapo? 5. Quali principi di poetica vengono enunciati da Gadda nella Meditazione milanese? 6. Come viene rappresentato l’universo popolare nell’Adalgisa? Quer pasticciaccio brutto de via Merulana 7. Qual è il contesto politico nel quale è ambientato il romanzo Quel pasticciaccio...? 8. Che cosa rappresenta la metafora del pasticcio? 9. Gadda smonta dall’interno il genere giallo. In che senso? 10. In che senso il romanzo Quer pasticciaccio... riflette la visione del mondo di Gadda. La cognizione del dolore 11. Qual è il tema della Cognizione del dolore? Perché Gadda ha scelto questo titolo per la sua opera? 12. Quali eventi biografici sono alla base dell’opera? 13. Che cos’è il pastiche gaddiano? 14. Perché La cognizione del dolore è stato definito un «romanzo dell’oltraggio»?

458 Il Novecento (Prima parte) 8 Carlo Emilio Gadda


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura Carlo Emilio Gadda cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Vita di un ingegnere-filosofo-scrittore Carlo Emilio Gadda (1893-1973), milanese, è uno dei grandi classici del Novecento. Costretto a lungo nella vita a una professione che non amava, quella di ingegnere, fin da ragazzo Gadda approfondisce interessi filosofico-scientifici e letterari. Ne deriva la padronanza di una vasta cultura interdisciplinare da cui le sue opere sono sostanziate.

2 La visione del mondo

L’ideologia politica e sociale Per indole e formazione Gadda fu un borghese conservatore, ma la sua severa coscienza etica lo induce a cogliere e rappresentare con impietoso sarcasmo i difetti della borghesia del suo tempo: l’ipocrisia e la propensione a un volgare esibizionismo narcisistico. In ambito politico, dopo un’iniziale adesione, critica in modo implacabile il fascismo nel suo carattere di ideologia di massa e dedica una satira violenta alla figura di Mussolini (Eros e Priapo). La “filosofia” gaddiana Gadda ha una visione del tutto originale della realtà, concepita come rete mutevole di relazioni che lo scrittore deve decifrare. Non esiste mai una sola causa dei fenomeni fisici, storici, psicologici, ma un sistema di concause: da qui l’immagine-chiave del garbuglio che sintetizza e simboleggia la visione gaddiana del reale. La percezione della complessità dell’universo e dell’io stesso, visto come magmatico groviglio, si coniuga in Gadda con l’esigenza costante di trovare un ordine, un disegno, attraverso uno strenuo esercizio razionale, in cui si iscrive la scrittura letteraria stessa. Meditazione milanese Scritta nel 1928 ma pubblicata solo nel 1974, racchiude in sintesi i nuclei più importati della visione filosofica di Gadda. L’idea di letteratura: le scelte stilistiche Alla letteratura Gadda assegna un fine eticoconoscitivo: non è certo espressione della soggettività dello scrittore, ma strumento investigativo per affrontare e superare il caos del mondo, per decifrarne il mistero profondo. Non è irrilevante in questa prospettiva il supporto della psicoanalisi, di cui Gadda aveva una conoscenza non superficiale. Da questa premessa deriva il carattere specifico della scrittura di Gadda: la tendenza analitica, nell’intento di evitare ogni banalizzante schematizzazione e la costante presenza di digressioni, che conferiscono alle sue opere un carattere “aperto”, potenzialmente in progress. Il pastiche Anche lo stile di Gadda è personalissimo. Il critico Contini ha usato il termine pastiche per alludere all’ardita commistione di registri e aree lessicali diversi che caratterizza in modo inconfondibile il suo stile. A seconda delle esigenze rappresentativo-espressive, Gadda attinge alla lingua letteraria, alle lingue speciali della filosofia, del diritto, ma anche dei mestieri, ai dialetti (milanese e romano soprattutto), alle voci gergali, alle lingue straniere. La pirotecnica varietà della lingua gaddiana non è fine a sé stessa, ma corrisponde a una visione della realtà che aspira alla totalità rappresentativa.

Sintesi

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3 La narrativa di Gadda: un itinerario conoscitivo

Dal Giornale alla Meccanica: il tema autobiografico della Prima guerra mondiale Giornale di guerra e di prigionia e La meccanica sono due opere (in particolare la prima) collegate al tema della guerra: la prima è un prezioso documento autobiografico, costituito dall’unificazione, a distanza di anni, dei suoi diari stesi nel 1915 quando era volontario sul fronte di guerra. La seconda è un romanzo incompiuto scritto tra il 1928 e il 1929 che ha al centro un triangolo amoroso, sullo sfondo della Prima guerra mondiale. La Madonna dei filosofi È una raccolta di racconti pubblicata sulla rivista «Solaria» nel 1931. Pur nella diversità dei contenuti, vi emergono la dimensione autobiografica e la satira antiborghese (Teatro). L’Adalgisa. Disegni milanesi È una raccolta di 10 racconti pubblicati nel 1944, collegati dal ritratto ironico e a volte apertamente caricaturale della borghesia milanese nel periodo che dal primo dopoguerra sfocerà nel fascismo. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana È un romanzo ambientato a Roma verso gli anni Trenta, pubblicato in volume nel 1957 con un certo successo. Protagonista è il commissario Ciccio Ingravallo, che indaga prima su un furto di gioielli subìto da una ricca vedova e quindi su un omicidio avvenuto nello stesso palazzo. L’indagine di Ingravallo non porta alla soluzione dell’enigma, simboleggiando l’impotenza dell’uomo di fronte al garbuglio. Sullo sfondo si profila la Roma ai tempi del fascismo, verso la cui politica l’autore manifesta una visione polemica.

3 Leggere La cognizione del dolore

La cognizione del dolore, insieme al Pasticciaccio brutto de via Merulana, è l’opera più nota di Gadda. Si tratta di un romanzo autobiografico ambientato in un paese immaginario del Sud America (il Maradagàl) che rispecchia in realtà l’Italia del primo dopoguerra. Il protagonista, don Gonzalo, sia nei tratti psicologici, sia nella visione dell’esistenza, rimanda alla figura dell’autore stesso e alla sua vicenda biografica. L’intreccio è ridotto a una semplice traccia perché a Gadda interessa soprattutto l’indagine critica sulla società contemporanea, priva di valori morali e, più in generale, l’indagine sulla presenza del male e del dolore nella vita umana. Nel romanzo si evidenziano, più che in altri testi gaddiani, la presenza della componente psicoanalitica e il plurilinguismo che caratterizzano lo stile di Gadda.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Partendo da una situazione sociale “attuale” (un happy hour, la presentazione di una mostra, un evento cultural-mondano o altro), scrivi un breve testo in cui cerchi di mimare la corrosiva satira gaddiana per criticare la “civiltà dell’apparire” (massimo 15 righe).

Competenza digitale

2. Fai una ricerca in Rete e individua esempi di pastiche nella letteratura di ieri e di oggi; prepara poi un power point con i risultati del tuo lavoro e presentalo alla classe. Puoi partire dal Satyricon di Petronio (I sec. d.C.) e arrivare ai romanzi di Camilleri (19252019), il creatore del commissario Montalbano.

460 Il Novecento (Prima parte) Carlo Emilio Gadda


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

9 Il Neorealismo

Il Neorealismo (1945-1955) è una tendenza che documenta realisticamente nella letteratura e nel cinema le atrocità della guerra, le condizioni di un paese prostrato e impoverito, ma anche i valori e gli ideali politici che avevano ispirato la Resistenza. Il termine “Neorealismo” nasce nel mondo del cinema, settore nel quale si affermò una vera e propria scuola, mentre in campo letterario esso non rappresentò, invece, un movimento organizzato, ma «un insieme di voci» (per dirla con Calvino), nato dalla convergenza temporanea di interessi di autori molto lontani per formazione e percorso.

1 La corrente neorealista Hemingway e Per 2 Ernest chi suona la campana 3 Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo

successo de Il 4 IlGattopardo, un romanzo anti-neorealista

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1 La corrente neorealista Significato e limiti di un’etichetta La parola “Neorealismo” (il prefisso neo- è utile a distinguerlo da precedenti manifestazioni di realismo) nasce in ambito cinematografico (è impiegato per la prima volta nel 1942 dal montatore Mario Serandrei a proposito del film Ossessione di Luchino Visconti); poco dopo si estende anche all’ambito (pittorico), ma solo a partire dal 1948 comincia a essere usato in modo generalizzato. Mentre per il cinema si può parlare di una vera e propria scuola (nella quale spiccano i nomi di De Sica, Rossellini e, appunto, Visconti) che fa riferimento a una comune poetica ed elabora un linguaggio filmico nuovo, in ambito letterario il Neorealismo identifica più che altro la temporanea convergenza, motivata soprattutto da ragioni etico-politiche, di scrittori assai diversi per formazione e profilo. Alcuni di essi – come Vittorini, Pavese, Calvino e lo stesso Moravia – pur non essendo assolutamente definibili come “neorealisti”, attraversano una fase neorealista, coinvolti dall’entusiasmo di un clima collettivo. Ne sono testimonianza, per Vittorini, il romanzo Uomini e no (1945) (➜ C6); per Pavese Il compagno (1947); per Calvino Il sentiero dei nidi di ragno; per Moravia soprattutto il romanzo La romana (1947) e, in anni più tardi, i Racconti romani (1954) e il celebre romanzo La ciociara (1957). Lo stesso vale per la poesia: la diffusione del Neorealismo induce non pochi autori a una svolta; il caso più clamoroso è quello di Salvatore Quasimodo, autore esemplare dell’Ermetismo, che si converte al Neorealismo; ma si possono ricordare anche Gatto o Sereni. Alle radici della svolta neorealista Come ha precisato Maria Corti in un saggio tuttora fondamentale (Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Einaudi, Torino 1978), il Neorealismo ha la propria genesi nell’esperienza della Resistenza: i drammatici avvenimenti che si susseguono tra il 25 luglio 1943 (l’arresto di Mussolini), la lotta partigiana al nazifascismo fino alla liberazione delle città del Nord (25 aprile 1945), costituiscono effettivamente un discrimine netto nella condizione dell’intellettuale e nella concezione della letteratura. Travolta dalla violenza degli eventi, crolla la fede nell’autonomia della letteratura rispetto alla storia e alla politica; inoltre, con la Resistenza si crea un’inusitata alleanza, in nome degli ideali e della lotta antifascista, tra intellettuali e masse popolari: l’intellettuale sente il dovere di calarsi “gramscianamente” nella dimensione collettiva e di dar vita a una letteratura programmaticamente progressista il cui protagonista sia il popolo. Nella celebre Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino ricostruisce il clima fervido in cui fiorì il Neorealismo; egli ricorda il bisogno che tutti avvertivano, all’indomani della Resistenza, di raccontare le proprie esperienze nelle strade, sui treni, nei negozi, il bisogno di fornire una testimonianza che potesse contribuire alla creazione di una società più libera e più giusta: «Ci muovevamo in un universo multicolore di storie» (➜ D1a ). Alle spalle del Neorealismo, secondo Maria Corti, c’è appunto da un lato la suggestione di questa tradizione orale e dall’altro l’influenza di documenti, resoconti e diari della guerra partigiana pubblicati sulla stampa clandestina tra il ’43 e il ’45. La motivazione a scrivere, negli scrittori neorealisti, inizialmente è soprattutto quel-

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la testimoniale: in questa tipologia di romanzi e racconti l’invenzione ha un peso minimo e si lasciano parlare i fatti nella loro drammatica evidenza. Valore testimoniale ha, nelle intenzioni dell’autore, la celeberrima opera di Primo Levi Se questo è un uomo (➜ C11): non a caso l’io narrante si limita all’asciutta descrizione delle pure e semplici reazioni (fisiche ed emotive) agli eventi. Una sorta di cronaca è il racconto lungo 16 ottobre 1943 del critico Giacomo Debenedetti, testo emblema del Neorealismo, dove l’invenzione si limita al solo montaggio quasi cinematografico. I precursori e i modelli Precursori del Neorealismo possono essere considerati gli autori “meridionalisti”, che hanno dato vita alle opere etichettate come “realismo degli anni Trenta”, anche per le componenti di denuncia sociale e la forte tensione etica che le ispira: non tanto Gli indifferenti di Moravia (➜ C5) (in cui la scelta realistica si coniuga con una analisi psicologico-comportamentale e il mondo rappresentato è quello della borghesia), quanto piuttosto romanzi come Fontamara di Silone, Gente in Aspromonte di Alvaro (➜ C5), Le terre del Sacramento di Jovine o Tre operai di Bernari, che rappresentano una realtà contadina e/o popolare. Ma modelli dichiarati dei neorealisti sono soprattutto Conversazione in Sicilia di Vittorini e Paesi tuoi di Pavese (➜ C6), romanzi di cui non vengono colti allora i risvolti simbolici, ma di cui i nuovi scrittori apprezzano l’ambientazione regionale, la centralità di personaggi del popolo, i temi dell’emarginazione e dell’ingiustizia. Una grande influenza fu esercitata, infine, soprattutto per quanto riguarda lo stile narrativo, anche dalla letteratura americana che, proprio grazie a Vittorini e Pavese, aveva iniziato a circolare in Italia. Nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, Calvino, parlando di Per chi suona la campana, celebre romanzo di Hemingway e di cui riportiamo uno stralcio significativo (➜ T1 ), ricorda: «Fu il primo libro in cui ci riconoscemmo, fu di lì che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto». La parabola dell’esperienza neorealista Il Neorealismo fu un’esperienza di breve durata (circa un decennio) di cui si possono indicare queste tappe. • 1943-1945 la nascita In questi anni si crea, in rapporto alla Resistenza, la fiducia che si possa e si debba creare una nuova forma d’arte. Prevalgono nella primissima fase testi memorialistici e documenti di vita. • 1945-1950 lo sviluppo Il periodo di più intensa produzione sia cinematografica sia narrativa si colloca tra il 1945 e il 1947: in questi anni sono pubblicati romanzi come Uomini e no, Cronache di poveri amanti, Spaccanapoli, Il sentiero dei nidi di ragno, Il compagno, Il cielo è rosso e altri ancora. Nel cinema Paisà e Roma città aperta di Rossellini, La terra trema di Visconti (1948). L’esperienza si protrae ancora alcuni anni: del 1948 è il film Ladri di biciclette di De Sica, nel 1949 è pubblicato L’Agnese va a morire di Renata Viganò e nel 1950 Le terre del Sacramento di Jovine. Tuttavia la sconfitta delle sinistre nel 1948 crea ben presto un clima di delusione e segna la fine dello slancio ideale successivo alla Resistenza. L’Inchiesta sul neorealismo condotta da Carlo Bo nel 1951 traccia già una sorta di bilancio sul movimento, come di un’esperienza in qualche modo già trascorsa e non mancano giudizi limitativi come quello, significativo, di Gadda (➜ D1b OL). • 1955 Metello e la crisi del neorealismo Attorno alla metà degli anni Cinquanta il sogno di una letteratura nazional-popolare è ormai esaurito; il cinema neorealista continua invece, anche se per poco (fino alla fine degli anni Cinquanta), a fare un’autentica opera di rottura.

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L’esaurirsi del Neorealismo è segnato simbolicamente dalla pubblicazione di una delle sue opere più celebri e programmatiche: Metello di Vasco Pratolini (1955), frutto del consapevole tentativo da parte dell’autore di offrire ai lettori una storia moralmente e politicamente esemplare: narra l’educazione di un giovane muratore che, anarchico e inconsapevole, matura nel corso del romanzo una coscienza di classe e diventa un sindacalista nelle lotte operaie d’inizio secolo. Il romanzo è accolto da un buon successo di pubblico, ma suscita subito un rovente dibattito in cui proprio i più autorevoli critici di sinistra affossano l’opera per il suo populismo ingenuo e volontaristico. La fine del Neorealismo La grave crisi delle sinistre in seguito alla denuncia dei crimini stalinisti e alla rivolta d’Ungheria (1956), ma ancor più l’inizio del periodo del boom industriale faranno presto apparire invecchiati i romanzi neorealisti e defunte le generose utopie che ne avevano originato l’ideazione. Il neocapitalismo, in particolare nel Nord Italia, propone nuovi messaggi culturali. Lo scrittore a sua volta si integra nell’industria culturale e rinuncia di fatto a interpretare «le aspirazioni più profonde della nazione-popolo» (Gramsci). L’industria culturale finisce per integrare anche il cinema nel sistema: alla dura denuncia neorealista si sostituisce la più blanda e “digeribile” critica di costume della fortunata “commedia all’italiana”. Il successo clamoroso nel 1958 di un romanzo di impianto e linguaggio tradizionali, aristocratico e decadente nei contenuti, sembra sigillare la fine di un’epoca: Il Gattopardo del nobile siciliano Tomasi di Lampedusa (➜ T4 ).

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Interpretazioni critiche

Parola chiave

Alberto Asor Rosa Una critica al populismo neorealista

Regionalismo e mondo popolare I campi tematici entro cui si muove la rappresentazione neorealista, spesso tra di loro interagenti, sono due: il mondo popolare e il regionalismo. In rapporto all’influenza marcata dell’ideologia marxista, legata alla lettura dei testi di Gramsci, diventa quasi d’obbligo la rappresentazione del mondo operaio e popolare in genere. Gli eroi del Neorealismo sono opposti a quelli del romanzo borghese, segnati da un tormentato individualismo: sono contadini, operai, emarginati e disoccupati (significativo che il cinema stesso si avvalga di attori non professionisti, scelti tra la gente comune), di cui si rappresenta l’elementare vitalità, senza escludere il riferimento al sesso. Allo stesso modo, in opposizione al mito fascista della nazione e all’esaltazione retorica della patria, si dà spazio alla rappresentazione delle periferie, delle realtà regionali: in questo ambito l’esempio migliore rimane uno dei primi romanzi neorealisti, Cristo si è fermato a Eboli (➜ C5).

populismo Con il termine “populismo” si intende la tendenza (presente fin dall’Ottocento) a mitizzare il popolo, considerandolo depositario di valori e aspetti positivi, che possono mutare nel tempo; o anche, a seconda degli autori, la possibilità di cercare nel popolo il fascino del “primitivo-barbarico” (come in certe opere dannunziane), l’innocenza, il vitalismo o altre connotazioni buone. È nel secondo dopoguerra, però, che il termine acquista il significato che gli viene più frequentemente associato: nel popolo si ritrova una forza capace di far evolvere in modo costruttivo la società, perché è nel popolo che vivono valori

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autentici, integrità morale, solidarietà. Un’ottica populista indubbiamente traspare da molte opere letterarie neorealiste e, secondo la critica, ne costituisce uno dei limiti più vistosi, perché si traduce nella tendenza a creare personaggi di estrazione popolare anche troppo ideali, volutamente esemplari: la rappresentazione allora non si può più definire davvero realistica (e il realismo era l’aspirazione della narrativa neorealista) ma oleografica e schematica. Fu proprio questo che venne rimproverato al romanzo Metello, di Pratolini, che più rappresenta la stagione neorealistica e insieme la chiude.


L’idealizzazione del popolo La rappresentazione del popolo nei più tipici romanzi neorealisti, sostenuta da una programmatica solidarietà tra narratore-autore e personaggi, per lo più è ispirata da una visione populistica, che comporta l’idealizzazione del popolo e di quelle che sono ritenute le sue costitutive qualità. A livello narrativo questa prospettiva si traduce nella creazione di strutture marcatamente oppositive in cui il polo positivo riguarda esclusivamente il popolo, in una visione fortemente ideologizzata, che non ammette alcuna dialettica interna (significativo in tal senso a una prima lettura il titolo stesso Uomini e no di Vittorini). Esemplare dei caratteri della rappresentazione neorealista del popolo è Cronache di poveri amanti di Pratolini, forse il più tipico e suggestivo romanzo neorealista (➜ T2 ). Il diktat del realismo Il realismo diventa vera e propria parola d’ordine soprattutto dopo il 1948, anche in rapporto alla forte egemonia culturale del Pci e al modello, fatto proprio dal Partito, del cosiddetto “realismo socialista”, una visione dell’arte elaborata in Russia fin dagli anni Trenta da Andrej A. Ždanov (1896-1948). In linea con la visione di Stalin, per il quale l’arte deve essere subordinata alla politica, Ždanov aveva teorizzato la necessità che l’arte seguisse canoni esclusivamente realisti, scegliesse determinati contenuti e creasse eroi positivi appartenenti al popolo. Ma in Italia si fa molto sentire anche il modello di Verga, riscoperto come “autore del popolo” e realista, ma poi se ne ignora il pessimismo fatalista e la demistificazione amara del mito del progresso.

Una scena dal film Ladri di biciclette.

Un ritorno al naturalismo? Per gli autori neorealisti, “realismo” significa prima di tutto portare alla ribalta, in tutta la sua drammaticità, la realtà storica: la guerra, la Resistenza, i gravi problemi sociali del dopoguerra. Una scelta prima di tutto ideologica, non estetica e che deriva da un’adesione tutto sommato ingenua ai fatti. Il che, secondo il giudizio della critica, significa in sostanza ritornare al Naturalismo, annullando i risultati della grande narrativa europea del primo Novecento in nome di una volontà comunicativa immediata. Mentre Pirandello, Svevo e anche Gadda smontavano l’idea che il mondo fosse oggettivamente rappresentabile, «il Neorealismo parte invece dallo spessore dei fatti. E non dubita di essi. Non s’interroga [...] sulla categoria di realtà, sul senso di ciò che si dice realtà, ma la assume come dato» (A. Guglielmi). Le scelte stilistico-linguistiche Animano le scelte narrativo-stilistiche dei neorealisti gli stessi obiettivi che ispirano la scelta dei soggetti: realismo, popolarità, regionalismo. Da qui la prevalenza del dialogato, l’uso di modi sintattici propri del parlato (prevalenza della paratassi, costrutti nominali), il rifiuto di un uso letterario della lingua e di un lessico metaforico (ma nelle parti diegetiche affiora talvolta una prosa lirica vicina alla prosa d’arte). Il tentativo di andare verso il popolo si traduce nell’uso abbastanza diffuso del dialetto, assunto però in genere all’interno dell’italiano medio o dell’italiano regionale. I risultati di questi «prelievi dal basso» (Corti) non sono sempre convincenti: vengono a coesistere, e a volte a confliggere, elementi eterogenei.

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Che cos’è stato il Neorealismo D1a

Italo Calvino

Il “Neorealismo” non fu una scuola Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

Nel 1964, Calvino ripubblica presso Einaudi il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), preponendovi una lunga Prefazione diventata celebre e della quale proponiamo qualche stralcio significativo. A distanza di quasi vent’anni, lo scrittore si interroga sul significato dell’esperienza neorealistica, a cui egli stesso aderì con la sua prima opera. Le sue riflessioni sono tutt’oggi assai significative per inquadrare e contestualizzare il fenomeno neorealistico.

Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto 5 letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della seconda Guerra Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne 10 sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio 15 e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo. Questo ci tocca1 oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, 20 guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare2 fu per la gente al principio smania di raccontare: nei tre25 ni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse3, e così ogni avventore4 ai tavoli delle “mense del popolo”, ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. 30 Chi cominciò a scrivere allora si trovò cosi a trattare la medesima materia dell’ano-

1 ci tocca: ci colpisce. 2 La rinata libertà di parlare: dopo la fine della dittatura era venuta meno ogni censura e limitazione alla libertà di parola.

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3 le vicissitudini... occorse: le esperienze che gli erano capitate. 4 avventore: cliente.


nimo narratore orale5: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. [...] Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa 35 elementare universalità dei contenuti, non era lì la molla [...]; al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose 40 che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto6, mai si videro formalisti cosi accaniti come quei contenutisti che 45 eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere7. [...] Il “neorealismo” non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra – o che si supponevano 50 sconosciute –, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato “neorealismo2. Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta8 55 di cui tanti critici ci rimproveravano d’essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del 60 proprio paesaggio... 5 l’anonimo narratore orale: alle origini delle letterature romanze sta una trasmissione orale di racconti, a volte frutto di un’elaborazione collettiva. 6 quel che... libretto: nei melodrammi la musica si struttura in rapporto a un testo

contenuto in un libretto. Ma la musica è ben più importante del libretto... 7 mai si videro... per essere: sembrava che agli scrittori neorealisti importassero esclusivamente i contenuti. In realtà, secondo Calvino (ma lo scrittore parla qui soprattutto per se stesso) la forma, cioè

il problema stilistico era prevalente. Allo stesso modo il richiamo obbligato all’oggettività non implicava affatto, secondo Calvino, la rinuncia al lirismo. 8 scrittori degli Anni Trenta: gli scrittori americani, in particolare Hemingway, costituirono un modello per i neorealisti.

Concetti chiave Un’importante riflessione

Anche solo considerando i passi riportati, la Prefazione di Calvino contiene più di uno spunto importante per comprendere il Neorealismo. Proviamo a enuclearli seguendo le argomentazioni dello scrittore.

Il neorealismo come esito di un clima

Estremamente significativa – e in linea, del resto, con le interpretazioni della critica – è l’osservazione secondo cui il Neorealismo, più che di una consapevole posizione letteraria, fu il frutto e la testimonianza di una condizione collettiva, psicologica, morale, esistenziale; l’esito

La corrente neorealista 1 467


di un clima in cui la tragedia della guerra e della guerra civile si trasformava tutto sommato in ottimismo, in euforia («non ce ne sentivamo [...] vinti, [...] ma vincitori»). Per la prima volta, lo scrittore condivideva con la gente comune le stesse esperienze di vita. La drammatica urgenza dei “fatti”, come per miracolo, aveva azzerato le differenze culturali e sociali che da sempre dividevano lo scrittore italiano dai più. Questa condivisione stabiliva un’immediata comunicazione tra scrittore e pubblico, finalmente davvero omologhi.

I racconti sulla guerra

Il secondo aspetto che emerge dal testo è il legame stretto fra i racconti spontanei relativi alla guerra e alla Resistenza che fiorivano un po’ dappertutto e la letteratura che da quegli stessi fatti e contesti traeva ispirazione. Similmente il cantastorie medievale tirava le fila di racconti multipli fioriti nel tempo e li narrava a sua volta oralmente.

Il problema formale

L’accusa spesso rivolta dalla critica al Neorealismo è quella di un’attenzione maggiore ai contenuti che alle modalità narrative e agli aspetti stilistico-linguistici, al di là delle buone intenzioni. Al contrario Calvino rileva (ma forse allude soprattutto a sé stesso) la consapevolezza nei narratori neorealisti del problema formale, la coscienza che gli eventi vissuti erano solo il materiale su cui si sarebbe dovuto lavorare.

L’importanza del regionalismo

Dopo aver precisato che il Neorealismo non può essere considerato una scuola, Calvino sottolinea come costitutivo della corrente, se così si può chiamare, il regionalismo: «Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie...». Italie che non si conoscevano tra di loro (una scoperta di cui Calvino sottolinea con forza anche il risvolto linguistico, nella presenza di voci dialettali, di gerghi fatti confluire nella lingua letteraria). L’ottica della narrativa neorealista non era però quella ristretta di certo regionalismo verista minore, ma quella di una certa letteratura americana degli anni Trenta, per cui la provincia poteva diventare un paradigma. È la stessa ottica della Sicilia di Vittorini o del Piemonte di Pavese (ma Calvino riconosce come maestro della sua generazione anche Verga).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega perché Calvino considera il suo romanzo, più che una sua opera, «un libro nato anonimamente dal clima generale di un’epoca». 2. In che modo nel primissimo dopoguerra risulta trasformato il rapporto fra scrittore e pubblico e che cosa determina tale trasformazione? ANALISI 3. Quali sono stati i maestri della scrittura neorealista, secondo Calvino? STILE 4. Spiega, in rapporto al contesto, le seguenti metafore: «non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma», «quel che contava era la musica e non il libretto».

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. La stagione neorealista, dice Calvino, nasce oltre che dalla tensione etico-politica che si era diffusa nel Dopoguerra, anche dalla smania di raccontare. Prova a scrivere un racconto che segua i dettami della poetica neorealista e che ritragga un momento per te significativo della storia a te più vicina.

online D1b Carlo Emilio Gadda

Un giudizio critico sul Neorealismo Un’opinione sul Neorealismo

468 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo


Sguardo sul cinema Neorealismo: un nuovo modo di fare cinema Il contesto storico Il cinema neorealista si diffonde in Italia dopo la Seconda guerra mondiale. I bombardamenti hanno distrutto gran parte degli studi cinematografici, di conseguenza non è possibile girare scene ricostruite, non si possono utilizzare gli attori del periodo fascista, non ci sono fondi per finanziare le produzioni. I cineasti sono quindi costretti a trovare un nuovo modo di fare cinema. Nasce in questo periodo l’esigenza di rappresentare in modo quasi documentaristico la drammatica realtà degli Italiani con riprese solo all’esterno e con attori non professionisti. La rottura con il passato I registi decidono di creare una rottura netta con il cinema precedente e di rappresentare quanto più realisticamente possibile le vicende di un popolo fiaccato dalla guerra, i partigiani e i poveri. Roma città aperta: nascita del Neorealismo Solitamente si fa coincidere la nascita del neorealismo con la pellicola Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini (19061977), nel quale si rappresentano i drammi degli abitanti di un quartiere romano durante l’occupazione tedesca.

Non c’è una vera e propria sceneggiatura, ma tutto è affidato alla recitazione degli attori. Il film ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes. Paisà Nel 1946 Rossellini realizzò Paisà: si tratta di sei episodi indipendenti che seguono l’avanzata degli alleati da Sud a Nord. Ladri di biciclette Film prodotto nel 1948 dal regista Vittorio De Sica (1901-1974) si configura come uno dei capolavori del Neorealismo. Il protagonista, Antonio Ricci, molto povero, viene derubato dell’unico mezzo di trasporto, la bicicletta, nel suo primo giorno di lavoro; inizia una intensa ricerca con il figlio Bruno per tutta Roma senza nessun esito. La pellicola offre un ritratto di Roma nel dopoguerra. La fine del Neorealismo Il Neorealismo in senso stretto termina con la metà degli anni Cinquanta, anche se continua la sua influenza fino ai primi anni Sessanta.

Antonio, il protagonista di Ladri di biciclette (1948), con il figlio Bruno, in una scena del film di Vittorio De Sica.

Scene da Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini con il protagonista Aldo Fabrizi (don Pietro).

online

Per approfondire Il Neorealismo: un nuovo modo di fare cinema

online D2 Roberto Rossellini

Il Neorealismo è la forma artistica della verità Due parole sul Neorealismo

Un fotogramma del film Paisà (1946) di Roberto Rossellini.

online D3 Cesare Zavattini

La guerra è la chiave di volta del Neorealismo Il Neorealismo secondo me

La corrente neorealista 1 469


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Per chi suona la campana, film con Ingrid Bergman e Gary Cooper.

Ernest Hemingway e Per chi suona la campana La vita e le opere Ernest Hemingway, considerato uno dei grandi scrittori americani del Novecento, nasce in Illinois nel 1899 da un’agiata famiglia. Giornalista e narratore, traspone nei suoi romanzi esperienze personalmente vissute nella sua avventurosa esistenza, a cominciare da quella tragica della guerra: arruolatosi come volontario nella Croce Rossa, nel 1918 è mandato in Italia dove è ferito sul fronte del Piave. Ne trae il romanzo Addio alle armi (1929). Tra le due guerre viaggia in Europa ed entra in contatto con autori importanti come Joyce e Pound. Nel 1936 si reca come giornalista di guerra in Spagna dove divampava la guerra civile. Là Hemingway combatte a fianco dei repubblicani. Dall’esperienza trae il suo capolavoro, Per chi suona la campana, pubblicato nel 1940. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, è corrispondente di guerra e partecipa allo sbarco in Normandia. Ispirato al suo amore per l’Africa e alla sua passione per la caccia e l’avventura è Verdi colline d’Africa (1932). Altro romanzo celeberrimo è Il vecchio e il mare (1952), epica lotta tra un vecchio pescatore e un enorme pescespada, in cui lo scrittore traspone la passione per la pesca d’altura praticata durante la sua permanenza a Cuba. L’arte narrativa di Hemingway, il suo stile incisivo e diretto, in cui si avverte l’influsso della prosa giornalistica, che ispirò il realismo italiano, si manifesta pienamente soprattutto nei Quarantanove racconti (1938). Divenuto famosissimo anche in Europa, nel 1953 Hemingway è insignito del premio Nobel per la letteratura. Spirito inquieto, soggetto a crisi depressive e schiavo dell’alcol, Hemingway si uccide con un colpo di fucile nel 1961. Per chi suona la campana Il romanzo, pubblicato nel 1940, è ambientato in Spagna al tempo della guerra civile (1936-1939) tra i repubblicani (in aiuto dei quali accorsero militanti antifascisti dall’Europa tutta e dagli Stati Uniti) e i falangisti del generale Francisco Franco. Il protagonista maschile, l’intellettuale americano Robert Jordan, volontario nell’esercito repubblicano, è una chiara proiezione autobiografica dell’autore. Incaricato di una pericolosa missione di guerra (far saltare un ponte d’acciaio) Robert si appoggia a una banda armata di rivoluzionari, capitanata dal violento Pablo, che cerca di ostacolare i progetti del giovane; ma egli ottiene l’appoggio della compagna di Pablo, la fiera Pilar.

470 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo


Al campo dei ribelli, Jordan conosce la giovanissima Maria, i cui genitori sono stati uccisi dai soldati franchisti e che è stata violentata. Si innamora di lei, ricambiato dalla ragazza. Ma gli avvenimenti precipitano. I franchisti avanzano e annientano un avamposto partigiano. Pur consapevole dell’inutilità del suo gesto, Robert fa ugualmente saltare il ponte. Ferito gravemente dai nemici, pretende che i rivoluzionari si allontanino con Maria, mentre egli rimane solo sulla collina a difenderne la ritirata. Il romanzo fu pubblicato in Italia nel 1946 dal «Politecnico». Nel 1943 Sam Wood ricava dal romanzo un film di grande successo, con due celebri interpreti: Gary Cooper nella parte di Jordan e Ingrid Bergman in quella di Maria.

Per chi suona la campana

Collabora all’analisi

T1

GENERE

romanzo con componenti autobiografiche

DATA DI PUBBLICAZIONE

1940

AMBIENTAZIONE

Spagna ai tempi della guerra civile (1936-39)

Ernest Hemingway

Un modello per il realismo italiano

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Per chi suona la campana, cap. 31 E. Hemingway, Per chi suona la campana, in Opere, a c. di F. Pivano, trad. di M. Napolitano Martone, Mondadori, Milano 1963

Nel passo antologizzato, Maria, una giovane donna che si è arruolata in una banda armata per vendicare i genitori, uccisi dai militari franchisti, racconta la propria tragica esperienza di guerra a Robert Jordan, un giovane professore americano volontario nelle file della Resistenza internazionale antifascista a cui si è sentimentalmente legata.

“Mio padre era il sindaco del villaggio, era un galantuomo. Mia madre era una donna onesta e una buona cattolica e la fucilarono insieme a mio padre per via delle opinioni politiche di mio padre, che era repubblicano. Io li ho visti fucilare tutti e due e mio padre disse: “Viva la República!” Era appoggiato al muro del matadero1 5 del nostro villaggio, quando lo spararono. “Mia madre che era in piedi contro lo stesso muro disse: “Viva mio marito che era il sindaco di questo villaggio!” e io speravo che avrebbero fucilato anche me, e volevo dire: Viva la Republica y vivan mis padres2, ma invece non mi fucilarono ma mi fecero quelle cose3.

1 matadero: il luogo dove si eseguivano le sentenze di morte (dallo spagnolo matar, “uccidere”).

2 Viva... mis padres: in spagnolo “Viva la Repubblica e viva i miei genitori”.

3 mi fecero quelle cose: allusione alla violenza sessuale subita.

Ernest Hemingway e Per chi suona la campana 2 471


“Senti, voglio dirti una cosa perché ci riguarda. Dopo la fucilazione al matadero, trascinarono noialtri parenti che avevamo assistito all’esecuzione ma non eravamo stati uccisi, su per la salita ripida fino alla piazza del villaggio. Piangevamo quasi tutti, ma certi erano istupiditi per quello che avevano visto e i loro occhi si erano inariditi. Io stessa non riuscivo a piangere. Non mi accorgevo di niente perché con15 tinuavo a vedere mio padre e mia madre nell’istante dell’esecuzione e mia madre che diceva: “Viva mio marito che era il sindaco di questo villaggio” e c’era nella mia testa come un grido che non moriva ma continuava sempre. Mia madre non era una repubblicana e perciò non aveva gridato “Viva la República!” ma solo “Viva mio padre” che era steso lì, a faccia all’ingiù, ai suoi piedi. 20 “Ma quello che aveva detto l’aveva detto molto forte, gridando, e poi l’avevano sparata ed era caduta e io volevo uscire dalla fila per correre da lei ma eravamo tutti legati. La fucilazione era stata fatta dalla guardia civil4 e le guardie si preparavano a fucilarne altri quando i falangisti5 ci trascinarono su per la collina lasciando le guardias civiles appoggiati ai loro fucili e tutti i corpi lì contro il muro. Eravamo 25 legati per i polsi in una lunga fila di ragazze e di donne, e i falangisti ci spinsero su per la collina e per le strade fino alla piazza e si fermarono davanti alla bottega del barbiere che era sulla piazza del municipio. “Poi due uomini ci guardarono e uno disse: “Questa è la figlia del sindaco” e l’altro disse: “Comincia da lei”. 30 “Allora tagliarono la corda che mi legava i polsi mentre uno diceva agli altri: “Lega di nuovo la fila” e quei due mi presero per le braccia e mi sollevarono e mi misero sulla poltrona del barbiere e mi tennero ferma. “Vidi nello specchio del barbiere la mia faccia e le facce di quelli che mi tenevano e le facce di altri tre che erano curvi su di me e non ne conoscevo nessuna: e nello 35 specchio vedevo me e loro ma loro vedevano soltanto me. Ed era come quando si sta sulla poltrona del dentista, ma c’erano molti dentisti ed erano tutti pazzi. Non riconoscevo quasi il mio viso perché il dolore l’aveva cambiato, ma lo guardavo e capivo che era il mio. Ma il mio dolore era cosí forte che non avevo paura o altri sentimenti, solo dolore. 40 “In quel tempo portavo i capelli in due trecce e mentre mi guardavo nello specchio uno degli uomini mi prese una treccia e la tirò cosí forte che a un tratto mi dolse nonostante il mio stesso dolore; e poi la tagliò con un rasoio proprio a livello della testa6. E io mi vidi con una treccia e un mozzicone dov’era stata l’altra. Poi tagliò l’altra treccia ma senza tirarla e il rasoio mi fece un piccolo taglio sull’orecchio e 45 vidi uscire del sangue. La senti la cicatrice col dito?” “Sí. Ma sarebbe meglio non parlare di queste cose.” “Questo è niente. Non parlerò delle cose veramente brutte. Dunque il falangista mi aveva tagliate le due trecce, col rasoio, a livello della testa e gli altri ridevano e io non sentivo nemmeno il taglio sull’orecchio e a un tratto il falangista mi si piantò 50 davanti e mi sbatté le trecce sulla faccia mentre gli altri mi tenevano; e diceva: “Ora 10

4 guardia civil: la Polizia di Stato, che

5 i falangisti: la milizia speciale (falange)

agisce in accordo con la falange del generale Franco.

agli ordini di Francisco Franco.

472 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo

6 la tagliò... della testa: la rasatura dei capelli delle donne del nemico come la più umiliante delle punizioni.


ti facciamo diventare una monaca rossa7. Questo t’insegnerà a unirti ai tuoi fratelli proletari, sposa del Cristo Rosso!”. “E mi colpì ancora e ancora sulla faccia con le mie trecce e poi me le ficcò tutt’e due in bocca e me le legò strette intorno al collo facendo un nodo dietro, come un 55 bavaglio, e i due che mi tenevano ridevano. “Tutti quelli che erano presenti si misero a ridere e quando li vidi ridere nello specchio cominciai a piangere perché fino allora ero stata così gelata dentro per la fucilazione, che non potevo piangere. “Poi quello che mi aveva imbavagliata mi passò una macchinetta sulla testa: pri60 ma dalla fronte fino alla nuca e poi di traverso e dietro le orecchie, e intanto mi tenevano, in modo che potessi vedermi bene nello specchio del barbiere; e mentre vedevo quello che facevano non potevo crederci e piangevo e piangevo ma non potevo staccare gli occhi dalla mia faccia spaventosa, con la bocca aperta e le trecce ficcate dentro e la mia testa che usciva nuda di sotto la macchinetta. 65 “E quando quello con la macchinetta ebbe finito, prese una boccetta di iodio8 dall’armadietto del barbiere (il barbiere l’avevano fucilato perché apparteneva a un sindacato, ed era steso sulla soglia della sua bottega e me l’avevano fatto scavalcare quando mi avevano portata dentro) e mi toccò sull’orecchio tagliato con lo stelo di vetro che era nella boccetta, io sentii quel bruciore attraverso la mia afflizione e il mio orrore. 70 “Poi l’uomo che era davanti a me scrisse U.H.P.9 sulla mia fronte con la tintura di iodio, disegnando le lettere piano con cura come se fosse un pittore e io vedevo ogni cosa nello specchio e non piangevo piú perché mi s’era gelato dentro il cuore per mio padre e mia madre; e quello che ora accadeva a me non era niente e lo sapevo. “Poi quando ebbe finito di disegnare le lettere, il falangista fece un passo indietro 75 e mi guardò per esaminare il suo lavoro e poi posò la boccetta di tintura di iodio e riprese la macchinetta e disse: “A chi tocca”. Mi portarono via dalla bottega del barbiere tenendomi stretta per le braccia e io inciampai nel barbiere che era sempre steso sulla soglia con la sua faccia livida e urtammo quasi la mia migliore amica Concepción Gracia che altri due portavano dentro; e quando Concepción mi rivide 80 non mi riconobbe, e poi mi riconobbe e si mise a gridare e io seguitavo a udire i suoi strilli mentre mi trascinavano attraverso la piazza e mi spingevano nel portone del municipio e poi su per le scale e nell’ufficio di mio padre, dove mi stesero sul divano. E fu lì che mi fecero le brutte cose.” “Mio coniglietto” disse Robert Jordan, stringendola a sé con quanta dolcezza poteva. 85 Ma era pieno d’odio quanto può esserlo un uomo. “Non ne parlare più. Non mi dire altro, perché sono già troppo pieno d’odio.” Maria era fredda e rigida nelle sue braccia. “No” disse “non ne parlerò mai più. Ma sono gente cattiva e io vorrei ucciderne qualcuno con te, se potessi. Ti ho detto tutto questo solo per il tuo orgoglio, se dovrò essere tua moglie. Perché tu capisca.” 90 “Sono contento che tu me l’abbia detto” diss’egli. “Perché domani, se abbiamo fortuna, ne uccideremo molti.”

7 una monaca rossa: le monache usano portare sotto il velo i capelli rasati; l’aggettivo rossa qui e più avanti (Cristo Rosso) allude alla posizione politica della famiglia della ragazza.

8 di iodio: di tintura di iodio, un antisettico in soluzione liquida.

9 U.H.P.: sigla anarchica (Unión Hermanos Proletarios, Unione dei fratelli proletari), riconducibile all’alleanza operaia nella rivolta delle Asturie.

Ernest Hemingway e Per chi suona la campana 2 473


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il passo, tratto da Per chi suona la campana (1940) presenta un colloquio tra Maria e l’amato Jordan, durante il quale la ragazza racconta il dramma che ha vissuto. La giovane ha subito una violenza collettiva in un clima di violenza generalizzata, la guerra civile spagnola. Prima del drammatico evento, Maria aveva già sofferto i tragici eventi della guerra: suo padre, sindaco del paese e oppositore politico del regime franchista, era stato fucilato dai falangisti e con lui sua moglie. Maria era stata risparmiata, ma aveva subito quelle cose. 1. Chi sono i due personaggi dialoganti? A quale contesto storico si riferisce il drammatico racconto della donna? 2. Nel racconto puoi identificare due sequenze: rispettivamente a quali fatti fanno riferimento? 3. Qual è la reazione di Jordan al lungo racconto di Maria? Quale atteggiamento egli mostra nei confronti della ragazza? 4. Come si conclude il passo? Nella scena di violenza ha un ruolo importante lo specchio, nel quale si riflettono le immagini della ragazza e dei suoi stupratori. Ci viene così presentato l’avvenimento che costituisce il fulcro della narrazione. 5. Quali paragoni istituisce Maria per descrivere la situazione che ha vissuto? 6. Quale valore assume il taglio delle trecce subito da Maria? 7. Maria, durante il racconto, dice: «Non parlerò delle cose veramente brutte». Quale significato assumono le sue parole nel contesto? Lo stile attraverso il quale vengono presentati i fatti è asciutto ed essenziale, ma quella che sembra una rappresentazione antiletteraria è in realtà il frutto di una precisa tecnica narrativa finalizzata alla riproduzione oggettiva dei fatti stessi, la cui gravità viene ridotta al minimo, proprio per metterla ancora di più in evidenza. 8. I fatti narrati sono indubbiamente drammatici e tragici: ti sembra che l’autore faccia leva sull’emotività del lettore nel narrarli? Motiva il tuo giudizio. 9. Analizza il passo sotto il profilo stilistico. Quale effetto produce l’uso del discorso diretto? Sul piano sintattico prevale la ipotassi o la paratassi? L’autore (e il traduttore, di conseguenza) usano una lingua letteraria o comune?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

Costituzione

competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

10. Maria ha subito la dura e tragica violazione del suo corpo e della sua anima. Rifletti sul tema della violenza di genere ed esponi le tue riflessioni in un testo di max 15 righe, facendo riferimento anche all’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030.

Ernest Hemingway intento al lavoro di scrittura.

474 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo


3

Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo La vita e le opere Vasco Pratolini (1913-1991) nasce da una famiglia di modeste condizioni in un quartiere popolare del centro di Firenze. Studia da autodidatta e si dedica a vaste, disordinate letture. La conoscenza di Vittorini lo introduce negli ambienti letterari. Nel 1938 fonda con Alfonso Gatto la rivista «Campo di Marte», importante punto di riferimento per l’Ermetismo. Nel 1939 si trasferisce a Roma, e inizia la carriera letteraria. Maturata una coscienza antifascista, partecipa alla Resistenza. Dopo la fine della guerra pubblica Il Quartiere (1945), Cronaca familiare e Cronache di poveri amanti (1947) e infine Le ragazze di San Frediano (1951). La materia da cui trae ispirazione in questi romanzi (a parte Cronaca familiare) è la vita quotidiana dei quartieri popolari di Firenze, ritratta con realismo e affettuosa adesione. Il romanzo forse più celebre di Pratolini è Metello del 1951, in cui lo scrittore, abbandonando la prospettiva ristretta del quartiere, affronta l’ambizioso progetto di un ciclo di romanzi intitolato Una storia italiana, che narri un secolo della storia d’Italia. Metello, primo romanzo della serie, rappresenta il periodo che va dal 1875 al 1902. Nel secondo romanzo della trilogia, Lo scialo (1960), rappresenta l’adesione al fascismo da parte di una piccola borghesia priva di valori morali; segue Allegoria e derisione (1966), un romanzo in parte autobiografico che dà voce alla crisi ideologica e di ruolo dell’intellettuale all’inizio degli anni Cinquanta. Tra il secondo e il terzo romanzo della trilogia si inserisce La costanza della ragione del 1963, che non rientra nel ciclo sulla storia italiana. Cronache di poveri amanti: un romanzo “corale” Pubblicato nel 1947, è forse il più emblematico romanzo del Neorealismo, quello che meglio ne esprime le intenzionalità e le scelte ideologiche. Il teatro dell’azione è un quartiere popolare di Firenze e in particolare una strada, via del Corno; l’epoca è l’anno successivo al delitto Matteotti, il 1925. Cronache di poveri amanti è un romanzo “corale”, la cui vera protagonista è, appunto, via del Corno, osservata con sguardo partecipe dal narratore nella sua vita quotidiana, con le sue figure tipiche e realistiche: i “cornacchiai” popolani e artigiani, come il carbonaio Nesi, il ciabattino, l’ambulante Ugo, il maniscalco Corrado, detto Maciste. Via del Corno sembra lontana dalla storia ufficiale, ma la violenza dei tempi si insinua anche lì: due abitanti del quartiere, Carlino e Osvaldo, sono schierati con i fascisti e saranno i carnefici dei loro vicini, i cornacchiai antifascisti, che saranno aggrediti, arrestati e uccisi, come Maciste, l’eroe buono che muore per salvare delle vite umane. Il narratore-cronista Il romanzo è definito dallo stesso Pratolini, nel titolo, cronache, un vocabolo che richiama una tradizione antica soprattutto in Toscana, rinnovata dalla Resistenza. Il narratore assume deliberatamente il ruolo di “cronista”, il che equivale alla precisa scelta narrativa di mettere sullo stesso piano varie storie quotidiane comiche o tragiche che nel loro insieme ricostruiscono la vita del microcosmo di via del Corno: non vi sono temi né personaggi principali, ma la semplice giustapposizione di storie simultanee, narrativamente autonome, su cui si sposta via via l’obiettivo quasi cinematografico del narratore. Nella prospettiva della cronaca i personaggi sono ritratti quasi esclusivamente attraverso i dialoghi e le azioni. Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo 3 475


Il narratore-interprete cantastorie La voce narrante di Cronache di poveri amanti sembra richiamarsi a modalità ottocentesche: infatti si tratta di un narratore onnisciente, che conosce i luoghi, i personaggi, che prevede quanto accadrà, che può interpretare le azioni dei protagonisti (come viene fatto nell’apostrofe a Maciste in ➜ T2 ) e che commenta le vicende. Siamo però ben lontani dal narratore manzoniano: la voce narrante, in cui si rispecchia l’autore stesso, non è infatti “superiore”, ma appartiene allo stesso mondo narrato, ne condivide i valori, l’etica, la visione politica e ha con quel mondo un rapporto di forte identificazione. Anche il lettore (al quale il narratore chiede adesione più sentimentale che razionale) è immaginato a sua volta come parte della stessa realtà socio-antropologica. Si crea così una circolarità narratore-collettività raccontata e pubblico o perlomeno pubblico ideale: spesso Pratolini usa un noi che accomuna tutti e tre. In fondo la situazione richiama, come ha sottolineato Maria Corti, il cantastorie, il narratore orale di un’epica popolare: come i narratori-cantastorie, anche Pratolini crea attesa, annuncia ciò che narrerà.

Cronache di poveri amanti GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1947

CONTENUTO

giustapposizione di storie simultanee, narrativamente autonome, sullo sfondo di Via del Corno a Firenze

Vasco Pratolini

T2

Maciste, l’eroe di una epopea popolare Cronache di poveri amanti, parte seconda, cap. XIV

V. Pratolini, Cronache di poveri amanti, Vallecchi, Firenze 1950

I passi, tratti da un nucleo centrale del romanzo, si riferiscono ai tragici avvenimenti che si svolgono a Firenze in quella che il narratore definisce «la notte dell’Apocalisse». Protagonista dell’episodio è il maniscalco Corrado (detto “Maciste” per la sua statura gigantesca e la sua forza), membro del Partito Comunista, uomo di grande generosità.

[L’antefatto degli avvenimenti narrati è la decisione dei fascisti di compiere una spedizione punitiva (come ritorsione per la morte di un “camerata”) nei confronti di noti antifascisti, compreso l’onorevole socialista Bastai. Maciste è informato dall’amico Ugo dei nomi delle persone designate come vittime della spedizione fascista; a sua volta, Ugo ha costretto Osvaldo, un fascista del quartiere che quella notte è alla sua prima “missione”, a rivelarglieli. Nella notte di luna, Firenze è attraversata dal sidecar di Maciste che, con Ugo a bordo, si lancia in una lotta drammatica contro il tempo: deve avvisare le vittime potenziali prima che i fascisti le raggiungano. Nelle righe che precedono il passo antologizzato, Maciste è riuscito a far fuggire il primo dei segnalati. Si dirige allora a gran velocità alla casa dell’onorevole socialista Bottai, in via dei della Robbia.]

476 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo


Ora, più che mai, occorre far presto. Che i dieci cavalli del motore diventino tanti puro sangue lanciati sull’ultima dirittura! Via dei della Robbia1 è una strada quieta e pulita. Fuori dalle soglie vi sono gli stoini2 di rete con tante palline bianche che formano la parola: Salve. Niente fagotti 5 d’immondizia3, biche4 di sterco né cattivi odori. Non alberghi equivoci, non vigilati speciali che la ronda tiene d’occhio. Un ampio respiro di cielo tra le due file di case, e giardini odorosi di magnolia, in questa stagione. La strada olezza, sotto la luna. Le finestre hanno ante scorrevoli, saliscendi di giunco, persiane intonate alla scialbatura5 delle facciate. Ogni interno è un’isola di affetti6, di interessi bene amministrati: 10 un castello ove a sera si ritira il ponte levatoio. I borghesi che vi abitano non sono gente curiosa come i nostri cornacchiai7, non soffrono né slanci né impazienze. Alla testimonianza orale e auricolare preferiscono il resoconto dei giornali: i si dice dell’indomani. Essi risentono inconsciamente le fatiche dei loro avi che fecero la storia: hanno affidato ad altri la difesa delle posizioni conquistate. Le loro stanze suggeri15 scono l’ordine, l’igiene, le buone maniere, il timor di Dio, il rispetto della Legge. E l’egoismo, la pavidità, la schiavitù mentale che tutto ciò costa, al giorno d’oggi. È una condizione che via del Corno rifiuta, ma nella quale via della Robbia si riconosce e vi trova il suo equilibrio, la sua privata felicità. Non si è quindi spostato un saliscendi, non si è schiusa una porta all’arrivo dei fascisti, non si è accesa una luce allorché 20 nella casa dell’onorevole Bastai sono risuonati quattro colpi di pistola, gli urli di una donna, il pianto dei ragazzi8. Hanno il sonno pesante in via Robbia, o il terrore ha paralizzato la gola perfino agli animali domestici? I fascisti sono scesi veloci e sicuri, hanno lanciato un “A noi”, prima di risalire sulla macchina, sono partiti cantando: All’armi, all’armi! 25 All’armi, siam fascisti! La lotta sosterrem fino alla morte! Il loro canto si è sperduto lontano. Vibrano ora al vento, improvvisamente levatosi, le lampade ad arco, nei giardini gli alberi stormiscono, la luna riverbera sulle impannate9. E tuttavia le finestre restano chiuse, spente le luci, serrate le porte. Soltanto 30 nella casa dell’onorevole, dalle stanze tutte illuminate come per una festa, provengono singhiozzi disperati, non più gridi: una veglia funebre. La strada è tornata al suo silenzio e al suo deserto, ove quegli spari, quegli urli e il canto, hanno lasciato un’eco, una presenza. Vi irrompe, con una ardita sterzata, il sidecar10. Gli spari e le grida hanno risuonato sulle mura, sui lastrici11 come su tam-tam primiti35 vi, una fantastica martinella12 ha propagato il suo rintocco. Come i fischi dei treni che il silenzio della notte rivela alle opposte distanze, i colpi delle rivoltellate, le canzoni 1 Via dei della Robbia: l’elegante strada in cui abita l’onorevole Bottai, che Maciste e Ugo stanno cercando di avvertire del pericolo. 2 stoini: zerbini. 3 Niente fagotti d’immondizia...: in una lunga digressione descrittiva Pratolini contrappone indirettamente la borghese via dei della Robbia alla popolare via del Corno in cui vivono Maciste e Ugo. Non solo l’aspetto delle due vie è totalmente

diverso, ma anche la visione morale di chi vi abita. 4 biche: mucchi. 5 scialbatura: colore pallido, scialbo. 6 un’isola di affetti: un mondo affettivo chiuso all’esterno (espressione metaforica). 7 cornacchiai: il nome con cui sono designati gli abitanti di via del Corno. 8 allorché... dei ragazzi: dunque l’onorevole Bastai non è stato avvisato in tempo ed è stato ucciso. Il truce episodio è reso

in modo indiretto. 9 impannate: infissi delle finestre, costituiti da telai con pannelli di stoffa o carta. 10 sidecar: veicolo costituito da una motocicletta a cui è agganciato un carrozzino laterale per il passeggero. 11 lastrici: lastricati, strade lastricate. 12 martinella: la campana di guerra che dal Medioevo in poi suonava a Firenze prima delle operazioni belliche perché fosse sentita da tutti gli abitanti.

Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo 3 477


squadriste, hanno echeggiato in ogni strada recandovi il terrore. È l’antica fazione dominante13 che ripete le sue stragi, col favore della luna. E del Bargello14. Stanotte la Polizia è consegnata: la ronda degli ammoniti è rientrata dalla perlustrazione 40 segnalando “n. n.”15 nel suo rapporto. Intanto le Bande Nere compiono l’eccidio. Ma la città è resa esperta dalla sua storia, di cui ogni pietra, ogni campana, conservano il ricordo. Il Priore di San Lorenzo16, Don Fratto, ha spalancato l’uscio della sagrestia, ha acceso una lampada sulla soglia, semmai un braccato voglia cercarvi rifugio. Nelle case del popolo si acconciano solai, si aprono cantine; si adatta, al 45 riparo di un comignolo, un giaciglio di fortuna. I fascisti, eccitati dal sangue e dal fuoco, si annunziano con crepitii di salve, con urli e “A noi!” Se in via dei della Robbia le serrature hanno scattato per garantire la neutralità, nei quartieri di Rifredi e del Pignone l’arrivo del compagno fonditore ha messo in moto uomini e donne, una popolazione che veglia ora col cuore in gola su coloro che sono nascosti: ne 50 condivide l’ansia, stando di vedetta, recitando rosari. [...]. Le strade sono deserte, i caffè notturni hanno abbassato le saracinesche: è spenta ogni luce. Le auto degli squadristi traversano un deserto di pietre e di luna. Con gli squadristi è la Morte. Ciascuno di essi ne reca il ritratto sul cuore: un teschio ricamato sulla camicia nera17. La Morte li accompagna di casa in casa, è in ogni loro gesto e 55 pensiero. Il suo contatto ha gelato i cuori, acceso le menti della sua idea ossessiva. La sua presenza rende i fascisti audaci e guardinghi, li sconvolge e li esalta. Li opprime. Essi ne sollecitano la complicità e insieme ne temono la potenza. Avanzano sulle auto come su vascelli corsari incalzati dalla tempesta. [...] [I fascisti sono inferociti perché hanno fallito in quasi tutti i casi la loro missione punitiva. Intanto Maciste salva un’altra persona – il fratello dell’onorevole Bastai – e si affretta per raggiungere un altro dei segnalati, pur sapendo di rischiare la vita.] Tu sei18 Maciste, il boia popolare che ha nome Samson19, l’Angelo dell’Annunciazione, 60 sei un comunista a cui il Partito ha affidato un incarico di responsabilità; il maniscalco Corrado che stringe fra i ginocchi come nella tagliola la zampa del cavallo più focoso. Ma sei un uomo fatto di carne ed ossa, con gli occhi, il naso, trentadue denti, una ballerina tatuata sull’avambraccio. Il tuo petto è ampio, un intrigo di peli e sotto la selva c’è il tuo grande cuore. Il Partito ti rimprovererà di aver commesso 65 un errore affidandoti al tuo cuore; ma se non ti fidassi del tuo cuore non saresti nel Partito. Hai forse mai letto una riga di quel volume intitolato “Il Capitale”20, che fa venire il sonno soltanto a guardarlo? Hai fatto l’Ardito del Popolo21 in considerazione della teoria del plusvalore o piuttosto perché il tuo cuore era offeso? Quel marinaio di

13 È l’antica... dominante: Pratolini, per descrivere il raid omicida dei fascisti, rievoca gli odi che contrapposero nell’età comunale la fazione dei Bianchi a quella dei Neri; a questi ultimi sono assimilate le squadracce fasciste. 14 Bargello: la polizia, connivente con gli squadristi. 15 “n. n.”: la sigla (abbreviata anche in N.N., dal latino nescio nomen, “non conosco il nome”) si usa nei documenti burocratici o di polizia per indicare l’ano-

nimato o un’incompleta identificazione di una persona. 16 San Lorenzo: popolare quartiere fiorentino, come Rifredi e Pignone, citati subito dopo. 17 un teschio... nera: il dettaglio corrisponde alla divisa delle squadracce fasciste. 18 Tu sei...: si apre un’ampia allocuzione con cui il narratore-autore si rivolge direttamente, con toni enfatici, al suo “eroe”, il generoso Maciste.

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19 Samson: il boia che nella rivoluzione francese giustiziò re Luigi XVI.

20 “Il Capitale”: si tratta del testo economico politico di ardua lettura scritto da Marx e che costituisce uno dei capisaldi della teoria marxista. Alla teoria economica di Marx appartiene anche la “teoria del plusvalore”, più sotto nominata. 21 l’Ardito del popolo: Arditi del Popolo era il nome di un’organizzazione antifascista nata nel 1921 per contrastare l’azione delle camicie nere.


Kronstadt22 che ti assomiglia credeva, figurati! che Marx fosse uno dei dodici Aposto70 li! Ora tu sei un dirigente dell’organizzazione clandestina, non avresti il diritto né di ascoltare il tuo cuore né di rischiare la vita per correre in aiuto di un massone23 dal quale gli squadristi sono forse già arrivati. Del resto, costui è un capitalista, nemico del fascismo per caso e nemico della classe operaia, per motivi ben precisi. Non ti fanno un piacere, dopo tutto? Invece tu acceleri per giungere là dove si compirà il 75 tuo destino. Ugo è profeta se cerca di dissuaderti. Tu gli rispondi che se ha paura può scendere e tornarsene a casa. “Abbiamo perduto troppo tempo. Questa volta li intopperemo quant’è vero Cristo”, egli dice. E come per rimproverarti aggiunge: “Forse se non ci fosse stata la puntata dal fratello dell’onorevole24!” [...] 80 Quando insieme ad Ugo avviasti di nuovo il motore, era trascorso un tempo prezioso: il vento si era levato più forte e delle nubi rincorrevano la luna. Erano oltre le due. Ugo ripeté: “In coscienza, abbiamo fatto più del nostro dovere!”. E tu dicesti: “Se hai paura, puoi tornartene a casa. Massone o no, è un uomo!”. Questo tuo cuore, Maciste, che non conosce le prefazioni di Engels25, e non ascolta 85 la ragione, proprio quando occorre sia ascoltata! [...] D’improvviso, un rombo di motore. Il Pisano fermò lo chauffeur26 che stava ingranando la marcia. “Aspetta! Guardiamo chi è!”, disse. La strada era breve, una traversa, una delle strade dai pochi palazzi. Il sidecar fu 90 costretto a rallentare per entrarvi. Si trovò davanti l’automobile. [...] Gridò ad Ugo: “Tieniti forte a me!”. Lanciò la moto sulla piazza27. Era il momento che il Pisano28 attendeva. Egli aveva la mano ferma, l’occhio sicuro. Quella schiena curva, a meno di cento metri, carica di luna, era un bersaglio mobile nel tirare al quale egli era maestro. 95 Il sidecar sbandò, si capovolse sulla scalinata della Chiesa, col guidatore riverso; colpito alla nuca. L’altro uomo, subito rialzatosi, fuggì: svicolò lontano. L’auto si fermò davanti al sidecar. Osvaldo29 scese di un balzo, si chinò su Maciste: gli sollevò la testa per i capelli. Intravide in una nebbia la sua faccia rantolante. Egli era ebbro, allucinato: calciò sul corpo di Maciste. Come eccitati dal suo furore, gli altri lo imita100 rono: rivoltarono a calci il cadavere, di petto e di schiena. Carlino era rimasto fermo, con la rivoltella in pugno, guardava Maciste e batteva gli occhi come davanti ad un’apparizione; a cui non era preparato. Egli fu il solo, unitamente al Pisano, a non infierire sulla vittima, a risalire sulla macchina, ed a rimanersene spettatore dell’altrui follia. Contro la quale, comunque, né lui né il Pisano intervennero, quasi per timore 105 di esasperarla ancora, Il Pisano aveva acceso una sigaretta riparandosi con le mani. Osvaldo gridò: “L’altro! Ugo”.

22 Kronstadt: base navale russa da cui nacque, nel 1921, una ribellione al regime sovietico che fu stroncata. Il «marinaio di Kronstadt», che crede che Marx sia uno dei dodici apostoli, simboleggia una fede ingenua nei valori del Comunismo. 23 un massone: è un’altra delle vittime designate del raid fascista. Il fatto che aderisse alla massoneria (ma anche la sua estrazione borghese) lo rende estraneo

e lontano rispetto a Maciste, che pure si prodiga a rischio della vita per avvertirlo. 24 la puntata dal fratello dell’onorevole: arrivato a casa Bastai, Maciste aveva trovato la famiglia che piangeva l’uomo politico assassinato. La moglie dell’onorevole aveva pregato Maciste di avvisare suo fratello, anch’egli in pericolo. 25 Engels: Friedrich Engels, economista e filosofo tedesco, teorico del Comunismo.

26 chauffeur: autista (in francese). 27 sulla piazza: si tratta della piazza San Lorenzo. 28 il Pisano: il fascista a capo della spedizione punitiva. 29 Osvaldo: così come Carlino, citato più sotto, Osvaldo è un fascista di via del Corno che ne conosce tutti gli abitanti.

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Corse verso l’angolo dove Ugo era scomparso. La strada era deserta; il vento, più forte al crocicchio, lo investì. Egli si arrestò, come bloccato da un urto. Sparò dei colpi alle ombre immobili che le case proiettavano sul selciato, in direzione della strada che aveva 110 un orizzonte di pietre. Ritornò sulla piazza dove un gruppo dei camerati aveva sollevato il sidecar. Amadori mirò sul serbatoio; Malevolti30 accese un fiammifero, un secondo, un terzo: era una lotta contro il vento che inghiottiva il guizzo di fuoco. Finché la benzina divampò, le fiamme lambirono il sidecar, ne fecero una torcia offerta al vento. Ai piedi della Chiesa, davanti alla piazza che la luce lunare rendeva più vasta e pro115 fonda, v’era il gruppo degli uomini gesticolanti attorno al falò. Fra essi, l’abside e il cielo, stava Maciste, verticale sulla scalinata, le braccia spalancate, le palme aperte, la nuca confitta tra gradino e gradino. Il suo volto guardava in alto, ad occhi aperti, un cielo che non era più suo. Amadori gridò: “Dentro le fiamme, il comunista”. 120 Allora il Pisano balzò in piedi, gettò con ira la sigaretta. Dominando il gruppo dalla macchina, disse: “Camerati, all’ordine!”. Gli uomini tacquero d’improvviso, sconcertati dalla violenza del richiamo che ciascuno di essi interpretò come l’annuncio di un’imboscata. Risalirono solleciti sulla macchina. E alle loro affannate domande, il Pisano rispose fissandoli ad uno ad uno, in silenzio, 125 girando lentamente sul tronco. Poi voltò le spalle: “Parti!”, disse allo chauffeur. Il sidecar bruciava ancora. Il crepitio delle fiamme era la sola, viva presenza sulla piazza, dove il vento si levava a folate e la luna appariva e spariva dietro le nubi. Mario e Milena31 si azzardarono fuori della sacrestia. Maciste ebbe due amici che lo vegliarono, nelle prime ore del suo lungo sonno. 30 Amadori... Malevolti: altri fascisti che si trovano sulla macchina.

31 Mario e Milena: due abitanti di via del Corno. Il marito di Milena, aggredito dai

fascisti, era moribondo al vicino ospedale.

Analisi del testo Tra cronaca ed epica I passi si riferiscono al macroepisodio della «Notte dell’Apocalisse». Il narratore segue come in presa diretta il succedersi incalzante e drammatico degli eventi di cui si fa cronista. Non è casuale l’uso del tempo presente per la maggior parte della narrazione: il presente ricostruisce infatti con vivida efficacia le sequenze dell’azione, che vedono contrapposte due forze, l’una portatrice di vita, l’altra di morte: da una parte Ugo e Maciste in sella al sidecar di Maciste, che cercano di salvare dalla violenza squadrista quante più persone possono, dall’altra i fascisti a caccia di sovversivi da punire o eliminare. La narrazione per lo più ha un ritmo rapido, dovuto alla brevità delle frasi, incentrate su un verbo di azione e coordinate o, più spesso, accostate per asindeto. D’altra parte non manca in questo resoconto cronachistico la presenza di interventi commentativi di carattere etico-politico della voce narrante (cfr. più sotto) e più in generale una prospettiva connotativa che rivela, anche troppo esplicitamente, la visione dell’autore: ci riferiamo in particolare ai riferimenti biblici e più in generale religiosi che conferiscono alla narrazione un tono a tratti epico-religioso. Il capitolo da cui sono tratti i passi riportati si apre con un andamento solenne, da Genesi: «All’alba la tempesta si placò, venne il sole, poi fu notte di nuovo e di nuovo l’uragano. Pioggia, vento, saette, fino al mattino successivo. Il terzo giorno il tempo volse al bello, la sera recò l’aria fresca dell’autunno, e la notte il cielo stellato e la luna nuova. Questa fu la Notte dell’Apocalisse». In un punto del testo non antologizzato, il sidecar di Maciste in corsa nella notte è «la stella cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà» (e del resto Maciste è definito così: «Tu sei Maciste... l’Angelo dell’Annunciazione», r. 59); e l’uomo, che guida in modo temerario, incurante del pericolo, è «un San Giorgio di due metri» (la metafora religiosa paragona la lotta del santo contro il drago, simbolo del male e di Satana, alla lotta di Maciste contro i fascisti). Non a caso, infine, è un’immagine cristologica che chiude l’episodio: il corpo di Maciste, steso

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con le braccia spalancate sui gradini della Chiesa e lo sguardo rivolto al cielo, evoca in modo evidente la crocefissione. E, come Cristo è stato vilipeso, così il corpo di Maciste è oltraggiato dai suoi carnefici, dopo che l’umile artigiano ha dato la vita per persone che neppure conosce, ma che considera “fratelli” nel comune credo politico e soprattutto “uomini”: «Massone o no, è un uomo», dice Maciste a Ugo che gli rimprovera di correre un rischio mortale per un massone, appunto (r. 83).

La visione populistica Il testo di Pratolini costituisce un documento addirittura esemplare della poetica neorealista anche per quanto concerne il populismo (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 464): è evidente una visione senza mezze tinte, intesa a mitizzare i popolani di via del Corno e in particolare l’eroe popolano (e comunista) Maciste. Domina il racconto – ed è ispirata dall’indubitabile passione civile dell’autore – una struttura dicotomica che contrappone simbolicamente in modo manicheo il Bene al Male: se il sidecar in corsa pilotato dal gigante buono, Maciste, è, come si è visto, associato a una simbologia salvifica di tipo religioso, le squadre fasciste (rr. 51-58) sono associate alla violenza e alla morte, di cui portano «il ritratto sul cuore»: le loro auto avanzano nella notte «come su vascelli corsari incalzati dalla tempesta». Questa struttura dicotomica investe anche il simbolismo spaziale attraverso la netta contrapposizione tra la borghese via dei della Robbia e la popolare via del Corno. Il modello di riferimento positivo è via del Corno ed è sulla base (e in contrapposizione) di esso e non in assoluto che l’autore rappresenta via dei della Robbia: non è causale quindi che la descrizione della strada si apra con una serie di negazioni: «Niente fagotti... né... non... non». Via dei della Robbia, ci dice senza mezzi termini il narratore, è proprio l’opposto di via del Corno. Se nella prima parte della descrizione si fa riferimento soprattutto all’aspetto della via, all’igiene e alla bellezza del luogo, successivamente la raffigurazione assume precisi tratti etico-politici, anticipati e sintetizzati dalla metafora del castello che alla sera ritira per sicurezza il ponte levatoio: all’arrivo degli squadristi la via si chiude in se stessa a difesa, le finestre e le porte si serrano, le luci si spengono, nessuno sembra sentire i pianti disperati che provengono dalla casa dell’onorevole Bastai ucciso. Del tutto opposta è la solidarietà di via del Corno e dei quartieri popolari (Rifredi e Pignone) che vegliano, in ansia per la sorte dei perseguitati. Populistica (e retorica) è l’apostrofe del narratore al suo personaggio «Tu sei Maciste...», il cui coraggioso comportamento e le cui scelte vengono ricondotte al “cuore”, a ragioni quindi umanitarie e non a una matura e consapevole ideologia politica. Maciste diventa così un eroe positivo non diverso dagli umili che in Conversazione in Sicilia soffrono per “l’uomo offeso” (➜ C6).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. In quale contesto e in quale periodo della giornata si svolgono gli avvenimenti? Quale ne è lo sfondo storico? STILE 3. Individua le espressioni (verbi, aggettivi, sintagmi) in cui Pratolini contrappone l’aspetto e i comportamenti di via dei della Robbia a quelli di via del Corno e dei quartieri popolari. Costruisci una tabella che evidenzi la contrapposizione e quindi commentala. 4. In genere l’autore utilizza un linguaggio semplice e realistico. Nella descrizione della via dei della Robbia, però, si trovano tracce di una lingua “poetica”: rintraccia le metafore che conferiscono al passo un tono lirico.

Interpretare

SCRITTURA 5. In un testo di 15-20 righe evidenzia gli aspetti tematici, narrativi, stilistici che fanno del passo un documento esemplare del Neorealismo.

online T3 Alberto Moravia

Moravia neorealista: Dalla Ciociaria Roma Racconti romani

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Il successo de Il Gattopardo, un romanzo anti-neorealista Il “caso” Gattopardo Nel 1958 esce da Feltrinelli Il Gattopardo, opera d’esordio di uno scrittore fino a quel momento del tutto sconosciuto, morto l’anno prima: Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), nobile siciliano. Nell’ideare la figura del protagonista, don Fabrizio principe di Salina, egli si era ispirato alla vicenda del suo bisnonno, Giulio Fabrizio, principe di Lampedusa, che aveva vissuto in prima persona lo sbarco dei garibaldini in Sicilia (1860) e la trasformazione politica che aveva portato all’annessione della Sicilia al Regno d’Italia (➜ VOL 2B C9). Il romanzo, rifiutato da Vittorini per la collana di Einaudi «I gettoni» che allora dirigeva, fu pubblicato da Feltrinelli, casa editrice nata da poco, che nel 1957 aveva messo a segno un altro colpo editoriale: la pubblicazione del romanzo Il dottor Živago dello scrittore russo Boris L. Pasternàk, che divenne presto un best seller internazionale. Anche Il Gattopardo ebbe un successo clamoroso: nel solo 1958 vendette 40.000 copie, destinate a crescere prima con l’assegnazione, nel 1959, del premio Strega e poi con la versione cinematografica del romanzo, firmata da Visconti nel 1963, che contribuì in modo rilevante a fare anche di quest’opera un best seller. Lo straordinario successo del romanzo può essere spiegato nell’immediato con la crisi ormai evidente, dopo la metà degli anni Cinquanta, della narrativa neorealista in rapporto a un nuovo clima politico e culturale e con il rapido mutamento del gusto del pubblico che, già stanco di storie crude e realistiche, preferisce ora narrazioni incentrate su temi psicologico-esistenziali. Alla fortuna presso il pubblico si contrappose il giudizio limitativo della critica, in particolare di quella vicina alla sinistra, che vide nel romanzo una componente ideologica addirittura reazionaria. Un romanzo controcorrente ma non d’avanguardia Il Gattopardo è effettivamente un romanzo antitetico rispetto ai temi e alle modalità narrative del Neorealismo e d’altra parte non si tratta certo di un romanzo d’avanguardia, ma anzi è considerato da una parte della critica persino attardato, ottocentesco: il narratore è esterno e onnisciente; al centro del romanzo si accampa un grande, affascinante protagonista, don Fabrizio, principe di Salina (di cui il narratore adotta quasi sempre il punto di vista); le vicende private, riguardanti la famiglia del principe, si intrecciano con quelle storiche, e per di più queste ultime non sono contemporanee ma riguardano il periodo che va dallo sbarco dei Mille in Sicilia e l’annessione della Sicilia al regno d’Italia fino all’inizio del Novecento. La visione storico-politica che emerge, affidata soprattutto alle riflessioni di don Fabrizio, è tutt’altro che progressista e ottimista: domina nel romanzo una concezione scettica e amara del divenire storico, un’immagine immobilistica della società, soprattutto della società siciliana (➜ VOL 2B C9). Le modalità narrative Non bisogna però cadere nell’errore di considerare Il Gattopardo una ripresa del romanzo di Verga o di De Roberto: Tomasi è autore raffinato, colto, conoscitore in lingua originale delle letterature inglese, francese,

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tedesca. Le tecniche narrative impiegate nel romanzo rimandano piuttosto all’influenza di autori come Proust e Joyce: la narrazione avanza a blocchi secondo un filo non lineare, visto che spesso l’autore ricorre al flash-back, per cui eventi e situazioni anche importanti (come il plebiscito in seguito al quale la Sicilia è annessa al Regno d’Italia) sono filtrati dalla memoria soggettiva del protagonista; i monologhi interiori del Principe risentono dell’influenza della Woolf. Il tema “decadente” della morte Più che una ripresa tardiva del romanzo storico o sociale, Il Gattopardo è un grande romanzo “decadente”: al clima del Decadentismo si ricollega la centralità del tema della morte, che ha richiamato il racconto lungo di Thomas Mann, La morte a Venezia (1912 ➜ VOL 3A C16). Tema, questo, che si configura nel romanzo di Tomasi di Lampedusa soprattutto come dissoluzione, rovina, fluire inesorabile del tempo che investe uomini (➜ T4 ), cose, classi sociali e la storia stessa. Il tema della morte è sempre filtrato dalla percezione del Principe: se essa suscita in lui orrore e disgusto per i suoi risvolti di degradata fisicità, di cui non si riesce a intravedere il senso, dall’altro la fine gli appare anche pace, raggiunta armonia, in cui si realizza quella chiarezza intellettuale a cui tutta la sua vita è votata: «come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese [le galassie celesti], puro intelletto armato di un taccuino per calcoli: per calcoli difficilissimi, ma che sarebbero tornati sempre» (il Principe è un appassionato di scienze esatte, matematica e astronomia). La trama Il romanzo, in otto parti, si sviluppa lungo un arco temporale che va dal 1860 al 1910. Dopo lo sbarco dei garibaldini in Sicilia, Don Fabrizio, principe di Salina, che fino a quel momento si era mantenuto in una posizione di aristocratico distacco, aderisce al nuovo Regno d’Italia, non per convinzione sincera, ma perché crede inutile qualsiasi sforzo volto a cambiare il corso ineluttabile della storia. Figura imponente e autorevole anche dal punto di vista fisico, il principe è segnato in ogni suo gesto da un’ironia amara e dissacrante che, se da un lato dimostra la sua superiorità morale e intellettuale rispetto all’ambiente gretto e retrogrado di cui suo malgrado è un esponente di spicco, dall’altro è sintomo di un profondo malessere esistenziale, di una disperazione latente che si traduce in una costante tendenza all’inerzia e alla passività. Assai più vitale e spregiudicato dello zio, il nipote Tancredi combatte nelle file garibaldine contro i Borboni; ma nemmeno la sua può dirsi una scelta dettata da motivi ideali. Sarà infatti proprio questo suo passato da patriota che negli anni successivi gli aprirà la strada per una brillante carriera politica, cosa di cui il giovane è perfettamente consapevole. Egli è pronto ad afferrare le nuove opportunità offerte dal cambiamento politico e, in un colloquio con lo zio, esprime un giudizio che diventa un vero e proprio leitmotiv del romanzo e il sunto della sua morale di fondo: «occorre che cambi tutto, perché non cambi niente». Ed è anche in ragione di questo principio che Tancredi sposa Angelica Sedara, una fanciulla bellissima, di estrazione popolare ma ricchissima e desiderosa di vivere. Suo padre, uomo rozzo e incolto, fa parte di quella nuova classe sociale di amministratori arricchiti, disposta a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di farsi largo socialmente e politicamente; Angelica, però, ha studiato in uno dei migliori collegi del continente e, oltre a essere dotata di un fascino innato, ha da offrire una sostanziosa dote, cosa assai utile per un giovane ambizioso, nobile ma con poche sostanze, come Tancredi. Il Principe, che si identifica col nipote, appoggia

Il successo de Il Gattopardo, un romanzo anti-neorealista 4 483


il suo matrimonio con Angelica, preferendola a sua figlia Concetta, la quale non gli perdonerà di essere stata sacrificata. Dopo varie vicende, l’azione si sposta al 1883: è l’anno della morte del Principe, consapevole che è arrivata la fine e che occorre lasciare spazio ai giovani, desiderosi di farsi largo in un mondo nel quale egli non si riconosce più. Il romanzo si concluderà nel 1910, quando si assiste alla dissoluzione di quel patrimonio della grande famiglia, che doveva rimanere indiviso per il primogenito. Ciò avviene anche per colpa della figlia Concetta, che vuole in tal modo vendicarsi del padre. Alla fine del romanzo sarà proprio lei a ordinare di gettare via tra le immondizie la reliquia mummificata di Bendicò, l’amatissimo cane del Principe. Scompare così, col volo di Bendicò giù dalla finestra, l’ultima reliquia di grandezza della famiglia, e il romanzo si chiude nel nulla, in coerenza con la vena di pessimismo nichilista che lo pervade.

Il Gattopardo GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1958, il romanzo fu rifiutato da Vittorini che dirigeva la collana «I gettoni» di Einaudi e fu pubblicato da Feltrinelli

TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

1963, con la regia di Luchino Visconti

CONTENUTO

intreccio tra le vicende private del principe di Salina e la storia della Sicilia postrisorgimentale (1860-1910)

Collabora all’analisi

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

T4

Don Fabrizio e la morte Il Gattopardo, cap. VII

G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958

Il passo è tratto dalla parte iniziale del penultimo capitolo de Il Gattopardo. Don Fabrizio Salina, ormai vecchio e ammalato, ritorna da Napoli dove si era recato per un consulto medico. Arrivato a Palermo dopo un viaggio estenuante, si sente male e anziché venire portato nella sua casa, è condotto in un albergo della città, dove si spegnerà.

Luglio 1883 Don Fabrizio quella sensazione1 la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, 1 quella sensazione: come si spiega subito dopo, il narratore allude alla lenta perdita dell’energia vitale.

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come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia2. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione, questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono 10 quando tutto il resto tace; ed allora ci rendono sicuri che essi sono sempre stati lí, vigili, anche quando non li udivamo. In tutti gli altri momenti gli era sempre bastato un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua mente e lo lasciavano per sempre. La sensazione del resto 15 non era, prima, legata ad alcun malessere. Anzi, questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione, per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interni3, essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove di una personalità 20 (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga4. Quei granellini di sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole più duratura. Mole, però, aveva riflettuto, non era la parola esatta, pesante come era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure. Erano più come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto5, per andar su nel cielo a 25 formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta era sorpreso che il serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide”. Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua, mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato 30 anziano disprezza il coscritto6 che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste son cose che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di tutto, di magistratura, cuochi e conventi; non Stella7 che, divorata dalla cancrena del 35 diabete, si era tuttavia aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi8 aveva per un attimo compreso, quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte9.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella10 aveva detto il suo “sì,” la fuga decisa, lo scompartimento nel treno riservato. Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, 40 le gambe lunghissime avviluppate in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, 5

2 stretto... a sabbia: la strettoia fra i due bulbi di una clessidra. 3 avvezzo a scrutare... abissi interni: don Fabrizio è un grande appassionato di astronomia; gli «spazi esteriori illimitati» sono gli spazi siderali. Ma qui il narratore allude anche all’altra tendenza del Principe: l’introspezione, lo sguardo interiore che lo porta a indagare nel profondo di sé («vastissimi abissi interni»). 4 larga: vasta.

5 costretto: chiuso. 6 coscritto: soldato di leva. 7 Stella: la moglie di don Fabrizio. 8 Tancredi: il nipote di don Fabrizio, da lui prediletto. 9 “Tu... corteggi la morte”: si allude a una battuta pronunciata da Tancredi in precedenza (parte VI): poco prima della famosa scena del ballo tra il Principe e la bellissima Angelica, che andrà sposa a Tancredi, don Fabrizio era stato sorpreso

dai due giovani mentre, appartato nella biblioteca del palazzo dove si svolgeva il ballo, stava contemplando una copia del quadro di Jean-Baptiste Greuze (17251805) intitolato La morte del giusto. Il nipote gli aveva chiesto: «Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?». 10 la bella: la morte (quando la morte raggiungerà don Fabrizio, gli si presenterà nell’aspetto di una bellissima donna).

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sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un lunedì di fine luglio, ed il mare di Palermo, compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di ren45 dersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava lì sopra piantato a gambe larghe, e lo frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui. Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il 50 professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto11, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestio del porto alla partenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica, lo avevano esasperato di quella esasperazione querula dei debolissimi, che li stanca e li prostra, che suscita l’esa55 sperazione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisaccie12. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvisa che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito, e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che l’aveva spuntata. Col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola13 rovente, soffocato dal fumo nelle gallerie che si ripete60 vano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto richiedere al nipote spaurito. Si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei panorami calabresi e basilischi14 che a lui sembravano barbarici, mentre di fatto erano tali e quali quelli siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel 65 suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso plaghe lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace15 sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale16. Si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni: la 70 locomotiva annaspante su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere di familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sorriso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla stazione, dal loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato, che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto frasi rassicuranti; e 75 fu allora, dopo esser sceso dal treno [...] fu allora che si fece udire il fragore della cascata17.

11 Fabrizietto: il figlio di Paolo, primogenito di don Fabrizio. 12 molti anni di vita nelle bisaccie: molti anni ancora da vivere. 13 scatola: lo scompartimento del treno. 14 basilischi: della Basilicata, lucani. 15 mendace: menzognero (perché ap-

pena passato lo Stretto si ripresenta un paesaggio riarso; le «colline peloritane» sono i monti Peloritani, nella Sicilia nordorientale). 16 mora procedurale: ritardo nell’adempimento di una procedura giuridica, rinvio, sospensione.

486 Il Novecento (Prima parte) 9 Il Neorealismo

17 fu allora... della cascata: prima di svenire don Fabrizio avverte il fragore della vita, come una sonora cascata, che lo sta lasciando.


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il capitolo si apre ponendo in primo piano il tema della morte (la “sensazione” di cui si parla è infatti quella della fine della vita) che serpeggia in varie forme nell’intero romanzo. Non a caso Il Gattopardo si apre e si chiude con un riferimento alla morte: «Nunc et in hora mortis nostrae. Amen» (“Adesso e nell’ora della nostra morte...” è la chiusa della preghiera dell’Ave Maria, recitata dalla famiglia del Principe) nell’incipit del romanzo, e «Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida», alla fine del racconto. Se questo tema è centrale nel capitolo VII (in rapporto alla fine di don Fabrizio), esso è evocato nell’intera opera in modo diretto o indiretto attraverso una rete di riferimenti simbolici. Qui la presenza della morte si configura come sottile percezione interiore, per il Principe consueta e familiare (ma non così per gli altri), della dissoluzione, del fluire corrosivo del tempo che si porta via impercettibilmente ma inesorabilmente le sue energie vitali. Nelle sue meditazioni sulla fine della vita terrena, don Fabrizio si era sempre sentito solo e ben poco compreso dai suoi familiari, legati a rappresentazioni tradizionali (e convenzionali) dell’aldilà, che suscitavano il suo disprezzo. Ora, per il Principe, la fine della vita, lungamente attesa, era davvero arrivata: gli si annuncia inequivocabilmente dopo un penoso viaggio da Napoli a Palermo. 1. A cosa viene inizialmente paragonato il fluire inesorabile della vita verso la morte? 2. Perché il Principe prova orgoglio? 3. La concezione dell’aldilà di don Fabrizio è la stessa delle sue figlie? Quale atteggiamento mentale caratterizza queste ultime, che il Principe sdegnosamente respinge? 4. Quale significato riveste, nell’interpretazione complessiva del passo, l’espressione del nipote Tancredi ricordata da don Fabrizio: «Tu zio corteggi la morte»? 5. Individua le immagini che nel corso del testo si sostituiscono al paragone iniziale per indicare l’imminenza e poi l’arrivo vero e proprio della morte. I tratti del protagonista del romanzo, evidenti anche da questa pagina, ne fanno una figura antitetica rispetto agli eroi della narrativa neorealista, che fino quasi alla metà degli anni Cinquanta era il modello narrativo dominante. Il narratore, voce narrante onnisciente ed esterna, ma costantemente focalizzata sul protagonista, ne scandaglia con finezza la psicologia e le reazioni emotive. Il paesaggio stesso, sia quello che appare agli occhi di don Fabrizio dalla terrazza dell’albergo palermitano sia quelli che gli si fanno incontro durante il lungo viaggio ricostruito in flashback, più che con tratti realistici è rappresentato nelle risonanze che suscita nell’animo del protagonista, sostenendo il tema centrale dell’avanzata della morte.

Interpretare

6. Traccia un breve ritratto di don Fabrizio sulla base degli indizi forniti da questa pagina. 7. Quali conseguenze produce la costante focalizzazione interna sul protagonista? 8. Individua i paragoni e gli aggettivi impiegati per la rappresentazione paesaggistica, quindi commentali. 9. A quali modelli primo-novecenteschi puoi ricondurre il passo? 10. Istituisci un confronto tra il passo tratto da Il Gattopardo e il passo tratto da Cronache di poveri amanti di Pratolini. Tieni in considerazione i seguenti aspetti: il tema; i personaggi; l’ambientazione; le scelte narrative; lo stile.

online T5 Giuseppe Tomasi di Lampedusa

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» Il Gattopardo, cap. I

Fissare i concetti Il Neorealismo 1. Quali sono i tratti essenziali del Neorealismo? 2. Perché Calvino sostiene che il Neorealismo italiano non sia una vera e propria scuola? 3. Quale posizione assume Gadda nei confronti del Neorealismo? 4. Per quale motivo Hemingway può essere ritenuto un modello per il realismo italiano? 5. Qual è il romanzo-manifesto del Neorealismo italiano? 6. Il Gattopardo rappresenta un esempio paradigmatico di anti-Neorealismo. In che senso?

Il successo de Il Gattopardo, un romanzo anti-neorealista 4 487


Il Novecento (Prima parte) Il Neorealismo

Sintesi con audiolettura

1 La corrente neorealista

Il Neorealismo (1945-1955) è una tendenza del mondo letterario e cinematografico che vuole documentare le gravi condizioni economiche e politiche italiane del secondo dopoguerra, ma anche i valori e gli ideali della Resistenza. Il termine nasce nel 1942 e sale alla ribalta intorno al 1948. In letteratura, esso descrive una temporanea convergenza, per ragioni etico-politiche, di scrittori diversi, quali ad esempio Vittorini, Pavese, Calvino, Moravia e Quasimodo, che si trovano a vivere un particolare momento storico, in grado di influenzarne la visione del mondo. Il Neorealismo ha, infatti, la propria genesi nell’esperienza della Resistenza: la violenza degli eventi fa crollare la fede nell’autonomia della letteratura e favorisce il crearsi di un’alleanza tra intellettuali e masse popolari: il risultato è una letteratura progressista, il cui protagonista è il popolo. La motivazione è soprattutto quella testimoniale: si raccontano gli avvenimenti nella loro evidenza, come già fatto dagli autori “meridionalisti”, con la loro volontà di denuncia sociale unita a una forte tensione etica. Ma modelli sono pure Vittorini e Pavese, che ambientano le loro opere in un contesto popolare e trattano i temi dell’emarginazione e dell’ingiustizia. Una grande influenza è esercitata, infine, anche dalla letteratura americana, incarnata in particolare da Hemingway. L’esaurirsi del Neorealismo è segnato dalla pubblicazione di una delle sue opere più celebri: Metello, di Vasco Pratolini (1955), romanzo che si propone come moralmente e politicamente esemplare. Crisi delle sinistre e boom industriale, infatti, fanno invecchiare presto i romanzi neorealisti e integrano gli scrittori nell’industria culturale. Il successo del romanzo anti-neorealista Il Gattopardo nel 1958, poi, chiude definitivamente un’epoca. I temi principali del Neorealismo sono due: il mondo popolare e il regionalismo. Su influsso degli scritti gramsciani, diventa quasi d’obbligo la rappresentazione realistica del mondo operaio e popolare, e dunque delle periferie e delle realtà più svantaggiate in generale; il tutto, però, attraverso una lente ideologizzata e quindi polarizzata, che mostra la parte povera della società in modo costantemente (e spesso ingenuamente) positivo, mediante scelte contenutistiche e stilistiche che ricordano quelle del Naturalismo. Da tutto ciò deriva l’uso del dialetto, la frequente paratassi e la prevalenza del dialogato, non sempre utilizzati in modo ottimale.

2 Ernest Hemingway e Per chi suona la campana

Ernest Hemingway (1899-1961), giornalista di guerra e narratore, protagonista di un’avventurosa esistenza trasposta in romanzi che lo hanno reso uno dei più grandi scrittori americani e gli hanno garantito il premio Nobel, è stato un celebre ispiratore del realismo italiano. Particolarmente fecondo, nella sua narrativa, è stato l’influsso dello stile incisivo e diretto, influenzato dall’attività giornalistica ed evidente in Per chi suona la campana (1940) e nei Quarantanove racconti (1938).

Il Neorealismo 488 Il Novecento (Prima parte) Il9 Neorealismo


3 Pratolini e il romanzo-manifesto del Neorealismo

Vasco Pratolini (1913-1991) esponente di prima fila del Neorealismo, tratta, nei suoi principali lavori, della vita quotidiana dei quartieri popolari di Firenze, descritta con realismo e adesione. Allargando la prospettiva, l’autore scrive il suo romanzo più celebre, Metello (1951), prima opera di un ciclo intitolato Una storia italiana, nel quale si racconta un secolo della storia d’Italia, dal 1875 fino agli anni Cinquanta del XX secolo. Ma è Cronache di poveri amanti a rappresentare forse il più emblematico romanzo del Neorealismo, quello che meglio ne esprime le intenzionalità e le scelte ideologiche. Il protagonista non è un singolo personaggio ma un’intera via di un quartiere popolare di Firenze, abitata da un’umanità composita; l’autore, narratore onnisciente, ne illustra le vicende durante il periodo della Resistenza, tratteggiandone le caratteristiche, in particolare attraverso la resa di dialoghi e azioni.

4 Il successo de Il Gattopardo, un romanzo anti-neorealista

Nel 1958 esce Il Gattopardo, opera d’esordio dello sconosciuto nobile siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957). Vi si raccontano cinquant’anni di storia di una famiglia aristocratica dell’isola, quella dei principi di Salina, prevalentemente dal punto di vista amaramente ironico di Don Fabrizio, paterfamilias vittima di un profondo malessere esistenziale che si traduce in inerzia e passività. Il successo di pubblico è clamoroso e testimonia la crisi, alla fine degli anni Cinquanta, della narrativa neorealista, per via di un nuovo clima politico e culturale. Il Gattopardo è effettivamente un romanzo antitetico rispetto ai temi e alle modalità narrative di questa corrente, anzi quasi ottocentesco: la visione storico-politica è scettica e amara; la società che vi viene ritratta, quella siciliana, è immobile e conservatrice; l’impostazione di fondo è pessimista e nichilista. Le tecniche narrative impiegate, tuttavia, sono tutt’altro che tradizionali e rimandano all’influenza di autori come Proust e Joyce: la narrazione è non lineare, frequenti sono i flashback e i monologhi interiori del protagonista risentono dell’influenza della Woolf. Il lavoro si può ascrivere alla corrente del Decadentismo: oltre quanto già detto, infatti, è centrale il tema della morte, elemento inesorabile che tutto investe e distrugge.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Realizza una presentazione in forma multimediale che riassuma le posizioni di Calvino e di Gadda nei confronti del Neorealismo.

Recensione

2. Prendi visone del film Il Gattopardo di Luchino Visconti e stendi una recensione sull’opera cinematografica da presentare alla classe.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 489


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana

LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Fenoglio visto da Gabriele Pedullà… Il libro di Johnny [Il partigiano Johnny] è un romanzo epico, e dell’epica possiede anzitutto la diffidenza per le dimensioni contenute e per la velocità. In esse può sempre annidarsi una minaccia, come emerge da quel gioiello della letteratura eroicomica che sono i Ventitré giorni della città di Alba, dove il ritmo rapidissimo e la deliberata condensazione degli avvenimenti che ignora cause e fini contribuiscono in egual misura all’effetto irresistibile di quelle pagine […] ciò che con il metro di un romanzo medio può facilmente apparire superfluo, o ridondante, o fuori scala, risulta invece perfettamente proporzionato nella tradizione epica, dov’è la norma dedicare centinaia di versi alla descrizione di uno scudo o decine di pagine a classificare i vari tipi di cetacei conosciuti. G. Pedullà, Il libro di Johnny, Einaudi 2015

… e da sé medesimo Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. B. Fenoglio in un colloquio con Elio Filippo Accrocca, in Ritratti su misura di scrittori italiani, 1960, disponibile in Rete

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Beppe Fenoglio ha il merito di aver riportato l’epica dentro la nostra letteratura. La sua opera potrebbe essere accostata ai poemi omerici – all’Iliade (il poema della guerra) e all’Odissea (il poema del ritorno) –, poi all’Eneide di Virgilio (con il pio Enea devoto alla sua missione, irresoluto eppure capace di pietas), poi ancora all’Orlando furioso (labirinto di trame e destini, capovolgimenti di fronte, ricerca di un qualche senso finale), e in ultimo all’epos di scrittori stranieri molto amati da Fenoglio come Milton e Melville. Inoltre, e questo è l’aspetto più originale della sua poetica e della sua visione del mondo, ha creato un’epica di persone comuni, di non-eroi. Senza la letteratura non potremmo oggi immaginare lo slancio ideale e la determinazione che condussero i partigiani a combattere nella Resistenza e neppure le ombre, la delusione di tanti che vi parteciparono.

1 Ritratto d’autore Resistenza 2 come metafora La letteratura Resistenza 3 sulla e l’identità italiana 491 491


1 Ritratto d’autore 1 L’epica degli eroi comuni

VIDEOLEZIONE

I protagonisti dei romanzi di Fenoglio non sono tanto uomini speciali, eroi senza macchia, quanto persone “normali” – normalmente contraddittorie: un po’ coraggiose e un po’ vigliacche, un po’ egoiste e un po’ altruiste – che di fronte a esperienze estreme riescono a tirar fuori il meglio da sé stesse. Certo, «beato il Paese che non ha bisogno di eroi», come dichiara nell’omonimo dramma di Bertolt Brecht il grande scienziato Galileo, costretto a rinnegare il suo pensiero per salvarsi davanti al tribunale dell’Inquisizione. Nessuno è tenuto a essere un eroe, pronto a sfidare la morte. Però abbiamo anche bisogno di eroi anonimi, ordinari, che neanche sanno di esserlo, ma che semplicemente reagiscono in modo istintivo, quasi con un’avversione fisiologica, a una situazione che ritengono intollerabile, senza un movente che non sia la loro stessa coscienza, un sentimento di elementare dignità. Somigliano ai trentasei “Giusti” del Talmud, della tradizione ebraica, che in un episodio biblico Abramo evoca di fronte a Dio per impedire la distruzione di Sodoma e Gomorra (e vedremo quanto Fenoglio fosse vicino all’ispirazione della Bibbia, attraverso la mediazione protestante, calvinista e puritana di Cromwell, protagonista anche lui di una guerra civile): persone normali, nascoste nella massa, che anche solo per un attimo si ribellano contro l’ingiustizia e che testimoniano la possibilità di resistere all’inumano assumendo su di sé i destini del mondo ed evitando una sventura. Compiono il proprio dovere senza aspettarsi alcuna ricompensa e anzi appagandosi di ciò. Nel Partigiano Johnny leggiamo: «com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana». L’opera di Fenoglio coincide con un’epopea della Resistenza – tranne il romanzo Malora, sul mondo contadino –, non ha quasi niente di neorealista, di documentario o angustamente cronachistico, ma si propone come libera narrazione di respiro epico-lirico. I suoi protagonisti vi aderiscono perché in quel momento sentono che non potrebbero fare altro: la loro è una vocazione etica, quasi religiosa, alla libertà.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1943

1922

1940

Marcia su Roma: Mussolini diventa primo ministro.

1920

L’Italia entra nella Seconda guerra mondiale.

1930 1922

Giuseppe Fenoglio nasce ad Alba.

Caduta del fascismo e inizio della Resistenza partigiana.

1940 1943

Fenoglio è arruolato nell’esercito; frequenta la scuola per ufficiali ma allo sbandamento dell’esercito ritorna nelle Langhe e diventa partigiano.

492 Il Novecento (Prima parte) 10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana

1944

Fenoglio combatte nella fase più dura della Resistenza.


E dentro la Resistenza ci stanno con i loro umanissimi dubbi, le loro esitazioni e incoerenze, sapendo che coraggio e viltà sono solo disposizioni transitorie. Dal punto di vista della scrittura, del ritmo narrativo, l’epos tende a privilegiare la lunga durata, la lentezza, la ripetizione, la digressione, quasi a evocare un’eternità della vicenda che racconta. Ma l’epica non è l’unico genere in cui si è cimentato Fenoglio. Come ha osservato Gabriele Pedullà, curatore di un’edizione recente del Partigiano Johnny, ribattezzato per ragioni di correttezza filologica Il libro di Johnny, la stessa guerra partigiana ha offerto allo scrittore lo spunto per una satira eroicomica con I ventitré giorni della città di Alba – «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» – o il pretesto per una storia d’amore e di vendetta con Una questione privata.

2 La vita e l’opera Beppe Fenoglio nasce ad Alba nel 1922, l’anno della Marcia su Roma. I genitori gestiscono una macelleria, ma, su consiglio del maestro, lo fanno studiare e lo iscrivono al liceo classico di Alba, poi alla facoltà di Lettere di Torino, dove non può laurearsi per la chiamata alle armi. Il giovane Fenoglio è affascinato dalla letteratura inglese e americana, da Shakespeare, Marlowe, Milton, Donne, Hopkins, Coleridge, Browning, Melville, Eliot – di alcuni dei quali sarà eccellente traduttore – ma anche dalla storia politica di quei Paesi, dalla Rivoluzione inglese e da Oliver Cromwell, puritano intransigente nemico di ogni assolutismo. Lì incontra l’immagine di una civiltà libera, in contrasto con il regime fascista che detesta profondamente. L’ossessione dell’Inghilterra non è mai elusione dei problemi reali, fuga dal proprio paese: «l’anglofilia, l’anglomania se vuoi, come espressione del mio desiderio, della mia esigenza, di un’Italia diversa, migliore» (Primavera di bellezza). L’8 settembre 1943, giorno della proclamazione dell’armistizio con gli Alleati e del “tutti a casa”, si trova sbandato a Roma, dove aveva fatto il corso di allievo ufficiale; da lì, sfuggendo ai rastrellamenti tedeschi, torna fortunosamente nelle sue Langhe e diventa partigiano nelle bande badogliane o “azzurre”, più vicine alla sua sensibilità politica monarchico-liberale, dopo una fugace esperienza nei comunisti “ga-

1944

In ottobrenovembre, resistenza e caduta di Alba.

1945

Fine della Seconda guerra mondiale.

1948

Elezioni vinte dalla Democrazia cristiana; rottura definitiva dell’unità antifascista.

1950

1960

1970 1960

1945

Nella parte finale della guerra, è ufficiale di collegamento con gli inglesi.

1947

Inizia a lavorare per un’azienda vinicola; si dedica nel frattempo all’attività di scrittore e traduttore.

1949

Pubblica il suo primo racconto.

Sposa Luciana Bombardi. Si ammala di tumore.

1954 1952

Viene edito, nella collana diretta da Elio Vittorini per Einaudi, il primo libro di Fenoglio: I ventitré giorni della città di Alba

Ancora per la collana di Vittorini esce La malora.

1959

Fenoglio pubblica per Garzanti Primavera di bellezza.

1969

Viene edito il romanzo breve La paga del sabato sera. 1968

1963

Muore a Torino. Viene pubblicato, postumo di pochi mesi, Una questione privata.

Esce Il partigiano Johnny, che diventerà l’opera più nota di Fenoglio.

Ritratto d’autore 1 493


ribaldini”: «in the wrong sector of the right side» (Il partigiano Johnny). L’armistizio dell’8 settembre fu da lui vissuto non tanto come “morte della patria” quanto come matura assunzione di responsabilità che si propone come «lo snodo più importante nel lento percorso di crescita di una nuova generazione» (Pedullà). Nell’ultimo periodo della guerra Fenoglio è ufficiale di collegamento con la missione inglese nel Monferrato. Dopo la Liberazione trova lavoro come procuratore in una casa vinicola, ma si dedica alla narrativa anche sulla spinta del bisogno di testimoniare l’evento principale della sua vita, la guerra partigiana. Il suo carattere solitario, timido, riservato, l’impegno fatto di understatement e pudore, l’inviolabile serietà di eterno adolescente si rispecchiano nel suo aspetto fisico: alto e magro, goffo ed elegante, sempre vestito di tutto punto. Il primo libro, I ventitré giorni della città di Alba, esce nel 1952 nella collana dei “Gettoni” di Elio Vittorini (che gli aveva bocciato il romanzo La paga del sabato perché dentro c’era troppo “cinematografo”: uscirà postumo nel 1969): è una raccolta di dodici racconti, di cui sei sulla Resistenza. Esattamente ventitré furono i giorni in cui la città di Alba restò nelle mani dei partigiani, prima che questa tornasse ai fascisti. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta i partigiani vengono rappresentati in modo antiretorico: coraggiosi, fraterni ma anche singolarmente vanesi – si mettono in posa per una fotografia con le divise da ufficiale requisite – e scalcagnati. Nella stessa collana appare nel 1954 il romanzo breve La malora. In seguito a contrasti con Vittorini, direttore della collana, passa da Einaudi a Garzanti, dove nel 1959 pubblica Primavera di bellezza: nella sua mente doveva essere la prima parte di un dittico sulla Resistenza comprendente il libro postumo che si è ritenuto di chiamare Il partigiano Johnny. Le due vicende narrate combaciano perfettamente, salvo gli ultimi tre capitoli del primo romanzo. Nel 1960 sposa Luciana Bombardi. Si ammala di un tumore ai bronchi mentre è intento a riscrivere e riordinare la sua opera narrativa; muore a Torino nel 1963, lasciando i suoi manoscritti da cui sarà tratto nel 1968 Il partigiano Johnny, seconda parte – come abbiamo visto – di un dittico narrativo che esordisce con Primavera di bellezza: prima la chiamata alle armi, l’esperienza di allievo ufficiale, il servizio militare a Roma, poi lo sbandamento, il ritorno picaresco nella sua Alba, l’adesione alla Resistenza, la speranza in una rinascita della nazione, le battaglie, le fughe, i ripensamenti, fino alla morte peraltro controversa del partigiano Johnny. Ricordiamo che in Primavera di bellezza Johnny effettivamente muore in battaglia, mentre nel Partigiano Johnny, malgrado alcune prime annotazioni contrarie di Fenoglio per l’editore Livio Garzanti, resta un finale aperto: «Johnny si sentì bene come non più da secoli…». Tra i due libri, che compongono un’autobiografia romanzesca, va registrata comunque una netta differenza stilistica: nel primo una prosa “classica”, educatissima, e un racconto più lineare; nel secondo una mescidazione linguistica a tratti spiazzante che si apre a termini inglesi spesso desueti o molto letterari, neologismi, punte di forte espressività e costruzioni sintattiche non convenzionali. Proprio la selva dei manoscritti – riscritture, appunti, rifacimenti – pone enormi problemi filologici e di datazione e conferisce a una parte della sua opera un carattere provvisorio, in via di continua ridefinizione. online Ricordiamo altri libri usciti postumi: La paga del sabato (1969) T1 Beppe Fenoglio e il suo capolavoro, di cui ci sono pervenute tre redazioni, Il folcloristico ingresso l’ultima e definitiva pochi mesi dopo la morte: Una questione dei partigiani ad Alba I ventitré giorni della città di Alba privata (1963).

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2 Resistenza come metafora 1 «Partigiano, come poeta, è parola assoluta»

L’identità di partigiano è stata per Fenoglio concreta e voluta – sulla sua tomba ha voluto come epitaffio «partigiano e scrittore» –, un’esperienza autobiografica fondamentale, ma al tempo stesso diventa nella sua opera metafora della condizione umana, fatta di sottomissione al destino e di assoluta necessità di scelta entro un mondo drammaticamente ostile, di adulta accettazione del limite e di una vocazione insopprimibile per la libertà. Le parole chiave dell’epopea fenogliana (patria, onore, decenza, coscienza, dignità), in parte distanti dalla letteratura resistenziale canonica, definiscono una posizione morale precisa e insieme un orientamento ideologico che mette in connessione antifascismo, libertà, democrazia e idea patriottica. Essere partigiani equivale a una conversione, alla fede in un assoluto che vincola l’intera esistenza. Nelle ultime pagine del Partigiano Johnny (➜ T2 ), Johnny dialogando con un mugnaio che lo invita a cena ha modo di spiegare le proprie ragioni. Nel suo testardo rifiuto del fascismo, mantenuto con fermezza e coerenza fino alla fine, nel suo impegno a combattere a oltranza, perfino quando potrebbe essere più ragionevole concedersi una pausa, sentiamo qualcosa che va oltre l’ideologia e oltre la scelta morale stessa: coincide con l’istinto umano, con un destino assunto con virile consapevolezza, con un assoluto che sfiora la dimensione religiosa. Il partigiano Johnny, risoluto nel suo dire di no al fascismo, a un potere arbitrario che minaccia la propria e altrui libertà, refrattario al buon senso del mugnaio e a qualsiasi compromesso, non potrà che avere una morte tragica (anche se, abbiamo visto, Fenoglio ha qualche oscillazione al riguardo). La vita quotidiana, nemica di ogni assoluto, si alimenta invece di continui, ragionevoli compromessi, di verità sempre relative, provvisorie.

2 Una lezione di “decenza morale”: il parallelo con Orwell Il partigiano Johnny uscì postumo, casualmente in pieno Sessantotto, e subito venne messo in relazione con la rivolta studentesca (addirittura paragonato impropriamente a Che Guevara, benché Fenoglio fosse recisamente anticomunista). Probabilmente si esagerava, però esiste pure un legame tra quel grande romanzo incompiuto e l’anima insieme “moralistica” e libertaria di quell’eterogeneo movimento, poi obliterata dall’eccesso di ideologia e dalla deriva terroristica nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. La letteratura resistenziale è cospicua (si ricordino almeno Calvino e Meneghello, oltre al neorealismo di Renata Viganò e al Rigoni Stern della ritirata russa…), però Fenoglio ha raccontato meglio di tutti la guerra partigiana, in modi anche a volte crudi, asciutti, cronachistici, o altre volte con un espressionismo che inventa nuove parole – straordinario e paragaddiano il mistilinguismo del Partigiano Johnny – per aderire meglio a una realtà così inafferrabile, senza mai però intenti celebrativi, senza la stucchevole retorica di tanta vulgata neorealista, e anche perciò era guardato con diffidenza dai critici letterari del PCI. Il suo partigiano, ha osservato Resistenza come metafora 2 495


il critico Geno Pampaloni, «non giudica ma sceglie». Non occorre infatti giudicare o sforzarsi di capire qualcosa che sempre ci resterà un po’ estraneo, come nel caso di Fenoglio il regime fascista. È sufficiente scegliere, limpidamente e responsabilmente, sapendo altresì che le nostre stesse scelte sono in parte casuali, legate a una fatalità, eppure ineluttabili. La sua energia linguistico-retorica – a parte i neologismi e gli inserti di inglese, un’inesausta inventività metaforica – è il corrispettivo dell’energia vitale che sta all’origine dei suoi personaggi. In un certo senso Fenoglio, che peraltro come abbiamo già visto amava la cultura inglese, è imparentato con George Orwell. Le differenze tra i due – anche solo dal punto di vista stilistico – sono evidenti: lo stile dello scrittore inglese è piano, lineare, alieno da qualsiasi invenzione e oltranza espressiva. Però in entrambi c’è il primato della morale sulla politica, dell’individuo sugli apparati, una profonda onestà verso sé stessi, un impegno esistenziale prima che ideologico. Spiriti liberi, al tempo stesso patrioti e inappartenenti, fortemente laici, precipitati nel cosiddetto “secolo breve” delle ideologie: hanno odiato tutti i totalitarismi e obbedito solo alla propria coscienza. Orwell era uno strano socialista, libertario e con l’amore per la patria; Fenoglio, monarchico, diventò solo più tardi simpatizzante socialista, anche lui devoto a una idea di patria. Estranei a qualsiasi pathos eroico-militarista, imbracciano però entrambi le armi quando si tratta di salvare valori che gli stanno a cuore. Orwell parte volontario per la Guerra di Spagna solo per una questione di moral decency – in inglese decency vuol dire “decenza” ma anche “dignità” – senza perciò ritenersi superiore: passando per Parigi mostra infatti di comprendere e accettare il disimpegno “vitalistico” dell’amico Henry Miller, che lo tratta da idiota per la sua scelta di arruolarsi. Il protagonista di Fenoglio, idiosincraticamente antifascista, decide di andare in collina come combattente, per poi liberare i parenti dei renitenti alla leva della Repubblica Sociale di Salò che erano stati imprigionati nella caserma. E, come il suo autore, decide di schierarsi, di difendere ostinatamente la patria e la propria terra avita, per salvare ai suoi stessi occhi la propria dignità. Non manca, pur nell’indignazione, una nota di straniante umorismo: i truci repubblichini, rei per lui di aver tradito la patria creando un governo fantoccio filotedesco, gli appaiono «atletici e germanlike... con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida». Nessuno è tenuto a essere un eroe e probabilmente oggi l’eroi-

Partigiani a Milano dopo la Liberazione.

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smo epico del passato è chiamato a esprimersi in modi diversi, per qualcuno nella disobbedienza civile e nella testimonianza non violenta. Tuttavia avremo sempre bisogno dell’eroismo sobrio, umile, antiretorico, di Fenoglio e Orwell, delle loro scelte esistenziali di campo, limpide e compiute quasi per un’intima vocazione.

3 Ciò di cui la guerra ci priva In che modo viene rappresentata la guerra partigiana? Certamente in tutta la sua grandezza, però si tratta di grandezza tragica, che implica lo stravolgimento della vita quotidiana. Da una parte – lo abbiamo visto – Johnny sente di doversi schierare, inequivocabilmente. Combattere i fascisti è per lui, quasi totalmente spoliticizzato, un dovere che viene prima della politica e forse prima dell’etica stessa, un imperativo categorico, perfino «una missione senza motivazioni» (Giulio Ferroni), e in ciò un poco ricorda la scena finale de Il mucchio selvaggio, western splendidamente nichilista, di Sam Peckinpah, quando il capo della banda di banditi mercenari chiede agli altri di salvare il loro compagno prigioniero e torturato – ma è una missione palesemente suicida – e quelli rispondono con allegria spavalda: «Why not?». Non tanto la ricerca della “bella morte” quanto un’azione che sentono di dover compiere, e che nasce in loro – benché banditi e assassini – da istintiva insofferenza verso i soprusi. Dall’altra le pagine del romanzo sono punteggiate da morti insensate, da orrori ingiustificati, da una violenza totalmente cieca. In ciò l’opera di Fenoglio potrebbe essere accostata all’Iliade, e in particolare a un saggio fondamentale che Simone Weil scrisse nel 1940, L’Iliade o il poema della forza: la guerra fra Greci e Troiani è secondo lei espressione di una necessità inesorabile, sovrumana, quella della materia e del suo impassibile meccanismo, quella della Forza, che tutti pietrifica – chi la usa e chi la subisce –, ma che pure nessuno possiede veramente. L’Iliade resta un grande poema epico, impegnato a cantare le azioni eroiche dei combattenti. Eppure in esso non c’è scena di guerra, per quanto trascinante e spettacolare, che non richiami tutto ciò di cui la guerra ci priva: la felicità domestica e il contatto con i propri cari, la quiete della casa e il conforto della routine quotidiana. E se davvero la Forza, la pura logica del dominio, governa da sempre il mondo, tuttavia per Simone Weil non ne costituisce l’unico principio. Accanto a essa, nel cuore umano, si manifestano ogni volta la tenerezza, la fraternità, la pietà, la rinuncia unilaterale a esercitare il potere, l’amore. Si tratta di momenti di grazia assoluta, certamente rari, tuttavia ben reali. Perfino il feroce Achille, di fronte al ricordo di Patroclo, l’amico perduto, evocato dalle suppliche di Priamo per la perdita del figlio Ettore, all’improvviso si intenerisce, viene preso dal rimpianto e dall’amarezza che in qualche modo limitano la sua tracotanza, e scoppia a piangere: «Il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sgorga dal cuore dei nemici mortali» (Weil). Quando i personaggi dell’Iliade capiscono di essere egualmente sottomessi allo stesso destino, alla pietrificazione della Forza, la quale trasforma chi la usa e chi la subisce, allora possono raggiungere quell’amore puro, che per Simone Weil rende possibile la vita dell’uomo. Torniamo a Fenoglio: nella sua opera, dedicata alla guerra partigiana, tutto viene ricompreso in una misura più ampia, in un tempo ciclico ed eterno che è quello dell’epos, di un epos che non è mai apologia della violenza insensata e dell’eResistenza come metafora 2 497


roismo militare: resta il succedersi sempre uguale delle stagioni, delle albe e dei tramonti, dove l’unica cosa salda è però la scelta tra il bene e il male, ogni volta assoluti pur nella loro relatività e nella contingenza storica. Quando Johnny, come un eroe del poema omerico, come l’iracondo Achille, si trova a uccidere un fascista non esulta: guardandolo negli occhi «un groppo di catarro saliva procellosamente per la gola di Johnny». Poi lo seppellirà, camminando sulla neve sporca di sangue, che scrocchia sotto i suoi stivali. La sepoltura somiglia a un gesto rituale che appartiene a quello stesso paesaggio, primordiale e senza tempo, e ne sigilla il destino tragico. La guerra mette a nudo le ragioni ultime di chi vi partecipa. A un compagno Johnny dirà, contro gli ignavi di ogni tempo, «Ricordatelo, senza i morti, loro e nostri, nulla avrebbe senso». Ma la stessa guerra sembra rivelare, come abbiamo visto nella lettura dell’Iliade da parte di Simone Weil, un fondo oscuro, imperscrutabile dell’esistenza umana, fuori da ogni controllo. Proprio come la guerra di Troia qualsiasi evento bellico sembra dimenticare dopo un po’ le sue stesse ragioni e mostrarci così l’assurdo della condizione umana stessa. Un’“amnesia” tragica che solo la letteratura è in grado di raccontarci, come vedremo adesso.

4 L’impegno degli scrittori Ma Fenoglio si può considerare uno scrittore “impegnato”? Certamente sì, ma non nell’accezione convenzionale del termine, che coincide con il cosiddetto engagement, con il mero allineamento degli intellettuali a un partito politico, come emerse nel dibattito del dopoguerra soprattutto in area francese. Il tema dell’impegno politico-civile degli scrittori ha una lunga e nobile storia, che affonda le radici nell’Illuminismo, quando gli intellettuali si battevano pubblicamente per cause importanti, che riguardavano l’intera società: ampliamento dei diritti, espansione delle libertà personali, lotta contro ingiustizie e soprusi. Da allora l’impegno degli scrittori contro il potere, in difesa degli oppressi e dei perseguitati, ha attraversato la storia della cultura in Occidente, fino ad arrivare al celebre J’accuse di Zola, a proposito dell’ingiusta incriminazione dell’ufficiale ebreo francese Dreyfus, agli inizi del Novecento, e poi in Italia alla vicenda degli intellettuali schierati contro il regime fascista e costretti a un’attività cospiratoria clandestina. Ricordiamo, per inciso, che nel 1931, quando il fascismo registrava il massimo dei consensi, su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime, pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, l’allontanamento dall’università. Dopo la guerra il neorealismo ha avuto grandi meriti e qualche demerito. Da una parte è stato «il primo sguardo che l’Italia ha di sé senza veli retorici e senza falsità» (Pasolini) e l’espressione di un’idea di profondo rinnovamento della società, della speranza di un futuro migliore. Dall’altra ha anche riproposto l’impegno degli scrittori in termini molto ideologici, dando vita a opere letterarie fragili, programmaticamente edificanti, e configurando l’impegno come adesione supina degli intellettuali alla disciplina di un partito politico, quello comunista. Parafrasando Gramsci, la cui riflessione ebbe peraltro ricchezza e spessore straordinari, non riducibili a letture unilaterali, si pretendeva che gli intellettuali diventassero “organici” al Partito comunista, quasi suoi funzionari. Una pretesa cui si ribellò Vittorini in un celebre scontro con Togliatti, segretario del PCI. Da allora il rapporto del Partito comunista con intellettuali e artisti si è svolto all’insegna di un utilitarismo reciproco: il partito guadagnava in termini di immagine, l’intellettuale veniva ricompensato con incarichi culturali e politici.

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Prendiamo il caso di Cesare Pavese, che decise di riunire il romanzo resistenziale La casa in collina (1948) con Il carcere (sulla propria esperienza del confino in Calabria) in un solo libro intitolato Prima che il gallo canti, con riferimento al tradimento di Pietro nei confronti di Gesù, nei Vangeli canonici: Pavese si riconosce in quel “tradimento” per non aver partecipato direttamente ai combattimenti e per non aver trasformato la lotta di Liberazione in rivoluzione sociale marxista. Il romanzo «è costellato da confessioni di colpevolezza, di inadeguatezza, di incapacità», come osserva Gianfranco Lauretano, aggiungendo che invece per Fenoglio il principale mandato dello scrittore riguarda la parola, lo stile, la lingua che usa: «Egli fa politica scrivendo bene, curando a fondo la sua scrittura» (G. Lauretano, Beppe Fenoglio. La prima scelta, Ares 2022). L’impegno civile di Fenoglio consiste dunque anzitutto nella sua cronaca onesta, non manichea, non aprioristicamente schierata, della Resistenza, e poi nell’aver cercato una lingua purissima e ricca di espressività, adatta a questo scopo. Rappresentazione non manichea significa riconoscere un’umanità, dunque una dignità, anche al nemico, attitudine che gli venne duramente rimproverata, specie dalla stampa comunista. Il rispetto e l’odio possono perfino convivere entro una scelta tormentata. Nel suo diario del 1954 annota in proposito una frase di Leone Ginzburg, partigiano azionista e morto in carcere dopo un violento interrogatorio da parte delle SS, che esorta a non odiare i fascisti ma ammette di non saper fare altro che odiarli.

5 Una Babele molto creativa Soffermiamoci ora sulla lingua, anche perché uno scrittore in essa deve soprattutto “impegnarsi”. Il partigiano Johnny, benché a tratti di lettura ostica, a differenza del romanzo breve Una questione privata, invece perfetto nella concentrazione (di cui parleremo tra poco), costituisce una felice Babele letteraria, una vitalissima festa delle lingue e degli idiomi, per l’uso dell’inglese, per le cacofonie, per la mescolanza di parole ricercate e parole gergali, di lingua letteraria e colloquialità (ricordiamo che ha avuto almeno due stesure, la sua ricostruzione è filologicamente ardua e il titolo stesso è redazionale, tanto che nell’edizione del 2015, a cura di Gabriele Pedullà, diventa Il libro di Johnny, con un richiamo biblico). Un romanzo trascinante come una ballata, come un avvincente poema epiconarrativo che tiene con il fiato sospeso, impregnato della bellezza del paesaggio, e perciò con punte di un lirismo intensamente cromatico: «le colline naufragavano nel violaceo» e, ancora, dalla collina scendono per un sentiero «in una dolorosa orgia di giallo». Per capire l’impasto linguistico del romanzo occorre risalire a Primavera di bellezza, che ne costituisce la prima parte e che, come ci rivela lo scrittore, era stata inizialmente composta in inglese e solo in seguito tradotta da lui stesso in italiano. Le ragioni le abbiamo già viste: una divorante passione per la letteratura e la storia politica inglese. Il suo insegnante di scuola, il filosofo Pietro Chiodi, presente tra i personaggi del Partigiano Johnny, racconta che Fenoglio adolescente volle immergersi «nella vita, nel costume, nella lingua particolarmente dell’Inghilterra elisabettiana e rivoluzionaria: viveva in questo mondo, fantasticamente ma fermamente rivissuto, per cercarvi la propria “formazione”, in una lontananza metafisica dallo squallido fascismo provinciale che lo circondava». E aggiunge che avrebbe voluto essere un soldato dell’esercito di Cromwell con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla. Resistenza come metafora 2 499


La scelta di scrivere originariamente in inglese Primavera di bellezza nasce da questa immedesimazione ideale, dal soldato di Cromwell trapiantato nelle Langhe, ma anche dalla protesta contro la lingua italiana del regime, ampollosamente retorica e impastata di cattivo dannunzianesimo. Il romanzo verte sull’arruolamento dell’autore e sulla permanenza a Roma fino al giorno dell’armistizio, quell’8 settembre in cui l’esercito italiano venne ignominiosamente abbandonato dai suoi capi, mentre il re fuggiva a Brindisi e la patria era morta. Nello sfascio della nazione la Resistenza gli apparve come un fiore nel deserto, come l’unica possibilità di riscatto di una giovinezza sprecata, finita in una vicenda vergognosa, fatta di tradimenti e senso di inadeguatezza. Nel Partigiano Johnny la lingua inglese rimane sulla pagina, non viene interamente tradotta, dando origine a quello che verrà chiamato il “fenglese”. Di che si tratta? È una lingua inglese riprodotta nei suoni e nella sintassi, e continuamente storpiata, fusa con l’italiano. Ci sono calchi lessicali, come “polluzione” (sporcizia, pollution); “lavoro d’artificio” (fuoco d’artificio, firework), calchi sintattici, ad esempio il participio presente con funzione verbale, come “strada ingrigente”, arrivante carro”, i participi passati con valore aggettivale, come “velocitati”, “acciaiata”, i composti nominali sul modello inglese come “occhi-sgranato” (eye-catching), “lungo-conduttrice” (sull’esempio di long-legged), “tuttosopportante” (sullo stampo di all-seeing), gli avverbi in -mente, sull’esempio inglese in -ly: “suicidalmente”, “immacolatamente”, i verbi ricavati direttamente da un nome, secondo la pratica inglese di identità nome-verbo, come “panicare” (inglese to panic), “urgenzare” (inglese to urge). Un impasto linguistico originalissimo, vertiginoso, in cui rientrano perfino termini francesi. Ma l’espressività di Fenoglio investe l’intera gamma della lingua. Si veda l’inizio del capitolo XXXIV: «Si svegliò, per l’abitudine contratta, nella prealba, nel più nero della nerezza…» o punte di lirismo quasi estenuato: «Sprofondò nell’incorporeo, immenso abbraccio della solitudine». Mentre una corsa in auto «era l’esperienza più brividosa che Johnny avesse mai fatto nel quotidiano suspense partigiano». A volte Fenoglio ci offre sgrammaticature e improprietà, come «La sera adultava […] taluni fieri riverberi di tra le case» (dove quel “di” ricorda la sperimentazione poetica di Amelia Rosselli). La figuralità ha un timbro epico-cosmico che ci fa rivivere i fenomeni naturali come eventi primordiali, forse richiamando certe pagine dell’adorato Melville: «Il sole andò giù, ed enorme, abissale fu l’improvvisa perdita di esso: un vento lo rimpiazzò, vesperale, luttuoso e cricchiante» (“cricchiare” è onomatopeico per “scricchiolare”, usato da Pascoli).

6 Il racconto perfetto Anche se una parte dell’opera di Fenoglio non riguarda la Resistenza, e in particolare metà dei racconti iniziali e poi La malora, romanzo documentatissimo e di ispirazione verista sulla società contadina delle Langhe, è indubbio che l’autore ritrovi tutta la sua energia morale ed espressiva nel contatto con l’evento che segnerà la sua esistenza: la guerra partigiana. Tale evento è al centro di Una questione privata, un romanzo breve di tredici capitoli ambientato nel novembre del 1944 – pubblicato appena due mesi dopo la morte dello scrittore nel 1963, dopo tre redazioni diverse – o se si vuole un racconto

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lungo di smaltata perfezione e compiutezza. Il protagonista, il partigiano Milton, che richiama uno scrittore inglese amato – il John Milton seicentesco del Paradiso perduto – si imbatte per caso in collina nella villa di Fulvia, una ragazza di cui era innamorato e che al momento si trova a Torino. Dalla governante apprende che Fulvia ha probabilmente avuto una relazione con il suo migliore amico Giorgio, ora prigioniero dei fascisti. A quel punto Milton, preso da un attacco furente di gelosia, come l’Orlando ariostesco, decide di catturare un fascista da scambiare con Giorgio, per sapere finalmente da lui la verità di quanto successo. Ancora una volta Fenoglio racconta la Resistenza senza un filo di retorica e senza afflati eroici, mostrandone i limiti umanissimi dei suoi protagonisti e insieme celebrandone pure la grandezza morale. Il suo Milton, come il protagonista del Paradiso perduto, è uno sconfitto, sia nella vita privata e sentimentale (l’amore, l’amicizia) sia nella vita pubblica (la guerra). Ci appare smarrito, incerto su tutto – nel romanzo si aggira in un paesaggio nebbioso, quasi ghiacciato, sempre ricoperto di fango – tranne che sulla scelta “giusta” da fare, e cioè la lotta antifascista, ma senza clamori, senza alcuna esibizione. La sua è un’etica ferma, di ispirazione umanistica, ma «fatta di riserbo, rispetto e cortesia dei modi» (Gabriele Pedullà). Da una parte eroe solitario, un cavaliere generoso, idealista e romantico, dall’altra anti-eroe, combattente in armi perfino contro la propria stessa natura “gentile”, spinto dalla sola coscienza online Per approfondire e continuamente coinvolto in questioni private e impolitiche, come l’ossessione Un rebus della gelosia. Per un momento la guerra, dunque la Storia stessa, gli diventa estrafilologico della letteratura nea di fronte all’amore perduto di Fulvia, unica ragione di vita. Eppure, votato contemporanea al fallimento, abbandonato entro una realtà insensata, non smette di correre, di vivere, di combattere, non cede interamente all’assurdo e al nulla dell’esistenza. Per Milton cercare ostinatamente la verità sull’amore significa capire chi è lui stesso, anche se quella verità ultima resta inafferrabile, disseminata in una serie di frammenti e ricordi lacunosi. L’eterno adolescente Fenoglio online ci ha consegnato il grande romanzo lirico-esistenziale della T2 Beppe Fenoglio Johnny, il partigiano Robin Hood giovinezza, di un amore sventato per la vita che a un certo Il partigiano Johnny punto incontra un limite insuperabile.

I romanzi di Fenoglio TITOLI

Il partigiano Johnny

La malora

Una questione privata

DATA DI COMPOSIZIONE

1957-1963

1954

1963

GENERE

romanzo

romanzo

romanzo

ARGOMENTO

la Resistenza

la fatica e la violenza nel mondo contadino

una faccenda privata; l’amore per Fulvia e la ricerca si intrecciano con la Resistenza

LINGUA E STILE

lingua con inserti e calchi dall’inglese, neologismi

uso del piemontese delle Langhe

parole precise, talora espressioni in inglese, ritmo incalzante

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Beppe Fenoglio

T3

Dir di no fino in fondo Il partigiano Johnny

Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2015

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Il passo è tratto da uno degli ultimi capitoli del romanzo. Johnny è uno dei pochi rimasti a difendere le colline, mentre la maggior parte ha seguito l’invito degli Alleati inglesi ad abbandonare il combattimento. Johnny riceve ospitalità da un mugnaio, che cerca di convincerlo a nascondersi fino a che la guerra sia finita.

Johnny sedette su un masso a ridosso d’un pilastro del portico1, ed il mugnaio s’avvicinò a domandargli che pensasse. – A quanto son fortunato, quanto immeritatamente fortunato –. Fino ad allora, la fortuna aveva fatto sì che non si inserisse in... quella geometricità. Era andato e s’era fermato, stato qui e là, dormito e vegliato, 5 inconsciamente scelto quella strada e quell’ora piuttosto che quella, esattamente come Ivan e Louis, esattamente come tutti gli altri morti dell’inverno e dello sbandamento2. Bene, il mortale insetto della sfortuna aveva appena svolazzato sui loro capi e li aveva pungiglionati a morte… – Sei davvero fortunato, Johnny, se immeritatamente non so. Ma tu sei abbastanza 10 intelligente da sapere che anche la fortuna si consuma. Questo è appunto il succo del discorsetto che ti dissi Johnny. Ma non qui, – disse il mugnaio, – per riguardo alla salute dei polmoni. Scendi al mio mulino e chiamati dietro la cagna. La cucina del mulino era il locale più caldo che Johnny potesse ricordare d’aver penetrato, e le donne del mugnaio stavano preparando cena, calando belle, seriche 15 lasagne3 in un ricco, denso brodo. E subito la cagna avventò e insidiò la tavola, con sommo dispetto e collera della mugnaia: magra e lagnosa, l’opposto del marito. I due uomini sedettero coi piedi grevemente scarpati sulla mensola della stufa, la neve friggendo e sfumando subito via. – Io sono un ignorante, d’accordo, – disse il mugnaio: – e poiché abbiamo un po’ di tempo mi studierò di spiegarti perché e quanto 20 sono ignorante. Io nacqui nell’ignoranza e ci fui allevato fin quando bambino, ma da ragazzo non ci volli rimanere, come capita a tutti quelli su questi alti posti, ma lottai contro l’ignoranza, mi rivoltai e lottai e lotto ancora adesso. Mi basta dirti che, pur occupato in questo mestieraccio e vivendo in questi posti selvaggi, io non ho mai mancato di leggermi tutti i giorni i giornali, naturalmente 25 finché la corriera è arrivata e il servizio postale ha funzionato. E li leggevo tutti, e talvolta tre volte lo stesso foglio, per ricavare idee sugli uomini e sui loro fatti e sul mondo –. Qui scoccò un’occhiata, piuttosto polemica e provocativa a quel suo affaccendato, critico polo opposto di moglie. – Per dirti che sono uomo di buon senso nei limiti del mio possibile e tu devi pensare e considerare conseguentemente 30 le mie presenti parole che, oltre tutto, provengono dal cuore. Johnny era assolutamente blank-minded4, le parole del mugnaio calandogli nelle orecchie come dopo tre o quattro estenuanti setacci. Inoltre, s’era quasi tutto stemperato in quell’alta temperatura e all’alto aroma di quella ricca minestra. – Vada avanti, 1 portico: piazza di Benevello, nelle Langhe. 2 sbandamento: qui si fa riferimento al proclama di Harold Alexander, capo delle forze alleate nel Mediterraneo, rivolto ai partigiani nel novembre del 1944 affin-

ché cessassero ogni operazione militare per l’inverno, e fino al “disgelo”. Un proclama molto discusso, che certamente fu un duro colpo psicologico per la Resistenza e che relegò il Nord Italia per vari

mesi a un “fronte dimenticato” da parte degli Alleati. 3 seriche lasagne: lasagne di seta, morbide come seta. 4 blank-minded: mente vuota.

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– disse sognosamente, mentre schioccava le dita alla cagna per avviarla in decenza e deviarla da misfatti. Ma era tutto semplice e intuitivo: Ivan e Louis erano stati uccisi oggi, ed erano i ...mi5 della serie. Rimanevano due buoni mesi di quell’inverno di rara precedenza. – Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo. E tu, Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami, non è vero? Tu stesso hai ammesso d’aver avuto fortuna sin qui, ma la fortuna si consuma, e sarà certamente consumata entro 40 il 31 gennaio. Perché dunque circolare ancora, in divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Pare che tu lo voglia proprio e ti ci prepari a quel colpo loro di caccia –. Giunse compostamente le sue potenti mani. – Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta, la tua coscienza è sicuramente a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura. Non per consegnarti, Dio vieti, e poi sarebbe troppo tardi. Ma 45 scendi ed un ragazzo come te troverà certamente un nascondiglio da parenti e conoscenti, dove stare fino a guerra finita, soltanto a mangiare e dormire e godersi il calduccio, e… – ridacchiò e abbassò la voce: – e avere ogni tanto qualche amica di fiducia, l’unica a sapere il tuo esatto indirizzo… La moglie, con in mano tutti gli arnesi di cucina, stava sorvegliandoli di sbieco, 50 Johnny ed il suo uomo, con un’irosa disapprovazione, certamente in cuor suo stava improperando6 suo marito. Johnny intuiva anche troppo bene il ragionamento di questa massaia agiata: – Che diavolo sta blaterando quell’idiota di mio marito, senza pesar le parole e senza invito né richiesta da parte di questi ragazzi armati che non sai mai come reagiscono…? Al diavolo l’idiota e l’odioso giovane armato 55 che s’è tirato in mia casa! – Johnny intuiva e le sorrise l’ombra d’un sorriso, che stesse tranquilla e quieta. Ma il sorriso atterrò sul naso del mugnaio e l’ingannò, ed egli risorrise back7: al suo profilantesi successo e proseguì con una più calda e piena eloquenza. – Hai afferrato il punto. A che servirebbe, d’altronde? Lo sai meglio di me, sebbene io non perda una delle trasmissioni di Radio Londra8. Gli 60 Alleati sono snow-bound9 in Toscana, e questo permette ai fascisti di farvi cascare tutti come passeri dal ramo, come ho spiegato prima. Ma al disgelo gli Alleati si rimuoveranno e daranno il colpo, quello buono. E vinceranno senza di voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, converrai. E allora, perché crepare in attesa d’una vittoria che verrà conseguita lo stesso senza 65 ed all’infuori di voi? L’uomo parlava col cuore, indubbiamente, e voleva risparmiarsi non già la fatica, ma la pena, di trattarli come aveva giusto trattato Ivan e Louis. E stasera sarebbe stato certamente uno dei primi e più utili seguaci alla loro sepoltura. Johnny proprio non poteva liquidarlo col silenzio ed un’occhiata fulmine così decise di tacitarlo con una 70 parabola del mestiere. – Avete mai avuto un incidente, un grosso incidente nella vostra carriera di mugnaio? – Ne ebbi uno, non propriamente mio, ma peggio che fosse stato mio. Perdetti un garzone, una volta. Fu l’anno della guerra di Spagna, ed io possedevo ancora un mulino a palmenti. Questo mio garzone era sceso fra i palmenti per ripulirli e con uno scatto del gomito mise in moto la puleggia e… – e 75 fece con la mano uno svolazzo su quell’antica tragedia. – Bene, disse Johnny: –- e 35

5 i…mi: lezione lacunosa. 6 improperando: rimproverando con improperi.

7 risorrise back: sorrise a sua volta.

8 trasmissioni di Radio Londra: trasmissioni radiofoniche della BBC di propaganda antifascista trasmesse dal 1938 in Europa, e a partire dal 1939 sempre più in

lingua italiana, fino ad arrivare a quattro ore al giorno. 9 snow-bound: legati alla neve.

Resistenza come metafora 2 503


dopo avete smesso il mestiere? – l’uomo disse che non ci aveva nemmeno pensato, e allora Johnny si alzò e schioccò le dita alla lupa. L’uomo lo seguì alla porta con un massivo fluster10. – Ma non vorrai dire che il tuo è un mestiere come il mio, normale come il mio? – Johnny sollevò il catenaccio – Voi siete un uomo con una 80 sana e matura vecchiezza di mente. Ma capite questo, che io non diventerò mai un uomo anziano come voi se ora dicessi di sì, e questo sarebbe una maniera di dir sì, quando da uomo giovane ho giurato di dir no fino in fondo? – Aprì l’uscio sulla gelida notte che attendeva come una belva. E la cagna uscente gli sbatté fra le gambe. – Fa’ un boccone di cena con noi, – gli gridò dietro l’uomo, ma Johnny 85 gli agitò una mano in segno di no, la mano ultima d’un uomo affogante. La notte era un oceano. Un vento polare dai rittani11 di sinistra spazzava la sua strada, obbligandolo a resistergli con ogni forza per non essere catapultato nel fossato di destra. Tutto insieme, anche la morsa del freddo e la furia del vento e la cecità della notte, concorsero ad affondarlo in un altogridante orgoglio. – Io sono 90 il passero che non cascherà mai! Io sono l’unico passero! – ma tosto se ne pentì e ricadde, perché gli parve di vedere in un alone di apposita diurna luce le grigie, petree guance di Ivan e Louis disserrarsi appena percettibilmente in un mitemente critico, knowing12 sorrisetto. E Johnny urlò urgenza alla lupa che vagolava sportivamente in quell’inferno e puntò avanti, quasi piegato in due, verso gli atomi di luce 95 che occhieggiavano dalla massa nera della Cascina della Langa. La padrona sapeva il fatto13 da ore, e guardò tetramente alla cagna gocciolante e domandò se qualcuno l’aveva vista, notata. – Nessuno, – mentì Johnny, e poi: – So a quel che rimuginate. Serrano14, serrano, e la prossima volta sarà la mia, eh? Non vi affannate, vado a dormire lontano e domani mi terrò al largo per tutto il giorno. 100 Mettete la cagna alla catena e fatevi un sonno tranquillo, senza pensieri. 10 con un massivo fluster: con evidente eccitazione. 11 rittani: fossi.

12 knowing: consapevole. 13 sapeva il fatto: quanto accaduto a Ivan e Louis.

14 serrano: si riferisce ai nazifascisti che compiono rastrellamenti, quindi per Johnny diventa sempre più difficile salvarsi.

Analisi del testo L’invito del mugnaio Nelle ultime pagine il mugnaio che ospita Johnny per la cena nel suo mulino, davanti a «seriche lasagne» in un «denso brodo» gli si rivolge con affettuosa schiettezza, dopo aver constatato la morte dei suoi compagni: «E tu Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami, non è vero? […] Perché dunque circolare ancora, in divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Pare che tu lo voglia proprio e ti ci prepari a quel colpo loro di caccia […] Dà retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta, la tua coscienza è sicuramente a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura». Il mugnaio invita Johnny a nascondersi e ad aspettare la fine della guerra, quando gli Alleati «vinceranno senza voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, converrai». Johnny sente di non poterlo liquidare col silenzio e allora replica con una parabola del mestiere. Prima gli chiede se ha mai avuto un incidente nel suo lavoro di mugnaio, poi apprende che gli morì un garzone per un incidente: «e dopo avete smesso il mestiere?». Il mugnaio risponde che non ci aveva nemmeno pensato ma obietta che quello di partigiano

504 Il Novecento (Prima parte) 10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana


non è propriamente un “mestiere” come il suo. E allora Johnny conclude, prima di uscire nella gelida notte, senza aver mangiato con lui: «Ma capite questo, che io non diventerò mai un uomo anziano come voi, se ora dicessi di sì, e questa sarebbe una maniera di dir sì, quando da uomo giovane ho giurato di dir no fino in fondo?». Il mugnaio parla con il cuore e con buon senso, la sua intenzione è quella di far capire a Johnny l’inutilità di correre rischi e che cadrà come un passero dal ramo. Il realismo del mugnaio si traduce in pessimismo, arriva addirittura a dire che la vittoria arriverà senza i partigiani e al di fuori di loro.

La decisione di Johnny Proprio sul punto in cui il mugnaio pensa di aver convinto Johnny ed è felice per questo, Johnny replica con forza che si è impegnato a dir di no fino in fondo e il nascondersi che gli propone il mugnaio sarebbe dir di sì. Johnny non teme il giudizio altrui, ma è a sé stesso che deve rendere conto. Rinunciare alla lotta vorrebbe dire tradire se stesso.

Il paesaggio L’ambiente accogliente e caldo della casa si contrappone allo spazio aperto e freddo della campagna notturna. Il brano si chiude con questo paesaggio che si sposa con la decisione del protagonista di andarsene.

La lingua Colpisce la presenza di termini inglesi (blank-minded; back; snow-bound; fluster; knowing) nelle frasi in italiano e neologismi (scarpati, petree, improperando). L’uso di gerundi e partecipi al posto di intere proposizioni conferisce rapidità alla narrazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Contro che cosa lotta il mugnaio? E in che modo? ANALISI 2. Quale atteggiamento mostra il mugnaio nei confronti di Johnny? STILE 3. Con quale figura retorica il mugnaio descrive le numerose morti fra i partigiani?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 4. Come un eroe dell’epica Johnny preferisce andare incontro alla morte piuttosto che tirarsi indietro: «Ma capite questo, che io non diventerò mai un uomo anziano come voi se ora dicessi di sì, e questa sarebbe una maniera di dir sì, quando da uomo giovane ho giurato di dir no fino in fondo?». Johnny vuole continuare a lottare e rischiare la vita, tuttavia non lo fa per il giudizio degli altri, ma per tenere fede a sé stesso, per non tradire sé stesso. Quanto è importante secondo te essere fedeli a sé stessi e alle proprie decisioni? Ti è mai capitato di dire no e mostrare una grande forza di volontà di fronte a una situazione difficile o di portare avanti una tua idea, un tuo ideale nonostante le difficoltà?

online T4 Beppe Fenoglio Il duello mortale con la spia Il partigiano Johnny

Resistenza come metafora 2 505


Sguardo sul cinema Il partigiano Johnny, il film Guido Chiesa, appassionato cultore di Fenoglio – su cui ha prodotto l’interessante documentario biografico Una questione privata (Vita di Beppe Fenoglio), visibile in Rete – nel 2000 ha tratto dal Partigiano Johnny (tenendo anche conto dell’Ur partigiano) un film fedele nello spirito, interpretato dal bravo Stefano Dionisi. Il film dà spazio al punto di vista del protagonista sia attraverso la sua voce fuori campo che commenta gli eventi, sia attraverso le frequenti inquadrature in soggettiva, con la telecamera a mano che ne sottolinea il faticoso avanzare sulle colline fangose e battute dalla pioggia. La natura inclemente è resa dalla fotografia dei paesaggi sfumati nell’opacità della nebbia, con un prevalere di colori freddi e un po’ spenti, con un effetto quasi documentaristico. La colonna sonora (composta dal violinista rumeno Alexander Balanescu) evidenzia le emozioni dei protagonisti nelle dure esperienze della guerra partigiana (fughe, rastrellamenti, agguati, rappresaglie), e si alterna a canzoni, come il canto partigiano Figli di nessuno, o Over the rainbow, che, nel romanzo di Fenoglio Una questione privata, è la prediletta del protagonista Milton.

Locandina del film Il partigiano Johnny.

Beppe Fenoglio

T5

L’accettazione del proprio destino

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

La malora Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Einaudi-Gallimard, Torino-Paris, 1992

Sono le pagine iniziali del romanzo in cui Agostino, protagonista del romanzo che narra in prima persona, chiarisce sia per sé sia per il lettore il senso delle vicende che hanno colpito la sua famiglia.

Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto1 mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi2, altrimenti in tutta 3 5 casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza4 che mi ridava Tobia. 1 San Benedetto: è il paese da cui proviene la famiglia di Fenoglio.

2 marenghi: monete d’oro da 20 lire. 3 la pietra: la lapide.

4 licenza: permesso per allontanarsi dal lavoro.

506 Il Novecento (Prima parte) 10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana


Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la 15 morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza5. Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. 20 Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una 25 giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare6, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole. 10

Come la mia famiglia sia scesa alla mira7 di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo8 da me solo. I 30 nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore. Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa9, chi il macello gentile, chi un bel pezzo di terra propria. 35 L’abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a piedi da poveretto. Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica, coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura di 40 far debiti, allora. Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come pri45 ma, anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre più poca polenta e quasi più niente robiola. E a Natale non vedemmo più i fichi secchi e tanto meno i mandarini. Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo della conca. E quando seppe che a 5 E allora… abbastanza: il triste pensiero di tornare da Tobia per lavorare gli fa balenare per la testa la tentazione di porre fine alla sua vita. 6 incovonare: (neologismo) accumulare il grano in covoni ovvero fasci di spighe di grano.

7 sia scesa alla mira: si sia ridotta a (piemontesismo). 8 è un fatto… per capirlo: pur all’interno di uno stile classicamente disteso, composto, Fenoglio non rinuncia a un effetto di parlato, attraverso sgrammaticature e anacoluti.

9 censa: dal latino census, appalto; censa indica in piemontese la tabaccheria (usato anche da Pavese).

Resistenza come metafora 2 507


Niella ne pagavano l’arbarella10 un soldo di più che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù. Dimodoché11 diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse, come se a 55 ogni momento fosse appena arrivata dall’aver fatto di corsa l’erta da Belbo a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce: una volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il latte e si diceva: – Avessi adesso quella glia! – Diceva di nostra sorella, nata dopo Stefano e morta prima che nascessi io, d’un male nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio, e a 60 Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un’altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra. Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e contarli 65 sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m’aspettassi di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra. Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino. Io ci andai una volta sola, una sera che Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero m’accesero il lume, ma la vecchia mi disse: – Va’, 70 e di’ ai tuoi che un’altra volta veniamo noi da voi col lume spento, e lo zolfino dovrete mettercelo voi. Nostro padre vendette mezza la riva12 da legna e anche quel prato che avevamo lungo Belbo, ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro, andò quasi tutto a pagare le taglie e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il credito alla censa. È 75 allora che i nostri s’indebitarono con la vecchia maestra Fresia di quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio. Per chiedere la grazia di poter tirar su testa, un anno nostra madre andò pellegrina al santuario della Madonna del Deserto, che è lontano da noi, sopra un monte dietro il quale si può dire che c’è subito il mare. Mi ricordo come adesso. Era un po’ che 80 noi, alzata la schiena, guardavamo la processione delle donne sulla strada di Mombarcaro, quando esce di casa nostra madre, vestita da chiesa, e con un fagottino di roba mangiativa. Nostro padre le uscì appresso e le gridava: – Vecchia bagascia13, non mi vai mica via con quello stroppo di pelandracce? – Lei si voltò, ma senza fermarsi e solo per guardarlo negli occhi. E lui sempre dietro, con un principio di 85 corsa come per assicurarsi d’acchiapparla. E nel mentre le diceva: – Mi torni indietro fra chissà quanti giorni, con tutti i piedi gonfi e tutto il corpo stracco che per una settimana non mi puoi più servire –. Allora lei si fermò e gli disse: – Lasciami andare, Braida. Sono sette anni che non esco da questa casa. Lasciami andare, che è per la mia anima. 90 – L’anima vola! – le gridò lui in faccia, ma poi le disse: – Donna con del buon tempo. Hai almeno lasciato preparato? 50

10 arbarella: termine dialettale (anche “arbanella”) usato in Piemonte e Liguria per indicare un barattolo di vetri per alimenti. 11 dimodoché: formula più desueta per

“in modo che”; introduce una frase consecutiva con uso del congiuntivo (usata in Manzoni). 12 riva: voce dialettale per bosco, così detto perché in forte pendenza.

13 Vecchia bagascia: bagascia è sinonimo di “prostituta”; l’atteggiamento del padre di Agostino verso la moglie esprime tutta la brutalità e violenza di una civiltà contadina patriarcale.

508 Il Novecento (Prima parte) 10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana


Analisi del testo Romanzo sulla sua terra L’opera fenogliana più consistente, fuori del ciclo della guerra partigiana, è La malora, romanzo breve sulla sua terra. Uscito nel 1954, all’interno della collana “I gettoni” di Einaudi, fu una specie di “psicodramma” editoriale poiché il direttore di collana, lo scrittore Elio Vittorini volle scrivere sulla bandella, contraddittoriamente, un giudizio assai riduttivo e quasi denigratorio sul romanzo stesso. La malora infatti gli appariva un esempio riprovevole di naturalismo attardato, di provincialismo, con un uso perlopiù pretestuoso del dialetto; inoltre riteneva erroneamente che parlasse di cose non sperimentate in modo diretto dall’autore. Fenoglio ne venne ferito e dal quel momento non pubblicò più con Einaudi, salvo le opere postume.

Agostino Il protagonista del romanzo, il giovane e poverissimo Agostino, certo ispirato al sant’Agostino delle amate Confessioni – che influenzò quel Martin Lutero inventore del protestantesimo, vicino alla sensibilità dell’autore – viene spedito a fare il servitore in una famiglia di braccianti appena meno povera della sua. Si innamora, corrisposto, della silenziosa Fede, poi venduta in matrimonio. L’incipit ha un andamento classico e un respiro epico-cosmico: piove sulle Langhe (scritte con la minuscola, come una cosa domestica), ma piove sul Piemonte, piove sul mondo intero, come in un’apocalisse che dissolve qualsiasi legame comunitario, qualsiasi senso del sacro, qualsiasi vincolo religioso. La “malora” coincide infine con la modernità stessa, che ha disgregato il vecchio mondo contadino e i suoi valori. A essa si contrappone la buonora delle donne, lavoratrici indefesse, che continuano a pregare, che tengono viva la famiglia e la comunità. Come nel più classico romanzo di formazione Agostino matura resistendo alla “malora”, alla cattiva sorte e alla sventura abbattutasi sul suo mondo.

Lo stile La tecnica narrativa, tutt’altro che convenzionale, si avvale di numerosi flashback, pur conservando un ritmo stringente.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa spinge il protagonista Agostino a cambiare idea quando pensa di trovare «un gorgo profondo abbastanza»? ANALISI 3. Quale atteggiamento mostra Tobia nei confronti di Agostino? LESSICO 2. Che cosa vuol dire l’espressione «arrivato a scuro»? STILE 4. Rintraccia nel testo tutte le espressioni colloquiali.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

SCRITTURA

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

5. Il romanzo è stato scritto nel 1954, la vicenda è ambientata nelle Langhe e rievoca il mondo contadino dei primi anni del Novecento. Quale ti sembra la condizione della donna descritta? Quali sono gli elementi che ti fanno comprendere che siamo di fronte a una società patriarcale?

online T6 Beppe Fenoglio «D’inverno e d’estate, vicino e lontano…» Una questione privata

Resistenza come metafora 2 509


Beppe Fenoglio

T7

La ricerca della verità Una questione privata

Beppe Fenoglio, Tutti i romanzi, a c. di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2012

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Milton sta per catturare il milite fascista che gli servirà per lo scambio. La scena ha un ritmo cinematografico – ricordiamo che Fenoglio era stato accusato da Vittorini di imitare il “cinematografo”, come se questo fosse un limite della scrittura! –: prima si acquatta, poi balza sulla strada con la pistola in pugno.

Strisciava verso il termine dell’acacieto, fluido e silenzioso come un serpente. La sincronia era perfetta, la dislocazione ideale, nel senso che Milton strisciando anticipava di cinque secondi il sergente il quale marciava. L’impatto sarebbe avvenuto matematicamente alla confluenza della stradina con lo stradale e il sergente gli 5 avrebbe presentato con un centimetro quadrato di schiena tutto se stesso. Purché nulla interferisse, purché per cinque secondi il mondo si arrestasse, lasciando liberi loro due soli di muoversi. Era cosí facile che poteva farlo ad occhi chiusi. Si raccolse sulle ginocchia e balzò, compiendo nel volo una mezza torsione a sini10 stra. Gli piantò la pistola nel centro della schiena, tanto ampia che copriva la strada e quasi tutto il cielo. Per il contraccolpo la nuca del sergente quasi gli finí in bocca, poi subito gli scadde sotto il livello visivo, come l’uomo cedette sulle ginocchia. Lo rimise su e con un secondo urto della pistola lo fece ruotare nella stradina, al riparo delle acacie. Poi gli strappò la pistola dalla tasca gonfia del calore dell’inguine, 15 l’intascò, con ripugnanza gli tastò il torace e infine lo spinse su. – Intreccia le mani dietro la nuca. Subito dopo l’acacieto, dalla parte del paese, si profilava una proda di fango rossastro che riverberava sul viottolo un’ombra di tramonto. – Cammina svelto ma attento a non scivolare. Se scivoli io ti sparo tal quale facessi una 20 mossa falsa. Tu non l’hai veduta ma in mano ho una Colt. Sai che buchi fa la Colt? L’uomo saliva con passi estesi e ponderati. La strada già rampava, la ripa cresceva. L’uomo era poco meno alto di Milton e largo quasi il doppio. Milton non esaminò, non approfondí oltre, troppo ansioso di metterlo al corrente. – Vorrai sapere ciò che ti farò, – gli disse. 25 Il sergente tremò e tacque. – Ascolta. Non rallentare e ascoltami attentamente. Anzitutto non ti ammazzerò. Hai capito? Non ti am-maz-ze-rò. I tuoi camerati di Alba hanno preso un mio compagno e stanno per fucilarlo. Ma io lo scambierò con te. Dovremmo essere in tempo, tu ed io. Quindi tu verrai scambiato in Alba. Hai sentito? Di’ qualcosa. 30 Non rispondeva. – Di’ qualcosa! Biascicò un paio di sí, a testa rigida. – Quindi non fare scherzi. Non ti conviene. Se fai bene, domani a mezzogiorno sarai già libero in Alba, in mezzo ai tuoi. Hai capito? Parla. 35 – Sí, sí. Mentre Milton parlava, al sergente le orecchie si espandevano e ventolavano come ai cani quando si sentono chiamati da lontano. – Se mi costringi a spararti, ti sarai suicidato. Intesi?

510 Il Novecento (Prima parte) 10 Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana


– Sí, sí –. Teneva la testa rigida, quasi fissata, ma certo doveva roteare le pupille in ogni dove. – Non sperare, – disse Milton, – non sperare di incocciare una vostra pattuglia, perché in questo caso io ti sparo. Come la vedo io ti sparo. Quindi ti augureresti di morire. Parla. – Sí, sí. 45 – E di’ qualcos’altro che sí, sí. A valle del costone un cane abbaiò, ma d’allegria, non per allarme. Erano già quasi a un terzo dell’erta. – Non passerà, – disse Milton, – ma se passasse un contadino, tu subito ti porti sul ciglio della strada, dalla parte della ripa. Cosí quello può passare senza nemmeno 50 sfiorarti e a te non viene la pessima idea d’avvinghiarti a lui. Hai capito? Annuí con la testa. – È un’idea che può venire a chi sa di andare a morire. Ma tu non vai a morire. Attento a non scivolare. Io non sono rosso, sono badogliano. Questo ti solleva un pochino, eh? Spero tu ti sia già persuaso che io non ti ammazzerò. Non lo dico 55 perché siamo ancora troppo vicini a Canelli e c’è ancora la possibilità di sbattere in una vostra pattuglia. Piú in là ti tratterò anche meglio, vedrai. Hai sentito? E non tremare. Ragiona, che motivo hai piú di tremare? Se è per lo shock della pistola nella schiena, a quest’ora dovresti averlo già superato. Sei o non sei un sergente della San Marco? Eri anche tu di quelli che stamattina facevano i gradassi a Santo Stefano? 60 – No! – Non alzar la voce. Non m’interessa. E smettila di tremare, e di’ qualcosa. – E che vuoi che dica? – Andiamo già meglio. La stradina svoltava bruscamente e Milton si portò tutto su un lato per adocchiare 65 la faccia dell’uomo che aveva preso. Ma dopo, a causa dei gomiti spianati all’altezza del viso e per l’ondulamento del passo, non poté dire d’aver colto di piú che una spera d’occhio grigio e il naso, piccolo e marcato. Non ne fu contrariato, in fondo non gli interessava. La sua faccia non gli interessava come non avrebbe interessato il comando fascista di Alba che l’avrebbe riscattato. Non importava nemmeno che 70 fosse un graduato. Bastava che fosse un uomo, con indosso una certa divisa. Ma che uomo, e che divisa! Milton esaminava con soddisfazione, quasi con dolcezza quel corpo greve ed elastico ed era, per la prima volta, in amicizia con quella uniforme, amico persino degli scarponi sui quali camminava al traguardo fissato da lui Milton. Che grossa moneta di scambio, quale capacità di acquisto rappresentava! Si sorprese 75 a pensare che per un sergente come quello il comando fascista gliene avrebbe venduti tre di Giorgi. Ma nel medesimo istante si sorprese a pensare che l’uomo aveva certamente ucciso, o meglio aveva certamente fucilato. Aveva tutto del fucilatore. Gli si arrossarono davanti agli occhi le facce smunte e infantili dei ragazzi fucilati, i loro nudi petti, magri che lo sterno vi sporgeva come una prua. Oh, questa era un’altra 80 verità da non poter stare senza sapere. Ma non gliel’avrebbe chiesta. Quello tanto avrebbe negato, disperatamente; forse, premendolo con la Colt, avrebbe confessato di aver ucciso sí, ma in regolare combattimento. Ma poi questa inchiesta di Milton avrebbe certamente complicato le cose, il cammino a Mango sarebbe certamente stato meno liscio e sollecito di quel che Milton ora cominciava a sperare. La verità 85 su Fulvia aveva la precedenza assoluta, anzi esisteva essa sola. 40

Resistenza come metafora 2 511


– Togliti dalla testa le pattuglie, – gli disse con voce dolce, quasi ipnotica. Prega che non ce ne siano in giro. Io non ti ammazzerò, ma ti proteggerò, non lascerò che alzino un dito su di te. Da noi c’è gente scottata e vorranno metterti le mani addosso, ma dovranno lasciarti in pace. Tu servi a una cosa sola. Te ne sei 90 convinto? Parla. – Sí, sí. – Di dove sei? – Di Brescia. – Siete in molti bresciani. E ti chiami? Non rispondeva. 95 – Non vuoi dirmelo? Hai paura che me ne vanti? Non parlerò mai di te, né ora né fra vent’anni. Non me ne vanterò mai. Tientelo pure per te. – Alarico, – disse il sergente a precipizio. – Di che leva sei? – Del ventitré. 100 – La leva del mio compagno. Coincidiamo anche in questo. E che facevi nella vita? Non rispondeva. – Studente? – Ma no! La proda degradava rapidamente, ora si annullava e la strada affiorava in piena 105 vista sul versante. Milton sbirciò in basso Canelli e lo vide meno distante di quanto calcolasse. Il paese gli venne su sotto gli occhi, come su una piattaforma elevatrice. – Passa all’interno. Cammina rasente alla proda. Un’altra svolta a gomito, ma stavolta Milton non fece nulla per scoprirgli una maggior parte di faccia, anzi per negazione chinò gli occhi. 110 Il sergente ansimava. – Siamo piú che a metà, – disse Milton. – Dovresti rallegrarti. Ti avvicini sempre piú alla salvezza. Domani a mezzogiorno sarai libero, e potrai tornare contro di noi. E chissà che tu non mi renda il pane. Proprio tu ed io. Non è da escludere, col tipo di guerra che facciamo. Tu naturalmente non mi scambierai, eh? 115 – No, no! – stronfiò il sergente. Piú che negare implorava. – Perché scandalizzarsi? Non credere che io ti considererei piú crudele di me. Ognuno avrà cavato il massimo dall’altro. Io ne caverò uno scambio, tu ne caverai la mia pelle. Saremmo perfettamente alla pari. Quindi... – No, no! – ripeté quello. 120 – Lasciamo perdere. Dicevo per scherzare, per divagare. Pensiamo al momento. Ti ho detto che ti proteggerò. Appena arrivati ti farò mangiare e bere. Ti regalerò un pacchetto di sigarette. Inglesi, per te una novità. Ti darò anche da farti la barba. Voglio che ti presenti bene al comando di Alba, hai capito? – Lasciami abbassare le mani. 125 – No. – Le terrò strette contro i fianchi come se fossi legato. – No, ma poi ti tratterò meglio. Stanotte dormirai in un letto. Noi dormiamo sulla paglia ma tu dormirai in un letto. Mi metterò io stesso di guardia davanti alla porta, cosí siamo sicuri che nel sonno non ti capiteranno scherzi. E domattina per lo 130 scambio ci accompagneranno i migliori dei miei compagni. Li sceglierò io. Vedrai. Io non ti sto trattando male. Di’, ti sto trattando male? – No, no.

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– Vedrai quegli altri. Al confronto io sono un bruto. Erano quasi alla cresta. Milton sbirciò l’orologio. Mancava qualche minuto alle due, 135 per le cinque sarebbero stati a Mango. Sbirciò giú a Canelli e gli prese una breve vertigine, in cui non sapeva se concorreva di piú la stanchezza o l’inedia o il successo. – Tu ed io siamo a posto ormai, – disse. A quelle parole il sergente si arrestò netto e gemette. Milton si riscosse e strinse meglio la pistola. – Ma cos’hai capito? Hai capito male. 140 Non tremare. Non ti voglio ammazzare. Né qui né altrove. Non ti ammazzerò mai. Non farmelo piú ripetere. Sei convinto? Parla. – Sí, sí. – Ricammina. Si inerpicarono sullo spiazzo e presero a percorrerlo. Pareva a Milton piú vasto di 145 quel che gli fosse apparso nella mattina. Milton sbirciò alla casa solitaria, muta, chiusa e indifferente come nella mattina. Il sergente ora camminava alla cieca, sgambava nel fango senza evitare i cardi selvatici. – Aspetta, – disse Milton. – No, – fece quello, arrestandosi. 150 – Piantala, eh? Stavo pensando a una cosa. Ascolta. Dovremmo passare in un paese che ha un nostro presidio. Naturalmente anche lí c’è gente scottata. In particolare ci sono due miei compagni ai quali avete ammazzato i fratelli. Non dico siate stati voi San Marco. Quelli vorranno mangiarti il cuore. Quindi noi scarteremo quel paese, lo aggireremo per un vallone che so io. Ma tu non farmi... 155 Le dita del sergente si slacciarono da sulla nuca con uno schiocco terribile. Le braccia remigavano nel cielo bianco. Cosí sospeso, era tremendo e goffo. Volava di lato, verso il ciglio, e il corpo già pareva arcuarsi nel tuffo in giú. – No! – aveva gridato Milton, ma la Colt sparò, come se fosse stato il grido ad azionare il grilletto. 160 Ricadde sulle ginocchia, e stette per un attimo, tutto contratto, con la testa appiattita e il naso piccolo e marcato come conficcato nel cielo. Pareva a Milton che la terra non c’entrasse, né per lui né per l’altro, che tutto accadesse in sospensione nel cielo bianco. – No! – urlò Milton e gli risparò, mirando alla grande macchia rossa che gli stava 165 divorando la schiena.

Analisi del testo La verità Dalla custode, impaurita da tutta la situazione, Milton scopre che il suo migliore amico, Giorgio Clerici, «il più bel ragazzo di Alba», anch’egli partigiano, era stato probabilmente l’amante di Fulvia. L’amico-rivale è stato catturato dai fascisti e sta per essere fucilato. Allora, per sapere la verità di quella relazione, Milton decide di catturare un soldato dell’Esercito Nazionale Repubblicano della RSI per poterlo utilizzare in uno scambio di prigionieri e così interrogare Giorgio. Riesce a catturare un sergente della divisione “San Marco”, dopo averlo disarmato e rassicurato sulle proprie intenzioni, ma questi, terrorizzato, prova a fuggire. Milton è costretto a ucciderlo per non essere denunciato. Giorgio non sarà mai liberato, e così la verità della relazione con Fulvia non si saprà mai.

La lingua e lo stile Rispetto al Partigiano Johnny qui non ritroviamo il “fenglese”, quel singolare impasto linguistico in cui l’inglese viene ripreso, deformato e ibridato. In questo caso Fenoglio non

Resistenza come metafora 2 513


ha redatto la prima versione in inglese, per reagire alla retorica dannunziana e alla lingua altisonante del regime. Per Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny – che dovevano comporre un ideale distico narrativo – aveva puntualizzato: «Questa volta scrivo prima di tutto in inglese e poi traduco in italiano. Otterrò una lingua nuova, originale, agile, veloce, secca». Una questione privata è subito scritta in italiano, e come si vede da questo brano si tratta di una lingua che aspira all’“oggettività”, fatta di descrizione e soprattutto di dialoghi, tanto da far pensare in certi momenti a una sceneggiatura. Una prosa al tempo stesso referenziale, cioè capace di aderire a ogni dettaglio della realtà, e fortemente lirica, evocativa. Quando Milton cerca di adocchiare il volto del fascista catturato, Fenoglio scrive: «Ma dopo, a causa dei gomiti spianati all’altezza del viso e per l’ondulamento del passo, non poté dire d’aver colto di piú che una spera d’occhio grigio e il naso, piccolo e marcato». Con i «gomiti spianati all’altezza del viso» ci troviamo in pieno verismo, ma quella «spera d’occhio grigio» potrebbe essere il verso di un componimento. Mentre la conclusione, inattesa e drammatica, si traduce in uno stile epico-visionario: «Pareva a Milton che la terra non c’entrasse, né per lui né per l’altro, che tutto accadesse in sospensione nel cielo bianco».

Una ricerca ossessiva Al di sopra della vicenda umana, al di sopra della Storia, scorre una vicenda più ampia, e anzi infinita e ciclica, sotto un irraggiungibile cielo tolstojano che tutti ci sovrasta. Lo sfondo è ancora la guerra partigiana ma entro questa si incunea appunto una “questione privata”, la ricerca della verità sull’amore, sull’amata Fulvia. Una ricerca ossessiva, insensata, che condurrà Milton alla morte. Spingendo il fascista con la pistola puntata sulla schiena si incamminano entrambi per un sentiero nel bosco: «Subito dopo l’acacieto, dalla parte del paese, si profilava una proda di fango rossastro che riverberava sul viottolo un’ombra di tramonto». Il fango è ricorrente in queste pagine elemento imprescindibile e conflittuale del paesaggio (a sua volta protagonista del romanzo): il fango come resistenza della realtà, la quale non obbedisce docilmente ai nostri desideri, e anzi ci costringe a cambiare direzione continuamente. L’adolescente Milton, come dentro una favola antica, ci sembra un eroe in guerra con tutto il mondo, per conquistare il premio agognato, appunto la verità su Fulvia. Lotta contro i fascisti, contro la natura, contro la nebbiosa ambiguità delle cose, contro immaginari rivali d’amore… Si tratta di una vera e propria epica del fango, come la descrive Lauretano (La prima scelta): «si ferma all’asciutto in una rara pausa del viaggio solo perché gli secca di doversi infangare di nuovo; mentre sale o scende le colline gli si attacca agli scarponi, rallentandone l’andatura e costringendolo a scrostarsi continuamente le suole; capita addirittura che metta mano nella fondina e, anziché la pistola, trovi sotto le dita solo qualche schizzo di fango; quando fugge il suo passo, come un cavallo, saetta fango dai fianchi. Viene ricoperto di fango perennemente: i vestiti, le armi, le scarpe, la faccia e le mani sono sempre sul punto di scomparire. Sembra Adamo, tratto dal fango con un soffio vitale; lo stesso soffio che il fango contribuisce spietatamente a spegnere nel finale. Il fango è il vero antagonista del partigiano».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza l’episodio in max 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quale idea fissa ossessiona il protagonista? ANALISI 3. In che modo la situazione in cui si trova Milton influenza la sua visione della realtà? 4. Quale stato d’animo mostra Milton nel colloquio con il sergente? 5. Analizza e commenta i passaggi in cui Milton si riferisce ai suoi compagni partigiani e i momenti in cui parla invece dei militi fascisti come il sergente che ha catturato.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 6. Lo sfondo del brano è la guerra partigiana ma entro questa si incunea appunto una “questione privata”, la ricerca della verità sull’amore, della verità dell’amata Fulvia, una ricerca ossessiva, insensata che genera una gelosia assillante che fa sì che Milton perda la sua lucidità. Ti è mai capitato di provare un sentimento del genere? Come lo hai gestito? Ti viene in mente un episodio della letteratura italiana che hai letto in cui il protagonista perde il senno per amore? Quali gesti compie?

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La letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 1 La speranza di un’Italia migliore Cari compagni, ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

online

Audio Letture di lettere di condannati a morte della Resistenza

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Audio La celebrazione epica della Resistenza: Roma città aperta

Il messaggio d’addio ai compagni, scritto da Giordano Cavestro (Mirko), partigiano diciottenne, prima di essere fucilato, fa parte delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, uno dei libri che meglio aiutano a comprendere gli ideali che animavano i partigiani. Le testimonianze di chi (in prevalenza giovani e giovanissimi) ha affrontato la condanna a morte, orgoglioso di aver partecipato, con il proprio sacrificio, a edificare un’Italia migliore, ci inducono a riflettere ancora oggi sui valori per cui i partigiani combattevano. È questo, appunto, il senso della rievocazione che ogni anno si tiene il 25 aprile, il giorno che, nel 1945, fu cruciale per la liberazione dal nazifascismo. Eppure ogni anno l’anniversario della Liberazione dà luogo a roventi polemiche e contrapposizioni ideologiche, come se alla Resistenza non corrispondesse ancora nel Paese una memoria condivisa. Certamente la Resistenza è un fenomeno molto complesso: da un lato è stata guerra patriottica contro gli occupanti tedeschi, capace di unire classi borghesi e popolo, intellettuali e illetterati, persone appartenenti a partiti politici diversi, ma è stata anche tragica guerra civile tra fascisti e antifascisti, che ha dilaniato il Paese portando lo scontro persino dentro uno stesso nucleo familiare. Inoltre, il corso della storia italiana, nei decenni intercorsi dalla Resistenza, ha inevitabilmente inciso sull’interpretazione della guerra partigiana e sul modo di ricordarla. Il momento immediatamente successivo alla guerra è quello in cui la Resistenza, circonfusa dell’alone glorioso ed eroico che sentiamo così vivo nelle lettere dei partigiani, dà luogo a un vero e proprio mito di fondazione di un’Italia nuova, a cui partecipa anche la letteratura: è un momento storico di entusiasmo, di grande fiducia nel rinnovamento del Paese. Come scrive Calvino nella Presentazione a Il sentiero dei nidi di ragno: «Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità». La letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 3 515


Gli intellettuali, lontani tradizionalmente in Italia dal popolo, si erano trovati per la prima volta, nella lotta antifascista, a vivere i problemi concreti di un Paese allo sbando, a condividere con il popolo rischi e scelte drammatiche, come ricorda lo scrittore Guido Piovene (1907-1974): «Ho imparato in quei mesi in che cosa consista quell’essenziale colleganza tra gli uomini, così difficile per solito a noi letterati». Nasceranno da qui i romanzi e racconti sulla Resistenza, da autori che l’avevano personalmente vissuta, come Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino o le opere di Fenoglio. La letteratura sulla Resistenza I romanzi sulla Resistenza ci mostrano però anche l’altra faccia della medaglia: i dubbi, le confessioni di intellettuali incapaci di passare all’azione con la decisione che gli eventi avrebbero richiesto; di qui figure come quella di Enne 2 di Uomini e no di Elio Vittorini che, vinto da un nichilistico spirito di rinuncia, affida la continuazione della guerriglia a un operaio; e di Corrado in La casa in collina di Cesare Pavese, reso irresoluto dalla sua abitudine all’autoanalisi dubitativa, nel quale si rispecchia l’autore stesso. La testimonianza più toccante del passaggio da una vita dedita agli studi all’azione richiesta dai tempi difficili è quella di un giovanissimo studioso, Giaime Pintor, che non sopravvisse alla Resistenza, trovandovi la morte nel 1943, e che scriveva al più giovane fratello Luigi, divenuto in seguito un noto giornalista: «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari. […] Ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo».

2 L’Agnese va a morire: un’eroina popolana Il popolo nella guerra partigiana Roma città aperta mette in evidenza un elemento nuovo e fondamentale della Resistenza: la partecipazione popolare. Un personaggio del popolo è al centro anche di uno dei romanzi più noti del neorealismo, L’Agnese va a morire (1949). L’autrice, Renata Viganò (Bologna 1900-1976), di estrazione borghese, costretta per vicissitudini familiari a interrompere gli studi liceali e a lavorare come infermiera, vi riversa la propria esperienza della lotta partigiana a cui aveva partecipato con il marito, militante comunista. La trama Agnese, un’anziana contadina e lavandaia, dà ospitalità insieme al marito Palita, antifascista, a un soldato fuggito dopo l’8 settembre. Per una delazione delle vicine, che simpatizzano per i fascisti, Palita viene arrestato e muore durante il trasporto verso un campo di concentramento. Agnese comincia a operare come staffetta, in aiuto dei partigiani; un giorno un tedesco, ospite delle vicine, le uccide la gatta, caro ricordo del marito: lei non esita a colpirlo con il calcio di un fucile. Convinta di averlo ucciso, si unisce ai partigiani delle valli di Comacchio, condividendone la durissima vita, in una natura ostile, tra fango, piogge, neve, paludi gelate, percorrendo chilometri con la sua bicicletta e affrontando, con il suo fisico pesante e consumato dagli anni, sfiancanti fatiche e continui rischi di morte.

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Alla fine, catturata dai tedeschi insieme ad altri civili, proprio mentre sta per essere liberata, è riconosciuta e massacrata dal soldato che credeva di aver ucciso. La protagonista e la sua guerra Il titolo del libro, preannunciando la morte della protagonista, fa già intravedere l’ottica in cui viene trattato il tema della Resistenza: il sacrificio. Nella guerra partigiana la protagonista del romanzo, Agnese, spinta da un senso di giustizia istintivo, e temprata da una vita di stenti e di sacrifici, perde senza mai lamentarsi tutto ciò che possiede: il marito, la casa, le sue povere cose, e in ultimo la vita. Nella conclusione del romanzo, la vediamo vittima della violenza dei soldati tedeschi: «L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve». L’aspetto più innovativo del romanzo, edito quattro anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, è proprio nella figura della protagonista, anziana donna dal carattere diffidente e aspro, ma pronta ad assumersi i compiti più gravosi e pericolosi (anche perché insospettabile come partigiana) e a sacrificarsi per i più giovani compagni, per i quali diviene come una madre: emblema del contributo alla Resistenza di chi fino a quel momento era rimasto ai margini della storia: il popolo e le donne. Il racconto di un periodo tragico Rispetto ad altre opere resistenziali, il libro trasmette in modo diretto, con uno stile asciutto e realistico, la tragicità di un periodo in cui si poteva assistere alle atrocità più disumane (gli impiccati lasciati appesi per le strade; i tedeschi, che, per rappresaglia, non solo bruciano la casa di Agnese, ma massacrano i vicini che pure li avevano appoggiati), e in cui, per reazione, anche l’individuo più pacifico era costretto a essere spietato. I limiti del romanzo Il punto debole del libro, come di altre opere del neorealismo, è invece nella semplificazione ideologica, legata all’epoca in cui fu scritto, ancora a ridosso della guerra. Di certo, con lo sguardo di oggi, appare evidente una concezione “manichea”, per cui tutto il bene è dalla parte dei partigiani e il male dall’altra. Appare inoltre oleografica la raffigurazione del Partito comunista, che offre riscatto alla povera e sfruttata Agnese. Una mitizzazione che oggi, alla luce della storia, appare quantomeno ingenua.

online T8 Renata Viganò

La presa di coscienza di Agnese L’Agnese va a morire

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3 La crisi della fiducia in un cambiamento della società italiana Dallo slancio propositivo al clima di delusione del 1948 Nel dopoguerra, ben presto la fiducia in un profondo rinnovamento della società italiana e lo slancio propositivo innescato dalla Resistenza si affievoliscono, come letteratura e cinema testimoniano. Un vero e proprio spartiacque è il 1948, quando le elezioni del 18 aprile, nel contesto internazionale della guerra fredda, vedono un aspro scontro tra i cattolici e le sinistre (con una sconfitta di queste ultime): lo spirito di collaborazione che aveva caratterizzato l’esperienza resistenziale appartiene ormai al passato. Il rovesciamento dell’ottimismo post-resistenziale in La luna e i falò Il romanzo che più di ogni altro riflette questo clima è La luna e i falò di Cesare Pavese – scritto all’indomani di queste elezioni, nel 1949, e pubblicato l’anno dopo –, in cui si immagina che il protagonista Anguilla, dall’America, dove era emigrato, torni nel suo paese natale delle Langhe all’indomani della guerra partigiana (➜ C6). Il quadro che gli si rivela è l’esatto rovesciamento di quello offerto dalle opere neorealistiche celebrative della Resistenza: la miseria dei contadini non è stata mitigata, anzi si è aggravata al punto da trascinare Valino, mezzadro del podere in cui Anguilla era cresciuto, alla disperazione e alla follia, culminate nel massacro della famiglia e nell’incendio della casa. Né resta alcuna traccia della solidarietà antifascista, poiché, alla scoperta dei corpi di due repubblichini uccisi, il prete approfitta del funerale per tuonare contro il pericolo comunista. Lo stesso titolo del romanzo, che evoca il tempo ciclico della natura (la luna) e della tradizione contadina (i falò), vanifica l’idea di un corso lineare e progressivo della storia, proteso verso un avvenire migliore: gli stessi falò delle feste paesane, immagine festosa nel ricordo di Anguilla, ricordano in modo inquietante i falò della guerra, come quelli del corpo della giovane e bellissima Santina (giustiziata dai partigiani come spia fascista) e della casa e della famiglia di Valino: i falò divengono così emblema della cieca violenza della storia, non riscattata da alcun senso o scopo. Il distacco dall’esperienza partigiana Negli anni Cinquanta-Sessanta subentra un progressivo ripensamento critico della Resistenza, e prende sempre più corpo l’idea che il Paese non abbia saputo raccoglierne le istanze rinnovatrici. Molte opere letterarie testimoniano questo senso di distacco da un passato non più mitizzato. L’immagine epica stessa della guerra partigiana è messa in questione in un romanzo, La ragazza di Bube, scritto da Carlo Cassola (1917-1987) e pubblicato con straordinario successo nel 1960, dedicato alla storia di un ex partigiano, detto Bube, il quale, nell’immediato dopoguerra, in un alterco con un prete che voleva impedire a lui e ad alcuni suoi compagni di entrare in chiesa col fazzoletto rosso dei comunisti al collo, uccide un maresciallo, insieme al figlio. Arrestato e incarcerato, si rende conto di come durante la Resistenza il partito lo avesse spinto alla violenza e alla vendetta. Questa figura di partigiano, disceso dal piedistallo eroico su cui la letteratura neorealistica lo aveva collocato, è rappresentata come un ragazzo fragile e inconsapevole, manovrato dai compagni che lo esaltano soprannominandolo “Vendicatore”, ma che saranno i primi ad abbandonarlo. Solo la sua ragazza, Mara, capace di aspettarlo per i lunghi anni della prigionia, gli mostrerà i valori che per l’autore contano davvero: l’affetto e la fedeltà.

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4 I partigiani antieroici di Meneghello La Resistenza incompiuta dei «piccoli maestri» Sempre negli anni Sessanta, la Resistenza è rievocata con un distacco critico venato di ironia nel romanzo I Piccoli maestri di Luigi Meneghello (1922-2007 ➜ RIMANDO?) del 1964, poi rivisto nel 1976 e ancora nel 1986 (stesura in cui lo leggiamo). Il libro si apre con un episodio posteriore alla guerra, quando il protagonista, tornando con l’amica Simonetta sull’altopiano di Asiago, nei luoghi dove era sfuggito a un feroce rastrellamento fascista, vi riscopre il suo fucile mitragliatore, lasciato cadere nella fuga: l’abbandono dell’arma (motivo di ascendenza classica, da Archiloco a Orazio) offre fin dall’inizio un’immagine antieroica del protagonista («Non eravamo mica buoni, a fare la guerra»), di cui la narrazione ripercorre poi le vicende dal servizio militare a Tarquinia, all’8 settembre 1943, alla partecipazione alla Resistenza – con una piccola banda di giovani intellettuali vicentini, vicini al Partito d’Azione – sino all’insurrezione finale di Padova. Al racconto si alternano considerazioni dello scrittore, che, a distanza di vent’anni cerca di decifrare il senso di quell’esperienza, esaltante ma per certi aspetti fallimentare. La società italiana «non è stata smontata» come il protagonista aveva ingenuamente sperato, non si è rinnovata a fondo; i popolani, dopo aver combattuto fianco a fianco dei borghesi per la libertà, superandoli per pragmatismo e iniziativa, sono stati ricacciati nella loro secolare esclusione e miseria: «Per uccidere la povertà», osserva profeticamente il protagonista, «dovranno sfasciare l’Italia». Il senso di colpa dell’intellettuale In queste riflessioni aleggia il senso di colpa dello scrittore per aver fallito come intellettuale («è stata tutta una serie di sbagli, la nostra guerra; non siamo stati all’altezza. Siamo un po’ venuti a mancare a quel disgraziato del popolo italiano»), proprio nel momento in cui, con un’azione più decisa, forse un cambiamento sarebbe stato possibile («Gli istituti non c’erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora»). L’itinerario di formazione: dalle parole alle cose Non manca però nella rivisitazione a posteriori dell’esperienza della Resistenza compiuta dallo scrittore un elemento positivo che percorre tutto il libro: la guerra partigiana è stata per il protagonista un formidabile itinerario di maturazione, che lo ha guarito almeno in parte dai guasti della sua educazione scolastica e della giovanile adesione al fascismo. Nella lotta partigiana il rapporto cameratesco con i ragazzi del popolo, avvezzi a un approccio alla vita molto più concreto, ha indotto il protagonista a superare a poco a poco la sua astrattezza intellettuale per prendere contatto con le cose (è emblematica la pagina in cui si rende conto che in dialetto certi termini non esistono, segno della natura fittizia dei problemi che a essi fanno riferimento); ad agire, spesso sbagliando, ma crescendo; a percepire il mondo reale, «infinitamente più complesso degli schemi trasmessi a noi dai filosofi e dai poeti»; ad aprirsi alla natura nel magnifico altopiano di Asiago, che da allora per lui è rimasto un simbolo di libertà. Il carattere della particolare guerra dei protagonisti, lotta contro i nemici, ma anche con se stessi, è ben sintetizzato dal titolo: l’appellativo maestri, che nel campo artigianale si conquista dopo un apprendistato, nel romanzo è applicato ai giovani partigiani, ma è ironicamente ridimensionato dall’aggettivo piccoli: eravamo «catecumeni, apprendisti italiani».

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L’ironia Lo scrittore si pone (come è caratteristico di alcuni romanzi di formazione) con un atteggiamento di distacco critico di fronte al sé stesso del passato, ancora immaturo e intriso di ingenue convinzioni sulla vita e sulla realtà. Di qui la cifra stilistica prevalente nel libro, l’ironia, che fa da controcanto sia alla cultura letteraria dello scrittore («Mentre russi e alleati tiravano il collo al nazismo, noi cercavamo almeno di tirarlo alla retorica») sia al divario tra velleità rivoluzionarie e incapacità pratica, che caratterizza lui e tutto il suo gruppetto di studenti vicentini di buona famiglia. La reticenza e le ellissi narrative All’ironia, segno di una presa di distanza dalle emozioni, si accompagna nel romanzo un atteggiamento stilistico affine, ma diverso nelle motivazioni: la reticenza. Il ricordo della guerra partigiana, non riscattata dall’aura epica in cui la solleva Fenoglio, resta con il suo carico di violenza e di morte, che lo scrittore esorcizza attraverso lo stile, caratterizzato da ellissi, a coprire immagini troppo angoscianti: così il protagonista dichiara di non voler raccontare come lui abbia giustiziato un maggiore fascista: «lo vidi entrare nel mio mirino, coi suoi tristi pensieri; e lì in questo cerchietto di ferro lo voglio lasciare». In un altro passo così lascia intravedere il destino di uno dei compagni, per lo più rappresentati in momenti allegri e spensierati: «Eravamo in nove, contando anche Rodino che era di Vicenza, ma non so bene come stesse con gli studi; del resto entro qualche settimana una mattina, a pochi passi da me, glieli troncarono».

Sguardo sul cinema I piccoli maestri, il film Lo spirito leggero e antiretorico del libro di Meneghello è ripreso nel film omonimo di Daniele Luchetti (1997) con Stefano Accorsi nella parte del protagonista e Marco Paolini in quella di Antonio Giuriolo. La drammaticità delle scene di guerra è stemperata dalle scene umoristiche e dal gusto delle battute dei giovani partigiani di buona famiglia, ingenui e idealisti, che nell’incantevole scenario dell’altopiano di Asiago, messo in risalto dalla splendida fotografia, trascorrono un momento irripetibile della loro giovinezza, in bilico tra un’allegra e spensierata vacanza e l’esperienza della morte data e ricevuta, con lo strazio della perdita degli amici più cari.

La locandina del film I piccoli maestri (1997) di Daniele Luchetti.

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Luigi Meneghello

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Il confronto tra bande: partigiani comunisti e azionisti I piccoli maestri

L. Meneghello, I piccoli maestri, Rizzoli 1998

Il piccolo gruppo partigiano a cui appartiene il protagonista, prima di trasferirsi sull’altopiano di Asiago, opera nel Bellunese, nella valle del Mis in cui si trova il paese di California. Qui, alla presenza di Antonio Giuriolo, l’intellettuale organizzatore della banda, avviene l’incontro con un gruppo di partigiani comunisti.

Un giorno arrivò in California un reparto di comunisti. Erano meravigliosi. Laceri, sbracati, sbrigativi, mobili, franchi: questi qui, pensavo, sono incarnazioni concrete delle Idee che noi cerchiamo di contemplare, sbattendo gli occhi. Eravamo tutti impregnati di questi concetti allora: dicevamo che le idee si calano nelle cose. Saranno 5 stati una quarantina; arrivarono buona parte in fila, il resto alla spicciolata. Avevano armi, non tante ma buone; uno portava in groppa una mitragliatrice pesante e altri lo seguivano con le cassette; avevano i fazzoletti rossi, le scarpe rotte, i visi lieti e feroci. Ce n’era di giovani e di vecchi, di robusti e di scanchènici1, ma insieme facevano un Ente palesemente vitale, una Banda in cui al primo sguardo si ricono10 sceva calata l’Idea della Banda. Si accamparono in un baleno, un attimo prima del buio; non era un accampamento formale; in quattro e quattr’otto avevano tirato su qualche tenda, occupato un paio di stalle, piantata la mitragliatrice al bivio sopra il paese, provvisto un po’ di viveri e disposto un servizio di guardia. Tutto era molto alla buona ma funzionava. Venivano da tutt’altra zona, in cammino avevano fatto 15 fuori una camionetta tedesca; erano diretti per l’indomani verso oriente, e contavano di farsi2 qualche altro tedesco per strada; poi sarebbero tornati indietro, o forse andati avanti, o forse ancora scesi verso la pianura, o risaliti verso le Alpi Alte. Si muovevano, provvedevano ai propri bisogni improvvisando, improvvisavano tutto; non avevano nessun piano prestabilito, e facevano la guerra un giorno qua un gior20 no là. Eravamo annichiliti di ammirazione; si sentiva di colpo, al solo vederli, che la guerra partigiana si fa così. Bisogna desumere questi schemi culturali là dove si trovano, pensavo; questi qui li avranno desunti dagli slavi3; noi dovremo desumerli da loro. Ma come fare? con chi? Naturalmente il loro materiale umano era più adatto del nostro. C’erano alcune facce da galera tra loro: riconoscevo l’impianto di faccia 4 25 dei lazzaroni del mio paese, gente già abituata fin dal tempo di pace al coltello, agli spostamenti notturni, anche allo scasso e all’effrazione. Del resto c’erano anche facce di popolani d’ordinaria amministrazione, gente normalmente pacifica e posata: si vedeva che erano tutti come sulla cresta di un’onda impersonale di energia. C’era Antonio5 con noi, era venuto a fare una specie di sopraluogo. Volevo dirgli: 30 “Toni, i partigiani del popolo sono loro”; ma non osavo. Andammo, con Antonio, in tre o quattro a conoscere il comandante. Due armati andarono a riferire. Dopo un po’ si vide venire avanti per il sentiero, tra sgherri mitrati6, un uomo piuttosto giovane, 1 scanchènici: magri, deboli (voce di origine dialettale veneta). 2 farsi: qui: uccidere, con espressione del parlato.

3 dagli slavi: dai partigiani della Jugoslavia. 4 lazzaroni: plebei cenciosi, pezzenti. 5 Antonio: Antonio Giuriolo (1912-1944). Antifascista, fu uno dei primi organizzatori delle bande partigiane in Veneto; si

spostò poi a combattere nell’Appennino tosco-emiliano; fu ucciso in combattimento nel 1944. 6 sgherri mitrati: guardie del corpo armate di mitra.

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robusto, disinvolto. Aveva scritto sul viso: Comandante. Aveva calzoni da ufficiale, il cinturone di cuoio, il fazzoletto rosso. Era ben pettinato, riposato, sportivo, cordiale. 35 Antonio era vestito alla buona, con la sua aria dimessa e riservata; pareva un escursionista. II comandante avanzò sorridendo, a due metri si fermò, col pugno sinistro in aria, e disse allegramente: «Morte al fascismo». Vibrava di salute, fierezza, energia. Toni un po’ imbarazzato disse: «Piacere, Giuriolo», e gli diede la mano in quel suo curioso modo, con le dita accartocciate. Uno meglio dell’altro. Provavo fitte di 40 ammirazione contraddittorie. Seduti sopra un dosso7 elevato, dalla nostra parte della valle, io Bene Lelio e Nello8, guardando le macerie che fumavano lì sotto, ragionavamo dell’etica della guerra dei ribelli. Passati questi comunisti, erano restate queste macerie. Coinvolgere la povera gente, diceva uno, è un po’ troppo facile; ciascuno fa il suo gioco, diceva un altro, 45 chi fa il ribelle, e chi fa il tedesco e brucia le case alla gente. Cominciavamo a conoscere questa gente; conoscevamo le loro povere case, il cibo fatto di polenta e un tegame di radicchi in mezzo alla tavola, da cui si attingeva collettivamente. Era uno strazio vederle bruciare, queste case. Lelio disse: «Andiamo sulle montagne alte, là non c’è gente». Il nostro Altipiano9 è così, montagna alta. 7 dosso: rilievo, piccola altura. 8 Bene… Nello: amici e compagni partigiani del protagonista. 9 Altipiano: l’altopiano di Asiago, dove poi si recherà il gruppo.

Analisi del testo Le diversità tra comunisti e azionisti Dal passo emerge anzitutto una differenza tra gruppi partigiani, un tema che accomuna Meneghello a Fenoglio: i giovani del Partito d’Azione, tra cui il protagonista-narratore, ancora incerti e confusi, ma sensibili alle questioni morali (come emerge dalla loro discussione se sia il caso di provocare rappresaglie con le loro azioni), sono contrapposti alla banda comunista, composta da popolani sbracati, alcuni dalle facce poco raccomandabili, ma pratici, decisi ed efficienti. Il confronto tra azionisti e garibaldini percorre tutto il libro, che dei comunisti, in positivo, evidenzia l’onestà e la buona fede, in negativo l’eccessivo schematismo ideologico. In un passo successivo del romanzo l’autore mette ancora più esplicitamente in luce la diversità tra la strategia bellica comunista e quella di Giustizia e Libertà: «I comunisti sparavano di più, e guastavano con mano più pesante; ma noi avevamo più vivo il senso delle conseguenze dei guasti e degli spari».

Il punto di vista ingenuo del narratore In questo episodio, tuttavia, l’intento principale non è dare conto delle differenze tra le bande, quanto mettere in luce, in modo autoironico, l’ingenuità del protagonista, il cui acritico entusiasmo è rimarcato dall’aggettivazione sovrabbondante, riflesso di uno sguardo annichilito di ammirazione di fronte all’attivismo dei comunisti. Il linguaggio del narratore rivela comicamente la sua formazione teorica e astratta, nutrita dell’idealismo filosofico di Croce e di Gentile (nei comunisti «al primo sguardo si riconosceva calata l’Idea della Banda»), ma ora messa alla prova da una realtà che si impone con la sua crudezza: i garibaldini tanto ammirati se ne sono andati, ma le loro audaci iniziative hanno provocato pesanti rappresaglie contro i contadini, le cui case sono state distrutte e incendiate.

Il tema dell’intellettuale nella Resistenza La medesima scelta di filtrare gli eventi attraverso lo sguardo del protagonista, inesperto studente universitario, traspare anche nel modo in cui è presentato Antonio Giuriolo (19121944), l’intellettuale antifascista ispiratore della banda (di cui Meneghello tratteggia uno splendido ritratto in un altro suo libro, Fiori italiani del 1976). Il protagonista, imbevuto di

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concetti astratti che fanno schermo alla realtà anziché chiarirla, non è ancora in grado di cogliere la lezione di stile e di sobrietà di Giuriolo (che allo slogan enfatico del comandante comunista risponde con una semplice stretta di mano), come rivelano le «fitte di ammirazione contraddittorie» che gli fanno ugualmente ammirare il disinvolto capo garibaldino e quello che in Fiori italiani avrebbe riconosciuto come il suo unico, vero maestro.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa il protagonista apprezza dei partigiani comunisti? 2. Quali sono le azioni dei comunisti? Cosa succede dopo che si allontanano? ANALISI 3. In quali passaggi narrativi si avverte l’ironia? A quali effetti è finalizzata? 4. Che immagine dà il testo del protagonista-narratore? 5. Come è caratterizzato il capo comunista? Avverti anche in questa descrizione un po’ di ironia?

Interpretare

SCRITTURA 6. Ricava dal testo quale atteggiamento mostra l’autore nei confronti della Resistenza.

Resistenza oggi nello sguardo della letteratura: 5 La lati oscuri e persistenza di valori Interpretazioni contrastanti Se i primi anni Sessanta consegnano la Resistenza al passato, nei decenni successivi e fino a oggi si combatte una vera e propria “battaglia della memoria”, in chiave politica, con interpretazioni dell’evento decisamente contrastanti. Gli schieramenti di sinistra, sentendosi i principali eredi e depositari dei valori della Resistenza, di fatto spesso hanno avvalorato un’immagine della guerra partigiana edulcorata e trionfalistica, mentre posizioni di segno opposto hanno enfatizzato al contrario le violenze e le lacerazioni della guerra civile. In particolare, nel mutato quadro politico nazionale e internazionale a partire dagli anni Novanta, con la quasi totale liquidazione dei regimi comunisti, prende sempre più forza, quasi per contrapposizione alla mitizzazione del passato, la tendenza a porre l’accento su episodi crudamente violenti della Resistenza. I lati oscuri della guerra partigiana La narrativa degli anni Novanta mostra il prevalere di questa tendenza: ne è un esempio, nel 1995, Le ragioni del sangue di Alessandro Gennari (1949-2000), incentrato sulle efferatezze della guerra civile e sulle violenze di partigiani, che, rifiutando di deporre le armi anche dopo il termine della guerra, le utilizzano a fini criminali; il romanzo, di apprezzabile valore letterario, trasmette un’idea del tutto disincantata dei partigiani. Sulle violenze protratte anche oltre il 1945, in particolare nel “triangolo rosso” del delta del Po, si incentrano anche La polvere sull’erba, romanzo giovanile in precedenza lasciato inedito, e pubblicato da Alberto Bevilacqua (1934-2013) nel 2000; e un’opera a metà tra fiction e saggio, Il sangue dei vinti (2003) di Giampaolo Pansa (1935-2020), in cui, attraverso un dialogo con un personaggio fittizio, una ricercatrice di nome Livia, lo scrittore narra in forma romanzesca vicende reali dell’immediato dopoguerra, omicidi di persone legate al fascismo, ma non sempre colpevoli di crimini. La letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 3 523


Un altro aspetto oscuro della Resistenza sempre più messo in luce è quello delle violenze tra partigiani: ha fatto discutere il film Porzûs di Renzo Martinelli, del 1997, che mette in scena un tragico regolamento di conti tra bande partigiane nel Friuli, quando, nel 1945, militanti “rossi” massacrarono i combattenti della brigata Osoppo, di ispirazione cattolica. Più di recente, nel 2013, reinnescando ancora una volta polemiche e divisioni di campo, il saggio Partigia di Sergio Luzzatto ricostruisce la storia mai indagata a fondo di due giovani partigiani, militanti del piccolo gruppo valdostano a cui aveva partecipato Primo Levi, uccisi dai loro stessi compagni. La persistenza dei valori resistenziali Queste opere, proiettando sulla guerra partigiana una luce cupa e dolorosa che l’eccessivo trionfalismo di certe precedenti raffigurazioni aveva occultato, hanno il merito di mettere in discussione gli stereotipi del passato e di evidenziare verità spesso passate sotto silenzio (ma già comunque messe in luce da narratori come Fenoglio). D’altra parte non bisogna per questo dimenticare che la Resistenza ha rappresentato nel nostro Paese la difesa di valori che ci toccano ancor oggi, di libertà, di uguaglianza e di democrazia. Quest’ultima valutazione sembra ispirare un recente romanzo storico di Giorgio Fontana (n. 1981), Morte di un uomo felice (2014), che intreccia la vicenda, ambientata a Milano nel 1981, di un magistrato, Giacomo Colnaghi, ucciso per il suo impegno contro il terrorismo dell’estrema sinistra, e di suo padre Ernesto, un operaio di Saronno giustiziato per aver partecipato, con volantinaggi e atti di sabotaggio, alla Resistenza. Attraverso un’analisi delle motivazioni che conducono padre e figlio a rischiare, e infine a perdere la vita, Fontana mostra come essi abbiano creduto negli stessi valori: giustizia, legalità, senso del bene comune. Giacomo Colnaghi, che porta sempre con sé l’ultimo biglietto scritto dal padre, fucilato quando lui era piccolo, nonostante la superiore cultura e posizione sociale, è animato da ideali simili a quelli di Ernesto: come lui sa di correre dei rischi, ma non si tira indietro, spinto «da un senso di riconoscenza nei confronti della vita e della natura», che lo rendono felice nella sua scelta di giustizia.

Giorgio Fontana

T10

La «congiura della brava gente»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 2

Morte di un uomo felice G. Fontana, Morte di un uomo felice, Sellerio, Palermo 2014

All’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre Ernesto è a casa con la moglie e i bambini: non è arruolato perché riformato a causa di una gamba zoppa. È felice perché pensa che le sofferenze della guerra siano finite, ma presto si rende conto di quanto la situazione si sia invece inasprita.

L’inquietudine di quei giorni sembrò diffondersi come un morbo. Entrava nelle case, inaspriva i litigi: le famiglie cominciavano a spezzarsi. Il padre del Pizzi, uno dei loro compagni, aveva un altro figlio che invece era finito repubblichino, caporale a Salò: a fine novembre bussò a casa loro per salutarli, ma il vecchio Pizzi – un so5 cialista, uno cui avevano cavato un occhio durante uno sciopero nel ’21 – si rifiutò anche solo di farlo entrare. «Dammi almeno un fazzoletto pulito!», gridò lui contro la porta chiusa. «Anche noi non abbiamo niente!».

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La moglie guardava il vecchio con le lacrime agli occhi. Il Pizzi le sibilò: «Ca sa sufi el nas ne la camisa nera1, quella bestia». Pochi giorni dopo il ragazzo venne ammazzato in val d’Ossola: fu uno dei primi interventi partigiani della zona, e lui uno dei primi fascisti a morire. Suo fratello andò al funerale, e quando tornò in cascina disse a tutti che suo padre non era venuto. Lo disse senza rammarico e senza odio, come se fosse un fatto naturale: 15 quasi fosse lui a doversi scusare. L’Ernesto era confuso, come tutti. Qualcuno gli diceva sottovoce che era il momento di prendere e scappare in Svizzera: ma se l’Egidio2 sentiva anche solo quella parola, Svizzera, faceva volare ceffoni. E qualcuno si decise davvero: una domenica il vecchio Nava attraversò il sagrato fermando chiunque con la faccia stravolta, più incredula che 20 furiosa o addolorata: suo figlio, diceva, aveva fatto una borsa nella notte ed era fuggito oltre confine. Si era anche portato via dei soldi che tenevano dietro la credenza. «Uno così sono solo contento di averlo perso», commentò l’Egidio. Ma Ernesto Colnaghi sentiva lo stomaco stretto: che tempi stavano arrivando? Tempi in cui i padri 25 e i figli si mettevano in guerra. Tempi brutti, si disse. Tempi orrendi. 10

L’inverno fu punteggiato da scioperi sempre più frequenti. La Cemsa3, dove le donne avevano bloccato la produzione a inizio anno, cominciò a essere usata dai tedeschi per produrre armi: una pugnalata nel cuore della lotta. Le forze si stavano organizzando e contrapponendo: non c’era più spazio per parlare, era chiaro a tutti. 30 Fu una di quelle sere che l’Ernesto domandò all’Egidio cosa fosse di preciso il comunismo: una parola che a lui sembrava giusta, sicuro, ma che a dirla tutta non aveva mica capito fino in fondo. La sua formazione era avvenuta in fretta e oralmente, ascoltando prima i colleghi che mugugnavano contro i turni massacranti imposti dal Benelli4 – un padrone in linea coi fasci da sempre – e poi seduto a terra di fronte 35 all’Egidio, che però amava più che altro i dettagli dell’azione, la distribuzione dei compiti: ciclostilare, fermarsi, bloccare, inceppare, essere sabbia negli ingranaggi del sistema. Quindi, in due parole e per il povero Ernesto Colnaghi che non aveva studiato: cos’era il comunismo? L’Egidio sospirò. Era seduto sui calcagni, le braccia appoggiate alle ginocchia, lieve40 mente sporto in avanti. «Fioeu5», disse, «ti dirò la verità, ma che resti fra noi: non è chiaro manco ai russi. Mi sa che non è chiaro a nessuno». Questa franchezza confuse ulteriormente l’Ernesto: «Ho capito», disse, «ma in generale...». «In generale, in generale. Dunque». Si passò una mano sul volto. «Il comunista vuole 45 che non ci sia più padrone e non ci sia più schiavo. Vuole che siano tutti liberi e tutti felici, e che quello che ognuno produce vada nelle mani del popolo intero, e distribuito a seconda dei bisogni. In fondo è molto semplice. A te sembra giusto che uno si arricchisca sfruttandoti, mentre tu fai fatica a mettere insieme il pranzo con la cena?». «No, certo che no», disse l’Ernesto.

1 Ca sa… nera: dialetto lombardo: “Che si soffi il naso nella camicia nera”. 2 Egidio: organizzatore del gruppo partigiano a cui appartiene Ernesto.

3 Cemsa: sigla della fabbrica di Costruzioni Elettro Meccaniche di Saronno, fondata nel 1925; durante la guerra produceva armi leggere.

4 Benelli: nel romanzo, padrone della fabbrica di viti ed elementi di precisione in cui lavora Ernesto. 5 Fioeu: figliolo.

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«Ti sembra giusto che il podestà mangi la fesa di vitello, e tu debba fare la coda per il latte di tua figlia?». «No». «Il comunista combatte contro tutto questo. Per fartela breve: noi crediamo nella gente, non nel potere. Crediamo che si possa fare qualcosa di bello tutti insieme: niente 55 re, niente guerra, niente proprietà. Una congiura della brava gente. Hai capito?». L’Ernesto annuì, e credette di trovare la sua personale spiegazione nell’orgoglio che provava ogni volta: qualcosa dentro di lui stava passando dall’eccitazione alla consapevolezza. Uscì dalla baracca per ultimo. Il bosco era sepolto nella nebbia: un freddo. Si fece 60 strada lentamente, la bici in mano, fra le robinie e i gelsi morti e i fossi delle groane6, e senza avere le parole per dirlo rivide come una verginità nella natura, le poche cose silenziose che il mondo dell’uomo non aveva ancora toccato. Lui era un meccanico, sapeva smontare e montare: ma la natura restava un mistero. Forse era quello il comunismo? Lasciare che le cose tornassero al loro stato naturale? Non 65 ne era sicuro: ma mentre scompariva nella notte per tornare a casa, sfidando come ogni volta il coprifuoco, calcolando mentalmente le strade più sicure da percorrere, sentiva che ogni sua azione apparteneva al regno dei giusti. Che non era lì per caso, non era lì per un grillo7: era lì perché anche lui, il giovane Ernesto Colnaghi, credeva nella gente. 50

6 groane: brughiere (termine milanese che indica terreni a nord di Milano coperti di piccoli arbusti). 7 un grillo: un capriccio, un’idea improvvisa e balorda.

Analisi del testo La crisi della guerra civile Il protagonista, Ernesto Colnaghi, operaio in una fabbrica, è un personaggio semplice, nato in un ambiente popolare, che la narrazione restituisce attraverso uno stile volutamente dimesso, con coloriture (come il nome preceduto dall’articolo) e battute dialettali. Nella difficile situazione successiva all’8 settembre la divisione tra gli italiani fedeli al fascismo e gli antifascisti giunge a lacerare persino le famiglie al loro interno, come gli scrittori che hanno vissuto la Resistenza testimoniano: ad esempio, nel Partigiano Johnny di Fenoglio, è ricordato il dramma dei genitori di Kyra, con un figlio partigiano e l’altro repubblichino. Così la scelta di Ernesto lo pone nel romanzo in conflitto con il suocero, fascista, ma soprattutto desideroso di un’esistenza senza troppi rischi.

Il personaggio di Ernesto Per Ernesto invece la cosa più importante è la giustizia; per questa scelta non è necessaria una grande istruzione, ma basta quel sentimento naturale che, come è detto altrove nel romanzo, consente a «ogni persona di buona volontà» di sapere che cosa è bene e che cosa è male. Solo in seguito Ernesto desidera acquisire una preparazione politica, e, quando chiede a Egidio, l’organizzatore del gruppo, cos’è il comunismo, non è tanto importante la risposta (anche Egidio, nonostante le sue letture, è piuttosto incerto e imbarazzato nel rispondere), ma contano la voglia di capire del giovane operaio, e un’idea tra le altre in cui istintivamente si riconosce: il rifiuto del potere e la fiducia nella gente.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in 5-6 righe il testo. COMPRENSIONE 2. Perché Ernesto si sente confuso? In che senso la confusione del protagonista è la confusione di tutti? ANALISI 3. Quali aspetti della Resistenza il testo mette in luce? 4. Quale cambiamento produce in Ernesto la Resistenza?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Quali temi accomunano il romanzo di Giorgio Fontana ai romanzi di Meneghello e Fenoglio? LETTERATURA E NOI 6. A quali valori hanno creduto Ernesto e Giacomo? Credi che siano ancora attuali? Perché?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

SCRITTURA 7. In che modo il romanzo di Fontana evidenzia il ruolo della Resistenza nella difesa di valori che ci toccano ancor oggi? Come si sviluppa il richiamo a non dimenticare?

Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Cesare Pavese, Il mestiere di vivere: diario 19351950, Einaudi, Torino 1958

Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato, si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia. Così annotava Pavese il 6 luglio 1939 circa il valore della memoria nel costruire non solo l’identità collettiva di un popolo, ma anche la sua capacità di dare nutrimento e slancio all’azione nel presente. Alla luce delle tue conoscenze di studio ed esperienze personali, discuti e sviluppa il tema del “culto della memoria” e del suo significato. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

Fissare i concetti Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana 1. Come sono rappresentati i protagonisti dei romanzi di Fenoglio? 2. Da quale letteratura è affascinato Fenoglio? 3. Quando decide di diventare partigiano Fenoglio? 4. Che cosa vuole dire per Fenoglio essere partigiano? 5. Che cosa narra il romanzo Il partigiano Johnny? 6. Quale lingua utilizza Fenoglio ne Il partigiano Johnny? 7. In che modo viene rappresentata la guerra partigiana? 8. Di che cosa parla Fenoglio nel romanzo breve La malora? 9. Quale atteggiamento mostrano gli intellettuali nei confronti della Resistenza? 10. I romanzi sulla Resistenza quale volto mostrano della stessa? 11. Qual è l’opera cinematografica più rappresentativa del periodo della Resistenza? 12. Che cosa mette in evidenza il romanzo L’Agnese va a morire? 13. Quando entra in crisi la fiducia in un cambiamento della società italiana? Quale romanzo lo testimonia? 14. Di che cosa tratta I piccoli maestri di Meneghello? Che cosa ha rappresentato per il protagonista la guerra partigiana? 15. Quale stile utilizza l’autore nei Piccoli maestri? 16. Come viene vista oggi la Resistenza?

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Il Novecento (Prima parte) Beppe Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Fenoglio e l’epica degli eroi comuni I protagonisti dei romanzi di Fenoglio non sono uomini speciali, ma persone “normali” che di fronte a esperienze estreme estraggono il meglio da sé stesse. L’opera di Fenoglio è una libera narrazione di respiro epico-lirico, un’epopea della Resistenza, alla quale i suoi protagonisti aderiscono non per ideologia ma perché sentono di non poter fare altro: è una vocazione etica alla libertà. La breve vita e le opere Nato nel 1922 ad Alba, appassionato di letteratura inglese e americana, il giovane Fenoglio nel 1943 si trova sbandato a Roma, dove studiava da allievo ufficiale; torna nelle sue Langhe e diventa partigiano. Il suo primo libro, I ventitré giorni della città di Alba, esce nel 1952. Del 1954 è il romanzo breve La malora. Nel 1959 pubblica Primavera di bellezza. Fenoglio muore prematuramente nel 1963; dai suoi manoscritti sarà tratto nel 1968 Il partigiano Johnny. Altri libri usciti postumi sono La paga del sabato (1969) e il suo capolavoro: Una questione privata (1963).

2 Resistenza come metafora

L’identità di partigiano Essere partigiani per Fenoglio equivale alla fede in un assoluto che vincola l’intera esistenza. Le parole chiave dell’epopea fenogliana (patria, onore, decenza, coscienza, dignità) definiscono una posizione morale che mette in connessione antifascismo, libertà, democrazia e idea patriottica. Il partigiano di Fenoglio sceglie responsabilmente, sapendo che le scelte umane sono in parte casuali, eppure ineluttabili. La guerra partigiana è rappresentata da Fenoglio nella sua grandezza tragica, che implica lo stravolgimento della vita quotidiana. Nella sua opera, tutto viene compreso in un tempo ciclico ed eterno: quello di un epos che non è mai apologia della violenza insensata e dell’eroismo militare. L’impegno civile e la Babele linguistica Fenoglio si può considerare uno scrittore “impegnato”, ma non nell’accezione convenzionale. L’impegno civile di Fenoglio consiste nella sua cronaca onesta, non manichea, della Resistenza, e nell’aver cercato una lingua purissima e ricca di espressività, adatta a questo scopo. Il partigiano Johnny costituisce una felice Babele letteraria, impregnata di lingua inglese (“fenglese”), con una mescolanza di parole ricercate e gergali, di figuralità, di deliberate sgrammaticature.

3 La letteratura sulla Resistenza e l’identità italiana

Il mito della Resistenza Subito dopo la guerra, la Resistenza dà luogo a un mito di fondazione di un’Italia nuova, a cui partecipano anche la letteratura e il cinema, con il filone neorealista: è un momento storico di entusiasmo, di fiducia nel rinnovamento del Paese. Gli intellettuali si erano trovati per la prima volta, nella lotta antifascista, a vivere i problemi concreti del Paese, a condividere con il popolo rischi e scelte. Un personaggio del popolo è al centro anche di uno dei romanzi più noti del neorealismo, il tragico L’Agnese va a morire di Renata Viganò.

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Duecento e Trecento La crisi di fiducia e la revisione critica In seguito, la fiducia in un profondo rinnovamento La della letteratura società italiana e locortese slancio propositivo innescato dalla Resistenza si affievoliscono. Lo spartiacque è il 1948 con le elezioni che sanciscono la rottura tra cattolici e comunisti. Il nella Francia feudale

romanzo che più di ogni altro riflette questo clima è La luna e i falò di Cesare Pavese. Negli anni Sessanta, la Resistenza è rievocata con ripensamento critico nella Ragazza di Bube di Carlo Cassola, e con un distacco venato di ironia nei Piccoli maestri di Luigi Meneghello.

Zona Competenze Zona Competenze Scrittura argomentativa

1. In un testo espositivo-argomentativo di 20-30 righe presenta e motiva l’originalità dei romanzi resistenziali di Fenoglio, individuandone le particolarità rispetto alla letteratura prodotta sulla stessa tematica e spiegando le ragioni del tardivo riconoscimento del loro valore.

Cooperative learning

2. Dovete realizzare in classe una guida alla lettura del romanzo resistenziale in Italia. Suddivisi in piccoli gruppi analizzate uno dei romanzi presentati nel Capitolo, cercando di mettere in evidenza soprattutto i seguenti aspetti: a. La Resistenza e l’identità italiana b. Il popolo come nuovo eroe al centro della narrativa del neorealismo c. Il ruolo degli intellettuali nella Resistenza d. La complessa immagine della Resistenza e. Il quadro anticonformistico dei partigiani Ciascun gruppo relazioni sul romanzo scelto e prepari una scheda di presentazione che fornisca: • titolo e breve introduzione; • riassunto; • tema centrale e relazione tra tema e vicende narrate; • indicazioni su: nuove tecniche narrative, procedimenti narrativi (tempo, spazio, tipologia dei personaggi ecc.), scelte stilistiche e linguistiche; • scelta di un brano significativo da proporre, analizzare e commentare; • commento personale. Il romanzo scelto potrà essere presentato anche mediante un elaborato multimediale (PowerPoint, blog, sito, storytelling ecc.). Alla fine, utilizzando i materiali prodotti, elaborate un testo unico dal titolo: “La Resistenza raccontata dalla letteratura: protagonisti e temi”.

Compito di realtà

3. Suddivisi in gruppi, organizzate una gita scolastica al parco letterario di Beppe Fenoglio, utilizzando il seguente sito internet: http://www.centrostudibeppefenoglio.it

Lavoro di gruppo

a. Analizzate a piccoli gruppi un luogo tra i più significativi della vita di uno scrittore resistenziale. b. Presentate il luogo scelto con un elaborato multimediale (PowerPoint, blog, sito ecc.), abbinate al luogo un testo letterario (o parte di testo) dell’autore, relazionate in classe cercando di mettere in evidenza: • il legame stabilito tra autore e luogo e tra luogo e storia; • la sua valenza simbolica; • se si tratta di uno spazio reale o di un paesaggio poetico.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 529


Il Novecento (Prima parte) CAPITOLO

11 Primo Levi e la tragedia della Shoah

LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Levi visto da sé… Prego il lettore di non andare in cerca di messaggi. È un termine che detesto perché mi mette in crisi, perché mi pone indosso panni che non sono i miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente. Tale non sono: sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù, e che da allora conserva una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali. (P. Levi, Premessa all’Altrui mestiere, Einaudi, Torino 1985, raccolta degli articoli usciti su «La Stampa»)

... e visto da Italo Calvino Una lettera di Italo Calvino ci dà la possibilità di sottrarre Levi all’immagine nobile ma un po’ polverosa di scrittore unicamente della memoria, di testimone e sopravvissuto. Certo, Levi resta con il suo stile disadorno il cronista letterario più attendibile e “oggettivo” della Shoah, senza alcuna indulgente autocommiserazione, il testimone prezioso non solo della sopravvivenza ma anche della dignità dell’umano dentro l’orrore. Tuttavia qui troviamo al primo posto invece l’attitudine per il fantastico, il gusto della trovata narrativa, l’umorismo.

Caro Levi, ho finalmente letto i tuoi racconti. Quelli fantascientifici, o meglio: fantabiologici, mi attirano sempre. Il tuo meccanismo fantastico che scatta da un dato di partenza scientifico-genetico ha un potere di suggestione intellettuale e anche poetica, come lo hanno per me le divagazioni genetiche e morfologiche di Jean Rostand. Il tuo umorismo e il tuo garbo ti salva molto bene dal pericolo di cadere in un livello di sottoletteratura […]. Certe tue trovate sono di prim’ordine. (Da una lettera del 1961 di Italo Calvino a Levi)

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Primo Levi, prezioso custode della memoria e scrittore finissimo, è un gigante della cultura del Novecento. Interprete del nostro tempo e straordinario antropologo della modernità si staglia davanti a noi come un Montaigne contemporaneo. Proprio come Montaigne, inventore del moderno saggismo, Levi si impegna a studiare con meticolosità l’animale-uomo, preso in situazioni diverse – perlopiù estreme e paradigmatiche, come il “laboratorio” del Lager nazista – per comprenderne il funzionamento. Come Montaigne usa continuamente i classici, e anzi l’intero canone occidentale, per interpretare il presente. Accurato osservatore del male dentro la Storia, e al tempo stesso inventore di uno stile personalissimo, non alieno da invenzioni e giochi linguistici, costituisce un unicum nella letteratura novecentesca. Nel caso della Shoah la letteratura ha saputo trarre da una tragedia incommensurabile una preziosa lezione per comprendere l’uomo, raccontando quanto l’essere umano può arrivare a fare ai suoi simili quando rinunci alla ragione.

1 Ritratto d'autore multiforme 2 Lapersonalità di Levi 3 Se questo è un uomo 4 Le altre opere 5 La Shoah e la memoria

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1 Ritratto d’autore 1 La vita VIDEOLEZIONE

Lessico sefarditi Sono gli ebrei che abitavano la Penisola iberica fino al XV secolo e i loro discendenti che, a partire dal decreto di espulsione di tutti gli ebrei (decreto dell’Alhambra, 1492) promulgato dai sovrani cattolici di Spagna, emigrarono negli altri paesi europei.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

La sua formazione Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da genitori entrambi di origine ebraica. Il padre era un ingegnere elettronico e i suoi antenati, sefarditi , provenivano dalla Spagna e dalla Provenza. Frequenta la scuola appassionandosi soprattutto alle materie scientifiche, ha come insegnante di Italiano Cesare Pavese, e, in particolare, si ribella contro il primato – generato dalla riforma scolastica del ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile – delle materie umanistiche su quelle scientifiche. Si iscrive a Chimica e, nonostante le leggi razziali del 1938, ha il permesso di continuare gli studi, anzi, attraverso quelle leggi a lui, che pure era stato balilla, si mostrerà per intero il vero volto del fascismo. In quegli stessi anni nasce il suo amore per la montagna e le esplorazioni temerarie, per l’aria aperta e la sfida alla natura e a sé stesso: «una forma assurda di ribellione» e in fondo anch’essa un’indiretta replica al fascismo. Frequenta i circoli antifascisti degli studenti. Si laurea a pieni voti nel 1941 – nel diploma c’è la menzione “di razza ebraica”! – e trova lavoro prima in un laboratorio presso Lanzo, poi a Milano in una fabbrica di medicinali. L’esperienza del lager Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre 1943 si unisce a un gruppo di partigiani vicini al Partito d’azione, ma viene arrestato dalla milizia fascista e avviato nel campo di Fossoli (vicino a Modena). In seguito il campo viene gestito dai tedeschi, che mettono Levi e altri prigionieri in un convoglio per Auschwitz, dove arrivano stremati dopo cinque giorni. Nel campo Levi riesce a sopravvivere grazie alla conoscenza del tedesco, alla personale capacità di adattamento e al bisogno di manodopera gratuita, cioè di operai resi schiavi, da parte dell’autorità tedesca. Nel gennaio 1945 i tedeschi evacuano il campo. Da lì inizia il viaggio rocambolesco di Levi per tornare in Italia, attraversando mezza Europa.

Cronologia interattiva

1945

1939

Finisce la Seconda guerra mondiale.

Scoppia la Seconda guerra mondiale. 1922

1938

Marcia su Roma.

1910

1920

Il governo fascista emana le prime leggi razziali.

1930

1946

In seguito al referendum del 2 giugno nasce la Repubblica italiana.

1940

1950

1941

1919

Primo Levi nasce a Torino.

Si laurea in Chimica con il massimo dei voti e la lode. 1943

Si unisce a un gruppo partigiano; viene arrestato e avviato al campo di concentramento di Carpi-Fòssoli. 1944

Viene trasferito ad Auschwitz.

532 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah

1945

Sopravvissuto al campo di sterminio, Levi torna in Italia.


Il rientro in Italia Il reinserimento è difficile, ma trova lavoro in una fabbrica di vernici; in seguito si sposta in un’altra fabbrica diventandone direttore. Nel 1947 esce il suo primo libro, Se questo è un uomo, presso un piccolo editore e con una tiratura limitata (1500 copie). Negli anni Cinquanta, grazie al successo di una mostra sulla deportazione a Torino e alla traduzione del suo libro in molte lingue, cresce la sua fama. Il primo libro viene ristampato nel 1958 da Einaudi: a esso segue La tregua, diario del ritorno, nel 1963. Alla fine degli anni Sessanta esce una raccolta di racconti Storie naturali, e nel 1971 una seconda raccolta, Vizio di forma. Nel 1975 un libro di poesie, L’osteria di Brema, e la raccolta di racconti Il sistema periodico. Nel 1978 con La chiave a stella, commosso elogio del lavoro e ritratto di un operaio specializzato, Levi vince il Premio Strega.

Lessico Shoah Il termine ebraico Shoah significa “distruzione, catastrofe”; negli ultimi anni è preferito a olocausto (parola di origine greca che indica i sacrifici offerti agli dei, in cui la vittima era interamente consumata dal fuoco), perché questo secondo termine conferisce una connotazione religiosa del tutto impropria al massacro degli ebrei.

La scrittura Smette a questo punto il lavoro di chimico delle vernici e si dedica esclusivamente alla scrittura. Nel 1981 pubblica Lilit e altri racconti, l’anno successivo Se non ora, quando?, che vince il Premio Viareggio: il libro narra le vicende di una banda di ebrei irregolari in giro per la steppa russa, allegri e feroci, creando quasi una controepica che ribalta l’immagine dell’ebreo passivo, umiliato e costretto solo a subire. Resta l’impressione di un romanzo avvincente però “minore” nella sua produzione: allontanandosi dalla Shoah , ma continuando a trattare quella materia, sembra che la narrativa leviana non riesca a “competere” con la naturale, immensa forza epica che dalla Shoah si sprigiona. Traduce Kafka e Lévi-Strauss e pubblica altre poesie nel 1984, Ad ora incerta. Con la traduzione di tutti i suoi libri Levi ottiene un riconoscimento internazionale: de Il sistema periodico lo scrittore americano Saul Bellow dirà che è “meravigliosamente puro”, mentre più in là il «New York Times» pubblica un suo dialogo con Philip Roth. Nel 1985 L’altrui mestiere raccoglie articoli usciti su quotidiani e riviste dal 1964 al 1984, riguardanti la letteratura (riletture di classici), le scienze naturali, l’astronomia, la zoologia, oltre a episodi autobiografici. Nel 1986 I sommersi e i salvati sono la sintesi di tutta la sua riflessione sull’esperienza del Lager. Muore nell’aprile del 1987, precipitando nella tromba delle scale, in circostanze mai davvero chiarite. Probabilmente convivere tutta la vita con l’orrore, con le ombre e con i fantasmi della condizione umana – impegnandosi stoicamente a riferirne per tutti noi – è una impresa eroica che lascia ferite indelebili.

1977

1948

Viene proclamata la nascita dello stato di Israele.

Si sviluppa e termina l’esperienza del Movimento del ’77, insieme di movimenti spontanei nati all’interno dei gruppi della sinistra extraparlamentare italiana.

1969

Periodo di lotte sindacali operaie (“autunno caldo”).

1960 1956

È pubblicata l’edizione Einaudi di Se questo è un uomo.

Israele invade il Libano; massacri nei campi palestinesi di Sabra e Chatila.

1970

1980 1975

1963

Lascia la direzione dell’azienda Siva; pubblica la raccolta di racconti Il sistema periodico.

Pubblica La tregua.

1947

Prima edizione, di scarso successo, di Se questo è un uomo. Viene assunto come chimico di laboratorio presso la Siva, una fabbrica di vernici, di cui qualche anno dopo diviene direttore.

1982

1971

Pubblica la raccolta di racconti Vizio di forma.

1972-1973

Compie ripetuti viaggi di lavoro in Unione Sovietica.

1990 1982

Pubblica Se non ora, quando?. Il romanzo vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. 1978

Pubblica La chiave a stella, che vince il Premio Strega.

1987

Muore a Torino. 1982

Pubblica I sommersi e i salvati, di carattere saggistico.

Ritratto d’autore

1 533


2 La multiforme personalità di Levi 1 Una figura complessa Tra scienza e letteratura Primo Levi è lo scrittore italiano attuale più conosciuto al mondo, anche se la sua popolarità, come abbiamo visto, non è stata immediata nemmeno in Italia – probabilmente per una forma di rimozione di eventi altamente drammatici, che coinvolgevano la storia recente del nostro paese, e che motivarono il primo rifiuto editoriale – ma è maturata gradatamente, attraverso riconoscimenti della critica e premi letterari importanti. Lui stesso si è definito, in un’occasione, un “centauro”, o anche un “ibrido”, come diviso a metà da due mezzi cervelli. In un’intervista del 1982 Levi si sofferma su quella “spaccatura” o scissione personale, che ritiene di condividere con altri scrittori, come Solmi, Gadda e Sinisgalli, tutti oscillanti tra cultura scientifica e cultura letteraria. Ai quali potremmo aggiungere, con le medesime caratteristiche – e dunque con la stessa attrazione verso il mondo della scienza –, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Italo Calvino, Giuseppe Bonaviri. Si tratta di riconoscersi scrittore (non professionale) e chimico, umanista e scienziato, ebreo e italiano, senza un’appartenenza precisa eppure con solide radici piemontesi, amante della casa e della famiglia ma anche dell’avventura, per natura stanziale ma con la voglia di viaggiare, scientista attratto dal mito e dalla favola, enciclopedista e zoologo, deportato in un campo di sterminio ma alieno da toni queruli, incline a una scrittura nuda, essenziale e al tempo stesso iperespressiva, a volte perfino giocosa. Ma sulla qualità particolare della scrittura, spesso fraintesa, giudicata “vecchia”, troppo aulica rispetto al clima neorealista (questa fu una delle ragioni con cui all’Einaudi respinsero il manoscritto di Se questo è un uomo, per pubblicarlo dieci anni dopo) e scambiata solo per una prosa di servizio, funzionale, occorre una riflessione a parte.

2 La scrittura Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà Come ha dimostrato Pier Vincenzo Mengaldo in un importante saggio, la scrittura di Levi accoglie creativamente, anche attraverso ripetizioni, una varietà di registri e di linguaggi, dalle nomenclature di discipline scientifiche all’oralità, ai gerghi e ai dialetti riprodotti mimeticamente. L’ideale di un italiano “marmoreo”, buono per le lapidi, dunque di una prosa chiara e distinta, trasparente e concisa, disadorna e funzionale (come lui descrive la sua casa torinese), viene contaminato da quello che Mengaldo ha chiamato, con espressione tecnica, «ludismo verbale» e dal «gusto per il significante», cioè dai giochi di parole e da una ricerca quasi ossessiva delle etimologie, da un uso di tempi verbali diversi e dall’alternanza di prima e terza persona. Se davvero la scrittura è stata per Levi esperienza “liberatoria”, come ha dichiarato, allora ha liberato anche la lingua, spingendola verso sperimentazione e pastiche,

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Lessico yiddish Lo yiddish è una lingua che discende dall’alto medio tedesco parlata dagli ebrei aschenaziti, cioè da quegli ebrei stanziati fin dal Medioevo nell’Europa centrale e orientale, in seguito emigrati negli Stati Uniti d’America: è considerata una “lingua mista” in quanto arricchita di elementi lessicali ebraici, slavi e neolatini. È scritta con i caratteri dell’alfabeto ebraico.

Felix Nussbaum, Autoritratto con passaporto ebraico, 1943.

oltre qualsiasi automatismo. Il Lager è stato anche la scoperta, pur dentro una discesa agli inferi, di una Babele linguistica e culturale inesauribile. La lingua è dare ordine al cattivo caos di questa Babele creata per dividere gli esseri umani e insieme replicare alla finzione d’ordine che era la organizzazione apparentemente razionale di Auschwitz. Ma il punto è un altro: la libertà creativa e “inclusiva” della lingua di Levi, la pluralità di stili e idiomi che accoglie spesso audacemente (e solo con qualche lieve eccesso di spiegazione), la sua vocazione al gioco e all’immaginazione rappresenta la risposta più efficace alla lingua unica, monotonale, disumana, del campo di morte. Forse non è interamente vero che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie, come ammonì il filosofo Adorno – dato che lì è finito qualsiasi umanesimo –, e neanche che si possono solo scrivere poesie su Auschwitz stessa, come volle correggerlo lo stesso Levi. Alla desertificazione di Auschwitz si deve contrapporre non un silenzio raggelato, ma precisamente quell’universo umano brulicante di lingue, culture, psicologie, destini che traspare dall’opera di Levi o anche dalle narrazioni di Isaac B. Singer, scrittore yiddish a lui congeniale. Insomma Levi non è stato solo un chimico che – incidentalmente – ha scritto. Né la sua produzione si esaurisce nella memorialistica, nella testimonianza. Interprete acuminato del nostro tempo, custode della verità della tradizione umanistica nel momento in cui questa viene messa a rischio, capace di lasciare un segno indelebile nell’immaginario culturale non solo del nostro paese, accanto alle figure di Hannah Arendt, Lévi-Strauss e George Steiner. In ogni suo libro è animato, gramscianamente, dal pessimismo della ragione e dall’ottimismo della volontà; da una parte consapevolezza tragica della Storia e dall’altra fiducia inesausta nella possibilità umana di comunicare: «Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca» (I sommersi e i salvati). La lucidità dell’antropologo Levi non è mai intenzionalmente consolatorio: anche quando di fatto “ci consola” lo fa sempre con la lucidità dell’antropologo o dell’etologo: «Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito» (Se questo è un uomo). Proprio il senso del limite – perlopiù negletto dalla civiltà moderna – fonda, sorprendentemente, una possibilità di resistere al male e di relativizzarlo.

La multiforme personalità di Levi 2 535


3 La sorprendente centralità del racconto Una vocazione al racconto Levi è giustamente noto soprattutto per i suoi romanzi, e per quello straordinario saggio narrativo-autobiografico che è I sommersi e i salvati, mentre le sue raccolte di racconti sembrano da lui stesso assegnate a un genere minore, quali “divertimenti” o escursioni nella fantascienza: Storie naturali (uscito con uno pseudonimo nel 1966), Vizio di forma (1971), Lilit e altri racconti (1981). Ma in tutta la sua opera sentiamo una vocazione al racconto, genere italianissimo a partire dal Novellino e dal Decameron. Vocazione sottolineata da Levi stesso e fatta risalire a un’intuizione “puntiforme” della realtà, attenta cioè al dettaglio, alla sfumatura, al singolo episodio più che alla totalità, oggetto della narrazione romanzesca. A ben vedere anche i suoi libri maggiori, da Se questo è un uomo a La tregua e ancor più esplicitamente a Il sistema periodico, sono composti da racconti, piccoli blocchi, apologhi allineati in fila, cartelloni, micronarrazioni che potrebbero reggersi ciascuna per conto suo. Peraltro Levi iniziò a scrivere, nell’immediato dopoguerra, racconti per riviste, i quali nascevano dalla forma orale del raccontare di cui testimoniano i compagni di scuola. Nei racconti l’esperienza dell’internamento va oltre la letteratura di testimonianza e di memoria, virando verso la fantasia scientifica, la mitologia, lo scatto visionario. Ritroviamo qui il gusto di Levi per sconfinamenti e commistioni di materiali eterogenei. In particolare commistioni di oggetti e animali, di uomini e macchine, di organico e inorganico, di scienza e fiaba, anticipando temi che poi verranno affrontati, in modi diversi, sia nella letteratura sia nel cinema. Basti pensare a Christine. La macchina infernale (1983) del prolifico Stephen King, che forse più di chiunque altro ha plasmato l’immaginario contemporaneo. Eppure, anche se una volta l’autore li ha definiti “racconti-scherzo”, dunque invenzioni letterarie intriganti e divertite, dietro questa lievità di tono si cela una critica radicale della civiltà contemporanea, tra uso irresponsabile della tecnologia, consumismo febbrile, ricerca parossistica del profitto. Una ispirazione fondamentalmente giocosa a esprimere però una visione amara e disincantata della realtà, come tante “operette morali” novecentesche. Storie naturali Nelle Storie naturali, che hanno varie convergenze con le Cosmicomiche di Calvino uscite l’anno prima – benché Levi resti ancor più di Calvino uomo di scienza – prefigura temi poi trattati in pellicole cinematografiche e oggi alla ribalta: dalla possibilità di registrare la memoria di esperienze fatte da altri (il film cyberpunk Strange days di Kathryn Bigelow, del 1995) nel Trattamento di quiescenza, ai chatbot, i software capaci di scrivere racconti e poesie come GPT, nel Versificatore. Vizio di forma Dei venti racconti di Vizio di forma, che potrebbero essere altrettante puntate della serie televisiva inglese Black mirror, ne segnaliamo solo tre, anche se i temi sfiorati nella raccolta sono molteplici, dalla manipolazione genetica alla descrizione distopica di regimi autoritari-tecnocratici. I sintetici, su un androide o replicante, individuato in quanto privo di ombelico. Lumini rossi, in cui nella vita privata e lavorativa delle persone si accendono spie cui bisogna rispondere premendo pulsanti dal significato oscuro. Procacciatori di affari, dove tre funzionari vogliono convincere una creatura non ancora nata a nascere sulla Terra, mostrandone solo immagini belle; poi però cadono inavvertitamente sotto gli occhi del nascituro immagini di guerra, fame, catastrofi, altrettanti “vizi di forma” della civiltà.

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Lilit e altri racconti Quest’ultima raccolta si può suddividere in tre sezioni, secondo un’indicazione di Levi: quelli legati al Lager, quelli in continuazione con le altre raccolte e infine quelli che ritraggono personaggi “in carne ed ossa”, immersi in un realismo del quotidiano meno consueto per lo scrittore.

4 La poesia, una “curiosa infezione”

Primo Levi, fotografato qualche mese prima dell’arresto.

L’incomprensione del meccanismo poetico In una intervista del 1981 Levi ha onestamente dichiarato di non essere “naturalmente” un poeta, «anche se ogni tanto capita questa curiosa infezione». E aggiunge che non ne comprende il “meccanismo”, quel procedere per “folgorazioni”. Altro è il suo mondo: «Il mio mondo è quello di pensare a una cosa, di svilupparla, in modo quasi da montatore, di costruirlo poco per volta». Una definizione che, paradossalmente, potrebbe fare propria ogni poeta! Si pensi solo al pensiero poetante di Leopardi, peraltro caro a Levi, anche se in un’occasione rimproverò al suo famoso Elogio degli uccelli (operetta morale) l’arbitrio poetico di attribuire ad animali sentimenti come la “gaiezza” o la “noia”. In fondo anche la dichiarata incomprensione del “meccanismo” da parte di Levi ci porta direttamente al cuore del linguaggio poetico, libero dagli obblighi della prosa: per amare una poesia non occorre infatti capirla interamente. La poesia di Levi – essenzialmente Ad ora incerta del 1984, preceduta da una raccolta presso Scheiwiller del 1975, e un’altra solo privata del 1970 – è interessante sia per i continui rimandi all’opera narrativa (ad esempio la parola “sommersi” compare per la prima volta in una poesia, o altre volte mette un proprio verso a epigrafe di un racconto), ma anche per la varietà di temi e di toni. Si tratta di poesie che Levi inizia a scrivere dal 1946, ma solo alcuni componimenti riguardano la deportazione e il Lager. Tra le fonti e i modelli un critico acuto come Franco Fortini, pur parlando di poesia alta, “aulica”, ha voluto indicare i due estremi di Pavese e Borges; altri hanno citato, più riduttivamente, Carducci e Quasimodo. Dal punto di vista metrico Levi oscilla tra regolarità e irregolarità: preferisce puntare all’essenziale, a ciò che ha da dire con urgenza, preoccupandosi meno delle questioni formali, e alternando poesie d’amore, poesie della memoria, poesie narrative (si riconosce un debito verso Saba, che amava molto e con il quale ebbe un carteggio), poesie in forma di proclama o invettiva, poesie che somigliano a una preghiera laica («Vorrei credere qualcosa oltre/Ora che morte ti ha disfatta»). Anche qui con una predilezione per il gioco linguistico, per una estrema libertà. La multiforme personalità di Levi 2 537


5 I “corsari” di Levi L’altrui mestiere Il riferimento “corsari” è agli Scritti corsari di Pasolini – che affronteremo compiutamente tra qualche pagina –, la raccolta di articoli usciti sul «Corriere della sera» tra il 1973 e il 1975 e pubblicati postumi nel novembre 1975, un mese dopo la sua morte. Ovviamente Levi non ha definito “corsari” i suoi pezzi giornalistici, né poteva essergli congeniale il tono oracolare-apocalittico di Pasolini, però negli articoli apparsi sulla «Stampa» per dieci anni e pubblicati nel 1985 (L’altrui mestiere), giusto a distanza di dieci anni da quelli pasoliniani, si esprime il meglio della sua intelligenza onnivora, spericolata, sempre capace di spiazzare le aspettative del lettore e nata, come quella pasoliniana, da precise emozioni, da una curiosità che è stata definita “micrologica”, legata al dettaglio, e non da rovelli cerebrali. Articoli, noterelle, recensioni, interventi, commenti sul presente, per il critico letterario Marco Belpoliti il suo libro «più curioso, bizzarro e acuto», dove si rivela antropologo, linguista, filosofo, astronomo, moralista, critico letterario, e commentatore “corsaro” della realtà… Non sappiamo se davvero sia il suo libro più “acuto” ma certo aderisce perfettamente alla sua natura ondivaga, digressiva, da grande saggista moderno (non a caso abbiamo fatto inizialmente il nome di Montaigne). Un’antologia personale Di questo suo bizzarro enciclopedismo il documento più fedele resta tuttavia La ricerca delle radici (1981), un’antologia personale dove ha raccolto gli autori che hanno contato di più nella sua formazione: dalla Bibbia e dai narratori yiddish a Darwin, da Marco Polo al Belli, da Mann a Celan, da Conrad a Eliot e tanti scienziati. Ed è singolare che uno scienziato che cercava l’ordine nella natura come Darwin si ritrovi qui accanto a un intemperante narratore del disordine come Rabelais. Sullo scrittore francese, pure apparentemente così dissimile da lui, Levi si interroga a lungo, proponendolo sorprendentemente come modello: «Per il suo sguardo allegramente curioso, per il suo bonario scetticismo, per la sua fede nel domani e nell’uomo». Anche qui il ritratto si avvicina molto all’autoritratto: lo sguardo allegramente curioso di Primo Levi e la sua intima fede nell’uomo non è riuscita a spegnerli neanche l’esperienza del Lager.

6 Ebraismo e attitudine positiva Tradizione ebraica e cultura greca Levi, come peraltro la sua famiglia, non era credente né praticante, e con la sua identità ebraica mantiene un rapporto contraddittorio. Fino alle leggi razziali del 1938 si sente solo un ragazzo della borghesia torinese, ma poi, soprattutto attraverso la deportazione, è spinto a misurarsi fino in fondo con quella identità. Studia la cultura ebraica sia biblica sia yiddish, e lo fa con «un certo distacco scientifico, quasi zoologico», che non gli impedisce di esserne influenzato nel profondo. In particolare, era attratto dall’ebraismo orientale, aschenazita – con il suo immenso deposito di storie e leggende – lui che pure era di origine sefardita. Calvino a proposito di Levi ha parlato di un ottimismo un po’ ottocentesco, da scienziato positivista. Ma si potrebbe osservare che un’attitudine positiva o “costruttiva” appartiene alla tradizione ebraica. In La ricerca delle radici, prezioso autoritratto, attraverso brani di autori antologizzati, Levi ripercorre i suoi classici letterari

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amati (oltre alla narrativa ebraica di Babel e Alechèm) e prende le mosse proprio da Giobbe, il “giusto” che soffre ingiustamente. Nella Bibbia Giobbe – uomo integro alieno dal male, il giusto “degradato ad animale da esperimento”, colpito da innumerevoli e per lui inspiegabili sventure – “contende” con Dio chiedendogli ragione di tanta incomprensibile sofferenza e riconoscendo di aver “esposto senza discernimento” cose troppo superiori a lui. Eppure alla fine, lui che non ha mai perso la fede in Dio, troverà un qualche risarcimento: «Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. […] Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni […] morì, vecchio e sazio di giorni» (Giobbe 42, 10. 16). Il tragico – dunque l’enigma del male – in questa tradizione è presente, ma rispetto alla cultura greca viene diversamente elaborato: resta al fondo una fiducia sostanziale nel Dio buono e giusto. Dunque, una visione a volte disperata però mai disperante. Ora, Levi non ha alcuna inclinazione per le questioni mistico-teologiche, e anzi si professa in varie occasioni fieramente “razionalista”, nemico di ogni idea di predestinazione e di aldilà; tuttavia è difficile non trovare nella sua opera tracce di una intensa pietà religiosa e di un amore creaturale. Ma soprattutto – insofferente verso la moda della “incomunicabilità”, ridotta a uno slogan salottiero negli anni Sessanta – credeva nella comunicazione e dunque in una radice buona, o almeno socievole, dell’essere umano. Walter Benjamin, pensatore e saggista ebreo-tedesco che in fuga sui Pirenei si tolse la vita nel 1940 per non cadere nelle mani dei nazisti, ha scritto in una lettera a un amico che «occorre strappare alla sventura tutte le chance che pure questa offre». Levi ha quasi miracolosamente strappato alla propria sventura l’opportunità di trasformarla – attraverso la scrittura – in una esperienza comunicabile e universale, fissata una volta per tutte in una forma letteraria e dunque aperta sempre a nuove interpretazioni, letture, esperienze. Molti dei suoi libri, più o meno consapevolmente, si rifanno a una tradizione narrativa ebraico-orientale, a quella inesausta disposizione affabulatoria che caratterizza tale tradizione. Sulla opposizione tra cultura ebraica e cultura greca nell’antichità esiste una fittissima bibliografia. Qualcuno ha icasticamente osservato che di fronte a una qualsiasi verità da trasmettere, Atene te la spiegava, Gerusalemme te la raccontava. Potremmo concludere che Primo Levi, memore delle due diverse tradizioni, si impegna in entrambe le modalità.

7 Un’inattuale attualità «O anche solo a lasciarmi vivere...» I libri di Levi ruotano spesso intorno a una “catabasi”, come gli antichi chiamavano la spaventosa discesa agli inferi, e al tempo stesso cercano nel mondo ciò che agli inferi può contrapporsi: il lavoro umano (che implica attenzione e cura), la libertà avventurosa della scienza, le forme di solidarietà spontanea e il legame fraterno con gli altri. I suoi libri ci appaiono legati a una situazione-limite – l’esperienza atroce dell’internamento – ben distante dalla nostra confortevole vita attuale di abitanti dell’Occidente dei consumi. Rischiano di non parlare più alle nuove generazioni. Una situazione-limite caratterizzata essenzialmente da tre elementi, totalmente estranei alle nostre democrazie, imperfette ma ancora sufficientemente vitali: disprezzo sistematico per l’uomo, assimilazione bruta dello schema amico-nemico e una subordinazione totale, fanatica, alla volontà del capo. La multiforme personalità di Levi 2 539


Eppure nel sogno finale della Tregua il Lager, appena arrivato a Torino, appare come simbolo della condizione umana – «nulla era vero all’infuori del Lager» –, e del suo destino inevitabile di mortalità. E anzi l’esistenza stessa assume i caratteri di una tregua, di una proroga o breve vacanza, e ci impone di ricercarne laicamente un senso appena più stabile, durevole, come del resto ha tentato di fare, tra gli altri, il pensiero esistenzialista di Camus: un senso tutto terreno, da cercare negli affetti, nella consapevolezza di sé, in un lavoro che possiamo amare e di cui prenderci cura, nella quiete della natura in fiore da contemplare disinteressatamente. In Se questo è un uomo leggiamo: «Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti tra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere…».

Il cancello di ingresso del Lager di Auschwitz, con la scritta “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei).

8 Uno scrittore che anzitutto vuole capire «Nessuno scrive solo per sé» I libri di Levi parlano a tutti noi, presi nella “tregua” dell’esistenza, a chi decide infine di “tirare le somme” chiudendosi in sé stesso, a chi solo “si lascia vivere”. Ogni volta premono su di noi con urgenza – spesso drammatica, a volte sorprendentemente giocosa e umoristica – sollecitando interrogativi che riguardano l’essere umano a qualsiasi latitudine si trovi, e qualsiasi cielo stia vedendo: sullo scopo della vita, sul rapporto dell’uomo con il cosmo, sul riconoscimento dell’altro, sull’enigma del male, sul ruolo della cultura, sui nostri doveri legati alla convivenza e sui nostri profondi e insuperabili limiti. Levi ci ricorda tra l’altro che la letteratura è sempre anche “politica”, anche al di là di qualsiasi impegno civile lo scrittore intenda assumere esplicitamente, poiché sempre modifica una percezione ovvia delle cose: «Nessuno scrive solo per sé, quando uno scrive un’idea di modificare il mondo ce l’ha». Di fronte all’inaudito e al non dicibile l’atteggiamento di Levi potrebbe essere ispirato al motto di un grande filosofo razionalista e antidogmatico, ebreo sefardita come lo scrittore (e influenzato anche lui dal pensiero scientifico), Baruch Spinoza, nato in Olanda: «Non ridere, non piangere, non odiare ma solo capire».

540 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


3 Se questo è un uomo

Le motivazioni della testimonianza Primo Levi scrive il suo primo libro, Se questo è un uomo, al ritorno dal campo di concentramento, quasi di getto, come se l’avesse già tutto in mente e non gli restasse che stenderlo sulla carta. Sono molteplici le ragioni che lo spingono a scrivere: la volontà di testimoniare, più che per sé, per quelli che non sono tornati (precisa: «Fin dal mio primo libro… ho desiderato che i miei scritti, anche se li ho firmati io, fossero letti come opere collettive, come una voce che rappresentasse altre voci»); la speranza che conoscere il male a cui sono arrivati uomini “civili” possa impedirne il ripetersi; la convinzione di aver appreso nella propria drammatica esperienza verità sugli uomini che normalmente sono nascoste: ragioni che danno al libro quella validità universale che lo rende uno dei capolavori dello scorso secolo. La storia editoriale Se questo è un uomo è ormai divenuto un classico, conosciuto e tradotto in tutto il mondo. Proposto in origine dall’autore all’Einaudi, fu dapprima rifiutato; pubblicato nel 1947 dall’editore De Silva (che ne suggerisce il titolo, mentre l’autore aveva pensato a I sommersi e i salvati), fu poi riedito, dopo che mostre e convegni avevano accresciuto l’interesse per l’argomento, dalla stessa Einaudi nel 1958, in una versione rivista e ampliata; di lì prende avvio un ininterrotto successo editoriale.

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Un’intervista a Primo Levi (1974)

Tra memoria e letteratura Pur essendo un’opera memorialistica, basata su fatti veri e vissuti dall’autore (solo qualche nome è modificato, per non rendere i personaggi riconoscibili), il libro è letterariamente elaborato: basti pensare alla struttura, non basata, salvo le parti iniziali e finali, sull’ordine cronologico degli eventi, ma organizzata per temi, con capitoli di volta in volta dedicati ad argomenti come il lavoro coatto; le notti dei deportati; l’infermeria, in cui il sollievo per l’esenzione dal lavoro estenuante si accompagna a una più acuta percezione del proprio stato di solitudine e avvilimento; i momenti di riposo; l’economia del Lager, con gli scambi fra gli internati; la selezione per le camere a gas; l’accanita lotta per la vita che si consuma nel campo. La disumanizzazione delle vittime Volutamente il libro evita di indugiare su dettagli macabri e violenti, e ha un filo conduttore, messo in luce dall’autore in un’importante Appendice del 1976, dapprima destinata a un’edizione scolastica, in seguito inclusa in tutte: il proposito dei nazisti di disumanizzare le vittime, di dimostrare che «gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza» e quindi possono essere impunemente annientati. A ciò mirano tutta una serie di operazioni: rasare i capelli; non distribuire i cucchiai, per costringere i deportati «a lambire la zuppa come cani»; degradarli a cavie, su cui sperimentare medicinali; privarli del nome, sostituito da un numero tatuato sulla pelle, come se fossero animali da mandria. Lo stesso mezzo dello sterminio, il gas velenoso, usato per disinfestare i locali da cimici e pidocchi, ha per Levi un aperto valore simbolico. Come reagire alla disumanizzazione? Lo scrittore focalizza poi l’attenzione sul modo in cui la vittima possa e debba, pur tra estreme difficoltà, reagire alla disumanizzazione, non rendendosi complice di un sistema perverso e vigilando per Se questo è un uomo 3 541


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Per approfondire Il tema dell’amicizia nell’opera di Primo Levi

conservare, come la cosa più preziosa, ciò che resta della sua umanità: ne è prova l’infervorata commozione dello scrittore nell’insegnare a un compagno alsaziano i versi danteschi del canto di Ulisse, con il loro messaggio di alta umanità («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» [sic]), fatto risuonare proprio nel luogo che la nega. Di qui anche il risalto, nel primo periodo di soggiorno nel Lager, dato all’incontro con Steinlauf, ex sergente dell’esercito austro-ungarico, che con decise e rette parole esorta il protagonista a non lasciarsi andare, a voler sopravvivere e testimoniare. Il valore della ragione come antidoto alle derive ideologiche Come Primo Levi avverte nell’Appendice, il genocidio è l’esito estremo di un processo che inizia con l’idea che ogni straniero è nemico, e con la negazione dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini; comprendere fin dove possano arrivare le conseguenze di tale distorta ideologia, secondo le speranze dell’autore, può indurre a contrastarla sul nascere, con il costume dell’uso critico della ragione. Occorre, egli avverte, «essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici» e accontentarsi «di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate». Non si pensi che Levi abbia condotto l’indagine su una condizione lontana dalla vita ordinaria, dato che nel campo di sterminio operavano dinamiche di potere, manipolazione ed esclusione che sono presenti, sia pure in modo latente o appena smussato, anche nella nostra opaca normalità, o in una “normalità degradata”, fatta di burocrati zelanti e funzionari apparentemente ligi al dovere. Si tratta di quella “banalità del male” analizzata da Hannah Arendt nel libro del 1963 sul processo al criminale nazista Eichmann (➜ EDUCAZIONE CIVICA PAG. 545) in Israele: il male non frequenta – romanticamente – gli abissi ma più spesso è impastato di quieta normalità, di adesione acritica a un ruolo sociale. Fa il male chi compie il proprio dovere senza pensarci, chi esegue, magari in perfetta buona fede, un ordine, senza mai interrogarsi sul suo contenuto morale e sulle sue conseguenze. In particolare si veda il riferimento di Levi all’ampia zona grigia della collaborazione (sia pure in qualche modo coatta), della complice acquiescenza, dell’indifferenza giustificata come ignoranza, dei privilegi acquisiti anche da chi si trovava tra le vittime attraverso una collaborazione con i carnefici, dentro un sistema concentrazionario che non lascia scampo. Levi non intende giudicare, moralisticamente, ma capire i meccanismi darwiniani che sottendono la normalità del male: “fare il male” in certe situazioni è conseguenza dell’istinto di conservazione, dà dei consistenti vantaggi, può allungare l’esistenza, rassicura perché ci mette dentro un ordine almeno apparente. Lo stile del testimone Già nell’esordio lo stile di Levi presenta quelle caratteristiche peculiari che ne contraddistinguono l’opera: la pacata obiettività, da porre in relazione con la volontà di

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Primo Levi in viaggio verso Auschwitz, a quarant’anni dalla sua deportazione (1983)

essere non giudice, ma testimone, spogliando perciò la scrittura di animosità e di cedimenti all’enfasi e al patetico; l’attitudine scientifica a esaminare le cose non fermandosi alla superficie, ma analizzandole in modo sistematico; la chiarezza cristallina derivata da una lucida capacità di osservazione; la rigorosa essenzialità; la volontà comunicativa che si estrinseca negli appelli al lettore e nel vigore espressivo con cui l’esperienza è fatta vividamente immaginare. Levi è un nemico della retorica: la retorica lamentevole delle vittime (che non sono “buone” in quanto tali), la retorica della memoria (spesso incline a rimuovere o modificare gli eventi), la retorica del sopravvissuto come eroico testimone (mentre sopravvivevano quasi solo i più furbi e adatti alla lotta per l’esistenza) e perfino la retorica del vendicatore (con il proprio linguaggio “irato”). Se in passato si tendeva a considerare Levi uno scienziato prestato alla scrittura, il tempo ha mostrato il valore letterario della sua opera, che è frutto di una formazione scolastica e culturale di prim’ordine, come mostrano la struttura del discorso di classica e composta eleganza, il lessico raffinato e di assoluta proprietà, la creatività delle metafore, i riferimenti letterari, in particolare all’Inferno dantesco, quasi archetipo per la rappresentazione dell’universo concentrazionario.

EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

La «banalità del male» e il tema dei «giusti» Hannah Arendt e il caso Eichmann Le immani proporzioni della Shoah escludono di poterla addebitare a un ristretto numero di criminali, ma chiamano in causa una rete infinita di collaborazioni, di complicità, di connivenze: quella che Primo Levi definisce la «zona grigia» dei contagiati dal male. In un suo importante libro del 1963 la filosofa Hannah Arendt (1906-1975) conia la pregnante formula di «banalità del male» per descrivere la figura di Adolf Eichmann (19061962), processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte per le sue pesanti responsabilità nell’organizzazione del genocidio ebraico durante la seconda guerra mondiale. La Arendt, che assiste al processo come giornalista, inviando dei reportage al «New Yorker», constata che il responsabile dello sterminio non è un “genio del male”, ma un grigio burocrate convinto di aver fatto il suo dovere, obbedendo con zelo alle direttive del partito al vertice dello stato totalitario. Eichmann non può essere giustificato, ma neppure essere considerato un caso isolato, semmai un uomo mediocre e ambizioso che aveva voluto emergere in una società contagiata da un’ideologia disumana, e che aveva commesso il male non per una speciale malvagità, ma per la mancanza di immaginazione che gli aveva impedito di sottrarsi al «crollo morale provocato dai nazisti nella “rispettabile” società europea», quando «nessuna voce si era levata dall’esterno a svegliare la sua coscienza». La conclusione della Arendt è che la condanna del criminale di guerra non deve rassicurare, fino a quando non si elabori una strategia per combattere i «crimini contro l’umanità», di cui la Shoah è il caso più mostruoso ma che potrebbe non essere l’ultimo.

online T1 Ruth Klüger

La “non banalità del bene” Vivere ancora. Storia di una giovinezza

nucleo

Costituzione

competenza 1

Nella «banalità del male», il conforto del bene Proprio la “facilità” con cui la coscienza dell’uomo può piegarsi al male rende ancora più evidente la generosità di chi, correndo rischi anche mortali, durante la Shoah ha aiutato le vittime: è il caso dell’operaio italiano Lorenzo, che aiutò non solo Primo Levi, ma anche altri deportati, a cui lo scrittore, riconosce di dovere non solo la sopravvivenza fisica, ma anche quella morale, per avergli fatto sentire che il male non aveva completamente vinto, che poteva ancora esistere una possibilità di bene. Anche da altri sopravvissuti allo sterminio l’incontro con i pochi capaci di sottrarsi al perverso contagio del male è stato descritto come un fondamentale fattore di salvezza, perché ha permesso di non perdere definitivamente fiducia nell’umanità. Una testimonianza eloquente sul valore salvifico della solidarietà in un contesto disumano è nell’autobiografia Vivere ancora di Ruth Klüger, ebrea viennese nata nel 1931, poi emigrata negli Usa dove è divenuta docente di germanistica, che fu deportata ancora bambina insieme alla madre prima nel campo di transito di Theresienstadt (nella Repubblica ceca), poi ad Auschwitz. La scrittrice ricorda con una commozione e una gratitudine intatte nonostante fossero trascorsi ormai molti anni il gesto generoso di un’altra giovane internata, che l’aveva aiutata a essere ammessa a un campo di lavoro da cui, insieme alla madre, sarebbe scampata (➜ T1 OL). A quanti durante la Shoah si sono sottratti alla «banalità del male» gli ebrei scampati al Lager hanno dedicato una particolare onorificenza, il titolo di Giusto tra le Nazioni.

online

Per approfondire I Giusti tra le Nazioni

Se questo è un uomo 3 543


Primo Levi

La cattura

T2

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Se questo è un uomo P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2000

Concepito come un diario scarno, puntuale, dell’esperienza nel Lager, e iniziato già nell’ultima fase dell’internamento, Se questo è un uomo viene poi ultimato in pochi mesi e rielaborato stilisticamente. Non si limita a testimoniare – meticolosamente – l’orrore del campo ma in ogni pagina riflette lucidamente sulla natura umana attraverso un denso e personalissimo tessuto linguistico.

Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere 5 amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a «Giustizia e Libertà»1. Mancavano 10 i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe. 15 A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager2, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia3, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente 20 e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve del nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta. Negli interrogatori che seguirono, preferii dichiarare la mia condizione di «cittadino italiano di razza ebraica», poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare altrimenti la mia presenza in quei luoghi troppo appartati anche per uno «sfollato», e 25 stimavo (a torto, come si vide poi) che l’ammettere la mia attività politica avrebbe comportato torture e morte certa. Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano. 1 Giustizia e Libertà: movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell’agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti raccolti intorno a Carlo Rosselli, che a sua volta si ispirava a Gaetano Salvemini, poi esule negli Stati Uniti. Assai variegato al suo interno, dai liberali moderati fino agli anarchici (l’intera opposizione antifascista non comunista), aveva però l’obiettivo comune di resistere

al fascismo e di costruire un modello di democrazia avanzato, sulla scia delle idee di Piero Gobetti, arrestato e duramente pestato a morte dai fascisti nel 1926. 2 Lager: letteralmente “campo”. Poi divenuto campo di concentramento (di prigionia e di lavoro) e internamento, infine a partire dal 1941 campo di sterminio, luogo deputato per la “soluzione finale” della questione ebraica. I più tristemente famo-

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si: Dachau, Treblinka, Buchenwald, Auschwitz, ma assommavano a circa 50.000 strutture. Oltre agli ebrei dovevano essere sterminati oppositori politici, rom e sinti, gay, individui ritenuti asociali. 3 Milizia: creata dal 1923 per istituzionalizzare e irreggimentare lo squadrismo fascista.


Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento. Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, 35 o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per «mettersi in ordine con la legge». V’erano inoltre un centinaio di militari jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri considerati politicamente sospetti. L’arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia a interpretare variamente questa novità, senza trarne la 40 più ovvia delle conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l’annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati. Il giorno 20 febbraio i tedeschi avevano ispezionato il campo con cura, avevano fatte pubbliche e vivaci rimostranze al commissario italiano per la difettosa organizzazione del servizio di cucina e per lo scarso quantitativo della legna distribuita 45 per il riscaldamento; avevano perfino detto che presto un’infermiera avrebbe dovuto entrare in efficienza. Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati. 50 Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire. Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente, e come l’atto di giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da 55 potere accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere. Si evita perciò al condannato ogni cura estranea, gli si concede la solitudine, e, ove lo desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma che egli non senta intorno a sé l’odio o l’arbitrio, ma la necessità e la giustizia, e, insieme con la punizione, il perdono. Ma a noi questo non fu concesso, perché eravamo troppi, e il tempo era poco, e poi, 60 finalmente, di che cosa avremmo dovuto pentirci, e di che cosa venir perdonati? Il commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare fino all’annunzio definitivo; la cucina rimase perciò in efficienza, le corvées di pulizia lavorarono come di consueto, e perfino i maestri e i professori della piccola scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito. 65 E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. 4 Nefando: (dal latino) più ricerOgnuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, cato per nefasto, 4 ripugnante, empio, 70 altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le scellerato. madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i 5 E all’alba… ad bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile asciugare: nell’immagine evocativa stesa al vento ad asciugare5; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, della biancheria e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso stesa sul filo spinato Primo Levi va oltre 75 bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro il mero resoconto bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? documentario. 30

Se questo è un uomo 3 545


Analisi del testo Dettagli che “fanno” la letteratura Si comincia con la cattura in montagna da parte della Milizia fascista il 13 dicembre 1943, in una “spettrale alba di neve”. Lì si trovava, in un rifugio, il ventiquattrenne Primo Levi, nel frattempo datosi alla macchia: faceva parte di una banda partigiana priva di armi e quattrini, affiliata a “Giustizia e libertà”. Poi il trasferimento a Fòssoli e la notizia della imminente, sinistra deportazione in Germania. La descrizione dell’ultima notte dei prigionieri, prima della deportazione – «Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva» – è una pagina altissima dove la letteratura incrocia una meditazione sulla vita e sulla morte che riguarda ogni lettore. Ma in che senso è lecito parlare di “letteratura” – entro lo sforzo di fissare ricordi, pensieri ed emozioni personali – e non solo di nudo referto diaristico o di cronaca meticolosa o di saggio sociologico-storico? A Fòssoli, alla vigilia della partenza per i campi in Germania – come aspettando un’esecuzione – le madri soprattutto si danno da fare, non cedono alla disperazione o all’alcol, e tra l’altro preparano “con dolce cura” il cibo per il viaggio e lavano i panni dei bambini. Alle prime luci dell’alba «i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare». Presumibilmente questo dettaglio, in sé inessenziale alla storia, non è stato inventato da Levi: tutta la scena si è svolta nella realtà precisamente così. Ma la “letteratura” consiste nell’isolare il dettaglio e la sua straordinaria capacità evocativa (la candida innocenza di quei panni, il terrore che si accompagna al filo di recinzione), nel dargli un valore simbolico che resta per sempre impresso nella mente del lettore. Ricordiamo la distinzione che fa Leopardi nello Zibaldone tra “termine”, che indica in modo preciso un oggetto (dunque in linguistica: una funzione denotativa) e “parola” che convoglia intorno all’oggetto un insieme vago di senso (funzione connotativa): la “siepe” è sia fila di arbusti che restringe un terreno e sia, nella poesia L’infinito, una parola con un contenuto emotivo ricco di allusioni e suggestioni.

Uno scrittore autentico Pur non essendo uno scrittore “professionale”, Levi è uno scrittore autentico, dunque non intende dirci solo la verità obiettiva di un evento ma anche il modo in cui quell’evento è stato vissuto dai suoi protagonisti. Non soltanto la cosa ma l’emozione della cosa. Lo scrittore punta sempre a un effetto. La parola letteraria è fatta di purezza e artificio, di verità e di abilità retorica. Nel suo celebre saggio La filosofia della composizione (1846) Edgar Allan Poe commentando la propria poesia Il corvo conclude che una poesia non è cieca ispirazione ma «scrittura a freddo, calcolata in ogni sua parte»: il fine resta l’efficacia, la capacità di suggestione sul lettore. Tornando a Levi, è singolare come già nel suo primo romanzo – lui stesso dirà che La tregua è molto più costruito e “letterario” –, che si presenta come opera soprattutto di memorialistica, troviamo una insolita espressività della lingua, una sua attitudine metaforica che eccede qualsiasi obbligo referenziale. Tra i molti esempi fatti da Pier Vincenzo Mengaldo, un critico particolarmente attento ai fatti della lingua, ne scegliamo due: «Ad ogni passo sento le scarpe succhiate dal vento avido», e poi «Ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole…».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per quale motivo il protagonista dichiara di essere cittadino italiano di razza ebraica? 2. In che cosa consiste il cerimoniale di cui parla l’autore? ANALISI 3. Perché l’autore afferma «assurdamente, per “mettersi in ordine con la legge”»? Che cosa vuole intendere con l’avverbio “assurdamente”?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 4. Dopo aver letto con attenzione la scheda di educazione civica intitolata La «banalità del male» e il tema dei «giusti» spiega la seguente espressione presente nel testo: «...come l’atto di giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da potere accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere».

546 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


Primo Levi

T3

Il «campo di annientamento»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Se questo è un uomo P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2000

Arrestato come partigiano e come ebreo, lo scrittore è dapprima tradotto a Fossoli, presso Modena, poi deportato ad Auschwitz. Alla narrazione del viaggio e della traumatica separazione dalle famiglie e dagli amici, segue quella delle procedure di internamento di coloro che, considerati abili per un lavoro da schiavi, non sono stati sterminati all’arrivo: procedure che rivelano la logica perversa del campo.

Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso 5 non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci. Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato 10 levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione 15 quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare 20 sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una per25 sona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la 30 sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro 35 giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. Se questo è un uomo 3 547


Analisi del testo Le leggi del Lager Il breve e denso passo segna nel libro il vero ingresso nel Lager, perché rivela le leggi che lo regolano. La prima è quella dell’arbitrio: bastano a farlo percepire le urla, la violenza dei gesti («ci schiaccia in mano»), gli ordini insensati. Benché non ci sia alcuna urgenza, dopo un’attesa di ore, i deportati sono obbligati ad attraversare di corsa, nudi e al freddo, sulla neve, lo spazio che li separa dall’altra baracca. In questo mondo infernale (l’espressione sul fondo volutamente evoca uno scenario dantesco) sono annullate tutte le relazioni umane, tanto che nella lingua non esiste neppure una parola per designare la condizione a cui sono ridotti i deportati. In poche ore il prigioniero si vede completamente disumanizzato: oltre agli affetti, gli sono tolti anche tutti i segni della sua identità. Privato di abiti e scarpe, rasati i capelli, il suo aspetto fisico è reso in un istante indistinguibile da tutti gli altri, in cui angosciosamente si rispecchia: le parole pupazzi, fantasmi fanno comprendere come degli uomini di prima non sia rimasto che un simulacro vuoto. Senza indugiare ulteriormente sui dettagli della condizione dei deportati, lo scrittore tende soprattutto a illuminarne il senso nell’ambito del criminale progetto nazista: privare l’altro delle caratteristiche che lo contraddistinguono come uomo serve a non avvertire la colpa della sua distruzione; proprio perciò la vittima non dovrà stare al gioco, ma salvaguardare la propria dignità (il senso del valore di sé anche se gli viene negato) e il proprio discernimento (l’intelligenza, la comprensione della realtà, primari valori per lo scrittore).

La testimonianza collettiva Primo Levi non parla per sé: in tutto il passo non ricorre infatti mai la prima persona, ma, oltre al si impersonale e all’indefinito ognuno, riferiti al lettore, domina il noi collettivo della prima persona plurale. Ma a ben guardare, tale noi, evidenziato dall’insistita ripetizione dell’aggettivo nostro, designa due diverse entità collettive: da una parte i prigionieri del Lager (ad es. «il nostro aspetto»), dall’altra la comune umanità («nel nostro mondo»), che si deve confrontare con l’estrema condizione umana dei deportati. Questa scelta linguistica quindi nega proprio la prospettiva che i deportati siano “diversi” dal lettore, estranei. Tutti sono perciò chiamati a mettersi nei loro panni, a pensare che avrebbero potuto, e potrebbero, essere vittime di un simile sistema, e a trarne una lezione. Tende a questo scopo anche lo stile della rievocazione che, attraverso l’uso insistito del presente, a significare l’indelebilità della scena, le brevi frasi incalzanti, la paratassi, i deittici (Eccoci), gli appelli all’esperienza del lettore mirano a portare chi legge dentro la narrazione, a restituirgli con il massimo vigore e immediatezza le sensazioni e gli stati d’animo di chi è precipitato in quel mondo infero.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali aspetti di annullamento della dignità umana e di perdita di identità sono descritti in questo brano? ANALISI 2. «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». Commenta e spiega questa frase. LESSICO 3. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e individua: a. i termini che suggeriscono la violenza dei rapporti tra aguzzini e vittime; b. i termini che si riferiscono invece alla disumanizzazione dei deportati. STILE 4. L’espressione «giacere sul fondo» è una metafora: che cosa indica?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 5. Come interpreti la frase: «Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga»?

548 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


TESTI A CONFRONTO EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

6. Metti a confronto questo brano tratto da Se questo è un uomo con la poesia che fa da epigrafe all’opera di Levi, riportata di seguito, e rifletti in un testo argomentativo sul tema dell’annullamento della dignità umana e sul dovere della memoria storica.

5

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15

20

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sí o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza piú forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.

Prigioniere a Birkenau.

online T4 Primo Levi

La non dimenticata lezione di Stainlauf Se questo è un uomo

online T5 Primo Levi

L’iniqua legge della sopravvivenza nel Lager Se questo è un uomo

Se questo è un uomo 3 549


Primo Levi

Il canto di Ulisse

T6

Se questo è un uomo Il brano illustra la relazione di Levi con i classici, la sua capacità di rianimare la tradizione umanistica – che spesso i regimi totalitari hanno strumentalizzato e ridotto a retorica vuota e celebrativa - immettendola nello strazio e nell’orrore della propria condizione di internato, in quanto unico modo di conservarsi “umani”.

P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2000

Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse 10 Mise fuori la voce, e disse: Quando... 5

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominas15 se». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la pietà Del vecchio padre, né ‘l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto? …Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis»1, è molto più forte e più audace, è un vincolo 20 infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk2, dove lavora il Kommando3 dei posacavi. Ci dev’essere 25 l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E 30 anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, 1 je me mis: “io mi misi”, in francese. 2 Kraftwerk: “centrale elettrica”, in tedesco. 3 Kommando: il termine, per esteso Sonderkommando, identificò speciali gruppi

di deportati obbligati a collaborare con i nazisti nei Lager. Il loro compito consisteva nel rimuovere i corpi dalle camere a gas e nelle operazioni successive di cremazione.

550 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah

In cambio ricevevano alcuni privilegi, come maggior cibo, alcolici ecc.


sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di 35 prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: 40 Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo 45 del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io sí acuti… 50

e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «…Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung»4 come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine. Ça ne fait rien, vas-y tout de même5.

55

…Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parvemi alta tanto Che mai veduta non ne avevo alcuna.

Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non 60 lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di 65 ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «…la terra lagrimosa diede vento…» 4 keine Ahnung: “nessuna idea”, in tedesco. 5 Ça ne fait... même: “non importa, fa lo stesso”, in francese.

Se questo è un uomo 3 551


no, è un’altra cosa6. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso 70 E la prora ire in giù, come altrui piacque… Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda che questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa 75 di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui … Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rueben? – Kraut und Rueben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è 80 di cavoli e rape: – Choux et nevets. – Kaposzta és répak.7 Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso. 6 è un’altra cosa: il verso è di Dante ma non appartiene al XXVI canto dell’Inferno, bensì v. 133 del canto III dell’Inferno.

7 Kraut und Rueben?... Kaposzta és répak: Tedesco, italiano, francese e polacco, le diverse lingue in cui si ripetono gli ingre-

dienti della zuppa, fanno comprendere che nel lager sono presenti prigionieri che provengono da diverse nazioni.

Analisi del testo Levi e i classici In questo passo Primo Levi, nel tentativo di insegnare la lingua italiana a Jean, sceglie come testo il canto di Ulisse; tenta di ricordarsi i versi dedicati a Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno, quando Dante e Virgilio si trovano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti, avvolti da lingue di fuoco, per analogia con le loro lingue che furono fonte di frode. Dopo una iniziale invettiva contro Firenze Dante nota due fiammelle, simili alle lucciole che si vedono d’estate: sono Ulisse e Diomede. Ulisse, punito per l’inganno del Cavallo di Troia, comincia a raccontare i suoi ultimi anni di vita, il nuovo viaggio con i suoi compagni fino ad arrivare alle Colonne d’Ercole, limite invalicabile del mondo conosciuto, sprofondando in mare per questo atto di hybris, di sfida a Dio. Dante non conosceva l’Odissea, aveva appreso di Ulisse dall’Eneide di Virgilio e dalle Metamorfosi di Ovidio. I versi si rivelano poco efficaci dal punto di vista dell’apprendimento della lingua, ma incisivi riguardo ai contenuti. Man mano che cerca di ricordare i versi Levi si rende conto che essi sono come uno specchio della situazione dei deportati. Il ritmo narrativo rapido e concitato realizzato attraverso una sintassi perfino nominale rappresenta l’ansia che l’autore ha di non sprecare neanche un minuto per esercitare un’attività intellettuale che in quelle condizioni e in quel luogo sarebbe impensabile. La letteratura diventa quindi una forma di resistenza al progetto nazista dell’annientamento della dignità umana.

La letteratura e il suo compito In quello stesso periodo Mussolini fece dono a Hitler, appena arrivato alla stazione Ostiense di Roma per una visita trionfale, di una edizione della Divina commedia. Sul frontespizio della infame rivista fascista «La difesa della razza» (1938-1943), che doveva giustificare il colonialismo, la persecuzione degli ebrei e l’eugenetica, campeggiava una terzina del Paradiso dantesco. A chi appartiene Dante, a Levi o a Mussolini? Alle vittime inermi della Storia o ai tiranni feroci? L’ultima parola spetta non a filologi e studiosi ma a noi, ai lettori della Commedia dantesca di oggi e del prossimo futuro, alla nostra capacità di trovare in essa una verità morale da rivolgere contro il potere e l’arbitrio, in qualsiasi forma si presentino, alla nostra disposizione a “collaudarla” dentro la nostra esperienza, pur con la distanza storica che ce ne separa. L’umanesimo non sempre “umanizza”. Alcuni zelanti burocrati nella Germania nazista, amministratori dello sterminio, amavano sinceramente la letteratura e degustavano musica classica. Tutto dipende da come intendiamo rispondere all’appello che ci rivolgono le opere letterarie.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in 30 righe max. ANALISI 2. Quale atteggiamento mostra Pikolo nei confronti dell’autore? Giustifica le tue affermazioni mediante riferimenti al testo. STILE 3. Nell’analisi del testo abbiamo detto che lo stile è concitato in quanto l’autore ha fretta di raccontare, non vuole perdere tempo, perché si accorge dell’importanza del momento. Rintraccia nel testo elementi che giustifichino quanto affermato sulla sintassi.

PER APPROFONDIRE

Interpretare

SCRITTURA 4. Spiega per quale motivo si può affermare che il passo dantesco rifletta la condizione dei deportati.

Un problema aperto: come ricordare oggi la Shoah? È sufficiente il ricordo della Shoah? Lo sterminio ebraico, come evento capitale del secolo appena trascorso, occupa tutt’oggi un enorme spazio nell’immaginario culturale, e ormai i libri e i film a esso ispirati non si contano. Inoltre, con l’istituzione del Giorno della memoria, ogni anno, il 27 gennaio, assistiamo al succedersi di cerimonie ufficiali, eventi, incontri; soprattutto nelle scuole si dedica uno spazio al ricordo della Shoah, e anche la programmazione cinematografica e (spesso) teatrale, in quel giorno, tiene conto della ricorrenza. Eppure la questione non si pone in termini così semplici. Già il filosofo tedesco Theodor Adorno (1903-1969) aveva affermato che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»: un’affermazione assai nota e molto citata, volutamente paradossale. Ma anche più di recente, ad esempio, il libro Contro il Giorno della memoria (2014) della narratrice e studiosa di ebraistica Elena Löwenthal solleva dubbi su come ricordare il genocidio ebraico.

Oggi tali polemiche sembrano essersi stemperate, ma appare sempre attuale il richiamo, di fronte a una tragedia che così pesantemente ha segnato la coscienza europea, a distinguere tra le opere che hanno un effettivo valore documentario e quelle che, pur di innegabile valore estetico e umano, di fatto non accrescono le conoscenze sulla Shoah. Potrebbe essere il caso, ad esempio, di La vita è bella di Benigni, uno splendido film che però aiuta più a comprendere il rapporto d’amore e protezione dei genitori verso i figli che non il genocidio ebraico. Ma anche Schindler’s List, nonostante l’indubbio rigore della ricostruzione storica, per il lieto fine e il fascino del protagonista, rischia di oscurare Foto segnaletiche dei prigionieri di un lager nazista.

Memoria, ma anche riflessione sulla Shoah Sicuramente risultano sempre attuali gli ammonimenti di Primo Levi, che invitava a non fermarsi al ricordo, ma ad accompagnarlo alla riflessione: la poesia Shemá, posta a epigrafe di Se questo è un uomo, sottolinea con forza l’invito a ragionare su quella catastrofe: «Meditate che questo è stato». Löwenthal, nel suo libro citato, invita i cittadini europei a «non celebrare una memoria altrui», quella ebraica, ma piuttosto a valutare in modo critico le ragioni che condussero la civile e colta Europa a compiere quelle atrocità. Un altro aspetto problematico legato alla memoria della Shoah riguarda la legittimità di trarne spunto per opere di fiction: soprattutto in passato sono state numerose le prese di posizione di chi, giudicando lo sterminio un evento incommensurabile, ha negato l’opportunità di film di invenzione che lo riguardassero.

Se questo è un uomo 3 553


PER APPROFONDIRE

la portata della tragedia, come la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di sterminio, sottolinea nel libro Signora Auschwitz: il dono della parola (1999), in cui, ripercorrendo la propria esperienza di testimone nelle scuole, racconta di aver incontrato anche ragazzi così disinformati da credere che quello di Auschwitz fosse il suo nome, e non quello del luogo di deportazione; e ricorda come molti di essi, proprio attraverso quei film, guardati con superficiale curiosità, si fossero formati un’idea ingenua e edulcorata del genocidio ebraico. Tra documento e fiction: cinema e Shoah Alla luce delle considerazioni fatte, e in relazione all’affollatissima filmografia sullo sterminio ebraico, si potrebbero identificare tre categorie principali di pellicole. • I film contemporanei all’evento Hanno il meritorio obiettivo di risvegliare le coscienze sugli atti di barbarie che si stavano compiendo. Tra i capolavori: Il grande dittatore (1940) di Chaplin, in cui un barbiere ebreo, fuggito da un Lager, grazie alla sua somiglianza con il dittatore Hynkel, viene scambiato per lui e in questa veste pronuncia un nobile discorso umanitario; e Vogliamo vivere! (1942), deliziosa commedia di Ernst Lubitsch, che è anche una satira sferzante contro il nazismo, in cui una compagnia di attori polacchi organizza un complotto contro il regime. • Opere documentarie Due su tutte: Notte e nebbia (1956) di Alain Resnais, breve e intensa opera in cui il montaggio alternato di sequenze documentarie in bianco e nero e di vedute a colori dei luoghi delle deportazioni, ritornati ameni e verdeggianti, accompagnato dalla severa ironia di una voce fuori campo, suscita riflessioni sul rapporto tra presente e passato e sulla follia dello sterminio; Shoah (1976-1985), di Claude Lanzmann, rigoroso documentario-inchiesta basato su interviste a testimoni, sopravvissuti e carnefici. • Film che raccontano storie legate alla Shoah Tra gli innumerevoli esempi, alcuni sono basati su storie vere, come Il diario di Anna Frank (1959), Schindler’s List (1993), Il pianista (2002); altri con margini di invenzione più o meno estesi, fino a interpretazioni molto libere dell’evento, come La vita è bella (1997) e Train de vie (1998), fino al più recente Il figlio di Saul (2015) dell’ungherese Lázló Nemes. Per una panoramica più ampia sui film relativi alla Shoah sarà utile consultare il sito dell’ANED (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti) che presenta una ricca filmografia.

disperse nel vento, ricorda il dramma di altri «milioni / in polvere qui nel vento» insieme a lui, chiedendosi come l’uomo possa uccidere un suo fratello e deplorando come la «belva umana» non cessi ancor oggi di uccidere. I genocidi recenti: Auschwitz non ha insegnato nulla? La canzone di Guccini ricorda come i genocidi, come temeva Primo Levi, si siano ripetuti dopo lo sterminio ebraico, segnando tragicamente anche la storia più recente: basti pensare ai drammi della ex Jugoslavia e del Ruanda, che alcuni film meritori, basati su ricostruzioni accurate, possono aiutare a conoscere; segnaliamo in particolare Hotel Rwanda (2004) di Terry George, e, sul genocidio bosniaco, il tragicomico No Man’s Land (2001) di Danis Tanovič, Souvenir Srebrenica (2006) di Luca Rosini, e In Utero Srebrenica (2013), toccante documentario di Giuseppe Carrieri, sulle donne della città bosniaca, private persino della possibilità di piangere su una tomba mariti e figli atrocemente massacrati. Gettano una luce su un dramma meno conosciuto in Europa ma non meno spaventoso i documentari del regista americano Joshua Oppenheimer, The act of killing (2012) e The look of silence (2014), sul massacro di centinaia di migliaia di persone in Indonesia dopo il colpo di Stato del 1965. Anche la memoria di tali tragedie merita di essere coltivata, accogliendo l’invito di Primo Levi a «sapere, e far sapere» e a non dimenticare.

Teatro e canzone Per quanto riguarda il teatro, un’opera di particolare forza e rigore documentario è L’istruttoria di Peter Weiss, dal traumatico e sconvolgente effetto, ma capace di far percepire l’orrore e la tragedia, basata sugli atti di un processo svoltosi a Francoforte, nei primi anni Sessanta del Novecento, contro un gruppo di alti funzionari nazisti. Per il forte impatto emotivo, nell’apparente semplicità, vorremmo anche citare la canzone Auschwitz (1964) di Francesco Guccini, in cui la voce di un bambino, le cui ceneri sono state Adolf Eichmann in una fase del processo celebrato a Gerusalemme nel 1961: fu ritenuto responsabile della morte di milioni di ebrei.

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4 Le altre opere

Lo scrittore “centauro” Dopo l’esordio così strettamente legato alla volontà di testimoniare l’esperienza della deportazione, Primo Levi, pur continuando a esercitare la professione di chimico fino al pensionamento, coltiva un’assidua attività letteraria, in cui sviluppa e approfondisce il tema della Shoah, a fianco però di altri nuclei di interessi. L’insieme delle opere mette in luce l’originalità della sua figura di scrittore-scienziato, padrone di due culture, umanistica e scientifica, che ne fanno, come già detto, una sorta di “centauro” – come egli stesso si definisce – e che trovano un punto di contatto nella chiarezza, nella volontà di dominare e arginare il caos della vita. La tregua Edito nel 1963, rappresenta il proseguimento di Se questo è un uomo: descrive infatti il lungo e avventuroso viaggio, ricco di deviazioni e di imprevisti, verso Torino, vissuto con uno spirito quasi picaresco, in un’Europa in procinto di rinascere sulle macerie della guerra. Si avverte un senso di ritorno alla vita, ma nel finale un incubo riporta l’autore al timore angoscioso che l’unica realtà sia il Lager e che la serenità ritrovata debba dissiparsi come un sogno, che sia soltanto una tregua. L’influenza di Manzoni Soffermiamoci sulla influenza di Manzoni, figura che presiede alla Tregua così come Dante aveva presieduto a Se questo è un uomo. La lezione morale dei Promessi sposi è sempre presente allo scrittore e tornerà esplicitamente nell’ultima opera, I sommersi e i salvati. Ricordiamo anche che nella lettera all’amica Bianca Guidetti Serra spedita nel giugno 1945 da Katowice, appena dopo la liberazione del campo, ci imbattiamo in un vero e proprio calco manzoniano («ho imparato», pronunciato da Renzo nel finale): «Sono vestito come uno straccione, arriverò forse a casa senza scarpe, ma in cambio ho imparato il tedesco, un po’ di russo e di polacco, e inoltre a cavarmela in molte circostanze…».

Un interrogativo drammatico Con la Tregua si conclude, almeno provvisoriamente, il ciclo delle memorie della deportazione (e liberazione), poi la energia affabulatoria di Levi si rivolgerà ad altri temi, al suo mestiere di chimico, al lavoro nell’industria, agli apologhi morali in veste di raccontini di fantascienza, fino al grande saggio finale che torna circolarmente sulla deportazione e che riassume l’intera sua opera, I sommersi e i salvati. Ernesto Ferrero ha sottolineato opportunamente l’inadeguatezza della pur pregevole pellicola che Francesco Rosi volle trarre dalla Tregua. Nella scena finale, infatti, John Turturro-Primo Levi ripiega meticolosamente la casacca del campo e si siede allo scrittoio, mettendosi a scrivere “serenamente” proprio questo romanzo. Ma ci appare troppo pacificato. Mentre sappiamo che un interrogativo drammatico non ha mai cessato di tormentare lo scrittore – «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo» – e così la paura di non essere ascoltato e creduto. I sommersi e i salvati Alla Shoah Primo Levi torna anche nella sua ultima opera (1986) che, riprendendo il titolo di un capitolo della prima, sottolinea la centralità di un tema comune a entrambe, l’accanita lotta per la vita che si consuma nel campo. Pur nell’affinità tematica, il primo e l’ultimo libro di Levi si differenziano però per due aspetti principali: il carattere saggistico, e non narrativo, dei Sommersi e i salvati e la sua prospettiva più ampia, che tiene conto non solo dell’esperienza personale dell’autore, ma di tutta la letteratura concentrazionaria. Le altre opere 4 555


Il microcosmo del Lager In questo libretto straordinariamente denso – uno dei grandi testi filosofici del nostro tempo, che ne ha ispirati tanti altri – non c’è aspetto del microcosmo del Lager che non sia scandagliato minuziosamente: dalla struttura gerarchica di un mondo in gran parte indecifrabile per chi vi entrava, e dove è bandita qualsiasi forma di solidarietà tra persone, alla maniacale logica organizzativa, fatta di una miriade di regole, proibizioni, riti insensati da compiere. Soffermiamoci solo su due aspetti trattati da Levi. La diffusa “violenza inutile”: accanto alla “razionalità” perversa della macchina dello sterminio vi era molta violenza fine a se stessa, sproporzionata, ridondante, «volta unicamente alla creazione di dolore» (in questo senso non aveva del tutto ragione Brecht a dire, secondo un punto di vista classicamente marxista, che l’orrore dei campi nasceva dagli affari che con l’orrore si facevano). Si potrebbe anche dimostrare come questa crudeltà gratuita e reiterata avesse il preciso scopo di umiliare i deportati, di risvegliare in loro un’angoscia atavica e così annientarli psicologicamente. Ma qui si andava ben oltre lo scopo: l’idea che ad alcuni esseri umani tutto sia concesso, che esiste il diritto assoluto di un popolo “superiore” ad asservire quello inferiore, secondo Levi fa uscire progressivamente dalla realtà e cancella quella morale comune a tutti i tempi e a tutte le civiltà che è «parte della nostra eredità umana». Il male genera irrealtà e non risponde più ad alcuna logica utilitaristica. Come ripeteva spesso, dalle officine Buna – la immensa, grigia fabbrica del campo, con i suoi quarantamila operai –, pur potendo contare su una manodopera schiavizzata non uscì neanche un grammo di gomma sintetica. Complicità e potere Poi c’è un altro aspetto, che riguarda la zona grigia delle complicità con chi esercita il potere. Ci sono varie forme di collaborazione, dal grado più basso degli scopini, portaordini stiratori dei letti (abbarbicati al loro piccolo privilegio, in fondo «poveri diavoli come noi», non giudicabili) ai kapò e alle famigerate Squadre Speciali o Sonderkommando (formate perlopiù da detenuti ebrei, che aiutavano le SS a gestire i crematori). Queste squadre furono il “delitto più demoniaco” del nazismo, poiché contenevano un messaggio devastante nei confronti delle vittime: “Non siete migliori di noi”. E subito dopo: “Siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi ma anche le nostre anime”. Quasi impossibile sottrarvisi. Ancora una volta vale la lezione manzoniana, citata nel libro: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi». La prova romanzesca di Primo Levi: Se non ora, quando? Oltre a racconti e poesie, lo scrittore si cimenta anche in un romanzo, Se non ora, quando?, che narra la vicenda di un gruppo di partigiani dell’Europa orientale, impegnati in atti di sabotaggio contro i nazisti, in viaggio per raggiungere l’Italia, tappa intermedia per Israele; come ha dimostrato lo storico Sergio Luzzatto in Partigia, l’autore vi ha in parte rifuso vicende della propria breve esperienza di partigiano. Lessico Movimento Per “Movimento” si intende la protesta giovanile e operaia degli anni Settanta, quasi interamente nata al di fuori del sistema dei partiti.

Tra chimica e relazioni umane La professione di chimico dello scrittore ispira invece un libro dedicato a un tema, il lavoro, di cui, nel tempo in cui quest’opera fu scritta, per lo più era messo in luce il carattere alienante. In La chiave a stella Primo Levi rivendica invece il valore del “lavoro ben fatto” come fonte di realizzazione personale. L’etica del lavoro ben fatto Celebrare il lavoro operaio alla fine degli anni Settanta, quando tutta la cultura del dirompente “Movimento ” di quegli anni, legata a un ciclo di turbinose lotte politiche e sociali, esprimeva un rifiuto del lavoro, fu un gesto

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controcorrente. Eppure quel libro, «scritto con estrema felicità» come disse lo stesso Levi, ci racconta la possibile felicità legata al lavoro, certo non a qualsiasi lavoro – Levi sa benissimo che esistono lavori alienanti e parcellizzati – ma al lavoro creativo di un operaio specializzato come il suo Tino Faussone, rappresentante di una aristocrazia del lavoro ben distante dall’operaio-massa delle linee di montaggio, protagonista di quelle lotte sociali e oggi figura quasi obsoleta grazie all’automazione. Faussone nella sua coscienza del lavoro ben fatto, che a qualcuno dovette sembrare un po’ idealizzante, ci propone un modello di libertà e una immagine tangibile di utopia: «L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio per pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Si delinea qui una etica del lavoro ben fatto, svolto con cura, immaginazione e sapienza artigianale, che probabilmente presiede a ogni tipo di etica, e che Joseph Conrad avrebbe condiviso. Conrad è stato un grande scrittore a cavallo tra Ottocento e Novecento: modernissimo perché consapevole della crisi dei valori, ma anche tradizionalista perché radicato in una morale vittoriana della dignità, della lealtà, dell’onore e appunto del lavoro artigianale. La concretezza del fare contro ogni paralizzante immobilismo del dubbio. La lingua e la tecnica Faussone, rappresentato fin dalle prime pagine con una finezza da vero ritrattista, con le sue mani più espressive del viso («lunghe, solide e veloci»), si ingegna ogni volta a trovare la soluzione pratica di un problema tecnico, insomma a far funzionare un qualunque oggetto progettato per funzionare, con la sua competenza ed esperienza. A Faussone lo scrittore dà un “piemontese popolare”, non quello arcaico e rurale di certi personaggi di Pavese, ma una lingua cittadina e insieme popolare, impastata della metaforicità del dialetto, che dimostra nello scrittore un orecchio particolarmente dotato per i gerghi e l’oralità (tra gli amici e compagni di scuola aveva fama di inesauribile storyteller orale). Come ha osservato Cesare Segre, critico filologo e semiologo, qui Levi pone una questione decisiva: il lessico letterario è oggi adeguato alle «forme di vita che il modello tecnico ha ampiamente diffuso»? A proposito della lingua e della tecnica si potrebbe suggerire un parallelo con un racconto di Carlo Emilio Gadda, del 1940, Tecnica e poesia, uscito su rivista e poi raccolto in I viaggi, la morte (1958), dove pure si elogia il lavoro ben fatto. Gadda è ingegnere in una fabbrica di fertilizzanti in Belgio, dove incontra un operaio fiorentino laborioso e inventivo: la “mano espertissima”, pronta a “ragionare” sull’aggeggio. La distanza stilistica tra Levi e Gadda è apparentemente abissale: alla limpida, composta essenzialità del primo si contrappone la babele plurilinguistica del secondo. Ma quella distanza si riduce subito se abbandoniamo per un po’ l’immagine convenzionale di un Levi tutto classicheggiante e marmoreo. Mentre, come abbiamo visto, la sua lingua vede un’elevata presenza di figure retoriche (metafore, metonimie, sinestesie, ossimori…) e in qualche caso la razionalità delle intenzioni si arrende anche per lui al “garbuglio” della realtà. La doppia anima nel Sistema periodico Ma il libro in cui meglio emerge la doppia anima dello “scrittore-centauro” e in cui il rapporto tra cultura scientifica e umanistica è più sottilmente e acutamente messo in luce, è Il sistema periodico (1975). In quest’opera la tavola degli elementi di Mendeleev (1834-1907) offre un esempio di ordine, di leggi rigorose e costanti, di bussola per orientarsi nell’apparente caos della natura. Le altre opere 4 557


Le lezioni della chimica sono preziose per la vita: in entrambe, ad esempio, si può dimostrare che la complessità non è impenetrabile dall’intelligenza; che le intuizioni devono essere verificate con l’esperimento; che si deve diffidare del “quasi uguale” (come lo scrittore-chimico aveva avuto modo di constatare, quando aveva trascurato le differenze fra potassio e sodio, dello stesso gruppo ma ben diversamente reattivi); che, come in chimica le impurità favoriscono varie reazioni, così le diversità culturali arricchiscono (nonostante le convinzioni dei fautori delle leggi razziali); che proprio dalle diversità possono nascere le più profonde amicizie, come quella tra l’autore e Sandro Delmastro, che lo scrittore paragona al forte legame chimico (ionico) fra opposti, catione e anione. Alle analogie tra la chimica e la vita umana si ispira dunque tutta la composizione del libro, una sorta di autobiografia in 21 capitoli, ciascuno dedicato a un elemento che segna una tappa della vita e dell’attività di chimico dello scrittore. online T7 Primo Levi

PER APPROFONDIRE

Verso sud La tregua

La tregua: un grande romanzo epico L’opera di Primo Levi appare fortemente legata a una dimensione memorialistica e di testimonianza, ma immaginiamolo per un momento come uno scrittore dell’antichità classica, che dunque attraversa tragedia, epica, racconto mitico. Se questo è un uomo è stato una personale catabasi (o nekuia) dell’autore, come veniva definita nella mitologia greca la discesa di un uomo vivo nell’Ade, nel regno dei morti. La tregua (1963), sua continuazione – cominciato nel 1947 e scritto soprattutto tra il 1961 e il 1962 –, si può leggere come grande romanzo epico, il ritorno di Ulisse a Itaca, ovvero il rientro a casa del protagonista dopo la liberazione di Auschwitz, nel gennaio del 1945, e fino all’ottobre dello stesso anno. Un viaggio complicato e laborioso (anche a causa della burocrazia russa) attraverso l’Europa orientale – dalla Polonia alla Bielorussia e all’Ucraina, dalla Romania all’Austria attraverso Ungheria e Slovacchia, e fino a Torino. Il periodo e gli eventi ricordano quelli di Se non ora, quando? (1982), una storia quasi western di partigiani ebrei, polacchi e russi, che si estende fino alla fine del 1945. Entrambe sono storie di una liberazione. Ma la differenza tra le due narrazioni coincide con la distinzione tra novel e romance, codificata a suo tempo dallo scrittore Walter Scott: La tregua è un novel, un romanzo realistico, che narra fatti accaduti, mentre Se non ora, quando? è un romance, un romanzo cioè di immaginazione, che racconta eventi fittizi, sia pure ispirati alla realtà. Il novel comprende il romanzo storico, è vicino alla storiografia, anche se tende a riportare i fatti storici in una chiave spettacolare e sensazionalistica, mentre il romance riguarda soprattutto il romanzo fantastico, e si allarga a generi come l’horror e il

fantasy. I libri di Levi, pur con il loro spessore documentaristico, sembrano apparentarsi al romance per la rigida separazione tra buoni e cattivi e per il (relativo) lieto fine, anche se quest’ultimo punto appare controverso (su questi temi si veda A. Cinquegrani, Il ritorno a casa secondo Primo Levi, disponibile in rete). La tregua è suddivisa in diciassette capitoli ed è preceduta – come Se questo è un uomo – da una poesia che introduce i temi principali del libro. Il primo capitolo (Il disgelo, scritto appena dopo la guerra) descrive l’arrivo della prima pattuglia russa al campo di Auschwitz mentre Levi e l’amico Charles stanno seppellendo il cadavere di un compagno morto. È la stessa suggestiva immagine con cui comincia il film di Francesco Rosi del 1997 ispirato al romanzo. L’ultimo capitolo (Risveglio) si conclude sulle ultime tappe del viaggio: da Monaco, dove Levi scopre d’essere tra i pochi sopravvissuti (dunque tra i “salvati”, non tra i “sommersi”, per riprendere la sua terminologia) di quanti dall’Italia erano stati deportati nel Lager, fino a Torino. Ma lo scioglimento è in parte illusorio. Qui sulla quiete apparente degli affetti familiari ritrovati, sulla serenità del ritorno a casa, incombe la memoria lacerante del campo di sterminio. Se in tal modo Levi disattiva qualsiasi retorica troppo pacificante dell’happy end resta però l’impressione di una travolgente narrazione epico-avventurosa, che dà un ritmo all’intera vicenda e che interferisce felicemente con il romanzo documentario e con il rigore della testimonianza personale. Levi dirà allo scrittore ebreo americano Philip Roth che «la famiglia, la casa, la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui sento ancora la mancanza, cioè l’avventura».

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Primo Levi

Il risveglio

T8

La tregua Accanto al rigore del cronista troviamo anche una sapienza drammaturgica che si traduce nella citazione – di grande effetto – della parola gridata nel campo di Auschwitz dai carcerieri a inizio di giornata.

P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 2000

Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero1, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ri5 trovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. 10 È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni 15 volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager2. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: 20 la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawać»3. Torino, dicembre 1961 – novembre 1962. 1 lacero: lacerato; l’aspetto fisico di Levi ha qualcosa di desolato, di malandato, come un vecchio cappotto stracciato in più punti.

2 nulla era vero all’infuori del Lager: qui, nel momento di massimo pessimismo da parte dello scrittore, il campo di sterminio, pure esperienza straordinaria, diventa il

sigillo della condizione umana, mentre tutto ciò che è ordinario è solo una breve vacanza o una parentesi di sogno. 3 Wstawać: “sveglia! In piedi!”, in polacco.

Analisi del testo Una tregua Il titolo, semplificato, della Tregua, con cui è stato tradotto in America, è The Reawakening. Riprende alla lettera quello dell’ultimo capitolo (che qui riproponiamo), che riporta Auschwitz a Torino col grido, solo sognato ma certamente spaventoso, «Wstawać». Se l’edizione americana sembra privilegiare un aspetto più ottimista e edificante del romanzo in realtà Primo Levi evita accuratamente qualsiasi happy end consolatorio. L’atmosfera è realistica, dato che si tratta del racconto dettagliato del ritorno nella casa torinese dopo un lungo e tortuoso viaggio nell’Europa appena devastata dalla guerra: lui

Le altre opere 4 559


all’inizio è così lacero e malmesso da non essere riconoscibile, proprio come Ulisse a Itaca. Però l’atmosfera è anche onirica, allucinatoria, trascrizione di un sogno spaventoso, che poi costituisce il nucleo del capitolo. Si tratta del sogno dentro un altro sogno, perciò ancora più disturbante: entro un sogno di pace si infila un altro sogno, che lo riporta al passato che non passa. La pace agognata e ritrovata si svela essere solo una tregua effimera nella drammaticità e caoticità irriducibile dell’esistenza. Anche qui, accanto al dovere della testimonianza troviamo sempre anche il piacere del racconto, il respiro di una libera affabulazione.

Lo stile All’inizio il tempo verbale utilizzato è il passato remoto, classico tempo della narrazione, riferito a eventi lontani, dai quali l’autore si sente distaccato. Mentre il tempo imperfetto è legato alla descrizione di sé stesso («ero gonfio…»). Poi nella seconda parte, con il sogno, Levi usa il presente, tempo più diretto, proprio per avvertirci che è ancora partecipe di quella situazione. La prosa di Levi ha una grande compostezza grammaticale. La sintassi è ordinata, scorrevole, la lingua sobria, con una predilezione per coppie aggettivali: «letto largo e pulito», «un’angoscia sottile e profonda», «un nulla grigio e torbido», «breve e sommessa» (la parola).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in circa 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quali sono i bisogni avvertiti dall’autore? 3. In che cosa consiste il sogno dell’autore?

Interpretare

SCRITTURA 4. Prova a interpretare il finale del brano mettendolo in relazione con la poesia posta in epigrafe a La tregua.

5

10

15

La tregua Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti Sognati con anima e corpo: Tornare; mangiare; raccontare. Finché suonava breve sommesso Il comando dell’alba: “Wstawać”; E si spezzava in petto il cuore. Ora abbiamo ritrovato la casa, Il nostro ventre è sazio. Abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora Il comando straniero: “Wstawać”. 11 gennaio 1946.

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Primo Levi

LEGGERE LE EMOZIONI

Amare il proprio lavoro

T9

La chiave a stella Il brano presenta una riflessione sul lavoro – come primo bisogno dell’uomo – inattuale, negli anni del rifiuto del lavoro.

P. Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino 1997

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, 5 insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di 10 più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente 15 vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende 20 molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.

Analisi del testo Visione utopica e concretissima Levi esprime la sua visione, in un certo senso utopica e insieme concretissima, del lavoro. Concretissima perché vi si parla del mestiere di saldatore, ereditato in Faussone dal padre (stagnino specializzato nel lavorare il rame), con la sua “delicata grammatica” e i suoi innumerevoli “trucchi”. Utopico perché oggi pur nel mondo digitalizzato e nella automazione di larga parte della produzione (il cosiddetto “toyotismo”), prevalgono i lavori umilissimi, faticosi e assai poco creativi, delegati sempre più ai tanti migranti che vengono a cercare fortuna nei paesi europei. Levi, che usa una nomenclatura tecnica funzionale, e sempre sorvegliata, è abilissimo nel trasformare il lessico dialettale di Faussone in un italiano espressivo e comprensibile.

Competenza e ingegnosità Proviamo a partire da Calvino: «La mia morale fa parte dell’etica del lavoro. Il senso di tutto è il lavoro» (da Sono nato in America. Interviste 1951-1985, Mondadori 2013). Sono parole pronunciate un anno dopo la comparsa della Chiave a stella di Primo Levi – di cui lo stesso Calvino aveva scritto il risvolto – e testimoniano dello scambio continuo e della influenza reciproca dei due scrittori. Il romanzo di Levi è solo il momento culminante di un pensiero lungamente meditato, come scrive Giovanni Tesio, uno dei principali studiosi dello

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scrittore. In Se questo è un uomo c’era il lavoro schiavizzato dei deportati, sotto la scritta amaramente beffarda del campo – «Il lavoro rende liberi» –, mentre nella Tregua viene raccontata la assoluta refrattarietà al lavoro di un personaggio, il Greco, il quale ritiene di meritare il fatto che qualcuno lo mantenga, convinto che «il mondo infine provasse pietà per noi». Qui si inserisce però un altro personaggio, Mordo Nahum, con la sua visione del mondo imperniata invece sul lavoro inteso come “sacro dovere”, ma inteso in un senso così ampio da esserne stravolto, poiché comprende «tutto ciò che porta a guadagno senza limitare la libertà», dunque anche attività come il contrabbando, il furto, la truffa. Al centro della Chiave a stella troviamo il lavoro come competenza e ingegnosità, come orgoglio e sfida, come progresso e libertà immaginativa: l’amare il proprio lavoro – una cosa che in questa società piena di lavori alienanti non è consentita a tutti, come sa bene Levi – è la migliore approssimazione in terra al paradiso, alla felicità.

Romanzo controcorrente Si tratta di un romanzo unico e controcorrente per quegli anni. Il suo protagonista Libertino Faussone, che sale sui tralicci con la chiave a stella, che con le sue mani più espressive del viso stesso prova a dare un ordine al caos del mondo, come farebbe un chimico o uno scrittore, appartiene a una “aristocrazia operaia” ben distante da quell’operaio-massa protagonista delle lotte sociali degli anni Settanta, l’operaio che lavora alla catena di montaggio, anonimo e privo di qualsiasi professionalità e specializzazione. In lui il lavoro manuale torna a farsi libero, autonomo e creativo: un cavaliere errante protagonista, come scrive Ernesto Ferrero, di una nuova, possibile dimensione dell’avventura, quella che non rifiuta la tecnica ma la riproduce «sulla base di un’antica, antichissima disposizione umana al mutamento e al meraviglioso» (come leggiamo nel romanzo). Levi riesce a far parlare Faussone perché, oltre a condividere con lui il gusto della manualità e il piacere del lavoro fatto a regola d’arte, ha esercitato a lungo «quell’arte del racconto orale» (sempre Ferrero). L’etica che qui propone Levi, pur con tutta la problematicità di cui è capace, e certamente inserita in un contesto specifico, rappresenta un’etica altissima da cui non si può prescindere. Come dice Camus nella Peste pensando al protagonista, il medico Rieux: «Fare il bene vuol dire anzitutto fare bene quello che si fa».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa vuol dire che “amare il proprio lavoro” è privilegio di pochi? 2. Per quale motivo secondo l’autore è nocivo scendere in campo carichi di odio nei confronti del proprio lavoro? ANALISI 3. Se l’autore parla di «istanti prodigiosi e singoli» per definire la felicità, quale idea ha della stessa?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

LETTERATURA E NOI 4. Secondo te ha ragione Levi quando afferma che l’odio per il proprio lavoro «dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge»? SCRITTURA 5. Hai già pensato al lavoro che ti piacerebbe fare? Sei d’accordo con l’autore che amare il proprio lavoro può rendere felici?

online T10 Primo Levi

L’etica del lavoro di un operaio specializzato La chiave a stella

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Primo Levi

T11

Carbonio Il sistema periodico

P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 1975

La Tavola di Mendeleev è una tavola dove tutti gli elementi chimici allora noti (1869) vengono ordinati in base alle loro masse atomiche crescenti. Si chiama periodica perché le loro proprietà chimiche e fisiche sono “periodiche”, si ripetono con regolarità. Levi segue la linea della tavola come una sequenza narrativa e associa un racconto a ognuno dei 21 elementi periodici: dall’idrogeno, zinco, ferro, potassio all’uranio, argento, carbonio. Questo racconto è quello conclusivo – del carbonio –, vera e propria biografia picaresca di un elemento chimico, che dopo varie peripezie finisce nel cervello dell’autore.

Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. È una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri 5 con l’acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della vite, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le sostanze che sono destinate a (stavo per dire “desiderano”) trasformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perché un anello, e perché esagonale, e perché solubile in acqua, ebbene, si dia pace: queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina 10 sa rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo qui. È entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino né carne né pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto col mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità più alta, che è quella di far parte di un edificio proteico. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia 15 per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non la sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione alcolica, e giunse al vino senza mutare natura. È destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma non 20 fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più d’una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla corrente del sangue 25 fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole d’acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l’ansito1 dei polmoni poté procurare l’ossigeno necessario ad ottenere con calma quest’ultimo. Così una nuova molecola d’anidride carbonica ritornò all’atmosfera, ed una parcella dell’energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato 30 di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nella ignava2 condizione di calore, riscaldando impercettibilmente l’aria smossa dalla corsa ed il sangue del corridore. “Così è la vita”, benché raramente essa venga così descritta; un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’ener1 Ansito: respiro.

2 Ignava: pigra.

Le altre opere 4 563


gia, dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida. Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo; se ne possono immaginare o inventare altri, ma sulla terra è così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e l’Adriatico, 40 la Grecia l’Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete. L’atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. Non è più la fissità allucinante e geologica della 45 roccia, non sono più i milioni di anni, ma possiamo bene parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. È in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per cinquecento: diremo che dopo vent’anni (siamo nel 1868) se ne occupa un tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la corteccia, con la voracità ostinata e cieca della sua razza; trapanando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, 50 ha ingoiato ed incastonato in se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera sotto forma di una brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata ed abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là, in uno dei mille occhi dell’insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L’insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo 55 cadavere giace nel sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una “cosa”, ma la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, 60 i microrganismi dell’humus. La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l’ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo. Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura umana faremo notare che esso è invece assai più breve della media: questa, ci si assicura, è di duecento anni. Ogni 65 duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. Esistono altre porte? Sì, alcune sintesi create dall’uomo; sono un titolo di nobiltà per l’uomo-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa è trascurabile. 70 Sono porte ancora molto più strette di quella del verde vegetale: consapevolmente o no, l’uomo non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall’anidride carbonica dell’aria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e per i cento altri bisogni più sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché non ne ha avuto bisogno: ha 75 trovato, e tuttora trova (ma per quanti anni ancora?), gigantesche riserve di carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la fotosintesi non è solo l’unica via per cui il carbonio si fa vivente, 80 ma anche la sola per cui l’energia del sole si fa utilizzabile chimicamente. 35

564 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


Analisi del testo Descrizione dettagliata Con le sue peregrinazioni e trasmutazioni, degne di un romanzo di viaggi e di avventura, si conclude la narrazione: un atomo inizialmente confinato in una molecola di glucosio che finisce in un bicchiere di vino e si trasforma in energia del corpo o anche in una tazza di latte, fissandosi nel nostro cervello. Levi ha scritto il racconto come un referto scientifico, ma la descrizione dettagliata, “tecnica” delle successive metamorfosi dell’atomo di carbonio è condita di ironia: «Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo…». In poche battute ripercorre la storia dell’universo e della materia, dove tutto origina dalla fotosintesi, anche la nostra vita morale ed emotiva.

Narrazione personalissima Il sistema periodico (1975) è il quinto libro pubblicato da Primo Levi. Si tratta di un unicum, di un miracolo letterario: Levi riesce cioè a fare poesia – come dice, una «poesia alta e solenne» – con gli elementi del sistema periodico, componendo una narrazione personalissima dell’avventura della chimica, fatta di elementi autobiografici (i primi esperimenti, il primo impiego lavorativo, le esperienze nel Lager connesse al suo mestiere di chimico). Ventun racconti, tanti quanti sono gli elementi della tavola periodica ottocentesca di Mendeleev, una classificazione che provava a ordinare gli elementi chimici allora conosciuti: argon, idrogeno, zinco, ferro, potassio, nichel, piombo, mercurio… I primi racconti, Piombo e Mercurio, sono stati scritti agli inizi degli anni Quaranta. Così lo scrittore spiega la sua passione per questa disciplina: «La nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi» (dal racconto Ferro). Occorre dire subito che Primo Levi è uno dei pochi scrittori italiani del Novecento a mantenere una qualche saldatura tra le cosiddette “due culture”, tra cultura umanistica e cultura scientifica: l’espressione viene da un saggio di Charles P. Snow del 1959 sull’incomunicabilità reciproca tra letterati e scienziati dentro la modernità. Il nome di Primo Levi va messo accanto a quelli di Gadda e Sinisgalli (entrambi ingegneri), di Carlo Levi e Giuseppe Bonaviri (medici), ma anche a Tommaso Landolfi e Calvino. Il maestro riconosciuto di Levi è Darwin: «Dall’opera di Darwin [...] spira una religiosità profonda e seria, la gioia sobria dell’uomo che dal groviglio estrae l’ordine, che si rallegra del misterioso parallelismo fra la propria ragione e l’universo, e che nell’universo vede un grande disegno. […] Negando all’uomo un posto di privilegio nella creazione, riafferma col suo stesso coraggio intellettuale la dignità dell’uomo». Il grande scienziato inglese immaginava l’evoluzione come un meccanismo cieco, svolto attraverso variazioni genetiche casuali – su pressione dell’ambiente – che generano comportamenti adattivi. In ciò riconosceva, come Levi, un qualche “ordine” della natura, benché questo “ordine” sia per noi indecifrabile e assai diverso da qualsiasi ordine morale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è il punto di partenza dell’atomo di carbonio? ANALISI 2. Quale forza avvia la trasformazione? STILE 3. In questo brano, come in tutto il libro, Levi cerca di coniugare cultura scientifica e umanistica: ci sono passaggi scientifici e altri di pura fantasia. Rintracciali nel testo e distinguili.

Interpretare

online T12 Primo Levi

Le leggi della chimica e quelle dell’amicizia Il sistema periodico

ESPOSIZIONE ORALE 4. Scegli un altro racconto dedicato a un elemento chimico, leggilo ed esponilo alla classe cercando di spiegare bene il legame con la vita di Levi.

online T13 Primo Levi

L’importanza del comunicare I sommersi e i salvati

Le altre opere 4 565


Primo Levi

T14 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1991

Affinare i nostri sensi

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

I sommersi e i salvati Una meditazione ancora sulla condizione umana che, nascendo dall’esperienza diretta e da una interrogazione pluridecennale, ha l’urgenza di un libro profetico e la freschezza di un saggio non accademico.

Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; come ho accennato più sopra, è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e 5 privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea 10 di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono «belle parole» non sostenute da buone ragioni. È stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il genere umano non ne può fare a meno. È anche stato detto che 15 i conflitti locali, le violenze in strada, in fabbrica, negli stadi, sono un equivalente della guerra generalizzata, e che ce ne preservano, come il «piccolo male», l’equivalente epilettico, preserva dal grande male. È stato osservato che mai in Europa erano trascorsi quarant’anni senza guerre: una pace europea così lunga sarebbe un’anomalia storica. Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e 20 violenze non c’è bisogno, in nessun caso. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca, come sembra dimostrare l’attuale interminabile situazione di stallo, in cui le massime potenze si fronteggiano con viso cordiale o truce, ma non hanno ritegno a scatenare (o a lasciare che si scatenino) guerre sanguinose fra i 25 loro «protetti», inviando armi sofisticate, spie, mercenari e consiglieri militari invece che arbitri di pace. Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi. In effetti, molti segni fanno pensare ad una genealogia della violenza odierna che si dirama proprio da quella dominante nella Germania di Hitler. Certo non 30 mancava prima, nel passato remoto e recente: tuttavia, anche in mezzo all’insensato massacro della prima guerra mondiale, sopravvivevano i tratti di un reciproco rispetto fra i contendenti, una traccia di umanità verso i prigionieri ed i cittadini inermi, un tendenziale rispetto dei patti: un credente direbbe «un certo timor di Dio». L’avversario non era né un demonio né un verme. Dopo il Gott mit uns nazista tutto è cambiato. 35 Ai bombardamenti aerei terroristici di Göring hanno risposto i bombardamenti «a tappeto» alleati. La distruzione di un popolo e di una civiltà si è dimostrata possibile, e desiderabile sia in sé, sia come strumento di regno. Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra. L’esodo di cervelli dalla Germa-

566 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


nia e dall’Italia, insieme con la paura di un sorpasso da parte degli scienziati nazisti, ha partorito le bombe nucleari. I superstiti ebrei disperati, in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio, hanno creato in seno al mondo arabo un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio rinnovato. Dopo la disfatta, la silenziosa diaspora nazista ha insegnato le arti della persecuzione e della 45 tortura ai militari ed ai politici di una dozzina di paesi, affacciati al Mediterraneo, all’Atlantico ed al Pacifico. Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la «Battaglia» di Adolf Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione di nomi, può ancora venire a taglio. 40

L’esempio hitleriano ha dimostrato in quale misura sia devastante una guerra combattuta nell’era industriale, anche senza che si faccia ricorso alle armi nucleari; nell’ultimo ventennio, la sciagurata impresa vietnamita, il conflitto delle Falkland, la guerra Iran-Iraq ed i fatti di Cambogia e d’Afghanistan ne sono una conferma. Tuttavia ha anche dimostrato (non nel senso rigoroso dei matematici, purtroppo) che, almeno qualche volta, almeno in parte, le colpe storiche vengono punite; i po55 tenti del Terzo Reich sono finiti sulla forca o nel suicidio; il paese tedesco ha subito una biblica «strage di primogeniti» che ha decimato una generazione, ed una bipartizione che ha posto fine al secolare orgoglio germanico. Non è assurdo assumere che, se il nazismo non si fosse mostrato fin dall’inizio così spietato, l’alleanza fra i suoi avversari non si sarebbe costituita, o si sarebbe spezzata prima della fine 60 del conflitto. La guerra mondiale voluta dai nazisti e dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero essere temute come tali. Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il 65 termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi 70 e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori, e completata poi dal Drill delle SS. A questa milizia parecchi avevano aderito per il prestigio che conferiva, per la sua 75 onnipotenza, o anche solo per sfuggire a difficoltà famigliari. Alcuni, pochissimi per verità, ebbero ripensamenti, chiesero il trasferimento al fronte, diedero cauti aiuti ai prigionieri, o scelsero il suicidio. Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno 80 accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le «belle parole» del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti, miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato gioco politico. 50

Le altre opere 4 567


Analisi del testo Regredire all’infanzia barbarica Il Lager potrà tornare di nuovo, o almeno qualche sua variante? La risposta di Levi è: sì e no. Probabilmente no, perché almeno in questa parte di mondo abbiamo acquisito una matura consapevolezza storica che ce ne tiene lontani, anche se forme più morbide o nascoste di totalitarismo si possono sempre instaurare (oltre al fatto incredibile che simpatizzanti più o meno espliciti del fascismo continuano a trovarsi in ogni paese europeo). Ma anche sì, perché in altri contesti, specie fuori dall’Occidente – dunque più distanti dal trauma di quella esperienza collettiva – non si sono sviluppati neanche gli anticorpi morali minimi; soprattutto perché quell’ibrido che è l’uomo, con la sua doppia natura razionale e animale (un animale terrestre, adattivo e appena più evoluto degli altri), in bilico «tra il nulla e l’infinito», può sempre regredire all’«infanzia barbarica della civiltà».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che modo secondo Levi si potrà evitare un nuovo Olocausto? 2. Quale giudizio ha di guerre e violenze? ANALISI 3. A chi dà la colpa Levi di quanto accaduto? 4. Perché non è accettabile la teoria della violenza preventiva?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. «Tutte le guerre dovrebbero essere temute», affermazione quanto mai attuale visto quello che accade oggi. Sei d’accordo?

competenza 1

online T15 Primo Levi

La vergogna del sopravvissuto I sommersi e i salvati

Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, Levi fa dell’esperienza dolorosa dei Lager un’occasione per attivare la memoria collettiva. «Se comprendere è impossibile» sostiene lo scrittore «conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Scrivi un testo argomentativo, sviluppando una tua personale riflessione in merito a questa tematica.

568 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


5 La Shoah e la memoria 1 Il significato della memoria

online

Memoriale della Shoah di Milano Il “Museo della Shoah” della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea percorsi didattici con film e libri sulla Shoah

«Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione –, allora non basterà». Così scriveva in una lettera del dicembre 1942 l’ebrea olandese Etty Hillesum, nata nel 1914 e morta poi ad Auschwitz nel novembre del 1943, autrice di un famoso Diario. La speranza di poter ricavare «un nuovo senso delle cose» dall’abisso di sofferenze della tragedia ebraica impone naturalmente innanzitutto di perpetuarne il ricordo. Per questa ragione anche in Italia, come in molti altri paesi, si è deciso (con una legge del 2000) di istituire una Giornata della Memoria, il 27 gennaio, ricorrenza dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz. Una memoria che tuttavia deve accompagnarsi a una riflessione sulle cause e sulle responsabilità di una tragedia che, come ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017) nel libro Modernità e Olocausto (2010), lungi dal rappresentare una temporanea regressione della civiltà, ha trovato le condizioni per realizzarsi proprio nel mondo moderno, per l’apparente oggettività di un razzismo “scientifico” (impensabile prima del positivismo) e per i mezzi tecnologici che hanno consentito deportazioni e massacri di dimensioni in passato sconosciute.

2 Il trauma dell’emarginazione La letteratura sulla persecuzione ebraica non è solo il racconto sull’orrore dei campi di concentramento: le memorie delle vittime (di cui ci è rimasta testimonianza) e degli scampati mostrano come il calvario degli ebrei abbia avuto inizio con umiliazioni e leggi discriminatorie, giungendo progressivamente all’annientamento finale. Quasi tutte le memorie degli ebrei si soffermano su alcune situazioni traumatiche, la prima delle quali è essere all’improvviso trattati da estranei in un mondo a cui in precedenza si era convinti a buon diritto di appartenere. Le idee hitleriane sulla superiorità razziale tutto a un tratto sono considerate non farneticazioni ma verità scientifiche; in Germania e nei paesi invasi, agli ebrei è vietato l’accesso a parchi pubblici, spettacoli cinematografici, bar e caffè, scuole; devono percorrere strade fiancheggiate da cartelli antisemiti, portare la stella gialla; non possono sedersi sui mezzi pubblici; nella sua autobiografia, Vivere ancora, Ruth Klüger, scrittrice ebrea austriaca nata nel 1931, ricorda come, bambina nella Vienna invasa dai nazisti, a differenza dei cugini più grandi, non avesse potuto conoscere quasi nulla della città, perché la maggior parte dei luoghi le erano vietati. Dal 1938, la stessa dolorosa esperienza coinvolge gli ebrei italiani che, ormai assimilati al resto della popolazione, si sentivano cittadini non diversi da tutti gli altri: in luglio, un’accolita di scienziati di fede fascista pubblica un manifesto in cui, sotto una parvenza di oggettività e di scientificità, si teorizza che gli appartenenti a una pretesa pura “razza italiana” debbano evitare ogni “contaminazione”, ogni La Shoah e la memoria 5 569


contatto, con gli ebrei, dichiarati «diversi in modo assoluto». Si prepara così l’opinione pubblica alle leggi razziali, proclamate il 17 settembre 1938, che incontrano solo sporadiche opposizioni, tali da non impensierire il regime. Così quell’anno i bambini e i ragazzi ebrei sono allontanati dalle loro scuole, i professori dall’insegnamento, i membri dei circoli e delle accademie dalle loro associazioni, i padri di famiglia dal loro lavoro. Pochi anni dopo, anche l’Italia fascista parteciperà all’ignominia della cattura degli ebrei e contribuirà alla “soluzione finale”, che porterà tanti innocenti verso la morte nei campi di sterminio. Una dura e asciutta cronaca, opera del critico Giacomo Debenedetti (1901-1967), ci restituisce “in presa diretta” il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma. Il titolo del resoconto non fa alcuna concessione alla “letteratura”, ma riporta esclusivamente la data di quel giorno terribile: 16 ottobre 1943.

Giacomo Debenedetti

D1

La cattura degli ebrei nel ghetto di Roma 16 ottobre 1943

G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Einaudi, Torino, 2001

Si narra della deportazione di mille ebrei romani.

Le SS che compirono questa razzia appartenevano a un reparto specializzato, giunto dal Nord la sera prima, all’insaputa di tutte le altre truppe tedesche di stanza a Roma. Non erano pratici della città, e non ebbero tempo di compiere sopraluoghi nei punti in cui dovevano operare, tanto è vero che uno dei reparti comandati al Ghetto 5 si fermò sulla via del Mare ad aspettare dei passanti, rari in quell’ora mattutina, che gli indicassero dov’era via della Raganella. (Intendevano: della Reginella). A taluni di quei giovanotti non sembrò vero di poter disporre di un automezzo, sia pure carico di ebrei razziati, per fare un po’ di giro turistico della città. Sicché, prima di raggiungere il luogo di concentramento, i disgraziati che stavano nell’in10 terno dovettero subire le più capricciose peregrinazioni, sempre più incerti sul loro destino e, ad ogni nuova svolta, ad ogni nuova via che infilassero, assaliti da diverse e tutte inquietanti congetture. Naturalmente, la meta più ambita di quei turisti era Piazza S. Pietro, dove parecchi dei camion stazionarono a lungo. Mentre i tedeschi secernevano i wunderbar da costellarne il racconto che si riservavano di fare, in pa15 tria, a qualche Lili Marleen, dal di dentro dei veicoli si alzavano grida e invocazioni al Papa, che intercedesse, che venisse in aiuto. Poi i camion ripartivano, e anche quell’ultima speranza era svanita. Gli ebrei furono ammassati nel Collegio Militare. I camion entravano, andavano a fermarsi davanti al porticato di fondo. Le operazioni di scarico si svolgevano con 20 la stessa ruvidezza e sommarietà con cui erano avvenute quelle di carico. I nuovi arrivati erano fatti schierare per tre, a qualche distanza da gruppi consimili, che già stazionavano sotto la sorveglianza di numerose sentinelle tedesche armate fino ai denti. Tra un gruppo e l’altro, con burbanzoso cipiglio di ispettori e aria soddisfatta da giorno di sagra, furono veduti circolare alcuni fascisti repubblicani. 25 A partire da una certa ora, vennero formate delle squadre che, separati gli uomini dalle donne, furono convogliate nelle aule del Collegio. Regnava in queste

570 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


una oscurità da limbo, perché le imposte erano state ermeticamente chiuse. Fin dal cortile – dove per tutto il giorno durò la massima confusione – si udivano le grida di affanno e le lugubri vociferazioni di pena che si mescolavano in quelle 30 aule. Ogni tanto un ordine minaccioso, urlato in italiano, ristabiliva un momentaneo e quasi più angoscioso silenzio. Poche ore erano bastate perché nei locali stipatissimi, cominciasse a stagnare quella vita infetta, che è come il miasma di tutte le carceri e luoghi di deportazione. Sentinelle e sorveglianti impedivano quasi sempre di raggiungere le latrine. Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre 35 quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza più rispetto di se stessi, fu subito evidente. Forse i tedeschi non si aspettavano un cosi completo successo. L’abbondanza del materiale rastrellato superò le previsioni, almeno a giudicare dal luogo prescelto per ammassarlo, che ben presto si rivelò insufficiente. E bisognò lasciare sotto il 40 porticato gran numero di persone, che le aule non potevano più contenere. Gli uomini più ben portanti, quelli da cui c’era da temere qualche «alzata», furono messi col capo volto verso il muro, che è l’ormai classica posizione, umiliante e intimidatrice, inventata dai nazi fin dalle prime persecuzioni contro gli ebrei. Se qualche bambino si provava a giocare, le sentinelle intimavano alla madre di farlo 45 smettere, con la solita minaccia di fucilazione. Fu stesa qualche branda di paglia, e dato l’ordine di sdraiarvisi. Nella notte due donne furono prese dalle doglie. I medici italiani diagnosticarono in entrambi i casi dei parti difficili, che richiedevano l’intervento. La clinica, per quelle donne, sarebbe stata la via della libertà. Ma i tedeschi non consentirono il 50 trasporto, e i due neonati aprirono gli occhi sulle tenebre di quel malaugurato cortile. Quali nomi saranno stati dati a questi due primogeniti di una nuova schiavitù di Babilonia? (Gheresciòm aveva chiamato Mosè il figlio della servitù, «pellegrino in terrà straniera», natogli da Sipporà, ma i due nati di quella notte senza Mosè erano pellegrini verso le camere dei gas). 55 Si ottenne invece di operare in ospedale un ragazzo che presentava un ascesso suppurato. Ma i tedeschi rimasero presenti all’atto chirurgico e, subito che fu terminato, si ripresero il ragazzo. Così trascorsero la notte del sabato, la giornata della domenica, la notte della domenica. In città e nel Ghetto si era intanto saputo dove gli sciagurati erano stati 60 condotti. I parenti, spacciandosi per amici «ariani», giunsero alle porte del Collegio, consegnarono viveri e biglietti per i reclusi, ma non seppero mai se quei conforti fossero arrivati a destinazione. Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina ri65 masero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio. Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese quasi subito che nei carri bestiame «erano racchiusi» – così si esprime una sua relazione – «numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risul70 tarono appartenere a razza ebraica». Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato», da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno La Shoah e la memoria 5 571


75

dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro. Novembre 1944.

Concetti chiave L’urgenza del dolore e della pietà Come afferma Natalia Ginzburg in un articolo su «La Stampa» non possiamo fare a meno di ammirare la forza dello stile, sembra che a parlare sia la stessa realtà. Sono pagine scritte sotto l’urgenza del dolore, ma anche della pietà.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi ha il compito di rastrellare gli ebrei romani? Con quale appellativo li apostrofa l’autore? ANALISI 2. Il fatto che per vedere la città che non conoscono fanno subire agli ebrei razziati «le più capricciose peregrinazioni», che cosa denota?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Metti a confronto il racconto di Debenedetti per quanto concerne il trattamento degli ebrei a Roma e quello raccontato da Levi in Se questo è un uomo (➜ T3 ).

3 Il tema dell’esclusione nell’opera di Giorgio Bassani La biografia Nato a Bologna nel 1916 e appartenente a una famiglia della buona borghesia ebraica, Bassani vive a Ferrara fino al 1943, anno in cui è arrestato perché antifascista. Liberato dopo il 25 luglio, partecipa alla Resistenza; si trasferisce poi con la famiglia a Roma, dove esercita varie attività: scrittore, giornalista, redattore e consulente editoriale. Muore a Roma nel 2000. L’opera narrativa L’emarginazione da una società a cui si era creduto di appartenere domina l’opera narrativa dello scrittore ebreo ferrarese Giorgio Bassani, che nei suoi libri non narra dei campi di concentramento, ma li fa avvertire sullo sfondo, proiettandone l’ombra tragica sulle vicende narrate. Nei suoi romanzi lo scrittore denuncia implacabilmente le estese complicità con i soprusi del regime, dovute all’inerzia morale, alla vigliaccheria, all’egoismo della buona società ferrarese, più intenta a salvaguardare le apparenze che a interrogarsi su quanto stava accadendo. Nel romanzo Gli occhiali d’oro (1958; riedito con varianti nel 1970) l’autore intreccia due vicende di esclusione. L’una, subita dal protagonista narratore, studente ebreo a cui la campagna antisemita e le leggi razziali creano d’improvviso un vuoto intorno, fatto di incomprensione, indifferenza, mancanza di solidarietà dei presunti amici; l’altra, vissuta da un medico, prima prediletto dall’alta borghesia ferrarese, poi emarginato a causa di una relazione omosessuale con un giovane cinico e crudele che lo deruba e lo espone a chiacchiere diffamatorie, minandone irrimediabilmente la credibilità professionale e alienandogli la clientela; ridotto alla più miserabile solitudine, il medico si toglie la vita.

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In altre sue opere Bassani rivela con grande amarezza come i meccanismi dell’esclusione sociale siano attivi anche nel dopoguerra, e come la buona borghesia cittadina non abbia fatto alcun esame di coscienza per gli eventi della Shoah: ne è una prova il toccante racconto Una lapide in via Mazzini (pubblicato in Cinque storie ferraresi nel 1956; riedito con varianti nel Romanzo di Ferrara I. Dentro le mura, nel 1973) in cui un reduce dai campi di concentramento, Geo Josz, quando si abbandona ai suoi ricordi, è circondato da un crescente fastidio e da una sorta di disgusto dei suoi concittadini che desiderano solo godersi la vita e dimenticare, come se nulla fosse stato.

Il giardino dei Finzi-Contini: un Eden minacciato dalla storia Una vicenda nata dalle leggi razziali Anche il capolavoro di Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini (pubblicato nel 1962; riedito, con varianti, nel Romanzo di Ferrara III nel 1973), prende le mosse dal tema dell’esclusione: a causa delle leggi razziali il protagonista-narratore viene espulso in quanto ebreo dal circolo tennistico cittadino; questa vicissitudine gli apre però le porte della sontuosa dimora della ricca famiglia ebrea dei Finzi-Contini, poi tutti sterminati nei campi di concentramento. Il romanzo ha una struttura attentamente calibrata, a schema concentrico, con un Prologo in cui il narratore, trovandosi, molti anni dopo gli eventi narrati, in gita ai sepolcri etruschi di Cerveteri, ricchi di oggetti cari in vita ai defunti, ripensa, per malinconico contrasto, alla tomba dei Finzi-Contini, che non ha potuto ospitare la bella Micòl, i suoi genitori, la vecchia nonna, tutti dispersi nei campi di concentramento in Germania. La conclusione è un breve e scarno Epilogo col resoconto della fine della famiglia: una cornice di morte, in cui è incastonata la narrazione dedicata alla giovinezza, alla vita, all’amore del protagonista-narratore per l’affascinante Micòl. Il quadro storico del romanzo La vicenda, creazione romanzesca (sia la principesca dimora con lo splendido parco, che molti lettori hanno vanamente cercato a Ferrara, sia Micòl sia gli altri personaggi sono immaginari), ma ispirata alle reali vicissitudini di Bassani e degli ebrei ferraresi, offre la puntuale ricostruzione storica di una città italiana che precipita nell’incubo delle persecuzioni razziali e poi del secondo conflitto mondiale. Lo spaccato storico-sociale ferrarese emerge con nitida chiarezza attraverso il contrasto tra le due famiglie, del narratore e di Micòl, che incarnano due modi opposti di vivere l’ebraismo, gli uni aspirando all’integrazione, gli altri coltivando l’isolamento; due scelte incompatibili che si riflettono sui due giovani, causando incomprensioni che conducono all’allontanamento finale, determinato soprattutto dal loro diverso modo di reagire davanti all’infuriare della storia: il protagonista-narratore con un atteggiamento più passivo e inconsapevole, Micòl con uno spirito chiaroveggente, maturato nella lunga abitudine all’isolamento. Così, dietro una vicenda di amore mancato, si avverte un più vasto orizzonte storico. Il simbolo del giardino Nell’immenso parco recintato, emblematico dell’isolamento dei Finzi-Contini, ma anche sorta di Eden, di paradiso su cui incombe la minaccia della storia, un gruppo di ragazzi (l’io narrante, Micòl, suo fratello Alberto, morto prima della deportazione della famiglia per un linfogranuloma maligno, e l’amico Giampiero Malnate, comunista e confidente in un luminoso futuro dell’umanità, La Shoah e la memoria 5 573


destinato a morire in Russia in guerra) vive una breve stagione (un autunno, che il tempo caldo e luminoso fa scambiare per una primavera) di serena giovinezza. Ma si tratta di una parentesi di spensieratezza del tutto illusoria, come ben sa la più forte e consapevole di tutti loro: «Certo è che, quasi presaga della prossima morte, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale, non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui” e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato» (citando l’incipit di un sonetto di Stéphane Mallarmé, «Il vergine, il bello e il vivace presente»). Il simbolismo dello spazio e del contrasto ombra/luce Il romanzo, apparentemente realistico, è in realtà fitto di connotazioni simboliche, in particolare relative allo spazio e alla dicotomia ombra/luce. La narrazione è suddivisa in quattro parti che, attraverso una simbologia spaziale, scandiscono le fasi del contrastato rapporto fra Micòl e il protagonista-narratore: dapprima questi è escluso dal favoloso giardino dell’aristocratica famiglia, e quando è invitato da Micòl a scavalcarne il cancello, non osa farlo; nella seconda parte, dopo l’espulsione dal circolo tennistico cittadino, è accolto nel parco dove si trova il campo da tennis; nella terza, quando le leggi razziali lo privano anche della possibilità di accedere alla biblioteca comunale, varca le soglie della dimora signorile perché invitato dal padre di Micòl a continuare la sua tesi di laurea in lettere nella ben fornita biblioteca del palazzo; infine sale fino alla stanza di Micòl, la più elevata della casa, un’“ascesa” che però simbolicamente prelude ad una caduta quando il rapporto con la ragazza, dopo un crescendo di incomprensioni, si incrina definitivamente. Altrettanto ricca di connotazioni simboliche, e con suggestioni che richiamano la poesia di Leopardi e di Pascoli, è l’ambientazione nella stagione tiepida e luminosa dell’estate di San Martino, che d’improvviso e inesorabilmente precipita in un malinconico e piovoso autunno, metafora del buio periodo storico che inghiottirà amori, gioie, amicizie, bellezza. Giorgio Bassani.

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Giorgio Bassani

T16

Le leggi razziali e l’ingresso nel mondo aristocratico Il giardino dei Finzi-Contini

G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Einaudi, Torino 1962

Il protagonista narratore conosce da sempre Alberto e Micòl Finzi-Contini, come lui ebrei e pressappoco suoi coetanei, ma non li ha mai frequentati perché, per l’abitudine all’isolamento della loro famiglia, i due hanno studiato privatamente, conducendo una vita quasi priva di contatti con gli altri giovani ferraresi. Le leggi razziali cambiano tutto a un tratto le cose.

La volta che mi riuscí di passarci davvero, di là dal muro di cinta del Barchetto del Duca1, e di spingermi fra gli alberi e le radure della gran selva privata fino a raggiungere la magna domus2 e il campo di tennis, fu assai piú tardi, quasi dieci anni dopo. Si era nel ’38, a circa due mesi da quando erano state promulgate le leggi razziali. Ri5 cordo bene: un pomeriggio, verso la fine di ottobre, pochi minuti dopo esserci alzati da tavola, avevo ricevuto una telefonata di Alberto Finzi-Contini. Era vero o no, mi aveva chiesto subito, trascurando ogni preambolo (notare che non avevamo avuto occasione di scambiar parola da piú di cinque anni), era vero o no che io e «tutti gli altri», con lettere firmate dal vice-presidente e segretario del Circolo del Tennis Eleonora d’Este, 10 marchese Barbicinti, eravamo stati dimessi in blocco dal club: «cacciati via», insomma? Smentii recisamente: non era vero, non avevo ricevuto nessuna lettera del genere; almeno io. Ma lui, immediatamente, come se ritenesse la mia smentita priva di valore, o come se addirittura non fosse stato ad ascoltare, a propormi di andare senz’altro da loro, 15 a giocare a casa loro. […] [All’incertezza del protagonista se accettare l’invito, si somma la diffidenza di suo padre, da sempre desideroso di integrarsi nella borghesia ferrarese fascista, e perciò diffidente dello snobismo dei Finzi-Contini.] Era un martedí. Non saprei dire perché di lí a pochi giorni, il sabato di quella stessa settimana, mi risolvessi a fare proprio il contrario di quanto mio padre desiderava. Escluderei che c’entrasse il solito meccanismo di contraddizione che induce i figli alla disubbidienza. A invogliarmi improvvisamente a tirar fuori la racchetta e i vestiti 20 da tennis, che riposavano in un cassetto da piú di un anno, forse non era stata che la giornata luminosa, l’aria leggera e carezzevole di un primo pomeriggio autunnale straordinariamente soleggiato. Sta il fatto, ad ogni modo, che nel frattempo erano accadute varie cose. Prima di tutto, credo a due giorni di distanza dalla telefonata di Alberto, dunque il 25 giovedí, la lettera che «accoglieva» le mie dimissioni da socio del Circolo del Tennis Eleonora d’Este mi era effettivamente arrivata. Scritta a macchina, ma con tanto di firma, in calce, dell’N. H.3 marchese Ippolito Barbicinti, la raccomandata-espresso non indugiava in considerazioni personali e particolari. In poche righe secche secche, maldestramente echeggianti lo stile burocratico, andava dritta allo scopo: 30 si limitava a richiamarsi alle «precise direttive impartite dal Segretario federale», 1 Barchetto del Duca: il nome della proprietà dei Finzi-Contini. 2 magna domus: lat. “grande casa”.

3 N.H.: abbreviazione del latino Nobilis Homo (uomo nobile).

La Shoah e la memoria 5 575


dichiarando senz’altro «inamisibile» (sic) una ulteriore frequentazione del Circolo da parte della mia «Sig.ria Ill.ma». (Poteva mai esimersi, il marchese Barbicinti, dal condire ogni sua prosa di qualche svista ortografica? Si vede di no. Ma prenderne nota, e riderne, questa volta era stato un po’ piú difficile delle precedenti). 35 In secondo luogo, mi pare il giorno successivo, venerdí, c’era stata per me una nuova chiamata al telefono proveniente dalla magna domus; e non piú da parte di Alberto, questa, bensí di Micòl. Ne era venuta fuori una lunga, anzi lunghissima conversazione: il cui tono si era mantenuto, per merito soprattutto di Micòl, sul filo d’una normale, ironica e diva40 gante chiacchierata di due stagionati studenti universitari, fra i quali, da ragazzi, può anche esserci stato un tantino di tenero, ma ora, dopo qualcosa come dieci anni, non hanno altra mira che di fare un’onesta rimpatriata. «Quanto sarà che non ci vediamo?» «Cinque anni, a dir poco». 45 «E adesso, come sei?» «Brutta. Una zitella col naso rosso. E tu? A proposito: ho letto, ho letto...» «Letto che cosa?» «Ma sí, sui giornali, che hai partecipato ai Littoriali4 della Cultura e dell’Arte a Venezia, due anni fa. Ci facciamo onore, eh? Complimenti! Già: ma tu sei sempre stato 50 molto bravo in italiano, fin dal ginnasio. Meldolesi5 era veramente incantato di certi tuoi temi in classe. Credo che ce ne abbia perfino portato da leggere qualcuno». «C’è poco da prendere in giro. E tu, che cosa fai?» «Niente. Avrei dovuto laurearmi in inglese a Ca’ Foscari lo scorso giugno. E invece macché. Speriamo di farcela quest’anno, pigrizia permettendo. Credi che i fuori55 corso li lasceranno finire ugualmente?» «Mi rendo conto di darti un dolore, ma non ne ho il minimo dubbio. Hai già preso la tesi?» «Per prenderla, l’ho presa: su Emily Dickinson6, sai, quella poetessa americana dell’Ottocento, quella specie di donna terribile... Ma come si fa? Dovrei stare conti60 nuamente alle costole del professore, passare a Venezia degli interi quindici giorni, mentre a me, la Perla della Laguna, dopo un po’... In tutti questi anni ci sono stata il minimo necessario. Inoltre, francamente, studiare non è mai stato il mio forte». «Bugiarda. Bugiarda e snob». «Ma no, giuro. E quest’autunno, di mettermi lí, buona buona, me la sento meno che 65 meno. Lo sai che cosa mi piacerebbe fare, caro te, invece che seppellirmi in biblioteca?» «Sentiamo». «Giocare a tennis, ballare e flirtare, figurati!» […] Aveva ripetuto l’invito del fratello («Non so se Alberto ti ha poi telefonato, ma 70 perché non vieni a fare un po’ di palleggio a casa nostra?»), però senza insistere, e senza affatto accennare, a differenza di lui, alla lettera del marchese Barbicinti. Non accennò a nient’altro che al puro piacere di rivedersi, dopo tanto tempo, e di godere assieme, in barba a tutti i divieti, quanto di bello restava da godere della stagione. 4 Littoriali: nel periodo fascista, manifestazioni culturali, artistiche e sportive, con competizioni, destinate a giovani universitari.

5 Meldolesi: professore di italiano del protagonista, si recava anche dai FinziContini per preparare privatamente Alberto e Micòl.

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6 Emily Dickinson: poetessa statunitense (1830-1886). Visse in solitudine, coltivando una poesia che in forme limpide esprimeva una profonda angoscia esistenziale.


Analisi del testo Le colpe della “buona società” ferrarese L’episodio segna una svolta fondamentale nel romanzo, collegandosi al tema storico del rapporto tra la minoranza ebraica e la società: la famiglia del protagonista, che, come la maggior parte degli ebrei della città, aveva appoggiato il fascismo (l’io narrante, come si coglie dal dialogo con Micòl, aveva anche partecipato ai Littoriali, gare organizzate dal regime), essendo perciò colpita ancora più crudelmente dalle discriminazioni (finché non giunge la lettera il protagonista si illude di essere stato risparmiato), è accomunata nella persecuzione ai Finzi-Contini, parte di un’élite ebraica da sempre incline a uno snobistico isolamento. Ma attorno ai protagonisti si avverte l’intera società ferrarese, complice delle persecuzioni del regime. È emblematica l’odiosa figura del marchese Barbicinti, che, fingendo con ipocrisia di accogliere dimissioni mai richieste, liquida per iscritto, con «poche righe secche secche» volutamente fredde e impersonali, il giovane, buon tennista, conosciuto e da anni iscritto al circolo.

Una breve stagione di spensierata adolescenza Accomunati da un destino che riserverà loro innumerevoli sofferenze (la prigione per il protagonista-narratore, i campi di sterminio per i Finzi-Contini), gli ebrei ferraresi, nella vicenda immaginata da Bassani, solidarizzano, annullando le distanze sociali che in precedenza li avevano separati, come rivela l’apertura del lussureggiante giardino e del campo da tennis dell’aristocratica famiglia, ai giovani ebrei discriminati ed espulsi dal circolo tennistico della città, per far godere loro un po’ di quella spensieratezza dell’adolescenza che le leggi del regime avevano tolto. La stagione, tiepida e luminosa, ma declinante verso l’autunno, già fa tuttavia presentire quanto saranno effimere le gioie che Micòl, nel colloquio telefonico con il protagonista, si propone di godere.

Il personaggio di Micòl Il passo rivela la spiccata personalità della giovane Micòl, a cui il protagonista aveva parlato solo una volta dieci anni prima, quando, ancora bambino, per consolarlo di un esame a settembre in matematica, lei «tredicenne magra e bionda con grandi occhi chiari, magnetici» lo aveva invitato a scalare il muro di cinta. Nella conversazione telefonica Micòl conduce il gioco con spigliatezza intelligente e un po’ snob, prendendo in giro il protagonista per i trascorsi fascisti della partecipazione ai Littoriali e manifestando tutta la sua sete di vita, di piaceri, di gioie. Se già lascia intuire un presentimento di tempi oscuri, ha abbastanza stile, orgoglio e forza di carattere per non fare alcun cenno alle leggi razziali, come è proprio del suo personaggio che, affrontando orgogliosamente il suo destino, si mantiene ben superiore alla mediocre borghesia che l’ha condannata e con la sua luce (i capelli biondissimi, la sua bellezza solare e nordica), il suo giardino (di cui conosce e ama ogni pianta) sottrae alla vista l’immagine della morte, restando per il lettore del Giardino dei Finzi-Contini una radiosa immagine di vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta il contenuto informativo del testo (max 8-10 righe). COMPRENSIONE 2. Perché il protagonista viene invitato dai Finzi-Contini? 3. Quali ragioni lo spingono ad accettare l’invito? ANALISI 4. Individua nel testo i riferimenti alla stagione. Quale significato simbolico assumono? 5. Quali particolari rendono odiosa la lettera di espulsione del protagonista dal circolo tennistico?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Conosci altri libri in cui è rappresentato il trauma dei ragazzi ebrei (anche non italiani) per essere di colpo espulsi dall’ambiente di cui facevano parte? Illustrali.

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Sguardo sul cinema Il giardino dei Finzi-Contini, il film Dal romanzo di Bassani fu ricavato nel 1970 un film diretto da Vittorio De Sica, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 1971. Contrariamente al romanzo, la pellicola si chiude con l’arresto della famiglia di Micòl, che, condotta con altri ebrei in una scuola, in attesa della deportazione, vi incontra il padre di Giorgio (l’io narrante), che invece è riuscito per tempo a fuggire e

può dopo anni rievocare il passato. Bassani non accettò questa soluzione narrativa della sceneggiatura, e, con uno strascico di polemiche, non volle riconoscere il film di De Sica come fedele allo spirito del romanzo: ottenne che il proprio nome venisse tolto dai titoli di coda della pellicola, come se si trattasse di un’opera autonoma, senza relazione con il libro.

Fissare i concetti Primo Levi e la tragedia della Shoah Ritratto d’autore 1. Quali materie appassionano in particolare lo studente Primo Levi? 2. Dopo la caduta del fascismo in che modo Levi manifesta il suo dissenso al regime? 3. Quando Levi interrompe il lavoro di chimico? La multiforme personalità di Levi 4. Perché Primo Levi può essere definito “una personalità complessa”? 5. Come si presenta la scrittura di Levi? 6. In che senso si può dire che Levi dimostra una vocazione al racconto? 7. Per quale motivo viene giudicata interessante la poesia di Levi? 8. Da che cosa è costituito L’altrui mestiere? Se questo è un uomo 9. In che senso l’opera può considerarsi a metà tra memoria e letteratura? 10. Quale messaggio vuole trasmettere l’autore? Le altre opere 11. Che cosa si narra nella Tregua? 12. Che cosa invece diventa oggetto della narrazione nei Sommersi e i salvati? A quale genere appartiene? 13. Qual è il contenuto del romanzo Se non ora, quando? 14. Come può essere definito Il sistema periodico? La Shoah e la memoria 15. Che cosa simboleggia il giardino nell’opera di Bassani?

578 Il Novecento (Prima parte) 11 Primo Levi e la tragedia della Shoah


Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura cortese Primo Levi nella Francia della feudale e la tragedia Shoah

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La vita Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da genitori di origine ebraica. Si laurea a pieni voti in Chimica nel 1941. Dopo l’armistizio si unisce a un gruppo di partigiani, ma viene arrestato e avviato nel campo di Fossoli. In seguito i tedeschi deportano Levi e altri prigionieri ad Auschwitz. Nel gennaio 1945 Auschwitz viene evacuato; da lì inizia il viaggio di Levi per tornare in Italia. Rientrato in patria, Levi pubblica il suo primo libro, Se questo è un uomo. A esso segue La tregua nel 1963. Alla fine degli anni Sessanta esce una raccolta di racconti, Storie naturali, e nel 1971 una seconda raccolta, Vizio di forma; nel 1975 pubblica Il sistema periodico. Nel 1978 con La chiave a stella Levi vince il Premio Strega. A questo punto si dedica esclusivamente alla scrittura: nel 1982 pubblica il romanzo Se non ora, quando?; nel 1985 L’altrui mestiere raccoglie articoli usciti su quotidiani e riviste; nel 1986 esce I sommersi e i salvati, sintesi di tutta la sua riflessione sull’esperienza del Lager. Muore nel 1987.

2 La multiforme personalità di Levi

La scrittura Levi stesso si è definito un “centauro”, oscillante tra cultura scientifica e cultura letteraria. Nella sua scrittura l’ideale di una prosa chiara e distinta viene contaminato dal «gusto per il significante». Una visione a volte disperata ma mai disperante Levi non era credente ma poi, soprattutto attraverso la deportazione, è spinto a misurarsi fino in fondo con l’identità ebraica. Soprattutto Levi credeva nella comunicazione e dunque in una radice buona, o almeno socievole, dell’essere umano: ha quindi strappato alla propria sventura l’opportunità di trasformarla, attraverso la scrittura, in un’esperienza comunicabile e universale. La letteratura come tentativo di capire (e cambiare) il mondo I libri di Levi sollecitano interrogativi che riguardano tutti gli esseri umani: sullo scopo della vita, sul rapporto dell’uomo con il cosmo, sul riconoscimento dell’altro, sull’enigma del male, ricordandoci che la letteratura sempre modifica una percezione ovvia delle cose.

3 Se questo è un uomo

Tra memoria e letteratura Il libro d’esordio di Levi, Se questo è un uomo, è scritto al suo ritorno dal campo di concentramento. Pur essendo un’opera memorialistica, il libro è letterariamente elaborato. Volutamente evita di indugiare su dettagli macabri e violenti, ma ha un filo conduttore: il proposito dei nazisti di disumanizzare le vittime. Levi non intende giudicare, ma piuttosto capire i meccanismi che sottendono la normalità del male. Lo scrittore focalizza poi l’attenzione sul modo in cui la vittima possa reagire alla disumanizzazione, per conservare ciò che resta della sua umanità.

4 Le altre opere

La tregua Edito nel 1963, rappresenta il proseguimento di Se questo è un uomo: descrive infatti il lungo viaggio di Levi verso Torino, dopo la liberazione. Si avverte un senso di ritorno alla vita, ma nel finale un incubo riporta al timore angoscioso che l’unica realtà sia il Lager.

Sintesi

Il Novecento (Prima parte) 579


I sommersi e i salvati L’ultimo libro di Levi si differenzia dagli altri sullo stesso tema per due aspetti principali: il carattere saggistico e la prospettiva più ampia. Se non ora, quando? Oltre a racconti e poesie, lo scrittore si cimenta anche in un romanzo, Se non ora, quando?, che narra la vicenda di un gruppo di partigiani dell’Europa orientale impegnati in atti di sabotaggio contro i nazisti. La chiave a stella La professione di chimico dello scrittore ispira invece un libro dedicato al tema del lavoro. Il protagonista, un operaio specializzato, rappresenta un’aristocrazia del lavoro, un modello di libertà basato sulla concretezza del fare. Il sistema periodico È il libro in cui meglio emerge la doppia anima dello “scrittorecentauro”. In quest’opera, una sorta di autobiografia in 21 capitoli, ciascuno dedicato a un elemento che segna una tappa della vita e dell’attività di chimico dello scrittore, la tavola degli elementi offre un esempio di ordine per orientarsi nell’apparente caos della natura.

5 La Shoah e la memoria

La memoria e il trauma dell’emarginazione È importante perpetuare il ricordo della tragedia ebraica; tuttavia la memoria deve accompagnarsi a una riflessione sulle cause e sulle responsabilità. La persecuzione infatti non è limitata all’orrore dei campi di concentramento: il calvario ha avuto inizio prima, con umiliazioni e leggi discriminatorie.

Il tema dell’esclusione nell’opera di Giorgo Bassani: Il giardino dei Finzi-Contini L’emarginazione domina l’opera narrativa dello scrittore ebreo ferrarese Giorgio Bassani, che nei suoi libri non narra dei campi di concentramento, ma li fa avvertire sullo sfondo, denunciando le estese complicità con i soprusi del regime. Anche il suo capolavoro, Il giardino dei Finzi-Contini (1962), prende le mosse dal tema dell’esclusione: a causa delle leggi razziali il protagonista-narratore viene espulso dal circolo tennistico cittadino; questa vicissitudine gli apre però le porte della dimora della ricca famiglia ebrea dei Finzi-Contini, poi tutti sterminati nei campi di concentramento. Il romanzo, apparentemente realistico, è in realtà fitto di connotazioni simboliche.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Attraverso le relazioni fra i testi studiati e gli argomenti affrontati costruisci un PowerPoint/un documento/una tua mappa di studio sulla produzione di Levi. Puoi affrontare in particolare queste tematiche: la visione politico sociale; la poetica e la funzione della letteratura; lo stile.

Lavoro di gruppo

2. Suddivisi in gruppi, elaborate per la vostra classe un’antologia di testi e di opere d’arte sulla Shoah, in particolare sull’incontro tra scrittura e storia, che intitolerete La memoria ritrovata. a. Selezionate i testi che ritenete più rappresentativi del percorso e fornite una dettagliata schedatura di ogni testo indicando: • autore, titolo, datazione; • breve presentazione (max 5 righe); • contestualizzazione (max 3 righe; • riflessioni personali (max 5 righe). b. Organizzate il materiale in varie parti secondo un ordine logico. c. Suddividete le varie parti in paragrafi titolati sulla base dei contenuti presenti.

580 Il Novecento (Prima parte) Primo Levi e la tragedia della Shoah


Il Novecento (Seconda parte)


582


Il Novecento (Seconda parte)

Scenari socio-culturali Dal boom economico ai giorni nostri

LEZIONE IN POWERPOINT

Il Novecento è contraddistinto da molti cambiamenti e da svolte epocali, in un susseguirsi rapido di avvenimenti – spesso di portata rivoluzionaria – e di fenomeni politici, sociali, economici, culturali, di mentalità e di costume. Dagli anni Cinquanta, la società dei consumi, attraverso la pubblicità, soprattutto quella televisiva, fa leva sulla generale abdicazione al senso critico per moltiplicare i consumi di massa e creare consenso verso pseudovalori commerciali, nella promessa fittizia di una felicità legata al possesso di oggetti materiali. Il ruolo della televisione è stato in Italia all’inizio positivo perché, tra l’altro, ha avviato l’unificazione linguistica del paese, ma l’avvento delle televisioni commerciali ha imposto un’omologazione verso il basso. La presenza della televisione nella vita degli italiani negli ultimi decenni è stata peraltro messa in secondo piano dal successo di nuovi media e dal ruolo crescente di Internet, che hanno inciso sui comportamenti collettivi. Comportamenti oggi sempre più distanti dall’impegno politico che aveva contraddistinto la stagione del Sessantotto e dominati dalla preminenza del privato e dalla condivisione del “personale” attraverso i social network.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche sui modelli di comportamento 3 Ile idibattito generi letterari

4 L’evoluzione della lingua 583 583


Dal boom economico ai giorni nostri Sguardo sulla storia 1945-2023 La ricostruzione Mentre la polvere delle macerie non ha ancora finito di posarsi sul mondo martoriato dalla guerra, cresce l’euforia tra chi è sopravvissuto. La ricostruzione è accelerata e convulsa, forse anche per superare e dimenticare l’orrore. Gli Stati Uniti si impegnano a fornire aiuti ai paesi europei, le cui risorse sono state drasticamente ridotte, attraverso il cosiddetto Piano Marshall, che accelera la positiva ripresa. Nel 1948 la produzione torna ai livelli prebellici. Due anni prima, il 2 giugno del 1946, gli italiani hanno scelto con un referendum di essere una repubblica, lasciandosi alle spalle il ricordo della monarchia e di un re che non aveva saputo essere una guida autorevole del proprio paese.

Cronologia interattiva 1969

1946

Primavera di Praga.

Il 2 giugno è dichiarata decaduta la monarchia e nasce la Repubblica italiana. 1957

Nasce la Cee (Comunità economica europea).

1945

Viene fondata l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite).

Il voto alle donne e la Repubblica italiana.

1956

Rivolta popolare di Ungheria stroncata dall’Unione sovietica.

1940

1969

L’americano Neil Amstrong è il primo uomo a mettere piede sulla Luna.

1968

Violente manifestazioni studentesche in varie parti del mondo. 1964-1975

Guerra del Vietnam.

1950

1960

1970

19

1978

1948

Nasce lo stato di Israele.

1948

Entra in vigore la Costituzione italiana.

1950-1953

Guerra di Corea.

Rapimento e uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.

1962-1965

Si svolge il Concilio Vaticano II. 1966

1949

Viene fondata la Nato, trattato militare che unisce i paesi occidentali.

Manifesti che invitano a votare “no” al referendum abrogativo contro il divorzio.

1949

Rivoluzione culturale in Cina.

Mao proclama la Repubblica popolare cinese.

Folla di dimostranti circonda alcuni carri armati sovietici durante i primi giorni della Primavera di Praga.

584 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali

Gli effetti dell’esplosione di un ordigno nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano.

1969

Con la strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre) inizia la strategia della tensione.

Il segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica Gorbaciov e papa Giovanni Paolo II in Vaticano.


Il miracolo economico A partire dai primi anni Cinquanta, l’Italia registra una straordinaria crescita economica. Avvantaggiata dalla politica degli investimenti e dalla manodopera a basso costo, l’industria italiana si segnala come una delle protagoniste del dopoguerra. La produzione di elettrodomestici, l’industria automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono alcuni dei settori che presentano i successi più brillanti. Tra il 1959 e il 1963 si quintuplica la produzione di autoveicoli; un milione e mezzo di frigoriferi e 634.000 televisori prodotti nello stesso periodo danno il polso della realtà produttiva. Tra il 1951 e il 1961 la produzione industriale aumenta del 120%.

Le “Twin Towers” pochi istanti prima che il secondo aeroplano le colpisca. 1973

Guerra araboisraeliana del Kippur e conseguente crisi petrolifera.

1990

Riunificazione delle due Germanie. 1990-1991

1974

Attentato terroristico alle “Torri gemelle” a New York.

1992

È sancita per legge la possibilità del divorzio in Italia.

980

2001

Prima guerra del golfo tra Iraq e Usa.

2002

Esplode in Italia lo scandalo di Tangentopoli che travolge i partiti storici.

1990

Entra in circolazione l’euro.

2000

2015

2013

Jorge Bergoglio è eletto papa con il nome di Francesco.

Gravi attentati terroristici ad opera dell’Isis a Parigi.

2010

2020

1994

In Italia ha inizio la “Seconda Repubblica”.

1991

Dissoluzione dell’Urss. 1986

1993

Disastro nucleare a Chernobyl. 1985

Nasce l’Unione Europea.

Gorbaciov, segretario del Partito comunista sovietico, avvia la democratizzazione del sistema comunista.

Papa Francesco incontra alcuni migranti in un campo profughi.

2008

La crisi delle banche in America avvia una grave recessione economica in tutto il mondo.

1989

Caduta del muro di Berlino (eretto nel 1961).

Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1989 la folla si raduna attorno al Muro di Berlino, davanti alla Porta di Brandeburgo.

Un dipendente della banca d’investimento Lehman Brothers abbandona gli uffici dopo il fallimento.

Sguardo sulla storia 585


Nella comunicazione... 1932 Nasce il Festival cinematografico di Venezia.

1951 Prima edizione del Festival di Sanremo.

1937 Nascono a Roma gli studi cinematografici di Cinecittà.

1954 Prima trasmissione televisiva in Italia.

1976 Nascono le prime radio libere in Italia.

1977 Commercializzazione dei primi “home computer”

1991

2001

Al Cern di Ginevra nasce il World Wide Web, che pone le basi di Internet.

Nasce Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Nel processo d’industrializzazione, l’Italia assiste a un progressivo allontanamento dalle campagne verso i centri produttivi del Nord. Abbandonati i microcosmi contadini, dove il tempo era scandito dalle stagioni, i nuovi abitanti delle grandi città cercano di sintonizzarsi sui tempi nuovi. Il tutto dà il via a un processo di omologazione che porterà alla costruzione di una nuova identità proletaria, fatta di gesti e orari condivisi. La politica, con i nuovi partiti comparsi sulla scena dopo la guerra, non riesce a stare al passo con la crescita economica e il cambiamento sociale. Inoltre, le sorti della politica italiana devono anche fare i conti con quella internazionale: lo scenario politico mondiale è caratterizzato dalla Guerra fredda. Il mondo occidentale è diviso in due blocchi: da una parte ci sono gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occidentale, Italia compresa; dall’altra l’Unione Sovietica e i paesi dell’Europa dell’Est. L’“autunno caldo” e la crisi economica Nella seconda metà degli anni Sessanta, la crisi del mondo dell’industria e i repentini cambiamenti della società italiana portano a un confronto nelle piazze. Le lotte dei lavoratori si concentrano soprattutto negli ultimi mesi del 1969. Quei giorni sono caratterizzati da un susseguirsi di scioperi e cortei che spesso si concludono con violenti scontri con le forze dell’ordine. I lavoratori riescono a ottenere importanti risultati, con l’aumento dei salari e con la possibilità di potersi meglio organizzare all’interno delle fabbriche. Nel 1970 è varato lo Statuto dei lavoratori. I movimenti di massa di lavoratori e studenti che riempiono le piazze con le loro rivendicazioni creano nel paese un clima di tensione che sfocia anche in organizzazioni eversive di destra e di sinistra. Al culmine di questa stagione di terrore avvengono stragi terroristiche. Le bombe sui treni, nelle piazze e alla stazione di Bologna sono opera dell’eversione di destra. Il terrorismo di sinistra colpisce uccidendo e ferendo vittime designate e il suo culmine lo ottiene con le Brigate Rosse, che rapiscono e uccidono Aldo Moro, esponente apicale della Democrazia Cristiana. Nel frattempo, i Paesi arabi decidono di alzare il prezzo del petrolio. Per recuperare i costi sostenuti dalle industrie per i prodotti petroliferi e le materie prime, gli imprenditori aumentano il costo dei loro prodotti. L’Italia non risulta più competitiva sui mercati internazionali, aumenta l’inflazione, cala il livello occupazionale e anche le finanze dello stato rischiano il collasso. La crisi dei partiti tradizionali Negli anni Ottanta l’economia italiana riprende vigore. L’inflazione comincia a calare. E molte aziende approfittano delle nuove tecnologie per rinnovare i cicli produttivi. I sistemi di automazione consentono di ottenere un prodotto di qualità costante, con una migliore tempistica. In concomitanza con questi successi, però, le casse dello stato vacillano in maniera preoccu-

586 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


pante. Si parla di deficit, ovvero di uscite superiori alle entrate. Fondamentalmente, a generare la crisi delle finanze dello Stato concorrono diversi livelli di cattiva gestione in cui si moltiplicano sprechi e inefficienze. La distanza tra la politica e le persone è considerevole. All’inizio degli anni Ottanta il governo è nelle mani di una coalizione di centrosinistra e nel 1983, con un mandato che resisterà per i quattro anni successivi, l’incarico è affidato a Bettino Craxi, segretario del Partito socialista. Sulla scena internazionale, alla fine del decennio, si assiste al collasso politico dei paesi comunisti del blocco sovietico. Nel novembre del 1989 il muro di Berlino, eretto per dividere la città tedesca in due zone controllate dagli Stati Uniti e Unione Sovietica, viene assaltato dalla popolazione, che crea delle brecce e cancella i confini imposti dalla guerra fredda. I paesi del blocco sovietico si liberano del controllo tirannico di Mosca. Le ripercussioni a livello internazionali sono tante e in Italia i partiti di sinistra subiscono una pesante crisi identitaria. Il 12 novembre Achille Occhetto, segretario del Partito Comunista, sulla scia degli avvenimenti che hanno repentinamente portato al crollo del muro berlinese, si rivolge a tutte le forze progressiste per dare vita a un nuovo partito. Si scioglie il Partito Comunista e al suo posto nasce il Partito Democratico della Sinistra. La crisi del sistema dei partiti fa emergere delle nuove realtà. Partite timidamente alla fine degli anni Settanta, alle elezioni del 1983 le Leghe registrano i primi consensi, soprattutto in Veneto e in Piemonte. Si tratta di movimenti riferiti a territori limitati del Settentrione, con aspirazioni separatiste e autonomiste, impegnate a tutelare identità locali. Il risultato incoraggiante delle elezioni del 1987 spinge Umberto Bossi, leader della Lega lombarda, a proporsi come guida dell’intero movimento. Il popolo del Nord ha modo di riconoscersi sui temi unificanti, che tra il 1987 e il 1990 sono alla base della politica della Lega lombarda. Il potere della capitale che ruba risorse e il Meridione parassita sono gli obiettivi privilegiati dei temi politici di questa compagine, ma anche l’ostilità verso gli immigrati e la polemica serrata contro il fiscalismo e lo statalismo sono molto seguiti. In seguito, la Lega diventa un partito nazionale e all’identità delle realtà di riferimento originarie sostituisce quella nazionale da tutelare. La Seconda Repubblica All’inizio degli anni Novanta, un’inchiesta giudiziaria di enormi proporzioni investe i partiti. Mani pulite, nota anche come Tangentopoli, vede la magistratura scardinare il sistema politico, attraversato da corruzione e gestioni clientelari che ormai sono sistemiche e paiono inattaccabili. La distanza tra partiti e cittadini, quella stessa che i socialisti, tra i grandi accusati di questa stagione, avevano cercato di ridurre trasformando la politica a somiglianza dell’elettorato, a questo punto è enorme. Sui muri delle città appaiono scritte inneggianti ai magistrati protagonisti dell’inchiesta. A partire dalla crisi di baluardi ideologici ma anche dalla paralisi della politica tradizionale di fronte all’offensiva della magistratura si costruisce la parabola politica del trionfatore della Seconda Repubblica: l’imprenditore Silvio Berlusconi. A gennaio del 1994, dimessosi da tutte le cariche all’interno del suo gruppo industriale, Berlusconi è alla guida di Forza Italia, il suo partito. La possibilità che un imprenditore, con fortissimi legami con il mondo dell’informazione e della comunicazione, faccia vita politica, genera una lunga polemica, in cui si parla di conflitto di interesse. Il suo primo governo, in seguito alla vittoria del Polo delle libertà, di cui Forza Italia è partito di riferimento, lo porta alla presidenza del Consiglio dei ministri. L’espeSguardo sulla storia 587


rienza di governo dura solo sette mesi, per l’attrito generatosi con le posizioni della Lega di Umberto Bossi. Il governo successivo è di centrosinistra. L’alternanza tra i due poli, di centrodestra e di centrosinistra, formati in seno alla Seconda Repubblica, caratterizza le fasi di gestione del governo fino ai giorni nostri. Il nuovo secolo Gli esordi del nuovo secolo sono piuttosto complicati per l’Italia. La crisi economica è complessa e legata all’interazione di problematiche diverse. Alcune emergenze gettano profonde radici in croniche carenze nazionali, quasi delle malattie endemiche, come la disoccupazione, il precariato e la sicurezza. Altri punti della crisi vedono confrontare il nostro paese con problematiche direttamente connesse agli scenari internazionali e riguardano l’incapacità di fronteggiare i mercati emergenti e i flussi migratori fuori controllo. Impennate del prezzo del prodotto petrolifero finiscono per determinare i nuovi conflitti internazionali. La stretta economica è destinata a travolgere alcune grandi banche, fino a segnare tragicamente i bilanci familiari. La crisi registra anche l’impreparazione di alcuni comparti a fronteggiare le nuove tecnologie, enfatizzando la presenza, sullo scenario internazionale, degli scambi di nuove potenze commerciali che si propongono con prodotti a prezzi bassissimi. L’occupazione in Italia è sempre più legata al settore terziario e il tempo medio necessario a un giovane per diventare indipendente è sempre maggiore. La flessibilità sul lavoro si traduce in una precarietà senza scampo in cui non c’è certezza e non c’è credito. A livello internazionale gli assetti politici, mutati dopo la fine della Guerra fredda, vedono sostanzialmente i paesi occidentali fronteggiarsi con l’Oriente petrolifero. Il conflitto ha radici economiche e sociali ma si propone come un confronto tra religioni diverse. L’11 settembre del 2001 quattro attentati suicidi, organizzati dalla struttura paramilitare islamica di al-Qaeda, scuotono il mondo. In particolare due aerei di linea che, dirottati, si schiantano sulle Torri Gemelle a New York, diventano l’icona di questo nuovo secolo che incalza e sono il motore di una concatenazione di eventi che segnano la storia recente sul piano internazionale. Lo scenario dei conflitti si sposta sul confronto tra paesi islamici e occidente industriale. Si tratta di un conflitto asimmetrico, una nuova guerra che non ha più i tradizionali confini da contendere ma che deflagra nel cuore delle città europee e americane con attentati imprevedibili e si consuma con enormi campagne militari a oriente. Sembra che sia questo il nuovo confronto del millennio che si propone e invece i protagonisti della Guerra fredda, Stati Uniti e Russia, all’inizio degli anni Venti del Duemila, ripropongono l’antico conflitto. La Russia invade l’Ucraina e i paesi della Nato appoggiano la difesa di quel paese. Si rinnovano vecchie paure in un mondo che è totalmente cambiato negli ultimi quarant’anni. La rivoluzione digitale ha cambiato la comunicazione, la veicolazione delle conoscenze e la gestione dell’economia globale. La diffusione capillare nel pianeta di connessioni di Rete ha proposto una rivoluzione copernicana dell’umanità, azzerando alcuni linguaggi e proponendone altri in continuo mutamento. L’emergenza climatica è un tema importante, i flussi migratori dai paesi più poveri stanno ridisegnando la geografia umana del pianeta e la minaccia nucleare che sembrava memoria superata si è riproposta in tutta la sua tragica plausibilità. Parlare di storia quando ci si misura con il presente o con gli anni trascorsi da poco è contraddittorio e impedisce un’analisi secondo i normali criteri storiografici; possiamo parlare, invece, di cronaca e lo scenario è decisamente complesso, registrando grandi crisi economiche e politiche e grandi risultati della scienza e della tecnologia.

588 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 «Consumo, dunque sono»: massificazione e consumismo Consumi di massa Le stesse premesse su cui si erano fondati i regimi totalitari stanno alla base anche dei modelli sociali fondati sui consumi di massa che si affermano a partire dagli anni Cinquanta: il condizionamento dell’immaginario profondo e lo sfruttamento della tendenza di massa al conformismo sono finalizzati in questo caso a modellare gli individui come consumatori (di merci, ma anche di idee e di comportamenti collettivi). La terribile profezia formulata da Orwell nel 1948, in cui lo scrittore immaginava la vita di individui-massa ridotti ad automi controllati da un potere occulto, si è materializzata nella società dei consumi forse ancor più che nei regimi totalitari.

Lessico Globalizzazione

PER APPROFONDIRE

Processo di intensificazione degli scambi commerciali, culturali e sociali tra le diverse zone geografiche del mondo.

L’esportazione dell’American Way of Life: l’americanizzazione del mondo? Lo sviluppo dei consumi di massa avviene in America. Nel dopoguerra, con il piano Marshall, che prevedeva aiuti economici a un’Europa stremata dalla guerra, l’America diffonde anche il modello dell’American Way of Life. Uno stile che, dopo gli anni Ottanta, nella società del capitalismo avanzato e della globalizzazione , verrà esteso a molti paesi del mondo come il Giappone, i paesi dell’ex blocco comunista, la Cina stessa. Non a caso alcuni sociologi (come lo statunitense George Ritzer) preferiscono utilizzare il termine “americanizzazione” piuttosto che quello più diffuso di “globalizzazione”, che presupporrebbe un rapporto plurilaterale tra i vari paesi.

La nascita e l’affermazione della civiltà dei consumi in Italia Dalla metà degli anni Cinquanta inizia in Italia il periodo del boom industriale. La crescita molto rapida della produzione industriale sconvolge, almeno in parte, il volto arcaico e agricolo del paese, che il fascismo non era riuscito a trasformare nel profondo. In seguito al crescente benessere derivato dal boom economico, già alla fine degli anni Cinquanta si diffondono oggetti tecnologici che modificano in modo radicale le abitudini di vita, innanzitutto della donna, ma anche della famiglia: nelle case degli italiani entrano gli elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici) e soprattutto, nel 1954, la televisione. L’automobile, da status symbol delle classi sociali più elevate (➜ SCENARI, VOL 3A) diventa in pochi anni un mezzo di trasporto di massa, dopo il lancio nel 1955 della prima utilitaria, la Fiat 600. L’industria dell’automobile è privilegiata dal sistema economico-statale di questi anni rispetto ai mezzi pubblici e al potenziamento del trasporto ferroviario, creando nel tempo gravi problemi di traffico non controllabili e inquinamento: si investe in autostrade che attraversano il paese e consentono spostamenti più rapidi rispetto al treno. L’autogrill diventa il luogo simbolo dell’era automobilistica in Italia (➜ D4a ).

L’incremento dei consumi trova uno strumento fondamentale nei supermercati, destinati abbastanza presto a mettere in ginocchio il commercio al minuto e anche a mutare il volto delle città italiane. Il primo supermercato nasce a Milano già nel lontano 1957. La spesa al supermercato assume subito il carattere di un rito che coinvolge l’intera famiglia. Ma la vera trasformazione si ha quando ai supermercati si affiancano gli ipermercati (il primo ipermercato italiano è creato in Lombardia, a Carugate, nel 1972). Negli ipermercati la vendita di prodotti alimentari si associa a quella di altre merci (spesso in offerta, per potenziare le vendite). A differenza dei negozi tradizionali, gli ipermercati si assomigliano in tutto il mondo, hanno le stesse modalità di vendita e mirano a una forte omologazione dei consumi. Dagli anni Ottanta, con lo scopo evidente di potenziare ulteriormente i consumi, gli ipermercati diventano spesso centri commerciali, “città fittizie”, che associano la dimensione dell’acquisto a quella dell’intrattenimento: la presenza di cinema, ristoranti, fast food, spazi di gioco per i bambini e così via induce le famiglie e i giovani a passarci il tempo, soprattutto nei weekend.

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 589


Un nuovo edonismo L’aggettivo “consumistica” designa una società in cui nella vita delle persone l’esperienza del consumare ha un ruolo primario. Alla base di questo modello sociale, tuttora e anzi più che mai imperante, sta una visione edonistica, che enfatizza cioè il tema della felicità. Già altre epoche avevano prospettato come obiettivo fondamentale nella vita umana il raggiungimento della felicità (in particolare l’Illuminismo ➜ SCENARI, VOL 2A), ma ben diverso è il concetto di felicità proprio della società consumistica. Obiettivo di questa non è la realizzazione dei desideri, ma al contrario la loro mancata soddisfazione, deliberatamente alimentata per produrre sempre nuovi consumi: le promesse di felicità legate al possesso di oggetti sono di fatto sempre disattese (tanto è vero che proprio le società più consumistiche vedono un tasso altissimo di depressione). Il consumismo implica un’iperproduzione di merci per alimentare i più svariati, e spesso artificiali, bisogni: connesso all’economia consumistica è lo spreco, l’eccesso, la produzione di beni non durevoli che si possano scartare e sostituire in fretta. Il ruolo chiave della pubblicità Fondamentale strumento per l’affermazione della civiltà dei consumi è stata, ed è tuttora, la pubblicità. Già alla fine dell’Ottocento erano presenti forme di pubblicizzazione dei prodotti, ma l’importanza della pubblicità cresce con ritmo incalzante nel corso del Novecento, parallelamente all’affermarsi dell’economia capitalistica e all’avvento della televisione, che porta la pubblicità dentro le case, esercitando un condizionamento capillare. Il primo fine della pubblicità era informativo: indicare, magari in modo accattivante, le caratteristiche di un prodotto; ben presto però la pubblicità è diventata proposta indiretta (attraverso meccanismi di “persuasione occulta”) di modelli di vita e di comportamento. In America, alla fine degli anni Cinquanta, c’era chi osservava criticamente il processo in corso e lo condannava: grande successo a livello internazionale ebbe ad esempio il libro del giornalista e sociologo Vance Packard (1914-1996) intitolato appunto I persuasori occulti (1957). Gli ultimi decenni vedono un dilagare della pubblicità al di fuori degli ambiti originari: essa non è più limitata alla televisione, ma si serve anche di altri media, come i social; inoltre non riguarda più solo cibi o oggetti, ma le stesse proposte culturali, che devono diventare “evento”, cioè spettacolarizzarsi per colpire il pubblico. Una “religione” per tutte le classi e tutte le generazioni Un aspetto particolarmente caratterizzante il modello consumistico è la sua trasversalità sociale e generazionale: poiché la reputazione sociale è legata agli oggetti posseduti, anche i poveri sono costretti a spendere oltre le loro possibilità, magari indebitandosi pur di non essere emarginati. A loro volta gli anziani sono oggi inglobati nella macchina consumistica, che inventa continuamente prodotti destinati alla terza e quarta età e vengono destituiti, in quanto consumatori “deboli”, del ruolo sapienziale che dovrebbero esercitare nei confronti delle giovani generazioni. Il filosofo e sociologo Edgar Morin (n. 1921), in un saggio scritto quando la cultura di massa era ancora agli albori, L’industria culturale (1962), ne parlava come di una pseudo-religione che ha sottratto sempre più spazio alla famiglia, alla scuola, alla Chiesa e alle istituzioni in genere proprio perché offre rituali e miti seduttivi, terreni anziché trascendenti, creando un’osmosi tra immaginario e realtà. I caratteri individuati da Morin della società consumistica, ormai diventata “iperconsumistica”, permangono nel tempo: non a caso la metafora di una “nuova religione” ritorna significativamente in un saggio del 1999 di George Ritzer sulle “nuove cattedrali” (come i centri commerciali), luoghi di pellegrinaggi rituali di massa.

590 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


2 La società dei rifiuti: l’altro volto dei consumi Lo smaltimento dei rifiuti L’economia consumistica si fonda sull’impulso ad acquisire beni di consumo, che la macchina produttiva presenta come surrogati della felicità, ma al contempo inducendo il consumatore a disfarsi al più presto del prodotto per lasciare posto a nuovi acquisti. L’accumularsi dei rifiuti e il problema del loro smaltimento è quindi costituzionalmente connaturato alla civiltà dei consumi (➜ D1a ). Questo stretto legame ha ispirato a Calvino già all’inizio degli anni Settanta un profetico racconto (Leonia) incluso nelle Città invisibili (➜ D1b ). Dal canto suo, in anni recenti, papa Francesco ha messo coraggiosamente in discussione, nell’enciclica Laudato si’ (2015), dedicata al tema ecologico, i principi stessi del consumismo, che implicano una “cultura dello scarto” destinata inevitabilmente a inquinare sempre più il pianeta (➜ D1c ). L’emergenza ecologica Il problema ecologico (dal greco ôikos, “dimora”, “ambiente”, e lógos, “discorso”) è emerso particolarmente nella coscienza collettiva durante gli ultimi decenni, in rapporto agli effetti sempre più evidenti e preoccupanti prodotti sull’ambiente e sul clima dalla crescita esponenziale dei consumi, voluta da un’economia capitalistica sempre più aggressiva. La nascita dei movimenti ambientalisti Ma già negli anni Sessanta-Settanta, parallelamente alla contestazione, propria di quegli anni, del sistema capitalistico, erano nati in America i primi movimenti ambientalisti, che lottavano per i “diritti ecologici”. Una lotta motivata dalla presa di coscienza dell’uso privato e iniquo di beni collettivi come l’aria, il mare, i fiumi, e dei pericoli della radioattività, creati allora dalle frequenti esplosioni sperimentali di bombe nucleari. Del resto in quegli anni la tragedia di Hiroshima e Nagasaki (agosto 1945) era ancora impressa nella memoria collettiva. Il 22 aprile 1970 è proclamato Earth Day, “giorno della Terra”, e in quell’occasione sono pubblicati molti scritti sul tema ecologico che avviano una prima opera di sensibilizzazione. Nel tempo i problemi ambientali, anziché risolversi, sono andati aggravandosi, in conseguenza della fine della contrapposizione tra mondo capitalista e mondo comunista e, già all’inizio negli anni Ottanta, della globalizzazione: ciò ha significato di fatto la diffusione in tutto il mondo del modello capitalistico, anche per quanto concerne lo sfruttamento del pianeta. Le iniziative internazionali e i loro limiti A poco sembrano essere serviti fino a oggi i diversi summit, dalla Conferenza mondiale di Rio de Janeiro del 1992 (in cui emerse per la prima volta il concetto di “sviluppo sostenibile”) al Protocollo di Kyoto (1997), un accordo per limitare l’emissione di gas a effetto serra. Il 12 dicembre 2015 si è arrivati, a Parigi, a un importante accordo siglato da 195 paesi che prevedeva una azione comune contro il cambiamento climatico, con l’obiettivo di mantenere il riscaldamento atmosferico al di sotto di 2 gradi centigradi. Verso una coscienza ecologica mondiale Non sfugge certamente che solo la limitazione dei consumi può risolvere – o almeno non aggravare – la crisi ecologica; ma questa soluzione non solo viene ostacolata dai paesi industrializzati (a cominciare dagli Stati Uniti), ma anche dai paesi del Sud del mondo, che aspirano ad accedere il più presto possibile al benessere da cui sono stati fino a ora esclusi. Una soluzione al problema potrà venire dalla somma di interventi in più ambiti: scientifico, tecnologico, economico, politico-amministrativo, ma soprattutto dalla consapevolezza che è ormai necessaria a livello planetario l’assunzione di precise responsabilità nei confronti delle generazioni future. La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 591


La civiltà dello scarto

D1

Presentiamo tre testi di diversa natura, finalità e provenienza, accomunati dal tema del rapporto tra consumismo e problema dell’accumulazione e smaltimento dei rifiuti.

Gunther Anders

Produzione-distruzione: un nesso obbligato

D1a

L’uomo è antiquato G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1992

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 6

Nel brano si istituisce una correlazione inquietante tra la società dei consumi e i modi di comportamento che ne derivano.

Il principio di riproduzione dell’industria odierna non significa solo che i prodotti fabbricati nel processo di serie sono caduchi e transitori; non solo che essi, come i singoli pezzi delle precedenti generazioni di prodotti, purtroppo finiscono un giorno col diventare decrepiti, ma che soffrono di una mortalità altamente particolare, una 5 mortalità la cui caratterizzazione appare addirittura teologica1: cioè che essi sono destinati a morire, che essi sono destinati alla transitorietà. E prevista non è solo la loro transitorietà, bensì, perlomeno approssimativamente, la loro data di scadenza, e sempre una che sia il più possibile a breve termine. [...] E difatti vengono uccisi da quei nuovi e freschi esemplari, i quali (per il fatto che la 10 loro fattura e il loro rendimento sono identici alla fattura e al rendimento di quelli di cui è adesso venuto il turno) hanno il medesimo diritto a realizzarsi; e che in un certo senso stanno sempre già pronti lì, come «potenzialità imballata», impazienti di dare il cambio ai vecchi. O meglio, per dirla con maggior precisione: i vecchi vengono uccisi dalla produ15 zione stessa. Giacché è questa che mette al mondo i vecchi esemplari a bella posta in condizione di scarsa vitalità. E dato che la produzione usa noi, i consumatori, come alleati, cioè ci esorta e ci educa a consumare esemplari usandoli, a sfruttarli utilizzandoli, noi ci assumiamo questo lavoro omicida a scapito dei nuovi esemplari, così che questi adesso possano affrontare il loro posto, anche se di un unico giorno, 20 sempre innocenti e con mani pulite. [...] Noi proprietari consumatori di prodotti non siamo indifferenti nei confronti della lotta spietata e regolarmente vittoriosa che la produzione conduce senza tregua contro la generazione dei suoi prodotti di ieri. Piuttosto siamo dalla sua parte, cioè dalla parte della produzione, il che significa che partecipiamo alla lotta come partigiani, 25 di volta in volta, della nuova generazione. E significa che anche noi stessi ci siamo fatti spietati. [...] Dato che viviamo in un mondo che consiste esclusivamente di cose che non solo sono sostituibili, ma devono essere sostituite (in casi estremi appaiono addirittura avide di essere sostituite), non soltanto è plausibile, ma semplicemente inevitabile 30 che noi finiamo per crearci un tipo di rapporto sociale appropriato a questi oggetti dichiaratamente mortali e degni di morire; che noi sviluppiamo una mancanza di attenzione e di rispetto nel nostro modo di lavorare, di muoverci, di sostare, di esprimerci con l’espressione del volto. E non solo nei confronti delle cose. Mi sembra impensabile che nei rapporti umani si possano far sopravvivere, come virtù, modi 1 teologica: in senso metaforico sta per “connaturata all’essenza”.

592 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


35

di comportamento che, nei confronti dei prodotti, non passano più per virtù ma, al contrario, per non-virtù. L’umanità che tratta il mondo come un «mondo da buttar via», tratta anche se stessa come una «umanità da buttar via». L’elemento della distruzione è immanente2 alla produzione stessa. 2 immanente: intrinseco.

Concetti chiave Il problema della società dei consumi

Il testo è tratto da un saggio del filosofo Gunther Anders (1902-1992), L’uomo è antiquato, scritto nel 1958, quindi agli albori della società dei consumi. Il passo mette già in luce in modo inequivocabile la stretta connessione tra produzione di massa e “distruzione”: la necessità di alimentare continuamente i consumi induce la macchina produttiva a progettare prodotti per definizione effimeri, sostituibili in un breve arco di tempo da nuovi prodotti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Identifica la tesi generale sostenuta dall’autore e spiegala (max 5 righe). ANALISI 2. Quale ruolo esercita il consumatore nel processo produttivo? Quali termini vi alludono? LESSICO 3. Nel passo sono presenti termini “forti” per delineare gli aspetti negativi della società dei consumi: identificali, elencali e indica il campo semantico di appartenenza.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA

EDUCAZIONE CIVICA

4. Nell’ultimo capoverso è introdotta una riflessione che istituisce un nesso tra i caratteri del processo produttivo di massa e i comportamenti individuali: quale elemento giustifica questa deduzione dell’autore? Ritieni che la pessimistica visione dell’autore si possa condividere?

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 6

LETTERATURA E NOI 5. Secondo te, il tema trattato nel testo ha un valore limitato agli anni in cui si iscrive o può considerarsi ancora attuale? Motiva la tua risposta in un testo argomentativo (max 20 righe).

Italo Calvino

D1b

La città di Leonia, un’immagine allegorica Le città invisibili

I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972

Fin dal lontano 1972 Calvino, con questo significativo testo che fa parte delle Città invisibili, anticipa un tema diventato oggi di scottante attualità: lo smaltimento dei rifiuti, inevitabile conseguenza della civiltà dell’iperconsumo.

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio. 5 Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che 10 ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 593


la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un 15 rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare. Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stra20 tificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro1 di montagne. 25 Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri. 30 Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee 35 e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel 40 proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai. 1 acrocoro: altipiano, in genere accidentato, circondato da versanti scoscesi.

Concetti chiave Una metafora della civiltà dei consumi (e dei rifiuti)

Il racconto di Calvino traspone in favola allegorica un tema di drammatica attualità, oggi ancor più rispetto all’inizio degli anni Settanta, quando il testo fu composto: il problema dello smaltimento dei rifiuti prodotti da una società votata al consumismo, schiava dell’“usa e getta”. Leonia è immagine-simbolo della tendenza propria dei nostri tempi a perseguire la novità a tutti i costi, proposta da un mercato sempre più aggressivo, a circondarci di oggetti sempre diversi, eliminando continuamente quelli “vecchi”: viviamo nell’era che il sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925-2017) ha definito dell’«obsolescenza programmata». Per il consumismo, i sociologi hanno parlato di una sorta di nuova “religione”: nel racconto di Calvino, non a caso, l’arrivo degli addetti alla spazzatura che ogni giorno rimuovono «i resti dell’esistenza di ieri» da Leonia, restituendole il suo volto smagliante, è accolto dagli abitanti della città «come un rito che ispira devozione».

594 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


In realtà non è così facile sbarazzarsi dei rifiuti accumulati: la difficoltà dello smaltimento dipende non solo dalla quantità crescente di rifiuti, frutto dell’«opulenza» di Leonia (e di altre città similari, come si deduce dal testo), ma anche dai materiali sempre più resistenti all’usura con cui i nuovi prodotti sono realizzati. Leonia è circondata così da minacciose montagne di spazzatura che si incontrano con le montagne di altre città. Nel finale del racconto Calvino immagina una sorte apocalittica per Leonia, quasi una rivincita dei rifiuti sulla città «sempre vestita a nuovo», che pensava di poter espungere il vecchio, l’usato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 3 righe il messaggio che Calvino vuole trasmettere ai lettori. COMPRENSIONE 2. Che cosa rappresenta la città di Leonia? ANALISI 3. Spiega il significato della frase «La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni». STILE 4. In questo testo ricorre l’accumulazione: individua le modalità ricorrenti di questa figura sintattica e porta esemplificazioni. Qual è la sua funzione?

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina e scrivi un diverso finale per questo racconto di Calvino. 6. Prendendo spunto dal testo proposto, scrivi un racconto ambientato in una città che sia immagine-simbolo di un altro tema oggi diventato, a tuo parere, di scottante attualità.

Papa Francesco

Contro la cultura dello scarto

D1c

Laudato si’ Riportiamo alcuni paragrafi significativi della parte iniziale del primo capitolo dell’enciclica, nei quali il pontefice fa specifico riferimento al tema dei rifiuti.

Laudato si’. Enciclica di Papa Francesco, «Osservatore romano», 18 giugno 2015

19. Dopo un tempo di fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane, una parte della società sta entrando in una fase di maggiore consapevolezza. Si avverte una crescente sensibilità riguardo all’ambiente e alla cura della natura, e matura una sincera e dolorosa preoccupazione per ciò che sta accadendo al nostro pianeta. 5 Facciamo un percorso, che sarà certamente incompleto, attraverso quelle questioni che oggi ci provocano inquietudine e che ormai non possiamo più nascondere sotto il tappeto. L’obiettivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare. 20. Esistono forme di inquinamento che colpiscono quotidianamente le persone. L’esposizione agli inquinanti atmosferici produce un ampio spettro di effetti sulla salute, in particolare dei più poveri, e provocano milioni di morti premature. Ci si ammala, per esempio, a causa di inalazioni di elevate quantità di fumo prodotto dai combustibili utilizzati per cucinare o per riscaldarsi. A questo si aggiunge l’in15 quinamento che colpisce tutti, causato dal trasporto, dai fumi dell’industria, dalle discariche di sostanze che contribuiscono all’acidificazione del suolo e dell’acqua, da fertilizzanti, insetticidi, fungicidi, diserbanti e pesticidi tossici in generale. La tec10

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 595


nologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono 20 tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri. 21. C’è da considerare anche l’inquinamento prodotto dai rifiuti, compresi quelli pericolosi presenti in diversi ambienti. Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, molti dei quali non biodegradabili: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici 25 e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia. In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d’altri tempi, che ora appaiono sommersi da spazzatura. Tanto i rifiuti industriali quanto i prodotti chimici utilizzati nelle città e nei campi, possono produrre un effetto di bio-accumulazione negli organismi degli abitanti delle zone 30 limitrofe, che si verifica anche quando il livello di presenza di un elemento tossico in un luogo è basso. Molte volte si prendono misure solo quando si sono prodotti effetti irreversibili per la salute delle persone. 22. Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in 35 spazzatura. Rendiamoci conto, per esempio, che la maggior parte della carta che si produce viene gettata e non riciclata. Stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione 40 di vegetali. Al contrario, il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future; e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza 45 dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero, ma osserviamo che i progressi in questa direzione sono ancora molto scarsi.

Concetti chiave L’ecologia secondo la Chiesa

L’enciclica Laudato si’ riprende nel titolo il celebre Cantico di frate Sole in cui Francesco d’Assisi loda il creatore attraverso il creato. L’enciclica si articola in una serie di capitoli che toccano i principali aspetti del problema ecologico. Fin dall’Introduzione papa Bergoglio, sottolineando la gravità dei danni prodotti dal cinico sfruttamento della natura, operato in nome del profitto, invita a una «conversione ecologica» che possa correggere i modelli di crescita attuali.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Identifica il concetto chiave di ogni paragrafo, dai a ognuno un titolo e sintetizzane il contenuto. ANALISI 2. Sulla base di quanto hai letto nella sezione Sguardo sulla storia, cerca di spiegare il significato della “conversione ecologica” auspicata dal pontefice.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Riorganizza ora i paragrafi in un testo argomentativo che riassuma la posizione del papa.

596 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


3 Dalla televisione a Internet: l’immaginario mediatico La televisione Gli albori della televisione Il 3 gennaio 1954, una domenica, la televisione italiana inizia le sue trasmissioni: comincia anche nel nostro paese l’era televisiva, destinata a cambiare le abitudini e i comportamenti degli italiani. In quel fatidico giorno solo pochissimi possono seguire il battesimo della TV (alle 20.45 va in onda il primo telegiornale): solo un numero ristretto di privilegiati infatti possiede un televisore e tale situazione permane per qualche tempo; soprattutto nei paesi ci si ritrova al bar per poter seguire le trasmissioni. Dopo soli tre anni, però, gli apparecchi televisivi sono più di 6 milioni e mezzo e nel 1961 gli abbonati alla televisione superano già il 50% delle famiglie italiane. In quell’anno nasce anche il secondo canale televisivo (la terza rete nascerà solo molti anni dopo, nel 1979, due anni dopo l’avvento del colore). In quei primi sette anni della sua vita, la televisione dimostra enormi potenzialità di coinvolgimento anche di un pubblico popolare: è il caso di trasmissioni storiche come Lascia o raddoppia (1955-1959), condotta da Mike Bongiorno, che inaugura il genere del quiz televisivo; di Canzonissima (nata nel 1958), gara musicale abbinata alla Lotteria di Capodanno; di Non è mai troppo tardi (1960), un famoso ciclo di prima alfabetizzazione condotto con passione dal maestro Alberto Manzi (che riesce a far superare l’esame di quinta elementare ad almeno 35.000 persone, secondo una stima dello storico della televisione Aldo Grasso). La prima TV: un ruolo complessivamente positivo La televisione dei primi anni svolge un ruolo nel complesso positivo: accedono all’informazione e al contatto con il mondo ceti che ne erano prima del tutto esclusi e inizia a diffondersi, grazie alla televisione, una lingua unitaria. Si tenta anche di farne uno strumento di divulgazione culturale, attraverso sceneggiati che presentano a puntate romanzi importanti della letteratura italiana e straniera e che riscuotono notevole successo, svolgendo un’indubbia azione educativa. La nascita delle Tv commerciali La storia della televisione conosce una svolta quando una piccola rete locale, TeleMilano, che inizialmente trasmetteva solo nella zona di Milano2, viene acquisita nel 1976 dall’imprenditore edile Silvio Berlusconi (poi destinato a una folgorante carriera politica) e diventa regionale; nel 1980 diventerà Canale5. Da quel momento la vita della televisione cambia: finisce il monopolio della TV di stato e nasce la televisione commerciale, così detta per il ruolo fondamentale rivestito dall’investimento pubblicitario nell’orientarne la programmazione. Berlusconi crea in breve tempo con Mediaset un impero multimediale, acquisendo nel 1984 due reti private, Italia1 e Retequattro. La neotelevisione Dai primi anni Ottanta si parla di “neotelevisione” (il termine si deve a Umberto Eco), per alludere a un nuovo modo di intendere la televisione e di “fare televisione”, con riferimento a nuovi generi, nuovi linguaggi. Aspetto fondamentale per le reti commerciali è l’audience, che registra gli indici di ascolto di uno spettacolo, i quali determinano poi in proporzione gli investimenti pubblicitari: ne deriva la tendenza delle reti commerciali a prescindere spesso dal livello dei contenuti proposti pur di compiacere i gusti del pubblico, con inevitabili cadute di gusto e di fatto un generale scadimento anche sul piano etico dei programmi La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 597


proposti. Inoltre nasce la necessità di occupare ogni momento della giornata dei telespettatori con offerte continue, che tendono a creare una dipendenza dal mezzo televisivo, onnipresente anche nei giorni come la domenica, che dovrebbero essere di riposo, di incremento della socialità e di un uso libero del tempo. Purtroppo la Rai non è stata in grado di opporre una propria strategia a online questa politica e ha seguito le reti avversarie nella pericolosa D2 Luca Doninelli Agli albori della “televisione del dolore” rincorsa al successo, così che l’effetto è ormai di una generale Talk show, cap. 14 omologazione.

La rivoluzione informatico-telematica L’era della comunicazione Negli ultimi decenni, nella società post-industriale, è venuto in primo piano il settore della comunicazione, che ha conosciuto straordinarie innovazioni, frutto della connessione sempre più stretta tra informatica e telematica, mentre nell’immaginario tende a proiettarsi nel passato tutto ciò che ha a che fare con l’industria (chimica e meccanica, ad esempio). In un arco di tempo oggettivamente breve la diffusione del computer, del cellulare e soprattutto di Internet ha modificato (e sta incessantemente modificando) la mentalità, le abitudini di vita, e soprattutto gli stili percettivo-cognitivi di milioni di persone e in particolare delle giovani generazioni. Oggi non si riesce neppure a immaginare cosa significasse scrivere ogni tipo di testo a mano o tutt’al più sulla macchina per scrivere. La diffusione del personal computer a partire dagli anni Ottanta ha trasformato radicalmente il modo di scrivere, di raccogliere dati, di lavorare. Il ricorso agli archivi della memoria artificiale del pc è diventato d’obbligo ormai da anni nella pubblica amministrazione, nella ricerca scientifica e personale.

PER APPROFONDIRE

Dal telefono fisso allo smartphone Allo stesso modo, facciamo fatica a pensare che si potesse usare esclusivamente il telefono fisso di casa per contattare qualcuno o essere contattati o di dover cercare una cabina telefonica per qualsiasi necessità. La continua accelerazione dell’innovazione tecnologica ha trasformato negli ultimi anni quello che un tempo si chiamava, con una sorta di vezzeggiativo, il “telefonino”, in uno strumento polifunzionale: sui moderni smartphone si mandano e ricevono messaggi, si inviano e ricevono foto, si ascolta musica, si prenotano treni e viaggi, si vede la televisione, si consulta Wikipedia. Appare già remoto il tempo in cui il cellulare serviva solo a telefonare e tutt’al più a mandare SMS. La moltiplicazione degli usi, la proliferazione delle app ha prodotto lo spettacolo a tutti noto (e piuttosto inquietante) di masse di persone che – per strada, in treno, sulla metro e persino in vacanza – non staccano gli occhi dal display del loro smartphone, diventato una sorta di appendice del corpo.

Da Carosello alla dittatura degli spot Agli inizi della televisione, la pubblicità era relegata in uno spazio-tempo isolato, che precedeva le trasmissioni: il celeberrimo Carosello. Carosello durava una decina di minuti ed era strutturato in brevi scene o anche cartoni animati che si concludevano con lo spot pubblicitario: solo in quest’ultima fase era pronunciato il nome del prodotto da reclamizzare. La natura “innocente” degli spot e la presenza di personaggi come Calimero, Paulista e Carmencita, resero Carosello uno spettacolo amato anche dai bambini che, come si sa, anda-

598 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali

vano a letto “dopo Carosello”. Nella seconda metà degli anni Settanta Carosello muore con l’avvento delle televisioni commerciali e la necessità della Rai di seguirne la logica. Nelle reti commerciali il comunicato commerciale si insinua nel palinsesto, con grande sgomento e iniziale irritazione dei telespettatori. Ma in breve tempo si osserva una generale assuefazione e la pubblicità inizia a intervenire pesantemente anche negli spettacoli della Rai, diventando progressivamente componente determinante della televisione.


Un evento epocale: l’avvento di Internet A partire dagli anni Novanta si verifica un evento che, per la sua portata, può essere paragonato all’invenzione della stampa: la diffusione di Internet, divenuto il più importante dei mass media. Attraverso la Rete, i computer di tutto il mondo informatizzato sono interconnessi e gli utenti della Rete possono accedere, attraverso potenti motori di ricerca, a uno sterminato patrimonio multimediale di dati, filmati, immagini in continua evoluzione, e soprattutto possono essere informati in tempo reale di ciò che accade in ogni parte del pianeta. Il primo servizio offerto da Internet è stata la posta elettronica, che ha in brevissimo tempo sostituito la lettera, anche per comunicazioni di lavoro. Qualche punto di domanda Sociologi, filosofi e psicologi si interrogano sulle conseguenze di un mondo sempre più connesso e anche sulle modalità di conoscenza attivate dal web. Data la complessità del problema, ci limitiamo qui a suggerire solo qualche spunto di riflessione. La massa di informazioni, rovesciate a ritmo battente sulle persone nell’era di Internet (una vera e propria Babele), secondo alcuni consente una democratizzazione del sapere senza precedenti; altri invece pongono l’accento sulla pericolosa mancanza di criteri di discernimento tra informazioni più o meno accreditate, sulla sempre più forte labilità delle categorie culturali che produce, soprattutto nei più giovani, confusione, relativismo, sostanziale indifferenza etica o coinvolgimenti momentanei e del tutto irrazionali, dipendenti spesso anche dal ruolo e dall’incidenza delle relazioni interpersonali virtuali. Inoltre, la percezione multisensoriale e simultanea di più informazioni, tipica di Internet, è destinata a produrre nel tempo la fine di una visione logico-sequenziale. Il pensiero si farà sempre meno razionale e dialettico, tutto ciò che si fonda sulla lunga o almeno media durata finirà delegittimato: la memoria collettiva e il senso dei processi storici. Tenuto conto di ciò, il riferimento alla presunta “saggezza” delle masse interconnesse come sinonimo di democrazia può dunque risultare un mito molto pericoloso e offrire addirittura la sponda a un “totalitarismo digitale”. Non ci sono però solo aspetti negativi, in quanto le nuove scoperte possono migliorare anche la nostra vita: si pensi all’intelligenza artificiale che, se applicata alla medicina, può aiutare i medici a fare più velocemente le loro diagnosi.

Scena dalla trasmissione Carosello con il logo del programma.

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 599


Roberto Cingolani

D3

La robotica e le nuove professioni Mandiamo i robot a scuola di ecologia

R. Cingolani, Mandiamo i robot a scuola di ecologia, «Corriere della Sera», 25 maggio 2018

Il fisico Roberto Cingolani (n. 1961) è stato direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia e ministro della Transizione ecologica. In questo articolo lo scienziato affronta il tema dello sviluppo tecnologico e della robotica in relazione alla nascita di nuove professioni, allo sviluppo sostenibile e al miglioramento della qualità della vita, verso un’idea di società che riesca a progettare con lungimiranza il proprio futuro.

Nel 2060 un terzo degli europei sarà più che sessantacinquenne, contro l’attuale 18%. Il rapporto fra cittadini lavoratori (fra i 19 e i 65 anni) e i cittadini non attivi e pensionati (oltre i 65 anni) salirà dall’attuale 26% ad oltre il 50%. Nel prossimo futuro, in una società che invecchia rapidamente e cresce numericamente, i robot 5 saranno una tecnologia indispensabile. Tuttavia, già oggi la crescente penetrazione delle macchine intelligenti e dei robot in tutti gli ambiti sociali e produttivi ci obbliga a una profonda riflessione che riguarda la formazione, il lavoro, il welfare e la società nel suo complesso. L’avanzamento tecnologico in questo settore se da un lato tende a facilitare la nostra vita, dall’altro potrebbe mettere in discussione 10 modelli industriali e professioni consolidate. Le analisi più recenti concordano sul fatto che i robot causeranno una diminuzione dei lavori di routine cognitiva o manuale, mentre difficilmente impatteranno sui lavori creativi o ad elevata manualità. Tuttavia diversi antropologi ritengono che l’automazione, pur subentrando in un certo numero di attività lavorative, possa anche creare una serie di nuove com15 plementarità fra uomo e macchina che, a loro volta, richiederanno nuove capacità professionali e nuovi servizi. Le indagini del World Economic Forum hanno messo in luce che tra le strategie di sviluppo della forza lavoro del futuro, il mondo delle imprese assegna di gran lunga la priorità alla riconversione professionale dei propri dipendenti, identificando l’insufficiente comprensione dei cambiamenti tecnologici 20 come il principale ostacolo per l’innovazione industriale. È quindi ragionevole temere che il saldo netto fra posti di lavoro persi nei settori di routine e quelli creati dai settori innovativi possa essere negativo. Si può preconizzare che nel futuro vedremo tramontare alcune professioni e sorgerne altre come gli infermieri digitali1 nel settore healthcare2 ad alta tecnologia […], i biotecnologi e 25 i nanotecnologi3 per le banche di tessuti, organi e parti del corpo, gli educatori dei robot. Non spariranno di sicuro gli artigiani, ma appariranno gli architetti digitali e gli architetti dei materiali sostenibili4, del ciclo dei rifiuti e del 3D printing5. Molto probabilmente vedremo crescere la richiesta di manager dell’energia e di tecnologi del cibo per la tracciabilità, il packaging e l’agricoltura verticale6. 30 Le nuove professioni richiederanno sicuramente competenze ed esperienze superiori a quelle dei lavori che andranno a sostituire, rendendo sempre più importante il 1 infermieri digitali: infermieri specializzati nell’uso delle tecnologie digitali. 2 healthcare: assistenza sanitaria. 3 biotecnologi e i nanotecnologi: la biotecnologia e la nanotecnologia sono due settori della scienza applicata; il primo si occupa della creazione industriale

di sostanze organiche quali cellule, enzimi, antibiotici, vitamine, aminoacidi eccetera; il secondo della progettazione e costruzione di oggetti su scala inferiore al nanometro, cioè al miliardesimo di metro. 4 materiali sostenibili: i materiali che,

600 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali

da vari punti di vista, hanno un basso o nullo impatto sull’ambiente. 5 3D printing: la stampa 3D, cioè la realizzazione di oggetti tridimensionali partendo da modelli digitali. 6 tecnologi… verticale: ➜ Analisi del testo.


ruolo della formazione, dell’aggiornamento del cittadino, della diffusione e disseminazione della cultura scientifica. Tutto ciò non si improvvisa: richiede lo sviluppo di una vera società della conoscenza che pianifichi sul lungo termine, a partire dalle 35 scuole e dalle università, e garantisca a tutti i cittadini nel corso della loro esistenza attiva una formazione continua. Tuttavia, quando si parla di robotica spesso si fa riferimento solo a quel tipo di robotica che potrebbe avere profondi impatti sul mondo del lavoro, trascurando invece quei robot che possono affiancare l’uomo in numerosi settori senza sostituirlo, ma aumentando l’efficienza dei processi, renden40 doli sempre più sostenibili e migliorando la qualità della vita in generale. Proprio nella prospettiva di una popolazione che invecchia e cresce di numero e per la quale occorrerà prevedere un diverso modello di welfare e di sfruttamento delle risorse, la robotica assume un ruolo di primo piano. Essa, infatti, permetterà di testare le frontiere più innovative della scienza e della tecnologia come nuovi materiali (su45 per resistenti, flessibili, leggeri, biodegradabili) e nuove fonti energetiche (portabili, rinnovabili, efficienti); potrà migliorare le proprie capacità utilizzando il modello del vivente che con poche calorie, e quindi con un minimo consumo d’energia, riesce a compiere attività impensabili per qualsiasi macchina. Grazie alla robotica ciò che oggi produciamo impiegando ingenti risorse naturali non rinnovabili potrebbe essere 50 ottimizzato e diventare ecologicamente ed economicamente sostenibile. Ma la prima e più immediata ricaduta7 sociale della robotica è già a disposizione: è nella rivoluzione che queste tecnologie stanno portando nell’ambito biomedicale, per esempio nel settore della riabilitazione. Numerosi centri di ricerca e aziende nel mondo stanno concentrando i loro sforzi tecnologici nella progettazione e ottimizza55 zione di robot fisioterapisti in grado di assistere il personale specializzato e permettere cure riabilitative più efficaci e veloci, sia in campo neurologico e ortopedico sia in campo geriatrico. Si tratta di strumenti che, con l’ausilio dell’intelligenza artificiale e dell’analisi di grandi quantità di dati (Big Data), sono in grado di supportare il fisioterapista nel mettere a punto terapie specifiche preventive e di mantenimento 60 per pazienti di ogni età, in particolar modo per coloro che si affacciano alla terza o quarta età. Sempre in campo biomedicale anche la robotica chirurgica si sta sviluppando molto rapidamente e viene sempre più impiegata negli ospedali di tutto il mondo essendo in grado di superare l’uomo per precisione e affidabilità, eseguendo operazioni sotto la supervisione umana, anche a distanza, di una complessità quasi 65 irraggiungibile anche per un ottimo chirurgo. Queste tipologie di robot sono già realtà commerciali, sempre più accessibili economicamente, così come cominciano ad affermarsi sul mercato le protesi robotiche e gli esoscheletri8, dispostivi robotici capaci di ridare mobilità a chi l’ha persa o restituire un arto a chi purtroppo non lo ha più. 70 Ma oltre tutto ciò dovremo lavorare seriamente sul concetto di futuro da costruire ora. Dovremo scegliere tra una società basata sul sistema first come first served, “chi prima arriva prende quello che vuole”, oppure vivere in una collettività di Homo sapiens 2.0 dove ci sia consapevolezza che ogni azione ha una conseguenza. Dobbiamo scegliere al più presto il nostro futuro consapevoli che anche una scelta 75 locale potrebbe cambiare le scelte del nostro pianeta. 7 ricaduta: conseguenza, effetto. 8 protesi robotiche o esoscheletri: si ri-

ferisce ad esempio a protesi complesse come la mano o a robot indossabili che

possono sostenere l’intera persona.

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 601


Concetti chiave Il fenomeno della «disoccupazione tecnologica»

Fin dalla prima rivoluzione industriale emerse in modo eclatante il problema della cosiddetta «disoccupazione tecnologica» quando moltissimi lavoratori manuali persero il lavoro perché le loro mansioni venivano svolte in modo più rapido ed economico, ad esempio, dai telai meccanici mossi dai motori a vapore. Un fenomeno di analoga portata si è verificato a partire dagli anni Ottanta del Novecento con l’avvento delle tecnologie informatiche e della robotica, che ha consentito di automatizzare molti processi produttivi che prima erano svolti da operai o impiegati.

Le nuove esigenze della società tecnologica

Il progresso tecnologico, d’altro canto, sta diventando sempre più indispensabile in società, come quelle occidentali, che mostrano un rapido invecchiamento della popolazione (ossia un saldo negativo delle nascite rispetto alle morti). Inoltre, esso tende a generare la richiesta di nuovi servizi e figure professionali più specializzate rispetto a quelle che svolgono lavori «di routine cognitiva o manuale». Fra queste nuove figure, Cingolani nomina ad esempio i manager e i tecnologi della tracciabilità del cibo (la capacità di seguire e ricostruire il percorso di tutto ciò che entra a far parte della produzione di un alimento attraverso le fasi della sua realizzazione, trasformazione e distribuzione), del packaging (le forme, le modalità, i materiali del confezionamento) e dell’agricoltura verticale (applicata a colture su edifici sviluppati in altezza specialmente in zone altamente urbanizzate).

Nuovi materiali e nuove prospettive di sostenibilità

Inoltre lo sviluppo tecnologico può indirizzarsi verso la produzione di materiali più evoluti («super resistenti, flessibili, leggeri») e più sostenibili, cioè a basso impatto ambientale, in quanto realizzati con un minore consumo di energia e più facili da smaltire o da riciclare. In questo la ricerca tecnologica può anche svolgere un ruolo importante nel ridurre lo sfruttamento delle risorse del pianeta e nel creare un rapporto meno aggressivo e più armonico fra l’uomo e la natura.

Le frontiere della robotica biomedicale

La robotica più evoluta, inoltre, specialmente nel campo biomedicale, consente di affiancare e migliorare i tradizionali lavori umani, creando «una serie di nuove complementarità fra uomo e macchina» per ottenere risultati più funzionali, precisi ed efficienti, oppure di migliorare la qualità della vita a persone che hanno subito gravi menomazioni fisiche tramite «protesi robotiche ed esoscheletri». Ovviamente, anche tutte queste applicazioni vanno di pari passo con lo sviluppo di nuove professioni e di nuove opportunità di lavoro per le nuove generazioni. Ma tutto ciò, ammonisce Cingolani, «richiede lo sviluppo di una vera società della conoscenza che pianifichi sul lungo termine, a partire dalle scuole e dalle università, e garantisca a tutti i cittadini nel corso della loro esistenza attiva una formazione continua».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. La tecnologia solitamente è associata allo sfruttamento delle risorse naturali e all’inquinamento, mentre nei casi citati da Cingolani le nuove tecnologie potrebbero servire a creare l’effetto opposto. Spiega in che senso. ANALISI 2. Spiega che cosa significa l’espressione «disoccupazione tecnologica» e fornisci qualche esempio di tua conoscenza.

Interpretare

SCRITTURA 3. Perché, secondo te, lo sviluppo tecnologico di cui parla l’autore richiede una pianificazione a lungo termine nella politica della formazione e in particolare nelle scuole secondarie e nell’università?

602 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


4 Lo spazio e il tempo Viaggi virtuali. Turismo di massa Il mondo a portata di clic Non solo i reportage televisivi da ogni parte del pianeta, ma ancor più le possibilità offerte dalla Rete stando comodamente davanti al proprio computer, hanno ampliato la conoscenza del mondo in modi che non sarebbero stati neppure immaginabili anche solo due decenni fa: è possibile visitare l’interno di musei famosi o percorrere le strade di grandi città come New York senza muoversi fisicamente. E del resto, non a caso, “navigare” è la metafora ormai usuale per definire il viaggio stesso nella rete, che coinvolge ormai milioni di “navigatori”. Il turismo di massa e la mercificazione del viaggio A prescindere dai viaggi virtuali , oggi anche le più lontane distanze sono realmente raggiungibili in tempi abbastanza rapidi e non c’è parte del mondo che non possa essere visitata a prezzi tutto sommato abbordabili. I modi di viaggiare di oggi sono molto diversi rispetto al passato anche recente e tanto più rispetto all’esperienza dei viaggiatori sette-ottocenteschi del Grand Tour (➜ SCENARI, VOL 2A) quando il viaggio era concepito come fondamentale occasione di formazione umana e culturale. Incanalato dall’industria del turismo in itinerari e ritmi prefissati, il viaggio, per lo più organizzato, è diventato sempre più un prodotto commerciale particolarmente redditizio. L’incontro con popoli diversi avviene in modo non diretto ma mediato, appunto, dall’organizzazione: ne deriva una conoscenza spesso falsata dei vari paesi, e comunque filtrata da schemi stereotipati. Gli italiani iniziano a viaggiare in massa negli anni Sessanta, con il boom economico, essenzialmente durante le vacanze estive che spostano, a quei tempi soltanto in Italia, migliaia di viaggiatori in treno o sulle prime automobili. Con il rapido sviluppo della rete autostradale si diffondono gli autogrill, luoghi di sosta, di cui dà una interessante descrizione lo scrittore Francesco Piccolo (➜ D4a ). Le città galleggianti Il turismo di massa conosce una svolta con il viaggio in crociera. Un tempo riservata alle classi sociali più elevate e considerata simbolo di un’élite, la crociera è diventata oggi un’icona kitsch del consumo. Lontanissime dal fascino delle antiche navi da crociera, le vere e proprie città galleggianti di oggi riescono ad accogliere migliaia di viaggiatori. La meta turistica da raggiungere è un aspetto quasi secondario rispetto all’intrattenimento a bordo, vero senso della crociera moderna: le mega-navi assomigliano più a parchi del divertimento come Gardaland.

Parola chiave

Le nuove piazze. I non luoghi Il termine non luogo è stato coniato in un saggio del 1993 dall’antropologo francese Marc Augé (n. 1935) per definire, oltre a spazi dove ci si trova a transitare in modo temporaneo, come l’autogrill dell’autostrada o l’aeroporto, anche lo spazio degli ipermercati e lo spazio virtuale di Internet.

virtuale Il termine virtuale appartiene originariamente all’ambito filosofico, nel quale è utilizzato come sinonimo di “potenziale”. Dopo la rivoluzione informatica degli ultimi decenni, la parola è entrata nell’uso comune con un significato del tutto diverso: viene impiegata per riferirsi alle immagini, alle raffigurazioni prodotte dai mezzi informatici, che simulano la realtà e la

trasformano, amplificandola, riducendola, e che in un certo senso entrano in competizione con il mondo reale. Ad esempio, ultimamente si parla spesso delle relazioni virtuali che si intrattengono sui social network e che tendono sempre più a sostituire le relazioni reali o comunque a creare, rispetto a queste ultime, una realtà parallela.

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 603


Ciò che accomuna questi diversi ambienti e induce Augé a definirli in tale modo sono la sospensione, vissuta dagli utenti, del senso delle coordinate spazio-temporali e persino una specie di perdita d’identità. Il concetto di non luogo è stato ripreso anche dal sociologo George Ritzer a proposito dei centri commerciali, nuove “cattedrali” della religione dell’iperconsumo. Sono edifici uguali dappertutto, in cui la manutenzione costante elimina il senso del deterioramento – dando l’idea che non abbiano età – e non ci sono finestre né orologi che possano scandire il tempo. Poche porte invitano a uscire, inducendo il cliente ad aggirarsi fino a smarrirsi senza porsi limiti di tempo. L’architettura di alcuni centri commerciali outlet imita la piazzetta di un ipotetico borgo con le case che vi si affacciavano, dove un tempo donne, anziani, bambini si incontravano. Il centro commerciale ora ha assunto quella funzione di aggregazione.

La cultura dell’“adesso” Il “culto dell’urgenza” La società contemporanea è contraddistinta da una particolare visione del tempo che è stata efficacemente definita nowist culture, “cultura dell’adesso” (Bertman). La concezione attuale del tempo non è ciclica o lineare come nelle culture che l’hanno preceduta: il tempo è “puntiforme”, frammentato. In quella che il sociologo Bauman ha definito la condizione «liquidomoderna», ogni momento costituisce un concentrato di potenzialità da sfruttare in fretta: il tempo non è più un divenire organico, ma una serie di “inizi” presto superati da nuovi “inizi”. La cultura contemporanea pensa sempre a breve termine, è caratterizzata dal «culto dell’urgenza» (Nicole Aubert). Non a caso è assai diffuso l’uso di espressioni come “non avere tempo”, “perdere tempo”, “risparmiare tempo”, che dimostra lo sforzo costante degli individui di adeguarsi al ritmo affannoso della vita imposto dall’economia consumistica: essa valorizza la transitorietà rispetto alla durata, la novità (anche in campo culturale) rispetto alla tradizione. L’influenza del progresso tecnologico sul concetto di tempo Su questa idea del tempo influisce soprattutto il rapidissimo progresso della tecnologia della comunicazione, ambito dominante nell’immaginario collettivo, nella quale l’immissione di novità sul mercato si sussegue a un ritmo travolgente (in questo ambito anche solo l’ultimo decennio è percepito come un tempo lunghissimo tenuto conto delle radicali trasformazioni che si sono verificate in questo arco temporale). L’azzeramento del tempo biologico Il culto del nuovo comporta l’annullamento della visione prospettica passato-presente-futuro: soprattutto le ultime generazioni hanno perduto il senso del passato storico (si parla di “generazione senza memoria”), con conseguenze certo molto preoccupanti. Se il passato è appiattito sul presente, lo stesso vale in fondo anche per il senso del futuro, poiché manca una dimensione progettuale che vada oltre i limiti dell’immediato. A ben vedere è oggi annullata anche la nozione di tempo biologico, cioè il fatto che esistano momenti diversi della vita per fare cose diverse (G. Ritzer): nella logica implacabile dei consumi gli anni della vecchiaia sono uguali all’adolescenza, nell’idea di una eterna giovinezza, della possibilità di sempre nuove esperienze (e di nuovi consumi) da vivere.

604 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


Testi in dialogo

L’autogrill e l’aeroporto: i non-luoghi Riportiamo due brani, il primo di Francesco Piccolo sugli autogrill e il secondo di Pecoraro sull’aeroporto. Sia gli autogrill che l’aeroporto sono descritti dagli autori come luoghi dove gli utenti perdono la propria identità.

Francesco Piccolo

D4a

L’autogrill, luogo-simbolo dell’Italia vacanziera L’Italia spensierata, Tempo di percorrenza troppo lungo

F. Piccolo, L’Italia spensierata, Laterza, Bari 2007; poi Einaudi, Torino 2014

Questa riflessione arguta e ironica di Francesco Piccolo (n. 1964), scrittore e sceneggiatore cinematografico, è tratta da Tempo di percorrenza troppo lungo, uno dei racconti-cronaca che compongono L’Italia spensierata (2007). L’autore attribuisce agli autogrill quasi una personalità, che si manifesta nell’esibizione delle merci, il cui elenco costituisce il senso stesso del testo.

Gli autogrill sanno benissimo com’è l’umore dei viaggiatori che fanno una sosta sull’autostrada. Lo sapevano già quando sono nati insieme alle autostrade, quando gli ingorghi e gli esodi non esistevano, ma esisteva insieme alla nascita degli autogrill e delle autostrade – preesisteva anzi – questa leggera euforia di 5 essersi messi in viaggio, del portabagagli carico di roba, della sosta per il caffè, del controllo continuo del cielo per capire com’è il tempo, alza e abbassa il finestrino, accendi e spegni il riscaldamento e tutto il resto delle cose che man mano allontanano da casa, dalla solita vita, in nome di una non identificata eccitazione, insensata – ma perché dovrebbe essere sensata? E perché 10 il traffico, l’esodo, gli ingorghi, una coda per un incidente dovrebbero minare tutto questo? In fondo, il sentimento è: siamo tutti desiderosi di andare via. E gli autogrill lo sanno. Conoscono perfettamente questo umore, perciò sono modellati su di esso. Conoscono alla perfezione soprattutto la conseguenza psicologica di questo umore, riconoscibile attraverso i codici del sorriso, della 15 pelle lucente, degli abiti stropicciati senza cura, della composizione affettuosa e compatta degli occupanti dell’auto, che rimane tale anche all’interno dell’autogrill fino all’uscita, del vociare quasi chiassoso – il risultato di tutto ciò, gli autogrill lo sanno, è un senso di diversità dalla vita quotidiana, che si esprime compiutamente in una frase: 20 «Ma siamo in vacanza!» Che significa: possiamo permetterci delle stupidaggini, delle cose in più, dei capricci. Gli autogrill lo sanno molto bene. E il modo per esprimere la comprensione e allo stesso tempo per dare una risposta a quest’apertura è contenere pratica25 mente tutto. [... Ecco] un catalogo incompleto di ciò che si può trovare sugli scaffali dei lunghi corridoi degli autogrill: il Toblerone gigante è forse il simbolo dell’autogrill, la sineddoche (poi, quando saremo in macchina incolonnati in una lunga coda che non si sa quando finirà, mangeremo tutti insieme un Toblerone, un 30 triangolo per uno); pacchi di caramelle Elah mentaliquirizia, liquirizia, latte, frutta; Chupa Chups di ogni doppio gusto con propensione per la cola, così La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 605


come le Haribo alla cola (che hanno la forma della bottiglia di Coca-Cola mezza piena), i rotoli Haribo alla liquirizia e molti altri pacchi Haribo misti – ogni confezione di caramelle o cioccolata non la dovete immaginare meno grande 35 di una sacca da viaggio, qui è tutto in confezione maxi, come se invece di un autogrill foste finiti da un grossista di dolciumi: ci sono confezioni maxi di Twix, Mars, Lion, Bounty, Kit Kat, Kinder Cereali, Duplo, Bueno, Smarties, Tronky; ci sono tavolette maxi di cioccolato Milka, Galak, Lindt, Novi, Ritter, Nippon e altre quindici-venti marche, e per ogni serie ci sono vari tipi di noc40 ciole, latte, fondenti, extra-fondenti, amare in percentuali che vanno dal venti al cento, bianche, nerissime; delle tazze per il latte Milka muuuug con dentro la cioccolata al latte; ci sono confezioni maxi di Galatine al latte, al cioccolato e alla fragola; dei pacchi giganteschi di minuscole Golia (in ogni pacco forse ce ne sono milioni) e dei pacchi giganteschi di Saila Menta; caramelle gommose ai 45 frutti di bosco e le win gum, ci sono delle bamboline «quaranta» o scatole quick and fresh, roba con Gatto Silvestro o il coyote sulla busta e di tutto questo non capisci il contenuto: bambole? Caramelle? Pupazzi? Chewing-gum? Cioccolata? Boh! Ci sono persino i cioccolatini Mozart salisburghesi, il torrone Zanzibar, le fantastiche caramelle Kopiko al caffè, che sono di quelle che ne mangeresti 50 dieci alla volta e quando lo fai non dormi per tre giorni e picchi chiunque ti contraddica; le Ricola ai vari gusti sofisticati, roba tipo «cristalli di zucchero alle erbe svizzere»; le Quality Street in scatole eleganti tipo i biscotti della nonna; i biscotti della nonna, anche; una svariata quantità di caramelle senza zucchero, le Gemme o il Frutteto Sperlari, Licorice Drops o Fruit Drops della Taveners 55 (che sono quelle caramelle completamente ricoperte da zucchero a velo che si sparge in ogni angolo del mondo appena apri la scatola); ci sono biscotti di ogni tipo che hanno accompagnato tre generazioni almeno, partendo dai Bucaneve, passando per Pavesini e Ringo, attraversando i devastanti Grisbì, poi le Ore Liete, i Mikado, le Gocciole, i Krumiri, ogni tipo di Bahlsen e la speciale 60 perversione dei Cerealix, finendo alle migliaia di varietà di biscotti e merendine del Mulino Bianco che potrebbero occupare un autogrill tutto loro; cantuccini provenienti da ogni paesino della Toscana, biscotti per il tè che fanno a gara a chi contiene più burro; amaretti come se piovesse; la Ghiotteria, una specialità tipica e soprattutto ci sono le caratteristiche chewing-gum nella forma delle 65 palline colorate, messe dentro plastiche trasparenti e in fila come se fossero pallottole, ognuna delle quali contiene un numero di coloranti talmente predominante che il sapore non è altro che il sapore inconfondibile dei coloranti. [... E] tutto ciò conduce al reparto anch’esso esemplare e dall’odore potente delle mortadelle giganti, dei prosciutti di Parma, dei salami di ogni animale 70 esistente fino a quando non sarà estinto (dai salami stessi), provoloni potenti, caciotte, pecorini e caprini, stagionati e non; poco lontano, senza soluzione di continuità e accompagnati dall’odore dei salumi, cominciano i giacconi, le maglie di Inter e Juventus, i peluche giganteschi, libri, cd, dvd, le Barbie, le Winx e le Polly, ogni oggetto Disney a forma di Winnie the Pooh [...] 75 (A un certo punto, in realtà, ho scoperto che in questo posto dove c’è tutto, non c’è tutto. Mentre prendevo appunti la mia penna ha cominciato a perdere colpi e ho scoperto che qui, dove vendono tutto, non vendono penne, e non so perché, mi sono un po’ avvilito.)

606 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


Francesco Pecoraro

D4b

L’aeroporto, un non luogo La vita in tempo di pace

F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano 2013

Il protagonista-narratore del romanzo La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, un ingegnere che viaggia spesso per lavoro, analizza la sua condizione interiore e psicologica quando si trova in aeroporto in attesa di partire. Le connotazioni che attribuisce alla sosta in questo spazio si ricollegano alla nozione di non luogo.

A parte i ritorni all’Isola, viaggia sempre e solo per lavoro, perché ormai odia il viaggio e tutto il resto, ma si trova bene negli aeroporti e sugli aerei. Quando è all’aeroporto entra in uno stato catalettico1, in una stupefatta pace interiore, tanto più profonda quanto più l’attesa si prolunga […]. Una volta fatto il check-in, 5 dopo aver passato i controlli ed essersi sottoposto ad ogni tipo di scanner, dopo essere stato frugato, essersi tolto cintura e scarpe ed essere finalmente ricaduto dall’altra parte2, gli occorre semplicemente respirare e pensare. Talvolta leggere, mangiare un panino, bere un cappuccino international style. Ma soprattutto gli piace osservare. Dentro un aeroporto Ivo Brandani3 si sente un giusto tra i giusti. 10 Lì ogni normale attività umana è sospesa, è una pausa esistenziale, una specie di pacificazione, un nirvana: l’aeroporto è l’unico spazio di de-compressione mistica concesso a chi non crede a niente4. Da una sala d’imbarco te ne vai via in volo, forse è per questo che l’aria ti sembra già diversa. È bello essere qui, in legittima e necessaria attesa, in uno stato di sospensione fuori dal lavoro, 15 dalle vacanze, da qualsiasi altra attività che non sia attendere un aereo. Per lui gli aerei sono oggetti sacri, di una bellezza sublime perché necessaria. Presto giungerà una divinità tecnologica capace di levarsi in volo di potenza, in un rombo meraviglioso & sovrumano. [...] Due ore di sala d’imbarco mi danno lo stesso sollievo di un anno di meditazione trascendentale... 1 stato catalettico: propriamente è uno stato di insensibilità dovuto a varie cause psicofisiche; qui l’uso è in senso metaforico. 2 dall’altra parte: nella zona d’imbarco.

3 Ivo Brandani: è il protagonistanarratore del romanzo. 4 un nirvana... a niente: per il protagonista, un individuo privo di ogni fede, disincantato, ironico, il soggiorno in aeroporto produ-

ce una condizione di beatitudine simile al nirvana (lo stato di pace a cui si perviene, nella religione buddhista, dopo un cammino di ascesi e che coincide nell’assenza di desideri e passioni).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Secondo Piccolo, che cosa rende l’autogrill un luogo-simbolo dell’Italia vacanziera? ANALISI 2. Nel primo documento quali bisogni soddisfa l’iperbolico «catalogo incompleto di ciò che si può trovare sugli scaffali dei lunghi corridoi degli autogrill»? 3. Identifica nel secondo testo le espressioni che rimandano al concetto di non luogo e spiega perché l’aeroporto – o meglio: le sue sale di attesa – possono configurarsi come non luoghi.

Interpretare

SCRITTURA 4. L’autogrill è anch’esso un “non luogo”, ovvero uno spazio dove le coordinate spazio-temporali sembrano sparire. Rifletti: l’autogrill descritto da Piccolo e l’aeroporto descritto da Pecoraro possono divenire metafora di una sorta di perdita d’identità? Argomenta. LETTERATURA E NOI 5. Prendendo spunto dal passo proposto, dai una tua definizione di “non luogo”. Conosci altri “non luoghi”? Descrivili.

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 607


Testi in dialogo

Il tempo della società moderna Proponiamo un confronto tra il testo di Bauman, che analizza il vivere di fretta della società moderna, e il testo di Kundera, in cui si elogia invece la lentezza.

Zygmunt Bauman

D5a Z. Bauman, «la Repubblica», 15 febbraio 2010

Il tempo della fretta e il miraggio delle vite multiple In un articolo su «la Repubblica» del 2010, il sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925-2017) fa alcune interessanti considerazioni che riprendono le tematiche del suo studio Consumo, dunque sono (2007).

È stato Stephen Bertman1 a coniare i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il nostro modo di vivere in questa società. Sono definizioni idonee e che risultano particolarmente comode ogni volta che cerchiamo di cogliere la natura della condizione umana liquido-moderna2. 5 La mia tesi è che tale condizione si caratterizza principalmente per la sua tendenza (un caso fin qui unico) a rinegoziare3 il significato del tempo. Il tempo, nell’era liquido-moderna della società dei consumatori, non è né ciclico né lineare, com’era normalmente per le altre società note della storia moderna o premoderna. Direi che è invece puntinista, frantumato in una 10 moltitudine di pezzetti distinti, ognuno ridotto a un punto che si avvicina sempre di più alla sua idealizzazione geometrica di non dimensionalità. [...] Ma come quell’unico punto che, secondo quanto ipotizzano le teorie cosmogoniche4 più avanzate, precedeva il big bang5 che diede inizio all’universo, ogni punto si presume contenga un infinito potenziale di espansione 15 e un’infinità di possibilità che attendono di esplodere se adeguatamente innescate. [...] Ogni punto-tempo (ma non c’è modo di sapere in anticipo quale) potrebbe – soltanto potrebbe – recare in sé la possibilità di un altro big bang, anche se questa volta su scala ben più modesta, da «universo individuale»6, e i punti successivi continuerebbero a essere visti come punti 20 recanti tale possibilità [...]. È proprio per questa ragione che una vita «del momento» normalmente è una vita «della fretta». [...] Solo le vaste distese di nuovi inizi che siamo convinti ci aspettino più avanti, solo una moltitudine sperata di punti le cui potenzialità da big bang ancora non sono state messe alla prova, e che perciò ancora non sono state screditate, possono salvare 25 la speranza dalle macerie delle conclusioni premature e degli inizi abortiti. [...] Nella vita «adessista» dell’avido consumatore di nuove Erlebnisse 1 Stephen Bertman: l’autore del saggio Hyperculture. The Human Cost of Speed (1998). 2 liquido-moderna: l’espressione «società liquida» è stata coniata da Bauman. In generale la metafora della “liquidità” è impiegata dallo studioso per sottolineare la condizione di precarietà che caratterizza la società postmoderna in cui ogni certezza è venuta

meno e si sono indebolite le istituzioni un tempo solide come i partiti, la scuola, la Chiesa, la famiglia stessa. 3 rinegoziare: ridefinire. 4 le teorie cosmogoniche: le concezioni sull’origine dell’universo. 5 il big bang: la “grande esplosione” primordiale (avvenuta tra i 10 e i 20 miliardi di anni fa), dalla

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quale l’universo si sarebbe formato, a partire da uno stato iniziale di altissima densità e temperatura, cui sarebbe seguita una rapida espansione. 6 anche se... «universo individuale»: il concetto astronomico di Big Bang è utilizzato nell’ambito della vita degli individui contemporanei.


(esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è acquisire e collezionare il più possibile, ma rottamare e sostituire più che si può. C’è un messaggio latente dietro a ogni spot che promette una nuova opportunità inesplorata 30 di beatitudine: non ha senso piangere sul latte versato. O il big bang avviene proprio ora, in questo esatto momento e al primo tentativo, oppure attardarsi in quel particolare punto non ha più senso: è tempo di spostarsi su un altro punto. Nella società dei produttori7 che ormai sta scomparendo dalla memoria (almeno nella nostra parte del pianeta), il consiglio, in un 35 caso simile, sarebbe stato: «Insisti». Ma non nella società dei consumatori: qui, gli utensili inefficaci devono essere abbandonati, non affilati e rimessi alla prova con più competenza, più impegno e migliori risultati. [...] E si lascino perdere anche [...] quelle relazioni umane che hanno prodotto un «bang» meno «big» di quanto ci si aspettava. La fretta dev’essere massima 40 quando si tratta di correre da un punto (che ha deluso, che sta deludendo o che sta cominciando a deludere) a un altro (ancora non collaudato). [...] 7 società dei produttori: nel suo saggio Consumo, dunque sono, Bauman contrappone la «società dei produttori» a quella «dei consumatori».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintesi l’argomentazione di Bauman completando lo schema. tesi argomento 1

righe Un imperativo: rottamare quanto appare inefficace

rr. 27-28

argomento 2

rr.

argomento 3

rr.

argomento 4

rr.

COMPRENSIONE 2. A che proposito e in che modo Bauman utilizza l’immagine astronomica del Big Bang? ANALISI 3. Spiega con le tue parole il concetto di «vita adessista» e indica le conseguenze che comporta nella vita degli individui e nelle stesse relazioni umane.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Bauman descrive una società in cui non c’è più tempo per aggiustare ciò che si rompe o di riparare le relazioni che hanno deluso o che stanno deludendo, si buttano cose ritenute vecchie e se ne comprano di nuove, si passa da una relazione all’altra, senza che si siano fatte le opportune valutazioni, perché i rapporti sono liquidi, la società è liquida e ciò che governa è solo la fretta. Ti sembra che la società descritta da Bauman qualche decennio fa somigli molto alla nostra o credi che alcuni aspetti siano cambiati?

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 609


Milan Kundera

D5b

Elogio della lentezza La lentezza

M. Kundera, La lentezza, trad. di E. Marchi, Adelphi, Milano 2013

La riflessione di Bauman può essere utilmente messa a confronto con la pagina che apre il romanzo La lentezza (1995), opera del narratore e saggista ceco Milan Kundera (1929-2023), noto soprattutto per il fortunato romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere (1982).

Ci è venuta voglia di passare la serata e la notte in un castello1. In Francia, molti sono stati trasformati in alberghi: un fazzoletto di verde sperduto in una distesa di squallore senza verde; un quadratino di viali, alberi, uccelli al centro di un’immensa rete di strade. Sono al volante e osservo, nello specchietto retrovisore, una 5 macchina dietro di me. La freccia di sinistra lampeggia e tutta la macchina emette onde di impazienza2. Il guidatore aspetta il momento giusto per superarmi; spia questo momento come un rapace che fa la posta a un passero. Mia moglie Vera mi dice: «Sulle strade francesi ogni cinquanta minuti muore un uomo. Guardali, tutti questi pazzi che corrono accanto a noi. Sono gli stessi 10 che sanno essere così straordinariamente prudenti quando sotto i loro occhi viene scippata una vecchietta. Com’è possibile che quando guidano non abbiano paura?». Che cosa rispondere? Questo, forse: che l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa a un fram15 mento di tempo scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. 20 La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. [...] Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono 25 scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca 30 del movimento che gli manca. Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista 35 davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice. 1 Ci è venuta... castello: chi parla è uno dei per-

2 onde di impazienza: segnali vibranti di impazien-

sonaggi, dietro cui si cela l’autore stesso, che è in Francia con la moglie Vera (più sotto citata).

za. Espressione metaforica.

610 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Spiega per quale motivo la relazione tra l’impersonalità della macchina e l’estasi è definita dal narratore uno «strano connubio». STILE 2. Individua il paragone con cui è rappresentato l’atteggiamento del guidatore che freme per superare l’auto su cui viaggiano il narratore e la moglie. Quindi indica su quali analogie è fondato. LESSICO 3. Illustra con le tue parole la differenza istituita dal narratore tra «ozio» e «inattività».

Interpretare

SCRITTURA 4. In un punto successivo del testo qui antologizzato leggiamo questa osservazione: «C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto, cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi, invece, vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». Spiega e commenta il passo in un testo di circa 15 righe. TESTI A CONFRONTO 5. Confronta i due testi proposti individuando i punti di contatto e il diverso approccio stilistico rispetto al tema trattato. EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

EDUCAZIONE CIVICA

competenza 2 nucleo

L’immagine dell’“altro” Identità e confronto con l’“altro” Ogni civiltà fin dai tempi più antichi definisce (o rafforza) la propria identità in rapporto a ciò che è sentito dalla collettività come “altro”, straniero, diverso. I parametri secondo cui è vista e giudicata la “diversità” variano nel tempo, così come i confini percepiti tra “familiare, proprio” e “straniero”. Di conseguenza il contatto con l’altro può assumere i caratteri di un incontro/ confronto oppure di uno scontro, della tendenza a respingere chi è avvertito come tale. Quanto più le comunità vivono situazioni di crisi e/o di debolezza socio-economica, tanto più tendono a caricare di valenze negative le figure degli stranieri, a giudicarli attraverso stereotipi, cioè mediante schemi di valutazione rigidi e semplificatori e a considerare una minaccia la loro presenza. La figura dell’altro oggi dominante nell’immaginario corrisponde ai migranti, che abbandonano in massa i propri paesi d’origine cercando in Europa e in Italia, spesso a rischio della vita, una esistenza migliore. Il mito dell’America come terra promessa Anche gli italiani sono stati un tempo un popolo di emigranti, in proporzioni così massicce che si stenta a crederlo: in un secolo (1876-1976) circa 27 milioni di italiani (secondo G.A. Stella) hanno lasciato il nostro paese in cerca di fortuna; quasi un’Italia parallela che ha messo radici in altre parti del mondo (➜ D6b OL). Particolarmente consistente è stata l’emigrazione verso l’America tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento (ma non bisogna dimenticare

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

che ancora negli anni Sessanta dall’Italia si emigrava, soprattutto per lavorare nelle miniere del Belgio e della Germania). Un mito duramente infranto dalla realtà Per i primi emigranti il mito dell’America come “terra promessa”, che avrebbe assicurato felicità e benessere, era per lo più drammaticamente smentito dalla realtà: il lavoro era in genere pesante e precario, le condizioni di vita molto dure, ma soprattutto fortissimi erano i pregiudizi, il vero e proprio razzismo nei confronti degli immigrati italiani, che può essere del tutto sovrapponibile all’atteggiamento che si riscontra oggi in alcuni casi nei confronti dei migranti stranieri che approdano in Italia. Letteratura ed emigrazione italiana Numerose sono le testimonianze, non solo documentarie, ma anche letterarie, sul tema dell’emigrazione degli italiani, a cominciare dal noto poemetto Italy di Giovanni Pascoli (➜ VOL 3A C10 T14 ). In tempi relativamente recenti Melania Mazzucco (n. 1966), in Vita (2003), un romanzo che ha i tratti dell’epopea, racconta la storia picaresca di Diamante e Vita, due ragazzi di dodici e nove anni che approdano nel 1903 a New York, la città delle grandi opportunità, provenienti da un paese del Centro Italia, di cui è originaria anche la famiglia della Mazzucco, che attinge nel romanzo alle sue stesse memorie familiari. Seguendo nel tempo le avventurose vicende dei due protagonisti, il romanzo ripercorre il corso intero del

La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 611


Novecento. I due ragazzi devono affrontare innanzitutto la terribile possibilità di essere rispediti indietro per un nonnulla o un cavillo burocratico (e Diamante se la cava per un soffio) e di veder così infrangersi l’illusione di una nuova vita. L’America mitizzata si presenta per loro con il volto sordido e miserabile di una casa-pensione a Prince Street, in realtà un magazzino, dove il padre di Vita (e zio di Diamante), emigrato qualche anno prima, ospita a pagamento una varia umanità.

L’Italia: da paese di emigrazione a terra di immigrazione Dagli anni Ottanta del secolo scorso, la nostra non è più «terra di partenze ma di arrivi» (Fieno). Negli ultimi decenni l’Italia è diventata infatti paese di immigrazione prima dall’Asia e dai paesi dell’Est europeo (dopo il crollo del Comunismo); poi, negli ultimi tempi, in modo sempre più massiccio, dall’Africa, in conseguenza di guerre, carestia, povertà.

online

Testi in dialogo Gli italiani e l’America

D6a Francesco Guccini Il sogno americano Amerigo D6b Gian Antonio Stella Alcune testimonianze sugli immigrati italiani in America L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi

IMMAGINE?

D7 Melania Mazzucco L’America degli emigrati italiani: dal mito alla realtà Vita Mulberry Street, New York, 1900 circa.

intellettuali dal boom alla crisi attuale 5 Gli di un ruolo e di una identità MAPPA INTERATTIVA

Gli intellettuali e la modernità: apocalittici o integrati?

Da interprete del mondo a lavoratore: una nuova, metamorfica, identità Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, l’Italia vive il periodo del boom economico. Inoltre, anche nel nostro paese si diffonde la televisione, destinata a condizionare, ben più che la produzione libraria, i comportamenti collettivi (giustamente Pasolini parlerà di «mutazione antropologica» ➜ C12). In questo contesto gli intellettuali assumono una nuova fisionomia e nuovi ruoli. Già nella seconda metà degli anni Cinquanta, l’industria inizia a servirsi di intellettuali nell’ambito delle relazioni pubbliche o nella selezione del personale: Fortini, Sinisgalli, Volponi, Ottieri, Giudici ne sono un esempio. Ben presto la “macchina culturale” tende a reclutare l’intellettuale all’interno delle sue strutture: può collaborare con il cinema, la Rai (è il caso di Gadda), i giornali (Buzzati è giornalista al «Corriere della Sera», Moravia è critico cinematografico su «L’Espresso», Montale è critico musicale sempre sul «Corriere») e soprattutto con l’editoria (Vittorini, Calvino, il poeta Sereni, Bassani, Parise dirigono collane per case editrici come Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Garzanti). In ogni caso, l’intellettuale non è più interprete del mondo e creatore originale di modelli ideologici capaci di incidere sulla società: già all’inizio degli anni Sessanta è sostanzialmente un “lavoratore”, che spesso diffonde le ideologie e le mode culturali create dall’industria culturale stessa, tranne qualche rara eccezione (Pasolini e Sciascia).

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Gli intellettuali e la televisione: “apocalittici”, mediatori di cultura, “integrati” Nel 1954 inizia in Italia l’era televisiva. All’entusiasmo dei più, si contrappone in genere la diffidenza degli intellettuali o addirittura l’aperta condanna del nuovo mezzo di comunicazione da parte di alcuni di essi (in genere appartenenti alla cultura marxista). Due “apocalittici”: Moravia e Pasolini Nella contestazione del mezzo televisivo si distinguono per particolare virulenza Moravia e Pasolini. Il primo in un articolo («L’Espresso», 18 gennaio 1959) intitolato L’Italia di serie B iscriveva la televisione, con le sue rubriche allora amatissime dalla gente (Lascia o raddoppia?, Il Musichiere, Canzonissima) in una categoria inferiore, quella stessa «del qualunquismo, della mafia, delle madonne che piangono e che muovono gli occhi, delle lotterie statali, dei neomilionari e dei neocriminali, dei fusti e delle maggiorate fisiche...». A sua volta Pasolini fa della televisione il fulcro del suo attacco al conformismo e all’omologazione propri della cultura di massa, scrivendo al proposito pagine memorabili negli Scritti corsari. Gli intellettuali al servizio della televisione “pedagogica” In realtà la programmazione televisiva nei primi anni non meritava un attacco così duro: gli autori e i programmisti provenivano per lo più dal mondo delle università e dalle case editrici e cercavano di importare in Italia il modello autorevole della BBC. Soprattutto l’area cattolica, prevalente nei primi anni della storia della televisione, aveva realmente a cuore l’obiettivo di diffondere la cultura e persino l’istruzione di base (attraverso il mitico maestro Alberto Manzi, che insegnava a leggere e a scrivere nella sua trasmissione Non è mai troppo tardi). L’intento divulgativo si tradusse in un prodotto di grande successo e in genere di buon livello: lo sceneggiato televisivo, un prodotto capace di coinvolgere gli spettatori (si arriverà addirittura a 15 milioni di spettatori per sera) che si proponeva di diffondere la conoscenza di grandi opere letterarie. Tra i primi Piccole donne (1955), tratto dal romanzo ottocentesco di Louisa May Alcott, e poi I Miserabili (1964), tratto dal romanzo di Victor Hugo, La cittadella di Cronin (1964), Il mulino del Po di Bacchelli (1963), I promessi sposi (1967) e l’Odissea (1968). Il progetto pedagogico della Rai si arena intorno alla metà degli anni Settanta: quando nascono le prime emittenti libere e termina il monopolio (1977), si esaurisce anche lo sforzo culturale della televisione pubblica, che seguirà sempre più le reti avversarie sulla pericolosa china dell’audience a tutti i costi. Gli “integrati”: gli intellettuali come personaggi televisivi Soprattutto negli ultimi decenni la televisione, sia pubblica che privata, ospita volti noti del mondo intellettuale per conferire prestigio alle varie trasmissioni e soprattutto ai talk show. I rappresentanti del mondo intellettuale non sono più però soltanto scrittori, ma anche giornalisti, psicologi o psichiatri, saggisti di costume e divulgatori di successo (come Piero Angela, scomparso nel 2022), figure in qualche modo già note al grande pubblico. La disponibilità costante ad apparire (lo scrittore Aldo Busi ha addirittura partecipato all’Isola dei famosi) trasforma alcuni intellettuali in veri e propri personaggi televisivi, spesso con un copione ripetitivo da seguire: è il caso dell’onnipresente Vittorio Sgarbi, raffinato critico d’arte in privato (per un pubblico selezionato di intenditori), litigioso “tuttologo” in televisione, a beneficio delle grandi masse dei telespettatori. Un intellettuale alla guida di una rete televisiva Una parentesi di grande significato culturale nella storia della Rai è stata la direzione, dal 1986 al 1994, da parte di un prestigioso intellettuale, Angelo Guglielmi – critico letterario, tra i fondatori La visione del mondo.Figure, luoghi e centri della cultura 1 613


della Nuova Avanguardia – della terza rete, fino allora considerata la “Cenerentola” della Rai. Guglielmi riesce a creare una rete innovativa e coraggiosa, lanciando la televisione-verità: nascono programmi come Samarcanda, Blob, Un giorno in pretura e Chi l’ha visto?.

Una progressiva crisi di identità Il tramonto delle battaglie ideologiche Dalla fine degli anni Settanta disimpegno ideologico, adattamento al mercato, rifugio nella dimensione del privato caratterizzano in modo progressivo nel tempo la cultura italiana. Gli ultimi decenni vedono, da parte degli intellettuali, l’abbandono dell’interesse ai grandi temi sociali e politici e la rinuncia alle grandi sintesi in ambito filosofico che caratterizza il “pensiero debole”. Anche gli intellettuali sono sempre più assorbiti dal mercato e, d’altra parte, chi rifiuta la cultura di massa non assume in genere una funzione ideologica forte, ma si rifugia spesso in atteggiamenti di snobismo intellettuale e ostentato distacco: è il caso di Arbasino, corrosivo commentatore dell’Italia contemporanea in una raccolta di scritti significativamente intitolata Paesaggi italiani con zombi (➜ C12). In questo contesto la scomparsa delle riviste che ospitavano il dibattito culturale (o comunque la loro progressiva marginalizzazione) non è certo casuale, ma segnala di per sé il tramonto delle grandi battaglie ideologiche e letterarie. La crisi di un ruolo storico A partire dagli anni Ottanta, l’intellettuale vive una progressiva crisi d’identità e forse non è più nemmeno possibile parlarne come di una categoria sociologica, come di recente ha sostenuto Giulio Ferroni. Se esistono nuovi intellettuali nelle giovani generazioni, di certo hanno ben poco a che fare con i loro padri e tanto meno con i loro nonni: per lo più non provengono dagli ambienti che in passato erano in un certo senso i garanti della funzione intellettuale (giornali, case editrici, università), ma lavorano sul web e per il web, sviluppano contatti sul proprio blog e non più nei centri culturali o sulle riviste letterarie. Inoltre, oggi sembra scomparsa la figura autorevole del maître à penser, l’intellettuale prestigioso capace di istituire fecondi collegamenti tra il proprio sapere e la visione complessiva del mondo, e di suggerire modelli di trasformazione della società: in un libro appassionato, che è insieme un’autobiografia e un amaro bilancio culturale, il critico Alberto Asor Rosa parla di «grande silenzio» degli intellettuali, scalzati dal loro ruolo «dagli imprenditori del web e della TV» (➜ D8 OL). Ormai sopravvive ed è ricercato dai media solo l’intellettuale che sia esperto, specialista in un campo, oppure l’intrattenitore televisivo, capace di colpire un pubblico sempre più distratto, di fare audience. Verso nuove responsabilità? La latitanza sempre più evidente di una classe intellettuale degna di questo nome non è rimasta priva di conseguenze sul costume mentale collettivo: provincialismo e diffusa mancanza di spirito critico e di senso civico sono solo alcune di queste conseguenze. La crisi mondiale, che ha investito anche l’Italia, esigerebbe un rilancio del ruolo etico-civile dell’intellettuale, una nuova assunzione di responsabilità che si traduca nel confronto con online temi di grave portata come la difesa dell’ambiente, la povertà, le D8 Alberto Asor Rosa migrazioni, gli integralismi. Di fronte alla dilagante indifferenIl tramonto della funzione intellettuale tradizionale za, al conformismo da un lato e allo scetticismo dall’altro, si avIl grande silenzio. Intervista sugli intellettuali verte da più parti un rinnovato bisogno di intellettuali-guida.

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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 La critica al modello consumistico La critica radicale La società dei consumi, in cui tuttora viviamo, si caratterizza per la tendenza ad assorbire ogni forma di dissenso, a svalutare ogni opzione alternativa, anche perché infrange la solidarietà sociale che potrebbe sfociare in protesta, allettando il singolo individuo con sempre nuove offerte di consumo. Non a caso, dunque, una radicale critica a questo modello ha potuto esprimersi solo nei primi tempi della sua storia, a opera di filosofi e psicoanalisti. Già negli anni Quaranta-Cinquanta, la scuola di Francoforte (emanazione dell’“Istituto per la ricerca sociale”, fondato nel 1923 appunto a Francoforte) produce importanti scritti di analisi critica delle dinamiche sociali. Tra le figure di rilievo, ricordiamo Theodor W. Adorno (1903-1969), Max Horkheimer (1895-1973), Herbert Marcuse (1898-1979), Erich Fromm (1900-1980). Il movimento del Sessantotto La discussione critica dei meccanismi massificanti della società industriale avanzata uscirà, però, dai circuiti ristretti degli studiosi per entrare prepotentemente nel costume solo con il movimento del Sessantotto, che attaccava l’imperialismo americano innanzitutto sul piano politico, in relazione alla guerra in Vietnam. All’interno di questa critica, negli anni della contestazione, ricorreva il termine “alienazione ” per stigmatizzare la condizione dell’uomo nella società dei consumi, manipolato dalla macchina produttiva e privato del controllo sulla propria vita.

Parola chiave

Un “libro-culto”: L’uomo a una dimensione La “bibbia” della contestazione, il libro-culto di una generazione in lotta fu il saggio di Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione (1964), destinato a un successo mondiale tra i giovani, nonostante le indubbie difficoltà di lettura. Secondo l’analisi del tutto pessimistica del filosofo (➜ D9 ), la società di massa, grazie ai mezzi di cui dispone, realizza una totale “integrazione” dell’individuo, privandolo della possibilità di esercitare la critica, di opporsi, di produrre modelli sociali antagonistici e riducendolo appunto a “uomo a una sola dimensione”. Le considerazioni presenti nel saggio sulle caratteristiche strutturali della società di massa, lette oggi, a sessant’anni di distanza, risultano ancora di sorprendente attualità, evidentemente perché focalizzano delle costanti del modello sociale in cui tuttora viviamo.

alienazione Il termine alienazione appartiene propriamente all’ambito giuridico e indica l’atto con cui si trasferisce ad altri una proprietà. La parola ha assunto significato politico (con connotazione negativa) nel pensiero di Marx, che l’ha impiegata per designare lo spossessamento del prodotto del proprio

lavoro a cui l’operaio è soggetto nel rapporto di produzione capitalistico. Il termine ha avuto poi fortuna nel linguaggio sessantottesco per alludere alla condizione dell’uomo nella società consumistica, nella quale egli viene ridotto a oggetto e deprivato della propria autenticità.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 615


Herbert Marcuse

D9

La paralisi della critica. La società senza opposizione L’uomo a una dimensione

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, trad. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1991

I passi proposti sono estrapolati dall’Introduzione e dal primo capitolo del celebre saggio di Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione (1964) in cui il padre della contestazione giovanile negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale mette in luce come la società del capitalismo avanzato eserciti, attraverso la seducente dittatura dei consumi, un potere totale sugli individui, di cui annulla la volontà di protesta e di critica del sistema.

Dinanzi a fatti apparentemente contraddittori, l’analisi critica continua ad insistere che il bisogno di un mutamento qualitativo non è mai stato così urgente. Ma chi ne ha bisogno? La risposta è pur sempre la stessa: è la società come un tutto ad averne bisogno, per ciascuno dei suoi membri. L’unione di una produttività crescente e di 5 una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse [...] Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accet10 tare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. La distinzione tra coscienza autentica e falsa coscienza, tra interesse reale e interesse immediato, conserva ancora un significato. La distinzione deve tuttavia essere verificata. Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall’interesse immediato al loro interesse reale. 15 Essi possono far questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire dei beni” su scala sempre più ampia e di usare la conquista della natura per la conquista scientifica dell’uomo. [...] 20 Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni libertà, sta diventando una possibilità reale, le libertà correlate ad uno stato di minor produttività vanno perdendo il contenuto di un tempo. L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli 25 individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo. Sotto questo aspetto, il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia assicurata da un sistema autoritario o da uno non autoritario 30 sembra fare poca differenza. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non conformarsi al sistema sembra essere socialmente inutile [...]. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine “totalitario”, infatti, non 35 si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la

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manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può 40 essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”, ecc. [...] Il tratto distintivo della società industriale avanzata è il modo come riesce a soffocare efficacemente quei bisogni che chiedono di essere liberati – liberati anche da ciò che è tollerabile e remunerativo e confortevole – nel mentre alimenta e assolve 45 la potenza distruttiva e la funzione repressiva della società opulenta. Qui i controlli sociali esigono che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare sino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano e prolungano tale istupidimento; il bisogno di mantenere libertà ingannevoli come la libera concorrenza a prezzi 50 amministrati, una stampa libera che si censura da sola, la scelta libera tra marche e aggeggi vari. Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. [...] I mezzi di trasporto e di comunicazione di massa, le merci che si usano per abitare, 55 nutrirsi e vestirsi, il flusso irresistibile dell’industria del divertimento e dell’informazione, recano con sé atteggiamenti ed abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che legano i consumatori, più o meno piacevolmente, ai produttori, e, tramite questi, all’insieme. I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. [...]. Per tal via emergono forme 60 di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obbiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di detto universo.

Concetti chiave Una società che “compra” il consenso

Marcuse accusa la «società presente» di essere «totalitaria»: essa alimenta falsi bisogni trasformando la “libertà” in uno strumento di dominio. È lo stesso “uomo a una dimensione” a rinchiudersi, in nome di un «interesse immediato», all’interno di uno status quo solo apparentemente libero.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in uno schema le argomentazioni dei passi proposti. COMPRENSIONE 2. Quale concezione della società di massa emerge nel testo? 3. Qual è il tratto distintivo della società industriale avanzata? ANALISI 4. Spiega che cosa intende Marcuse per «coscienza autentica» e «falsa coscienza», «interesse reale» e «interesse immediato».

Produrre

LETTERATURA E NOI 5. Secondo Marcuse, quali effetti genera la mancanza della funzione critica in una società? Sei d’accordo? Perché?

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Alla luce di quanto letto a proposito del celebre saggio di Marcuse, ritieni che ancora oggi l’individuo corra il rischio di essere privato della possibilità di esercitare la critica, di opporsi a modelli imposti, di produrre modelli sociali antagonistici alla società in cui vive? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

2 Dallo Strutturalismo all’Ermeneutica Lo Strutturalismo Negli anni Sessanta si diffonde lo Strutturalismo: innanzitutto in Francia, dove assume carattere fortemente polemico verso il Marxismo e l’Esistenzialismo. Più che la filosofia in senso stretto, lo Strutturalismo riguarda le scienze umane (antropologia, sociologia, psicoanalisi ecc.) e ha come presupposto l’idea, assolutamente nuova, che sia possibile una conoscenza e una rappresentazione dei fenomeni umani oggettiva e distaccata come quella delle scienze della natura. Allo Strutturalismo interessa individuare le strutture “profonde” delle realtà culturali e dei modelli socio-antropologici, strutture che rappresentino delle costanti acroniche, indipendenti cioè dal divenire storico. Esse vengono descritte attraverso rigorosi schemi di analisi, che possono costituire un “linguaggio comune” per le diverse scienze umane. Il metodo di analisi e descrizione prende esempio dalla linguistica strutturale, fondata dallo studioso svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913), che sembrava fornire un efficace modello di formalizzazione. Particolarmente rilevante per l’affermazione del metodo strutturalistico è stata la fondazione, da parte dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009), dell’antropologia strutturale. Fin dalla fine degli anni Cinquanta lo studioso, analizzando i rituali, i miti, le relazioni sociali presenti nelle popolazioni “primitive”, da lui incontrate direttamente, aveva individuato alcune costanti presenti in ogni cultura (intesa in senso antropologico), indipendenti dalla volontà dell’uomo e dall’evoluzione storica. Nelle sue opere maggiori – Antropologia strutturale (1958) e Il pensiero selvaggio (1962) – Lévi-Strauss sostiene che tutte le produzioni culturali dell’uomo possono (e devono) essere studiate secondo il metodo strutturale, dai fenomeni del mondo “primitivo” a quelli della civiltà moderna. Lo Strutturalismo in Italia Lo Strutturalismo penetra anche nella cultura italiana, ma si diffonde soprattutto nell’ambito della critica letteraria, trasformando radicalmente l’approccio al testo. Esso viene sottratto all’analisi storica, viene visto in sé, se ne ricerca la “letterarietà” intrinseca, considerata esito della struttura sottesa al testo, cioè degli specifici rapporti fra i diversi livelli di esso (fonico, lessicale, sintattico, retorico), descrivibili in modo oggettivo: la critica strutturalista, che ha dominato per decenni la cultura italiana, respinge ogni analisi contenutistica o biografica e tende a mettere in secondo piano il giudizio di valore sull’opera letteraria. Dalle premesse teoriche dello Strutturalismo si sviluppa, negli anni Sessanta, la semio­logia o semiotica (dal greco seméion, “segno”): una lettura del reale, dei feno-

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meni culturali, comportamentali e dei testi letterari stessi, considerati come “sistema di segni”, che si sviluppa innanzitutto in Francia (importante l’apporto di Roland Barthes, 1915-1980), ma che si avvale poi dell’apporto di studiosi russi, come Lotman (1922-1993) e Uspenskij (n. 1937). In Italia, il teorico principale della semiotica è stato Umberto Eco (1932-2016), con il Trattato di semiotica generale (1975). L’Ermeneutica Verso gli anni Ottanta, lo Strutturalismo entra in crisi ed emergono nuovi modelli filosofici, come l’Ermeneutica. Il termine (che originariamente identificava un insieme di tecniche per interpretare in particolare i testi sacri) è stato assunto in ambito filosofico nell’età contemporanea per designare un indirizzo di pensiero opposto sia al Neopositivismo sia allo Strutturalismo, rappresentato in particolare dal filosofo tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002) e dal francese Paul Ricoeur (1913-2005). Nella sua opera Verità e metodo (1960), che ebbe vasta diffusione nel tempo ben oltre gli addetti ai lavori, Gadamer nega la possibilità di accedere in modo definitivo a una verità assoluta e identifica l’unica forma di conoscenza possibile nell’atto interpretativo, inteso come processo circolare che implica l’interazione, attraverso la mediazione del linguaggio, tra chi interpreta un testo, un evento storico, e la tradizione. Ciascuno infatti inevitabilmente si trova in una determinata collocazione storica, culturale, linguistica e ne deriva una serie di pre-giudizi (nel senso etimologico e senza alcuna connotazione negativa) che si modificano nell’incontro con ciò che vogliamo conoscere. Per Gadamer, il conoscere è un atto dialogico, uno scambio dialettico tra presente e passato che modifica incessantemente sia chi interpreta sia ciò che è interpretato. Nel gioco tra domande e risposte si realizza il “circolo ermeneutico”. È evidente la distanza tra l’Ermeneutica e un modello come quello strutturalistico o come la visione neopositivista, mentre qualche convergenza si può vedere tra l’Ermeneutica e le posizioni assunte dalle nuove epistemologie, che vedono il sapere scientifico stesso come “aperto” e in perenne evoluzione.

Giò Pomodoro, Situazione vegetale, 1958 (Collezione privata)

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3 Il concetto di “postmoderno” e il “pensiero debole” Il termine “postmoderno” Il termine “postmoderno” è usato già dalla fine degli anni Sessanta nell’ambito dell’architettura, e anche nelle arti plastiche, per alludere al rifiuto della tendenza razionalista e alla ripresa-rivisitazione degli stili del passato. Nell’ambito delle scienze umane, la categoria di “postmoderno” si afferma solo all’inizio degli anni Ottanta: è al filosofo francese Jean-François Lyotard (19241998) che si deve l’estensione del concetto di postmoderno, usato comunemente per designare le tendenze evolutive delle società industriali avanzate e gli indirizzi di pensiero che ne derivano. Nel suo fortunato saggio La condizione postmoderna (1979) Lyotard sviluppa un’analisi serrata, che ha fatto epoca, delle dinamiche sociocomportamentali e delle modalità del sapere nell’età contemporanea. Saperi frammentati L’incessante innovazione tecnologica, soprattutto nell’ambito della comunicazione, che crea prodotti destinati a invecchiare in brevissimo tempo (e la loro estensione alla maggior parte dei paesi del globo) è forse l’aspetto che maggiormente caratterizza gli ultimi decenni e che comporta l’inevitabile tramonto del senso del divenire storico. Risultano, così, ormai inadeguati modelli filosofici “totalizzanti”, che aspirino cioè a conferire un senso unitario alla varietà dei saperi, sempre più frammentati e pluralizzati, mentre scompare ogni criterio distintivo e gerarchico. Tramontati i grandi sistemi ideologici – come l’Illuminismo, il Marxismo, l’Idea­lismo: le grandi “narrazioni”, le chiama Lyotard, in cui si dava una descrizione fondante dell’intera realtà e in cui si profilavano grandi mete come il Progresso o la Rivoluzione – la filosofia rinuncia ormai da tempo a proporre una visione sistematica e organica del reale: ne deriva un sostanziale eclettismo e la focalizzazione, nel dibattito delle idee, prevalentemente, se non esclusivamente, su temi e obiettivi specifici, pragmatici, di portata limitata sotto il profilo conoscitivo ed etico. Riguardo a questa fondamentale tendenza che caratterizza la condizione ideologica e culturale postmoderna diverse sono state le posizioni degli interpreti: c’è chi le ha considerate del tutto negative e chi invece (come ad esempio il filosofo italiano Vattimo) vi ha visto delle nuove opportunità per il pensiero e la civiltà, una volta liberate dalla tirannia dei grandi sistemi filosofici (➜ D10 OL). Il “pensiero debole” Sostanziale sviluppo e ripensamento originale italiano delle riflessioni di Lyotard sul postmoderno è il cosiddetto “pensiero debole”, orientamento filosofico che deriva il nome da una silloge di scritti curata nel 1983 da Gianni Vattimo (1936-2023) e Pier Aldo Rovatti (n. 1942), intitolata appunto Il pensiero debole. Questa la tesi di fondo: non è più possibile pensare di opporre alla crisi della verità una nuova verità, perché la crisi ha ormai inficiato il concetto stesso di verità. Occorre allora passare da strutture “forti” a strutture “deboli” di pensiero, che concepiscano il concetto di “vero” come frutto di molteplici interpretazioni e di una costruzione filosofica “mobile” e si fondino sulla rinuncia a ogni pretesa categorizzante e assolutizzante. Per Vattimo il “pensiero debole”, per definizione antidogmatico, comporta di per sé una prospettiva ideologica maggiormente ispirata a valori di tolleranza e di democrazia. online

online

D10 Gianni Vattimo La condizione postmoderna: tra caduta delle antiche certezze e “liberazione delle differenze” La società trasparente

D11 Giulio Ferroni Oltre il postmoderno, verso nuovi scenari Letteratura italiana contemporanea, 1945-2014

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Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari momento chiave nell’evoluzione 1 Un dei modelli comportamentali: il Sessantotto Gli anni Cinquanta-Sessanta: l’emergere della categoria dei giovani A partire dagli anni Cinquanta, nei paesi più industrializzati, come gli Stati Uniti, la giovinezza non è più immaginata e vissuta come una fase di passaggio che prepara all’età adulta, ma come una fase della vita dotata di una propria specifica fisionomia: i giovani iniziano a pensarsi come categoria a sé e, di pari passo, a differenziarsi nettamente dal mondo adulto nel linguaggio, nel vestiario, negli stili di vita, nei gusti culturali (soprattutto musicali: la musica rock diffusa dai juke box). Si forma una cultura giovanile internazionale con forti tratti di omogeneità: gli obiettivi polemici contro cui si leverà la protesta nel Sessantotto saranno così gli stessi in America e in Francia, allo stesso modo degli idoli (come il personaggio di Che Guevara, assurto a “mito” generazionale e politico).

Lessico beat generation Movimento giovanile e artistico degli anni Cinquanta e Sessanta nato negli Stati Uniti e caratterizzato dal rifiuto della tradizione e del materialismo capitalista e dall’apertura verso la sperimentazione (negli stili di vita e nell’arte).

Dalla fuga in mondi alternativi degli hippies alla lotta del Sessantotto per una società diversa In un primo tempo, con la beat generation e gli hippies, il dissenso giovanile si manifesta essenzialmente come fatto di costume (e tale rimarrà ad esempio in Inghilterra): un dissenso che in qualche modo prepara però il terreno alla rivolta del Sessantotto. I “figli dei fiori” americani, gli hippies, già rifiutano i valori consumistici propri della società borghese e si isolano nelle “comuni”, specie di microsocietà caratterizzate da ideali di pace e uguaglianza e da una spiritualità misticheggiante. La contrapposizione si concretizzava nella fuga dalla famiglia tradizionale e da una società considerata come disumana verso mondi alternativi. Il Sessantotto è stato invece caratterizzato da una più radicale e diversa contestazione del sistema capitalistico, di carattere prettamente socio-politico: alla fuga da una realtà che si contesta si sostituisce l’impegno politico attivo, la lotta dura per realizzare una trasformazione rivoluzionaria del mondo. L’iperpoliticizzazione Quella del Sessantotto è stata l’ultima generazione politicizzata: l’interpretazione in chiave politica si estende a ogni ambito sottoposto a indagine, a ogni aspetto della realtà; anche “il personale è politico” secondo uno degli slogan più diffusi a quel tempo. Questo significa che, ad esempio, l’oppressione della donna o i rapporti familiari tra genitori e figli sono visti come una questione da affrontare e risolvere con la lotta politica. L’appartenenza al gruppo Il Sessantotto è il periodo in cui domina la dimensione collettiva: è nel gruppo e con il gruppo che si affrontano i grandi problemi politici e quelli dell’esistenza. La condivisione degli ideali e dei valori è fortissima: per la prima volta operai e studenti, maschi e femmine, si ritrovano uniti, insieme studiano, manifestano, insieme vivono il tempo libero, scambiano esperienze sessuali con inedita disinvoltura (➜ D12a OL). È significativo che nelle stesse assemblee, o “collettivi” (➜ D12c OL), come si chiamavano le riunioni, si usasse il nome di battesimo e non il cognome, a sottolineare l’assorbimento dell’identità personale nel Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 3 621


movimento. Questo caratteristico modo di vivere è ben reso dalle immagini fotografiche del tempo, che ritraggono sempre momenti di aggregazione.

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Educazione civica Contro l’istituzione manicomiale per la dignità del malato di mente: la battaglia di Franco Basaglia

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Sguardo sul cinema Il cinema dell’impegno civile dagli anni Settanta a oggi

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Interpretazioni critiche Paolo Di Stefano Le vite senza tempo di un uomo demente e di suo fratello sano

La critica al sistema capitalistico e alle istituzioni Sul piano più strettamente politico, sulla base di un’ideologia che si richiama ai principi del marxismo-leninismo, il movimento del Sessantotto attacca il sistema capitalistico, di cui gli Stati Uniti sono emblema, e si mobilita contro la guerra del Vietnam, considerata frutto dell’imperialismo. Si contesta il ruolo mediatore dei partiti istituzionali, compresi quelli della sinistra, accusati di riformismo, nel mito di una democrazia diretta “dal basso”. In Italia è particolarmente forte la saldatura fra movimento studentesco e classe operaia: i gruppi extraparlamentari fiancheggiano le lotte operaie dell’autunno caldo del 1969. In ambito sociale viene sottoposta a dura critica ogni istituzione in cui si individui la presenza di meccanismi repressivi e autoritari : dalla famiglia (si discute in particolare il ruolo subordinato della donna nella coppia oltre che nella società) alla scuola e all’università (si contestano i contenuti, obsoleti e nozionistici, e i metodi autoritari), dai manicomi (➜ EDUCAZIONE CIVICA Contro l’istituzione manicomiale per la dignità del malato di mente: la battaglia di Franco Basaglia, OL) al sistema carcerario. La rivoluzione dei costumi sessuali Il Sessantotto ha a che fare anche con la rivoluzione dei costumi sessuali: anche senza arrivare all’esperimento radicale della “coppia aperta”, i giovani si ribellano a una visione sessuofobica e manifestano, anche in Italia, il desiderio di vivere più liberamente l’esperienza sessuale. Solo due anni prima tre studenti, giovanissimi redattori del giornale studentesco «La Zanzara» del prestigioso liceo milanese Parini, erano stati denunciati e processati (poi assolti) con l’accusa di stampa oscena e corruzione di minorenni per aver diffuso, nella loro scuola, un articolo sull’educazione sessuale e intervistato sul tema della sessualità alcune ragazze del liceo.

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Parola chiave

Testi in dialogo La letteratura rilegge il Sessantotto Proponiamo una serie di testi letterari che, a distanza di anni (a parte il testo di Pasolini), rileggono l’esperienza del Sessantotto mettendone in luce anche i limiti e ricostruendo il clima psicologico che caratterizzava il movimento.

D12a Clara Sereni «Nessuno si pensava da solo» Via di Ripetta 155

D12d Sebastiano Vassalli «Tutto in superficie ribolliva...» Archeologia del presente

D12b Andrea De Carlo Dentro un’aula scolastica nel Sessantotto Due di due

D12e Pier Paolo Pasolini «Avete facce di figli di papà» Empirismo eretico

D12c Francesco Pecoraro Tutto il potere all’assemblea La vita in tempo di pace

D13 Carmelo Samonà «La malattia... l’incognita permanente» Fratelli, capitoli II e III

Autoritarismo Autoritarismo deriva dalla parola “autorità”, così come autorevolezza, a cui il termine può essere contrapposto per intenderne il significato (e il senso che assunse nel movimento del Sessantotto). Mentre autorevolezza ha valenza positiva e identifica un esercizio di autorità riconosciuto giusto perché derivato da indiscusso prestigio, autoritarismo è termine con valenza

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negativa: significa esercizio di potere, abuso di autorità (ad esempio, gli stati autoritari sono stati dittatoriali, fondati su un potere dispotico). Nel Sessantotto il termine fu usato per criticare i metodi dell’istituzione universitaria e scolastica o anche i modelli familiari vigenti, con un’estensione dall’ambito politico e ideologico a quello comportamentale e socio-culturale.


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

Dalla rivendicazione della parità alla “liberazione” della donna

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

Un nuovo femminismo Il movimento del Sessantotto riporta alla ribalta il femminismo, ma si tratta di un “nuovo femminismo” rispetto alle radici storiche del movimento: mentre le suffragette del primo Novecento rivendicavano la parità dei sessi e il diritto di voto, negli anni Sessanta, a partire dagli Stati Uniti, si denuncia il ruolo subordinato della donna nella società e si contesta il modello autoritario e maschilista della famiglia. Una prospettiva anticipata da Simone de Beauvoir, autrice, alla fine degli anni Quaranta, del monumentale trattato Il secondo sesso (1949) (➜ D12b OL). Si diffonde nel Sessantotto la cosiddetta “cultura delle donne”, legata a centri come la Libreria delle donne a Milano; dilaga la pratica dei gruppi di autocoscienza femminili, nei quali le donne cercano di conoscersi attraverso il confronto diretto del proprio vissuto, al di là delle stereotipate immagini del femminile trasmesse dalla cultura maschile. In parallelo, le donne sono in prima linea a fianco dei coetanei maschi nelle lotte politiche e in alcune battaglie storiche del tempo che riguardano direttamente il femminile e la coppia e che porteranno alla legalizzazione dell’aborto (1978), il quale poneva un argine al dramma dell’aborto clandestino, e alla legge sul divorzio (1970). Il nuovo diritto di famiglia, entrato in vigore nel 1975, recepirà una serie di lotte per una maggiore dignità della donna e dei figli all’interno dell’istituto familiare. Che cosa resta del femminismo? All’inizio degli anni Ottanta il femminismo conosce una battuta d’arresto e si ritorna a modelli di comportamento che sembravano tramontati per sempre. Negli ultimi decenni, addirittura, si accentua l’uso a fini commerciali dell’immagine

femminile e la subordinazione della donna alla logica dei consumi attraverso l’imposizione di modelli artificiosi di bellezza. La tendenza in atto non è certo casuale, ma si lega all’assenza di un modello ideologico alternativo a quello capitalistico consumistico, in seguito al crollo del Comunismo e delle ideologie a esso connesse e alla conseguente occidentalizzazione-americanizzazione del mondo. Sono venuti a mancare, o comunque non hanno grande incidenza nella società, modelli critici di analisi del mondo femminile e appaiono ormai lontani gli slanci e gli ideali che, pur tra molte contraddizioni, la generazione del Sessantotto aveva cercato di trasmettere ai successori. A livello sociale, il superstite femminismo concentra ormai la sua battaglia, più che sul costume delle società industriali avanzate, sulle consuetudini sociali arretrate e spesso violente presenti in altri paesi, che negano dignità alla donna (come in alcuni paesi di intransigente fede musulmana), come i matrimoni imposti a spose bambine, le mutilazioni genitali in nome di barbare tradizioni e l’imposizione di un abbigliamento costrittivo e mortificante come il burqa. In realtà, non mancano anche nei paesi più moderni aspetti che richiederebbero una riflessione su un nuovo femminismo: nei paesi industrializzati, lungo gli ultimi decenni, le donne hanno occupato spazi culturali, professionali e politici prima soltanto maschili. Eppure la donna è ancora soggetta a pesanti condizionamenti psicologici. Dalla madre-obbligata si è passati alla situazione opposta, ma altrettanto frustrante, della rinuncia alla maternità o della sua dilazione per ragioni sociali: carriera “maschile” da un lato, mancanza di sostegni sociali adeguati, almeno in Italia, alla famiglia. Quest’ultima appare sempre più fragile e spesso sono le donne a viverne negativamente le conseguenze, fino ai casi sempre più frequenti di femminicidio.

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Testi in dialogo Testimonianze sul tema del “femminile” Proponiamo tre passi, appartenenti a differenti periodi, di autrici a vario titolo importanti nella riflessione sulla condizione femminile che è centrale nel movimento del Sessantotto e che focalizzano il tema da diverse angolazioni: il primo è della grande scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941), il secondo della saggista e filosofa francese Simone de Beauvoir (1908-1986), il terzo è tratto dal romanzo Paura di volare bestseller dell’americana Erica Jong (1946).

D14a Virginia Woolf Elogio della “differenza” Una stanza tutta per sé D14b Simone De Beauvoir I due sessi non si sono mai divisi il mondo in parti uguali Il secondo sesso D14c Erica Jong

Diventare donna in America Paura di volare

Il corteo, di sole donne, della prima grande manifestazione nazionale del Movimento femminista italiano (Roma, 6 dicembre 1975).

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Per approfondire Un libro cult: Paura di volare

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2 La scuola tra crisi e nuove sfide educative Dal Fascismo alla scuola media unica Durante il fascismo, la scuola è utilizzata dal regime come uno dei mezzi principali attraverso cui formare una popolazione fascista. La maggior parte degli insegnanti, che erano obbligati al giuramento di fedeltà al regime, trasmette modelli valoriali e comportamentali in linea con le direttive e l’ideologia del partito. Dopo la fine della guerra, il paese deve risolvere i problemi più urgenti della ricostruzione e nel panorama scolastico non si notano consistenti novità. La “nuova scuola” nasce solo all’inizio degli anni Sessanta, quando è varata la legge che istituisce la scuola media unica (1962), gratuita e obbligatoria fino ai 14 anni, nata per assicurare una formazione omogenea di base alla popolazione. Una formazione che, dati i gravi squilibri sociali del paese, sarà per anni più una utopia che una realtà: la legge immette nella scuola una massa di studenti provenienti da contesti sociali disagiati, di alfabetizzazione ancora scarsa. Lo sforzo richiesto allora agli insegnanti di fronte a questa nuova realtà è enorme e sarebbe ingiusto disconoscerlo, ma di fatto la maggior parte dei nuovi utenti viene emarginata perché non esistono ancora strumenti di “recupero” delle inevitabili carenze. Don Lorenzo Milani In questo contesto si colloca e si spiega un libretto che per certi aspetti anticipa la contestazione del Sessantotto nelle scuole: il pamphlet, diventato subito un successo, Lettera a una professoressa (1967). Si tratta di uno scritto in qualche modo corale, steso dai ragazzi di una piccola scuola montana a Barbiana (nel Mugello) insieme al loro priore e docente, don Lorenzo Milani (19231967) (➜ D15a ). Lorenzo Milani nasce a Firenze nel 1923 da una famiglia colta dell’alta borghesia. In seguito al temporaneo trasferimento della famiglia, frequenta a Milano il liceo classico. Si dedica poi alla pittura ed è allievo all’Accademia di Brera. Ritornata la famiglia a Firenze, Lorenzo vive una vera e propria conversione e nel 1947 è ordinato sacerdote. Dal 1954 diviene priore di Barbiana, una piccola comunità montana nel Mugello, dove crea una scuola popolare autogestita, destinata a diventare celebre. Nel 1956 stende le Esperienze pastorali, ritirate come “inopportune” per disposizione del Santo Uffizio (recentissimamente papa Francesco, elogiando la figura di don Milani, ha tolto il divieto alla lettura dello scritto per i cattolici che era ancora vigente). Nel 1966, insieme ai suoi allievi di Barbiana, Lorenzo Milani scrive la Lettera a una professoressa, dura accusa a una scuola selettiva che emargina i più svantaggiati. Il testo sarà pubblicato nel 1967, l’anno stesso della morte del sacerdote, da tempo gravemente malato, e avrà grande successo. Lorenzo Milani è sepolto, per sua volontà, a Barbiana. Nel maggio 2017 è Don Milani con alcuni dei suoi ragazzi a Barbiana (1959).

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stata pubblicata l’intera opera di Lorenzo Milani nei Meridiani Mondadori, mentre lo scrittore romano Eraldo Affinati, a sua volta educatore attento ai “nuovi poveri” (➜ D16 ), ne ha curato di recente una biografia, intitolata L’uomo del futuro (2016). Lettera a una professoressa L’opera è un durissimo atto di denuncia, sostenuto da dati precisi, sull’inesorabile emarginazione dall’istruzione dei più svantaggiati attraverso lo strumento selettivo implacabile della bocciatura, spesso ripetuta negli anni. Una emarginazione a cui Lorenzo Milani contrappone a Barbiana, in nome degli ideali evangelici, una “scuola dei poveri” in cui egli stesso è maestro e a cui dedica la sua breve vita. Le scelte di don Milani suscitano roventi polemiche: sono duramente contestate (anche dalle gerarchie ecclesiastiche) o, al contrario, idolatrate; la cosa si può spiegare facilmente per la radicalità delle sue posizioni e per la volontà provocatoria che le ispirava. Di certo il suo pensiero risulta oggi ancora attuale, in tempi in cui la società (e quindi anche la scuola) si trova a confrontarsi con “nuovi poveri” che giungono da ogni parte del mondo. La contestazione del Sessantotto Pochi anni dopo, anche la scuola è investita dalla rivolta del Sessantotto che, nata nelle università, poi dilaga nelle scuole superiori. Anche gli studenti contestano un sapere nozionistico e arcaico e una gestione autoritaria dell’educazione (➜ D12b OL), occupano le scuole, diffondono volantini e ciclostilati. Il mondo della scuola conosce una marcata politicizzazione, che produce forti contrapposizioni tra studenti e insegnanti, contestati nel loro ruolo di custodi e trasmettitori della tradizione, e divide lo stesso corpo docente: non pochi insegnanti, infatti, condividono le idee del movimento e si schierano a fianco degli studenti. Dagli anni Ottanta a oggi: crisi di un ruolo A partire dagli anni Ottanta, la scuola conosce una progressiva crisi di identità, di segno ben diverso rispetto agli anni della contestazione, ma di gravità forse maggiore: di fronte ai miti del tardo capitalismo, che esaltano il “rampantismo”, il successo professionale ed economico e la ricerca spasmodica dell’affermazione sociale, il mestiere di insegnante perde via via prestigio perché mal retribuito. Parallelamente crolla anche la funzione affidata fino ad allora alla scuola di trasmissione culturale (soprattutto letteraria e più in generale umanistica) di fronte alla forza di attrazione e penetrazione di saperi più “moderni” e considerati più “utili” e spendibili, nel disinteresse di uno stato che non considera la formazione dei suoi cittadini un tema di primo piano nella programmazione economica. Dal canto loro, gli studenti appaiono sempre più demotivati e distratti, attratti verso altri modelli culturali e, in questi ultimi anni, dalla forte concorrenza dei social network, che ne assorbono le energie e indeboliscono un’attenzione già di per sé sempre più labile. Che cosa fare? Una proposta provocatoria In un testo recente, stimolante per più di un aspetto (L’ora di lezione, 2014), Massimo Recalcati (n. 1959), psicoanalista e scrittore, traccia un quadro della crisi della scuola come istituzione capace di indirizzare i comportamenti. A monte c’è la fine del ruolo simbolico “paterno” della tradizione, decretata dalla rivolta del Sessantotto, parallelo all’“evaporazione” del ruolo del padre (a cui lo stesso Recalcati ha dedicato il saggio Cosa resta del padre, 2011). Una fine che per lo studioso non bisogna deplorare, ma di cui bisogna prendere atIl dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 3 625


PER APPROFONDIRE

to. Ma egli si chiede se l’autorità della tradizione possa essere sostituita dalla “scuola delle competenze”, frutto di un’ottica utilitaristica, pragmatica, che riduce sempre più la scuola ad azienda e tende a valorizzare la prestazione a scapito di ogni istanza valoriale. La sua tesi è che il senso della scuola è nell’“ora di lezione”, e cioè nel ruolo insostituibile (più che mai oggi, nella generale crisi di modelli di riferimento) dell’insegnante, che solo può stimolare il desiderio di sapere: l’“ora di lezione” è immagine metaforica di una scuola concepita come avventura, incontro tra persone, esperienza emotiva e intellettuale, capace di sconfiggere l’«ipnosi telematica» di cui sono preda i ragazzi di oggi. «Lo sappiamo tutti» scrive Recalcati «un’ora di lezione può cambiare una vita, imprimere al destino un’altra direzione».

Professori-scrittori Dagli anni Ottanta si diffonde e conosce un notevole successo una produzione narrativa (e, in parallelo, anche cinematografica) a opera di insegnanti, che ha per tema la scuola e le sue difficoltà nella realtà di oggi. Ne indichiamo qui alcuni tra i molti esempi. Uno dei primi romanzi sulla scuola è Ex cattedra (1987) di Domenico Starnone (Napoli 1943): insegnante alle scuole superiori, per ritrarre la scuola sceglie un registro apertamente umoristico, a tratti caricaturale, accentuato nel film La scuola (1995) che Daniele Luchetti ha tratto da tre libri di Starnone (oltre a Ex cattedra: Fuori registro e Sottobanco). Al contrario, Antonio Scurati (Napoli 1969), docente universitario, a simbolo delle difficoltà della scuola di oggi, narra una vicenda tragica nel romanzo Il sopravvissuto (2005): durante l’Esame di stato uno studente fredda a colpi di pistola tutti i professori risparmiando quello di Storia e Filosofia, che si interroga angosciosamente sul mistero di quella scelta e sull’incapacità, anche sua, di immaginare il grave disagio esistenziale dello studente che ha portato al gesto omicida. Insegnante di scuola media, Marco Lodoli (Roma 1956) trae dalla sua esperienza Professori e altri professori (2003), dedicato non solo alle figure istituzionali di professori, ma a tutti coloro che hanno qualcosa da insegnare. Un romanzo singolare è Gatti e scimmie (2001) di Arnaldo Colasanti (Fiuggi 1957): il protagonista è un insegnante di lettere in un istituto professionale alla periferia di Roma (“gatti” e “scimmie” sono i nomignoli con i quali vengono affettuosamente definiti i suoi studenti) che ripensa alla sua vita, alle sue scelte, al senso della letteratura in una realtà che sembra respingerla come un corpo estraneo ormai del tutto anacronistico. Per certi aspetti possono essere accomunati romanzi come Registro di classe (2000) di Sandro Onofri (1955-1999) e Diario di scuola (2007) di Daniel Pennac (Casablanca 1944), innamorati entrambi del mestiere di insegnante («Esiste un mestiere più bello del mio?» scrive Onofri), nonostante le amarezze e le quotidiane difficoltà. Insegnanti “in ascolto”, testimoniano nei loro romanzi-reportage la difficile battaglia per l’emancipazione degli studenti, soprattutto dei più apatici e svantaggiati.

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Una prospettiva scelta in modo radicale da Eraldo Affinati (Roma 1956), autore di due romanzi sulla scuola: Secoli di gioventù (2004) e La città dei ragazzi (2008). In quest’ultimo fa riferimento alla sua appassionante esperienza di insegnante tra “gli ultimi” della società, ragazzi stranieri immigrati provenienti da una realtà di sofferenza e di guerre. I romanzi scolastici di Paola Mastrocola (Torino 1956), che hanno avuto grande successo (in particolare La gallina volante, 2000, e Una barca nel bosco, 2004) traggono ispirazione da una visione negativa della scuola di oggi, umiliata da ripetitive mansioni burocratiche, caratterizzata da un’omologazione, da un appiattimento generale che mortifica, secondo il suo punto di vista, gli alunni più dotati.


Immagini della scuola

D15

Proponiamo alcuni testi che restituiscono immagini diverse della scuola, ma tutte molto interessanti.

D15a

Scuola di Barbiana

EDUCAZIONE CIVICA

«Nati diversi?»

nucleo Costituzione competenza 1

Lettera a una professoressa Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

Dalla celebre Lettera a una professoressa abbiamo tratto alcuni passi che documentano la passione educativa di don Milani, ma anche il durissimo spirito polemico che ha ispirato la stesura dell’opera e che si traduce in un tono apertamente accusatorio.

Voi dite1 d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi. [...] Anche un preside di scuola media ha scritto: «La Costituzione purtroppo non 5 può garantire a tutti i ragazzi eguale sviluppo mentale, eguale attitudine allo studio». Ma del suo figliolo non lo direbbe mai. Non gli farà finire le medie? Lo manderà a zappare? [...] Anche i signori hanno i loro ragazzi difficili. Ma li mandano avanti. Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà 10 un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio. Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare. È esattamente quello che dice la Costituzione quando parla di Gianni2: «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza, lingua, 15 condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (Art. 3). 20 Una sua collega delle medie (una mite sposina che a prima3 ne ha respinti 10 su 28, comunista lei e il marito, gente impegnata) ci fece un’obiezione: «Io non li ho cacciati, li ho solo bocciati. Se non ci pensano i loro genitori a rimandarli4 peggio per loro». Ma il babbo di Gianni a 12 anni andò a lavorare da un fabbro e non finì neanche 25 la quarta. A 19 anni andò partigiano. Non capì bene quello che faceva. Ma certo lo capì meglio di voi. Sperava in un mondo più giusto che gli facesse eguale almeno Gianni. Gianni che allora non era neanche nato. Per lui l’articolo 3 suona così: «È compito della signora Spadolini5 rimuovere gli 30 ostacoli...». [...] 1 Voi dite: il testo si rivolge a una professoressa-tipo degli anni in cui fu scritto il libro. 2 Gianni: nome fittizio che nella Lettera designa il ragazzo povero, che si presenta

a scuola inevitabilmente svantaggiato. A Gianni viene contrapposto Pierino, immagine del ragazzo che proviene da una famiglia delle classi superiori e che per questo parte avvantaggiato.

3 a prima: in prima (media). 4 a rimandarli: sottinteso “a scuola” (l’anno successivo alla bocciatura).

5 signora Spadolini: nome fittizio per indicare l’insegnante.

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Ma non può rimuovere gli ostacoli lui che li ha addosso. Non sa nemmeno che disciplina occorre a un ragazzo che fa le medie, quanto deve stare a tavolino, se è bene che si svaghi. Se è vero che a studiare vien mal di testa e «trillan gli occhi» come dice Gianni. 35 Se sapeva fare da sé non vi mandava Gianni a scuola. Tocca a voi supplirlo in tutto: istruzione e educazione. Sono due facce di un problema solo. Gianni domani, se ce lo portate, sarà un babbo più capace e collaborerà in altro modo. Il suo babbo per ora è quello che è. Quel poco che i signori gli hanno concesso di essere. 40 [...] Non vi potete più trincerare dietro la teoria razzista delle attitudini. Tutti i ragazzi sono adatti a far la terza media e tutti sono adatti a tutte le materie. [...] Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in 45 tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri. Lottereste per il bambino 50 che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la notte col pensiero fisso su lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola.

Concetti chiave Un modo di fare scuola che funzioni

In questo meraviglioso passo tratto dal pamphlet Lettera a una professoressa di don Milani leggiamo un attacco molto duro alla scuola e agli insegnanti che si occupano solo dei “più fortunati” tralasciando quelli che, come Gianni, ritengono non adatti alla scuola. Viene contestata la bocciatura come soluzione per i ragazzi più deboli e si invitano i docenti «a portare avanti i ragazzi ad ogni costo e in tutte le materie», ad aguzzare l’ingegno per trovare un modo di fare scuola che funzioni, adattando il metodo a ciascuno dei ragazzi. La frase finale costituisce un invito forte alla riflessione per tutti gli educatori, un invito che deve far riflettere: una scuola che si occupa solo dei “più fortunati”, tralasciando coloro che avrebbero davvero bisogno del supporto dei docenti, non è degna di essere chiamata scuola. Lo stile utilizzato è colloquiale e diretto a colpire per la forza e l’incisività del messaggio trasmesso.

online D15b Sandro Onofri

IMMAGINE?

Riflessioni su cos’è l’intelligenza e sull’opportunità di valutarla a scuola Registro di classe

D15c Daniel Pennac «Dobbiamo loro la vita» Diario di scuola, I, 11; VI, 13

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Scolari della scuola primaria nel 1967.


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono le accuse alla scuola italiana contenute in Lettera a una professoressa? Quali, in particolare, sono rivolte alla scuola dell’obbligo? ANALISI 2. Alla luce del testo proposto spiega e commenta le rivoluzionarie parole di don Milani: «Non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra diseguali».

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. L’esperienza innovativa della scuola di Barbiana parte da un principio sintetizzato nel motto della scuola “I care” (“mi sta a cuore, mi interessa”). Su quale etica si dovrebbe fondare per don Milani la scuola? Ritieni sia importante ancora oggi? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. Ricostruisci il percorso delle argomentazioni in un breve testo (max 10 righe); indica il tema chiave, la tesi, le argomentazioni a sostegno.

EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA

nucleo

5. Commenta l’articolo 3 della Costituzione citato nel testo.

Costituzione

competenza 1

Massimo Recalcati

Un incontro salvifico

D15d

LEGGERE LE EMOZIONI

L’ora di lezione, V M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014

Nel libro L’ora di lezione, l’analisi critica del ruolo della scuola nella società contemporanea sviluppata da Massimo Recalcati si radica e si sostanzia nella sua stessa esperienza autobiografica.

Quando ti ho incontrata avevo diciotto anni e nella testa l’idea di lotta di classe come una guerra giusta. Avevo trovato nella rivolta politica il modo per difendere tutti i bocciati del mondo1. Il mio idealismo giovanile mi spingeva verso quello che chiamavamo «il movimento»2, ma in realtà mi conduceva al centro di un deserto. Vo5 levo immaginare un mondo in cui la risposta sul significato della bellezza del fuoco potesse essere varia3, volevo dare voce a chi, come me, era sempre rimasto indietro. Frammenti, membra sparse, rovine... La fine degli anni Settanta aveva rappresentato per tutti noi un’avventura sul bordo dell’abisso. Ho avuto amici che si sono persi: nella droga, nella violenza politica, nel terrorismo, in India, ovunque. La mia gene10 razione è sprofondata nella melma informe del godimento mortale. Ma quando sei arrivata nella nostra classe a parlarci dei poeti e della letteratura ho pensato subito che saresti stata la mia occasione. [...] Ti ricordo bellissima. Avevi fatto la tua entrata tra di noi abbrutiti da una Scuola noiosa e stupidamente severa, come un corpo celeste che veniva da un altro univer15 so. Cosa ci facevi lí? Mi sono chiesto tante volte. Lí tra noi, a Quarto Oggiaro, nella periferia estrema di Milano. Mi pare fosse nel mese di febbraio ancora pieno di neve. Lo ricordo perché arrivavo a scuola infreddolito, dopo un vero viaggio di quasi un paio d’ore da una periferia all’altra, tra lavoratori e studenti pendolari. Forse qualche volta ti avevo incrociata su uno di quei treni sempre in ritardo e affollatissimi che 1 Avevo trovato... i bocciati del mondo: precedentemente nello stesso capitolo, Recalcati fa riferimento alla sua esperienza di studente bocciato. L’ingiustizia vissuta da bambino lo induce, anni dopo, a farsi paladi-

no di tutti gli oppressi, i “bocciati del mondo”. 2 «il movimento»: si tratta del movimento studentesco del ’77. 3 un mondo in cui... essere varia: l’espressione nasce da una memoria autobiogra-

fica: la terribile e insensibile maestra che fece di lui “un bocciato” pretendeva che i bambini dessero la stessa risposta giusta (cioè quella della maestra) alla domanda loro rivolta sul perché il fuoco è bello.

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partivano dalla stazione di Cadorna. Era strano vederti mescolata in quella massa di gente stordita dal sonno e dall’abitudine. Ti ricordo benissimo anche vestita in un tailleur blu scuro e cravatta, con mimosa gialla all’occhiello, in un 8 marzo, festa della donna. Oppure pensierosa e in silenzio in alcune riunioni studentesche infuocate dalla bagarre4 politica. Gentile e riservata nelle tue manifestazioni di simpatia 25 verso di me. Ricordo ancora il tuo volto illuminarsi nella lettura dei poeti in classe. Durante le tue lezioni ho fatto per la prima volta esperienza fisica e mentale del sapere come nutrimento. [...] Seguivo la tua parola che veniva scandita da una voce leggera che mi ispirava. Mi precipitavo a leggere ogni libro che citavi e mi sembrava di camminarti vicino, 30 di fare insieme a te una strada che già conoscevi e che per me era invece nuova. Amavo leggere i libri che mi prestavi sottolineati da te. Era la tua strada e mi avevi permesso di seguire i tuoi passi. Quei libri avevano per me l’odore e la consistenza di un corpo. Sei stata come una traccia luminosa nella notte che non ci si aspetta e che quando arriva sembra trasformare ogni cosa. Potenza della tyche5, direbbe 35 Lacan6. Con te la mia vita ha cambiato direzione. L’amore per lo studio e per la scrittura hanno ricevuto uno slancio sconosciuto sino ad allora. Ti ho presa al volo e sono volato via con te, sui tuoi pensieri, sulle tue parole, sui tuoi libri. 20

4 bagarre: fase convulsa in finale di una gara ciclistica e, per estensione, di un avvenimento o di una manifestazione. 5 tyche: destino, sorte (in greco antico).

6 Lacan: Jacques Lacan (1901-1981), celebre filosofo e psicoanalista francese, a cui Recalcati ha dedicato vari studi.

Concetti chiave Un incontro che cambia la vita

L’autore, bambino “con problemi di apprendimento” (come oggi si direbbe), conosce il trauma di una bocciatura, addirittura nel corso delle elementari, destinato a segnarlo nel profondo. Ma l’incontro con alcuni insegnanti, e in particolare quello con la giovane professoressa Giulia, qui rievocato, avrebbe cambiato la sua vita, con la scoperta del sapere come nutrimento, ma tutto ciò è passato attraverso la figura di un docente che ha rappresentato nella vita di questo studente «una traccia luminosa nella notte».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la visione che Recalcati ha del ruolo dell’insegnante? ANALISI 2. Perché, secondo Recalcati, la pratica dell’insegnamento è non solo trasmissione del sapere, ma fare del sapere un oggetto di desiderio in grado di mettere in moto la vita e di allargarne l’orizzonte?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Il titolo del libro L’ora di lezione allude al momento dell’incontro tra insegnante e allievo, un momento che «come una traccia luminosa nella notte» può cambiare direzione alla vita del protagonista e di tutti gli studenti. Argomenta facendo riferimento anche alla tua personale esperienza.

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D15e Paola Mastrocola

D15f Eraldo Affinati Il Milione raccontato ai migranti afghani Peregrin d’amore

La scuola vista da uno studente “esemplare” La barca nel bosco

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3 Dagli anni Ottanta a oggi. I comportamenti nell’era digitale L’emergere del privato e il nuovo mito del successo A partire dagli anni Ottanta, si affermano modelli di comportamento opposti a quelli dominanti nel Sessantotto e dintorni: iniziano gli anni del “riflusso”, in cui non solo la dimensione del privato prevale sull’impegno politico, ma tende a scomparire l’interesse stesso alla dimensione etica e civile. Si impone un nuovo mito umano su cui modellare i comportamenti: lo yuppie, il giovane professionista vincente, incarnazione vivente dell’edonismo, del rampantismo. Il dilagante culto del successo personale ed economico attenua l’antagonismo generazionale che si era manifestato nel Sessantotto e i genitori perdono il ruolo di figure antagonistiche. Il narcisismo di massa Nella società del tardo capitalismo i beni materiali, gli oggetti di consumo, il vestiario, assumono un ruolo primario nella costruzione dell’identità individuale e nell’affermazione sociale. Emerge il fenomeno della moda, che porta spasmodicamente al possesso delle “firme”. Diventa essenziale la cura del proprio look, non per affermare l’individualità del gusto ma al contrario per sancire l’omogeneizzazione alle tendenze di moda del momento, secondo la legge implacabile del consumo. Anche in questo caso il fenomeno coinvolge tutti gli strati sociali. La preminenza del “privato” si manifesta anche nel culto della forma fisica: proliferano le palestre (in un solo anno, tra il ’78 e il ’79, il numero di palestre aumenta del 122 per cento). Lo sport è praticato anche per ragioni salutistiche, ma soprattutto estetiche e narcisistiche: imperversano le tecniche di body building per rendere il corpo sempre più prestante. La «socialità incerta» Nell’introduzione al suo saggio La solitudine del cittadino globale (1999), il sociologo Zygmunt Bauman lamenta il diffuso abbandono, negli ultimi decenni, delle “cause comuni” per quella che egli definisce una «socialità incerta», che si coagula ed esprime solo in occasioni sporadiche e spettacolari e che ha comunque vita breve. La passione aggregante si manifesta solo per eventi sportivi come la vittoria della nazionale di calcio oppure quando si individua un “nemico” comune (come nella recente epidemia di Covid). Ma si tratta di “fiammate di fratellanza” appunto di breve durata. Manca nella società attuale quella che Bauman definisce (prendendo a prestito un termine appartenente alla struttura socio-politica della Grecia antica) l’agorà: spazio in cui «possono nascere e prendere forma valori condivisi quali “bene pubblico”, “società giusta”». La generazione digitale Rispetto alla precedente, la generazione digitale è caratterizzata dal fatto che è cresciuta fin dalla prima età con il computer, il cellulare, Internet, e appare sempre più coinvolta nell’uso dei nuovi media: più della metà dei giovani frequenta almeno quattro media diversi, spesso contemporaneamente. Secondo un recente studio americano, i giovani passano più di sette ore al giorno utilizzando tecnologie digitali, alla ricerca di file musicali, di filmati, più ancora che di informazione; e trovano nei blog e nelle chat nuove forme di socializzazione. Rispetto anche solo alla generazione appena precedente, la digital generation mostra inoltre un’enorme adattabilità ai nuovi strumenti, in particolare ai social network, che si succedono a ritmo vertiginoso perché il più recente è destinato a scalzare in breve tempo il precedente: da Twitter a Facebook a Instagram e così via. La confessione condivisa: una società “a intimità diffusa” Al centro dei social è lo scambio di informazioni personali, di foto, di frammenti di vita messi in rete e Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 3 631


condivisi. Oggi è richiesto l’esporsi, tutti “si confessano”: una tendenza nuova, da cui nasceranno certamente nuovi comportamenti e dinamiche sociali. Il rito della confessione nasce nel Cristianesimo come rito penitenziale che prepara al rinnovamento, dopo l’assoluzione da parte del sacerdote. In ambito laico la “confessione” è parte preponderante del trattamento psicoanalitico e viene gestita e interpretata, a fini terapeutici, dall’autorevole figura dello psicoanalista, a cui solo è dato il potere di decifrarne il senso. In entrambi i casi l’interlocutore di chi confessa il proprio vissuto personale è comunque sempre una singola, accreditata figura. Tipico invece della società moderna è il superamento della segretezza del mondo interiore, l’esibizione del sé di fronte a una sorta di “coro”, a cui si chiede di condividere gioie e dolori. Proprio la condivisione sancisce l’appartenenza a una comunità, fatta comunque sempre di pari ai quali si chiede l’approvazione e, alla fin fine, la conferma della propria identità. Il che può essere molto pericoloso.

Anna Oliverio Ferraris

D16

Relazioni sociali e apprendimento al tempo di Internet La sindrome Lolita

A. Oliverio Ferraris, La sindrome Lolita, Rizzoli, Milano 2008

La psicologa Anna Oliverio Ferraris ci offre una serie di spunti molto interessanti per valutare l’impatto di Internet e delle nuove tecnologie informatiche sui comportamenti delle nuove generazioni.

Televisore acceso, iPod nelle orecchie, Claudio, quindici anni, sta facendo una ricerca per la scuola su internet. Arriva un messaggio sul telefonino a cui risponde immediatamente. Di lì a qualche minuto invierà a YouTube un video buffo girato in classe, visiterà alcuni blog e si connetterà a una chat dove parlerà con altri ra5 gazzi di musica rap. Prima di andare a dormire invierà alcune foto, scattate con il telefonino, su MySpace. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono onnipresenti nel mondo dei ragazzi. Considerando la facilità con cui essi entrano negli spazi virtuali, si potrebbe quasi pensare che le ultime generazioni siano nate equipaggiate di circuiti 10 neurali1 destinati al mantenimento delle nuove tecnologie. Ironia a parte, è diversa la posizione di chi incontra una innovazione nel corso della vita adulta – a venti, trenta, quarant’anni – da chi invece nasce quando questa innovazione si è già affermata e diffusa. Il primo, per integrarla nella propria esistenza, deve modificare abitudini radicate, il proprio modo di lavorare, di organizzare la giornata, di espri15 mersi. A volte addirittura il modo di pensare. Non tutti sono disposti a cambiare: è faticoso, devono entrare in funzione altri circuiti neurali, ma quelli “vecchi” non indietreggiano. Il secondo invece si accosta al nuovo come a un elemento normale della sua quotidianità; ha un approccio disinvolto e non si sente a disagio perché non ha bisogno di dimenticare o smantellare precedenti consuetudini e acquisizioni. 20 La generazione digitale, ossia quella classe di giovanissimi tra i nove e i quindici anni2 che ha trovato intorno a sé queste tecnologie fin dalla nascita e ha imparato 1 neurali: dei neuroni del cervello.

2 tra i nove e i quindici anni: ora l’età di quindici anni andrebbe spostata in avanti,

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dato che il saggio di Oliverio Ferraris è del 2008.


subito a usarle come qualsiasi altro utensile o giocattolo, rappresenta una novità sul piano sociale e individuale che s’incomincia a studiare soltanto adesso. Il problema è quello di comprendere quali possono essere le conseguenze di una così massiccia 25 presenza di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) nella vita di questi ragazzi, quali i vantaggi e quali, eventualmente, i limiti. Le Tic comportano una maggiore apertura sul mondo oppure un’estraniazione da esso? Gli entusiasti rispondono che le Tic agiscono come “moltiplicatori psichici”3 che spingono l’individuo a mettersi in gioco e a “inventarsi in permanenza”, il che è importante 30 per tutti coloro che devono imparare a vivere in un mondo in costante movimento come il nostro. Sul fronte opposto invece altri temono il ripiegamento dei giovanissimi in tribù chiuse in se stesse, refrattarie al mondo e ai valori dei genitori e degli insegnanti, pronte a rispondere a leader d’opinione4 che sfuggono (via blog) a ogni controllo e che con la loro azione seduttiva possono portare in tempi rapidi 35 all’annientamento della cultura tradizionale, senza in cambio fornire un’alternativa che riesca ad andare al di là del semplice piacere di cliccare, connettersi, curiosare, incontrarsi in rete, saltabeccare di qua e di là, senza però soffermarsi su nulla. […]. Inutile dire che il rischio di questa deriva esiste, anche se molti aspetti del mondo digitale sono positivi. Prendiamo la socializzazione, ad esempio. La comunicazione 40 digitale non sostituisce il rapporto faccia a faccia e certamente è una forma di socializzazione incompleta; crea però nuove opportunità, rimuove barriere temporali e geografiche, consente connessioni a livello globale, offre alternative a un tipo di socializzazione limitata al proprio quartiere e alla propria città. […] Per esempio, se nel mondo esterno la socializzazione è stagnante, c’è l’opportunità di andare a 45 ricercare in rete interlocutori più affini a sé, con cui condividere i propri interessi. Muovendosi tra l’uno e l’altro mondo si dispone di un maggior numero di alternative. Sulla rete si crea una nuova comunità e un nuovo tipo di socializzazione: si inviano on line foto, “profili” personali, storie, video, musiche, si partecipa a blog... Rilevamenti fatti su adolescenti americani hanno mostrato che molti ragazzi 50 attivi in rete lo sono anche fuori, si dedicano cioè ad attività sportive, artistiche o a lavori part-time. […] [Tuttavia] l’ebbrezza che deriva da tutte queste attività, che i ragazzi fanno in piena autonomia, al di fuori del controllo degli adulti, può rendere più gratificante e de55 siderabile il mondo virtuale di quello reale. […] Ed è facile diventare dipendenti da internet specialmente quando ci si lascia coinvolgere in qualche game competitivo. Può nascere, allora, una vera e propria compulsione, come nel caso di Alessio, un quattordicenne che, inseritosi in un gioco navale con molti partecipanti, non riusciva più a dormire di notte perché temeva che durante le ore notturne gli potessero ru60 bare la flotta. Per non parlare degli hikikomori (o ragazzi socialmente esclusi), che in Giappone ammontano ad alcune centinaia di migliaia. Per paura di confrontarsi con la realtà, questi giovani, tra i quindici e i trent’anni, si rifugiano in un universo infantile, virtuale, alimentato da internet, videogiochi, manga...5 […] Quando escono è notte, in una via deserta, per andare al distributore di bibite o di cibo, per evitare 65 ogni contatto umano. 3 moltiplicatori psichici: cioè fattori di diversificazione e arricchimento della psiche.

4 leader d’opinione: come opinion makers, persone in grado di orientare e plasmare le opinioni degli utenti.

5 manga: fumetti giapponesi.

Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 3 633


Il fenomeno degli hikikomori è presente, sia pure in forma non così massiccia come in Giappone, anche altrove. Ci sono ragazzi che, catturati dai ritmi delle tecnologie digitali, perdono man mano interesse nello studio e nella vita sociale, si chiudono in casa e passano sempre più tempo al computer. Gli amici sono quelli che contattano 70 sulla rete. Stefano per esempio ha ventidue anni, ha abbandonato gli studi poco prima della maturità e ora fa qualche lavoretto di tipo informatico (progetta siti). La mattina si alza intorno a mezzogiorno. Appena alzato si connette, chatta, gioca, scambia, scarica musica, film e video, ma ha perso completamente l’abitudine di incontrarsi con le persone. […] Si può dunque diventare dipendenti dalle chat e 75 dagli incontri su internet allo stesso modo in cui lo si può diventare dal gioco d’azzardo o dall’acquisto compulsivo. Dietro a queste patologie ci sono problematiche psicologiche legate alla storia e alle caratteristiche individuali, come l’insicurezza nei rapporti sociali, l’ansia da prestazione eccetera, cosicché l’autoisolamento non può essere imputato soltanto alle Tic. La postazione internet nella propria stanza 80 non è certo la causa principale della vita da recluso che Stefano sta conducendo, essa però ha avuto una funzione facilitante. Un altro aspetto problematico su cui vale la pena di riflettere è il cosiddetto multitasking ossia quel bombardamento multimediale di chi, come il nostro Claudio, ha preso l’abitudine di svolgere più attività contemporaneamente, grazie all’istantaneità 85 delle Tic. I ragazzi sono veloci nel rispondere grazie alla prontezza dei loro riflessi e grazie anche a un quotidiano addestramento; gli studi condotti in quest’ambito dimostrano però che il cervello lavora meglio quando si concentra su un solo compito alla volta, invece che su varie funzioni. I rischi del multitasking sono la deconcentrazione e l’approssimazione. Si possono fare più cose contemporanea90 mente quando i problemi sono semplici e non richiedono particolare attenzione, oppure quando gli apprendimenti sono già consolidati in abitudini o meccanismi che per essere attivati non richiedono alcun tipo di concentrazione; ma di fronte a un problema complesso è difficile non fare errori se si è impegnati su più fronti. Chi ha condotto studi in questo campo è preoccupato dall’effetto del multitasking 95 sui cervelli di soggetti in fase di sviluppo. Bambini e adolescenti rischiano di avere tempi di attenzione troppo brevi perché troppo sollecitati e abituati a saltare da una Tic all’altra. Incalzati dalla velocità delle prestazioni e dal piacere di ottenere risultati immediati, possono tralasciare gli approfondimenti, provare fastidio e ansia quando sono costretti a concentrarsi e quando non ottengono prontamente un risultato. La 100 rapidità con cui le tecnologie rispondono, trovano, localizzano, risolvono e forniscono risultati può dare l’illusione che non sia necessario applicarsi, approfondire o ragionare. Molti apprendimenti richiedono invece applicazione e pazienza, non solo per comprendere i contenuti, ma anche per poter memorizzarli e padroneggiarli. Saper attendere, organizzarsi in vista di un obiettivo sono attitudini importanti che 105 la fretta non consente di sviluppare.

Concetti chiave Tecnologie informatiche e relazioni interpersonali

L’autrice tocca temi relativi agli effetti che le nuove tecnologie informatiche hanno sui comportamenti e, in particolare, sui modi di relazionarsi con gli altri e di pensare, distinguendo fra la generazione digitale e le altre: «è diversa la posizione di chi incontra una innovazione nel corso della vita adulta … da chi invece nasce quando questa innovazione si è già affermata».

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Un’analisi equilibrata delle forme di socializzazione attraverso le Tic

L’approccio dell’autrice è estremamente equilibrato, dato che è lontano tanto dalla esaltazione acritica delle nuove tecnologie, quanto dalla loro demonizzazione ipercritica. Lo si vede chiaramente a proposito delle forme di socializzazione: le Tic possono favorire la nascita di relazioni più aperte e soddisfacenti («rimuove barriere temporali e geografiche […] offre alternative a un tipo di socializzazione limitata al proprio quartiere e alla propria città» e consente di «ricercare in rete interlocutori più affini a sé, con cui condividere i propri interessi») e anche più libere e autonome; al tempo stesso, però, l’uso delle Tic comporta il rischio di avere comportamenti compulsivi (come il ragazzo che non dorme la notte per paura che qualcuno possa rubargli la flotta) e può provocare un distacco dalla realtà che rischia di assumere risvolti patologici (come nel caso degli hikikomori, che finiscono col rifiutare qualsiasi contatto umano). In ogni caso, l’autrice mette in guardia dalla tendenza ad attribuire comportamenti asociali o antisociali esclusivamente alle Tic, che in molti casi non ne sono la causa prima, anche se possono avere «una funzione facilitante».

I rischi del multitasking

Anche riguardo a un altro fenomeno indotto dalle Tic, il cosiddetto multitasking, l’autrice si chiede quali siano i pro e i contro della tendenza a svolgere più attività multimediali contemporaneamente. I ragazzi che praticano il multitasking sviluppano prontezza di riflessi e velocità nei processi mentali ma, incalzati «dal piacere di ottenere risultati immediati, possono tralasciare gli approfondimenti, provare fastidio e ansia quando sono costretti a concentrarsi e quando non ottengono prontamente un risultato», mentre nello studio e poi nel lavoro è spesso necessario applicarsi con tenacia e pazienza, riflettere e approfondire su tempi più lunghi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai una sintesi delle argomentazioni della studiosa (max 15 righe).

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 2. Raccogli informazioni e dati sul fenomeno degli hikikomori in Giappone e anche in Italia. SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Esponi e argomenta le tue opinioni, anche basandoti su esperienze personali, in relazione a vantaggi e svantaggi dell’uso di Internet nei processi di socializzazione.

4 I generi letterari Dagli anni del boom ai giorni nostri La modernizzazione dell’Italia, tra gli anni Cinquanta e Sessanta – in lieve ritardo rispetto ad altri paesi europei –, ha avuto conseguenze significative nel campo della cultura e dei consumi culturali: espansione dell’istruzione, ampliamento della scolarizzazione, unificazione linguistica del paese (anche per merito di cinema e TV). In particolare si consolida l’industria culturale e si espandono ulteriormente l’editoria e il mercato dei libri, che già dai primi del Novecento avevano ricevuto un forte impulso: aumentano le case editrici, sia le grandi aziende presenti anche nella stampa periodica sia piccoli editori di dimensioni artigianali legati a progetti di intervento culturale. Per quanto riguarda il nostro discorso, la nascita tumultuosa di un pubblico di massa, indifferenziato e in crescita esponenziale, ha avuto l’effetto di moltiplicare generi e sottogeneri letterari, ben divisi in collane e rivolti a lettori sensibilmente diversi per gusti, esigenze e formazione culturale. La letteratura di massa si rivolge a una pluralità di pubblici, che intercetta non solo nelle sedi e nei luoghi deputati. Si pensi a quei titoli che oggi vediamo allineati nelle librerie di stazioni, supermercati, autogrill, aeroporti. Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari 3 635


I generi attuali dell’intrattenimento, della letteratura di massa – immediatamente riconoscibili da parte del lettore – sono innumerevoli, ciascuno con le proprie convenzioni e con le proprie distinte retoriche narrative: dal giallo (con tutte le sue declinazioni: spy story, thriller di azione, noir, crime story) alla fantascienza (distopica, spaziale, sociologica, tecnologica, cyberpunk), dal rosa (rinnovato dal recente filone americano chick-lit) al fantasy, dall’horror all’erotismo, dal romanzo di formazione al romanzo di avventura. A volte la letteratura alta ha ripreso qualcuno di questi generi, però rileggendone e straniandone le regole. Ad esempio i gialli del tutto atipici di Gadda e Sciascia, privi di soluzione e a volte persino incompiuti, non risolvono l’enigma poliziesco preferendo restituirci il senso di un caos, e anzi in questa loro natura volutamente irrisolta potrebbero frustrare le aspettative dei lettori patiti del genere. Ma, al di là di tali casi estremi, in generale sembra cadere, in anni più recenti, qualsiasi rigida gerarchia di alto e basso, di letteratura colta e letteratura di genere. Un autore sensibile come Valerio Evangelisti ha saputo immettere nella fantascienza temi storicopolitici di forte rilievo. Evangelisti non fa distinzione tra cultura di massa e cultura alta, tra generi popolari e sperimentazione. Così, Valeria Bertola ha immesso nei colori pastello del rosa una dimensione di tagliente autoironia prima sconosciuta ai personaggi femminili di questa narrativa. Certo, i romanzi di genere, fatti soprattutto di intreccio, devono soprattutto intrattenere e dunque tendono a presentare storie molto lineari, ritmo scorrevole, personaggi privi di sfaccettature, banalizzazione delle psicologie e soprattutto una lingua media priva di tensione espressiva. Però, nonostante questa innegabile omologazione del prodotto, l’operazione letteraria dello scrittore, sostiene Evangelisti, richiede sempre impegno, cura artigianale e responsabilità, oltre che una dose irrinunciabile di ispirazione, anche nel caso dei più omologati romanzi popolari. Quando questi elementi mancano non si ha letteratura, né alta né bassa. I macrogeneri: il romanzo Come preliminare bussola di orientamento possiamo ora indicare quattro macrogeneri, limitandoci alla narrativa e dunque tenendo momentaneamente fuori la poesia e il teatro, benché presenti nella trattatistica antica: romanzo, racconto breve, reportage narrativo, saggio. Il romanzo è il genere largamente prevalente e tipico della modernità. Abbiamo ricordato la sua derivazione dalla forma mista ed effettivamente si tratta del genere più sincretico, impuro, “meticcio”, poiché si nutre della vita quotidiana, delle vicende comuni di uomini comuni. “Epopea della borghesia”, volle definirlo Hegel: mette in scena il conflitto tra l’individuo – non più l’eroe dell’epica ma l’everyman, il borghese intraprendente, come l’operoso Robinson Crusoe o il visionario don Chisciotte – con la società circostante. Un genere denigrato dai classicisti e dai religiosi in quanto futile e sconveniente e a causa della ostinata, “pericolosa” vocazione realistica. La sua caratteristica è infatti una “sensazione di verità” che trasmette al lettore (come dice un personaggio di Don Chisciotte, il curato), perché si impegna a rappresentare spassionatamente e a tutto tondo la condizione umana. Due secoli dopo, Stendhal metterà a epigrafe del suo romanzo Il rosso e il nero la frase apocrifa di Danton: «La verità, l’aspra verità». A testimonianza di questa sua natura “sovversiva” ricordiamo che nel 1988 l’autore del romanzo I versetti satanici, Salman Rushdie, scrittore anglo-indiano, venne condannato a morte per bestemmia dall’ayatollah iraniano Khomeini. Rushdie fu così costretto a vivere in clandestinità. In altri casi l’Islam fanatico e integralista era stato criticato, anche più duramente,

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ma stavolta a farlo era un romanzo, un genere che traduce le idee in personaggi, destini, storie, sollecitando l’immedesimazione empatica dei lettori. Il racconto Il racconto si distingue dal romanzo non solo per la misura quantitativa e perché si rappresenta una esperienza specifica piuttosto che la totalità dell’esistenza, ma anche perché in esso, nonostante il passaggio dalla novella antica al racconto contemporaneo, l’accento cade sul finale a sorpresa. Il racconto sta al romanzo come una fotografia a un film o come una sonata a una sinfonia (che comprende vari movimenti). Il saggio Il saggio è sia il personal essay, autobiografico e digressivo, inaugurato in Europa dagli Essais di Montaigne nel Cinquecento – e oggi affermato soprattutto negli Stati Uniti, attraverso periodici e riviste – sia il formal essay, trattato accademico o monografia o studio letterario.

Lessico pastiche In letteratura, il termine (che in francese significa “pasticcio” e appartiene all’ambito culinario) indica un’opera; la parola indicava anche l’imitazione, da parte di uno scrittore, dello stile di altri autori.

Lessico feuilleton

PER APPROFONDIRE

Genere letterario nato nel primo Ottocento che comprende opere edite a puntate su giornali.

Il reportage narrativo Il reportage narrativo è situato tra giornalismo e letteratura: obbligo di informare e qualità della scrittura, obiettività di resoconto ma anche soggettività dello sguardo, dello stile. In Italia comincia con il Ventre di Napoli di Matilde Serao, a metà Ottocento; poi continua, nel Novecento, con i reportage di Gozzano da Ceylon e in seguito con quelli di Soldati, Alvaro, Piovene, fino a quelli di Pasolini, Moravia, Oriana Fallaci, Dacia Maraini e a Gomorra di Saviano. Le novità: la non-fiction e l’ibridazione dei generi Nonostante la perdurante centralità del romanzo, anche solo dal punto di vista editoriale, la principale novità di questi ultimi decenni è stata l’esplosione della letteratura di non-fiction, largamente prevalente nella nostra tradizione – diari, memoir, autobiografie, prose morali e civili – e la ibridazione dei generi, un fenomeno già avviato agli inizi del Novecento con i ponderosi romanzi-saggio di Proust, Musil e Thomas Mann, e poi con la intensa sperimentazione su collage e pastiche da parte delle avanguardie. Se consideriamo Elsa Morante, una delle voci letterarie più importanti del ventesimo secolo, possiamo osservare come la sua opera sia caratterizzata continuamente da libri ibridi: Il mondo salvato dai ragazzini è un testo difficilmente classificabile, che si muove fra teatro, poesia, pamphlet, mentre la Storia è un mix di romanzo storico, feuilleton , saggio di idee e manifesto anarchico non-violento. Molti premi Strega (➜ PER APPROFONDIRE Il premio Strega) negli ultimi anni sono stati assegnati a libri inclassificabili, che mescolano creativamente generi diversi e che oscillano tra fiction e non-fiction: Albinati, Nesi, Scurati, Janeczek, Trevi. Come se l’ibridazione di generi e stili riuscisse a aderire di più alla nostra frammentaria condizione, alla cosiddetta modernità liquida e alla natura sempre più multipla, composita dell’identità nell’età contemporanea. Torniamo così ai generi letterari e alla loro utilità. La individualità del singolo – sia esso una persona umana o un testo letterario – sempre si definisce anche in relazione alla comunità, alla specie (o alle specie) di appartenenza. L’identità è confronto.

Il Premio Strega Questo curioso nome indica un premio letterario italiano assegnato annualmente, nel mese di luglio, all’autore di quello che viene considerato come miglior libro pubblicato nel paese tra il 1º aprile dell’anno precedente a quello della competizione e il 31 marzo dell’anno in cui essa ha luogo. La scelta del vincitore è affidata a un gruppo di quattrocento esponenti del mondo della cultura (soprannominati Amici della domenica) che, dopo aver raccolto tutti i titoli ritenuti validi, seleziona dodici partecipanti, poi ridotti, entro il mese

di giugno, a cinque finalisti. Tra di essi, uno è scelto come vincitore, in diretta televisiva: gli viene consegnato un assegno del valore di cinquemila euro, ma soprattutto è riconosciuto il valore letterario del suo lavoro. La prima edizione risale al 1947: fu organizzata dalla scrittrice Maria Bellonci con il supporto finanziario dell’imprenditore Guido Alberti, titolare dell’azienda produttrice del liquore alle erbe Strega, dal quale deriva, appunto, la denominazione di manifestazione e premio.

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4 L’evoluzione della lingua 1 La progressiva affermazione di una lingua parlata comune Alle radici dell’unificazione linguistica Nei decenni che seguono la Seconda guerra mondiale è l’italiano parlato che dimostra maggior dinamismo e che va rafforzandosi rispetto alla lingua scritta. Mentre fino agli anni Sessanta la maggior parte degli italiani si esprime in dialetto, a partire dal secondo dopoguerra sempre più italiani ricorrono all’italiano per le più varie situazioni comunicative, a volte persino per la conversazione quotidiana: inizia a formarsi quello che in seguito sarebbe stato definito l’«italiano dell’uso medio» (Sabatini) o italiano standard. Il fenomeno è dovuto a diverse ragioni: l’aumento della scolarizzazione e dell’acculturazione, lo sviluppo economico, l’urbanizzazione, l’emigrazione massiccia dal Sud al Nord industrializzato in seguito al boom economico. Ma ancora più rilevante è l’influenza esercitata sul parlato degli italiani dai mass media: prima dalla radio e dal cinema e poi soprattutto dalla televisione (in Italia le trasmissioni iniziano nel 1954), la cui rapida diffusione nel paese crea le premesse per un’unificazione linguistica che sembrava lontanissima dal realizzarsi. L’italiano medio La lingua parlata unitaria che si va costruendo non deriva dagli autorevoli modelli della tradizione letteraria, ma in larghissima misura dal linguaggio delle telecronache sportive, o dagli sketch di Tognazzi e Vianello, o dalle fortunate trasmissioni di Mike Bongiorno (alle cui caratteristiche linguistiche fa riferimento un celebre intervento di Umberto Eco ➜ D18a ). Si può dire che alla fine degli anni Ottanta quasi tutti gli italiani parlino l’italiano standard. L’influenza del Sessantotto Tra i fattori che incidono nella realtà linguistica va ricordato anche il Sessantotto, che inserisce nel tessuto linguistico elementi specifici legati a una funzione «identitaria» (Antonelli). Si diffondono slogan, stereotipi linguistici di segno ideologico-politico in relazione al diffuso assemblearismo, alla preminenza della dimensione politica nella società e per la prima volta vengono utilizzate, sia nel parlato che nello scritto, le parolacce, in relazione alla lotta al perbenismo che caratterizza le posizioni del movimento del Sessantotto. E i dialetti? Se è vero che ormai 9 persone su 10 utilizzano l’“italiano”, i dialetti non sono affatto scomparsi, ma la loro utilizzazione è in genere limitata all’ambito familiare o comunque a particolari contesti comunicativi. Non manca nel corso del Novecento, in particolare nella poesia (pensiamo anche solo a Pasolini), un uso letterario del dialetto (➜ C16). Nell’ambito della narrativa è particolarmente interessante la contaminazione tra italiano e dialetto, come nel caso di Libera nos a Malo (1963, quindi in edizione riveduta, 1975) di Luigi Meneghello (1922-2007), un’opera molto suggestiva, tra recupero memoriale dell’infanzia e analisi antropologica del cambiamento sociale che si verifica negli anni Sessanta nell’area veneta a cui appartiene il paese di Malo. Nel romanzo di Meneghello all’italiano colto si contrappone il dialetto veneto, recuperato nella memoria come lingua dell’infanzia, ingenua e insieme trasgressiva, legata com’è agli aspetti materiali della vita.

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celebri interventi a proposito 2 Due della “nuova questione della lingua”: Pasolini vs Calvino

La questione della lingua La cosiddetta questione della lingua (ovvero il problema di decidere a quale modello di lingua ci si debba conformare), che ha il suo momento chiave nel Cinquecento, di fatto attraversa la storia della cultura e della società italiana, emergendo in modo particolare in alcuni periodi. L’intervento di Pasolini Nel dicembre del 1964 Pasolini – provocatorio anche in questo ambito – rilancia il tema in una conferenza intitolata Nuove questioni linguistiche, pubblicata nello stesso mese sulla rivista «Rinascita». Muovendo dal suo amore per i dialetti, Pasolini ne lamentava la progressiva sparizione e, per contro, constatava la nascita dell’italiano come lingua nazionale. Per lui la lingua comune che si andava formando era un italiano prettamente tecnologico, frutto dell’affermazione della borghesia capitalistica del Nord che, ponendosi in un rapporto “neo-colonialistico” nei confronti del Sud, rappresentava ormai, grazie al potere economico che deteneva, la nazione. La nuova classe egemonica tecnocratica rifiuta sia la lingua “conservatrice” della tradizione sia la lingua “espressiva” dei dialetti e richiede una lingua moderna e tecnologica: una prospettiva che Pasolini giudica in modo negativo. La posizione di Calvino La presa di posizione dello scrittore suscitò un vivace dibattito. Tra i vari interventi spicca quello di Italo Calvino, pubblicato su «Il Giorno» del 3 febbraio 1965, intitolato L’antilingua (ora in Una pietra sopra). Calvino vedeva nell’italiano comune che andava formandosi non un apporto eccessivo di termini tecnici, bensì il persistente influsso negativo di quella che definisce, con un termine che poi ha avuto fortuna, diventando proverbiale, l’“antilingua”: la lingua burocratico-giuridica e, più in generale, la lingua aulica propria della tradizione retorica. L’italiano era incapace di modernizzarsi perché affetto da quello che Calvino chiamava «terrore semantico»: rifuggiva cioè dall’uso di parole troppo dirette e da espressioni concrete e precise. Al contrario di Pasolini, egli pensava che la modernizzazione della lingua fosse un fatto positivo e che avrebbe comportato l’accoglimento di termini tecnici e scientifici. Come si è detto, in realtà l’identità dell’italiano medio che si stava formando tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta dipendeva soprattutto dall’influenza dei mezzi di comunicazione di massa. Le “nuove questioni linguistiche” oggi Di recente il linguista Giuseppe Antonelli, per la rivista «Nuovi argomenti», con il titolo Che lingua fa? (che a distanza di cinquant’anni riprende il modello dell’intervento pasoliniano), ha raccolto i pareri di molti studiosi, scrittori ed esperti della comunicazione sullo stato della lingua italiana e su quali potrebbero essere le “nuove questioni linguistiche” oggi. Al di là delle singole valutazioni, comune è la preoccupazione per la salute dell’italiano odierno, per la grave perdita delle competenze linguistiche da parte delle giovani generazioni e per l’avanzata dell’inglese che rischia di relegare in una posizione marginale l’italiano per quanto riguarda alcuni ambiti culturali (quello tecnico-scientifico in particolare) e nella didattica nelle facoltà scientifiche ed economiche. L’evoluzione della lingua 4 639


3 L’italiano oggi Una lingua in evoluzione L’italiano di oggi, che viene definito neostandard, presenta forti elementi di diversità rispetto al passato. Le principali linee di tendenza sono: la sempre maggiore semplificazione, l’informalità, il marcato avvicinamento tra scritto e parlato, il sostanziale abbassamento, anche dovuto all’influenza della scrittura digitata. Ecco un’esemplificazione minima di questi processi in corso. • La subordinazione va riducendosi a netto favore della paratassi; i periodi sono sempre più brevi. • L’indicativo estende la sua frequenza a scapito del congiuntivo e tanto più del condizionale. Ad esempio, sono diffusi periodi ipotetici di questo tipo: «Se facevi in fretta eri già arrivato», «Se lo sapevo venivo». • Il passato remoto è ormai quasi scomparso a favore del passato prossimo. Oggi si dice: «Cinque anni fa sono andato a Roma», anziché «andai». • Aspetti prettamente colloquiali e indici di un abbassamento del livello linguistico sono ad esempio l’uso del che come connettivo polivalente: «Il giorno che ti ho visto» e l’uso di gli («a lui») al posto di le («a lei»). • Tendono marcatamente a scomparire i segni di punteggiatura intermedi tra la virgola e il punto (cioè il punto e virgola e i due punti) per una sorta di «estremismo interpuntorio» (Garavelli) che prevede solo poche virgole e soprattutto punti fermi. Una tendenza che investe la stessa letteratura: Paolo Giordano, ad esempio, nel bestseller La solitudine dei numeri primi (2008) usa solo virgola, punto e qualche punto interrogativo (Antonelli). • Prosperano formule stereotipate, per lo più derivate dal linguaggio dei media: da «assolutamente sì» a «nel senso che», da «un attimino» a «della serie». L’“italiano digitato” Verso la metà degli anni Novanta l’avvento della telematica introduce forti innovazioni nel panorama linguistico. Innanzitutto si verifica, grazie a Internet, un incremento dei testi scritti. La posta elettronica per prima, e quindi le chat, i blog, i social network, ma anche l’uso dei messaggi sul cellulare hanno creato una vera e propria proliferazione di testi scritti: gli italiani (in particolare i giovani) sembrano diventati tutti «graforroici» (Antonelli). Ovviamente si tratta di testi scritti diversi da quelli tradizionali, con caratteristiche proprie legate alle esigenze della comunicazione web, per la cui lingua Antonelli usa appunto un termine apposito, l’e-taliano. La rete richiede in generale una lingua franta, veloce, poco adatta all’argomentazione complessa: ciò soprattutto in quella che è stata definita «neoepistolarità», cioè tutti quei tipi di scrittura per natura informali che servono alla confessionecondivisione oggi così diffusa. La “desacralizzazione” della scrittura Le varie forme della scrittura digitale hanno ben presto desacralizzato l’atto dello scrivere, rendendolo un gesto quotidiano che appare quasi un’estensione del parlare: da qui l’abitudine sempre più diffusa a scrivere senza esercitare il controllo tradizionalmente impiegato per il testo scritto. Ne consegue la tolleranza di chi scrive e legge per gli errori (di ortografia innanzitutto), ammessi appunto per l’assoluta informalità del testo. Il problema è che questa libertà, quasi anarchia, nello scrivere tende a estendersi pericolosamente a forme di scrittura che invece richiederebbero registri più formali. Tende a estendersi a varie situazioni comunicative anche l’impoverimento (o se si preferisce l’essenzializzazione) della punteggiatura cui abbiamo prima fatto

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cenno, come pure l’inflazione della punteggiatura espressiva (punto esclamativo e puntini di sospensione), e persino la presenza di emoticons (usati abitualmente nei messaggi personali sul cellulare, nelle chat) per conferire al testo determinati aspetti emotivi (gioia, soddisfazione, dispiacere ecc.).

4 Esiste ancora la lingua letteraria? Una domanda significativa È questa una delle domande poste nell’inchiesta sulle “nuove questioni linguistiche”. Indubbiamente è oggi molto più difficile identificare gli scrittori di qualità, sia per l’inflazione di testi, pubblicati a getto continuo, sia per la tendenza a uno stile poco personale, che rende arduo persino ai critici distinguere uno scrittore dall’altro. Mimesi del parlato, informalità, gergalità esibita, omologazione lessicale, avvicinano la lingua di molti romanzi alla lingua corrente. Di certo la letteratura non svolge più da tempo un ruolo “modellizzante” sulla lingua comune, ma al contrario risulta spesso condizionata da essa anche perché la ricerca linguistica non sembra più essere un interesse primario degli scrittori, per lo meno dei narratori (diverso è il discorso sulla poesia). Peraltro già negli anni Ottanta vi erano scrittori, anche di alto profilo, che sceglievano di esprimersi nell’italiano medio: ad esempio Moravia, la Ginzburg, lo stesso Eco. L’unico momento a suo modo creativo sul piano linguistico in quegli anni era stata la letteratura generazionale, da Tondelli ai “cannibali”, che riproducevano, estremizzandoli provocatoriamente, i linguaggi dei giovani e dei media.

PER APPROFONDIRE

Il caso di Camilleri Nel panorama stilisticamente piatto della prosa narrativa odierna è comprensibile, al di là della popolarità anche televisiva del personaggio di Montalbano, l’interesse suscitato dalla prosa del tutto anomala del siciliano Andrea Camilleri (1926-2019), che peraltro appartiene a una generazione precedente a quella della maggior parte degli scrittori di oggi: se i suoi conterranei Consolo e Bufalino indulgevano a una prosa aulica, barocca, per contrapporsi volutamente all’appiattimento linguistico di una società omologata, Camilleri attinge alle potenzialità del dialetto per creare uno stile originale, del tutto suo, fortemente espressivo, denso di voci e termini siciliani che però risultano per la maggior parte comprensibili, attraverso abili accorgimenti dello scrittore, ai suoi molti lettori.

La nuova antilingua: aziendalese e neopolitichese L’antilingua di cui ha parlato in anni ormai lontani Calvino, una lingua volutamente anticomunicativa, concepita per allontanare i cittadini, non è stata veramente sconfitta, ma ha soltanto mutato volto. L’antico “burocratese”, a volte denso di latinismi, di giri di parole retorici, è stato ormai prevalentemente sostituito dall’“aziendalese”, un vocabolario che vuole dare un’idea di efficienza e modernità. Termini tecnici, o apparentemente tali, spesso mutuati dal linguaggio economico-finanziario e dall’inglese, abbondano oggi nelle relazioni di ogni azienda: implementare, ottimizzare, sinergie, criticità, processare (elaborare), performante (efficace), case history, interfacciarsi (relazionarsi), upgradare (aggiornare), deliverare (consegnare) e così via. La comprensione non ne risulta certo agevolata. Quanto al linguaggio dei politici, sono presenti due linee di tendenza: da un lato, la ricerca del consenso di massa, a volte

collegata a visioni populistiche, induce alcuni ad abbassare notevolmente il livello del discorso per adeguarsi ai destinatari e a scegliere un registro decisamente informale, che accoglie persino, all’occorrenza, il turpiloquio. Dall’altro, alcuni politici, per conferire autorevolezza alle loro parole, non utilizzano più l’abilità retorica, eredità della cultura umanistica, ma esibiscono, come qualsiasi manager, dati statistici e utilizzano una terminologia finanziaria, preferibilmente inglese, per conferire al loro discorso il senso di oggettività ed efficienza manageriale. Come aveva scritto ironicamente qualche anno fa il giornalista Gian Antonio Stella, al latinorum di don Abbondio si sostituisce oggi l’inglesorum: si cerca di colpire i cittadini con termini come governance, deregulation, authority bancaria, spoil sistem, venture capital, welfare fino ai recenti spending review e jobs act. L’antilingua ha solo cambiato veste.

L’evoluzione della lingua 4 641


Umberto Eco

Il basic italian di Mike Bongiorno

D17

Diario minimo. Fenomenologia di Mike Bongiorno Il passo è stralciato da un intervento di Eco (1932-2016) scritto nel 1961 e dedicato all’analisi del successo di Mike Bongiorno (1924-2009), presentatore televisivo.

U. Eco, Diario minimo, Bompiani, Milano 1995

Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in 5 incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale [...]. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui. [...]

Concetti chiave Un successo dovuto alla semplificazione

Umberto Eco con questo discorso vuole dimostrare che il successo di Mike Bongiorno è stato dovuto anche alla semplificazione linguistica (e di conseguenza concettuale) praticata dal noto presentatore al massimo grado, ma tipica in genere della comunicazione televisiva, che ebbe un ruolo rilevante nella creazione di una lingua italiana comune.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

LESSICO 1. Spiega l’espressione basic italian. A quale registro linguistico puoi abbinarla? STILE 2. Quali elementi relativi allo stile linguistico rintraccia Eco nel modo di parlare del noto presentatore che fanno sì che l’effetto sia quello della massima semplicità linguistica? 3. Lo stile di Mike Bongiorno, secondo la descrizione di Eco, può definirsi paratattico o ipotattico?

Interpretare

SCRITTURA 4. Qual è la secondo te la finalità per cui si comunica in modo tale che qualsiasi spettatore all’occasione potrebbe sentirsi più facondo del presentatore? Quale effetto si vuole raggiungere?

online

online D18 Gianrico Carofiglio

L’antilingua esiste ancora Con parole precise. Breviario di scrittura civile

D19 Beppe Severgnini Espressioni da non usare (e perché non usarle) L’italiano. Lezioni semiserie

Fissare i concetti Dal boom economico ai giorni nostri 1. Da che cosa è caratterizzata la società consumistica? Che ruolo ha la pubblicità? 2. Quale funzione positiva ha rivestito la televisione? 3. Che cosa si intende con rivoluzione informatico-telematica? 4. Che cosa si intende con la cultura dell’“adesso”? 5. Quale ruolo hanno gli intellettuali oggi? 6. Quali furono i punti chiave della rivolta del Sessantotto? 7. Quali sono i generi letterari della seconda metà del Novecento? 8. Quale evoluzione subisce la lingua?

642 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


Il best seller d’autore Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, anche grazie a innovazioni tecniche (in particolare l’introduzione della fotocomposizione), si sviluppa un’editoria di massa che comporta la concentrazione del grosso della produzione libraria in poche grandi case editrici che controllano e caratterizzano il mercato. In esse hanno un ruolo rilevante i consulenti e i direttori di collane, reclutati tra intellettuali di spicco. Sono gli anni del cosiddetto “best seller all’italiana”, nato sulla scia di due grandi successi editoriali, dovuti entrambi alla casa editrice Feltrinelli, appena fondata: nel 1957 Il dottor Živago dello scrittore russo Boris Pasternàk, l’anno dopo (1958) Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La rivoluzione degli Oscar Nella storia del libro ha un posto rilevante l’ideazione degli “Oscar”: nati nel 1965 dall’intuizione di Alberto Mondadori, gli Oscar sono libri tascabili, inizialmente solo romanzi, a prezzo molto accessibile, che si decide di vendere in edicola. È un successo travolgente: il primo anno gli Oscar, tutti stranieri a cominciare dal primo uscito – Addio alle armi di Hemingway – vendono ben 8 milioni di copie (Ragone). In seguito saranno pubblicati anche classici italiani come I Malavoglia. Il pubblico fu catturato anche dalla copertina accattivante, che ricalcava volutamente i rotocalchi popolari, la paraletteratura, i personaggi noti del cinema. In seguito gli Oscar si diversificarono in varie collane (saggistica, divulgazione scientifica, narrativa, classici ecc.) che nell’insieme raggiunsero ottimi livelli di vendite (negli anni Ottanta metà fatturato della Mondadori proveniva dagli Oscar).

Libri, lettori e lettura

Dagli anni Sessanta a oggi

Parola chiave

Ernest Hemingway con l’editore Arnoldo Mondadori bel 1958.

best seller Il termine inglese best seller (lett. “che vende meglio di tutti”) è entrato nell’uso anche in Italia in seguito ai primi casi di romanzi a grandi tirature (fine anni Cinquanta-primi anni Sessanta). Il fenomeno si ripresenterà, in modo ben più vistoso, con Il nome della rosa (1980) e, più di dieci anni dopo, con Va’ dove ti porta il cuore (1994) di Susanna Tamaro, per citare solo i casi più eclatanti. Recenti sono il best seller Gomorra (2006) del giovane autore Roberto Saviano e L’amica geniale (2011) di Elena Ferrante. Che un libro diventi best seller non è di fatto prevedibile: non c’entrano le qualità stilistiche e neppure la facilità di lettura (Il nome della rosa non è certo una lettura “facile”); magari può aiutare un titolo affascinante e/o

accattivante come nel caso dei romanzi di Eco e della Tamaro. Presumibilmente il best seller va incontro a un bisogno del pubblico, non ancora manifesto, ma pronto a emergere se si incontra con il libro giusto. Una volta trovato, magari per caso, l’autore di successo, l’editoria cerca di sfruttarne la fortuna, ma non sempre ci riesce: Eco ad esempio non riuscirà più a ottenere con i romanzi successivi il successo del primo (lo stesso vale per Tamaro). Al contrario Andrea Camilleri, vero caso editoriale degli ultimi anni, si è mantenuto, romanzo dopo romanzo, ai vertici delle classifiche, probabilmente per la fedeltà del pubblico al personaggio del commissario Montalbano, reso ulteriormente celebre dalla serie televisiva.

Libri, lettori e lettura 643


Libri, lettori e lettura

Il boom della saggistica socio-politica nel Sessantotto Con il Sessantotto si arresta, in relazione alla forte politicizzazione della cultura, la produzione di romanzi. La grande editoria è duramente contestata come “capitalista”, mentre è il momento d’oro delle case editrici dichiaratamente di sinistra (da Feltrinelli a Editori Riuniti) e si affermano piccoli editori “alternativi”. Esplode la saggistica politico-sociologica con punte di vendite incredibili per il genere: L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse (➜ D9 ), il libro-culto che prepara la rivolta del Sessantotto, vende nel 1967 ben 150.000 copie; addirittura mezzo milione di copie Dalla parte delle bambine, saggio femminista di Elena Gianini Belotti. Dal libro d’autore al libro d’editore Già negli anni Ottanta si verifica un crescente processo di concentrazione, per cui le più grandi case editrici inglobano via via altre case minori o che si trovano in difficoltà (la stessa, gloriosa Einaudi è assorbita da Mondadori). Inoltre la produzione libraria non è più un settore a sé, ma fa parte di un potente sistema integrato di comunicazione, articolato in diversi ambiti (Rai e TV, cinema, editoria), sempre più collegati tra di loro e organizzati in modo industriale in un colossale business: ciò comporta il perseguire logiche prettamente consumistiche, nell’obiettivo di realizzare il massimo profitto anche attraverso un massiccio condizionamento del pubblico. Nelle case editrici, al consulente-intellettuale, che orientava le scelte editoriali con criteri di gusto soprattutto estetico e comunque valoriale, si sostituisce il manager, che segue esclusivamente le leggi del marketing: dal “libro d’autore” si passa così al “libro d’editore”, in cui strategie puramente commerciali di vendita vanno spesso a scapito della qualità dei libri immessi sul mercato. Alla ricerca del lettore perduto: tanti libri, libri sempre nuovi Le strategie editoriali prevedono ormai tempi brevi, in una visione sostanzialmente consumistica del libro, che tende sempre più a essere un instant book: persino i best seller sono presenti in libreria per un tempo sempre più breve. Nel tentativo di catturare un pubblico sempre più frettoloso e distratto, si cerca di lanciare continuamente autori esordienti, per lo più giovani, nella speranza di incontrare il successo.

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Alla novità a tutti i costi si affianca la quantità: una vera e propria «Babele» (Petrucci) di libri invade quotidianamente il mercato, nella deliberata rinuncia dell’editoria a qualsiasi criterio discriminante: saggi filosofici o linguistici si mescolano a testi di cucina e giardinaggio, a libri sul benessere. La saggistica legata al privato attrae i lettori (il pubblico è ormai molto livellato) molto più della stessa narrativa. In quest’ultima si privilegiano romanzi fondati sull’intreccio e su facili emozioni, molto spesso stranieri: la produzione italiana ha perso appeal rispetto alla narrativa straniera, i cui titoli, per la globalizzazione del mercato, sostenuti da massicce campagne pubblicitarie, invadono le librerie italiane. Il libro come merce e oggetto di consumo La sorte consumistica del libro è sancita anche dalle modalità attuali della sua vendita: vanno scomparendo le piccole librerie, spesso di grande tradizione, che guidavano il lettore nella scelta del libro, sostituite dalle librerie-self service (antesignana la Feltrinelli), o addirittura (per le ultime novità) dai centri commerciali, in cui il libro è merce esattamente come la scatola di pomodori. Scrivere e leggere nell’era digitale La diffusione dell’uso del computer, e in seguito l’avvento di Internet, hanno cambiato l’esperienza della scrittura e della lettura in modo forse ancora più radicale dell’avvento della stampa. Per quanto riguarda la scrittura, la particolare leggerezza dei tasti del computer ha prodotto una scrittura (e probabilmente anche un’ideazione) enormemente più veloce rispetto alla macchina per scrivere, ma soprattutto la stesura al computer ha reso il testo metamorfico, fluido, in ogni momento trasformabile in modo rapido (copia e incolla): la condizione in un certo senso a lungo virtuale del testo ne modifica profondamente la percezione e la natura stessa. Inoltre, se immesso in rete, se caricato, ogni testo può di fatto entrare a far parte di una catena di testi potenzialmente illimitata, può interagire con altri testi e magari essere trasformato dagli interventi altrui in una sorta di “scrittura collettiva”: ne risulta infranto il principio che da secoli collega un testo all’indiscussa paternità di un autore. Ma anche i modi di leggere hanno subito (e continuano a subire) trasformazioni epocali. Già la lettura sullo schermo del computer comporta di per sé uno sconvolgimento percettivo di straordinaria portata: nella lettura di una pagina al computer viene infatti meno la percezione della “materialità” del libro, «l’immagine immediata della totalità dell’opera, resa visibile dall’oggetto che la contiene» (Chartier). Oggi inoltre, attraverso la navigazione in Internet, è sempre più frequente il contatto con prodotti ipertestuali: i link creano una trama (i cui confini non sono immediatamente immaginabili) di percorsi possibili, che inducono il lettore a passare da un testo all’altro, sovvertendo l’abitudine alla lettura lineare e sequenziale a vantaggio di una lettura multidirezionale. A ciò si aggiunge la possibilità di un’utilizzazione simultanea di diversi linguaggi (immagine, fissa e in movimento, testo, musica) che rende ibrida l’operazione di lettura, contaminandola con l’ascolto e la visione. Dal libro cartaceo all’e-book All’interno della rivoluzione digitale si colloca la proposta sempre più incalzante da parte del mercato dell’e-book, che attualmente, in particolare per le opere di narrativa, affianca il libro cartaceo come opzione economicamente più conveniente. Ma, per lo meno in Italia, secondo i dati correnti, l’affermazione dell’e-book, nonostante l’imponente battage pubblicitario che tende a presentare come retrogradi coloro che non lo usano, è molto lenta. Quello che è certo, in un momento ancora transitorio, è che anche in questo caso le abitudini e le modalità di lettura ne risulteranno modificate. Come, non è ancora possibile ipotizzarlo.

Libri, lettori e lettura 645


Arte nel tempo

L’arte del secondo dopoguerra

Gli anni Quaranta, all’indomani della Seconda guerra mondiale, sono gli anni dell’Informale in Europa e dell’Espressionismo astratto negli Stati Uniti, esperienze artistiche accomunate dalla relazione tra il gesto dell’artista e gli effetti del gesto sulla materia dell’opera (un esempio è la tecnica con cui Jackson Pollock faceva gocciolare la pittura su grandi tele sdraiate a terra girandoci intorno con una performatività quasi rituale). Le opere frutto di queste pratiche, come quelle di Fontana sono per lo più astratte – cioè non rappresentano un soggetto riconoscibile – e concrete, in quanto la superficie astratta è una superficie materica. Negli anni Sessanta l’assenza di figurazione delle pratiche Informali si confronta con la forza iconica della Pop Art di Andy Warhol che incarna l’immaginario del consumo occidentale, anticipando e intuendo la centralità che avrebbe avuto la cultura statunitense. Se da un lato la tele lacerate e concrete di Fontana creano un’altra dimensione, le rappresentazioni di Warhol si appiattiscono in una superficie ripetuta all’infinito.

1 C oncetto spaziale. Attese di Lucio Fontana Lucio Fontana (1899-1968), artista italo-argentino inizia a sperimentare sulla lacerazione della tela alla fine degli anni Quaranta, realizzando i primi Tagli alla fine degli anni Cinquanta. I Concetti spaziali. Attese, questo il titolo della serie, sono tele grezze o dipinte sulle quali l’artista opera dei tagli. Il taglio è il punto di arrivo di una riflessione sullo spazio della rappresentazione iniziata alla fine degli anni Quaranta con i primi Concetti spaziali: tele dipinte perforate da buchi disposti a cerchi concentrici o in modo sparso. I Concetti spaziali di Fontana sono un esempio di pratica informale: motore del significato è il gesto dell’artista che incide la materia dell’opera. L’opera non rappresenta, ma è. Attraverso l’azione del taglio Fontana sembra risolvere la problematica della pro-

fondità iniziata con le sperimentazioni prospettiche dell’arte rinascimentale: la superficie del dipinto che veniva illusionisticamente sfondata ricreando la percezione della tridimensionalità diventa ora effettivamente tridimensionale. Con un unico e minimale gesto Fontana annulla il confine tra pittura e scultura: la tela non è più nascosta dalla pittura ma diviene essa stessa dimensione che va al di là, puro concetto di spazio, attraversata dallo spazio che occupa. Nel Manifesto dello Spazialismo del 1948 Fontana scriveva: «Noi pensiamo di svincolare l’arte dalla materia». L’opera-gesto di Lucio Fontana fa da ponte tra il ready-made di Duchamp e l’arte concettuale degli anni Settanta: incarna una pratica in cui il fare arte diviene fare estetico, rifuggendo la figurazione.

Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1959 (Collezione privata).

646 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


2 Gold Marilyn

Monroe di Andy Warhol

Negli anni Sessanta Andy Warhol trova negli oggetti di consumo e nei personaggi famosi gli elementi di una nuova mitologia, di un lessico comune decifrabile da tutti e inizia le prime serie pittoriche in cui protagonisti sono bottiglie di Coca-Cola, Zuppe Campbell, dollari. Nel 1962, anno della morte della diva, realizza l’opera Gold Marilyn Monroe, una tela di 2 metri in cui il volto di Marilyn Monroe è serigrafato (tecnica, la serigrafia, usata in pubblicità) attraverso la stesura di differenti strati di colore su uno sfondo dorato dipinto ad acrilico. La luminosità dell’oro è un riferimento alla pittura delle icone, così come la frontalità e la resa bidimensionale del volto rappresentato. La riproduzione serigrafata del volto è ottenuta a partire dal ritratto ricavato da un primo piano del film Niagara (1953) utilizzato per la promozione dello stesso. Non è la Marilyn persona quella cercata da Warhol: Warhol è interessato al volto pubblicitario di Marilyn, al suo essere prodotto e immagine di sé stessa.

In tutte le serigrafie che riprodurranno Marilyn Monroe Warhol userà sempre questa stessa fotografia, facendone una superficie riprodotta in serie. Marilyn diventa un’icona, la divinità di una contemporaneità in cui tutto, persona e prodotto, sembrano ricoprire lo stesso ruolo commerciale e assumere il valore di marchio riconoscibile. Warhol era grafico pubblicitario di formazione: l’immagine di un prodotto di consumo può essere

anche interpretata come l’immagine di un’immagine pubblicitaria, così come le Marilyn di Warhol sono riproduzioni di un’immagine. Warhol mette sullo stesso piano il linguaggio pubblicitario con quello dell’arte contemporanea, aprendo una riflessione problematica sulla natura delle immagini e sul loro potere. Nella pratica di Warhol la figura si fa superficie, perde di profondità e di unicità.

Andy Warhol, Gold Marilyn Monroe, inchiostro serigrafico e acrilico su tela, 1962 (MOMA, New York).

Arte nel tempo 647


Arte nel tempo

Il secondo Novecento L’epoca della Guerra fredda

Il secondo Novecento è caratterizzato fino alla caduta del muro di Berlino del 1989 e al crollo dell’Unione Sovietica nel 1992 dalla Guerra fredda. In Italia il nuovo modo di vivere diffusosi durante il cosiddetto boom economico trasforma radicalmente il tessuto sociale e produttivo italiano. A questa mutazione sociale fa da sfondo il succedersi di diversi governi eletti che vedono il confrontarsi dei due grandi partiti di massa: la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano. In Occidente gli artisti recuperano i principi espressivi delle Avanguardie Storiche: la sperimentazione dei materiali, la chimera di una libertà assoluta di espressione, l’importanza della progettazione concettuale; espongono i propri lavori in piccole gallerie e spazi indipendenti. L’arte è frutto della volontà espressiva del singolo, che opera indipendentemente dai confini del proprio stato. In questi anni, nonostante il tentativo di tanti artisti di realizzare opere effimere e non oggettuali, quindi non vendibili, si struttura il sistema del mercato dell’arte che vede come primi contesti geografici di riferimento soprattutto l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone. Le opere d’arte (o le loro tracce) vengono acquistate da collezionisti o istituzioni.

3 Gli anni Settanta: il corpo di Marina Abramović

e gli impacchettamenti di Christo

La fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta comprendono un periodo in cui si diffondono una serie di pratiche di sperimentazione accomunate da un generale (anche se non sempre vero) rifiuto della pittura e della scultura tradizionali, alla ricerca di linguaggi di espressione poveri, extra-artistici ed effimeri. Nascono la perfomance art, la land art, l’arte concettuale, il minimalismo… linguaggi che intersecano le ideologie politiche e la necessità di trovare nuove vie espressive e nuovi modi di innescare e condividere lo spazio artistico. Le prime performance di Marina Abramović (1946) 1 2 si collocano in questo contesto e contribuiscono all’origine di questo nuovo linguaggio basato sulla presenza e sulla significanza del corpo dell’artista. Nel 1974 nella galleria napoletana Studio Morra la Abramović allestisce un tavolo coperto da una tovaglia bianca su cui sono disposti diversi oggetti, tra cui delle

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forbici, una rosa e una pistola. Questi oggetti potevano essere usati dal pubblico sul corpo dell’artista stessa che per sei ore si sarebbe messa nelle mani di coloro disposti a condividere questa esperienza, accettando qualsiasi cosa avrebbero deciso di fare con la sua persona. È risaputo di come durante questa performance alcune persone si sentirono legittimate a compiere azioni violente sul corpo della Abramović, fino a quando uno dei fruitori prese in mano la pistola, gesto che mise fine all’azione. Nella performance art l’opera diviene esperienza immersiva effimera, non è più una rappresentazione da guardare, ma è uno spazio da vivere legato a un tempo ben preciso in cui l’azione e il corpo dell’artista danno forma al significato. La fotografia resta spesso unica traccia di queste esperienze. Se nella performance e nelle esperienze di Body art è il corpo al centro delle sperimentazioni, nella Land

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art è l’ambiente, sia esso urbano o naturale. L’artista francese Christo è stato uno dei maggiori esponenti di questa corrente caratterizzata dalla progettazione e realizzazione di installazioni collocate nel paesaggio atte a risignificarlo. Le opere di Land art escono dagli spazi espositivi per invadere quelli quotidiani e reali. Dalla fine degli anni Sessanta i coniugi Christo e Jeanne-Claude progettano opere in cui avvolgono con ampi teli monumenti o infrastrutture urbane, con il fine di “impacchettarle” nascondendole alla vista 3 . Nel 1970 è il monumento dedicato a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo a Milano a essere imballato. Questa operazione non può non evocare l’Enigme d’Isidore Ducasse di Man Ray, un ready-made del fotografo surrealista in cui una macchina da cucire e un ombrello erano assemblati e nascosti da un telo di peltro. Come gli oggetti dell’opera di Man Ray, i monumenti di Christo affermano la loro presenza proprio perché

celati alla vista: mentre il telo li copre, ne evidenzia il volume disegnando le pieghe come fosse un panneggio marmoreo e, tracciando i confini architettonici delle forme, suscita un effetto di interrogativa e sorpresa curiosità. 3

4 Gli anni Ottanta e la nascita dell’Arte relazionale Negli anni Ottanta, se da un lato si consolidano le pratiche emerse durante la sperimentazione degli anni Settanta, dall’altro molti artisti tornano alla figurazione e alla rappresentazione pittorica, scultorea, fotografica. La fotografia e il video sono ormai linguaggi che fanno parte delle pratiche degli artisti e del mercato dell’arte, sempre più internazionale. In questo decennio alcuni artisti e artiste iniziano a coinvolgere persone e comunità nella creazione di opere che vengono a configurarsi come processi collettivi. In parte un’evoluzione della performatività degli anni Sessanta e Settanta, questo nuovo linguaggio ha la caratteristica di costruire l’opera in modo partecipato e di mettere in moto delle relazioni: in Italia, in un piccolo paesino della Sardegna, viene praticato per la prima volta. L’artista Maria Lai (1919-2013) 4 5 , originaria di Ulassai e qui tornata a vivere dopo gli anni di studio e di prima sperimentazione, aveva ricevuto la committenza di creare un monumento ai caduti della Prima guerra mondiale per il suo paese. Lai, rifiutandosi di realizzare un’opera scultorea, coinvolse gli abitanti di Ulassai in un’azione collettiva che si ispirava a un’antica leggenda relativa alla storia del paese; secondo 4

questa storia, una casa in cui vivevano delle bambine fu investita da un costolone staccatosi dalla montagna: l’unica bambina che si salvò teneva in mano un nastro celeste al momento di riemergere dalle macerie. Questa memoria di resistenza diventa il motore per un’azione estetica: l’8 settembre 1981, nonostante le iniziali riserve, gli abitanti di Ulassai legarono tutte le porte del paese una all’altra con 27 km di nastro azzurro che fu poi fissato alla montagna. Alla staticità del monumento si sostituisce un’operazione collettiva che si sviluppa nel tempo dell’organizzazione ma legata a un tempo di esecuzione limitato, significativa per chi la compie, prodotta dal fruitore che viene ingaggiato in prima persona. In questo caso, era tesa a lavorare sulle relazioni tra gli abitanti del paese: inizialmente le persone si rifiutarono di partecipare a causa dei conflitti tra le famiglie e Lai dovette negoziare, fino ad arrivare al compromesso che il tipo di nastro che passava tra una casa e l’altra sarebbe dipeso dal tipo di legame tra le persone, amore o distanza. Legarsi alla montagna fu la prima opera costruita attraverso la partecipazione e l’azione delle persone, e diede origine a quella che poi sarà definita Arte relazionale. 5

Arte nel tempo 649


Dal boom economico ai giorni nostri Scenari socio-culturali

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

«Consumo, dunque sono»: massificazione e consumismo I consumi di massa, che si affermano a partire dagli anni Cinquanta, si basano sui medesimi meccanismi psicologici dei regimi totalitari. Il consumismo si afferma in America; e con il piano Marshall, gli Stati Uniti diffondono progressivamente anche l’American Way of Life. Nella nuova società il consumare ha un ruolo primario e la visione imperante è quella edonistica. Il concetto di felicità che vi sta al centro, però, consiste non nella realizzazione dei desideri, ma nella loro mancata soddisfazione, alimentata per produrre sempre nuovi consumi: l’iperproduzione di merci non durevoli è centrale. Fondamentale strumento del sistema è la pubblicità che, grazie alla televisione, esercita un condizionamento capillare. Oltre a illustrare un prodotto, essa inizia anche a proporre multimedialmente modelli di vita e di comportamento: trasformazione che non passa inosservata agli intellettuali. Il modello consumistico coinvolge tutte le classi sociali e le età, assumendo agli occhi dei critici i caratteri di una pseudo-religione. La società dei rifiuti: l’altro volto dei consumi L’economia consumistica si fonda sull’acquisto compulsivo dei beni come surrogato della felicità e sulla cosiddetta “cultura dello scarto”, cioè sulla loro rapida sostituzione: un ciclo che causa l’accumulazione dei rifiuti e pone il problema del loro smaltimento. Le conseguenze negative di tale dinamica sono diventate sempre più evidenti negli ultimi decenni, favorendo l’emersione di una coscienza ecologica. Le iniziative internazionali finalizzate a trovare una soluzione sembrano essere servite a poco; di fatto, solo lo sviluppo tecnologico e la limitazione dei consumi possono risolvere – o almeno non aggravare – la crisi; ma questa ultima soluzione è ostacolata sia dai paesi del Nord che da quelli del Sud del mondo, che vogliono mantenere o accedere al massimo grado al benessere materiale. Dalla televisione a Internet: l’immaginario mediatico Le trasmissioni televisive italiane iniziano il 3 gennaio 1954; in poco tempo la televisione conosce una diffusione esponenziale. L’effetto è inizialmente positivo: informazione e alfabetizzazione si diffondono anche tra i ceti più bassi e si iniziano progetti di divulgazione culturale. La storia della televisione conosce una svolta quando, nel 1976, nasce la televisione commerciale; dai primi anni Ottanta si parla, non a caso, di “neotelevisione” per alludere a nuovi linguaggi con i quali intendere e fare televisione: l’audience, che aiuta a determinare gli investimenti pubblicitari, spinge le nuove reti a prescindere spesso dal livello dei contenuti pur di compiacere i gusti del pubblico e a programmare sempre più pubblicità. In generale, negli ultimi anni è venuto in primo piano il settore della comunicazione: computer, cellulare e Internet hanno modificato la mentalità, le abitudini di vita e soprattutto gli stili percettivo-cognitivi di milioni di persone e in particolare delle giovani generazioni.

650 Il Novecento (Seconda parte) Scenari socio-culturali


La massa di informazioni così diffuse consente da un lato una democratizzazione del sapere ma, dall’altro, lo fa senza criteri di discernimento tra informazioni più o meno accreditate. Inoltre la percezione multisensoriale e simultanea di più informazioni, tipica di Internet, è destinata a produrre nel tempo la fine di una visione logico-sequenziale. Lo spazio e il tempo Le possibilità offerte dalla Rete hanno ampliato la conoscenza del mondo in modi inimmaginabili anche solo pochi anni fa. Anche le distanze fisiche sono realmente raggiungibili in tempi abbastanza rapidi e a prezzi abbordabili; anche se il viaggio, spesso organizzato, consente ormai un incontro con l’altro solo mediato. Gli spazi dove ci si trova a transitare in modo temporaneo nel frattempo sono stati definiti non luoghi, vista la sospensione, vissuta dagli utenti, del senso delle coordinate spaziotemporali e la loro perdita d’identità conseguente. La società contemporanea è contraddistinta, inoltre, da una particolare visione del tempo che è stata definita nowist culture, “cultura dell’adesso”: il tempo è “puntiforme”, frammentato, non più ciclico o lineare, una serie di “inizi” presto superati da nuovi “inizi”. La cultura, dunque, pensa sempre a breve termine, senza prospettiva futura o sguardo sul passato, e si adegua al ritmo forsennato imposto dall’economia consumistica e dagli sviluppi tecnologici. Gli intellettuali dal boom alla crisi attuale di un ruolo e di una identità A seguito di tutti questi cambiamenti, gli intellettuali assumono una nuova fisionomia e nuovi ruoli. Nessuno di loro elabora più modelli ideologici capaci di incidere sulla società e molti entrano invece nel campo delle relazioni pubbliche o nella “macchina culturale” (TV, cinema, giornalismo). La televisione, però, nonostante un effettivo intento divulgativo durato per tutti gli anni Sessanta, continua nei primi periodi a incontrare diffidenza o addirittura un’aperta condanna da parte di alcuni di essi (in particolare da Moravia e Pasolini). Negli ultimi tempi, al contrario, per guadagnare prestigio le trasmissioni ospitano volti noti del mondo culturale, trasformandone alcuni in veri e propri personaggi televisivi. Dagli anni Ottanta, gli intellettuali hanno progressivamente abbandonato la riflessione sui grandi temi sociali e politici, finendo sempre più assorbiti dal mercato: non è casuale la scomparsa delle riviste che ospitavano il dibattito culturale. I nuovi esponenti della categoria non si espongono più su di esse ma lavorano sul web e per il web. Tutto ciò ha acuito il provincialismo e la diffusa mancanza di spirito critico e di senso civico già presenti: sarebbe necessario un rilancio del ruolo, l’arrivo di nuovi intellettuali-guida, attraverso il confronto con i temi centrali del XXI secolo.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

La critica al modello consumistico La società dei consumi riesce ad assorbire ogni forma di dissenso, allettando il singolo con sempre nuove offerte di consumo. Non a caso, le critiche a questo modello sono state formulate solo nei primi tempi della sua storia, negli anni Quaranta-Cinquanta, a opera della Scuola di Francoforte. Solo con il movimento del Sessantotto, però, la discussione sulla società arriva al grande pubblico. Il libro-culto di quella generazione è il saggio di Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione (1964), secondo il quale la società di massa, grazie ai mezzi di cui dispone, realizza una totale “integrazione” dell’individuo, privandolo della possibilità di opporsi. Dallo Strutturalismo all’Ermeneutica Negli anni Sessanta si diffonde lo Strutturalismo, movimento che teorizza che anche per le scienze umane sia possibile una conoscenza e rappresentazione dei fenomeni umani oggettiva, come quella delle scienze della natura. Il metodo è ereditato dalla linguistica strutturale e tra le più rilevanti conquiste si ricorda la fondazione dell’antropologia strutturale, che aveva individuato alcune costanti presenti in ogni cultura umana da utilizzare anche per lo studio di quella contemporanea.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 651


In Italia, lo Strutturalismo si diffonde soprattutto nell’ambito della critica letteraria: dei testi non si danno giudizi di valore ma si ricerca la “letterarietà”, risultato degli specifici rapporti fra i diversi livelli di cui essi sono formati. Dallo Strutturalismo si sviluppa poi la semiotica, lo studio di aspetti culturali considerati come “sistemi di segni”. Verso gli anni Ottanta emergono nuovi modelli filosofici, tra i quali l’Ermeneutica, che nega la possibilità di raggiungere verità assolute e identifica l’unica forma di conoscenza possibile nell’atto interpretativo, interazione tra chi interpreta un testo o un evento e la tradizione precedente. Il concetto di “postmoderno” e il “pensiero debole” Il termine “postmoderno” nelle scienze umane si afferma solo all’inizio degli anni Ottanta e designa le tendenze evolutive delle società avanzate e gli indirizzi di pensiero che ne derivano. Tramontati i grandi sistemi ideologici, rimane solo un sostanziale eclettismo filosofico e la focalizzazione su temi e obiettivi di portata limitata. Alcuni intellettuali hanno visto in ciò delle nuove opportunità per il pensiero e la civiltà: sviluppo del postmoderno è il “pensiero debole”, secondo cui non è più possibile pensare di opporre alla crisi della verità una nuova verità, perché la crisi ha ormai inficiato il concetto stesso di verità; bisogna dunque concepire il vero come frutto di molteplici interpretazioni e rinunciare a ogni categorizzazione o assolutizzazione.

3 Il dibattito sui modelli di comportamento e i generi letterari

Un momento chiave nell’evoluzione dei modelli comportamentali: il Sessantotto A partire dagli anni Cinquanta, si forma una cultura giovanile internazionale con forti tratti di omogeneità: anche gli obiettivi polemici contro cui si protesta nel Sessantotto sono gli stessi. All’inizio il dissenso giovanile si manifesta essenzialmente come fatto di costume, seppur già rifiutando i valori consumistici borghesi. Il Sessantotto è stato invece caratterizzato da una radicale contestazione: alla fuga dalla realtà si sostituisce l’impegno politico attivo, che tende a coinvolgere ogni aspetto della realtà e a far prevalere la dimensione collettiva su quella individuale Si contesta il sistema capitalistico e l’America, la guerra del Vietnam, i partiti istituzionali, le istituzioni autoritarie (famiglia, scuola, stato) e la retriva morale sessuale.

IMMAGINE?

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La scuola tra crisi e nuove sfide educative Durante il fascismo, la scuola serve a indottrinare la popolazione. Solo all’inizio degli anni Sessanta, essa cambia, tra molte difficoltà, con la scuola media unica, nata per assicurare una formazione omogenea di base alla popolazione. In quegli anni, però, diviene celebre l’opera Lettera a una professoressa, di don Lorenzo Milani, che ne evidenzia i tratti di selettività, colpevoli di emarginare i più svantaggiati: critiche poi riprese e precisate, per tutte le tipologie di percorso d’istruzione, dal movimento del Sessantotto. Negli anni Ottanta, poi, la scuola conosce una progressiva crisi di identità: di fronte all’esaltazione del successo economico e professionale, il mestiere di insegnante perde via via prestigio e anche la cultura tradizionale perde attrattività a paragone di saperi più “moderni”. Si pensa che la soluzione a tutto questo possa venire da una nuova considerazione del docente come individuo in grado di trasmettere conoscenza ma soprattutto di stimolare il desiderio di sapere. Dagli anni Ottanta a oggi. I comportamenti nell’era digitale Gli anni Ottanta, all’opposto dei Sessanta, sono gli anni della prevalenza del privato sul collettivo: dilaga il culto del successo personale ed economico e si attenua l’antagonismo generazionale. Anche in anni più recenti si rileva l’abbandono delle “cause comuni” e la loro sostituzione con una socialità sporadica. La generazione contemporanea è digitale, nata e cresciuta con nuove tecnologie e media, ed è abituata a ricreare l’esperienza comunitaria condividendo tramite i social network questi momenti di vita personale. I generi letterari Negli anni Cinquanta e Sessanta si consolida l’industria culturale e si espandono ulteriormente l’editoria e il mercato dei libri. La nascita di un pubblico di massa stimola la moltiplicazione di generi e sottogeneri letterari, ciascuno con le proprie convenzioni, e fa cadere la differenziazione tra letteratura colta e letteratura di genere. In narrativa si possono individuare quattro macrogeneri: romanzo, racconto, saggio e reportage narrativo, cui si possono aggiungere il successo della letteratura di non-fiction e i prodotti di genere ibrido.

4 L’evoluzione della lingua

La progressiva affermazione di una lingua parlata comune Nei decenni che seguono la Seconda guerra mondiale è l’italiano parlato che dimostra maggior dinamismo e che va rafforzandosi rispetto alla lingua scritta. Dagli anni Sessanta – grazie a scolarizzazione, urbanizzazione ed emigrazione – sempre più italiani ricorrono all’italiano anche per la conversazione quotidiana: inizia a formarsi l’italiano standard. I veri protagonisti di questa rivoluzione, però, sono i mass media: la nuova lingua comune deriva dal linguaggio televisivo. I dialetti, comunque, non scompaiono, ma sono limitati all’ambito familiare o a particolari contesti comunicativi: in poesia e narrativa, ad esempio, rispettivamente Pasolini e Meneghello ne fanno un uso letterario. Due celebri interventi a proposito della “nuova questione della lingua”: Pasolini vs Calvino La cosiddetta “questione della lingua” riemerge nel 1964, quando Pasolini, constatando la crisi dei dialetti e la nascita dell’italiano come lingua nazionale, ne lamenta la natura prettamente tecnologica, frutto dell’affermazione della borghesia capitalistica del Nord. Tra le tante voci che intervengono in risposta, significativa è quella di Italo Calvino, che invece vede nel nuovo idioma non un apporto eccessivo di termini tecnici, bensì il persistente influsso negativo dell’“antilingua”, cioè della lingua burocratico-giuridica e, più in generale, della lingua aulica.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 653


Oggi continua la preoccupazione per la salute dell’italiano, per la perdita delle competenze linguistiche da parte dei giovani e per l’avanzata dell’inglese, che rischia di relegare in una posizione marginale l’italiano per quanto riguarda alcuni ambiti culturali. L’italiano oggi L’italiano di oggi, definito neostandard, presenta forti diversità rispetto al passato anche recente. Le principali linee di tendenza sono: la sempre maggiore semplificazione, l’informalità, il marcato avvicinamento tra scritto e parlato, il sostanziale abbassamento, anche dovuto alla forte influenza della scrittura digitata. Ciò rappresenta la conseguenza dell’avvento della telematica, che produce un incremento dei testi scritti, seppur differenti da quelli tradizionali: la lingua in questo caso è veloce, franta, non controllata e si allarga anche ad altre situazioni comunicative che richiederebbero invece maggior controllo. Esiste ancora la lingua letteraria? Dall’avvicinamento tra la lingua colta e quella corrente deriva la difficoltà a individuare scrittori di qualità e una lingua letteraria. L’ultimo momento creativo si è osservato con l’estremizzazione del linguaggio dei giovani operata dalla letteratura generazionale (Tondelli e i “cannibali”). Interessante è anche la prosa di Andrea Camilleri, che attinge alle potenzialità del dialetto per creare uno stile originale, fortemente espressivo ma allo stesso tempo comprensibile ai lettori.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Spiega oralmente (max 3 minuti) per quali aspetti i “non luoghi” portano allo smarrimento delle coordinate spazio-temporali e dello stesso senso d’identità.

Scrittura

2. Il modello della società consumistica è stato oggetto di critica da più parti e secondo diverse prospettive: in un testo di circa 20 righe sintetizza i temi comuni evidenziando quelli che ritieni più incisivi.

Sintesi

3. Sintetizza in uno schema le svolte fondamentali della scuola italiana durante il Novecento, indicandone le date e i contenuti.

Esposizione orale

4. In un intervento orale di circa 5 minuti, individua i temi principali della contestazione del Sessantotto e illustra quale ne è stata l’eredità sul piano del costume e nei modelli di comportamento. 5. Illustra brevemente come, dal progetto di un consumo di massa della letteratura, si è passati al modello consumistico anche nella letteratura (max 3 minuti).

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Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

12 La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia

Agli inizi degli anni Sessanta si afferma in Italia un vero e proprio movimento letterario di carattere sperimentale (l’ultimo dotato di una coesione e volontà programmatica) che si è autodefinito “Neoavanguardia”. L’atto di nascita del movimento coincide con il Gruppo 63. L’etichetta rimanda alle avanguardie che si erano sviluppate nel primo Novecento in Italia e ad esse la “nuova avanguardia” si ricollega, in parte, per l’azione di rottura che intende svolgere. Nei medesimi anni si afferma anche una voce autonoma rispetto alla “Neoavanguardia”: è la voce di un intellettuale, Leonardo Sciascia, che rimane fedele all’impegno civile.

1 Sperimentalismo e Neoavanguardia 655


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Sperimentalismo e Neoavanguardia fine dell’esperienza neorealista 1 La e lo sperimentalismo della Neoavanguardia La stagione dello sperimentalismo Dopo la metà degli anni Cinquanta l’esperienza neorealista si era ormai conclusa, sia a causa delle difficoltà nel creare un modello convincente di letteratura realista impegnata, sia, e soprattutto, in relazione ai mutamenti della situazione socio-culturale che ben presto resero superato quel modello. Nella società italiana stava iniziando a verificarsi quella che Pasolini avrebbe poi definito, con una formula diventata celeberrima, una vera e propria «mutazione antropologica», determinata dall’incipiente boom economico, destinato a trasformare almeno parte dell’Italia in un paese industriale e moderno. Non solo si modificavano i valori e la mentalità del paese in rapporto al crescente benessere (➜ SCENARI, PAG. 589 ss.), ma si trasformava in modo radicale la fisionomia stessa dell’intellettuale, inglobato in una macchina culturale che tendeva a farne un lavoratore come gli altri al servizio del mercato. Le riviste e la volontà sperimentale Il dibattito sulle riviste, che in questo periodo hanno ancora un ruolo centrale, sottolinea in vario modo la necessità di una letteratura che tenga conto di un contesto nuovo e che superi le secche del neorealismo. Due sono in particolare le riviste che operano in questa direzione: «Officina» (19551959) (➜ PER APPROFONDIRE, Officina PAG. 659) e «Il menabò» (1959-1967) (➜ C13).

2 La Neoavanguardia Il termine e i modelli All’inizio degli anni Sessanta si afferma in Italia un vero e proprio movimento letterario di carattere sperimentale che si è autodefinito “Neoavanguardia”. L’atto di nascita del movimento coincide con la formazione del Gruppo 63, nato appunto nel 1963. Il termine scelto rimanda all’esperienza del Gruppo 47 in Germania, il cui modello di riferimento era l’avanguardia espressionista (ne facevano parte, tra gli altri, grandi scrittori come Heinrich Böll, Gunther Grass, Paul Celan). L’etichetta “Neoavanguardia” rimanda alle avanguardie che si erano sviluppate nel primo Novecento in Italia (il Futurismo) e in Europa (il Dadaismo, l’Espressionismo e in seguito il Surrealismo ➜ VOL 3A C12): a esse la “nuova avanguardia” si ricollega in parte, per l’azione di rottura che intende svolgere. Modelli per la Neoavanguardia sono anche i simbolisti francesi e la poesia di Eliot e Pound. Rispetto alle posizioni di «Officina» e del «Menabò», nella Neoavanguardia il confronto con la realtà del neocapitalismo e con la modernità è più accentuato (il Gruppo 63 polemizza infatti con «Officina») e si traduce nelle scelte radicalmente sperimentali degli autori che in essa si riconobbero.

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Aspetti fondamentali della Neoavanguardia La Neoavanguardia rinuncia agli intenti etico-politici propri della letteratura neorealista e alla prospettiva realista. Assai significativo, già dal titolo provocatorio, è un saggio di Giorgio Manganelli, che nella Neoavanguardia si riconobbe inizialmente: La letteratura come menzogna (➜ D1 ), con evidente contrapposizione alla letteratura-verità che sta alla base del Realismo. La letteratura non è mai riproduzione sincera, è sempre artificio intellettuale. Come già il Futurismo, la Neoavanguardia rifiuta una poesia e una narrativa incentrate sull’io: da qui la dura polemica verso Cassola e Bassani, sprezzantemente definiti dagli aderenti al Gruppo 63 «le Liale degli anni ‘60» (Liala, pseudonimo di Amalia Cambiasi Negretti, era una notissima autrice di romanzi “rosa”). La letteratura deve confrontarsi con la realtà del presente, percepita come caos: per analizzarla non bastano più i rigidi strumenti concettuali del marxismo ortodosso, ma è necessario il sussidio di nuove, più sofisticate, discipline, come la linguistica, la psicoanalisi e le nuove teorie della comunicazione. Il rifiuto della tradizione e la centralità del linguaggio Allo stesso modo, per rappresentare una realtà informe, caotica, non sono adeguate le forme letterarie tradizionali: ne consegue il rifiuto di ogni genere e sottogenere codificato, ma soprattutto la scelta di uno scardinamento delle strutture linguistiche tradizionali, finalizzato a riprodurre il non senso, l’alienazione della società contemporanea (da qui la netta contrapposizione allo sperimentalismo moderato di Pasolini e Fortini, che adottano in poesia un linguaggio prosastico ma tutto sommato tradizionale). Attraverso usi provocatori del linguaggio, la poesia della Neoavanguardia (che in genere è più trasgressiva della prosa) rappresenta e insieme denuncia un mondo dominato dall’inautenticità e dall’incomunicabilità, le cui contraddizioni sono rispecchiate da codici usurati e che possono essere fatte deflagrare proprio attraverso il linguaggio: ad esempio, si elencano e si accumulano senza alcuna

Il Gruppo 63 in una fotografia di una riunione del 1964 a Reggio Emilia. Fra gli altri si riconoscono Edoardo Sanguineti (il terzo da sinistra in basso) e Giorgio Manganelli (il quinto in piedi da sinistra).

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 657


gerarchia oggetti e dettagli, si infrangono i nessi sintattici fino ad arrivare a forme di “parole in libertà”, si valorizza il significante a scapito del significato, si forzano i termini in modo espressionistico, si mescolano termini afferenti a campi diversi (da ambiti ipercolti a lingue straniere al linguaggio dei media). Il romanzo sperimentale o “anti-romanzo” La Neoavanguardia decreta la “morte” del romanzo tradizionale (in cui rientrano i romanzi del Neorealismo ma anche quelli, considerati ancora troppo naturalistici, di Pasolini) e teorizza il romanzo sperimentale o “anti-romanzo”. Nel 1965 si svolse a Palermo un convegno dedicato a questo tema, che teneva conto di testi già pubblicati di carattere sperimentale: importante è anche la lezione di Gadda (proprio nel 1963 esce in volume La cognizione del dolore), che la Neoavanguardia considera un modello a cui guardare, anche per l’ardito plurilinguismo che caratterizza la produzione dello scrittore milanese. Il romanzo sperimentale presuppone l’abbandono dell’intreccio lineare a favore di strutture aperte (ne è evidente esempio il romanzo-fiume Fratelli d’Italia del 1963 di Arbasino ➜ T1 ), l’adozione di prospettive straniate, degradate, a volte oniriche, che già di per sé comportano l’infrazione della coerenza della narrazione (come si può notare già in Capriccio italiano di Sanguineti del 1963 e poi in Il serpente di Malerba, del 1966 ➜ T2 ), la contaminazione di forme diverse di narrazione e prosa saggistica (Hilarotragoedia di Manganelli, 1964), il rifiuto di un approccio di tipo psicologico e di personaggi rispondenti a tipologie tradizionali per dare spazio, come nel nouveau roman, spesso nominato come modello (➜ PER APPROFONDIRE Un modello di riferimento: il nouveau roman e l’école du regard), a una registrazione oggettiva di ambienti, oggetti, eventi, osservati con uno sguardo impersonale. Narratori sperimentali nella Neoavanguardia e oltre A differenza della poesia, nell’ambito della narrativa è difficile tracciare un quadro preciso delle opere ascrivibili alla Neoavanguardia: anche in termini cronologici i confini non sono così netti, perché la tendenza sperimentale sopravvive alla fine del movimento. Alcuni autori vi appartengono propriamente, come Sanguineti (di cui si è già ricordato Capriccio italiano) o Balestrini (Vogliamo tutto, 1971); altri – come Arbasino, Malerba e Manganelli – si accostano alla Neoavanguardia con una propria identità; per altri ancora, quella dell’avanguardia è solo una fase transitoria (è il caso di Comiche e in parte delle Avventure di Guizzardi, di Gianni Celati (➜ T3 OL). Anche a prescindere dall’adesione alla Neoavanguardia, vi sono romanzi in cui si manifesta una tendenza sperimentale: ne è un esempio Memoriale di Paolo Volponi (1962), in cui la narrazione è filtrata dal punto di vista allucinato di un nevrotico (➜ C13). Valerio Adami, L’idée fixe/Programme, 1965 circa.

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PER APPROFONDIRE

Tappe e pietre miliari della Neoavanguardia Queste sono le tappe che segnano la breve storia della Neoavanguardia, a partire dalle esperienze che ne preparano l’avvento. 1956 – Nasce la rivista «il Verri» A Bologna viene fondata da Luciano Anceschi la rivista «il Verri», i cui teorici sono Angelo Guglielmi e Renato Barilli, poi figure di spicco della Neoavanguardia. Collaboratori sono Sanguineti, Giuliani e altri futuri scrittori dell’avanguardia, di cui «il Verri» costituisce in un certo senso il laboratorio embrionale. Interessata alla sperimentazione, soprattutto in campo poetico, la rivista si qualifica anche per l’apertura interdisciplinare a campi del sapere che ancora erano poco conosciuti in Italia: oltre alla psicoanalisi, si parla di linguistica, antropologia e fenomenologia del filosofo Husserl, che indaga sui fondamenti del sapere (➜ SCENARI, PAG. 615). 1956 – Laborintus di Sanguineti Laborintus è una sorta di poema al di fuori di ogni schema tradizionale. L’autore, Edoardo Sanguineti, uno dei padri e degli autori più rappresentativi della Neoavanguardia, sceglie di infrangere ogni schema non solo strutturale, ma anche logico. Nel testo si svolge un monologo «pullulante di oggetti, liquami, dati eruditi, citazioni, esclamazioni appassionate, ironiche o beffarde» (Ferroni). L’autore utilizza un plurilinguismo esasperato che suscitò sconcerto fra i lettori e nella critica. 1961 – I Novissimi Esce l’antologia I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, curata da Alfredo Giuliani, che vi prepone un’importante Introduzione (a cui seguirà una Prefazione nell’edizione successiva del 1965). L’antologia costituisce l’atto di

fondazione della poesia sperimentale: contiene testi poetici dello stesso Giuliani, di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e Elio Pagliarani. Il termine novissimi allude alla svolta fortemente innovativa che in campo poetico era prospettata nell’antologia (e forse anche ai poetae novi che nell’età di Cesare, cioè I secolo a.C., introdussero nella cultura latina una nuova idea di poesia). 1962 – Opera aperta di Eco Nel saggio Opera aperta, Eco teorizza la «significatività aperta» dell’opera d’arte: i significati di un testo non esistono in sé, fissati una volta per tutte, ma si definiscono in rapporto ai diversi processi comunicativi con cui l’opera si trova a interagire. 1963 – La costituzione del Gruppo 63 A Palermo si riuniscono poeti e scrittori per discutere sulla letteratura e la sua funzione nel tempo moderno. La radicalità polemica degli interventi fa del convegno l’atto di nascita di un gruppo d’avanguardia con una sua forte identità, al di là dell’eterogeneità dei singoli scrittori, che si autodefinisce Gruppo 63. 1967-1969 – «Quindici» Nel 1967 nasce la rivista «Quindici», ultima occasione per il Gruppo 63 di mantenere in vita un progetto comune, al di là dei dissensi che nel frattempo si erano manifestati. L’esperienza durerà poco e la chiusura della rivista segna anche lo scioglimento del gruppo: il Sessantotto, con la sua attualità impellente, aveva creato una divisione insanabile tra chi aderiva alla politicizzazione, arrivando a negare la specificità della letteratura, e chi ne difendeva comunque l’autonomia.

Un modello di riferimento: il nouveau roman e l’école du regard L’école du regard (“La scuola dello sguardo”) è una corrente letteraria che si afferma in Francia negli anni Cinquanta e che ha dato vita a una forma sperimentale di romanzo: il nouveau roman, “il nuovo romanzo” che si sviluppa dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta. Ne sono esponenti principali Alain Robbe-Grillet (1922-2008), Michel Butor (1926) e Nathalie Sarraute (1900-1999). È Robbe-Grillet ad averne teorizzato con più lucidità i principi nella serie di saggi poi raccolti con il titolo Per un nuovo romanzo (1963). Secondo Robbe-Grillet, il narratore non deve più esprimere la propria soggettività ma deve ridursi a puro “sguardo”, limitandosi a registrare e descrivere in modo impassibile – come una macchina da presa o un obiettivo fotografico – gli oggetti, gli eventi, le figure (ridotte a serie di gesti) che entrano nel suo campo visivo. La registrazione dell’oggetto non rispetta alcuna gerarchia tra cose o persone,

e allo stesso modo la descrizione rimane impersonale, sempre uguale, senza mutamenti di tono o inflessioni soggettive (dietro tale tecnica narrativa si intravede una visione del mondo in cui si è persa non solo la fede in un principio superiore ma persino la fiducia che esista un ordine del reale). Robbe-Grillet sarà anche sceneggiatore nell’enigmatico film di Alain Resnais L’anno scorso a Marienbad (1961) e negli anni successivi sceglierà la regia cinematografica come campo elettivo di azione, coerentemente con l’adozione di una “poetica dello sguardo”. Il nouveau roman porta in primo piano la condizione di alienazione dell’uomo nella moderna società industriale e contribuisce a diffondere «una narrativa che parla di sé stessa, che esibisce i propri meccanismi e le proprie strutture, che sembra occuparsi più delle cose che dell’uomo» (Ferroni).

«Officina» «Officina» nasce a Bologna nel 1955 come rivista di poesia: ne sono redattori fissi Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi e in seguito Franco Fortini e altri. Pur rimanendo legata al pensiero marxista, la rivista prende le distanze dalla stagione dell’“impegno” e fin dal titolo si propone di costituire un “laboratorio” alla ricerca di nuove forme. In ambito poetico la rivista auspica una ricerca stilistica sperimentale che vada oltre il Neorealismo ma anche l’Er-

metismo, senza però rinunciare alla funzione comunicativa della poesia. Pasolini, in particolare, come testimonia la sua produzione, crede ancora in un ruolo “forte” e propositivo del poeta, immaginato come ideologo o addirittura profeta, capace di esercitare una funzione critica nella società e di contribuire all’avanzamento “progressivo” della storia. Su questa visione pasoliniana interverrà sulla rivista, in modo ferocemente polemico, Edoardo Sanguineti, che sarà il più rappresentativo poeta della Neoavanguardia.

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Arbasino e Malerba: 3 Manganelli, narratori della Neoavanguardia con una propria identità

Giorgio Manganelli.

Giorgio Manganelli: la biografia Giorgio Manganelli (Milano 1922 - Roma 1990) è stato un critico letterario e docente universitario di letteratura inglese. Negli anni Sessanta si avvicina alla Neoavanguardia, proponendo al convegno che vede la nascita del Gruppo 63 il saggio La letteratura come menzogna (poi titolo di una raccolta saggistica pubblicata nel 1967). Testo esemplificativo della critica al romanzo tradizionale propria della corrente è il monologo narrativo Hilarotragoedia (1964), «discesa in uno stralunato inferno pedantesco e maccheronico» (Ferroni), in cui la raffinatezza virtuosistica dello stile si associa a un discorso che talvolta diventa vaniloquio voluto, per spiazzare le attese del lettore e smascherare le verità codificate. Segue, sempre nell’ambito della Neoavanguardia, Nuovo commento (1969), opera iperintellettualistica strutturata come commento a un’opera che non esiste. Uno spirito calviniano aleggia nei sei racconti Agli dei ulteriori (1972) e nella raccolta Centuria (1979), cento microstorie paradossalmente definite dall’autore «romanzi fiume», sorta di biblioteca fantastico-surreale dei “possibili narrativi” in cui si avverte la suggestione del grande scrittore Luis Borges. Postumo esce La palude definitiva (1991). Numerosi sono i suoi articoli giornalistici, poi confluiti in varie raccolte, che ne testimoniano la natura di intellettuale sofisticato e distaccato rispetto al mondo contemporaneo.

Giorgio Manganelli

D1

Una definizione provocatoria di letteratura La letteratura come menzogna

G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1987

Nel passo proposto, Giorgio Manganelli rovescia in modo volutamente provocatorio ogni stereotipo sulla natura della letteratura e sulla sua presunta funzione (rispecchiare la realtà e trasmettere dei valori). Per sostenere la propria tesi, lo scrittore utilizza evidentemente il paradosso, in linea con la contestazione, propria della Neoavanguardia, del realismo e degli intenti morali dello scrittore.

Qualche tempo fa, durante una discussione, qualcuno citò: “Finché c’è al mondo un bimbo che muore di fame, fare letteratura è immorale”. Qualcun altro chiosò1: “Allora, lo è sempre stata”. [...] Forse è vero: la letteratura è immorale, è immorale attendervi2. Sarebbe già intollera5 bile se essa prescindesse affatto dal dolore dell’uomo, se si rifiutasse di medicarne le arcaiche3 piaghe; ma, con insolenza, con industriosa4 pazienza, essa fruga e cerca e cava fuori affanni, e malattie, e morti: con appassionata indifferenza, con sdegnato furore, con cinismo ostinato li sceglie, giustappone5, scuce, manipola, ritaglia. Una piaga purulenta si gonfia in metafora, una strage non è che un’iperbole, la follia un’arguzia6 10 per deformare irreparabilmente il linguaggio, scoprirgli moti, gesti, esiti imprevedibili. 1 chiosò: aggiunse spiegando. Propriamente, le chiose sono le note esplicative e i commenti a margine di un testo.

2 attendervi: occuparsene. 3 arcaiche: antiche. 4 industriosa: alacre.

5 giustappone: accosta. 6 un’arguzia: un sagace espediente.

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Ogni sofferenza non è che un modo di disporsi del linguaggio, un suo modo di agire. Non v’è dubbio: la letteratura è cinica. Non v’è lascivia7 che non le si addica, non sentimento ignobile, odio, rancore, sadismo, che non la rallegri, non tragedia che gelidamente non la ecciti, e solleciti la cauta, maliziosa intelligenza che la governa. E 15 si veda, per contro, quanto peritosamente8, con quale ingegnoso sarcasmo maneggi gli indizi dell’onesto9. Assai antica è l’ira dei dabbene10 per la letteratura. Da secoli viene accusata di frode, di corruzione, di empietà. O è inutile o è velenosa. Dissacrante, perversa, affascina e sgomenta. Numinosa11 e mutevole, non esita a usare degli dei per adornare le sue 20 favole. Ma per quella squisita ironia che ne definisce il destino, essa sola sa celebrare adeguatamente la grandezza, la gloria di quel dio che essa degrada e nobilita a personaggio, ipotiposi12, iperbole. Il terribile lanciatore di fulmini13, entrato nella fragile rete della retorica, cessa totalmente di esistere, si trasforma in invenzione, gioco, menzogna. Corrotta, sa fingersi pietosa [ ]; irreale, ci offre finte e inconsuma25 bili epifanie illusionistiche14. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità. 7 lascivia: dissolutezza licenziosa. 8 quanto peritosamente: con quale abilità. 9 con quale... onesto: la letteratura può corrodere con il sarcasmo e l’ironia ciò che appare onesto. 10 dabbene: uomini per bene.

11 Numinosa: dotata di magiche facoltà, quasi divine. 12 ipotiposi: breve rappresentazione di qualcuno o qualcosa con particolare risalto descrittivo e rilievo icastico (è una figura retorica come l’iperbole che segue).

13 Il terribile... di fulmini: perifrasi per alludere a Zeus, il padre degli dei nella mitologia classica. 14 epifanie illusionistiche: rivelazioni che si rivelano solo illusorie.

Concetti chiave Un testo ironicamente polemico verso la letteratura impegnata

Alla base del testo di Manganelli, di cui qui è presentato solo un brevissimo stralcio, sta il rifiuto per le prese di posizione (tipiche del dopoguerra: si pensi al «Politecnico»), sulla necessità che la letteratura ritragga i mali, la sofferenza del mondo per poterli arginare e, di conseguenza, sulla sua intrinseca “moralità”. Al contrario, portando le sue argomentazioni fino al paradosso, Manganelli pensa che la letteratura sia alternativa alla realtà, sia “menzogna”: con questa immagine, a suo tempo diventata celebre, lo scrittore intende dire che ogni aspetto del reale, anche il più doloroso, è per la letteratura solo occasione, materia grezza da trasformare in linguaggio; linguaggio che ha una sua specifica natura “artificiale” e che inevitabilmente amplifica, mistifica, deforma a suo piacimento (e non senza compiacimento) i dati dell’esperienza umana. L’obiettivo polemico di Manganelli è ogni forma di programmatico, moralistico, realismo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano in max 3 righe. COMPRENSIONE 2. Perché Manganelli definisce cinica la letteratura? ANALISI 3. Cerca di spiegare il significato di queste affermazioni volutamente “estreme”: «Una piaga purulenta si gonfia in metafora, una strage non è che un’iperbole» (rr. 8-9).

Interpretare

SCRITTURA 4. In un testo di max 10 righe, riconduci il testo al clima e al dibattito della Neoavanguardia. TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il passo di Manganelli con l’appassionato editoriale di Vittorini (➜ SCENARI, PAG. 64, D10 ) sulla responsabilità della cultura e svolgi una tua riflessione sulle mutate condizioni storiche e culturali che possono rendere ragione della profonda diversità nel modo di intendere la letteratura che i due testi implicano.

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4 Arbasino e Fratelli d’Italia: un’opera “aperta”

Alberto Arbasino.

Alberto Arbasino: la biografia Nasce a Voghera nel 1930. Fin dai suoi esordi Arbasino è interessato come scrittore a lavorare soprattutto sul linguaggio, a crearsi un proprio stile. Nel riprodurre sulla pagina gli stereotipi insieme linguistici e mentali, Arbasino si propone di andare al cuore di una società in un certo momento storico per rivelarne impietosamente le convenzioni, le miserie. All’inizio degli anni Sessanta, Arbasino aderisce al Gruppo 63 e proprio in quell’anno esce il suo romanzo-fiume Fratelli d’Italia, poi ampliato e riscritto fino all’edizione del 1993. Altri romanzi, anch’essi caratterizzati da riscritture successive, sono SuperEliogabalo (1969, poi in altre versioni fino al 2002), La bella di Lodi (1972), Specchio delle mie brame (1974, poi riscritto nel 1995). Si tratta di una produzione sostanzialmente monocorde, il centro della quale rimane Fratelli d’Italia, peraltro opera di un’intera vita. Ricorrente è, nella vita e nella scrittura di Arbasino, il tema del viaggio, sviluppato soprattutto negli anni Novanta (Mekong, 1994 e Passeggiando tra i draghi addormentati, 1997). Nel tempo, Arbasino ha intensificato la scrittura saggistica, passando da quella soprattutto letteraria (Parigi o cara del 1960, poi ripreso nel 1995; Certi romanzi del 1964; Grazie per le magnifiche rose, 1965) a quella di costume, assai congeniale allo scrittore lombardo (Fantasmi italiani, 1977; Un paese senza, 1980; fino ai più recenti Paesaggi italiani con zombi, 1998: lettura ironica, ma anche amara e risentita dei vizi capitali dell’Italia, in cui Arbasino rielabora suoi interventi giornalistici per il quotidiano «la Repubblica») e Ritratti italiani, del 2014, godibilissima galleria di personaggi del Novecento culturale. È morto a Milano nel 2020. Il capolavoro di Arbasino Fratelli d’Italia è considerata l’opera maggiore di Arbasino (1930-2020) ed è l’opera di tutta una vita. Il romanzo è stato infatti pubblicato la prima volta nel 1963, poi riscritto e ampliato nel 1976 e infine riedito trent’anni dopo (1993) triplicato (le pagine arrivano a 1372), nell’idea che solo la metamorfosi del romanzo stesso, a cui l’autore aggiunge via via nuove pagine (tagliandone e rielaborandone altre), possa rispecchiare il cambiamento della società. Per questo carattere non definitivo del romanzo, Fratelli d’Italia, nata come opera d’avanguardia, diventa anche una delle testimonianze più emblematiche del postmoderno. Un ironico ritratto dell’Italia degli anni Sessanta Rimane, però, centrale nel romanzo di Arbasino il ritratto della società italiana degli anni Sessanta, con uno

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sguardo rivolto soprattutto alle classi sociali altoborghesi, in netta contrapposizione con la focalizzazione sulle classi popolari propria del Neorealismo: circolano, nell’universo caleidoscopico del romanzo, monsignori, signore della buona società, esponenti della grande borghesia, giovani intellettuali alla ricerca spasmodica del successo e della promozione sociale. Sullo sfondo c’è la Roma cosmopolita e insieme provinciale degli anni Sessanta. Lo schema del viaggio Il romanzo è strutturato sullo schema del viaggio, tradizionale nella narrativa: quattro giovani intellettuali (il lombardo Antonio, in cui maggiormente sembra rispecchiarsi l’autore, il narratore, lo scrittore francese Jean-Claude e il musicista tedesco-americano Klaus) si ritrovano con l’intenzione di fare un film insieme. Si mettono, così, in viaggio alla ricerca di spunti per realizzarlo e vivono una frenetica estate in corsa da un’occasione mondana all’altra da Roma a Venezia, da Capri a Mantova (ma con puntate anche ad Amsterdam, Zurigo e Londra). Il “viaggio in Italia” potrebbe ricordare a prima vista il modello sette-ottocentesco del Grand Tour ma, come lo stesso Arbasino ebbe a precisare, siamo qui ben lontani dalle tappe preordinate e per definizione formative del Grand Tour, appunto (il critico Guglielmi ha parlato addirittura di una “parodia”): nel romanzo di Arbasino i giovani, disinibiti protagonisti sono semplicemente alla ricerca, giorno per giorno, di transitorie esperienze di vita (anche erotiche), di sensazioni e labili seduzioni culturali. Un romanzo sperimentale Nel romanzo non c’è un intreccio, né un protagonista: il narratore è infatti un personaggio per certi versi secondario e le considerazioni più significative (anche a livello culturale o letterario) appartengono ad altri personaggi. Tuttavia, è attraverso lo sguardo critico del narratore che passa ogni rappresentazione: ed è uno sguardo che condanna la volgarità, il rampantismo, la superficialità delle conversazioni da salotto, anche se di quel mondo egli risulta di fatto parte e la sua distanza da esso si traduce più che altro in snobistica ironia. Prerogativa fondamentale, che riconduce il romanzo alla Neoavanguardia, è la centralità del linguaggio: Arbasino lavora alla realizzazione di una lingua sperimentale, che ha richiamato il pastiche di Gadda (di cui Arbasino era grande ammiratore); lo scrittore elabora con straordinaria abilità un impasto linguistico in cui si mescolano continuamente espressioni gergali, parole straniere, lingua colloquiale e lingua colta, come si può notare anche nel passo proposto (➜ T1 ).

Fratelli d’Italia GENERE

romanzo sperimentale

DATAZIONE

l’opera della vita di Arbasino. Pubblicato a più riprese, con variazioni e aggiunte: 1963, 1976, 1993

CONTENUTO

ironico ritratto dell’Italia degli anni Sessanta

STILE

impasto linguistico sul modello del pastiche gaddiano

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 663


Alberto Arbasino

T1

I salotti romani degli anni Sessanta Fratelli d’Italia

A. Arbasino, Fratelli d’Italia, Adelphi, Milano 1993

Il passo proposto è tratto dal capitolo Café society di Fratelli d’Italia. Dei caratteri di questo «romanzo-conversazione», come l’ha definito l’autore stesso, il testo costituisce un significativo esempio. L’ambientazione è nella Roma alto-borghese degli anni Sessanta.

«E le proposte di lavoro professionale?». «Ah, quelle a Roma non si usa farle per telefono, né per lettera. Vige la norma dell’incontro fortuito1. Sempre, ai ricevimenti e ai funerali ma soprattutto per strada, e in Piazza del Popolo2, ci si imbatte nel produttore o nel redattore che ti fanno 5 “appunto! cercavo te! ci stavo proprio pensando da stamattina! c’è una cosa che ti può interessare! dobbiamo combinare al più presto!”. Ti cercavano dappertutto. Non hanno però pensato di guardare il tuo numero sull’elenco del telefono. E ti espongono un programma urgentissimo, bisognerebbe piantar lì tutto il resto. Prendono magari appunti su un foglietto. Ma è anche vero che poi, per certe loro cause 10 sopravvenute3, dopo qualche incontro non se ne farà mai niente. Ti possono addirittura arrivar dei soldi senza ragione, fanno balenare. Il rovescio di quando hai fatto un lavoro, che non sarà compensato mai: è capitato a tutti gli ingenui debuttanti del Nord. Catulli Carmina4. Appena seduti a tavola, cominciano le telefonate del «lo faccia alzare subito, è 15 urgente!». Urgente per delle stracciacule5, non per te. Non si è trovata, finora, una difesa migliore del far rispondere dalla sora a ore6 (che dirà «sono la Praline!» alle stracciacule stravolte, o anche «sono la housekeeper»7, provocando uno sturbo8) «i signorini non possono essere assolutamente disturbati, finché non hanno finito di mangiare il Drapuz9 mentre è bollente!». Si ha così anche la consolazione, entro 20 pochi giorni, di sentire tutt’altra gente che racconta di aver mangiato da Luchino Visconti o da Silvana Mangano10 un Drapuz squisito fatto da un loro cuoco deeelizioso. Subito dopo colazione, comincia l’ora delle madame11. Intorno alle tre, infatti, chiunque si chiami, «il dottore riposa». Ma durante l’immenso riposo meridiano della gran massa dei dottori romani, la madama ronza e squilla instancabile, aggirando 25 numeri rocciosi come scogli12 – la contessa non si può interrompere neanche col 11013, «perché è in teleselezione14» – e intrufolandosi dopo aver faticato col dito15 per 1 fortuito: casuale. 2 Piazza del Popolo: una delle più note piazze di Roma. 3 per certe... sopravvenute: per motivi personali sopravvenuti. 4 è capitato... Catulli Carmina: è successo (di non essere pagati) a tutti i giovani in cerca di successo approdati dal Nord Italia a Roma. Come ironico esempio l’autore nomina, attraverso il riferimento alle sue poesie (i Carmina), il poeta latino Catullo (ca. 84-54 a.C.). 5 stracciacule: termine gergale del dialetto romanesco per indicare individui fastidiosi e assillanti. 6 sora a ore: donna di servizio pagata a ore (sora è termine romanesco per “signora”).

7 la Praline... la housekeeper: il primo termine è francese (nel linguaggio familiare, “sempliciotta”), il secondo inglese (“governante”). Il narratore ironizza spietatamente sul desiderio della famiglia romana, qui fatta oggetto della sua satira, di elevarsi grazie alla nobilitazione della cameriera attraverso denominazioni straniere. 8 sturbo: forte turbamento. 9 Drapuz: è una parola inventata. 10 Luchino... Mangano: grande regista (Milano 1906-1976) e celebre attrice (19301989). 11 madame: signore (ironico). 12 numeri... scogli: il paragone allude alla difficoltà di raggiungere telefonicamente personaggi importanti.

13 110: numero di servizio della società telefonica negli anni Sessanta, a disposizione dell’abbonato, che poteva anche richiedere informazioni alle telefoniste del centralino (che consultavano dizionari ed enciclopedie). 14 teleselezione: la teleselezione, completata in Italia nel 1970, consentiva di istituire un contatto telefonico, tramite un prefisso, con utenti di città sia italiane sia straniere. 15 dopo aver faticato col dito: si allude alla composizione del numero nei telefoni di quel tempo (erano i modelli a disco).

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poi abbandonarsi in stile Sheherazade16: le chiacchierate delle non-invitate, ampie, lente, come fra interlocutori sdraiati e orientali, occupano intere sieste, surrogano i sogni, e ricapitolano la serata precedente (dove non c’erano) rivivendo ogni par30 ticolare con gusto. «E chiccèèra? E conchistavva?»17... Ma verso le quattro il 110 si fa più frequente e impaziente: cominciano gli scrittori inediti o appena editi, tre su quattro sono megere, stanno spedendo vagoni e camion di loro opere dattiloscritte e domandano con precedenza e urgenza una lettura e un giudizio scritto su Briciole in cantina e Polvere di notte18 anche a chi non è tenuto e li manda affanculo. 35 «Si è tenuti a dare un cortese riscontro a tutte le lettere degli scocciatori?» chiedo, curioso. «Ci vorrebbe una segretaria apposta, che per il mio lavoro non mi serve, e non saprei neanche dove mettere, solo per rispondere agli scocciatori. Ma se non si è un ente pubblico tenuto a un riguardo per gli utenti, cosa ti risponde un carabiniere 40 se tu gli chiedi: caro carabiniere, sono un poeta, mi dedichi un’intera tua giornata o serata? Ad analoga richiesta degli scocciatori, analoga risposta. «E come spiegare, se non ci arrivano19, che la vita non è lunga, ci sono pochi giorni in un anno, e poche ore in un giorno, rispetto ai grandi libri di grandi autori che si vorrebbero leggere invece di buttar via tempo coi mediocri e coi pessimi... A molti 45 teatranti, quando invitano alle loro brutte prime, certamente è più facile rispondere: io non vi faccio leggere i miei libri, voi in cambio non fatemi vedere i vostri spettacoli. Ma gli scrittori pessimi questo do ut des20 non lo vogliono veramente capire, davvero credono che qualcuno sia disposto a leggerli rinunciando a dormire o a uscire... e se anteponi Musil o Mahler21 a Colpi di libeccio o Funghi vostri22 è solo 50 per tuo snobismo o per cattiveria d’animo...». 16 in stile Sheherazade: l’espressione è una comica allusione alla postura delle signore del salotto romano, mollemente abbandonate sui divani mentre si scambiano chiacchiere banali. Sheherazade è la narratrice, protagonista della cornice della raccolta di novelle in arabo Le mille e una notte. 17 «E chiccèèra? E conchistaavva?»: il

narratore riproduce ironicamente le domande delle signore volte a informarsi sulle persone che contano, presenti a un ricevimento della sera precedente. 18 Briciole in cantina... Polvere di notte: titoli immaginari (e ironici) di opere di scadente o dubbio valore letterario. 19 se non ci arrivano: se non riescono a capirlo (espressione del parlato).

20 do ut des: ti do affinché tu mi dia (celebre espressione latina per indicare uno scambio di favori). 21 Musil... Mahler: Robert Musil, scrittore austriaco (1880-1942) autore del romanzo Un uomo senza qualità, e Gustav Mahler, compositore austriaco (1860-1911). 22 Colpi di libeccio... vostri: si tratta sempre di titoli fittizi.

Analisi del testo Il romanzo-conversazione Anche nel passo proposto risulta evidente il carattere più generale del romanzo di Arbasino come «romanzo-conversazione» (secondo la definizione dell’autore stesso); una scelta narrativa che si richiama a precisi modelli, appartenenti in particolare alla cultura anglosassone: da quello illustre del Tristram Shandy di Laurence Sterne (1713-1768) a quello più recente (e a cui ha fatto riferimento l’autore stesso) della scrittrice Ivy Compton-Burnett (1892-1969). In Fratelli d’Italia, l’asse lineare della narrazione è costantemente infranto dall’irruzione di un intreccio di “voci”, riprodotte ora in discorso diretto, ora in discorso indiretto libero: l’autore ripropone e affastella, in modo caotico, frammenti di conversazione a ruota libera, appartenenti a più personaggi alla cui identità è difficile e spesso impossibile risalire anche in modo approssimativo. Ne esce una sorta di “romanzo corale”, in cui il lettore è catapultato senza potersi orientare, coinvolto a sua volta dall’indistinto chiacchiericcio.

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Un ritratto ironico dei salotti romani L’obiettivo dello scrittore, in questa scelta strutturale d’avanguardia, è ritrarre attraverso la “chiacchiera” gli stereotipi mentali, culturali, sociali di un intero ambiente: anche solo da questo passo emerge il ritratto ironico dell’alta borghesia dei salotti romani negli anni Sessanta, dove è assolutamente necessario essere presenti per “esistere”. Attraverso la voce narrante, l’autore si fa cronista di quel mondo evocando, tramite l’uso costante del tempo presente, dati, aneddoti, incontri; il tutto senza far trasparire mai una particolare adesione, uno stato d’animo, un’inflessione psicologica che possa conferire al narratore un’identità connotata: nella sua battaglia per un romanzo del tutto nuovo, la Neoavanguardia si batteva per l’annullamento dell’io, di cui anche Fratelli d’Italia è testimonianza.

Il pastiche linguistico Il romanzo di Arbasino è caratterizzato da un impasto linguistico assai composito che ha richiamato il pastiche di Gadda. Anche nel passo proposto, ad esempio, si può riscontrare la presenza di elementi linguistici eterogenei: dal latino (nella formula proverbiale «do ut des» e nel riferimento colto ai Carmina di Catullo), al parlato romanesco, mimato nella sua stessa pronuncia («E chiccèèra? E conchistaavva?») con incursioni nel gergo volgare, ai termini stranieri (la cameriera che risponde al telefono e che è in realtà una «sora a ore», cioè una donna di servizio a ore, è trasformata dalla provinciale volontà snobistica della padrona di casa in una domestica francese, la Praline, o inglese, la housekeeper). Elementi linguistici inseriti in un tessuto di base mediamente colloquiale, vicino al parlato («se non ci arrivano») anche nella sintassi, in prevalenza coordinativa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Le scelte narrative e linguistiche dell’autore sono funzionali a delineare un preciso quadro sociale: sintetizzane le caratteristiche. COMPRENSIONE 2. Per quali aspetti Fratelli d’Italia costituisce un esempio di anti-romanzo sperimentale? ANALISI 3. Trova gli elementi (ad esempio i paragoni) che fanno intravedere il giudizio critico dell’autore.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la rappresentazione presente in questo passo e il quadro della borghesia fornito da Gadda in un celebre passo di La cognizione del dolore (➜ C8). Sviluppa anche un confronto relativo alle scelte linguistico-stilistiche che accomunano in parte i due scrittori lombardi. 5. Prendi visione del film La Grande bellezza diretto da Paolo Sorrentino nel 2013, vincitore del Premio Oscar come miglior film in lingua straniera, e metti a confronto l’immagine della Roma “mondana” degli anni Duemila che in esso emerge con quella della dei salotti romani degli anni Sessanta descritta da Arbasino.

5 Luigi Malerba e Il serpente Luigi Malerba: la biografia Luigi Malerba (pseudonimo di Luigi Bonardi, Parma 1927 - Roma 2008), inizialmente sceneggiatore cinematografico e giornalista, esordisce come scrittore nel 1963 con una raccolta di racconti, La scoperta dell’alfabeto, a cui seguono due romanzi entrambi ambientati a Roma, riconducibili all’area della Neoavanguardia, per la dissoluzione delle strutture narrative che deriva dall’adozione di una prospettiva visionaria e straniata: Il serpente (1966) e Salto mortale (1968). A differenza di altri scrittori della Neoavanguardia, però, Malerba mantiene sempre con il lettore un contatto comunicativo che rende questi romanzi, di carattere

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volutamente sperimentale, leggibili e anche godibili. Su una linea di sostanziale continuità con queste esperienze, anche se lo sperimentalismo risulta meno radicale, si collocano i racconti Dopo il pescecane (1979) e Testa d’argento (1988) e il romanzo Il pianeta azzurro (1986). Autore ricco e versatile, Malerba muta nel tempo anche in modo considerevole i suoi interessi e le sue modalità narrative: un medioevo “carnevalesco” è al centro de Il pataffio (1978), in cui lo scrittore usa un impasto linguistico maccheronico (dialetto laziale, latino, italiano antico); Il fuoco greco (1990) e Le maschere (1995) si iscrivono invece nel filone del romanzo cosiddetto “neostorico”: il primo è ambientato alla corte di Bisanzio, il secondo nella Roma del Cinquecento, ma in entrambi i casi l’occhio dello scrittore nell’indagare il tema del potere è rivolto all’Italia contemporanea. Direttamente ambientato in quest’ultima è il romanzo Le pietre volanti (1992). Del 1997 è una rivisitazione post-moderna del mito di Ulisse: Itaca per sempre. Il serpente È un romanzo – se tale si può definire – interamente costruito sul monologo allucinato del protagonista di cui non si conosce il nome. Al corpo della narrazione si aggiungono degli inserti in corsivo che non hanno, almeno a prima vista, uno stretto legame con la vicenda. Il titolo allude alla nevrosi dell’io narrante, che funge da prospettiva dominante dell’intera narrazione, strutturata secondo il copione del romanzo giallo. Il narratore ha un negozio di filatelia e conduce una vita solitaria. A un certo punto inizia a seguire lezioni di canto presso un certo Furio Stella. Là dice di aver conosciuto una ragazza, Miriam, con cui intreccia una relazione. Ma presto diventa preda della gelosia, che si insinua dentro di lui come un serpente, in particolare nei confronti di un suo cliente, Baldasseroni che, nella sua ossessione, crede membro di un’associazione di Filatelia Criminale. Sempre più geloso, costringe Miriam a una visita radiologica per cercare dentro il suo corpo tracce che provino l’avvenuto adulterio con Baldasseroni. La ragazza scompare e il protagonista si lascia sempre più andare, respingendo i clienti con la stranezza dei suoi comportamenti. Ma un giorno Miriam ricompare: nel retrobottega del negozio beve un bicchiere d’acqua contenente del cianuro e muore; a questo punto il commerciante di francobolli decide di mangiarsela, come fanno le tribù di cannibali. Inizia a essere perseguitato dall’immagine e dalla voce di Miriam, finché decide di costituirsi, ma il brigadiere non riesce a stendere un verbale perché il discorso dell’uomo è confuso e non c’è alcuna prova del delitto, né dell’esistenza stessa di Miriam, di cui nessuno ha denunciato la scomparsa. Il brigadiere invita allora il presunto omicida a stendere un memoriale, ma egli non riesce a portarlo a termine.

Il serpente GENERE

romanzo-monologo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1966

CONTENUTO

monologo allucinato del protagonista

TEMI

analisi di una nevrosi

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Luigi Malerba

T2

Un serpente si è insinuato nel mio corpo Il serpente, cap. 6

L. Malerba, Il serpente, Bompiani, Milano 1979

Da Il serpente (1966), romanzo sperimentale di grande interesse, frutto dell’adesione dell’autore al Gruppo 63, è tratto questo brano, che ne esemplifica le caratteristiche più generali: nel monologo dissociato del protagonista si accumulano interpretazioni e ipotesi. Nella prospettiva visionaria che caratterizza l’intero romanzo, il confine tra realtà e allucinazione è continuamente infranto. Il protagonista-narratore immagina che Miriam, la ragazza che ama, possa tradirlo con un suo cliente (il narratore ha un negozio di francobolli), ma le sue tortuose elucubrazioni in proposito non possono non lasciare perplesso il lettore.

Ragioniamo. So che non è probabile. Ma è possibile. Dovrei riuscire a escludere la possibilità, ma c’è un solo modo e è un modo impossibile. Perché Baldasseroni e Miriam1 non si incontrino dovrei sopprimere uno dei due, ma ringoio subito questo pensiero. Ammettiamo pure che Baldasseroni non l’abbia nemmeno vista uscire dal 5 negozio, ammettiamo che non sappia nemmeno della sua esistenza. Non può forse averla incontrata in un altro luogo? Può averla incontrata in un bar, in una tabaccheria, per la strada. Come si incontrano le donne? Si incontrano quasi sempre per caso. Come l’ho incontrata io? L’ho incontrata per caso nella palestra di Furio Stella. Tutto quello che è avvenuto fra Miriam e me può ripetersi fra Miriam e Baldasse10 roni. Se non è ancora il suo amante può diventarlo, domani, oggi stesso. In questo momento mentre io cammino per il Lungotevere sotto la pioggia, forse Baldasseroni offre il suo ombrello a Miriam in una strada qualsiasi di Roma. Ecco, salgono sulla sua automobile. Si è offerto di accompagnarla a casa e lei ha accettato. Fa un lungo giro, dice che conviene la Strada Olimpica2, l’Acqua Acetosa, si ferma in una laterale 15 buia. Eccoli al buio dentro l’automobile ferma. Il luogo è deserto, naturalmente. Baldasseroni si sente al sicuro. Ecco, lo vedo, si china su di lei. Lei si distende, si sistema sul sedile per corrispondere ai suoi desideri. La macchina ha dei sobbalzi... Un serpente si è insinuato nel mio corpo, cammina, morde ora qui ora là. Mi fermo a ascoltare il dolore, non riesco a localizzarlo. Piove, ripiove, smette di piovere. 20 Cammino verso il negozio ma so già che non potrò fermarmi al chiuso. Ho bisogno di aria, non mi basta questa che ho intorno. Mi pare di avere una gamba piú pesante dell’altra, me la trascino dietro a fatica, mi sembra che dovrei sollevare i piedi con le mani per camminare. Adesso è un braccio, e poi la testa che diventa gigantesca come le teste del carnevale di Viareggio. Mi sento ridicolo, devo cor25 rere a rifugiarmi in un portone, non oserò passare in via Arenula dove tutti mi conoscono. Eppure devo raggiungere il negozio, nascondermi. Cerco di camminare normalmente in mezzo alla gente ma sento delle risate. Ridono di me. Poco alla volta riacquisto la mia tranquillità, ma ho bisogno di sedermi, di riposare prima di arrivare al negozio. Non ci sono tavolini all’aperto con questo tempo e non 30 oso entrare in un bar. Ecco, mi sembra di vedere Miriam là in fondo alla strada. È

1 Baldasseroni e Miriam: il primo è un cliente del negozio di francobolli gestito dal protagonista e la seconda è la ragazza di cui egli è innamorato.

2 la strada Olimpica: strada di Roma, nella zona del Foro Italico e dello Stadio Olimpico, prosecuzione dalla Tangenziale Est; seguono altri riferimenti topografici

della capitale (l’Acqua Acetosa, via Arenula, piazzale Flaminio).

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lei. Cammina in fretta con la testa bassa per non dare nell’occhio. Va a un appuntamento con Baldasseroni. La inseguo correndo, la afferro per un braccio. Non è lei, mi sono confuso e mi scuso tanto. La pioggia ha lavato l’aria. Si respira meglio, milioni di miliardi di microbi e di par35 ticelle sospese nell’aria sono precipitati con la pioggia, sono finiti nelle fogne della città, stanno camminando verso le cloache del Tevere, arriveranno al mare entro due o tre ore. Bisogna approfittare di questi lavaggi naturali della pioggia per respirare, ma già le macchine incominciano a sporcare l’aria un’altra volta, già i pedoni aspirano aria buona per mettere in circolazione milioni di miliardi di microbi. Fra 40 poco tutto sarà come prima, il catrame, la nafta, i microbi. Sono già avvelenato. Aspetto Baldasseroni al portone di casa sua. Ho in tasca la mia Beretta canna allungata3 ma non la userò. Dalle otto del mattino a mezzogiorno, da mezzogiorno alle tre, dalle tre alle sette. Alle sette Baldasseroni esce. Sicuramente va a un appuntamento con Miriam. Ha un’aria felice, il maledetto. Lo seguo rasentando i muri per 45 non farmi vedere, ma anche per appoggiarmi perché ho dei capogiri. Non assaggio cibo da ieri sera. Ho ancora la sensazione di camminare con le gambe di un altro, anche le braccia e tutto il resto del corpo è come se appartenessero a un estraneo. Devo guidarmi come si guida una automobile, a destra, a sinistra. Ho bisogno di fissarmi su cose obiettivamente reali, la facciata di una chiesa, un albero, una co50 lonna. Sono piú che mai in preda alle furie. Non ho scoperto niente. Ha comprato un giornale a Piazzale Flaminio e poi è ritornato a casa come una talpa. Forse forse ha rimandato l’appuntamento a domani, o ha passato la giornata al telefono. C’è gente che fa l’amore al telefono. 3 la mia Beretta... allungata: si tratta di un tipo di pistola.

Analisi del testo Un narratore palesemente inattendibile Il passo è incentrato sulla possibilità che la misteriosa Miriam tradisca il protagonista con il signor Baldasseroni, un suo cliente e amico. La scarsa plausibilità della cosa è resa all’inizio del passo dalla significativa oscillazione dei tre aggettivi possibile / probabile / impossibile: «So che non è probabile. Ma è possibile. Dovrei riuscire a escludere la possibilità, ma [...] è un modo impossibile». Un’alternanza che introduce un elemento dominante nell’intero romanzo: ciò che “avviene”, avviene esclusivamente nella mente contorta e disturbata del narratore-protagonista; il che conferisce tratti di labilità all’intera narrazione, la cui credibilità è radicalmente inficiata dall’inattendibilità palese del narratore.

Il soliloquio dell’“io narrante” Quanto leggiamo, non solo in questo passo ma nell’intero romanzo, è un soliloquio che l’autore conduce con grande abilità, senza “cadute” della tensione, dall’inizio alla fine del romanzo. È all’interno dell’universo mentale del protagonista che si svolgono i “fatti”: ma forse i fatti stessi non esistono, come sembra di capire nel caso del tradimento presunto di Miriam. Luigi Malerba.

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 669


La voce narrante ora pone assillanti domande, come nella prima parte del testo, ora dà corpo a una “scena” immaginaria ma così vivida da diventare per certi versi “realtà” (la seduzione di Miriam da parte di Baldasseroni), ora segue gli spostamenti del narratore in uno spazio-tempo solo apparentemente realistico.

La metafora del “serpente” Ciò che viene ritratto è, in realtà, il volto inquietante di una psicosi maniacale, che l’autore riesce a riprodurre con straordinaria efficacia e che diventa prospettiva centrale della narrazione, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il “serpente” che si è insinuato nel corpo nel protagonista, come egli asserisce, è la psicosi maniacale: il “serpente” altera, come avviene appunto nelle psicosi, la percezione del sé (la testa «diventa gigantesca come le teste del carnevale di Viareggio»), arrivando a produrre una vera e propria spersonalizzazione («Ho ancora la sensazione di camminare con le gambe di un altro, anche le braccia e tutto il resto del corpo è come se appartenessero a un estraneo»); essa, inoltre, proietta il fantasma di Miriam su altre persone che Miriam non sono, induce il protagonista a vedersi perseguitato dall’irrisione degli altri, lo spinge a spiare il rivale addirittura per un’intera giornata (ammesso che la scansione temporale sia reale). Come è stato osservato dalla critica, nel romanzo di Malerba il “serpente” diventa anche metafora di una narrazione oscillante, avvolgente, a spirale, propria di questo straordinario e non abbastanza noto romanzo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente il contenuto del testo (max 5 righe). ANALISI 2. L’autore utilizza il copione narrativo del giallo. Individua nel testo gli aspetti che possono essere ricondotti al genere. 3. Quali elementi ci fanno pensare che il protagonista sia disturbato psichicamente? STILE 4. Analizza le caratteristiche stilistiche del passo. – La sintassi è paratattica o ipotattica? Quali effetti produce la scelta dello scrittore? – Quale tempo verbale prevale? – Il lessico ti sembra letterario o usuale? Fai degli esempi.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Per alcuni aspetti Il serpente di Malerba può essere accostato a un altro romanzo sperimentale di quegli anni: Memoriale di Volponi (➜ C13 T1d ). Anche in questo caso il protagonista è un nevrotico e la rappresentazione della realtà risulta filtrata da una prospettiva visionaria. Istituisci un confronto tra i due protagonisti. Da cosa è motivata la scelta di due personaggi paranoici da parte dei due autori? SCRITTURA 6. Spiega in un testo di max 15 righe per quali aspetti si può ricondurre quest’opera al clima e al dibattito della Neoavanguardia.

online T3 Gianni Celati

Un linguaggio sperimentale per un antieroe picaresco Le avventure di Guizzardi

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6 L’impegno civile di Sciascia: una voce controcorrente Un intellettuale controcorrente L’opera dello scrittore e saggista siciliano Leonardo Sciascia (1921-1989) prende le mosse nei primi anni Sessanta, ma rimane del tutto autonoma dalle tendenze letterarie che vedono l’affermazione della Neoavanguardia, di cui rifiuta il sofisticato sperimentalismo in nome della fedeltà a un ideale civile di letteratura che ha come compito l’indagine critica del potere, lo smascheramento degli inganni e delle oscure trame della politica, una letteratura al servizio della verità. Anche sul piano letterario-stilistico, Sciascia si colloca in una posizione del tutto autonoma: agli sperimentalismi dei primi anni Sessanta contrappone una scrittura classica, limpidamente razionale, finalizzata a dare forza ai contenuti e alle argomentazioni.

online

Video e Audio Andrea Camilleri racconta Leonardo Sciascia

La vita e l’ideologia Nato a Racalmuto (Agrigento) nel 1921, Sciascia per alcuni anni insegna come maestro elementare nel suo paese; nel 1959 abbandona l’insegnamento per lavorare come impiegato statale (prima a Caltanissetta poi a Palermo). Fin da giovane entra in contatto con il mondo della cultura e si occupa di politica. Dal 1975 è consigliere comunale a Palermo come indipendente nelle liste del Pci, ma si dimette nel 1977 per disaccordi con il partito. Sciascia incarna una figura di intellettuale severa e coerente: militante nella sinistra, non accetta però di seguire nessuna direttiva di partito, ma si riserva sempre il diritto di opinione e di critica: lo eserciterà in modo inflessibile prima nei confronti del “compromesso storico”, quindi della condotta dello Stato di fronte al rapimento di Moro, e in seguito persino della commissione antimafia, suscitando perplessità e critiche aspre per le sue posizioni controcorrente. Dal 1979 al 1983 è deputato in parlamento nelle file del Partito radicale (fa parte della commissione d’inchiesta sul caso Moro). Muore a Palermo nel 1989.

Leonardo Sciascia.

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 671


La Sicilia come osservatorio e come metafora L’opera di Sciascia è imprescindibile dalla sua terra d’origine, la Sicilia, a cui riserva primaria attenzione nei suoi numerosi testi saggistici e da cui la sua narrativa prende le mosse: da Le parrocchie di Regalpetra (1956) ai racconti Gli zii di Sicilia (1958), al celebre Il giorno della civetta (1961) e a A ciascuno il suo (1966), romanzi questi ultimi nei quali emerge per la prima volta in ambito letterario, e viene portato all’attenzione dell’opinione pubblica, il tema della mafia (➜ TESTI IN DIALOGO Scrivere di mafia, PAG. 678). Legati alla Sicilia sono anche il romanzo storico Il consiglio d’Egitto (1963), ambientato nel Settecento, il saggio storico Morte dell’inquisitore, ambientato nel Seicento (1964), I pugnalatori (1976) che fa riferimento a eventi accaduti a Palermo nel 1862. La Sicilia è per Sciascia campo di osservazione privilegiato per indagare le storture della gestione politico-sociale. Al contempo ciò che si verifica in Sicilia costituisce un paradigma delle tendenze negative dell’intero paese e forse addirittura delle costituzionali inclinazioni della natura umana. Nel 1979 Sciascia detta a una giornalista francese, Marcelle Padovani, un’intervista dal significativo titolo La Sicilia come metafora. L’uso del genere giallo-poliziesco per indagare i lati oscuri della politica Verso l’inizio degli anni Settanta Sciascia amplia lo sguardo alla realtà italiana, in un momento storico drammatico della vita del paese (che vede nel ’69 la strage di Piazza Fontana, nel ’74 le stragi di Brescia e di Bologna). Assumendo il ruolo di una sorta di detective politico, Sciascia indaga i lati oscuri della politica italiana in romanziinchiesta ispirati al giallo, al poliziesco: Il contesto (1971), che lo scrittore definisce «un apologo sul potere nel mondo», e Todo modo (1974). Del giallo o del racconto poliziesco sono presenti nei due romanzi gli ingredienti fondamentali: i delitti e la figura dell’inquirente (che è in genere un po’ un intellettuale, dietro cui si intravede l’autore stesso, la sua attitudine interrogativo-speculativa). A differenza però del racconto poliziesco, qui non c’è una soluzione gratificante per il lettore: i colpevoli non vengono assicurati alla giustizia. Le “inchieste” vere proprie La forma romanzesca è addirittura annullata per lasciar parlare i fatti nell’inchiesta La scomparsa di Majorana (1975), che formula inquietanti ipotesi sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana e nel vero e proprio pamphlet L’affaire Moro (1978), che prende spunto dalle lettere scritte dal leader democristiano Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse (e poi giustiziato). L’allusione all’“affaire Dreyfus”, che vide il coraggioso J’accuse di Emile Zola (➜ VOL 3A C5), sembra far riferimento implicitamente alla necessità per l’intellettuale di schierarsi, di prendere aperta posizione. Seguono inchieste storiche come La strega e il capitano (1986) e Porte aperte (1987) sul tema della pena di morte, a testimonianza dell’ininterrotta vocazione di Sciascia all’indagine documentaria. Un illuminista disincantato L’interesse costante al tema della giustizia (e dell’ingiustizia), la fiducia nel metodo razionale fanno di Sciascia un neo-illuminista (non è un caso che riprenda il romanzo filosofico di Voltaire in Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, 1977), ma manca allo scrittore siciliano la fiducia ottimistica che la verità e i valori positivi possano trionfare. Al contrario, le sue opere testimoniano sempre la sconfitta della ragione e della giustizia (è significativo che nei gialli-polizieschi l’inquirente venga sempre sconfitto o addirittura ucciso, come in A ciascuno il suo, Il contesto e Il cavaliere e la morte, 1988). Nonostante

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questa visione pessimistica, l’intera opera di Sciascia sostiene con forza l’obbligo morale per lo scrittore di confrontarsi con i gravi problemi della società, di denunciare i soprusi, contribuendo, se non a risolverli, almeno a farli conoscere al grande pubblico.

Il giorno della civetta Un libro scottante Pubblicato nel 1961, Il giorno della civetta per il tema trattato (la denuncia del potere mafioso e dei suoi legami con il potere politico) suscitò molto scalpore, dato che ancora non si parlava apertamente, e men che meno in un romanzo, di mafia (la Commissione antimafia sarà istituita solo nel 1963). Il titolo, a prima vista del tutto enigmatico, è tratto dal dramma di Shakespeare Enrico IV, come svela la citazione posta in epigrafe: «... come la civetta quando / di giorno compare». Sciascia ha inteso alludere alla trasformazione della mafia, abituata a operare di nascosto (la civetta è uccello notturno), ma uscita sempre più arditamente allo scoperto grazie alle coperture del potere politico. Qualche anno dopo (1968) un film di Damiani, con Franco Nero nel ruolo del protagonista, suggellò ulteriormente la notorietà del libro. La vicenda Il capitano dei carabinieri Bellodi, inviato da Parma in Sicilia, si trova a indagare sull’omicidio di un piccolo imprenditore edile, freddato a fucilate mentre stava per salire su un autobus. Immediatamente il capitano ha modo di constatare il muro di omertà dietro cui si trincerano gli abitanti del paese che hanno assistito all’omicidio. Successivamente scompare (e verrà trovato morto) un agricoltore, che si è imbattuto nel sicario e l’ha riconosciuto. Una lettera anonima e la confessione di un delinquente comune, abituale confidente della polizia (che pure verrà assassinato), inducono Bellodi a seguire la pista del delitto di mafia, collegato al controllo degli appalti: una pista che lo porta ad arrestare come mandante degli omicidi don Mariano Arena, un potente capomafia locale, a sua volta legato a esponenti del potere politico. Le indagini di Bellodi, che minacciano di risalire ancor più a monte, coinvolgendo potenti personaggi politici, suscitano sempre più preoccupazione. Ma tutto alla fine viene rimesso a posto, l’ipotesi accusatoria viene smontata: al sicario è costruito un alibi, per l’omicidio del testimone scomodo è imboccata la pista alternativa, e più rassicurante, del delitto passionale (la moglie del morto aveva un amante). L’appassionata inchiesta di Bellodi è così vanificata.

Il giorno della civetta GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1961

TEMI

denuncia del potere mafioso e delle sue collusioni con la politica

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Analisi passo dopo passo

T4

Leonardo Sciascia

La mafia, «... Una voce nell’aria...» Il giorno della civetta

L. Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano 1993

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 9

Ne Il giorno della civetta alla narrazione condotta in terza persona si alternano inserti dialogici molto efficaci, alcuni dei quali, come nel testo proposto, particolarmente rilevanti per definire il messaggio del romanzo. In questo dialogo si confrontano un ufficiale dei Carabinieri e un notabile del luogo, in seguito al recente arresto di don Mariano, un potente capomafia, su mandato del capitano Bellodi. Il dialogo sconfina ben presto sul tema scottante dell’esistenza della mafia, negata dall’illustre personaggio e sostenuta invece (ma alquanto debolmente...) dal carabiniere.

«Non capisco, proprio non capisco: un uomo come don Mariano Arena, un galantuomo1: tutto casa e parrocchia; e in età, poveretto, con tanti malanni addosso, tante croci... E lo arrestano come un 5 delinquente mentre, permettetemi di dirlo, tanti delinquenti se la spassano sotto gli occhi nostri, vostri potrei dire meglio: ma so quanto, voi personalmente, tentate di fare, e apprezzo moltissimo il vostro lavoro, anche se non tocca a me apprezzarlo 10 nel giusto merito...». «Grazie: ma facciamo, tutti, il possibile». «E no, lasciatemelo dire... Quando di notte si va a bussare ad una casa onorata, sì: onorata, e si tira dal letto un povero cristiano, vecchio e sofferente 15 per giunta, e lo si trascina in carcere come un malfattore, gettando nella costernazione e nell’angoscia una famiglia intera: e no, questa non è cosa, non dico umana, ma, lasciatemelo dire, giusta...». «Ma ci sono dei sospetti fondati che...». 20 «Dove e come fondati? Uno perde il senno, vi manda un biglietto col mio nome scritto sopra: e voi venite qui, nel cuore della notte e, così vecchio come sono, senza considerazione per il mio passato di galantuomo, mi trascinate in galera come 25 niente». «Veramente, nel passato dell’Arena qualche macchia c’è...». «Macchia?... Amico mio, lasciatemelo dire, da siciliano e da uomo quale sono, se per quello 30 che sono merito un po’ della vostra fiducia: qui il famoso Mori ha spremuto lacrime e sangue2... 1 un galantuomo: una persona per bene e rispettabile. Il termine in Sicilia ha anche una connotazione sociale: galantuomini sono i possidenti, la classe dirigente (si ve-

da, ad esempio, la novella Libertà di Verga

➜ VOL 3A C7).

2 qui il famoso... sangue: si allude alla dura

L’illustre personaggio che parla con il carabiniere traccia di don Mariano un ritratto “rovesciato”: nella sua ottica un pericoloso capomafia diventa un modello di specchiata onestà («un galantuomo... una casa onorata... un povero cristiano...»), vittima di un accanimento giudiziario particolarmente deprecabile, essendo egli anziano e malandato.

Nel discorso del notabile ricorre nuovamente il rovesciamento: una delle rare scelte positive del fascismo (il tentativo cioè di reprimere con durezza il fenomeno mafioso) diventa un arbitrio, commesso da un regime verso cui il personaggio mostra palese simpatia. Per contro, la democrazia, definita con sprezzo canea, ha solo lati negativi.

Cesare Mori, soprannominato “il prefetto di ferro”, inviato in Sicilia da Mussolini negli anni Venti del secolo scorso.

repressione della mafia da parte del prefetto

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È stata una di quelle cose del fascismo che, per carità, è meglio non toccare: e guardate che io del fascismo non sono un detrattore, certi giornali 35 mi chiamano addirittura fascista... E forse che nel fascismo non c’era del buono? C’era, e come... Questa canea3 che chiamano libertà, queste manciate di fango che volano nell’aria a colpire anche le vesti più immacolate, i sentimenti più puri... 40 Lasciamo andare... Mori, come vi dicevo, è stato qui un flagello di Dio: passava e coglieva, come qui si suol dire, duri e maturi4; chi c’entrava e chi non c’entrava, birbanti e galantuomini, a fantasia sua e di chi gli faceva le spiate... È stata una sofferenza, 45 amico mio, e per la Sicilia intera... Ora voi venite a parlarmi della macchia. Quale macchia? Se conosceste, come io lo conosco, don Mariano Arena, voi non parlereste di macchie: un uomo, lasciatemelo dire, come ce ne sono pochi: 50 non dico per integrità di fede, che a voi, non voglio considerare se giustamente o meno, può anche non interessare; ma per onestà, per amore del prossimo, per saggezza... Un uomo eccezionale, vi assicuro: tanto più se si pensa che è sprovvisto 55 di istruzione, di cultura... Ma voi sapete quanto più della cultura valga la purezza del cuore... Ora prendere un uomo simile come un malfattore è cosa che, lasciatemelo dire con la mia sincerità di sempre, mi fa pensare per l’appunto ai tempi di 60 Mori...». «Ma dalla voce pubblica l’Arena è indicato come capo mafia». «La voce pubblica... Ma che cos’è la voce pubblica? Una voce nell’aria, una voce dell’aria: e porta la 65 calunnia, la diffamazione, la vendetta vile... E poi: che cos’è la mafia?... Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa5... Voce, voce che vaga: e rintrona le teste deboli, lasciatemelo dire... Sapete come diceva Vittorio Ema6 70 nuele Orlando ? Vi cito le sue parole, che, lontani come siamo dalle sue concezioni, assumono, dette da noi, più, lasciatemelo dire, autorità. Diceva...». «Ma la mafia, almeno per certe manifestazioni che io ho potuto constatare, esiste». 3 canea: chiasso, confusione. 4 coglieva... maturi: coglieva frutti maturi e frutti ancora acerbi, senza distinzione; fuor di metafora, “colpiva colpevoli e innocenti”.

5 che ci sia... nessun lo sa: celebre verso del Metastasio (dal Demetrio), ripreso nel libretto di Lorenzo da Ponte per Così fan tutte di Mozart.

Il rinnovato elogio di don Mariano, condotto con sapienza retorica, sembra pronunciato da un uomo di Chiesa poiché celebra, con un’eloquenza e un lessico quasi da pulpito, le indiscusse (?) qualità morali dell’oscuro personaggio («onestà... amore del prossimo... saggezza... purezza del cuore»). Forse memore dell’andamento di alcuni celebri dialoghi manzoniani (Manzoni è autore ben presente a Sciascia), come quello tra il cardinale Federigo e don Abbondio, Sciascia costruisce un capolavoro di ironia e al contempo una testimonianza eloquente del codice mafioso.

6 Vittorio Emanuele Orlando: politico e giurista siciliano, esperto di diritto costituzionale (1860-1952).

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«Mi addolorate, figlio mio, mi addolorate: come siciliano mi addolorate, e come uomo ragionevole quale presumo di essere... Quel che, indegnamente, rappresento, si capisce non c’entra... Ma il siciliano che io sono, e l’uomo ragionevole che 80 presumo di essere, si ribellano a questa ingiustizia verso la Sicilia, a questa offesa alla ragione. Badate che la ragione ha per me, naturalmente, la erre minuscola: sempre... Ditemi voi se è possibile concepire l’esistenza di una associazione criminale 85 così vasta ed organizzata, così segreta, così potente da dominare non solo mezza Sicilia, ma addirittura gli Stati Uniti d’America: e con un capo che sta qui, in Sicilia; visitato dai giornalisti e poi dai giornali presentato, poveretto, nelle tinte più fosche... Ma 90 lo conoscete voi? Io sì: un buon uomo, padre di famiglia esemplare, lavoratore infaticabile. E si è arricchito, certo che si è arricchito: ma col lavoro. E ha avuto i suoi guai con Mori, anche lui... Ci sono uomini rispettati: per le loro qualità, per il 95 loro saper fare, per la capacità che hanno di comunicare, di crearsi immediatamente un rapporto di simpatia, di amicizia; e quella che voi chiamate voce pubblica, il vento della calunnia, subito si leva a dire “ecco i capi mafia...”. 100 E c’è una cosa che non sapete: questi uomini, che la voce pubblica vi indica come capi mafia, hanno una qualità che io mi augurerei di trovare in ogni uomo, e che basterebbe a far salvo ogni uomo davanti a Dio: il senso della giustizia... Istintivo, 105 naturale: un dono... E questo senso della giustizia li rende oggetto di rispetto...». «È questo il punto: l’amministrazione della giustizia è compito dello Stato: e non si può ammettere che...». 110 «Parlo di senso della giustizia, non di amministrazione della giustizia... E poi vi dico: se noi due stiamo a litigare per un pezzo di terra, per una eredità, per un debito; e viene un terzo a metterci d’accordo, a risolvere la vertenza... In un certo 115 senso, viene ad amministrare giustizia: ma sapete cosa sarebbe accaduto di noi due, se avessimo continuato a litigare davanti alla vostra giustizia? Anni sarebbero passati, e forse per impazienza, per rabbia, uno di noi due, o tutti e due, ci saremmo 120 abbandonati alla violenza... Non credo, insomma, che un uomo di pace, un uomo che mette pace, 75

Il notabile (a sua volta presumibilmente colluso con la mafia) continua la sua appassionata perorazione, questa volta a proposito dell’esistenza, da lui negata, della mafia. Che la mafia esista e si estenda fino in America è considerato un oltraggio.

Passo fondamentale, in cui viene affrontato il tema della giustizia, un tema che all’“illuminista” Sciascia stava particolarmente a cuore. I capi mafia sono identificati dall’autorevole personaggio in coloro che hanno per naturale istinto, il «senso della giustizia». Osserva la sottile (e perversa) distinzione che il personaggio, portavoce del codice mafioso, pone tra «senso della giustizia» e «amministrazione della giustizia».

676 Il Novecento (Seconda parte) 12 La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia


venga ad usurpare l’ufficio di giustizia che lo Stato detiene e che, per carità, è legittimo...». «Messe le cose su questo piano...». 125 «E su quale piano volete metterle? Sul piano di quel vostro collega che ha scritto un libro sulla mafia che, lasciatemelo dire, è una tale fantasia che mai me la sarei aspettata da un uomo responsabile...». 130 «Per me la lettura di quel libro è stata molto istruttiva...». «Se intendete dire che vi avete appreso cose nuove, va bene: ma che le cose di cui il libro parla esistano davvero, è un altro discorso... Ma mettiamo le 135 cose su un altro piano: c’è stato mai un processo da cui sia risultata l’esistenza di un’associazione criminale chiamata mafia cui attribuire con certezza il mandato e l’esecuzione di un delitto? È mai stato trovato un documento, una testimonianza, 140 una prova qualsiasi che costituisca sicura relazione tra un fatto criminale e la cosiddetta mafia? Mancando questa relazione, e ammettendo che la mafia esista, io posso dirvi: è una associazione di segreto mutuo soccorso, né più né meno che la 145 massoneria7. Perché non attribuite certi delitti alla massoneria? Ci sono tante prove che la massoneria svolga azioni delittuose quante ce ne sono che le svolga la mafia...». «Io credo...». 150 «Credete a me, lasciatevi ingannare da me: che, per quel che indegnamente rappresento, Dio sa se voglio e posso ingannarvi... E vi dico: quando voi, nell’autorità di cui siete investito, indirizzate, come dire?, le vostre attenzioni verso persone 155 dalla voce pubblica indicate come appartenenti alla mafia, e soltanto per il fatto che sono indicate come mafiose, senza concrete prove e dell’esistenza della mafia e dell’appartenenza ad essa delle singole persone, ebbene: voi fate, al cospetto di 160 Dio, ingiusta persecuzione... E siamo proprio al caso di don Mariano Arena... E di questo ufficiale che l’ha arrestato, senza pensarci due volte, con una leggerezza, lasciatemelo dire, non degna della tradizione dell’Arma8 [...]. Don Mariano è amato e 165 rispettato da un paese intero, prediletto da me, e vi prego di credere che so scegliere gli uomini alla mia dilezione9, e carissimo all’onorevole Livigni e al ministro Mancuso...».

7 la massoneria: associazione iniziatica in cui tutti gli affiliati, legati da un patto segreto di fratellanza, devono contribuire al bene dell’umanità. 8 dell’Arma: sottinteso “dei Carabinieri”. 9 dilezione: stima, affetto.

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 677


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi sono i due interlocutori del dialogo? Da quali punti ed elementi del testo deduci la loro identità? ANALISI 2. Nel dialogo lo spazio è quasi tutto occupato dalle parole del notabile e il ruolo interlocutorio del carabiniere è ridotto al minimo. Come lo spieghi? 3. I brevissimi interventi del carabiniere sono chiusi quasi sempre dai puntini di sospensione. Quale interpretazione può essere data a questa iterazione? STILE 4. Scheda gli aggettivi e le espressioni con cui il notabile definisce la figura di don Mariano: su quale tipologia di “virtù” insiste il personaggio? Perché?

Interpretare

SCRITTURA 5. In una lettera (26 ottobre 1964) Calvino scrive a Sciascia: «Tu sei ben più rigorosamente “illuminista” di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto». Sulla base del testo proposto e delle informazioni più generali di cui disponi su Il giorno della civetta e sull’autore siciliano, in un testo di max 15 righe cerca di spiegare quali aspetti possono ricondurre l’opera di Sciascia all’illuminismo e quali invece lo differenziano. ESPOSIZIONE ORALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 9

6. La scrittura di Sciascia è di forte impegno civile ed è incentrata sulla denuncia delle collusioni tra Stato e mafia. Oggi come viene portata avanti la lotta alla mafia? Attraverso una ricerca in Rete e informazioni tratte da iniziative promosse dalla tua scuola sul tema, traccia un quadro della “lotta alla mafia” in Italia dagli anni Novanta a oggi. Esponi, poi, alla classe il risultato del tuo lavoro.

Scrivere di mafia Presentiamo due testi tratti da opere ormai distanti decenni dal romanzo-pilota sulla mafia di Sciascia, a testimonianza della persistenza – purtroppo – di questo grave problema della società italiana. I due testi, rispettivamente di Vincenzo Consolo e di Roberto Saviano, si prestano a un utile confronto con l’analisi dell’autore siciliano. Lo spasimo di Palermo Pubblicato nel 1998, è il quarto romanzo dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, Messina 1933 Milano 2012) dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Retablo (1987) e Nottetempo, casa per casa (1992). Per Consolo, la letteratura ha sempre un risvolto ideologico, un alto compito civile, anche quando, come in due dei romanzi citati, si fa riferimento a tempi lontani dal presente (il Settecento illuministico in Retablo, il Risorgimento ne Il sorriso dell’ignoto marinaio). Secondo la grande lezione manzoniana, negli eventi storici del passato Consolo coglie sempre una lezione per il presente. Vincenzo Consolo.

678 Il Novecento (Seconda parte) 12 La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia


Vicino al conterraneo Sciascia per la passione civile che anima le sue opere, Consolo se ne distanzia per la scelta di una prosa lirica (anziché di romanzi qualcuno ha parlato addirittura di “poemi”), di un linguaggio prezioso, neobarocco, denso di arcaismi, termini dotti e/o dialettali (aspetti stilistici che, nel caso de Lo spasimo di Palermo, sono presenti soprattutto nella prima parte dell’opera). Anche le tecniche narrative impiegate sono molto sofisticate e rifuggono da un’immediata comprensibilità. Attraverso queste scelte, lo scrittore siciliano manifesta la sua contrapposizione alle leggi omologanti dell’industria culturale di massa. Il romanzo deriva il titolo suggestivo dalla chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo, in cui si trovava un quadro di Raffaello raffigurante La caduta di Cristo sul cammino del Calvario (ora a Madrid), ma è anche allusivo al dolore e alla crisi di valori che opprime la città. Il romanzo ha inizio a Parigi dove il protagonista, lo scrittore Gioacchino (Chino) Martinez (proiezione autobiografica di Consolo stesso) attende il figlio Mauro, che là si è rifugiato perché accusato di terrorismo. Chino ricorda gli eventi dolorosi del passato, l’infanzia in Sicilia, l’uccisione del padre, un uomo autoritario, da parte dei tedeschi e gli eventi che seguirono nel dopoguerra fino al doloroso sprofondare nella follia dell’amata moglie Lucia. Con il figlio, Chino ha un rapporto di sostanziale incomprensione: il giovane, ribelle rivoluzionario, gli rimprovera di rimanere chiuso nel mondo dei libri, ignorando la drammatica realtà del paese. A Parigi, Chino rivede in una cineteca un film che aveva colpito il suo immaginario infantile, Judex, incentrato sulle avventure di un giustiziere in mantello nero. Dopo anni di lontananza, Chino decide di tornare a vivere a Palermo. Ma trova una città in sfacelo, preda della mafia. Uscendo dalla chiesa di Santa Maria dello Spasimo, fa la conoscenza di un giudice, severo difensore della legge, a cui sovrappone il personaggio del mitico giustiziere della sua infanzia. Assisterà di persona al suo assassinio. Gomorra Pubblicato nel 2006, il romanzo d’esordio di Roberto Saviano (Napoli 1979), scrittore e giornalista, potrebbe ricordare la tendenza di Sciascia a usare la scrittura per opereinchiesta ispirate a una forte tensione morale e civile. Il giovane scrittore, animato, come Sciascia molto prima di lui, da una coraggiosa volontà di denuncia, struttura il suo romanzo-reportage come un incontro ravvicinato, condotto in prima persona, con il mondo della camorra napoletano-campana: utilizzando le sue personali impressioni ma anche fonti qualificate (come atti di istruttorie e verbali di polizia), Saviano mira a far conoscere al lettore nel dettaglio i luoghi e gli ambiti (appalti edilizi, commercio dell’abbigliamento, mercato della droga ecc.) in cui si manifesta il potere del “sistema”. Il duro attacco alle associazioni camorristiche, le cui criminose attività sono descritte per la prima volta con precisione documentaria in un testo destinato al largo pubblico, ha fruttato a Saviano minacce di morte (dallo stesso 2006 vive sotto scorta). Lo straordinario successo dell’opera (tradotto in 52 paesi, in molti dei quali è da anni un best seller), moltiplicato dal film di Matteo Garrone del 2008 (e in seguito anche da una fortunata serie televisiva), ha fatto dell’autore un “personaggio”, un’icona soprattutto del pubblico giovanile, spesso invitato a dibattiti e trasmissioni televisive. Roberto Saviano.

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 679


T5a

Vincenzo Consolo

LEGGERE LE EMOZIONI

«Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto...» Lo spasimo di Palermo V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998

Il passo che presentiamo chiude il romanzo di Consolo. La prima parte del testo è il contenuto di una lettera che il protagonista sta scrivendo al figlio lontano, dall’albergo palermitano dove temporaneamente si trova a soggiornare. Martinez descrive le terribili condizioni di Palermo, «un campo di battaglia, un macello quotidiano», preda delle cosche mafiose, in lotta contro lo Stato per controllare i traffici «più immondi». In questo quadro sconfortante spiccano, nelle sue parole, le figure dei giudici «di salda etica» (è evidente l’allusione a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) che lottano per la difesa della legalità a rischio della loro stessa vita. La seconda parte del testo è il drammatico resoconto dell’attentato mafioso che costò la vita a Borsellino.

Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto!1 – È una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il prin5 cipale loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro 10 prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici. Ma ti parlo di fatti noti, diffusi dalle cronache, consegnati alla più recente storia. Voglio solo comunicarti le mie impressioni su questa realtà in cui vivo. Dopo l’assassinio in maggio del giudice, della moglie e delle guardie, dopo i tu15 multuosi funerali, la rabbia, le urla, il furore della gente, dopo i cortei, le notturne fiaccolate, i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, in questo luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento2, di luce incandescente che vanisce il mondo, greve di profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano. Sembra di vivere ora in una strana sospensione, in un’attesa. 20 Ho conosciuto un giudice3, procuratore aggiunto, che lavorava già con l’altro ucciso, un uomo che sembra aver celato la sua natura affabile, sentimentale dietro la corazza del rigore, dell’asprezza. Lo vedo qualche volta dalla finestra giungere con la scorta in questa via d’Astorga per far visita all’anziana madre che abita nel palazzo antistante. Lo vedo sempre più pallido, teso, l’eterna sigaretta fra le dita. Mi 25 fa pena, credimi, e ogni altro impegnato in questa lotta. Sono persone che vogliono ripristinare, contro quello criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle sue leggi.

1 ah... l’aeroporto!: il narratore si riferisce all’attentato mafioso di Capaci (23 maggio 1992) sulla strada tra Palermo e l’aeroporto, in cui rimasero uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta (il giudice nominato alcune righe dopo è appunto Falcone). L’enorme quantità di

tritolo impiegata dagli attentatori produsse effettivamente sull’autostrada un vero e proprio cratere. 2 la conca di cemento: la piana dove sorge Palermo, che era chiamata la “Conca d’oro”, deturpata dagli abusi edilizi. 3 Ho conosciuto un giudice: dai dati

forniti dal narratore è facile identificare il personaggio nel giudice Paolo Borsellino, assassinato da Cosa nostra in via D’Amelio (qui chiamata con il nome immaginario di via d’Astorga) il 19 luglio 1992, mentre si recava a trovare la vecchia madre.

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Sembrano figli, loro, di un disfatto padre, minato da misterioso male, che si ostinano a far vivere, restituirgli autorità e comando. Quando esce dalla macchina, attraversa la strada, s’infila nel portone, vedo allora 30 sulle spalle del mio procuratore aggiunto il mantello nero di Judex, l’eroe del film spezzato nella mia lontana infanzia4 [...]. Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in Inghilterra, nella Francia dello Stato e del Diritto è fiorita la figura del giustiziere 35 che giudica e sentenzia fuori dalle leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri [...]. In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie, questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, da tenebrosi e onnipotenti Ferragus o Cagliostri, dove tutti ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, il giudice che applica le leggi ci ap40 pare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere5. [...] Lo interruppe lo squillo del telefono. Era Michela6 che gridava, piangendo: «Don Gioacchino, presto, esca di casa, scappi subito, lontano!» Riattaccò. Gioacchino restò interdetto, smarrito. Sentì nella strada deserta, silenziosa, 45 i motori forti, lo sgommare delle auto blindate. Guardò giù. Erano il giudice e la scorta. Vide improvvisamente chiaro. Capì. Si precipitò fuori, corse per le scale, varcò il portone, fu sulla strada. «Signor giudice, giudice...». I poliziotti lo fermarono, gl’impedirono d’accostarsi. Sembrò loro un vecchio pazzo, un reclamante. 50 Il giudice si volse appena, non lo riconobbe. Davanti al portone, premette il campanello. E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle carni, la morte che galoppa trionfante. Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il suo banchetto, coperto di 55 polvere, vetri, calcinacci. Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi verso il cielo fosco. Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto O gran mano di Dio, ca tanto pisi, cala, mano di Dio, fatti palisi!7

4 vedo allora... infanzia: nel giudice il narratore rivede l’eroe della sua infanzia, Judex, il giustiziere che perseguita i criminali, protagonista di un film visto all’oratorio. 5 oltre che... uccidere: il narratore ha parlato prima di un paradosso: mentre in Francia (dove le leggi sono rispettate e si ha forte il senso dello Stato), è esaltata dalla letteratura (si citano alcuni noti romanzieri ottocenteschi) la figura del giustiziere fuori dalle leggi, l’Italia (in cui invece le leggi sono sistematicamente violate e lo Stato è colluso, attraverso trame oscure, con i poteri mafiosi) espunge, considera

personaggio scomodo, addirittura da eliminare fisicamente, il giudice che difende e applica le leggi (come fecero Falcone e Borsellino). I Dévorants sono gli appartenenti a un ordine massonico francese di cui Ferragus – misterioso personaggio dall’oscuro passato, protagonista del racconto omonimo di Balzac – è membro e Gran Maestro; Cagliostro era il soprannome di Giuseppe Balsamo (1745-1795), avventuriero, mago, alchimista; il nome di Cagliostro (qui al plurale) è usato come sinonimo di personaggio oscuro e malefico. 6 Michela: la giovane donna che accu-

diva Martinez a casa sua e che presumibilmente aveva avuto notizia dal marito Damiano (un poco di buono, legato ad ambienti mafiosi) che ci sarebbe stato un attentato vicinissimo all’albergo dove si trovava Chino. 7 O gran mano... fatti palisi!: “O gran mano di Dio che tanto pesi, scendi, mano di Dio, manifestati!”. L’invocazione in dialetto siciliano del fiorista, rivolta a un Dio di cui si lamenta l’assenza di fronte alle tragedie, come l’uccisione del giudice, chiude, con enfasi drammatica, il romanzo.

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Analisi del testo Un ritratto fosco di Palermo La prima parte del testo è incentrata sulla descrizione che il narratore fa di Palermo in una lettera al figlio, a poca distanza di tempo dalla strage di Capaci ad opera della mafia, che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie e alla sua scorta. Una città in cui dominano la violenza e la morte, evocate dal narratore con una serie di termini duramente realistici, in climax ascendente («campo di battaglia... straziano, carbonizzano, spiaccicano membra...» culminante nell’esclamazione che evoca, con evidenza visiva, la scena della strage di Capaci: «ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto!»). Entrano poi in scena le figure dei giudici come Falcone e l’amico Borsellino e si fa riferimento alla loro ferma ma disperata lotta su diversi fronti (la mafia, gli uomini di legge che non condividono la loro battaglia, i membri corrotti dei vari governi).

Il giudice Borsellino e lo Stato Nella seconda parte del testo, il narratore ritrae in modo inequivocabile il giudice Borsellino («lavorava... con l’altro ucciso»): la sigaretta sempre accesa, la natura affabile celata dietro una maschera di aspro rigore, la tensione crescente stampata in volto dopo la tragica morte dell’amico Falcone (e la conseguente consapevolezza della possibilità, non certo remota, di fare la stessa fine). Nel suo immaginario, il narratore lo sovrappone al giustiziere che perseguitava i criminali (Judex) che lo aveva ammaliato in un film visto da bambino. Al ritratto di Borsellino, alla sua statura quasi eroica, alla sua determinazione nel difendere le leggi, si contrappone la rappresentazione pesantemente negativa dello Stato («un disfatto padre, minato da un misterioso male»), uno Stato di fatto in mano a cosche mafiose, abituato ad assolvere con facilità, in cui tutti sono impegnati a delinquere. Proprio la lotta senza speranza di Borsellino conferisce al personaggio un’aura epica, da cavaliere d’altri tempi.

Una rappresentazione in presa diretta L’ultima sezione del testo rappresenta in presa diretta l’attentato a Borsellino, a cominciare dalla telefonata della domestica volta a far allontanare dalla zona il narratore. Le espressioni relative all’esplosione sono anche qui in crescendo, fino all’apocalittica rappresentazione di un moderno “trionfo della morte” («la morte che cavalca trionfante»). Chiude in modo suggestivo la tragica scena l’implorazione del fiorista a Dio, che ne invoca l’aiuto e la presenza in un mondo in cui il male appare vittorioso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Il passo proposto è diviso dallo spazio bianco in due parti: sintetizza il contenuto di ognuna e rileva le differenze tra le due parti a livello di tecnica narrativa. SINTESI 2. Riassumi le amare considerazioni del narratore sulla situazione della città di Palermo presenti nella prima parte del testo. COMPRENSIONE 3. Che cosa accomuna il giudice al personaggio di Judex agli occhi del protagonista? ANALISI 4. Su quali due fronti sono costretti a combattere «i giudici di nuova cultura»? STILE 5. Identifica e commenta l’immagine metaforica con cui è rappresentato lo stato, che i giudici si ostinano a difendere.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. Rileggi l’accorata invocazione che chiude il romanzo. Di fronte al male che appare vittorioso, quali sentimenti provi? Di impotenza o di voglia di reagire all’ingiustizia?

682 Il Novecento (Seconda parte) 12 La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia


Roberto Saviano

T5b

«Mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 7

Gomorra R. Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006

Il passo che proponiamo è tratto dalla seconda parte del romanzo: mentre la prima è costruita su dati incalzanti, spesso iscritti in lunghi “elenchi”, nella seconda emerge maggiormente la componente autobiografica e si infittisce la presenza di riflessioni e considerazioni.

Il potere dei clan rimaneva il potere del cemento1. Era sui cantieri che sentivo fisicamente, nelle budella, tutta la loro potenza. Per diverse estati ero andato a lavorare nei cantieri2, per farmi impastare cemento non mi bastava altro che comunicare al capomastro la mia origine e nessuno mi rifiutava il lavoro. La Campania forniva i 5 migliori edili d’Italia, i più bravi, i più veloci, i più economici, i meno rompicoglioni. Un lavoro bestiale che non sono mai riuscito a imparare particolarmente bene, un mestiere che ti può fruttare un gruzzolo cospicuo solo se sei disposto a giocarti ogni forza, ogni muscolo, ogni energia. Lavorare in ogni condizione climatica, con il passamontagna in viso così come in mutande. Avvicinarmi al cemento, con le mani 10 e col naso, è stato l’unico modo per capire su cosa si fondava il potere, quello vero. Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi sino in fondo i meccanismi dell’edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta da lavoro sul selciato, all’incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D’Annunzio a Ercolano3. Era caduto da un’impalcatura. Dopo l’incidente erano scappati tutti, geometra 4 15 compreso . Nessuno ha chiamato l’autoambulanza, temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Allora, mentre scappavano, avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora vivo, mentre sputava sangue dai polmoni. Quest’ennesima notizia di morte, uno dei trecento edili che crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in qualche parte del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una 20 rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d’asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi5 che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un’esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo 6 25 forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo , da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia7 dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica

1 il potere del cemento: il potere legato all’industria delle costruzioni. Più avanti si dirà: «Non esiste impero economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d’appalto, appalti, cave, cemento, inerti [materiali costituenti del calcestruzzo], malta, mattoni, impalcature, operai. [...] L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile...».

2 ero andato... nei cantieri: l’io narrante

5 il protagonista... Bianciardi: il protago-

nel romanzo mostra sempre una conoscenza diretta delle realtà che rappresenta, che vuole conoscere fisicamente, come ha detto poco prima, per poterla davvero comprendere e poi rappresentare. 3 Ercolano: località vicino a Napoli. 4 Dopo l’incidente... compreso: evidentemente l’operaio caduto dall’impalcatura non lavorava in condizioni di sicurezza e nessuno (ovviamente non il geometra) è disposto a confessarlo.

nista dell’importante romanzo La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi (1922-1971), dalla provincia va a vivere a Milano con l’obiettivo di vendicare i minatori morti in un grave incidente causato dalla mancanza di tutela della sicurezza sul lavoro. 6 il Palazzo: un simbolo inequivocabile del potere politico ed economico (da qui l’articolo determinativo e la maiuscola). 7 schizofrenia: qui, esaltazione delirante.

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di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini8 come un jingle musicale9 che si ripeteva sino all’assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini. Ci sono andato da solo, anche 30 se queste cose per renderle meno patetiche bisognerebbe farle in compagnia. In banda. Un gruppo di fedeli lettori, una fidanzata. Ma io ostinatamente sono andato da solo. [...] Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. Pier Paolo Pasolini. Il nome uno e trino, come diceva Caproni10, non è il mio santino laico11, né un Cristo letterario. Mi andava di trovare un posto. Un 35 posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell’architettura dell’autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo12 le dinamiche del reale, l’afferma40 zione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura. Presi il treno da Napoli per Pordenone, un treno lentissimo dal nome assai eloquente sulla distanza che doveva percorrere: Marco Polo. Una distanza enorme sembra separare il Friuli dalla Campania. Partito alle otto meno dieci arrivai in Friuli alle sette e venti del giorno dopo, attraversando una notte freddissima che non mi diede 45 tregua per dormire neanche un po’. Da Pordenone con un bus arrivai a Casarsa e scesi camminando a testa bassa come chi sa già dove andare e la strada può anche riconoscerla guardandosi la punta delle scarpe. Mi persi, ovviamente. Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone, il cimitero dove è sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l’ingresso, c’era un’aiuola 50 di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. “Pier Paolo Pasolini (1922-1975)”. Al fianco, poco più in là, quella della madre. Mi sembrò d’essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l’io so del mio tempo13. 8 l’Io so di Pasolini: Saviano si riferisce a un celebre articolo di Pasolini sul «Corriere della Sera» (14 novembre 1974) in cui lo scrittore friulano afferma di poter additare con certezza le responsabilità politiche dei fatti sanguinosi di quegli anni (ma di non disporre delle prove). 9 jingle musicale: motivetto ricorrente, sigla musicale.

10 Caproni: Giorgio Caproni (1912-1990) è uno dei maggiori poeti del Novecento (➜ C19). 11 santino laico: santo protettore laico. 12 porci da tartufo: grazie al loro ottimo senso dell’olfatto, i maiali sono in grado di scovare i tartufi (da molto tempo quest’uso è vietato per legge; sono stati sostituiti nella ricerca dai cani).

13 l’io so del mio tempo: con riferimento all’“io so” di Pasolini anche Saviano, nelle righe che seguono (qui non riprodotte) enuncia un testo analogo di forte denuncia che si conclude con la frase: «Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità».

Analisi del testo L’indignazione civile come motivazione per la scrittura Il passo evidenzia con molta chiarezza ciò che sta alla base dell’opera prima di Saviano e ne determina le caratteristiche: l’io narrante, che è del tutto sovrapponibile all’autore stesso, non scrive per fare opera di letteratura, ma esclusivamente per documentare e far conoscere ai lettori la gravità di un problema tipico del nostro paese, cioè l’esistenza e lo strapotere della mafia (in questo caso si tratta della camorra). L’autore-scrittore ha voluto vivere personalmente dentro un cantiere edile per conoscere da vicino “il potere del cemento”. In quella condizione ha assistito a una morte “sul lavoro”, dovuta evidentemente a condizioni di lavoro non sicure, come testimonia la fuga precipitosa

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di chi poteva averne la responsabilità, lasciando morire sulla strada l’operaio caduto dalle impalcature. L’indignazione che il narratore ha provato di fronte al tragico episodio gli ricorda quella del protagonista di un noto romanzo della cosiddetta “letteratura sull’industria”, La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, che per vendicare la morte di 43 minatori vorrebbe far saltare a Milano il palazzo dove ha sede la Montecatini, proprietaria della miniera in Toscana dove è avvenuta la tragedia (ma poi non lo farà). In realtà l’acquisizione della consapevolezza di quella che l’autore considera una vera e propria “missione” (testimoniare e documentare dure verità attraverso la scrittura), passerà attraverso una sorta di pellegrinaggio rituale che lo conduce alla tomba di Pasolini, che Saviano evidentemente considera maestro autorevole di una scrittura “civile” (in particolare con i suoi ultimi scritti duramente polemici). Al celebre «Io so» dello scrittore friulano (➜ VOL 3B C16 D3c ) segue, quasi in un simbolico passaggio di consegne, il nuovo «io so» di Saviano.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché l’io narrante (in cui si rispecchia l’autore stesso) sceglie di farsi assumere in un cantiere edile? Quale relazione ha questa scelta con la prospettiva che caratterizza il romanzo? 2. Spiega il significato del titolo scelto da Saviano per il suo romanzo. ANALISI 3. Indica, spiega e commenta le espressioni con cui il narratore narra il ruolo esercitato dalla morte dell’operaio caduto da un’impalcatura nel suo processo di autocoscienza. 4. Il narratore-autore è tentato dalla possibilità di reagire alle ingiustizie che vede con un atto violento: quale opera e quale autore rappresentano per lui un modello in tale scelta possibile? Quale diversa strada decide invece di seguire e quale modello culturale la ispira?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Utilizzando i due testi proposti, metti a confronto l’indagine di Sciascia sul potere mafioso con quella di Saviano indicando analogie e differenze. Fai riferimento anche alle tecniche narrative e di scrittura usate dai due autori.

EDUCAZIONE CIVICA

6. Mafia e cemento costituiscono un binomio ricorrente nelle azioni della malavita organizzata. Crimine e deturpazione del paesaggio, con speculazioni edilizie nelle mani della mafia, sono purtroppo una costante difficile da estirpare in molti paesi del mondo. Fai una ricerca in Rete ed esamina i rapporti di Legambiente in merito ad abusivismo, mafia e corruzione in Italia. Esponi poi il risultato del tuo lavoro alla classe.

ESPOSIZIONE ORALE nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 7

Fissare i concetti La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia 1. Quali sono gli esponenti, i principi e gli obiettivi della Neoavanguardia? 2. Quali caratteristiche presenta il romanzo della Neoavanguardia? 3. Quale realtà viene rappresentata da Arbasino in Fratelli d’Italia? 4. Perché Arbasino può essere affiancato a Gadda? 5. Qual è la maggiore opera di Luigi Malerba? Di cosa tratta? 6. Perché si può dire che Sciascia rappresenti la coscienza civile del paese? 7. Perché il romanzo di Sciascia Il giorno della civetta suscitò scalpore? 8. Quali argomenti tratta Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo? 9. Perché Gomorra può essere definito un romanzo-reportage?

Sperimentalismo e Neoavanguardia 1 685


Il Novecento (Seconda parte) La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia

Sintesi con audiolettura

1 Sperimentalismo e Neoavanguardia

La fine dell’esperienza neorealista e lo sperimentalismo della Neoavanguardia Dopo la metà degli anni Cinquanta l’esperienza neorealista si conclude: il modello di letteratura elaborato non è convincente e la situazione socio-culturale ed economica sta cambiando, modificando i valori e la mentalità del paese e la figura stessa dell’intellettuale, inserito ormai in una dinamica di mercato. Il dibattito sulle riviste di critica letteraria sottolinea la necessità di una nuova tipologia di letteratura La Neoavanguardia All’inizio degli anni Sessanta, con la formazione del Gruppo 63 (1963), si afferma un movimento letterario sperimentale che si autodefinisce “Neoavanguardia”, ispirato alle avanguardie che si erano sviluppate in Europa nel primo Novecento. Rispetto al dibattito precedente, si osserva un atteggiamento più critico verso il neocapitalismo e la realtà in generale, che si traduce in scelte letterarie radicali: si rifiutano generi e strutture linguistiche affermate (il romanzo tradizionale e gli intrecci lineari, ad esempio); mancano, contemporaneamente, il realismo e gli intenti etico-politici tipicamente neorealisti, abbandonati a favore di una concezione di letteratura come menzogna, artificio intellettuale. Essa, infatti, deve confrontarsi con un presente caotico e senza senso, da analizzare non in ottica marxista ma con l’aiuto delle scienze della comunicazione, della linguistica e della psicologia. Non è semplice tracciare i confini della Neoavanguardia: alcuni autori vi appartengono senza dubbio, come Sanguineti; altri – come Arbasino, Malerba e Manganelli – vi si accostano solamente, mantenendo una propria identità; per altri ancora, quella dell’avanguardia è solo una fase (si pensi a Celati); e vi è anche chi riesce a essere sperimentale a prescindere dal movimento (Volponi).

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Manganelli, Arbasino e Malerba: narratori della Neoavanguardia con una propria identità Giorgio Manganelli (1922–1990) è stato un critico del romanzo tradizionale e teorizzatore dell’idea di “letteratura come menzogna”. Non estraneo alle atmosfere di Calvino e di Borges, è stato anche giornalista, dimostrandosi intellettuale raffinato. Arbasino e Fratelli d’Italia: un’opera “aperta” Alberto Arbasino (1930-2020) è uno scrittore interessato a lavorare soprattutto sul linguaggio, sullo stile, allo scopo di far emergere convenzioni e miserie della società. All’inizio degli anni Sessanta, Arbasino aderisce al Gruppo 63 ed esce il suo romanzo-capolavoro Fratelli d’Italia; segue una produzione abbondante, oscillante tra opere letterarie e di costume, anche se sostanzialmente monocorde. Fratelli d’Italia, opera spesso riscritta e modificata nel corso degli anni, è una rappresentazione dell’alta borghesia italiana degli anni Sessanta vista attraverso gli occhi di un narratore e di quattro giovani intellettuali impegnati in un viaggio lungo l’Italia. Per questo carattere non definitivo, ma anche per la mancanza di un vero intreccio e di veri e propri protagonisti, essa rappresenta un lavoro d’avanguardia, oltre che una delle testimonianze più emblematiche del postmoderno; il linguaggio adottato dall’autore, un pastiche ispirato da Gadda, la ascrive all’esperienza della Neoavanguardia. Luigi Malerba e Il serpente Luigi Malerba (1927–2008) esordisce come scrittore nel 1963; i suoi due romanzi della stessa decade sono entrambi riconducibili all’area della Neoavanguardia per la dissoluzione delle strutture narrative che deriva dall’adozione di una prospettiva visionaria e straniata: per quanto sperimentali, tuttavia, essi rimangono perfettamente godibili. Nei lavori successivi, invece, l’autore adotta modalità narrative diverse. La sua opera più celebre è intitolata Il serpente: un romanzo costituito da un monologo allucinato del protagonista, un nevrotico alle prese con un’ossessione d’amore carica di mistero, quasi da romanzo giallo.

L’impegno civile di Sciascia: una voce controcorrente Leonardo Sciascia (1921-1989) non aderisce al sofisticato sperimentalismo neoavanguardista ma resta fedele a un ideale civile di letteratura, che si esplica nell’indagine critica del potere e nel dovere di confrontarsi con i problemi della società: non a caso il suo stile è classico e razionale, capace di dare corpo a contenuti e argomentazioni. L’opera di Sciascia, sia narrativa che saggistica, è imprescindibile dalla sua terra d’origine, la Sicilia, considerata un paradigma delle tendenze negative dell’intero paese: in particolare, l’intellettuale agrigentino è il primo a portare alla ribalta il tema della mafia.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 687


Verso l’inizio degli anni Settanta, Sciascia amplia lo sguardo alla realtà italiana, indagandone la politica in romanzi-inchiesta ispirati al giallo; la forma del romanzo viene poi abbandonata per fare posto, pochi anni dopo, a vere e proprie indagini documentarie. Il suo metodo di lavoro e atteggiamento di fondo ne fanno un neo-illuminista, anche se gli manca la fiducia ottimistica che la verità e i valori positivi possano trionfare. Una delle sue opere più celebri è Il giorno della civetta (1961): un libro che suscitò scalpore per il tema trattato (il potere mafioso e i suoi legami con la politica) in una realtà, quella italiana, dove un tale argomento non era mai stato affrontato pubblicamente. A distanza di anni dal lavoro di Sciascia, il tema della mafia e della criminalità organizzata è ancora ben presente nella nostra letteratura: si vedano i casi di Vincenzo Consolo e Roberto Saviano, ben noti al grande pubblico.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Realizza una presentazione in PowerPoint sulla Neoavanguardia e presentala alla classe.

Scrittura

2. In un testo di max 10 righe spiega perché Leonardo Sciascia può essere definito un intellettuale “controcorrente”.

Recensione

3. Guarda il film Gomorra e scrivi due recensioni di segno opposto: una per invitare i lettori a prendere visione del film e una per sconsigliarne loro la visione.

688 Il Novecento (Seconda parte) La stagione dello sperimentalismo e della Neoavanguardia


Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

13 Letteratura e industria

Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta il rapido sviluppo industriale e il boom economico trasformano la società italiana e modificano lo stesso volto del paesaggio, soprattutto nel Nord del paese. Il Sud rimane ai margini del processo, fornendo soprattutto manodopera all’industria grazie all’emigrazione di massa verso il Nord sviluppato. La fabbrica e la figura dell’operaio diventano per alcuni anni una presenza chiave nell’immaginario collettivo e ispirano il dibattito ideologico. Il volto stesso dell’intellettuale muta e non pochi si inseriscono a vari livelli nella vita industriale (in particolare grazie al progetto illuminato di Adriano Olivetti). La fabbrica e la condizione operaia costituiscono un tema d’obbligo per la letteratura stessa, che tende a rappresentare una voce “critica”, che svela le contraddizioni e i costi umani del processo (da Mastronardi a Bianciardi a Volponi). Già nei primi anni Settanta nuove tecnologie, un mercato più articolato, un capitalismo più aggressivo portano al declino del lavoro operaio tradizionale e aprono nuovi, inquietanti scenari che ancora una volta la letteratura è chiamata a interpretare.

letteratura interpreta 1 Lale contraddizioni del boom economico

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1

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 Lo sviluppo industriale e i cambiamenti nella società italiana Un rapido sviluppo economico Tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta l’Italia conosce un periodo di grande sviluppo, una crescita economica intensa e prolungata che nell’arco di nemmeno dieci anni ridisegna il volto del paese, trasformandolo da prevalentemente agricolo a industriale, per lo meno nel Nord Italia. È il cosiddetto “miracolo” economico italiano, risultato della concomitanza di molti fattori, nazionali e internazionali (come la costituzione di grandi imprese pubbliche, lo sviluppo delle infrastrutture, l’espansione della domanda, la stabilità della moneta, gli aiuti provenienti dall’America grazie al piano Marshall, la costruzione di una Comunità economica europea). Le Olimpiadi di Roma nel 1960 sono viste da molti come simbolo di questa straordinaria ripresa economica. Lo squilibrio tra Nord e Sud e l’emigrazione interna Le grandi fabbriche hanno sede prevalentemente al Nord, nel “triangolo industriale”; a Torino la Fiat Mirafiori è la più grande concentrazione operaia del paese (dal 1953 al 1962 passa da 16.000 a 32.000 lavoratori). Mentre l’Italia settentrionale è proiettata verso lo sviluppo e la modernità, l’Italia meridionale continua invece a basarsi su un’economia prevalentemente agricola che stenta ad assimilare la nuova mentalità produttiva e sociale. La conseguente emigrazione di massa dalle regioni meridionali alle città industriali del Nord crea inevitabilmente attriti sociali tra emigrati e abitanti delle città del Nord, a causa dei diversi stili di vita e di un divario culturale, e anche linguistico, che renderà l’integrazione un processo non sempre facile e scontato.

Il grattacielo Pirelli, detto “Pirellone”, disegnato da Giò Ponti, simbolo della moderna città industriale (1962).

690 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Trasformazioni antropologiche La ricerca di un posto di lavoro spinge intere famiglie dalle campagne (anche del Nord, dal Veneto, dalla zona pedemontana, dalla Bassa padana) verso le città, e decreta la fine della società rurale e contadina. Le città settentrionali vivono uno sviluppo edilizio caotico, si allargano i sobborghi industriali e la fabbrica diventa un elemento sempre più caratterizzante del profilo urbano (➜ T1c ). La modernizzazione del paese cambia anche il rapporto fra produzione artigianale e industria, oltre a modificare lo status sociale di intere categorie di lavoratori che perdono oppure acquistano peso sociale (➜ T5 OL). I tempi dettati dall’industria sono diversi da quelli della natura (il ciclo di lavorazione non rispetta la distinzione tra giorno e notte, la catena di montaggio impone movimenti meccanici e ripetitivi): i nuovi ritmi alimentano l’alienazione, generano disagi psicologici, nevrosi (➜ T1d ). Ma le nuove possibilità di lavoro rappresentano anche un’occasione di riscatto e recupero di dignità per le classi meno agiate, una presa di coscienza dei propri diritti, oltre che maggiori comodità e appagamento di desideri materiali. Inizia così a svilupparsi, anche in Italia la “società dei consumi”, oggetto di critica da parte di alcuni scrittori che vedono i rapporti umani diventare meno sinceri e più difficoltosi in cambio di un poco di benessere; esemplare in questo senso è il romanzo di Bianciardi La vita agra (1962 ➜ T3 ), il cui titolo sembra proporre un ribaltamento rispetto a quello del film La dolce vita di Fellini uscito nel 1960. La formazione di una “cultura industriale” In questi anni i più innovativi gruppi industriali – Olivetti, Pirelli, Finmeccanica, ENI ad esempio – pubblicano anche riviste di carattere culturale e impegnano numerosi intellettuali nello sforzo di divulgare un’immagine positiva dello sviluppo industriale. Si costituisce una nuova figura di intellettuale che ha a che fare con la sfera della produzione ed entra direttamente nella fabbrica, lavorando nell’ambito delle relazioni aziendali, della selezione del personale, oppure opera come addetto stampa, pubblicitario e redattore di riviste (esempi ne sono scrittori come Ottiero Ottieri, Franco Fortini, Paolo Volponi, poeti come Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli, Attilio Bertolucci).

Macchina per scrivere Lettera 22, prodotta da Olivetti ed esportata in tutto il mondo.

Linea di produzione dell’Ercole Marelli a Milano, fine anni Cinquanta.

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 691


L’utopia “illuministica” di Olivetti Una delle figure di imprenditori di maggior rilievo in questo periodo è certamente quella di Adriano Olivetti (1901-1960). Egli cerca di conciliare le aspirazioni dei lavoratori a un lavoro retribuito giustamente e gratificante con le esigenze del mercato. Ritiene da una parte che la produttività sia legata al coinvolgimento del lavoratore nel proprio lavoro e dall’altra che sia dovere dell’imprenditore reinvestire i profitti per lo sviluppo della società. Ma ciò che soprattutto caratterizza il pensiero di Olivetti è l’idea che anche il bello, la cultura, l’arte devono essere portati dentro la fabbrica e contribuire allo sviluppo delle potenzialità di chi ci lavora. Per questi motivi Olivetti sceglie come dirigenti della sua azienda uomini di cultura e fonda le “Edizioni di Comunità”, punto di incontro tra l’industria e gli intellettuali, che contribuiranno alla nascita del fenomeno della «letteratura industriale». Inoltre, poiché l’industria deve dialogare con la società e il territorio in cui si trova, dà vita a ipotesi di riorganizzazione urbanistica sia nella città di Ivrea sia a Pozzuoli. Con la morte di Olivetti il suo illuminato progetto si interrompe. Uno dei prodotti di punta della Olivetti sono state le macchine da scrivere portatili, su tutte le Lettera 22 (1950) e la Lettera 32 (1963), che grazie al limitato ingombro, alla trasportabilità e anche al design (di Marcello Nizzoli) ebbero uno straordinario successo, specie fra gli studenti e i giornalisti (come Enzo Biagi e Indro Montanelli, spesso fotografati mentre erano intenti a scrivere il loro articolo).

rivista «Il Menabò» e il dibattito 2 La sui nuovi compiti dello scrittore «Il Menabò» L’importanza centrale che la fabbrica assume nella società italiana fa sì che all’inizio degli anni Sessanta il tema della sua rappresentazione divenga oggetto di un vivace dibattito. Centrale è il ruolo esercitato dalla rivista «Il Menabò», fondata a Torino nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino, che ne condivisero la direzione fino al 1966, anno della morte di Vittorini. Il termine “menabò” fa riferimento a una fase del lavoro editoriale prima dell’avvento del digitale: è un modello di impaginazione, un bozzetto grafico della pagina con testi e immagini; il titolo della rivista allude dunque alla funzione che, secondo i suoi fondatori, dovrebbe assumere l’intellettuale nel mondo dell’industria e della produzione culturale, cioè rappresentare colui che inquadra i fenomeni e dà loro ordine e significato. La rivista pubblica due o tre numeri all’anno, di carattere monografico, raccogliendo sia testi in prosa e poesia sia saggi letterari che siano riconducibili a una tematica comune. Già nel primo numero vi si leggeva Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi, uno dei primi romanzi che affrontavano i temi del boom economico e delle trasformazioni sociali e antropologiche da esso derivate. Nel numero 4 (settembre 1961), interamente dedicato a Industria e letteratura, e nel numero 5 (1962), in cui molti intellettuali provano a rispondere agli interrogativi proposti dal precedente, si concentra senza dubbio il momento più vivace del dibattito sull’argomento. La riflessione di Vittorini Nel saggio introduttivo al numero 4 del «Menabò», Vittorini – già protagonista nell’immediato dopoguerra di un dibattito sui rapporti dell’intellettuale e la realtà con il suo «Politecnico» – sottolinea la necessità di colmare il divario che si è aperto fra la letteratura e il nuovo contesto socio-economico del paese. A suo avviso la letteratura (molto più delle altri arti) è rimasta

692 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


indietro rispetto al processo di industrializzazione che ha cambiato il volto della nazione e le sue abitudini; perciò è necessario che gli scrittori si confrontino con i cambiamenti avvenuti, non solo proponendo nuovi contenuti relativi al mondo della fabbrica, ma soprattutto cercando di comprendere, e quindi rappresentare con nuovi mezzi espressivi, i mutamenti sociali, antropologici, di mentalità, che la nuova realtà industriale stava producendo in Italia. D’altronde, è difficile per chi non ne fa parte attiva come lavoratore immergersi nel mondo della fabbrica, come sottolinea lo scrittore Ottiero Ottieri in un passo di Taccuino industriale, pubblicato nello stesso numero 4 del «Menabò»: «Il mondo della fabbrica è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai e impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro…». La risposta di Calvino Tra i tanti che risposero alla provocazione di Vittorini nel numero successivo della rivista ci fu Italo Calvino con l’articolo La sfida al labirinto, che si apre proprio con la constatazione del trauma che la rivoluzione industriale ha prodotto sulla cultura, proprio per le dirompenti trasformazioni che ha implicato: «Dopo secoli passati a stabilire le relazioni dell’uomo con se stesso, le cose, i luoghi, il tempo, ecco che tutte le relazioni cambiano: non più cose ma merci, prodotti in serie, le macchine prendono il posto degli animali, la città è un dormitorio annesso all’officina, il tempo è orario, l’uomo un ingranaggio...». La letteratura per Calvino è uno strumento indispensabile per comprendere il disagio causato dalla comparsa della civiltà industriale, ma è necessario ancora del tempo perché il mondo della cultura assimili appieno i cambiamenti che ne sono derivati. La proposta della Neoavanguardia Negli stessi anni anche la poesia della Neoavanguardia ospita il tema dell’alienazione e sperimenta forme e linguaggi che rispecchiano la nuova realtà, come ad esempio La ragazza Carla di Pagliarani pubblicata sempre nel «Menabò».

I cambiamenti sociali e i nuovi compiti dello scrittore “miracolo economico” 1955-1963

• sviluppo economico-industriale • divario socio-economico fra Nord e Sud del paese • emigrazione interna • aumento della domanda • inizio del consumismo • nuova cultura industriale

nuovi ambiti di confronto per gli scrittori

Vittorini nella rivista «Il Menabò» propone nuovi mezzi espressivi per nuovi contenuti

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 693


3 La letteratura sull’industria e sul boom economico Anticipazione delle tematiche della letteratura “industriale” Nel 1949 Beppe Fenoglio (1922-1963) scrive La paga del sabato (➜ T1a ), un romanzo breve (o racconto lungo) il cui tema principale è l’inserimento nella società civile di chi aveva militato nella Resistenza, un problema di estrema attualità nel dopoguerra che lo scrittore aveva vissuto sulla propria pelle. Nello stesso tempo l’autore descrive con attenzione i cambiamenti avvenuti ad Alba dopo la fine del conflitto, con l’espansione dell’industrializzazione (in pochi anni l’industria dolciaria locale passa da un organico di 50 operai a circa 2000 dipendenti) e mette in guardia contro la propaganda della ricostruzione e del progresso. Il romanzo fu presentato alla casa editrice Einaudi nel 1950 ma venne rifiutato e uscì solo nel 1969, postumo, in seguito al ritrovamento da parte della filologa Maria Corti (1915-2002) del manoscritto tra le carte di Fenoglio. L’incontro con il mondo della fabbrica Non sono pochi gli scrittori, alcuni dei quali operano come consulenti all’interno delle grandi strutture industriali, che cercano di analizzare la realtà delle fabbriche e le trasformazioni prodotte dall’industrializzazione sull’ambiente e sugli stili di vita. La maggior parte di essi enfatizza le conseguenze negative dell’industrializzazione sul piano umano e sociale e rappresenta la fabbrica come un ambiente disumanizzante, in cui la ripetitività del lavoro, i ritmi massacranti imposti dalle necessità della produzione, generano alienazione e nevrosi in chi vi lavora. È il caso del poemetto Una visita in fabbrica (1961) del poeta Vittorio Sereni (➜ C17), che operava nell’Ufficio Stampa della Pirelli. Il poemetto, frutto di una visita reale compiuta dallo scrittore all’industria milanese Pirelli, viene pubblicato nel numero 4 del «Menabò» (poi confluirà negli Strumenti umani, 1965 ➜ T1c ). Consulente nel mondo dell’industria (all’Olivetti) è anche Ottiero Ottieri (1924-2002 ➜ PER APPROFONDIRE Ottiero Ottieri PAG. 696), autore di spicco della letteratura “industriale”. Nella prima parte della sua produzione incentra la sua attenzione sulla realtà dell’industria, a cominciare da Tempi stretti (1957), e quindi con Donnarumma all’assalto (1959) e La linea gotica (1962). In Donnarumma all’assalto Ottieri racconta la storia di un funzionario (in cui ritrae sé stesso) spedito da una grande industria del Nord a Pozzuoli, per selezionare il personale da inserire in una filiale dell’azienda. Si troverà di fronte al dramma della disoccupazione, ma anche al divario tra Nord e Sud, a una mentalità arcaica, in cui si iscrive la disperata guerra di Donnarumma contro la fabbrica che ne ha rifiutato l’assunzione. online

Per Approfondire Paolo Volponi

Memoriale di Paolo Volponi Del ‘62 è il romanzo Memoriale (➜ T1d ) di Paolo Volponi (1924-1994), sicuramente uno dei più interessanti del sottogenere di cui stiamo parlando e che traduce in modo convincente l’invito di Vittorini sul «Menabò» a trattare il tema della fabbrica anche con nuove modalità stilistiche. Calvino stesso giudicava Memoriale “il risultato poetico più alto” della letteratura che fa riferimento alle nuove tematiche industriali. La genesi del libro risale al quotidiano contatto che l’autore – nel suo ruolo di addetto alle relazioni sociali presso l’Olivetti – aveva con i “memoriali” degli operai. E il romanzo è impostato appunto come una sorta di confessione da parte dell’io narrante e protagonista, Albino Saluggia, un reduce di guerra tornato al suo paese, Candia, nel Canavese, che il 26 giugno 1946 entra per la prima volta nella grande fabbrica di Ivrea da cui è stato assunto. Il romanzo è la storia di una nevrosi, che coglie sempre più gravemente il protagonista, e gli impedisce l’inserimento nel mondo della fabbrica.

694 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Parise e la vita in azienda Non solo la fabbrica ma anche la realtà aziendale, la vita negli uffici, è oggetto di analisi critica in questi stessi anni, in cui emerge il tema dell’alienazione. Della vita in azienda viene messo in luce il sacrificio delle vocazioni individuali, la spersonalizzazione in nome della fredda efficienza aziendale e della legge del profitto. Tra varie opere citiamo in particolare Il padrone (1965) dello scrittore vicentino Goffredo Parise (1929-1986). Nel romanzo, caratterizzato da una prospettiva volutamente paradossale e da toni grotteschi, un giovane provinciale di belle speranze, trasferitosi in una grande città, viene fagocitato dall’azienda commerciale di cui entra a far parte, guidata dal fantomatico dottor Max, e vive e accetta un progressivo annullamento dei sentimenti, delle emozioni, al punto da desiderare di identificarsi totalmente nell’azienda e nel padrone di essa.

online

Per Approfondire Lucio Mastronardi

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Per Approfondire Luciano Bianciardi

Altre voci della letteratura industriale In un’area contigua ai romanzi sulla realtà della fabbrica si collocano le opere che rappresentano le trasformazioni snaturanti che l’industrializzazione e il “miracolo economico”, con i miti imperanti della ricchezza e del successo, producono sulla vita di persone comuni. Lucio Mastronardi (1930-1979) autore della trilogia Gente di Vigevano (Il calzolaio di Vigevano, 1959; Il maestro di Vigevano, 1962 (➜ T2 ); Il meridionale di Vigevano, 1964) tratteggia un amaro ritratto della società di una piccola città lombarda, Vigevano appunto, dove lo scrittore viveva. Vigevano in quegli anni conosce una crescita enorme della produzione calzaturiera, che da artigianale andava assumendo velocemente una fisionomia industriale. Un passaggio che sconvolge le gerarchie sociali (artigiani e operai aspirano a diventare imprenditori) e i modelli di vita: in particolare nel primo romanzo lo scrittore stigmatizza la grettezza, la corsa al guadagno, l’esibizione volgare del lusso dei nuovi ricchi. Alla visione satirica di Mastronardi si contrappone, a livello di tono narrativo, la rabbiosa demistificazione della nascente società del benessere creata dall’industrializzazione e dal boom economico nel romanzo La vita agra (1962) dello scrittore toscano Luciano Bianciardi (1922-1971) (➜ T3 ). Il romanzo, di carattere autobiografico, rispecchia da vicino la vita stessa dell’autore, segnata dall’esperienza traumatica dell’esplosione di una miniera in Maremma che causa molte vittime, avvenuta nel 1954, proprio nei giorni in cui Bianciardi conduceva una indagine giornalistica sulle condizioni dei minatori di quella zona. Un incidente su cui scende presto l’oblio, che diventa il simbolo del cinismo e del carattere disumano dell’industria capitalistica. Una volta trasferitosi in una grande città del Nord, il protagonista incanala il suo astio in un velleitario progetto anarchico per distruggere la sede centrale (il “torracchione”) di una grande industria chimica, un progetto che non si realizzerà mai. L’ultima fase Nel corso degli anni Sessanta si verifica una progressiva presa di coscienza della propria condizione da parte della classe operaia e una accentuazione dei conflitti con gli imprenditori che sfoceranno nell’“autunno caldo” del 1969. In un clima di crescente contrapposizione politica, molti intellettuali prendono posizione, anche attraverso l’attività letteraria. Il contesto è inevitabilmente mutato rispetto ai primi romanzi “industriali”. I nuovi romanzi che parlano dell’industria e dei lavoratori che vi operano assumono tratti più netti di denuncia del potere dei “padroni” e spesso connotazioni espressamente politiche, come Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini. Nel generale pessimismo e nella generale prospettiva critica e polemica che caratterizza la letteratura “industriale”, una voce anomala è rappresentata dal romanzo di La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 695


PER APPROFONDIRE

Primo Levi La chiave a stella (➜ T5 OL), pubblicato nel 1978, strutturato in vari racconti-episodi, in cui l’autore immagina di dialogare con un operaio specializzato piemontese, Tino Faussone, che gira il mondo (una possibilità che gli consente di relazionarsi con realtà umane e sociali sempre diverse) per montare gru, strutture industriali (la “chiave a stella” è appunto lo strumento tecnico con cui opera). Faussone è l’esempio di una seria competenza tecnica, di un attaccamento al proprio lavoro, in cui consiste la sua dignità e identità umana, che Levi ha consapevolmente voluto contrapporre a tanti quadri sull’alienazione dell’operaio presenti nella letteratura “industriale”. A partire dagli anni Ottanta la fabbrica perde centralità nel sistema produttivo; diminuisce, anche in Italia, il numero degli operai, mentre cresce quello delle persone impiegate nei servizi. Anche la letteratura “industriale”, di conseguenza, nel generale “riflusso” e nell’emergere di tendenze letterarie poco orientate sul “sociale”, si spegne. Ma non del tutto. Alle soglie degli anni Novanta l’autore più importante della letteratura “industriale”, Paolo Volponi, molti anni dopo Memoriale, pubblica un importante romanzo, Le mosche del capitale (1989) (➜ T6a ). Il romanzo è ambientato negli anni Settanta, ma lo sguardo dell’autore è influenzato dall’evoluzione, nell’era dell’incipiente globalizzazione, dei processi industriali, dominati da società multinazionali e da modelli manageriali che, in nome di un capitalismo aggressivo, abbandonano ogni istanza di solidarietà. Significativamente dedicato ad Adriano Olivetti, il romanzo documenta la sconfitta degli ideali dell’imprenditore e l’avanzare di una classe dirigente fatta di tante “mosche”, schiave del capitale.

Ottiero Ottieri Di nobile famiglia toscana, nasce a Roma nel 1924. Dopo gli studi letterari e le prime collaborazioni a riviste e quotidiani, lascia nel 1948 la capitale per trasferirsi a Milano in cerca di nuovi stimoli e maggior fortuna; qui trova lavoro in Mondadori, si dedica a studi di psicologia e sociologia e collabora con l’«Avanti». Nei primi anni Cinquanta inizia a lavorare alla Olivetti come selezionatore del personale, prima alla sede di Ivrea e poi nella sede distaccata di Pozzuoli, presso Napoli; questo secondo contesto lavorativo e sociale gli offre l’occasione per comprendere il drammatico contrasto tra il progresso tecnologico del Nord e la mentalità arretrata e arcaica del Sud. Dall’esperienza diretta del mondo della fabbrica nascono il romanzo Tempi stretti (1957) con cui ufficialmente si apre il filone della narrativa di ispirazione aziendale, a cui seguono il suo libro più famoso, Donnarumma all’assalto (1959), sulla condizione in fabbrica e i paradossi della civiltà tecnocratica, e, nel 1962, La linea gotica: taccuino 1948-1958, una specie di diario di anni cruciali nel mutamento della vita italiana. Collabora anche con il cinema, scrivendo insieme a Tonino Guerra la sceneggiatura del film L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Verso gli anni Settanta inizia a emergere nell’opera di Ottieri una riflessione sul disagio psichico, anche in relazione all’esperienza personale di una grave depressione: ne è già in parte testimonianza L’irrealtà quotidiana (1966), ma soprattutto Il campo di concentrazione (1972), sofferto resoconto di un suo ricovero in clinica. Il filone della malattia psichica e delle cure relative ritornerà in vari scritti successivi (tra cui L’infermiera di Pisa, 1991, e Il poema osceno, 1996). Ottieri si è dedicato anche alla poesia pubblicando numerose raccolte. È morto a Milano nel 2002.

696 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Letteratura di fabbrica OPERE

GENERE

TEMI/CONTENUTI

romanzo

• difficile reinserimento nel nuovo modello produttivo di chi aveva militato nella Resistenza • cambiamenti di una cittadina piemontese causati dall’industrializzazione

1959

romanzo

• storia di un funzionario spedito da una grande industria del Nord al Sud per selezionare il personale

Vittorio Sereni

1961

romanzo

• rappresentazione della fabbrica come ambiente disumanizzante

Memoriale

Paolo Volponi

1962

poesia

• conseguenze del boom economico nelle trasformazioni sociali della vita di provincia

La vita agra

Luciano Bianciardi

1962

romanzo

• mali della società moderna, cinismo, affarismo, azioni umane spinte solo dall’interesse economico

Le mosche del capitale

Paolo Volponi

1989

romanzo

• evoluzione dei processi industriali verso un capitalismo privo di istanze di solidarietà

AUTORI

DATA

La paga del sabato

Beppe Fenoglio

scritto nel 1949, pubblicato postumo nel 1969

Donnarumma all’assalto

Ottiero Ottieri

Una visita in fabbrica confluita poi nella raccolta Gli strumenti umani

Sguardo sull’arte La Pop Art Nel mondo dell’arte questi sono gli anni che vedono affermarsi la Pop Art, che spesso ha messo al centro del proprio immaginario i prodotti industriali, come le lattine di zuppa Campbell’s per Andy Warhol e i primi resti del consumismo, in questa opera di Fabio Mauri.

Fabio Mauri, Cassetta: objets achetés, carta cartone e oggetti in cassetto di legno (1959-60, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma).

Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans, 1962 (Museum of Modern Art, New York).

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 697


L’incontro con il mondo della fabbrica

T1

online T1a Beppe Fenoglio

Presentiamo quattro testi che in vario modo documentano l’incontro con il mondo della fabbrica (e lo sguardo critico della letteratura su di esso) e si prestano a un utile confronto. Il primo è tratto dal romanzo breve di Beppe Fenoglio (1922-1963) La paga del sabato: scritto nel 1949, costituisce un’anticipazione delle tematiche della letteratura “industriale”; il secondo è tratto dal romanzo Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottieri; il terzo dal poemetto Una visita in fabbrica (1961) di Vittorio Sereni; il quarto dal romanzo forse più importante della letteratura sull’industria, Memoriale (1962) di Paolo Volponi.

«Impossibile che io sia dei vostri» La paga del sabato, cap. III

Ottiero Ottieri

T1b

Manodopera femminile nel Sud

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Donnarumma all’assalto, cap. XII O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, TEA, Milano 1995

Lo psicologo-selezionatore, protagonista del romanzo, si trova ad affrontare un problema sorto tra la direzione e il personale femminile dell’azienda: la decisione di offrire alle operaie una vacanza in montagna come premio per il lavoro svolto con grande zelo si scontra con la mentalità contadina del luogo, arcaica e maschilista, che interpreta questa iniziativa come un atto di forza, quasi una violenza. Il mutamento culturale e di costume troppo rapido genera frustrazione e malcontento in entrambe le parti.

Sabato. […] L’implacabile e vacuo sole di luglio, questo abbaglio fisso che il mare non scioglie, consuma tutto l’orizzonte fin dalle prime ore della mattina; lo riempie sbiancandolo da un orlo all’altro, da quello vulcanico alla linea del mare. Appena 5 dopo l’alba, l’aria tremante brucia, la collina sopra la casa diventa di terra quasi candida, e candido anche il cielo sopra la Statale. Forse è un poco più dolce e riparata l’aria della fabbrica, nonostante i suoi vetri di serra. Tuttavia con una nuova richiesta la commissione interna1 vuole la villeggiatura pagata per tutte le ragazze del collaudo. Dice che col luglio è scoppiata la 10 loro stanchezza. Sono le venti donne brune, separate da qualche macchia bionda, sedute su due file nella parte del montaggio vicino agli uffici. Da qualche anno, in camice bianco, altalenano a due braccia, su e giù, spingendo le manovelle delle calcolatrici a mano; una per mano, sinistra e destra. Ogni tanti colpi di manovella, battono sopra la tastiera 15 con le dita. Scrivono su un eterno rotolo di carta le stesse operazioni di collaudo; e chilometri di striscia numerata le avvolgono a spire, attorno alle braccia, le gambe, in grembo; scivolano e si appiattiscono in terra come serpenti. Le operaie settentrionali, da sempre, collaudano una macchina per volta e con una sola mano. Qui, all’apertura dello stabilimento, una ragazza già pratica di questa 20 macchina volle occupare la mano libera, tenuta in grembo; si fece affidare un’altra macchina e le compagne la seguirono riuscendo tutte a manovrare due calcolatrici per volta. 1 commissione interna: organismo di controllo sindacale formato dagli operai della fabbrica.

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Agli inizi della nuova fabbrica, questa prodezza delle donne di Santa Maria divenne una bandiera, il gran pavese2 produttivo del sud. 25 Nel tempo preso dal cronometrista per una sola macchina, ne entravano due: ed esse guadagnavano il doppio, superando lo stipendio degli specializzati, degli impiegati. Si accordarono allora con la direzione su una paga di una volta e mezzo. Guadagnano ancora molto, e poi esse sono visceralmente attaccate agli straor30 dinari inseguendo un miraggio, proprio loro, le donne: le donne da cui a Santa Maria non escono mai soldi, ma unicamente figli. Ecco le venti ragazze più ricche della bassa Italia, incatenate al banco con le loro stesse mani. Chi le smuoverà mai da questo lavoro? Da tre mesi incombe l’arrivo di un impianto meccanizzato, le renderebbe inutili 35 tutte, ma un continuo ritardo spinge la loro speranza e la loro incredulità. Nessuna vuole, però, scendere alle macchine dell’officina sporche d’olio, in camice nero sedersi ai banchi impugnando il cacciavite, alle mansioni da uomo, dove una di Santa Maria perde ogni onore. Proseguono a battere su chilometri di carta, fino all’esaurimento nervoso. Azio40 nando avanti e indietro la leva delle due macchine con le due braccia, dalla mattina fino alla notte, come rematrici, si interrompono solo per premere i numeri della tastiera. Premono a memoria, con la punta delle sveltissime dita, e quindi tirano la leva. Premono e tirano. Scrutano chi passa, con occhi curiosi e neri, la testa vaga 45 sopra le spalle prigioniere. Premono e tirano. Altalenano la manovella di un moto immobile verso il fondo del salone, i vetri degli uffici, l’orizzonte. Marciano sedute incontro all’emancipazione, o, almeno, al corredo. Un grande merito dell’alta percentuale media, nel cottimo3 dell’intiero stabilimento, spetta ad esse, e allora la commissione interna chiede per le ragazze 50 questo premio speciale delle vacanze in montagna, dalla preparazione del corredo le getta tutte sulla ribalta sindacale. […] Lunedì. […] Accolta la richiesta delle vacanze in montagna, la direzione aveva già incaricato la signorina assistente sociale di scegliere un luogo alto, salubre e l’albergo; e 55 di chiamare le venti ragazze, una per una, per annunciare il premio. Ma ho incontrato nel pomeriggio la signorina rossa in viso, contrariata, nel suo broncio esasperato e infantile: «Non sanno nulla, non ne sapevano nulla! Dottore, il settanta per cento non accetta. Preferiscono rimanere a Santa Maria. Il fidanzato non vuole… la mamma non 60 vuole. Hanno paura. Bisogna costringerle. E chi, io, le devo costringere a prendere aria di montagna? Tutte preferiscono il mare.»

2 il gran pavese: letteralmente, è il festone di bandiere che viene issato sugli alberi delle navi in occasioni speciali o per feste solenni; qui metaforicamente indica “il vanto”.

3 cottimo: forma di retribuzione, commisurata non alle ore lavorate, ma alla produzione realizzata.

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Analisi del testo Difficoltà di comprensione tra intellettuali del Nord e lavoratori del Sud In Donnarumma all’assalto Ottieri parla di un evento in controtendenza e piuttosto eccezionale in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, caratterizzati in particolare dal processo di immigrazione dal Sud alle città industriali del Nord: la messa in opera di uno stabilimento di un’azienda del Nord in un popoloso centro marittimo del Mezzogiorno. È una realizzazione orientata nell’ambito del progetto di Adriano Olivetti, secondo cui l’industria deve creare sviluppo e progresso sociale. Infatti, la grande fabbrica descritta nel romanzo è un esempio di modernità nelle attrezzature, coniuga razionalità e bellezza, rispetta il paesaggio, e soprattutto i suoi dirigenti ritengono che il profitto non possa essere disgiunto dal benessere e dalla crescita personale dei dipendenti. Ma il progetto non è veramente compreso dalla popolazione di Santa Maria che conserva tradizioni culturali ben lontane dalle aspirazioni degli intellettuali del Nord e che, per la maggior parte disoccupata, è attirata solo dalle possibilità di guadagno offerte da un lavoro in fabbrica. Lo scrittore mette così a confronto due mentalità distanti che hanno difficoltà a comprendersi, a parlarsi tra di loro, come si capisce dalle affermazioni infastidite dell’assistente sociale di fronte al rifiuto delle lavoratrici di usufruire della vacanza-premio in montagna.

La questione femminile Il motivo dominante di questo testo è la condizione del lavoro della manodopera femminile nello stabilimento. Nelle industrie le donne vengono impiegate nelle mansioni più leggere, come in questo caso quella del collaudo delle calcolatrici; per questo motivo esse percepiscono normalmente anche una paga inferiore a quella degli uomini (situazione che perdura tuttora in Italia quasi a tutti i livelli, peraltro). Anche se nella fabbrica di Santa Maria queste operaie hanno diritto a un salario quasi doppio rispetto ai colleghi maschi perché si sono ingegnate a incrementare la produzione, esse rimangono comunque una felice e rarissima eccezione («Ecco le venti ragazze più ricche della bassa Italia») in un ambiente sociale che ancora offre alla donna poche possibilità di emancipazione e con un destino che si realizza quasi unicamente all’interno del nucleo familiare, pena la squalifica agli occhi della società («Il fidanzato non vuole... la mamma non vuole»). Alcune attività sono poi a loro precluse, perché considerate troppo poco femminili: «alle mansioni da uomo, dove una di Santa Maria perde ogni onore».

Ritmi produttivi e alienazione Lo stile di Ottieri alterna momenti descrittivi quasi lirici («L’implacabile e vacuo sole di luglio...») a periodi asciutti e incalzanti, a tratti tipici dell’indagine sociologica, che rappresentano lo stress lavorativo a cui si sottopongono volontariamente le operaie («Proseguono a battere su chilometri di carta... Premono e tirano… Premono e tirano»). L’uso delle metafore («le spalle prigioniere») e delle similitudini («chilometri di striscia numerata le avvolgono a spire […] e si appiattiscono in terra come serpenti») oltre a caratterizzare il livello culturale del protagonista-autore del diario, ne sottolinea la partecipazione umana e il giudizio critico nei confronti di tali condizioni di lavoro.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come è giudicata la produttività delle operaie del Sud a confronto con quelle del Nord? 2. Nei confronti di queste operaie la politica sociale dell’azienda si rivela fallimentare: perché? Qual è, secondo te, l’errore commesso dalla dirigenza? ANALISI 3. Individua nel brano gli atteggiamenti che derivano da una mentalità arcaica e maschilista. Che impatto hanno sul lavoro delle operaie? 4. Per queste donne l’orgoglio di un lavoro ben eseguito e l’indipendenza economica si tramutano in consapevolezza della propria autonomia?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

ESPOSIZIONE ORALE

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

5. Capita spesso che le donne come si dice all’inizio in questo brano percepiscano una paga inferiore a quella degli uomini, situazione che perdura tuttora in alcuni paesi. Fai una ricerca per capire dove avviene ancora questo fenomeno e in quale settore. Condividi poi i risultati della ricerca con il docente e con la classe.

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Vittorio Sereni

T1c

Una visita in fabbrica Gli strumenti umani

V. Sereni, Poesie, Mondadori, Milano 1995

Anche il poeta Vittorio Sereni (1913-1983 ➜C17) ha avuto esperienze dirette col mondo industriale: oltre che collaboratore di diverse riviste aziendali, dal 1952 fu impiegato all’ufficio stampa della Pirelli. Sul numero 4 del «Menabò» (1961) egli pubblica la lirica Una visita in fabbrica, che rientrerà poi nella raccolta Gli strumenti umani. Il lungo componimento poetico, dall’andamento prosastico-discorsivo, diviso in cinque parti, prende spunto da una visita guidata fatta dall’autore allo stabilimento Pirelli-Bicocca di Milano. Se ne riporta la seconda strofa.

II. La potenza di che inviti si cerchia 30 che lusinghe1: di piste di campi di gioco di molli prati di stillanti aiuole e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa. Sfiora torrette, ora, passerelle la visita da poco cominciata2: s’imbuca3 in un fragore 35 come di sottoterra4, che pure ha regola e centro5 e qualcuno t’illustra. Che cos’è un ciclo di lavorazione? Un cottimo6 cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre7, questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente8, 40 rumore che si somma a rumore e presto spavento per me straniero al grande moto e da questo agganciato9. Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori qualche momento fa10: che sai di loro che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro11... 45 Chiusi in un ordine, compassati e svelti, relegati a un filo di benessere12 senza perdere un colpo – e su tutto implacabile e ipnotico il ballo dei pezzi dall’una all’altra sala13.

La metrica Versi liberi. 1 La potenza... lusinghe: il potere economico (La potenza) di quali attrazioni e lusinghe si circonda (si cerchia). 2 Sfiora... incominciata: il soggetto è l’intellettuale che è stato invitato a prendere visione dell’interno della fabbrica. 3 s’imbuca: entra, si inoltra. 4 fragore... sottoterra: rumore forte e apparentemente caotico, che sembra provenire dal sottosuolo. In tutta la poesia c’è un implicito paragone tra la fabbrica e il mondo infernale, non a caso l’ultima stro-

fa della composizione (qui non riportata) termina con il verso «dal fondo di questi asettici inferni». 5 ha regola e centro: possiede dei criteri organizzativi, un suo ordine. 6 cottimo: forma di retribuzione basata sulla quantità di lavoro prodotta, indipendentemente dal tempo impiegato. 7 trafile e calandre: macchine che rispettivamente assottigliano fili e riducono in lamine il metallo o altro materiale. 8 nel buio della mente: nella dimenticanza del poeta. 9 spavento... agganciato: lo scrittore si sente estraneo ai movimenti della fabbrica

(al grande moto) ed è spaventato all’idea di rimanervi prigioniero (agganciato). 10 quelli... fa: gli operai. 11 ignari dell’arte loro: (noi) che non conosciamo il loro mestiere. 12 relegati... benessere: gli operai sono legati strettamente (relegati vale anche “isolati, confinati”) al loro posto di lavoro poiché grazie ad esso possono accedere a un po’ di benessere. 13 implacabile... sala: domina su tutto il ritmo della catena di montaggio (il ballo dei pezzi), così ripetitivo da risultare quasi ipnotico.

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Analisi del testo La descrizione della fabbrica L’interno della fabbrica è descritto sia attraverso termini tecnici (torrette, passerelle, cottimo, trafile, calandre), di cui però è messa in evidenza l’estraneità rispetto al visitatore, sia attraverso l’evocazione di un mondo disumano (implacabile) e quasi infernale («s’imbuca... sottoterra»), dominato dal rumore (fragore, «rumore che si somma a rumore»).

La condizione operaia Anche gli operai appaiono distanti dal mondo dello scrittore («che sai di loro»), che nel rappresentarli sottolinea gli aspetti di ordine («al loro posto», «Chiusi in un ordine»), serietà («compassati») e velocità nell’eseguire il lavoro («svelti», «senza perdere un colpo»). Ne risulta l’impressione che luoghi e tempi della fabbrica provochino inevitabilmente un effetto di alienazione e disumanizzazione.

L’estraneità dell’umanista alla fabbrica In una lettera del 15 maggio 1961 Sereni così descrive il contenuto di questa parte di Una visita in fabbrica: «Ecco qui uno che nella fabbrica c’è per forza o per caso, un borghese, un impiegato che un giorno capita dall’ufficio nello stabilimento in visita, vogliamo arrischiare: un intellettuale, alla cui ironia non sfuggono gli allettamenti padronali (l’apparato degli svaghi e della decenza, le attrezzature sportive, fiori, zampilli...), uno di propensioni filantropiche, umanitarie verso gli operai, portato a un’istintiva solidarietà, ma al tempo stesso respinto e affascinato, incapace di distinguere tra la fabbrica e chi ci lavora, tra operaio e macchina, a causa, se non altro, della propria impreparazione tecnologica, viziato dall’educazione umanistica di vecchio stampo. Si annoierà, alla lunga, uscirà stordito all’aperto».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Assegna un titolo alla strofa. ANALISI 2. Quale impressione offre al visitatore la fabbrica vista dall’esterno? STILE 3. Quale figura retorica puoi riconoscere al v. 48?

Interpretare

SCRITTURA 4. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si ha il boom economico, che permette a molti di accedere a beni che prima erano riservati solo ai ricchi. A Sereni, come ad altri intellettuali, non sfugge la pericolosità e l’ambiguità del sistema industriale-capitalistico. In un testo argomentativo di 20 righe ripercorri il punto di vista degli autori che analizzano la nuova realtà della fabbrica.

Paolo Volponi

T1d

Tra attrazione e paura

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Memoriale P. Volponi, Memoriale, Einaudi, Torino 1962

All’inizio del romanzo Albino Saluggia nel suo primo giorno in fabbrica descrive con occhi meravigliati, e un po’ di soggezione, la vita all’interno dello stabilimento, soffermandosi su aspetti che gli appaiono già sottilmente inquietanti.

Intanto seguivamo una guardia verso l’interno delle officine. C’era dovunque lo stesso odore acre, l’odore dell’olio, e dovunque un rumore schietto, diverso dal rumore che si sentiva fuori della fabbrica. Era il rumore dell’aria compressa e quello di centinaia di stantuffi. Dal fondo dell’officina che attraversavamo veniva il rumore 5 alterno e schiacciante delle presse. Dopo il primo momento s’avvertiva il rumore

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continuo dei torni e dei trapani e poi, chissà da dove, lo squillo di un metallo. Bisognava aspettare per sentire il rumore degli uomini; appena entrati si vedeva che parlavano e si muovevano senza però che a tali gesti si potesse attribuire un suono. Invece più tardi si sentivano i rumori delle voci, dei passi, dei gesti di lavoro. 10 Ora posso dire che a differenza dei sanatori1 dove, fra tutte le voci accanite, il rumore di una macchina, di un rubinetto o di un cesso prende il sopravvento e attira l’attenzione di tutti, nella fabbrica, tra il grande frastuono delle macchine, l’orecchio finisce per scegliere le voci degli uomini, il loro brusio: una risata, anche alla mattina alle dieci e mezza quando il lavoro corre più forte e fa tremare tutta la fabbrica e 15 niente più del lavoro esiste anche in tutti gli uomini e le donne, diventa il rumore più forte e verso la sua parte si voltano, anche solo per un attimo, tutte le facce del reparto; quelle centinaia di facce, sbigottite dal lavoro, che si levano tutte insieme. Scrivo del rumore, perché la prima volta che uno entra nella fabbrica il rumore è la cosa più importante, e più che guardare uno sta a sentire e sta a sentire senza 20 volontà quel gran rumore che cade addosso come una doccia. – Che rumore, – disse Pinna2, – sembra di essere nella sala macchine d’un incrociatore. Guardai la guardia che ci precedeva temendo che lo rimproverasse; ma vidi che non aveva dato alcun peso alle sue parole. Il rumore era forte e le officine erano 25 impressionanti. Erano grandi già allora che la fabbrica era un terzo di quello che è oggi. Grandi, pulite e ordinate, con molta luce. Ciascuno aveva il suo posto di lavoro e ciascuno agiva per conto suo, con grande sicurezza. Sembravano tutti molto bravi e importanti. Mi stupì il fatto che non ci fossero lavori da fare in gruppi: un gruppo tutt’insieme che si dà una mano e tira e spinge di qua o di là o batte martelli o 30 alza una grande macchina. Tutte le macchine erano per un uomo solo e un uomo poteva manovrarle comodamente. [...] Io avevo paura di questo inizio, soprattutto paura che la fabbrica potesse assomigliare all’esercito. Mi tranquillizzava appena la differenza tra Grosset3 e il sergente 35 Vattino e mi trascinava il pensiero del lavoro da imparare. Adesso che stava per cominciare non pensavo più alla vita nuova. Aspettando per pochi minuti Grosset guardavo la macchina che egli prima stava riparando. Forse proprio quella sarebbe capitata a me: lo speravo, lieto che anch’essa dovesse ricominciare dopo un guasto. Una parte che poteva essere la sua testa era scoperchiata e questo aumentava la mia 40 confidenza e la sua arrendevolezza. Grosset arrivò puntualmente; ripose i giornali, riprese il suo camice e ricompose con il suo sguardo la nostra squadretta di nuovi. Intanto arrivavano alla spicciolata tutti gli altri operai, con aria indolente e quasi ribelle: sembrava che tornassero ai reparti per prendere qualcosa che vi avevano lasciato. Con animo ben diverso, io, di fronte a Grosset, mi accingevo al lavoro. 45 – Questa è una fresatrice-pialla a ciclo automatico, – disse indicando proprio la macchina guasta; – viene costruita dalla nostra officina meccanica e si chiama FP3. Serve a lavorare una serie di pezzi di dimensioni medie. Pensate a una pialla 1 sanatori: facendo un’anticipazione, il protagonista contrappone alla rumorosità della fabbrica la quiete ovattata del sanatorio in cui sarà ricoverato per curare la tubercolosi che lo affligge.

2 Pinna: uno degli operai assunti insieme a Saluggia, che prima di lavorare in fabbrica era stato arruolato in marina; da questa esperienza nasce la similitudine in cui paragona la fabbrica a un incrociatore.

3 Grosset: il capo reparto.

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 703


comune che un falegname adopera su una tavola e pensate poi allo scalpello che lo stesso falegname debba adoperare per fare qualche taglio o incavo nella stessa 50 tavola. Questa fresatrice-pialla fa le stesse cose sul ferro e sulla ghisa4. Invece della mano del falegname la spinge la forza industriale. Grosset ci spiegò adagio e molto bene ogni pezzo della FP3, facendola ogni tanto funzionare e invitandoci a vedere il lavoro degli operai del suo reparto per chiarirci meglio qualche dettaglio, specie di quegli operai che avevano bisogno della sua 55 guida o per il funzionamento della fresatrice o per qualche particolare problema del pezzo in lavorazione. Ogni operaio doveva fare trenta pezzi all’ora, cioè un pezzo ogni due minuti: prendeva il pezzo dalla cassetta dei grezzi che gli arrivava dalla fonderia ogni mezza giornata, lo lavorava e lo metteva poi nella cassetta dei finiti; tutto in due minuti. Il lavoro era molto, tanto che il pezzo finito sembrava diventato 60 d’argento. Gli operai erano tutti uomini seri che andavano avanti bene e con calma. Anche quando smettevano un attimo per regolare il mandrino5 porta-attrezzi o la presa dell’aria compressa erano calmi e non si preoccupavano di perdere tempo. Avevano tutti press’a poco la mia età, forse qualche anno di più, ad eccezione di un giovanissimo e di due sui cinquant’anni. Nel reparto di Grosset erano ventitré 65 e con noi sarebbero stati ventisette, costituendo il reparto forse più grosso di tutte le officine. Vestivano tutti allo stesso modo, o così mi sembrava per l’uniformità dell’ambiente, delle macchine e del lavoro che poteva annullare le piccole differenze. Alle cinque, noi quattro nuovi avevamo avuto la prima spiegazione di Grosset e potevamo incominciare qualche esercizio pratico. Prima di ogni altro il modo di stare 70 di fronte alla fresatrice, in tutte le posizioni necessarie per impostare il lavoro, per avviare la forza motrice e seguire le lavorazioni. Grosset mise in moto la macchina e poi la fermò e volle che ciascuno di noi ripetesse i suoi gesti. Tutto andò bene. Io mi sentivo bene, anche se lavoravo con il mio abito buono e pesantissimo che mi faceva sentire molto caldo; ma Grosset non mi disse mai di togliermi la giacca. 75 Quando si trattò di fare il primo esercizio con una fresa innestata, Francesco Pinna si fece avanti dicendo che toccava a lui giacché la macchina si chiamava come lui, F.P. Io riuscii nel primo esercizio come gli altri tre, anche meglio. Grosset disse che avremmo potuto cominciare a lavorare con l’allenatore dopo una settimana e dopo un’altra settimana forse già nel reparto per la produzione. 80 Un quarto d’ora prima dell’orario di chiusura, il capo ci rimandò all’Ufficio Personale. Lì ci consegnarono la cartolina-orologio6 indicandoci dove custodirla e come servircene. Ci dissero di andare allo spaccio interno per l’acquisto degli indumenti da lavoro. Io comperai una tuta, a due pezzi, come un abito borghese. Uscii dalla fabbrica con il mio pacchetto sotto il braccio, molto stanco e, appena 85 l’aria di fuori m’investì con un caldo diverso, molti problemi s’affollarono nella mia mente. Ebbi paura, una fortissima paura, di aver sbagliato tutto e di essere tornato nelle disgrazie dell’esercito. Mi sembrava di essere lontanissimo da Candia e da casa mia e di non poter trovare la strada per tornarci, tra tutta quella gente che usciva e che si salutava con un ultimo discorso, a voce alta e con una confidenza che non

4 ghisa: lega di ferro e carbonio (a tenore relativamente alto), ottenuta attraverso il trattamento a caldo dei minerali di ferro. 5 mandrino: dispositivo meccanico, in-

stallato su una macchina utensile, che permette di serrare e tenere fermo un pezzo di qualsiasi forma per potervi eseguire la lavorazione richiesta (porta-attrezzi).

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6 la cartolina-orologio: il cartellino, che riporta il timbro dell’ora di entrata e di uscita quotidiana dal posto di lavoro.


era per me e che mi allontanava ancora di più da tutti loro. Non presi nemmeno il pullman operai, nell’incertezza di rivolgermi a qualcuno per chiedere da quale punto preciso partivano le linee per Candia e Caluso e dove potevo trovare il capo-corriera. Decisi di prendere ancora il treno, ma quello delle 20 e 12, meno affollato di gente della fabbrica. Così arrivai a casa che era già notte. Trovai mia madre in cucina, 95 seduta al buio; appena mi vide cominciò a piangere. Io la tranquillizzai su tutto e le dissi che avevo un lavoro, un buon lavoro con un salario di circa quarantamila lire, la mensa, le corriere e tutto il resto. Lei mi diede da mangiare verdure del nostro orto, che ancora, alla fine di luglio, dava piselli e fagiolini oltre ai pomidori, nel pezzo dietro casa, a nord, più umido e 100 riparato da due alberi di noce. Io le mostrai la divisa di lavoro che avevo acquistato e lei volle subito, mentre io mangiavo, rinforzare tutti i bottoni con un filo più grosso. 90

Analisi del testo L’antitesi fabbrica/campagna Saluggia fa il suo ingresso nel mondo della fabbrica, che costituirà lo sfondo principale del romanzo. La descrizione dell’ambiente, del lavoro che vi si svolge, dei macchinari e degli operai, è condotta attraverso il punto di vista del protagonista-narratore, portavoce di una visione del mondo arcaica, radicata nella realtà contadina. Ne deriva una rappresentazione solo apparentemente realistica della fabbrica, che risente dei fluttuanti stati d’animo del protagonista: da luogo positivo ed efficiente, “impressionante”, l’ingresso nel quale ha qualcosa di iniziatico, a luogo innaturale, ostile, da cui Saluggia esce disorientato e incerto («Ebbi paura [...] Mi sembrava di essere lontanissimo da Candia e da casa mia e di non poter trovare la strada per tornarci»). La prima percezione della realtà della fabbrica è uditiva: Saluggia è sbalordito dal forte rumore che vi regna («la prima volta che uno entra nella fabbrica il rumore è la cosa più importante») e che gli appare “diverso” da ogni altro rumore a lui noto. In seguito lo stupore di Saluggia riguarda il modo di lavorare degli operai, ognuno dei quali è solo davanti alla macchina; non esiste la collaborazione che per Saluggia, abituato al lavoro nei campi, è la normalità. Il lavoro degli operai gli sembra di sorprendente efficienza nella calma regolarità con cui ogni operaio produce i pezzi con la macchina fresatrice. Sembra non esserci posto per variazioni, incidenti, eccezioni, scelte individuali in un contesto in cui domina (e lo sguardo del neofita coglie in pieno l’alienante realtà del lavoro meccanizzato) l’uniformità, persino nel vestiario che annulla le differenze tra le persone. Alla fine della sua prima esperienza nel mondo della fabbrica, iniziata con entusiasmo, Saluggia si sente profondamente angosciato, proiettato da “estraneo” e “diverso” in una realtà lontana dal suo mondo, anche e soprattutto mentale, di contadino. Significativamente il passo si chiude con una netta contrapposizione, di valore simbolico, tra fabbrica e campagna, che esplicita il confronto presente, tra le righe, fin dall’inizio. Saluggia recupera una sorta di equilibrio interiore solo una volta giunto a casa, nella sua campagna, di cui descrive minuziosamente i prodotti dell’orto e le caratteristiche delle coltivazioni; in quel luogo egli è padrone del proprio tempo e dei prodotti del suo lavoro, a differenza della fabbrica in cui spazio e tempo sono regolati dalla volontà altrui, proprio come nell’esercito.

Sanità e malattia Già prima di entrare in fabbrica, Albino Saluggia è un portatore di nevrosi, un tipo paranoico – e lo si vede bene dal suo comportamento all’uscita dalla fabbrica – che spera di trovare nell’azienda l’ordine perfetto e vede negli operai i rappresentanti di una sicurezza e capacità di integrazione che gli sono precluse: «Sembravano tutti molto bravi e importanti», «Gli operai erano tutti uomini seri che andavano avanti bene e con calma». Egli spera di poter essere guarito dalle ferite della guerra e della prigionia, di poter essere in qualche modo “riaggiustato” come la fresatrice a cui spera di essere assegnato, «lieto che anch’essa dovesse ricominciare dopo un guasto». Il protagonista di Memoriale – portavoce di un disagio esistenziale e dell’alienazione propri dell’uomo moderno – non riuscirà a

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 705


riacquistare la sanità in fabbrica, anzi la sua condizione peggiorerà con il passare del tempo. La scelta di Volponi di dare a lui la parola toglie oggettività alla narrazione (così come aveva fatto Svevo nella Coscienza di Zeno), ma d’altra parte permette allo scrittore di presentare la realtà in modo non univoco e semplicistico, uscendo così dagli stereotipi del realismo. L’assistenza dei medici-burocrati della fabbrica è interpretata dalla mente alterata di Saluggia, segnata da un complesso di persecuzione, come una congiura per emarginarlo; al suo progressivo autoisolamento corrisponde un rendimento sul lavoro sempre più basso, ma la dirigenza della fabbrica decide di licenziarlo solo quando la sua disperata protesta assume carattere di contestazione politica.

Lo stile di Memoriale Lo stile del romanzo passa dall’elementarità adatta al personaggio a cui è affidata la voce narrante, all’espressività tipicamente letteraria dello scrittore, che si rileva soprattutto nelle parti descrittive. Lo si può notare nell’alternanza di periodi lunghi e complessi («Ora posso dire... tutte insieme») a frasi brevi e incisive che spesso esprimono il sentimento del protagonista («Sembravano tutti bravi e importanti», «Adesso che stava per cominciare non pensavo più alla nuova vita»). Dal punto di vista lessicale si osserva la presenza di termini tecnici (stantuffi, fresatrice-pialla a ciclo automatico, mandrino ecc.), e di sostantivi e aggettivi di tradizione letteraria, poco plausibili in bocca a Saluggia, come frastuono, brusio, acre, sbigottite, indolente. La lontananza della poetica di Volponi da modelli realistici e neorealistici è evidente a livello espressivo: solo saltuariamente infatti viene riprodotto un linguaggio popolare, che si adatterebbe al personaggio. Il linguaggio tipo di Memoriale oscilla piuttosto tra una prosa lucida, analitica, quasi saggistica, e una prosa lirica, spesso arditamente analogica, da poeta raffinato, quale Volponi stesso era. Il lirismo scaturisce in parte da una disposizione elegiaco-sentimentale, ma soprattutto dall’ottica visionaria, “diversa” di Saluggia, legandosi ai miti elementari con cui egli interpreta il mondo della fabbrica. Si comprende allora la dichiarazione rilasciata dall’autore in una intervista: «Secondo me, quella carica di liricità che c’è nel libro, è il suo strumento critico, d’intervento sulla realtà».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Perché la madre del protagonista piange quando lo vede tornare a casa? ANALISI 3. Individua nel testo gli aspetti della vita all’interno dello stabilimento che appaiono inquietanti. 4. Il rumore è il primo elemento che cattura l’attenzione di Saluggia ed è la parola chiave della prima parte del brano: individua nel testo le espressioni che vi fanno riferimento. 5. Il protagonista umanizza la macchina che deve essere aggiustata e rimessa in funzione. Dove? Qual è il significato di tale rappresentazione? Quali elementi alludono all’uniformità e alla spersonalizzazione del lavoro?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. Se la prima parte del testo è connotata dalla sorpresa e dall’ammirazione del protagonista, l’ultima parte è invece contraddistinta dalla sua paura: interpreta il significato del passaggio dall’una all’altra condizione psicologica nel protagonista e prepara un intervento orale di massimo 3 minuti da esporre alla classe.

EDUCAZIONE CIVICA

7. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» recita la prima parte dell’articolo 1 della nostra Costituzione, ma non tutti hanno la possibilità di avere un’occupazione dignitosa: orari impossibili, ritmi alienanti e spersonalizzanti, sfruttamento ecc. rendono il volto del mondo del lavoro disumano e troppo spesso portatore di morte. Rifletti su questo tema ed esponi le tue considerazioni in un testo di massimo 15 righe.

SCRITTURA nucleo

Costituzione

competenza 1

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Lucio Mastronardi

T2

La metamorfosi sociale e antropologica di un microcosmo provinciale Il maestro di Vigevano, parte prima, 2

L. Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Einaudi, Torino 1994

online

Per Approfondire Gente di Vigevano

Il breve passo tratto dal Maestro di Vigevano, il romanzo più noto dell’autore, anche per la trasposizione cinematografica che nel 1965 ne fece il regista Elio Petri, con il popolare attore Alberto Sordi nel ruolo del protagonista, ben documenta i temi, lo spirito, le scelte espressive del romanzo stesso. Lo scenario è la Piazza Ducale di Vigevano in cui sfilano i personaggi-tipo della Vigevano del boom economico. I due protagonisti che dialogano animatamente sono il maestro Antonio Mombelli e sua moglie Ada: quest’ultima rimprovera con asprezza al marito la sua misera condizione economica additandogli l’esempio dei nuovi ricchi che lo sviluppo industriale ha creato nella cittadina lombarda.

Per tornare a casa Ada volle passare dalla Piazza1. – Di qui facciamo prima, – dissi indicando la strada. – Dalla Piazza, – insisté lei. La Piazza a quell’ora assomigliava alla piazza vista nel film2. Non dal punto di vista 5 architettonico, naturalmente, ma come atmosfera. Al caffè Sociale un gruppetto di industrialotti se ne stavano stravaccati sulle poltroncine con un’aria soddisfatta e beata. A un tavolo vicino sedeva un grosso industriale con un operaio tirapiedi accanto. E tutti e due ci avevano l’aria contenta di essere vicini: l’industriale sembrava voler mostrare il suo attaccamento agli operai; l’operaio sembrava soddisfatto, come 10 se la ricchezza e la potenza dell’industriale si riflettessero su di lui. Ada mi indicò un tale che scendeva sotto i portici. – Questo ha messo su una fabbrica di scarpe. Ha un anno meno di te! – disse sibillina3. – Era operaro4, – seguitò: – ha tentato e ora guadagna venti milioni all’anno! – Non sapevo che ti contasse5 i suoi interessi, – risposi a denti stretti. 15 Ella sorrise sufficiente6: – L’ho letto sull’«Informatore Vigevanese»7: i redditi Vanoni8! Più avanti mi indicò un altro. – Quello, vedi, ha un anno più di te e ha impiantato due fabbriche di scarpe. Ha l’alfetta9! Ci siamo seduti al bar Principe. Accanto a noi il giornalista Pallavicino dell’«Informatore» teneva cattedra a una decina di operari. 20 – Questa Piazza si sta rovinando, – gridava. – Ma io ce l’ho detto al sindico10, ce l’ho detto: quattro imbianchini che ci diano una bella manata di bianco e la vegne11 fantastica. Ci scriverò un articolo. – Quello ha sei anni meno di te e guadagna duecento bolli12 al mese, – mi disse Ada.

1 Piazza: la monumentale Piazza Ducale di Vigevano, costruita tra il 1492 e il 1494 per volere di Ludovico il Moro su progetto di Ambrogio da Corte. 2 vista nel film: prima della passeggiata i due protagonisti sono stati al cinema a vedere una commedia. 3 sibillina: oscura, enigmatica. La donna sprezzantemente non vuole spiegare al marito il sottinteso della sua affermazione. 4 operaro: dialettale per “operaio”.

5 contasse: raccontasse. 6 sufficiente: con aria di sufficienza, per schernire l’ironia del marito.

7 «Informatore Vigevanese»: pubblicato per la prima volta nel 1945, è tuttora uno dei quotidiani locali più autorevoli e diffusi in Lomellina. 8 i redditi Vanoni: riferimento alla legge Vanoni (dal nome del ministro Ezio Vanoni) che nel 1951 aveva avviato una fondamentale riforma tributaria (con l’in-

troduzione dell’obbligo della dichiarazione dei redditi). 9 alfetta: possedere un’automobile sportiva Alfa Romeo era un simbolo di successo (erano le auto usate anche dalle star di Hollywood); fino agli anni Cinquanta l’Alfetta 158 e 159 gareggiava nelle corse di Formula 1. 10 sindico: dial. per “sindaco”. 11 vegne: dial. per “viene”. 12 bolli: famil. per biglietti da mille lire.

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 707


Mentre bevevamo il caffè si fermò una fuoriserie. Scesero un industrialotto con la moglie. Tutti e due bei grassi, di quella grassezza flaccida e molle. La moglie avrà avuto su venti chili di oro fra braccialetti anelli collane spille; lui almeno la metà. Camminavano sussiegosi. – Quello fino all’anno scorso era un operaio, – mi disse Ada; – e lei una giuntora13, – aggiunse con voce alta e aspra. 30 – Non farti sentire! – mormorai. I due erano proprio dietro di noi. – E ora usano la fuoriserie per venire a farsi vedere in Piazza. Come se la fuoriserie ce l’avessero solo loro, – gridò. I due se ne andarono. Risalirono in macchina con calma. Prima hanno aperto la portiera, poi hanno messo su la gamba sinistra, quindi si sono seduti, quindi hanno 35 infilato l’altra gamba, hanno chiuso la portiera e sono partiti. – Cerca di controllarti, – dissi ad Ada. Il giornalista Pallavicino la stava menando14 ancora. – Io vi dico che Vigevano vale duecento Parigi. Cosa c’è a Parigi che non ci sia a Vigevano? A Parigi c’è Pias Pigal15; a Vigevano ioma16 Pias Ducal; a Parigi c’è la 40 Senna; a Vigevano c’è il Tisin17; a Parigi c’è la tur Eifel, num ioma la tur Bramant18, – diceva. Il campanone della torre rintoccò mezzanotte. Le insegne colorate dei bar tremolavano umide. – Andiamo a casa! – dissi. Ella si alzò con scatto: – Città bastarda, – disse fra i denti. – Andiamo, è l’unica, 45 – disse poi. […] – Noi andiamo a dormire! – disse Ada. Il tono di voce era aspro. Non le risposi, ché sentivo che aspettava solo una parola per scatenarsi. – Ma non possiederemo mai né una macchina né una casa… 50 – Il pane non ci manca, – dissi offeso. Lei rise con il suo solito sorriso materno. – Prima di sposarti le mie amiche mi dicevano: la Ada sposa un maestro!, con aria invidiosa. Ora dicono: povera Ada. Ha sposato un maestro! 25

13 giuntora: operaia specializzata nella

15 Pias Pigal: storpiatura, per Place Pi-

cucitura delle tomaie alle suole. 14 menando: gergale per “stava insistendo”.

galle (piazza parigina rinomata per i suoi locali notturni); come più sotto Tur Eifel per Tour Eiffel. 16 ioma: c’abbiamo (dialettale).

17 Tisin: è il fiume Ticino in dialetto. 18 tur Bramant: è la torre del Bramante, che chiude un lato della piazza; innalzata nel 1492-94, fu attribuita all’architetto Donato Bramante (1444-1514).

Analisi del testo La metamorfosi sociale La scena descritta nel testo esprime in modo efficace il cambiamento sociale in atto durante gli anni del boom in una cittadina di provincia, luogo-emblema di una situazione più generale: professioni un tempo stimate e rispettate, come quella di maestro elementare, che garantivano un decoroso status sociale, ora sono svilite perché la loro retribuzione appare misera in confronto ai profitti che l’industria rende possibili. A Vigevano, insieme all’industria calzaturiera, cresce anche il mito del denaro, di cui Ada è vittima: la donna guarda con avidità e invidia agli imprenditori cittadini e schernisce il marito perché ai suoi occhi è un fallito. Così la passeggiata in piazza diventa un pretesto per fare una rassegna degli arricchiti.

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La piazza come specchio e osservatorio dei mutamenti sociali In ogni cittadina, come nella Vigevano ritratta da Mastronardi, la piazza è il cuore pulsante della vita. In questo caso diventa lo specchio eloquente dei mutamenti rilevanti che il boom industriale ha introdotto nella sonnolenta vita provinciale: nella piazza i nuovi ricchi esibiscono trionfalmente il loro raggiunto benessere, come la coppia di grassi coniugi, carichi di oro, che arriva direttamente in piazza con l’alfetta per farsi ammirare, suscitando l’acido commento di Ada. Non è un caso che Ada, dopo essere stata al cinema con il marito, voglia a ogni costo rientrare a casa proprio passando per la piazza, nonostante Antonio le faccia notare che allungheranno il percorso: essa vuole umiliare il marito costringendolo a confrontarsi con l’opulenza dei nuovi ricchi, oscuri concittadini che sono stati capaci da semplici operai di diventare imprenditori grazie all’industria della scarpa, come rabbiosamente spiega al marito. Di fronte a una valutazione tutta economica delle persone il povero maestro Mombelli diventa paradossalmente un esempio negativo: significativa è la chiusa, affidata a un’icastica frase di Ada («povera Ada. Ha sposato un maestro!») che sintetizza efficacemente il rapido cambiamento sociale in seguito al quale un lavoro prima considerato nobile e dignitoso come quello del maestro viene svalutato perché ben poco redditizio. Ma la Piazza è anche l’occasione per un cenno rapido alla provinciale cultura locale, impersonata qui dal giornalista Pallavicini, per cui la sua Vigevano non ha nulla da invidiare a una metropoli come Parigi.

Lo stile: commistione di lingua e dialetto La tensione tra marito e moglie è espressa attraverso una lingua che imita la parlata dialettale locale e uno stile piatto e discorsivo, paratattico; le secche repliche («Di qui facciamo prima, – dissi... – Dalla Piazza, – insisté lei») riflettono la tensione emotiva tra i due personaggi che stentano a trovare una base di dialogo. La grettezza dell’ambiente si percepisce anche nei discorsi del giornalista, che nel suo discorso al caffè utilizza un italiano fortemente influenzato dal dialetto locale (rr. 21-22). La lingua del maestro non fa ricorso al dialetto perché riflette la sua condizione di istruito; anche nei discorsi di Ada l’influenza dialettale non è fortissima, ma la sua lingua è molto più connotata da espressioni mutuate dall’italiano popolare rispetto al marito («Questo ha messo su una fabbrica di scarpe», «guadagna duecento bolli al mese»); il suo livore e la frustrazione per uno stile di vita inarrivabile sfocia anche in veri propri accessi di violenza verbale («Città bastarda»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del passo in massimo 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quale ruolo assume la figura del giornalista nella narrazione? ANALISI 3. Quale rapporto si è instaurato tra il grosso industriale seduto al bar e l’operaio «tirapiedi»? STILE 4. Riconosci espressioni popolari e dialettali indicando a quali personaggi sono attribuite. TECNICA NARRATIVA 5. A chi è affidata la narrazione? Quale effetto produce questa scelta?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 6. Quali sono gli status symbol che rappresentano il successo dei personaggi ammirati da Ada? Sono diversi da quelli di oggi? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Il ritratto della società italiana (non solo vigevanese) che Mastronardi descrive nel suo romanzo risulta essere impietoso. In che modo nel brano preso in esame le strutture economico-sociali e di conseguenza i valori sono messi in crisi dagli effetti del miracolo economico? Argomenta in merito (max 25 righe). SCRITTURA 8. Dopo aver visto il film di Elio Petri Il maestro di Vigevano, rispondi alle seguenti domande: come sono raffigurati i personaggi del maestro, della moglie, dell’industriale? Come invece viene rappresentata la vita cittadina?

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 709


Sguardo sul cinema Il boom industriale al cinema Fra i film dedicati ai cambiamenti della società in conseguenza del boom industriale, ricordiamo: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960): storia della disgregazione di una famiglia composta da una vedova e cinque figli, costretta dalla miseria a emigrare dalla Lucania a Milano; La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri (1971): descrizione caricaturale della vita in fabbrica e delle lotte politiche di un operaio, prima licenziato e poi riassunto; Romanzo popolare di Mario Monicelli (1974): commedia all’italiana che affronta con ironia i cambiamenti avvenuti nella nostra società, in particolare i rapporti tra uomo e donna, e tra meridione e Italia del nord. Collaborarono alla stesura dei dialoghi e della colonna sonora Enzo Jannacci e Beppe Viola, scrivendo tra l’altro forse la più struggente canzone “operaia” della musica leggera italiana: Vincenzina e la fabbrica.

Il boom economico e la commedia Negli anni del boom economico, i cineasti iniziano a raccontare storie che da una parte si possono ricondurre alla commedia e dall’altra consentono una satira pungente dei paradossi della società dell’epoca, utilizzando il contesto

della piccola borghesia in ascesa. La commedia italiana ha origine nel cinema del dopoguerra e gli anni Sessanta rappresentano i migliori anni di questo genere. Al pubblico italiano piaceva molto sentir parlare dei propri difetti o vedere i malfunzionamenti della società a patto che fosse divertente. Tra i più significativi esempi ci sono Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi: amaro ritratto dell’Italia del boom economico. Il boom (1963) di Vittorio De Sica, che ha come protagonista Giovanni Alberti, imprenditore edile interpretato da Alberto Sordi, rappresenta l’amara metafora del miracolo economico. Con Il vigile (1960) e Il medico della mutua (1968) Alberto Sordi ha fatto divertire gli italiani sui loro difetti e sul sogno tramontato del benessere. Negli anni Settanta diventa famosissima la figura del ragionier Ugo Fantozzi, interpretata da Paolo Villaggio in moltissimi film tra cui Fantozzi (1975). Non sono più gli anni del boom e all’italiano medio non resta che accontentarsi del ruolo da impiegato. In tempi più recenti un film interessante per il connubio tra commedia all’italiana e analisi della società che conduce è Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Nel film Virzì affronta il problema del precariato giovanile, riservando alla società una durissima critica.

Paolo Villaggio in una scena di Fantozzi (1975).

Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman nel Sorpasso (1962).

Alain Delon e Annie Girardot in Rocco e i suoi fratelli (1960).

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Enzo Jannacci canta Vincenzina e la fabbrica su YouTube

Il boom economico e la commedia all’italiana

Video

Per Approfondire

710 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria

Una scena di Rocco e i suoi fratelli girata sul Duomo di Milano.


Luciano Bianciardi

T3

Un’impietosa radiografia del “miracolo italiano” La vita agra, cap. X

L. Bianciardi, La vita agra, Bompiani, Milano 2009

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Per Approfondire La vita agra

Nell’amaro sfogo finale del protagonista (è l’inizio del penultimo capitolo del libro), si delineano i mali della società moderna: il cinismo, l’indifferenza, l’interesse economico come obiettivo primario da perseguire a ogni costo. Di fronte a questa realtà nulla possono le utopie rivoluzionarie: scardinare una classe dirigente non basta – osserva il narratore in un amaro bilancio – se non nasce un nuovo modello di uomo.

Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e 5 mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano1 e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano. 10 Un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e fino a quando hai qualcosa da pagare. Suonano alla porta e già sai che sono lì per chiedere, per togliere. Il padrone ti butta via a calci nel culo, e questo è giusto, va bene, perché i padroni sono così, devono essere così; ma poi vedi quelli come te ridursi a gusci 15 opachi, farsi fretta per scordare, pensare soltanto meno male che non è toccato a me, e teniamoci alla larga perché questo ormai puzza di cadavere, e ci si potrebbe contaminare. Persone che conoscevi si uccidono, altre persone che conosci restano vive, ma fingono che non sia successo niente, fingono di non sapere che non era per niente una vocazione, un vizio assurdo, e che la colpa è stata di tutti noi. Fai 20 testamento, ci scrivi chi vuoi a seguire il tuo carro, come vuoi il trasporto, ti raccomandi che non ti facciano spirare negli scantinati, ma poi, a ripensarci, vedi che quest’ultima tua volontà è fatta soltanto di rancore beffardo. Poiché l’impresa non era abbastanza redditizia, pur di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi2 e apre a sinistra3. 25 Tutti questi sono i sintomi, visti al negativo, di un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve (il fatto fu uno solo, anche se il dottor Giovanni scinde e sposta la storia del vino nella località di Cana4). Mangiano e bevono a brigate sull’erba, per gruppi di cento e di cinquanta. 30 Mangiano, bevono e cantano, stanno a sentire la conferenza e appena buio, sempre lì sull’erba, come capita capita, fanno all’amore. Il conferenziere si è tirato in dispar-

1 gonfiano: si riempiono di rabbia repressa. 2 aumenta i dividendi: i dividendi sono il guadagno che spetta agli azionisti alla fine dell’anno finanziario, in proporzione al numero di azioni possedute. Un’azienda florida e ben quotata in borsa riesce

a dare dividendi alti ai propri azionisti, mentre un’azienda in crisi non ne distribuisce. 3 apre a sinistra: intavola un dialogo con le forze politiche progressiste della sinistra, nel tentativo di sembrare attenta alle condizioni della propria forza lavoro.

4 quando si moltiplicano… Cana: il riferimento, in chiave ironica, si rifà a due episodi distinti del Vangelo: l’episodio delle nozze di Cana, in cui Gesù trasforma l’acqua in vino (Giovanni 2-1, 11) e la moltiplicazione di pani e pesci per sfamare la folla (Matteo 14, 13-21; Marco 6, 30-44).

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 711


te coi suoi dodici assistenti, e discorre con loro sorridendo. È un dottorino ebreo, biondo, sui trent’anni5. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano, 35 a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi. È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite6, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli 40 elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo, il consumo del pollame, il tasso di sconto, l’età media, la statura media, la valetudinarietà7 media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia. Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti. E quelli che lo negano 45 propongono però anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le medie; il prelievo fiscale medio, la scuola media8 e i ceti medi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina 50 da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere9, a pestarsi i piedi, a tafanarsi10 l’un l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo. Quassù io ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, ma per distruggere il 55 torracchione di vetro e cemento11, con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro. Mi ci aveva mandato Tacconi Otello12, oggi stradino per conto della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse nemmeno dirmela. E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo 60 so fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù. Almeno avessi trovato gente come te13. Ma la gente come te non me la fanno vedere, 65 non gli danno il modo di dormire a sazietà, la tengono distante, staccata, la fanno venire tutte le mattine presto col treno, e io ho appena fatto in tempo a intravederli, senza capirci nulla, senza nemmeno potergli dire una parola. 5 Il conferenziere… trent’anni: Gesù e i dodici apostoli, descritti sempre con ironia in una moderna chiave aziendalistico-manageriale. La “conferenza” di Gesù potrebbe alludere al celebre discorso della montagna, in cui i poveri e gli sventurati vengono chiamati beati. 6 reddito… pro capite: il reddito nazionale cumulativo indica il reddito dei residenti in uno Stato nella loro globalità, mentre quello pro capite (a testa) è un indicatore teorico della ricchezza di ogni singolo cittadino (risultante dal reddito nazionale diviso per la popolazione residente).

7 valetudinarietà: tendenza alla malattia. 8 la scuola media: nel 1962 era stata approvata in Italia la riforma della scuola media unificata, che permetteva l’accesso a qualsiasi scuola superiore, ed era stata abolita la scuola di avviamento al lavoro. 9 fare polvere: alzare la polvere a causa dell’attività frenetica (e per mostrare di essere attivi). 10 tafanarsi: gergale per “infastidirsi” (da tafano, insetto molesto dalla puntura dolorosa).

712 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria

11 torracchione… cemento: la sede della società che il protagonista ha deciso di fare esplodere. 12 Tacconi Otello: ex consigliere provinciale, compaesano e alleato del protagonista nella sua battaglia contro la società Montecatini; all’inizio del romanzo lo sprona a recarsi a Milano per vendicare la morte dei minatori di Ribolla e realizzare il suo piano dinamitardo. 13 gente come te: un proletario, uno della classe operaia.


Lo so, potrei andare in sezione14, dici tu, ma qui dove mi hanno chiuso, ai piani alti di via Meneghino 215, come si fa? Non lo sa nessuno dov’è la sezione, se lo 70 domandi per strada ti guardano come se tu fossi matto. E se anche la trovassi, che cosa credi che dicano, là dentro? Parlano del ventiduesimo16, lo sai anche tu. Del torracchione intatto non parlano, e se mi ci azzardo dicono che è una notizia superata, stravecchia, che ci vorrebbe un altro scoppio per ritirarla fuori e sfruttarla politicamente, denunciare all’opinione pubblica e portare avanti un’azione di massa. 75 Dicevano così, te lo ricordi? E se poi fosse soltanto una questione politica, io saprei il da fare. Se si trattasse soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, con pochi mezzi ci riuscirei. Il progetto l’ho già esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volenterosi, e un mese di tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno con 80 troppe perdite: diciamo una trentina, e nessuno dei nostri. Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia. Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere, e si sono specializzati sugli stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con 85 lo stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose. Lo so, sarebbero più onesti, dici tu, più seri, ma per ciò appunto più pericolosi. Farebbero crescere le medie, sul serio, la produttività, i bisogni mai visti prima. E la gente continuerebbe a scarpinare, a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l’anima. No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social90 divertentistica italiana17. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine18. 14 sezione: sede locale del Pci. 15 ai piani… 2: allusione a una strada milanese (meneghina) non altrimenti identificabile. 16 ventiduesimo: è l’Art. 22 della Costituzione italiana, che recita: «Nessuno può

essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome». 17 sganasciare… italiana: sopprimere (lett. “scardinare”) la classe dirigente italiana.

18 in interiore homine: nell’animo dell’uomo. L’espressione latina rimanda a un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino: «Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità».

Una scena del film Miracolo a Milano (1951).

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 713


Analisi del testo Il «miracolo balordo» Nella prima parte del brano Bianciardi si concentra sulla demolizione del mito italiano del “miracolo economico”: il benessere materiale apportato dal boom economico a un’attenta analisi risulta più che altro un miraggio e, soprattutto, ha come contropartita una lotta senza esclusione di colpi, in cui tutti potranno accedere ai beni di consumo, purché siano pronti a calpestare le più elementari regole della convivenza tra gli uomini («a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un l’altro dalla mattina alla sera»). Nessuna pietà per il prossimo in difficoltà, nessuna solidarietà tra lavoratori, disprezzo per i perdenti, un continuo impegno a cercare di non vedere, a chiudere gli occhi davanti alle difficoltà degli altri. Bianciardi confronta questo moderno uso del termine “miracolo” con quello originario che si ritrova nel Vangelo, rievocando due episodi della vita di Gesù (la trasformazione dell’acqua in vino durante le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani e dei pesci) per sottolineare la gratuità del vero miracolo, ben lontana dagli interessi economici sempre sottesi al processo economico. Forse non è un caso che già un decennio prima proprio nel capoluogo lombardo fosse ambientato il film di Vittorio De Sica Miracolo a Milano (1951), sceneggiato da Cesare Zavattini, che con toni evangelici ed egualitari aveva messo in scena una comunità di barboni emarginati dalla città e dal suo sviluppo economico.

Incremento “medio”, bisogni mai sentiti prima L’insistenza di Bianciardi sull’aggettivo “medio” («l’età media, la statura media, la valetudinarietà media…») vuole sottolineare come questo cosiddetto progresso tenda a uniformare la società alla sua “media”, che non è la somma dei singoli individui, ognuno con caratteristiche ed esigenze specifiche, ma piuttosto la tendenza ad appiattire ogni diversità. Così il reddito pro capite è un indicatore teorico, non dice nulla delle diseguaglianze tra ricchi e poveri. L’omologazione sarà poi diffusa nella società attraverso il bisogno di acquistare merci indotto dalle esigenze del mercato (e lo scrittore sembra davvero profetico quando parla di «due televisori» ciascuno in anni in cui per guardare i programmi televisivi la maggior parte degli italiani doveva recarsi al bar!): Bianciardi coglie con largo anticipo quelli che saranno i tratti salienti della società dei consumi; in altri passi del libro dimostra anche di avere chiara coscienza del ruolo invasivo della pubblicità nel far insorgere bisogni mai sentiti prima.

Io mi oppongo L’unica soluzione che l’intellettuale sembra intravvedere è di tipo eversivo, per eliminare la classe dirigente e avviare un nuovo corso politico, ma a un più maturo e disincantato esame essa appare inutile perché la nuova classe al potere finirebbe per riproporre le vecchie modalità, peggiorando persino la situazione. La sua è una battaglia solitaria, donchisciottesca, priva di fiducia in ogni tipo di organizzazione o regola di carattere comunitario («Lo so, potrei andare in sezione...»). Il fallimento di ogni tentativo di ribellione è causa di una delusione angosciante; e nemmeno il ritorno alla provincia è più possibile («E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico?»). Solo alla fine del testo troviamo un’affermazione nuovamente propositiva: dalla rivoluzione politica l’autore passa ad auspicare una rivoluzione interiore: è il singolo che deve interrogarsi sui suoi reali bisogni e su ciò che lo rende felice e ribellarsi allo stile di vita imposto dalla società moderna.

Uno stile ironico ed espressionista La lingua di Bianciardi esprime gli umori ribelli e vitalistici del protagonista che nel suo soliloquio utilizza un registro linguistico alto («spirare», «si è tirato in disparte», «valetudinarietà», la citazione latina finale «in interiore homine»), indice della sua cultura, in cui i riferimenti letterari si mischiano ai termini tecnici dell’economia («dividendi», «reddito nazionale cumulativo e pro capite», «tasso di sconto» ecc.) insieme a uno più colloquiale («di che mi lagno?», «non me la passo peggio...») o addirittura triviale («ti butta via a calci nel culo») per dar concretezza alla rabbia e all’invettiva polemica. Ma la caratteristica principale dello stile dell’autore toscano è l’espressionismo metaforico accompagnato da un’ironia spesso amara; numerosi gli esempi: «la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla», «finora non mi hanno mangiato le formiche», «ridursi a gusci opachi», «questo puzza di cadavere», «tafanarsi l’un l’altro», «sganasciare la dirigenza» ecc. Lo stile paratattico e anaforico («È aumentata la produzione… e la media oraria al giro d’Italia»), l’enumerazione di cose che – si capisce – non termineranno mai è particolarmente efficace a esprimere il senso di turbamento, smarrimento e angoscia che la nuova società industriale genera negli esseri umani.

714 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che modo il protagonista parla dell’episodio evangelico delle nozze di Cana? Che tipo di rapporto indica con la religione? ANALISI 2. Quali sono le caratteristiche del «miracolo balordo» a cui si fa riferimento nel testo? STILE 3. Individua nel testo le espressioni riconducibili a un registro colloquiale.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Il romanzo è stato scritto nel 1962. Pensando alla società odierna, ritieni che l’analisi del protagonista si riveli in un certo senso profetica? In che modo? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

online T4 Italo Calvino

La società dei consumi: Natale alla SBAV I figli di Babbo Natale da Marcovaldo

online T5 Primo Levi

L’etica del lavoro di un operaio specializzato La chiave a stella

Paolo Volponi

T6

Dialogo tra un computer e la luna Le mosche del capitale

P. Volponi, Le mosche del capitale, Einaudi, Torino 1989

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Cittadinanza digitale competenza 10

Questo dialogo surreale fra la luna e un computer mette in evidenza il contrasto tra l’immutabilità del ciclico rinnovarsi dei fenomeni celesti e la presunzione di poter ordinare, contare, analizzare, e perciò controllare, la vita umana, il mondo e l’universo propria del saccente computer, che distorce il concetto umanistico dell’homo faber, centro dell’universo, riducendolo a un accumulo di numeri statistici, privi di qualsiasi riflessione intellettuale.

6. L’ufficio notturno all’ultimo piano di un grande edificio direzionale. Sede nota e celebrata di uno dei più prestigiosi centri di potere, penetrabile unicamente con tessere e voti di appartenenza e offici1 di sudditanza e fedeltà. 5 L’ufficio è arredato con strutture nitide di metallo. I finestroni di cristallo, ampi come pareti, specchiano una notte serena e silenziosa a quell’altezza, addensata dal clic meccanico dei sistemi in funzione, dal loro respiro. Nell’angolo a sinistra alcuni ficus ornamentali, compatti e rigogliosi dentro l’oscurità. A destra spiccano le strutture e le tastiere della facciata di un calcolatore, per 10 il resto affondato nel buio. Dai finestroni entra trasversalmente un raggio di luna, del diametro di circa due metri; tocca le schermature del calcolatore, si insinua tra le fessure dei lineamenti minori. – Tu sei un calcolatore? – domanda la luna. – Sì, un calcolatore elettronico. 15 – Non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di te. – Tu sei la luna? – Sì. – Anch’io ho sentito parlare di te, alcuni dei miei sono stati programmati per la tua 1 offici: dimostrazioni.

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 715


conoscenza. Anch’io ho qualche dato su di te. Potrei dirti con precisione dove sarai fra trecento anni a quest’ora. – Lo so anch’io. – Ma non conosci la curva dei tuoi luoghi praticabili, approdi possibili, ora per ora, e nemmeno l’esatta dislocazione dei medesimi. Dove accoglierai domani, a quest’ora, un’astronave? 25 – Non lo so. Ma io non devo accogliere nessuno, e il mio corso ha una fissità più grande di me e di qualsiasi calcolo tu possa fare. – Cosa credi di sapere e di fare? – Poco. Devo girare e guardar correre il mondo. La corrente dei miei sguardi lo influenza senza nemmeno ch’io lo voglia. 30 – Anch’io guardo correre il mondo, i suoi capitali, e influenzo l’uno e gli altri con dati e proiezioni. Tu sai che una navicella è atterrata su di te? Con tre uomini a bordo? Ed è già ripartita? – Una navicella giunta in volo dalla terra e che poi vi è ritornata? – Sì, con navigatori a bordo, tornati in buona salute. Hanno parlato bene di te. Ve35 ramente più di se stessi che di te. Ti hanno visto soprattutto come un traguardo, una misura già presto superabile. – Ma perché sono venuti? – Appunto, non certo per toccare il tuo viso, ma per prepararsi ad andare ancora più lontano. 40 – Ah, dunque, nel loro solito modo. Dovevo immaginarlo. – Ma tu, più di loro, ti comporti nel solito modo. – Ma io sono un cardine dell’ordine generale. Un principio e uno specchio. Non sono soltanto un abitatore come loro, e nemmeno destinata a morire così rapidamente come loro. 45 – È per questo che viaggiano, per studiare. Ogni viaggio è uno studio. Ogni scoperta è uno strumento. – E tu servi a loro per studiare? – Sì. – Che cosa hanno da studiare? Li vedo sempre così ugualmente inquieti, così infe50 licemente indaffarati. – Studiano proprio per poter cambiare, loro stessi e la terra, e forse perfino il tuo giro, il tuo specchio. – E tu li aiuti? – Sì. 55 – In che modo? – Compio delle operazioni numeriche, e ne tengo memoria per altri successivi e ancora più complessi calcoli. – Fammene un esempio. – Io numero tutti gli uomini che lavorano in questa città, li ordino per classi e ca60 tegorie, secondo l’età il mestiere le capacità il rendimento. – Che classi? Che categorie? – Quelle del mio programma. – Ma allora sei tu che stabilisci e misuri… – Certo… gli uomini si affidano a me. 65 – Tutti gli uomini? 20

716 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


– Sì, tutti. Ma non certo tutti vengono con le loro dita a manovrare i miei tasti… solo i migliori. – E chi dice che quelli che vengono a toccarti siano proprio i migliori? – Lo so dai loro dati e piani di programmazione, e ne trovo conferma anche nel 70 sottoprogramma delle retribuzioni. – Ma, dimmi, per conoscere gli uomini debbo passare attraverso di te, oppure, per conoscere te è meglio passare attraverso la conoscenza degli uomini? – Ma tu cosa sai di loro? – Nulla. Li vedo. Vedo come occupano la terra, come la dividono e la lavorano. Vedo 75 come spasimano e crescono le loro città, anche la tua, come dormono e sfriggono2. – Sì, così dicono anche i ficus qui davanti. Specie quando parlano tra loro, e soprattutto adesso, per l’ondata di pessimismo che li ha travolti, dal momento in cui vennero tolti dall’ufficio del dottor Astolfo3. Invece io posso dire molto di più, e con precisione posso calcolare quanti siamo gli uomini che dormono e quanti quelli 80 che vegliano, occupati nei lavori notturni… Posso anche analizzare e specificare cos’è la sfriggitura di cui vai parlando, fumosa, che tanto ti commuove. Forse è dovuta allo sfrido della crescita4 del capitale… Devi sapere che ogni cosa appartiene al capitale… aumenta con un tasso di valore che io sono in grado di calcolare esattamente insieme con la velocità stessa dell’aumento e della sua accumulazione. 85 – E cos’è il capitale? – La ricchezza la moneta il potere, ecco, più di ogni altra cosa è il potere. – E a chi appartiene? – Agli eletti, ai migliori, alla scienza. – E tu fai parte di questa scienza? 90 – Certo. – Ma allora quelli che ti manovrano ti sovrastano anche… – No, affatto, solo una piccola parte… Sono io lo strumento delle decisioni del capitale. 2 sfriggono: brulicano di attività industriale e telematica; più sotto, sfriggitura. 3 dottor Astolfo: è l’amministratore delegato della società nella cui sede avviene il dialogo. 4 allo sfrido della crescita: al calo quantitativo, al decremento.

Analisi del testo La natura nel mondo della civiltà postmoderna Le mosche del capitale è un affresco sul potere e sulle dinamiche delle grandi imprese italiane, ma è anche una raffigurazione della civiltà postmoderna e dei suoi spazi. Il tratto significativo del romanzo è la scomparsa della natura: le scene si svolgono tutte in ambienti chiusi, gli uffici, le fabbriche, i treni, le banche, gli aerei, i luoghi dove il capitale cresce e si sviluppa. Sono rari gli accenni a piante e giardini, sempre circoscritti alla decorazione degli ambienti dirigenziali e trasformati in un’idea astratta di natura puramente artificiale. Il lirismo caratteristico dei primi romanzi di Volponi deve cedere il passo all’autoironia: non c’è più un paesaggio naturale da descrivere, c’è solo un incessante brulichio umano e telematico, un’attività alacre e senza volto che sposta capitali intangibili, virtuali, e che ha smesso di porsi interrogativi etici di qualunque sorta. In questo scenario, anche gli oggetti inanimati parlano, e parlano la lingua del profitto, identificandosi nei loro possessori umani; dal pappagallo che discute di strategie aziendali con l’amministratore delegato, fino alla poltrona presidenziale, ai ficus, alla borsa del presidente, ai computer: tutti si uniscono al coro concorde che magnifica il potere. La voce della luna è un’eccezione: essa rappresenta il poco che resta della Natura e viene tacitata con sufficienza dal computer, che sciorina con orgoglio dati, cifre, tabelle e classifiche sugli esseri umani.

La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico 1 717


La condizione dell’uomo tecnologico Asserviti alle logiche del capitale, che essi stessi hanno creato e da cui ora sono dominati in un’affannosa scalata al potere, gli uomini sono, agli occhi della luna, «così ugualmente inquieti, così infelicemente indaffarati». Lo sguardo della luna coincide dunque con quella parte di umanità che si sottrae alla logica capitalistica, come l’autore, in forte polemica con un mondo in cui aveva lavorato e creduto di poter migliorare. Non è l’accumulazione di potere e denaro fine a se stessa che può rendere felice l’uomo: Volponi delinea spietatamente la sconfitta del capitalismo e della società dei consumi nel vuoto di contenuti e di sentimenti, che non siano meschini e cinici, che si coglie chiaramente in tutto il romanzo.

Le “mosche del capitale” È importante sottolineare il fatto che per Volponi tecnologia e industria non sono un male in sé per lo sviluppo dell’uomo; il vero problema è la presenza delle “mosche del capitale” che se ne servono per il loro interessi personali, non recando alcun beneficio alla collettività. A questo proposito è interessante ricordare quanto aveva affermato lo scrittore rispondendo a Ferdinando Camon a proposito della ribellione di Saluggia in Memoriale (➜ T1d ): «la fabbrica è [...] un modo di lavorare, che l’uomo ha scoperto, che può essere civile e può dare un formidabile contributo al progresso e alla cultura» (F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Con quale espressione il computer dichiara la propria influenza sul mondo? 2. Perché Volponi sceglie questa prospettiva straniata, affidata all’umanizzazione degli oggetti, per parlare della condizione umana? ANALISI 3. In quali parti del dialogo il computer si presenta come strumento indispensabile per gli uomini? Individuale. 4. L’uomo è presente in questo dialogo? in che modo? Rintraccia nel testo le descrizioni fatte dalla luna e dal computer e chiariscine le differenze.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE

EDUCAZIONE CIVICA

5. Il passo di Volponi mostra gli effetti che l’entrata in scena del computer ha provocato nella vita dell’uomo. Come vivi il rapporto con la tecnologia? Ti “costringe” a vivere in spazi chiusi senza contatto con la natura, “controlla” la tua vita o è un semplice strumento, che puoi governare in piena libertà?

nucleo

Cittadinanza digitale

competenza 10

online T7 Giacomo Leopardi

Dialogo della Terra e della Luna Operette morali

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta questo brano di Volponi con il Dialogo della Terra e della Luna (1824), nelle Operette morali di Giacomo Leopardi. In entrambi, i dialoghi tra i corpi celesti o gli esseri inanimati sono il pretesto immaginifico per parlare della condizione umana da un punto di vista distaccato, esterno al coinvolgimento quotidiano. Quali sono i giudizi, sorprendentemente comuni in questi due brani scritti a quasi duecento anni di distanza, formulati sull’umanità e quali invece i tratti distintivi propri della modernità? Quale credi sarebbe potuta essere la reazione di Leopardi al mondo freddo e ipertecnologico raccontato da Volponi?

Fissare i concetti Letteratura e industria 1. A quale periodo si fa riferimento con l’espressione “miracolo economico”? 2. Quali aspetti caratterizzano gli anni del “miracolo economico”? 3. Quali caratteristiche ebbe la letteratura “industriale” negli anni del boom? 4. Quale rapporto si instaurò tra mondo della cultura e realtà sociale in Italia negli anni Sessanta e Settanta? 5. In cosa consiste l’utopia di Olivetti? 6. Su quale rivista si svolse il dibattito sull’incontro tra letteratura e industria? Da chi fu fondata? 7. Qual è il tema centrale del romanzo La paga del sabato di Fenoglio? 8. Qual è l’altra faccia del “miracolo economico”? 9. In che modo è affrontato nei romanzi di Volponi (Memoriale e Le mosche del capitale) il tema del lavoro in azienda nella società post-industriale? 10. Come affrontano nella loro opera le conseguenze dell’industrializzazione Mastronardi e Bianciardi?

718 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Italo Calvino Italo Calvino, L’avventura di due sposi da Racconti, Einaudi, Torino, 1958

L’avventura di due sposi L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la 5 sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo 10 e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare 15 a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezza addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. (in teoria) 20 Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile, a sentirselo vicino lei 25 capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di come era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi1, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era 30 entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la 35 polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzi nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda 1 occorsi: capitati. Voce lessicale colta.

Verso l’esame di Stato 719


a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. 40 Ma tutt’ad un tratto Elide: - Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare 45 lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava, il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. 50 Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’ “undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. 55 Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava 60 ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava. Quando Elide tornava, alla sera, Arturo, già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori, li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’ anche mettere a 65 bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne 70 che fanno la spesa alla sera. Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il 75 cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo2, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da magiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei per l’indomani, e quella da la80 sciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. 2 un addrizzo: una mossa.

720 Il Novecento (Seconda parte) 13 Letteratura e industria


Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva fare tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche 85 parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. 90 Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. 95 Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto 100 il marito, scotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi3 fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza. 3 radi: rari, scarsi.

Comprensione e analisi

Interpretazione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Dividi il racconto in sequenze e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza 2. Che cosa sottolinea il ricorso all’imperfetto dominante nel racconto? 3. In quale momento e con quale gesto si verifica il vero scambio comunicativo tra i due sposi? 4. Quale focalizzazione viene adottata? 5. Registra tutte le connotazioni riferite ad Elide. Quale ritratto di donna puoi trarne? 6. Registra tutte le connotazioni riferite ad Arturo. Quale ritratto di uomo puoi trarne? Quale significato assume il racconto? Che tipo di realtà analizza l’autore?

Verso l’esame di Stato 721


Il Novecento (Seconda parte) Letteratura e industria

Sintesi con audiolettura

1 La letteratura interpreta le contraddizioni del boom economico

Gli anni fra il 1955 e il 1963 vedono una straordinaria crescita economica che cambia il volto dell’Italia, trasformandola da paese prevalentemente agricolo a industriale: è il cosiddetto “miracolo economico”, il boom, che comporta tra l’altro l’accentuarsi del divario economico tra Nord e Sud, l’emigrazione dalle regioni meridionali alle città settentrionali, il nascere di una nuova cultura industriale, lo svilupparsi della società dei consumi. In questo periodo si configura una nuova figura di intellettuale che ha a che fare con i vari ambiti della produzione industriale e, mentre diventa centrale il ruolo della fabbrica, gli scrittori cercano di rappresentare i cambiamenti sociali e di costume. Nel numero 4 della rivista «Il Menabò» (1961) Elio Vittorini apre il dibattito su “Letteratura e industria” ponendo la necessità di trovare nuovi modi per rappresentare il contesto socio-economico del paese. Una visita in fabbrica di Vittorio Sereni è un esempio di poesia che affronta il tema del rapporto fra intellettuale e industria. Già nel primo dopoguerra Beppe Fenoglio (1922-1963) nel romanzo La paga del sabato, scritto nel 1949 con modalità neorealiste ma pubblicato nel 1969, aveva mostrato l’impossibilità per un ex partigiano di inserirsi nel nuovo sistema produttivo. Paolo Volponi (1924-1994) è considerato lo scrittore più rappresentativo della cosiddetta “letteratura industriale”. Nel suo romanzo Memoriale (1962) la fabbrica è descritta dal punto di vista nevrotico del protagonista, che all’inizio ne è attratto, per il senso dell’ordine che offre, ma poi ne subisce gli effetti alienanti fino a cadere nella malattia psichica. Lucio Mastronardi (1930-1979) nel romanzo Il maestro di Vigevano (1960) affronta i temi del boom economico e delle trasformazioni sociali all’interno di un soffocante ambiente di provincia: il protagonista capisce che la sua professione di maestro perde credito e valore a confronto con le attività dei nuovi arricchiti grazie allo sviluppo dell’industria locale. La più impietosa radiografia del “miracolo italiano” è realizzata nel romanzo La vita agra (1962) da Luciano Bianciardi (1922-1971), che rappresenta in modo espressionistico e con amara ironia il mondo dell’industria, della politica, della cultura milanese, indifferente ai veri disagi sociali e dove gli uomini sono portati a concentrarsi sul soddisfacimento di bisogni consumistici indotti artificialmente.

722 Il Novecento (Seconda parte) Letteratura e industria


In Donnarumma all’assalto (1959) lo scrittore Ottiero Ottieri (1924-2002), attraverso la vicenda della costruzione di uno stabilimento di un’azienda del Nord in un popoloso centro del Mezzogiorno, dimostra il fallimento di un progetto di integrazione tra Nord e Sud d’Italia. Anche Italo Calvino (1923-1985) mette a nudo nella raccolta di novelle Marcovaldo (1963) i problemi legati al consumismo e all’industrializzazione, utilizzando fantasia e ironia. Successivamente agli anni Sessanta diversi scrittori documenteranno con vari punti di vista l’evolversi del rapporto tra industria e società: Primo Levi, ad esempio, in La chiave a stella (1978) dà risalto all’etica del lavoro di un operaio specializzato, mentre Paolo Volponi torna sul tema nelle Mosche del capitale (1989), rappresentando l’impossibilità di applicare una visione umanistica all’organizzazione di un’azienda nella società post-industriale.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Fai una ricerca in rete sui dati aggiornati relativi ai morti sul lavoro nel nostro paese e riportali, con gli opportuni commenti, su slide da presentare alla classe.

Scrittura

2. Nel 1990, dialogando con gli studenti della Pantera (movimento studentesco di protesta contro la riforma dell’Università) all’Università di Siena occupata, Paolo Volponi percepisce come ancora attuale la discussione su industria e letteratura, confinata dalle storie letterarie al periodo del “miracolo economico” e al breve dibattito promosso da Elio Vittorini sulle pagine del «Menabò». Queste le parole di Volponi.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

«Se voi parlate di letteratura e industria con qualche grande cattedratico di letteratura italiana, dirà che è un tema chiuso, una cartella ormai consegnata agli atti: sì, si arriva al ’64, ’65, ci sono sette o otto romanzi, alcuni numeri di “Menabò”, ci sono delle ricerche, dei saggi, c’è il tentativo di qualche poesia o poemetto, c’è qualche smania avanguardistica; ma poi lì è chiuso. Ora si tratta di professori che restano all’interno del proprio ruolo, della propria cultura, della propria bravura di erudizione; perché il tema invece, secondo me, è ancora apertissimo e attuale. Il confronto fra letteratura e industria, se volete, è il confronto fra politica e industria, fra università e industria, fra consumo e industria, fra società e industria: fra tutto quello infine che tocca la nostra vita e quel che invece la investe e la decide secondo gli schemi della produzione e poi della distribuzione dei beni». (P. Volponi, Di letteratura e industria, in «L’immaginazione», nn. 73-74, gennaio-febbraio 1990)

In un testo di massimo 20 righe esponi le tue considerazioni sulle parole pronunciate da Volponi nel secolo scorso. Ti sembrano ancora attuali? Scrittura argomentativa

3. Scrivi un testo di circa 15 righe per dimostrare la grande attualità dell’opera di Calvino nell’ambito della sensibilizzazione sull’etica ambientalista.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 723


Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento

LEZIONE IN POWERPOINT

L’autrice vista da Cesare Garboli… C’era in Elsa, sempre, più prepotente delle idee, una grande voglia di giocare: questa voglia esplodeva, a sua insaputa, trasfigurata nel bisogno di scrivere – ed era la forma, la vera forma del suo talento. Ma non era una gioia. Era, come in certi bambini che guardano il cerchio e la palla dei loro coetanei, la sopravvivenza di un pensiero inappagato; questo pensiero, se aveva coscienza di sé, s’inviperiva, si faceva rabbioso e prendeva la forma del capriccio della pedanteria. Molte delle canzoni da menestrella strafottente, da saltimbanca smarrita del Mondo salvato dai ragazzini sono fatte di questa combinazione, tra la sincerità e il far festa un po’ forzato, perché sempre contro qualcosa o qualcuno, delle anime insofferenti e ferite. (C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Adelphi 1995)

… e da sé medesima La sola ragione che ho avuta – di cui fossi consapevole – nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo. Quanto a Menzogna e Sortilegio io volevo fare come Ariosto ha fatto con i poemi cavallereschi: scrivere l’ultimo dei romanzi possibili, anche il mio ultimo romanzo, e uccidere il genere. Volevo mettere nel romanzo tutto quello che allora mi tormentava, tutta la mia vita, che era una giovane vita, ma una vita intimamente drammatica. (E. Morante, da una intervista disponibile in Rete, nella rubrica “After death”)

724


I romanzi di Elsa Morante si presentano come imponenti cattedrali costruite con sapienza e accuratezza, capaci di intrecciare la forma-romanzo con il saggio, l’apologo morale, la fiaba, il teatro, il pamphlet, la monografia. In essi scorre la protesta “anarchica” contro la Storia come storia del potere, la cristiana compassione verso gli umili e gli oppressi, la critica di una intera civiltà – quella occidentale – basata sulla forza e sulla razionalità distruttiva della tecnica. Del genere del romanzo sembra ogni volta rivitalizzare il nucleo originario, fatto di penetrazione psicologica, epica avventurosa, rappresentazione della vita quotidiana, conflitto del protagonista con la società, senso del destino. Morante è stata una inesauribile poligrafa: anzitutto romanziera, poi poetessa, saggista, autrice di fiabe e racconti brevi, traduttrice, intellettuale sempre “impegnata” dal punto di vista civile. La produzione narrativa femminile nel corso del Novecento dimostra la sua grandezza anche con autrici come Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Anna Banti, Anna Maria Ortese e Dacia Maraini.

1 Ritratto d’autrice lungo capitolo 2 Un della storia italiana del Novecento

produzione narrativa 3 Lafemminile nel Novecento 725 725


1 Ritratto d’autrice 1 Il realismo secondo Elsa Morante VIDEOLEZIONE

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’intera arte e il realismo Elsa Morante, probabilmente la maggiore scrittrice italiana del Novecento – romanziera, poetessa, saggista, autrice di fiabe e racconti, traduttrice, intellettuale “impegnata” dal punto di vista civile – ha mostrato come non solo la letteratura ma l’intera arte ha una relazione con il realismo. Proprio lei che nella sua variegata opera ha mescolato registri diversi: la descrizione naturalistica e la componente fantastica, l’attenzione al dettaglio quotidiano e la costante tentazione del mito. La “realtà” per Morante consiste nella totalità dell’esistenza umana, fatta egualmente di esperienza concreta e di sogno, di utopia e disincanto, di serietà morale e di gioco, di comico e di tragico, di riso e di pianto. Si tratta di una continua dialettica di opposti, che nella vita delle persone non trova mai vera soluzione e che proprio la letteratura si incarica ogni volta di rappresentare, attraverso “la menzogna e il sortilegio” della scrittura, per parafrasare un celebre titolo morantiano. Proprio alla scrittura, una scrittura esuberante, ricca di eccessi e di colori, lei ha dedicato la propria stessa esistenza, anch’essa esuberante, piena di slanci generosi e di amori (anche per i suoi adorati gatti), di passioni dispotiche e di delusioni tragiche. In una lettera all’amico Goffredo Fofi scrive: «Io non cerco altro che la realtà, intendendo questa parola nel significato dovuto, e cioè sostanza profonda e viva delle cose». Ed è la letteratura a offrirci un’immagine intera e rappresentativa del reale, dosando opportunamente razionalità e immaginazione, artificio e verità. Anche per questo

Cronologia interattiva 1945

1939

Scoppia la Seconda guerra mondiale.

1922

Marcia su Roma.

1910

1919

Elsa Morante nasce a Roma.

1920

Finisce la Seconda guerra mondiale.

1930

1946

In seguito al referendum del 2 giugno nasce la Repubblica italiana.

1940

1935

Esce a puntate il romanzo breve Qualcuno bussa alla porta.

1950

1941

Sposa Alberto Moravia.

1948

Pubblica Menzogna e sortilegio.

726 Il Novecento (Seconda parte) 14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento


dalle novelle e dai racconti della giovinezza giungerà nel 1948 – con Menzogna e sortilegio – all’approdo al romanzo, il genere letterario che meglio di tutti, attraverso le sue elaborate architetture e ampie campiture, tenta di rappresentare quella totalità di esistenza, la «moderna epopea borghese» (secondo il filosofo Hegel), dove il protagonista non è tanto un eroe in guerra contro nemici temibili, ma l’individuo in conflitto con la società. Il genere romanzesco e la realtà In vari saggi e articoli Morante ripropone l’idea di un legame indissolubile tra genere romanzesco e realtà, già a partire da una fedeltà primaria del romanziere al realismo psicologico, alla minuziosa descrizione delle reazioni psicologiche dei personaggi, come dirà citando Tolstoj: non si dà romanzo senza psicologia. Elsa Morante mette in relazione il realismo con un’idea più generale di arte. Secondo lei l’arte è sempre impegnata a dare forma «agli oggetti dell’universo, traendoli dal disordine, e cioè dalla morte» (da Il poeta è tutta la vita), e dunque si presenta come «il contrario della disintegrazione», dato che la realtà «è l’integrità stessa» (dalla conferenza Pro o contro la bomba atomica ➜ D1 ). La sua concezione del mondo Arriviamo qui al cuore della sua poetica e concezione del mondo. La contrapposizione morale non è tanto tra bene e male quanto tra reale e irreale: chi si comporta male – in modo cioè prepotente, avido, egoistico ecc. – in un certo senso proietta se stesso, senza neanche volerlo o saperlo, in una dimensione di irrealtà, dato che la realtà è fatta essenzialmente di relazione con gli altri e di reciprocità. Per lei la realtà appare non tanto agli istruiti e ai sapienti, quanto a chi non ha paura della morte ed è capace di accettarla, o anche, evangelicamente, ai puri di cuore. Tutta questa formulazione, certamente originale e non moralistica, della questione etica, Elsa Morante la ricava soprattutto dalla assidua lettura dei Quaderni di Simone Weil, pensatrice ebrea tedesca radicale, spesso estrema, scomparsa nel 1943 all’età di trentaquattro anni, a lei particolarmente cara. Una frase di Weil sembra aver ispirato direttamente alcune pagine del romanzo più popolare di Elsa Morante, La Storia: «La gioia altro non è che il sentimento della realtà».

1957

Lancio del primo satellite artificiale, il sovietico Sputnik.

1961

Viene costruito il Muro di Berlino.

1960 1961

1957

Pubblica L’isola di Arturo, che vince il premio Strega.

Viaggia in India con Moravia e Pasolini.

1968

Scoppia la rivolta studentesca.

1969

Scoppia una bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano.

1970 1963

Esce la raccolta di racconti Lo scialle andaluso.

1968

Pubblica Il mondo salvato dai ragazzini.

1974

Referendum sul divorzio in Italia.

1978

Rapimento e assassinio di Aldo Moro.

1980

Attentato terroristico alla stazione di Bologna.

1980

1990

1974

1985

Pubblica il romanzo La Storia.

Muore a Roma.

1982

Pubblica il romanzo Aracoeli.

Ritratto d’autrice 1 727


Elsa Morante

D1 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica – e altri scritti, Adelphi, Milano 1987

L’arte: unico argine possibile alla disgregazione Il saggio è stato pubblicato postumo nel 1987, ma era il testo di una conferenza che Morante tenne a Torino nel 1965. La scrittrice espone in esso la sua visione della letteratura, del ruolo dello scrittore e dell’arte. Si tratta di un testo che procede per immagini lampeggianti e forti suggestioni più che per una rigorosa argomentazione.

Ho sentito dire che qualcuno, al sapere in anticipo l’argomento da me scelto, ha mostrato una certa perplessità: come se, da parte mia, questa fosse una scelta, diciamo, curiosa. Invece, a me sembra evidente che nessun argomento, oggi, interessa, come questo, da vicino, ogni scrittore. 5 A meno che non si vogliano confondere gli scrittori coi letterati: per i quali, come si sa, il solo argomento importante è, e sempre è stata, la letteratura; ma allora devo avvertirvi subito che nel mio vocabolario abituale, lo scrittore (che vuol dire prima di tutto, fra l’altro, poeta), è il contrario del letterato. Anzi, una delle possibili definizioni giuste di scrittore, per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui 10 sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura. Allora non c’è dubbio che il fatto più importante che oggi accade, e che nessuno può ignorare, è questo: noi, abitanti delle nazioni civili nel secolo Ventesimo, viviamo nell’era atomica. E, veramente, nessuno lo ignora: tanto che l’aggettivo atomico viene ripetuto in 15 ogni occasione, perfino nelle barzellette e sui rotocalchi. Ma, riguardo al significato pieno e sostanziale dell’aggettivo, la gente, come succede, se ne difende, per lo più, con una (del resto, perdonabile) rimozione. E anche quei pochi che riconoscono l’effettiva minaccia che esso significa, e se ne angosciano (e per questo, magari, vengono considerati dagli altri dei nevrotici, se non dei matti) anche quei pochi, 20 però, si preoccupano piuttosto delle conseguenze del fenomeno che non delle sue origini, diciamo, biografiche, e dei suoi riposti motivi. (Parlo, si capisce, dei profani, quali suppongo la maggior parte di noi presenti.) Pochi, insomma, domandano alla propria coscienza (mentre proprio qui forse è la vera “centrale atomica”: nella coscienza di ciascuno): “Ma perché un segreto essenziale (forse il segreto della natura) 25 già avvertito fin dall’antichità in luoghi e epoche diversi, da popoli evoluti e avidi di conoscenza, è stato verificato, ritrovato fisicamente, appunto e soltanto nell’età attuale?”. Non basta rispondere che nella grande avventura della mente, la seduzione scientifica ha sostituito quella immaginativa: pure avendo l’aria di una risposta, questa rimane ancora una domanda, che anzi rende più impegnativo il problema. 30 Ma nessuno vorrà fermarsi a credere che si tratti di un caso; e cioè che si sia arrivati a questa crisi cruciale del mondo umano solo perché, avendo, a un certo punto, l’intelligenza umana, sempre in cerca di nuove avventure, preso un sentiero buio fra altri sentieri bui, è capitato che i suoi stregoni-scienziati, in quel tratto, scoprissero il segreto. No: tutti sanno ormai che nella vicenda collettiva (come nella individuale) 35 anche gli apparenti casi sono invece quasi sempre delle volontà inconsapevoli (che, se si vuole, si potranno pure chiamare destino) e, insomma, delle scelte. La nostra bomba è il fiore, ossia l’espressione naturale della nostra società contemporanea, così come i dialoghi di Platone lo sono della città greca; il Colosseo, dei romani imperiali; le Madonne di Raffaello, dell’Umanesimo italiano; le gondole, della no-

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biltà veneziana; la tarantella, di certe popolazioni rustiche meridionali; e i campi di sterminio, della cultura piccolo borghese burocratica già infetta da una rabbia di suicidio atomico. Non occorre, ovviamente, spiegare, che per cultura piccolo borghese s’intende la cultura delle attuali classi predominanti, rappresentate dalla borghesia (o spirito borghese) in tutti i suoi gradi. Concludendo, in poche, e ormai, del resto, 45 abusate parole: si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi. Si insinuerà che il primo germe di questa tentazione è spuntato fatalmente nel nascere della specie umana, e si è sviluppato con lei; e perciò quanto oggi avviene non sarebbe che la crisi necessaria del suo sviluppo. Ma questo non farebbe che 50 riproporre l’ipotesi. È nota, e ormai volgarizzata, la presenza simultanea nella psicologia umana dell’istinto di vita (Eros) e dell’istinto di morte (Thànatos). Perfino, a proposito di quest’ultimo, si potrebbe in teoria, cioè senza arbitrio logico, leggere le Sacre Scritture di tutte le religioni nell’interpretazione presunta che tutte, e non solo quella indiana, insegnino l’annientamento finale come l’unico punto di beatitudine 55 possibile. E difatti alcuni psicologi parlano di un istinto del Nirvana nell’uomo. Però, mentre il Nirvana promesso dalle religioni si guadagna per la via della contemplazione, della rinuncia a se stessi, della pietà universale, e insomma attraverso l’unificazione della coscienza, al suo maligno surrogato piccolo-borghese, inteso per i nostri contemporanei, si arriva appunto attraverso la disintegrazione della coscienza, 60 per mezzo della ingiustizia e demenza organizzate, dei miti degradanti, della noia convulsa e feroce, e così di seguito. Infine, le famose bombe, queste orchesse balene che se ne stanno a dormire nei quartieri meglio riparati dell’America, dell’Asia e dell’Europa: riguardate, custodite e mantenute nell’ozio come fossero un harem: dai totalitari, dai democratici e da tutti quanti; esse, il nostro tesoro atomico mondiale, 65 non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma la manifestazione necessaria di questo disastro, già attivo nella coscienza. Adesso non voglio certo opprimervi con una milionesima descrizione delle evidenze del disastro, nel loro spettacolo sociale quotidiano; il quale viene accusato e registrato continuamente in saggi, conferenze, trattati. E del resto è così vistoso e persecutorio 70 che perfino i nostri poveri prossimi animali (cani, gatti, per non dire gli infelicissimi polli) ne avvertono sensibilmente lo strazio. No, vi risparmio questo quadro famigerato: tanto più che ho già il rimorso di essere venuta qui a intrattenervi con un argomento così tetro invece che con una bella fiaba (dato che certi affezionati si adoperano a smerciare i miei libri facendoli passare sotto una specie di fiabe!!!). 75 E tanto meno mi incarico di fare adesso una predica propagandistica contro la bomba (fra l’altro, con certi propagandisti di questo tipo ho delle questioni polemiche). No, povera me, chi mi darebbe tanto valore, e tanto fiato? E io stessa, poi, sono cittadina del mondo contemporaneo, anch’io forse, sono soggetta alla universale estrema tentazione. E dunque, finché non me ne sento proprio immune, farò meglio 80 a non vantarmi tanto. Però, nello stesso tempo, per merito della fortuna, io mi onoro di appartenere alla specie degli scrittori. Da quando, si può dire, ho cominciato a parlare, mi sono appassionata disperatamente a quest’arte, o meglio, in generale, all’arte. E spero di non essere troppo presuntuosa se credo di avere imparato, attraverso la mia lunga 85 esperienza e il mio lungo lavoro, almeno una cosa: una ovvia, elementare definizione dell’arte (o poesia, che per me vanno intese come sinonimi). 40

Ritratto d’autrice 1 729


Eccola: l’arte è il contrario della disintegrazione. E perché? Ma semplicemente perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, il solo suo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto questa: di impedire la 90 disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà (ma attenzione ai truffatori, che presentano, sotto questa marca di realtà, delle falsificazioni artificiali e deperibili). La realtà è perennemente viva, accesa, attuale. Non 95 si può avariare, né distruggere, e non decade. Nella realtà, la morte non è che un altro movimento della vita. Integra, la realtà è l’integrità stessa: nel suo movimento multiforme e cangiante, inesauribile – che non si potrà mai finire di esplorarla – la realtà è una, sempre una. Dunque, se l’arte è un ritratto della realtà, chiamare col titolo di arte, una qualche 100 specie, o prodotto, di disintegrazione (disintegrante o disintegrato), sarebbe per lo meno una contraddizione nei termini. Si capisce, quel titolo non è brevettato dalla legge, e nemmeno sacro e inviolabile. Ognuno è padrone di mettere quel titolo di arte dove gli pare; ma anch’io sarò padrona, quando mi pare, di denominare costui per lo meno un pazzariello. Come sarei padrona di chiamare pazzariello – diciamo 105 in via di esempio ipotetico – un signore che insistesse per forza a offrirmi nel nome di sedia un rampino appeso al soffitto.

Concetti chiave Nel saggio l’autrice, dopo aver chiarito la differenza che intercorre tra scrittore e letterato, sostiene che la bomba atomica è «il fiore, ossia l’espressione naturale della nostra società contemporanea», caratterizzata dalla “disintegrazione della coscienza”, dove l’arte, la letteratura ha invece il compito di impedire questa “disgregazione”. Come abbiamo visto, alla “irrealtà” del potere, della ingiustizia organizzata, dei miti degradanti del nostro tempo, della “noia convulsa e feroce” cui è ridotta l’esistenza, e appunto della Bomba, si contrappone la “realtà” stessa, l’amore genuino per cose e persone, la concretezza delle relazioni e dei corpi. Perciò Elsa Morante immagina lo scrittore come un cavaliere in lotta contro il drago dell’irrealtà. Precisamente da qui nasce il suo impegno civile, come riconoscimento della realtà umana, nella sua interezza, da vivere e sperimentare totalmente, gioiosamente, di quella realtà che si rivela solo ai Felici Pochi (della “canzone” contenuta nel Mondo salvato dai ragazzini), allo sguardo integro dei bambini e dei poeti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è secondo l’autrice la differenza tra scrittore e letterato? 2. Qual è l’atteggiamento della gente all’udire l’aggettivo “atomico”? 3. In che modo l’arte può rappresentare il contrario della disgregazione? ANALISI 4. Che cosa vuol dire che «la nostra bomba è il fiore, ossia l’espressione naturale della nostra società contemporanea»?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Fai un confronto tra questo testo e il brano finale de La coscienza di Zeno cap. VIII (➜ VOL 3A C18).

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2 La biografia e l’opera Le prime opere Una prima silloge di venti racconti di Elsa Morante – Il gioco segreto – appare su stampa periodica nel 1941 su sollecitazione del grande critico Giacomo Debenedetti, che aveva scoperto la scrittrice. Si tratta di brevi narrazioni, sospese tra realtà e allucinazione, tra dimensione naturalistica e dimensione sognante-visionaria: il “gioco segreto” (titolo di uno dei racconti) dell’incanto fiabesco rivela un mondo di desideri spesso innominabili, fantasie e pulsioni ribollenti. In un quaderno di quegli anni – Lettere ad Antonio, pubblicato postumo come Diario 1938 – la scrittrice confessa l’enorme influenza di Freud sulla propria attività letteraria. Il matrimonio Nel 1936 conosce Alberto Moravia con il quale inizia una relazione. Il matrimonio con Moravia nel 1941 la libera dalla necessità economica, e dagli impegni assillanti legati alla collaborazione con i periodici, dandole l’agio di incontrare il romanzo, il genere a lei davvero congeniale, oltre la prosa d’arte e i frammenti squisiti dell’adolescenza. Negli anni della guerra si impegna dunque nella stesura di Menzogna e sortilegio, che vedrà la luce nel 1948, con consenso innegabile, ma non immediato, di pubblico e di critica (vince tra l’altro il premio Viareggio). È un romanzo familiare attraverso cui la narratrice, la venticinquenne provinciale Elisa, ripercorre l’album delle figure parentali – reali e insieme spettrali, tutte esasperate nella descrizione – e delle molteplici relazioni domestiche per arrivare alla comprensione di sé. Dopo l’8 settembre 1943 con Moravia tenta di raggiungere Napoli ma per un incidente sulla linea ferroviaria si ferma a Fondi, dove resta fino alla fine della guerra. Negli anni successivi mostra un interesse per il cinema: scrive due sceneggiature per altrettanti film che non saranno mai realizzati e tiene una rubrica di critica cinematografica alla radio. Il successo Nel 1957 il secondo romanzo, L’isola di Arturo, assai più lineare e concentrato nell’intreccio, vince il premio Strega, e riscuote immediato successo di pubblico. Nel 1958 esce la raccolta di sedici poesie Alibi, che comprende, oltre alla lirica del titolo e le varie altre poesie che erano già state incluse all’interno dei romanzi Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo, anche la poesia Avventura. Nei primi anni Sessanta Morante pubblica una seconda raccolta di racconti – Lo scialle andaluso, 1963 – di cui faranno parte alcuni dei racconti già pubblicati nel Gioco segreto, assieme ad altri più recenti. Nel 1961 si separa da Moravia, con cui continua ad avere una relazione intensa, rimanendo a vivere – da sola e in compagnia dei suoi gatti – nella loro casa di via dell’Oca a Roma, un luogo divenuto col tempo quasi mitico, in quanto meta di visite e pellegrinaggi da parte di scrittori, poeti e artisti. La sua personalità, dal carattere generoso e a tratti dispotico, capriccioso e magnetico, diventa infatti oggetto di un piccolo culto da parte di artisti che vi si recano in pellegrinaggio, accolti gioiosamente o alle volte rifiutati senza apparente motivo. Nel 1965 Morante pubblica, dopo averla presentata in varie occasioni a Torino, Milano e Roma, la conferenza Pro o contro la bomba atomica, un breve saggio personale in cui espone con nitidezza la propria idea dell’arte e la propria visione del mondo, ispirata a una radicalità insolita per quei tempi. Nel 1968 pubblica Il mondo salvato dai ragazzini, un canzoniere eterogeneo, inclassificabile, che per certi aspetti potrebbe essere un manifesto del Movimento del Sessantotto, della sua istanza libertaria, di utopia e contestazione. È un libro anomalo Ritratto d’autrice 1 731


che rifonde in modo originale forme di poesia tradizionale, canzoni, un atto unico teatrale (La commedia chimica), apologhi morali. Dalla pubblicazione del libro comincia una serie di relazioni personali con esponenti della “nuova sinistra” di quegli anni, di cui condivide la genuina spinta di rivolta e di rinnovamento. In quelle pagine contrappone il mondo allegro dei F.P. (i “Felici Pochi”) – tra i quali troviamo non solo i “ragazzini”, gli eterni adolescenti puri e festosi, ma anche scrittori, poeti e filosofi – alla folla informe, alienata, conformista degli I.M. (“Infelici Molti”); lei stessa oscilla tra le due categorie: appartiene ai F.P. per la grazia della sua scrittura, per l’allegria anarchica e priva di calcolo di molta parte della sua esistenza, distante da qualsiasi potere, ma, come ha osservato il critico Matteo Marchesini, a differenza dei F.P. è anche “infelice” perché non riesce mai a dimenticarsi del tutto, a uscire dalla pesanteur – come dirà lei stessa usando un termine di Simone Weil – del proprio doloroso, inguaribile narcisismo. In particolare identifica la propria pesanteur come «pedanteria, dispotismo, incapacità di dimenticare e dimenticarsi, il bisogno di dar sempre lezione, la mania di mettere i puntini sugli i e di far da gendarme delle idee proprie e di quelle altrui» (Cesare Garboli, Scritti servili, Einaudi, 1989). A partire dal 1971, riprendendo alcuni personaggi e temi dal vecchio progetto di Senza i conforti della religione, avvia la stesura del romanzo La Storia, ambientato a Roma durante il secondo conflitto mondiale, che esce nel 1974 e subito diventa un bestseller, dividendo la critica. L’ultimo romanzo di Elsa Morante è Aracoeli, nel 1982, romanzo della delusione e del disinganno: allontanamento da qualsiasi impegno civile e dall’esistenza stessa, buia discesa agli inferi e doloroso presagio di una catastrofe. Dove decadenza fisica e percezione della fine di un’intera civiltà si rispecchiano reciprocamente. La morte Poco prima della fine della stesura del romanzo, cadendo in un ristorante, Elsa Morante si procura una frattura al femore che la costringe lungamente a letto: l’apocalisse rappresentata nel romanzo si rispecchia in modo drammatico nella sua personale apocalisse. Dopo l’uscita del libro, scoprendo di essere gravemente ammalata, tenta il suicidio nel 1983. Muore nel 1985.

3 Il patto con i lettori Affabilità comunicativa L’opera di Elsa Morante offre una continua sperimentazione, soprattutto sul piano della commistione di stili e generi, dunque senza le astrattezze intellettualistiche della neoavanguardia, da cui non era amata, e anzi conservando sempre un’affabilità comunicativa. I grandi modelli ottocenteschi sono riprodotti sapientemente – quelle arcate narrative dense di personaggi, e anche il classico feuilleton o drammone ottocentesco ricco di colpi di scena – ma immettendo in essi un’inquietudine novecentesca, ovvero una cognizione dell’ambiguità, della “duplicità senza soluzione” del cuore umano, per usare un’espressione di quel Freud più volte omaggiato nelle Lettere ad Antonio, diario dei sogni ed esplorazione del proprio lato notturno. La sua ricerca non esclude mai un patto segreto ma indissolubile con i lettori. Sia il monologo polifonico perché intessuto di voci diverse, e la sintassi educatissima che caratterizzano il romanzo d’esordio, sia lo stile limpido dell’Isola di Arturo, con la voce monologante stavolta interrotta da frequenti dialoghi, sia l’estrema fluidità di narrazione “popolare” della Storia e perfino la lingua dissonante di Aracoeli, con

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il suo ingorgo di idiomi e gerghi, intendono comunicare con ogni lettore, ancorché sprovvisto di strumenti culturali. Anche perché, come Morante volle precisare, l’arte non può per sua natura «adottare il rifiuto delle convenzioni», dato che «i simboli poetici, per il loro valore universale, sono tutti, in sé stessi, delle convenzioni». Contro lo snobismo aristocratico di una parte della critica Morante dichiara di essere felice «che la gente legga, che si comprino più libri… io vorrei che dei miei libri si stampassero manifesti, che di Arturo e Nunziatella si parlasse nei bar». Lo stile L’epigrafe della Storia cita il poeta Cesar Vallejo: Por el analfabeta a quien escribo. Soprattutto in questo romanzo, il suo più popolare, la scrittrice attraverso una lingua media e però mai banale si rivolge a tutti i lettori – colti e meno colti, motivati e casuali –, confidando nella loro intelligenza critica e nella loro capacità di abbandonarsi alle emozioni delle storie e riaffermando la fede nel romanzo come genere in grado di connettere piani diversi di esperienza e di unificare un’intera società. La sua prosa, affabile e distesa, a volte esuberante, perfino rigogliosa in certe punte barocche, altre volte disadorna, aderente a ogni minuscola piega del reale, ci prende fraternamente per mano accompagnandoci nella “menzogna” e nel “sortilegio” della narrazione. Incanto e conoscenza, l’antico binomio di ogni vera letteratura Nei suoi libri la letteratura torna a essere una forma di conoscenza privilegiata del mondo, senza rinunciare al suo potere incantatorio e affabulatorio, oggi perlopiù delegato ad altri linguaggi e generi, come le serie televisive. Fedele alla sua originaria vocazione dell’adolescenza, ogni volta Morante racconta una favola, chiedendo tutta la nostra attenzione: può trattarsi di una favola più o meno edificante o disillusa, a volte dagli esiti tragici, ma certamente capace di arricchire la nostra esperienza della realtà. Nella Storia la celebrazione della vita, dell’infanzia e del gioco innocente coesiste con una visione cupa, leopardiana, e di origine greca, per cui la nascita stessa diventa una colpa, dal momento che «la disgrazia è crescere». Nella tragedia di Sofocle Edipo a Colono (rielaborata da Morante nel Mondo salvato dai ragazzini), il saggio Sileno rivolto a Re Mida che gli chiede quale sia la cosa più desiderabile per l’uomo, risponde: «Meglio di ogni cosa è non essere nati, e dopo di ciò morire subito dopo la nascita».

Elsa Morante nel suo studio.

Ritratto d’autrice 1 733


2

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento e sortilegio: il racconto della fine della società 1 Menzogna patriarcale del Sud Storia e sviluppo analizzati criticamente L’opera morantiana può essere letta come un avvincente, preciso capitolo di storia sociale d’Italia, composto inventando personaggi, storie, destini, conflitti famigliari. Dal mondo contadino arcaico al fascismo e alla guerra, fino agli anni del boom industriale, dalla rivolta studentesca del 1968 al cosiddetto “riflusso” conservatore e omologante degli anni Ottanta e a quello che lei percepiva come un degrado antropologico degli italiani, legato alla società di massa, ai consumi sempre più invasivi, oltre mezzo secolo di storia italiana scorre nel diorama splendente dei suoi romanzi. Il suo è uno scavo dentro la memoria individuale e collettiva. La percezione dello “Sviluppo” del nostro Paese come involuzione, impoverimento culturale, e del predominio della classe media come appiattimento e corruzione, è condivisa in pieno con l’amico Pasolini, severo critico dello Sviluppo. Come vedremo, la sua diagnosi acquista caratteri ancora più estremi: sotto accusa è non solo il consumismo, la produzione di beni superflui, il capitalismo, ma la nostra stessa civiltà. Il fiore malato di questa civiltà, che ha perso ogni contatto con il proprio umanesimo, è nel XX secolo la Bomba (atomica). Al di là della sempre mutevole vicenda storica, la letteratura rappresenta infine la condizione umana in alcuni suoi caratteri di fondo. Il primo romanzo Menzogna e sortilegio, «aggrovigliato labirinto di affetti» (Calvino), mette al centro del racconto la società meridionale, il “triste Mezzogiorno”, un mondo aristocratico-contadino che sarebbe scomparso di lì a poco. L’io narrante è Elisa Salvi, una giovane donna del Sud, una “vecchia fanciulla” di origine piccoloborghese rimasta sola dopo la morte della madre adottiva Rosaria, che nella sua “cameretta deserta” intraprende un’indagine su di sé e sulle proprie radici, riattivando l’arsenale della memoria e ricostruendo gli anni dell’infanzia. Dal suo teatro narrativo affiorano soprattutto due figure di donne: la nonna Cesira, una maestra che sposa un nobile anziano e spiantato, e la madre Anna, innamorata del bel cugino Edoardo e poi sposa del mediocre Francesco, da lei disprezzato. Questa “bambina cresciuta male” rievoca ambienti, atmosfere e luoghi del Meridione abitando ora a Roma, dunque con il necessario distacco. Il romanzo, che il grande filosofo ungherese György Lukács definì «il più grande romanzo italiano moderno», si distanzia dai modi del neorealismo, allora imperanti, perché la narrazione è condotta da Elisa, in prima persona, mescolando dati cronachistici e ossessioni personali, esperienze reali e fantasie: la realtà per Elsa Morante contiene sempre quella ambivalenza irrisolta che per lei definisce la condizione umana, ed è fatta – shakespearianamente – della stessa sostanza volatile dei sogni. La narrazione in prima persona, o come si dice con parola tecnica “diegetica”, sarà una costante morantiana, a parte la parentesi della Storia. Elisa disegna così un proscenio inesauribile di personaggi – lunatici, un po’ furfanti, arroganti, ciarlatani,

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dalle maestrine ai nobiluomini decaduti, dagli amori adulteri agli studenti pieni di ambizione – che compongono la sua leggenda famigliare, uno spettacolo favoloso abitato da “santi, eroi e profetesse” che svelano a poco a poco la loro vera natura, assai più squallida. Raccontandoli Elisa da un lato li demitizza, li spoglia di qualsiasi aura, e dall’altro riesce a emanciparsi dal loro “potere stregato”. Proprio negli ultimi due capitoli avviene il mutamento di passo: Elisa qui non è più il medium attraverso cui parlano le tante figure parentali, ma decide di raccontare direttamente i fatti, in una “lucida insonnia”: la sua città natale perde ogni “luce abbagliante” mostrando tutta la propria miseria, e la famiglia stessa rivela le proprie dinamiche perverse, gli odi e gli autoinganni. Nella poesia che apre il romanzo – «Di te, Finzione, mi cingo, / fatua veste» – e che riecheggia Metastasio e Leopardi, si riconosce alla finzione un potere liberatorio, capace di trattenere il passato senza più subirlo, ma appunto oggettivandolo in una rappresentazione.

Menzogna e sortilegio PUBBLICAZIONE

1948

GENERE

romanzo

CONTENUTO

la protagonista Elisa Salvi, giovane donna del Sud, narra in prima persona la storia della sua famiglia attraverso la quale arriva alla comprensione di sé

STILE

lingua ordinata e sontuosa, stile ipotattico pienamente controllato

Elsa Morante

T1

L’ignavia di Elisa Menzogna e sortilegio, cap. 1

E. Morante, Menzogna e sortilegio, Einaudi Torino 1994

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Elisa, venticinquenne e unica sopravvissuta, diventata presto orfana, affidata a una generosa prostituta e madre adottiva, Rosaria, rievoca la storia della sua famiglia a partire dai nonni. Scrive così, dentro la sua “cameretta deserta”, una potente narrazione melodrammatica di miseria e nobiltà, di parenti poveri e di parenti ricchi, di passioni e di inganni.

Una sepolta viva e una donna perduta. Son già due mesi che la mia madre adottiva, la mia sola amica e protettrice, è morta. Quando, rimasta orfana dei miei genitori, fui da lei raccolta e adottata, entravo appena nella fanciullezza; da allora (più di quindici anni fa), avevamo sempre vissuto insieme. La nuova luttuosa ormai s’è sparsa per l’intera cerchia delle sue conoscenze; e, cessate 5 ormai da tempo le casuali visite di qualche ignaro che, durante i primi giorni, veniva ancora a cercar di lei, nessuno sale più a questo vecchio appartamento, dove sono rimasta io sola. Non più d’una settimana dopo i funerali, anche la nostra unica domestica, da poco assunta al nostro servizio, si licenziò con una scusa, mal sopportando, Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 735


immagino, il deserto e il silenzio delle nostre mura, già use alla società e al frastuo10 no. Ed io, sebbene l’eredità della mia protettrice mi consenta di vivere con qualche

agio, non desidero provvedermi di nuova servitù. Da varie settimane, dunque, vivo rinchiusa qua dentro, senza vedere alcun viso umano, fuor di quello della portinaia, incaricata di recarmi le spese; e del mio, riflesso nei molti specchi della mia dimora. Talora, mentre m’aggiro per le stanze, in ozio, il mio riflesso mi si fa incontro a 15 tradimento; io sussulto, al vedere una forma muoversi in queste funebri acque solitarie, e poi, quando mi riconosco, resto immobile a fissar me stessa, come se mirassi una medusa. Guardo la gracile, nervosa persona infagottata nel solito abito rossigno (non mi curo di portare il lutto), le nere trecce torreggianti sul suo capo in una foggia antiquata e negligente, il suo volto patito, dalla pelle alquanto scura, 20 e gli occhi grandi e accesi, che paion sempre aspettare incanti e apparizioni. E mi domando: «Chi è questa donna? Chi è questa Elisa?». Non di rado, come solevo già da bambina, torco la vista dal vetro, nella speranza di vedervi rispecchiata, appena lo riguardi, una tutt’altra me stessa; ché, scomparsa la mia seconda madre, la sola cui piacque di lodarmi, e perfino di giudicarmi bella, rinasce in me, e si rafforza 25 ogni giorno, l’antica avversione per la mia propria figura. Tuttavia, devo riconoscere che questa figura familiare, benché poco amabile, non ha un’apparenza scostumata o disonesta. Il fuoco dei suoi occhi, neri come quelli d’una mulatta, non ha nulla di mondano: esso ha talora la vivacità irrequieta che può ritrovarsi negli occhi d’un ragazzo selvatico, e talora la mistica fermezza dei 30 contemplanti1. Questa goffa creatura che ha nome Elisa può sembrare a momenti una vecchia fanciulla, a momenti una bambina cresciuta male; ma in ogni suo tratto, non si può negarlo, essa esprime la timidezza, la solitudine e l’altèra castità. Ora, un visitatore sconosciuto che entrasse in queste stanze noterebbe certo, non senza meraviglia, un curioso contrasto fra la mia persona e il mio alloggio. Mi ri35 sparmio di descrivervi questa fiera del pessimo gusto e della vergogna; questi mobili stipati, gonfie e dozzinali imitazioni degli stili più diversi; e le tappezzerie chiassose e sporche, i cuscini, i fantocci pretenziosi e le rigatterie; le fotografie ritoccate all’acquerello, e nere di polvere, accompagnate spesso da dediche triviali; e le stampe e statuine le cui figure e atteggiamenti sono spesso tali da fare arrossire ogni persona 40 onorata che vi posi lo sguardo (nel caso inverosimile che una persona di tal sorta càpiti qui). In verità, la defunta proprietaria e arredatrice di questo alloggio non sembra darsi la pena di nascondere, ma ostentare, piuttosto, la propria vita svergognata, e proclamare per tutte queste sue stanze, con vanto e frastuono, d’essere stata quel che nei nostri paesi chiamano una mala femmina. Tale fu, invero, la mia seconda 45 madre: tale essa fu dalla sua prima giovinezza fino alla morte, che la colse nella sua maturità fiorente, all’età di quarantaquattro anni. Ed io non ignoro, purtroppo, che queste stanzette ora abbandonate e luttuose videro, durante i lunghi anni ch’ella le abitò, quanto basterebbe per dannare all’inferno mille donne, non una. Detto ciò, potrà sembrare ancor più strano, e quasi incredibile, che, sotto questo me50 desimo tetto, colei che scrive abbia vissuto, dal giorno che vi fu accolta bambina fino ad oggi, un’esistenza altrettanto ritirata e casta che se fosse stata in un convento di clausura. E la mia madre adottiva, pur non risparmiandomi talvolta le sue beffe (bo1 mistica fermezza dei contemplanti: i contemplanti sono coloro che si dedicano alla contemplazione, specialmente religiosa; nel Settimo cielo – Saturno – del Paradiso dantesco, caratterizzato dalla meditazione, ci sono le anime contemplanti.

736 Il Novecento (Seconda parte) 14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento


narie quasi sempre, ma in qualche occasione crude e brutali), tuttavia rispettò le mie consuetudini e non permise a nessuno di turbarle. Veramente, sui primi tempi della 55 nostra vita comune, ella aveva cercato di guarirmi della mia selvatichezza e modestia. Quasi subito, non sopportando di vedersi intorno colori cupi e smorti, m’aveva tolto gli abiti a lutto, e, giudicandomi troppo pallida, usava talora di ravvivarmi con un poco di belletto le guance. Mutò inoltre la mia pettinatura, sciogliendo i miei folti capelli, ch’io portavo stretti in due trecce; e acquistò per me dai chincaglieri varî anellini, collane e 60 fermagli falsi, e un paio d’orecchini, falsi pur essi, che soleva appendermi agli orecchi per mezzo di due fili di seta, avendo mia madre trascurato, alla mia nascita, di farmi forare i lobi. Così, dopo avermi pettinata, agghindata, e un pochino dipinta, ella mi chiamava nel salotto, se c’eran visite, per mostrarmi alle signore sue amiche. Ed io, per ubbidienza, mi presentavo tosto, palpitante e muta2: simile, nella mia grande cre65 spa capigliatura, a una bestiola dalle membra minute, irrisorie, e dall’enorme pelliccia, avvezza a climi barbarici. I presenti, ricordo, commentavano con risa e motteggi la mia scontrosità; ma non infierivano mai troppo contro di me, pur avendone forse gran voglia, poiché sapevano bene con qual violenza, e addirittura ferocia, la mia protettrice sapeva difendere ciò che le apparteneva. Nonostante la loro moderazione, però, ai loro 70 scherzi io mi facevo di fuoco; e i miei sguardi sperduti e timidi cercavan quelli della mia protettrice, fra le cui vesti mi rifugiavo tremando tutta, come avessi la febbre. Simili scene, ripeto, potevan darsi nei primi tempi; ma poi la mia protettrice fini con l’abbandonarmi ai miei umori meditativi e solitari, e rinunciò a contrastare le mie inclinazioni, le quali erano, d’altronde, per lei, mia ospite, le meno impor75 tune del mondo. Via via, le mie comparse in mezzo alla sua società divennero sempre più rare e fugaci, e i frequentatori della casa non si occuparono più della mia persona e della mia esistenza quasi invisibile. Considerandomi, suppongo, una ragazza un po’ folle, inoffensiva, che la padrona teneva in casa per un suo capriccio, come altri alleva una malinconica civetta, o una tartaruga. 80 Così, dei personaggi senza numero che si aggirarono intorno a me per questa casa durante i trascorsi anni, delle loro feste e litigi e scenate, e delle signore in curiosi costumi, e di tanto gesticolare, e chiasso e vocio, m’è rimasto nella memoria un quadro imbrogliato, stravagante e convulso, privo di significato alcuno. Non troppo diverso, io credo, apparirà un teatro coi suoi scenari e maschere e luminarie, e attori e ballerini, 85 a una scimmietta, o ad un cagnòlo, o magari ad un timido coniglio che deva, secondo i dettami del copione, sostenere in una scena un compito di fugace comparsa. Qui, il mio lettore vorrà sapere che sorta di casi m’abbia condotta a trovar rifugio fra queste mura: e a ciò si darà risposta nel corso della presente storia. Ma lo stesso lettore, immagino, domanderà, non senza qualche ironia: come mai, dunque, una 90 fanciulla tanto schiva e virtuosa, poté, giunta all’età della ragione, rimanere ospite di una dama tanto indegna, e accettare i suoi beneficî? non basta: come può essa accettare di vivere, ancora oggi, con l’eredità di denari cosi mal guadagnati? A simili domande, io non so dare alcuna risposta che mi giustifichi. Riconosco la mia ignavia passata e presente, contro la quale nessuna scusa da me addotta po95 trebbe valermi il perdono; e altro non posso fare che tentar di spiegarla descrivendo i miei giorni e il mio carattere. Ma peraltro non ignoro che la mia spiegazione non varrà certo a farmi assolvere: piuttosto a confermare la mia condanna. 2 tosto, palpitante e muta: subito, ansiosa e senza parlare.

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 737


Ebbene: io non cerco il perdono e non spero nell’altrui simpatia. Ciò ch’io voglio, è soltanto la mia propria sincerità. 100 Senza pretendere ad altro merito, incomincerò col dirvi che la mia madre adottiva fu, dopo la mia madre vera, la persona da me più amata. Or il mio cuore potrebbe rassomigliarsi a quegli antichi Principati in cui per il popolo vigeva una diversa legge che per i Grandi: si che questi erano in certo modo inattaccabili non soltanto dal castigo, ma addirittura dalla colpa. E quelle medesime azioni che agli umili eran 105 delitto, eran lecite e giuste ad essi. Insomma, io non ebbi mai da perdonare alle persone amate i loro vizi, perché non vidi mai nessun vizio in loro. Nella loro sostanza luminosa, come nel fuoco, i medesimi peccati che odiavo in altri perdevano la propria forma, consumandosi in fervore e purezza; e la vita dell’amato era, ai miei occhi un altèro splendore. Cosi 110 i delitti della mia protettrice perdevano il lor significato delittuoso; e alle infamie di lei non davo il nome d’infamie. Se udivo qualcuno, in un alterco, gridarle il nome ch’ ella purtroppo meritava, io me ne sdegnavo come d’un’empietà; e in simile mia stoltezza non farà meraviglia ch’io non abbia mai tentato, e neppur vagheggiato, una redenzione, utopistica peraltro, della mia benefattrice. Aggiungo che ancora oggi, 115 mentre la mia ragione mi suggerisce l’esatto giudizio sulla defunta, io seguito, mio malgrado, a vederla nella forma innocente e radiosa che le prestai finché fu viva. E nel momento stesso che affermo: «di certo è dannata», provo una specie d’arguta esultanza; come se la mia affermazione fosse uno scherzo, e, in segreto, io non dubitassi che la mia ridanciana, sontuosa defunta siede in Paradiso; né può dimorare 120 altrove. Questa è, in realtà, l’estrema prova della mia stoltezza, e s’aggiunge alle mie colpe. Sospettare mio complice il Cielo! e pretendere ch’esso adegui la propria giustizia ai miei privilegi e glorifichi gli amori della sciocca Elisa! La mia protettrice, da parte sua, m’amava anch’ella d’un tenero affetto: il quale, come più tardi vedremo, era nato in lei durante una tragica estate della mia fan125 ciullezza; e durò fino alla sua morte. Difatti, pur essendo per inclinazione e gusto suoi propri (non per nequizia3 della società o del destino), un’avventuriera dissoluta, ella si serbava tuttavia costante e devota nei suoi veri sentimenti. Era questa la più amabile contraddizione del suo carattere; ma s’intende che, malgrado il suo affetto, ella, per i suoi passatempi molteplici e intricati, poteva concedermi soltanto una 130 piccolissima parte delle sue giornate e delle sue attenzioni. Ciò mi fu causa, durante la fanciullezza, d’amaro dispetto e tormento. Onde non posso dire, in tutta sincerità, di non aver detestato nella giusta misura le dissipazioni della mia diletta; soltanto, quel che odiavo in esse non era la rovina della sua anima, ma la mia gelosia. 135 Tale gelosia rafforzò la mia inclinazione alla solitudine; e in questa io trovai così valida medicina e ristoro che da ultimo ero giunta, pur amando la mia protettrice, a rifuggire spesso da lei. Preferendo la sua presenza immaginaria (trasfigurata e domata dalla mia immaginazione secondo i miei desideri), alla sua presenza carnale. Ed eccomi appunto a spiegarvi la più segreta ragione della mia ignavia: che è poi, 140 si potrebbe affermare, anche la ragione di questo libro, e dei molti personaggi che si muovono in esso.

3 nequizia: malvagità.

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Analisi del testo L’antefatto Elisa, unica sopravvissuta, presto orfana e affidata a una generosa prostituta, Rosaria, scrive la sua relazione di famiglia che comprende almeno tre generazioni. Una saga famigliare che ricorda il grande romanzo ottocentesco dell’anti-canone risorgimentale, I viceré di Federico De Roberto, anch’esso ambientato in Sicilia. In particolare Elisa, «donna sciocca e barbara», si autodefinisce «suddita e ancella» dei suoi personaggi, «sultani infingardi» e al tempo stesso «magnifici ospiti» che l’accolgono nei loro palazzi reali mettendola a parte delle loro storie. Rievoca così le figure della madre Anna e della nonna Cesira, risalendo alla Palermo di fine Ottocento, dei loro amori sventati, dei loro sogni infranti, delle loro illusioni perdute, in un universo affollato da personaggi minori, pittoreschi e memorabili.

Palcoscenico della memoria Si trova nella sua abitazione, quasi rinchiusa, aggirandosi per le stanze. In quelle stanze è come se lei incontrasse i fantasmi del proprio passato, anche figure infime di piccoli borghesi, squallidi e anonimi, ma da lei trasfigurati per un attimo in re e regine. D’altra parte su questo sontuoso palcoscenico della memoria nessuno è quello che sembra: tutti vivono nella menzogna, per apparire migliori e per soffrire meno. Suggestioni e modelli del romanzo sono innumerevoli. Oltre all’Orlando furioso e al Chisciotte, archetipi del genere romanzesco, segnaliamo almeno la lezione di Dante, che diceva di scrivere sotto dettatura da parte di “amore”. Elisa è infatti la fedele, puntigliosa scrivana di quello che le detta la sua memoria affettiva. Altri riferimenti letterari sono Leopardi (A Silvia) e il Verga della novella Rosso Malpelo. Bisognerebbe anche citare una lirica di Edgar Allan Poe, Un sogno, per quanto riguarda l’atmosfera onirica in cui avviene l’evocazione di affetti e sventure: «in visioni di notturna tenebra / spesso ho sognato svanite gioie». Tutto questo incrocia il romanzo popolare, il feuilleton ottocentesco, con i suoi temi tipici e di immediato impatto emotivo.

Lo stile La lingua, ordinata e sontuosa, si distende volentieri in triadi aggettivali – «un quadro imbrogliato, stravagante e convulso» –, in associazioni quasi ossimoriche – «con fervore e purezza» –, con una inclinazione per il polisindeto: «un teatro con i suoi scenari e maschere e luminarie e attori e ballerini…». Dunque abbondanza – di aggettivi, di congiunzioni, di figure retoriche – a marcare una esuberanza linguistica incline al barocco, una esasperazione di temi e caratteri, però sempre ricomposta entro uno stile ipotattico, elaborato e quasi manzoniano, con molte frasi subordinate, pienamente controllato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il brano in max 5-10 righe. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo dopo la morte della madre adottiva la domestica si licenzia? 3. Quale tentativo aveva compiuto la madre adottiva nei confronti di Elisa? ANALISI 4. A quale animale si paragona la protagonista e perché? 5. In che modo Elisa analizza se stessa e la sua figura? LESSICO 6. Per quale motivo si utilizza più volte nel brano l’aggettivo “vecchio”?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 7. La protagonista racconta del suo modo di essere verso le persone che ama: non vede mai in loro nessun vizio e se questi vizi vengono messi in luce da qualcuno la sua reazione è quella di sdegnarsi. Capita anche a te di non essere oggettivo nel giudicare le persone che ami e di giustificare le loro azioni anche se non virtuose?

online T2 Elsa Morante Il paese natio di Francesco Menzogna e sortilegio, cap. 1

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 739


2 L’isola di Arturo: un romanzo di formazione e disincanto Un’esperienza di crescita Nell’Isola di Arturo (1957) il romanzo di formazione subentra al romanzo famigliare: la società italiana è sempre percepibile, ma fa da sfondo alla storia di un’esperienza solitaria di crescita che avviene nello spazio separato, incantato dell’isola e nel tempo circoscritto di due anni. Arturo ricorda di quando, sedicenne, lasciò l’isola di Procida ora avvolta nella nebbia, dove si svolse la sua educazione sentimentale e l’”iniziazione alla vita”. Anche qui, come in Menzogna e sortilegio, si trascorre dalla preistoria dell’infanzia, da un mondo che sfuma nella fiaba e nel mito, al sorgere della coscienza e alla maturità.

Lessico picaresco Genere narrativo spagnolo del Cinquecento, fondato su un giovane protagonista chiamato “picaro”, ossia “briccone”, “furfante”; il termine è usato come sinonimo di “avventuroso” e di “stile tragicomico”.

Il porticciolo dell’isola di Procida.

La trama Arturo Gerace, orfano di madre morta appena dopo il parto, è lei ad aver scelto il suo nome, che è quello di una stella della costellazione di Boote ma anche del famoso re dell’omonimo ciclo cavalleresco, cresce nell’isola, trascorrendo il tempo nella “Casa dei guaglioni”, leggendo romanzi d’avventura e fantasticando sul padre Wilhelm, italo-tedesco, la cui esistenza, amici compresi, si svolge solo in piccola parte sull’isola ed è avvolta da un alone mitico. Arturo percorre in lungo e in largo l’isola con il suo cane, Immacolatella, come dentro una narrazione picaresca , alla ricerca di avventure e incontri favolosi. Poi arriva Nunziata, la nuova sposa sedicenne del padre. Arturo prima la rifiuta in quanto figura che sostituisce la madre, e la considera un essere inferiore, poi ne è attratto, sia pure inconsapevolmente. Infine sopraggiunge il piccolo Carmine, di cui Arturo si mostrerà morbosamente geloso. Per attirare l’attenzione di Nunziata mette in scena un suicidio ingurgitando delle pasticche di sonnifero che si rivelano più forti del previsto. Nella degenza a letto finalmente la matrigna gli dedica le sue attenzioni. Tanto che, rimessosi in piedi, cerca di baciarla ma ne viene respinto. L’iniziazione all’eros avverrà con un’amica di Nunziata, la giovane vedova Assunta, in seguito ripudiata perché circondata da troppi amanti. Quando il padre torna nell’isola, Arturo ha una rivelazionechoc: scopre che il padre, idealizzato come una specie di cavaliere errante, è una persona squallida, ora interamente succube dei capricci amorosi del suo amante, il carcerato Tonino, per il quale perde la testa. Allora Arturo confessa il suo amore a Nunziata tentando di baciarla, ma viene nuovamente respinto e nel litigio le ferisce il lobo dell’orecchio. Nunziata resta fedele al suo ruolo di sposa e madre, pur offrendogli tutta la sua dedizione femminile. Nelle ultime pagine Arturo fugge dall’isola, si arruola per combattere nella Seconda guerra mondiale, ma il garzone Silvestro gli recapita l’orecchino d’oro che aveva strappato a Nunziata nella baruffa della mattina. Per un momento vorrebbe tornare ma lascia Procida, che sfuma all’orizzonte. Anche qui, come nel romanzo d’esordio, avviene una demitizzazione: per uscire definitivamente dall’infanzia, e compiere la propria “formazione”, Arturo deve superare l’ultima prova, e cioè l’amara scoperta del mistero del padre.

740 Il Novecento (Seconda parte) 14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento


L’isola di Arturo PUBBLICAZIONE

1957

GENERE

romanzo di formazione

CONTENUTO

il protagonista, Arturo, racconta del suo passaggio dall’infanzia alla maturità nell’isola di Procida nell’arco di due anni. Il mondo narrato sfuma tra fiaba e mito al sorgere della maturità del protagonista

STILE

linguaggio composito ed accostamento di termini quotidiani a forme più ricercate

Elsa Morante

T3

Una difficile separazione L’isola di Arturo, cap. IV

E. Morante, L’isola di Arturo, in Opere, Mondadori, Milano 1988

Il giovane Arturo, appassionatosi ai poemi epici e cavallereschi, attraverso i quali si compie la sua educazione sentimentale, e immaginando viaggi favolosi, decide un giorno di partire e lasciare l’isola. Attraverso l’atlante progetta le sue esplorazioni del mondo, emulando i propri eroi e uscendo dall’adolescenza conquista finalmente la grandezza d’animo vagheggiata.

Con l’allungarsi delle sere, io avevo ripreso l’abitudine di leggere e studiare in cucina, per passare il tempo, aspettando l’ora di cenare; il mio libro preferito di quell’epoca era un grosso atlante, commentato da un ricco testo scritto. Il volume conteneva, ripiegate, delle immense carte geografiche a colori, che io mi spiegavo ogni sera di5 nanzi, stando inginocchiato sul pavimento o su una sedia presso la tavola. Ed erano quelle carte a suscitare l’attenzione della matrigna. Ella da più sere le considerava perplessa, come degli enigmi; finché s’azzardò a domandarmi, con voce schiva: – Che studi, là sopra, Artù1? Io, senza distogliere la fronte dalla mappa distesa, su cui andavo tracciando dei segni 10 con un pezzo di carbone, le risposi che studiavo i miei itinerari; giacché, affermai convinto, l’epoca di esplorare il mondo ormai s’avvicinava, per me: intendevo partire, al più tardi, l’anno prossimo: o in compagnia di mio padre, o, altrimenti, anche solo! La matrigna riguardò la mappa senza altro aggiungere, per quella sera là. Ma da allora in poi, non ci fu sera ch’essa non tornasse sull’argomento. Ogni volta che 15 mi rimettevo a studiare i miei itinerari, dopo un poco la sentivo appressarsi2, col suo passo affaticato, pesante, quasi di animale; per un poco si teneva silenziosa, sguardando3 la carta geografica spiegata innanzi a me; infine fra molte esitazioni si decideva, e mostrando con la mano i punti segnati a carbone s’informava in tono vagamente ansioso: «Questo, è distante assai da Procida? Quant’è distante?». Di 20 malagrazia, le buttavo là un numero approssimativo. 1 Artù: diminutivo di Arturo, ma ricorda anche il nome del re protagonista del ciclo cavalleresco bretone. 2 appressarsi: avvicinarsi. 3 sguardando: guardando.

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 741


«E l’isola di Procida, – essa riprendeva allora, mentre le sue pupille incerte vagavano per tutto il foglio, – dov’è scritta?» – «Come! – ripeteva poi, quasi un’eco, alla mia risposta, – non si può vedere di qua! sta sull’altro emisfero!» E cercava di sapere da me altre informazioni più precise sulle astruse4 configurazioni 25 di quella carta; con una voce che, per vincere la timidezza, s’era fatta aspra. Io davo appena qualche risposta impaziente e sommaria, usando sempre quel tono cupo, forastico5, che ormai pareva il solo che mi venisse naturale allorché mi volgevo a lei; nel nominare, però, i luoghi della terra più desiderati e affascinanti, continenti, città, montagne, mari, il mio accento echeggiava di tracotanza6 e di trionfo, come 30 fossero tutti miei feudi7! Talvolta, per un istinto di affermazione irresistibile, davo pure notizia di certe intraprese che dovevano immortalare, a ogni tappa, il passaggio di Arturo Gerace8... ma prontamente mi richiudevo nel mio riserbo disdegnoso9. La matrigna non faceva molti commenti alle mie parole; spesso, anzi, all’udirle, ammutoliva, mentre la sua faccia appariva d’un tratto invecchiata, stranamente 35 inselvatichita. Già in altre occasioni m’ero accorto ch’essa nutriva diffidenza e antipatia per l’Estero10; ma nel presente caso, quei suoi antichi sentimenti sembravano essersi sviluppati fino a un’avversione paurosa, la quale, con l’arricchirsi delle sue cognizioni geografiche, si faceva più grave, invece di diminuire. Tutti i paesi che non fossero Napoli e dintorni11 per lei restavano irreali e disumani, come lune; e a 40 citarle una distanza anche mediocre, di due, tremila chilometri, fino il bianco dei suoi occhi si faceva cinereo12, come davanti a una vertigine o a uno spettro: «E così, – essa tornava a dire, – davvero tu te ne andrai così distante, solo!» Solo, nel suo linguaggio, significava senza mio padre, senza nessun parente. Guardava il circolo dell’Artide13, e osservava: «E tu vuoi andartene solo per quei terreni ghiacciati!» 45 Guardava i rilievi scuri delle altitudini, e commentava: «E da qui a un anno, tu già vorresti andare isolato in mezzo a quelle montagne!» A udire il suo accento14, pareva che i viaggi non fossero, come sono, una festa, un piacere meraviglioso; ma una cosa amara, innaturale. Così (per fare degli esempi), un cigno intristisce lontano dai suoi laghi; e una tigre asiatica non sente nessuna 50 ambizione di visitare l’Europa; e una gatta piangerebbe all’idea di lasciare la sua loggia15 per recarsi in crociera. [...] E intanto, io, di giorno in giorno, meditavo di andarmene subito, senza aspettare l’anno prossimo. Così avrei fatto vedere senza indugio se ero un guaglione16 o se sapevo partire solo, e di che cosa ero capace! Sul punto, però, di lasciare l’isola, come 55 sempre m’avveniva fino dalla fanciullezza, un incanto disperato mi tratteneva là. Le diversità meravigliose dei continenti e degli oceani, che ogni sera, sull’atlante, la mia fantasia adorava, d’un tratto sembravano aspettarmi, di là dal mare di Procida, come un immenso paesaggio d’indifferenza agghiacciante. Lo stesso che, allo scendere della sera, mi scacciava17 dai luoghi estranei: dal porto, dalle strade, richiamandomi alla

4 astruse: astratte e incomprensibili per lei. 5 forastico: ruvido, scontroso. 6 tracotanza: arroganza. 7 feudi: domini; il termine è legato al mondo medievale che il nome Arturo evoca. 8 Arturo Gerace: è il nome completo del protagonista, attraverso cui esprime il sentimento del proprio valore.

9 riserbo disdegnoso: atteggiamento di sprezzante superiorità nei confronti della matrigna. 10 Estero: è il modo con cui la matrigna indica il mondo fuori dall’isola. 11 Napoli e dintorni: i luoghi di origine della matrigna. 12 cinereo: grigio; qui smorto, cereo.

13 Artide: il Polo Nord. 14 accento: il tono con cui pronunciava i suoi commenti.

15 loggia: veranda, portico, terrazza. 16 guaglione: termine napoletano per indicare un ragazzo, quindi non più un bambino. 17 scacciava: allontanava.

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Casa dei guaglioni18. E m’era insopportabile il pensiero di andar via senza prima rivedere mio padre, almeno ancora una volta. Pure, in certi momenti, mi pareva quasi di odiare Wilhelm Gerace; ma appena prendevo la risoluzione di fuggire da Procida, subito il ricordo di lui invadeva tutta l’isola come una moltitudine insidiosa, affascinante. Lo riconoscevo nel sapore dell’acqua di mare, della frutta; passava lo strido 65 di un gufo, di un gabbiano, e mi pareva lui che chiamasse: – Ehi, moro19! – II vento autunnale mi buttava addosso degli spruzzi, o delle folate di sabbia; e mi pareva lui che mi provocasse scherzando. A volte, scendendo alla marina, mi sembrava di avere un’ombra alle spalle, che mi seguisse; e fantasticavo, quasi lusingato20: è una spia privata, che segue i miei passi per conto di lui. Poi, in mezzo a queste illusioni strane, 70 mi accadeva più che mai di odiarlo, perché, come un invasore, s’impadroniva a questo modo della mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona. I nuovi misteri che intravedevo, gli annunci inquietanti, indecifrabili, e i miraggi21, gli addii dell’infanzia e della mia piccola madre morta e ripudiata, tornavano a ricomporsi nell’antica chimera22 mul75 tiforme che m’incantava. Questa chimera adesso mi rideva con altri occhi, tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che mi imprigionava nell’isola come una ragnatela iridescente23. 60

18 Casa dei guaglioni: è la dimora ereditata dal padre di Arturo e così soprannominata dai procidani perché il precedente proprietario, Romeo l’Amalfitano, per la sua misoginia, ne vietava l’ingresso alle donne.

19 moro: è il soprannome datogli dal padre per il colore scuro dei capelli. 20 lusingato: compiaciuto e orgoglioso. 21 miraggi: illusioni.

22 chimera: animale mitologico fantastico; qui indica le fantasie del protagonista sul suo futuro. 23 iridescente: coi colori dell’iride, dai riflessi cangianti.

Analisi del testo Le «Certezze Assolute» L’educazione “sentimentale” di Arturo, avvenuta in solitudine, si è fondata sulla lettura da autodidatta dei poemi epici e cavallereschi: ne ha ricavato quelle che chiama le «Certezze Assolute», cioè le leggi che devono regolare la sua vita. Principio-guida è la grandezza d’animo – centrata sul coraggio e il disprezzo del pericolo – che, secondo lui, potrà conquistare esplorando il mondo; la partenza dall’isola ne è la condizione: un gesto che segnerà l’ingresso nel mondo degli adulti. Arturo immagina i viaggi favolosi da compiere (trascorre le sere a tracciare le linee sulle carte geografiche, davanti agli occhi insieme ammirati e preoccupati di Nunziata). Il distacco dall’isola si rivela però problematico, perché ad essa sono connessi i sentimenti più profondi: il ricordo della madre morta e il legame intenso – anche se conflittuale – con il padre.

L’aspirazione alla maturità Nel brano antologizzato il protagonista rievoca il momento fondamentale della sua adolescenza, identificato nella decisione di partire, di lasciare l’isola per avventurarsi alla scoperta del mondo («l’epoca di esplorare il mondo ormai s’avvicinava»), sentendo arrivato per lui il tempo del distacco dai confini sicuri dell’infanzia. Nel ricordo Arturo rievoca i sentimenti ambivalenti propri di quell’età: le emozioni gioiose suscitate in lui dall’idea della partenza, che gli fanno definire «i viaggi [...] una festa, un piacere meraviglioso», ma anche i dubbi e il riemergere potente dei legami con il passato infantile. Nel suo progetto è implicita la volontà di emulare gli eroi delle letture epiche che hanno segnato la sua formazione, crescendolo nell’idea di fare “cose grandi”, «per un istinto di affermazione irresistibile», come lui stesso lo definisce: le terre visitate diventano nella sua fantasia i suoi feudi (cioè domini conquistati con le imprese militari), immagina certe intraprese...; è in lui forte anche il desiderio di fare come il padre, intorno a cui ha costruito nell’infanzia un alone eroico, immaginando che le sue partenze fossero per viaggi lontani e favolosi e non per squallide avventure come poi scoprirà dolorosamente.

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 743


L’atlante, un oggetto simbolico I segni che Arturo traccia sulle carte geografiche per progettare i suoi futuri viaggi rappresentano un modo per dare concretezza all’incertezza del futuro e della vita come può apparire all’immaginazione di un adolescente, che s’interroga su come si può vivere l’età adulta. L’atlante diventa così un oggetto simbolo: incarna le possibili direzioni e i percorsi che la vita può prendere. Le carte geografiche e le linee tracciate da Arturo suscitano invece la diffidenza di Nunziata (per lei sono degli enigmi): la sua idea della vita è ben definita, costituita da spazi certi e conosciuti («Tutti i paesi che non fossero Napoli e dintorni per lei restavano irreali e disumani, come lune») e dagli affetti familiari senza cui le sembra impossibile vivere.

Il doloroso distacco dall’infanzia La seconda parte del testo mette in evidenza l’ambivalenza propria dell’adolescenza: al desiderio del distacco si contrappongono i legami con il passato e il mondo dell’infanzia, che nel momento cruciale si rivelano ancora potenti. Arturo analizza lo stato d’animo che la decisione di partire suscita in lui: i luoghi stessi da lui immaginati per i suoi viaggi si trasformano, per effetto della contraddittorietà dei suoi sentimenti, da meravigliosi e pieni di attrattive in «un paesaggio d’indifferenza agghiacciante», che incute in lui un profondo senso di solitudine mentre l’isola lo trattiene con il suo incanto disperato. La chiave di lettura di questa metamorfosi è fornita dal paragone con le due dimensioni vissute dal protagonista nell’isola (da una parte i luoghi “estranei” e dall’altra la “Casa dei guaglioni”, in cui sente il bisogno di rifugiarsi alla sera) che illumina il ruolo dei legami familiari nell’esitazione di Arturo a realizzare il suo progetto. L’attrazione che l’isola esercita su di lui non è dovuta solo alla sua bellezza: essa continuamente gli evoca la figura del padre di cui avverte il bisogno e la mancanza proprio nel momento in cui pensa di potersi staccare, di essere grande e capace di affrontare l’ignoto e le prove della vita, rappresentate simbolicamente dai viaggi fantasticati. La figura paterna, che nell’infanzia aveva per il protagonista tratti favolosi ed eroici, ha infatti pervaso di sé l’isola al punto che gli sembra presente in ogni angolo e il distacco da questa è avvertito come una lacerazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che cosa il protagonista identifica il comportamento “da grande”? 2. Che cosa rappresentano le linee che Arturo traccia sull’atlante? ANALISI 3. Rintraccia nel passo le espressioni che indicano l’attrazione di Arturo per il viaggio; perché il protagonista Arturo assegna un ruolo privilegiato all’azione, che è per lui superiore alla poesia? 4. Nell’episodio l’atlante non rappresenta solo uno strumento di conoscenza: spiega il significato simbolico che assume per il protagonista. STILE 5. Anche il linguaggio del romanzo è composito e accosta termini quotidiani a forme più ricercate: ci sono esempi dei due diversi registri nei passi antologizzati? Fai osservazioni anche sull’uso delle figure retoriche (similitudini e metafore).

Interpretare

SCRITTURA 6. Nell’Isola di Arturo coesistono la rappresentazione realistica e la dimensione mitica e fiabesca. Quale delle due ti sembra prevalente nei testi antologizzati? Spiega in max 10 righe la scelta dell’autrice.

744 Il Novecento (Seconda parte) 14 Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento


3 La Storia: un eterno “scandalo” ai danni dei più deboli Contro la Storia dei potenti La frase «Uno scandalo che dura da diecimila anni» è messa come sottotitolo al romanzo La Storia, che Elsa Morante pubblica nel 1974, ben sedici anni dopo quello precedente. Si tratta di un’opera ambiziosa, assai meditata, dall’impianto narrativo robusto e pensata come protesta “manzoniana” e “verghiana” contro la Storia dei grandi e dei potenti, tutta scritta dalla parte degli umili e delle vittime, dei “vinti” e degli ultimi. Esce a metà di un decennio – gli anni Settanta – povero di narrativa, per molte ragioni. Era il periodo dell’impegno politico al primo posto, del prevalere della saggistica sulla fiction, e anche di tutta la teorizzazione neoavanguardistica contro il genere del romanzo in nome di un’opera programmaticamente “aperta”, senza trama e senza personaggi (in Italia il Gruppo 63 e in Francia la cosiddetta École du regard). Il romanzo era percepito come un genere chiuso, “borghese”, convenzionale, reso anacronistico dall’affermarsi di una sensibilità nuova, attenta ai nuovi linguaggi e agli sviluppi della tecnica. Si tratta del romanzo più “popolare” dell’autrice, sia nello stile sia nella struttura narrativa, tanto da dividere la critica suscitando un dibattito insolitamente incandescente per un’opera letteraria, e che non si ricordava almeno dagli anni Cinquanta del neorealismo e dai tempi di Metello di Pratolini: venne accusato di essere un libro consolatorio, pieno di patetismo, narrativamente troppo convenzionale, trascurando il fatto che si trattava della elegia di un mondo popolare considerato autentico. Al di là delle diverse posizioni in campo, e della polemica a volte esagerata che infiammò le pagine culturali dei quotidiani, limitiamoci a constatare che il principale equivoco di quel dibattito riguarda il presunto “conservatorismo” formale della Storia: all’interno di un paradigma narrativo che potrebbe rievocare il romanzo d’appendice ottocentesco ritroviamo invece gli aspetti più innovativi del romanzo-saggio del Novecento, e la perdurante indagine sulla duplicità insondabile dell’esistenza, un tema questo tipico della modernità, che, per limitarci all’Italia, attraversa l’intera opera di Svevo e Pirandello. La vicenda La trama del romanzo è particolarmente densa e carica di eventi, e vale la pena di ripercorrerla. In un giorno di gennaio dell’anno 1941 il militare tedesco Gunther si aggira per le strade romane alla ricerca di un bordello, senza trovarlo. Si imbatte nella trentasettenne Ida Ramundo (ebrea per parte di madre), maestra come i genitori, vedova Mancuso e madre di Nino, un ragazzo ribelle e sfrontato. Il soldato violenta la donna, lasciandola incinta. Dalla gravidanza nascerà un bambino gracile, ma dai grandi occhi turchini: Giuseppe, ribattezzato “Useppe” da suo fratello Nino. Ida, già bambina diligente e vitalissima, appare minata segretamente dai sintomi dell’epilessia. Con i figli è andata a vivere in una casa di San Lorenzo, in via dei Volsci. Nino quando vede per la prima volta il piccolo Useppe se ne innamora, e inizia con lui uno stupendo rapporto di amore fraterno. Nel luglio del 1943 Nino si arruola volontario nelle Camicie Nere, poi un massiccio bombardamento degli Alleati distrugge la casa di San Lorenzo uccidendo il cane di Nino, Blitz, e lasciando Ida e Useppe senza dimora. I due trovano provvisorio riparo in uno stanzone a Pietralata dove abita una famiglia mezzo napoletana e mezzo romana, soprannominata la famiglia de I Mille. Nello stanzone di Pietralata sopraggiunge Carlo Vivaldi, studente bolognese e probabile disertore, un ragazzo timido e scorbutico, afflitto da incubi notturni. Ida e Useppe si trovano casualmente ad assistere alla stazione Tiburtina alla partenza di un convoglio ferroviario che conduce gli ebrei rastrellati Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 745


nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 al Lager di Auschwitz. Un giorno ricompare Nino, non più fascista ma partigiano comunista, col soprannome Assodicuori, e con lui un suo compagno di guerriglia, detto Quattropunte. L’arrivo dei due mette Giuseppe Secondo, marmoraro comunista, in uno stato di eccitazione ideologica, al punto che, sebbene vecchio e malconcio, decide di unirsi alla banda partigiana (chiamata Libera) di cui fa parte Nino, con il nome partigiano di Mosca. A Libera si unisce Carlo, che scopre la sua vera identità – Davide Segre – di ebreo anarchico e dissidente politico, torturato dalle SS. I Mille riescono a tornare a Napoli lasciando Ida e Useppe soli nello stanzone di Pietralata. La loro solitudine dura poco: in breve nuovi sfollati, avuta notizia di quel luogo, vengono ad abitarvi. Nel 1944 la banda viene decimata. Grazie a una sua anziana collega, Ida trova un nuovo alloggio: una stanza in affitto a Testaccio, in via Mastro Giorgio, presso la famiglia ciociara Marrocco. Qui la raggiunge Davide alla ricerca di Nino, disperso a Roma. Finisce la guerra, Useppe è tormentato da strane crisi (si tratta dell’epilessia, ereditata dalla madre), Nino diventa contrabbandiere e porta nell’appartamento la cagna Bella, una pastora maremmana, compagna di escursioni di Useppe in riva al Tevere (come Immacolatella con il protagonista dell’Isola di Arturo). Nino muore in un incidente stradale dopo un inseguimento della polizia; la compagnia si restringe a Useppe, Bella, un ragazzo fuggito dal riformatorio e il ritrovato Davide Segre, ora in preda alle droghe. Sempre sotto gli effetti di droga e alcol Davide tiene un lungo discorso in un’osteria, ignorato dalle persone a cui si rivolge. Moriranno sia lui, per una overdose, sia il piccolo Useppe, dopo una malattia e ripetuti attacchi epilettici. Alla vista del figlioletto morto, Ida impazzisce e si chiude in casa per paura che qualcuno glielo porti via. Verrà rinchiusa in manicomio e il cane Bella abbattuto. Originale sperimentalismo e bisogno di narratività In una recensione inaspettatamente severa Pasolini, amico fraterno della scrittrice, accusò il libro di manierismo, prolissità, squilibri interni, mostrando di non capire – o di non voler capire – l’originale sperimentalismo della scrittrice, la fusione di generi e stili diversi al di là della patina di grande narrazione popolare di tipo ottocentesco. online Ma prima di qualsiasi giudizio critico sull’opera andrebbe riT4 Elsa Morante L’incipit del romanzo cordata un’indiscutibile verità sociologica su questo romanzo La Storia, cap. I e su quegli anni: La Storia ebbe il merito di risvegliare – con T5 Elsa Morante la sua potente carica affabulatoria – il bisogno di narratività La violenza della storia di un’intera generazione, quella del Sessantotto, che si era La Storia, cap. 3 nutrita quasi solo di saggi e di impegno politico-civile, e che, T6 Elsa Morante Useppe e Bella per parafrasare l’autrice, «aveva provato a cambiare il mondo La Storia senza riuscirci».

La Storia PUBBLICAZIONE

1974

GENERE

romanzo

CONTENUTO

il racconto denso e carico di eventi, ambientato a Roma durante il secondo conflitto mondiale, si concentra sulla vita della protagonista Ida Ramundo, maestra, e sui suoi figli, Nino e Useppe

STILE

prosa distesa, lingua media mai banale

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Elsa Morante

T7

Un lungo discorso in osteria

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

La Storia, cap. 10 E. Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1974

È stato giustamente osservato, dal critico Giovanni Raboni, che La Storia è un romanzo privo di ideologia, nel senso che la realtà viene mostrata senza pregiudizi e senza proiezioni, nel suo stesso inarrestabile ritmo vitale, come potrebbe fare Ariosto nell’Orlando furioso… Qui però Davide Segre, giovane intellettuale ebreo, già arrestato e torturato dai tedeschi, si ritrova in una osteria impegnato a enunciare a tutti i commensali la propria ideologia, che è quella anarchica non-violenta (la stessa dell’autrice).

Il notiziario sportivo della radio si concludeva; alcuni degli ascoltatori si attardavano a discutere, mentre altri se ne andavano alla spicciolata. «E falla tu, la rivoluzione, se sei bravo!» intervenne un giovane scamiciato, che alle parole di Davide s’era appressato alla tavola. A costui Davide si rivoltò con una grinta rissosa: «Mì non son 5 di quelli che ci hanno creduto!» gli spiegò animosamente, «mì a quelle rivolussioni non ci credo!... una rivolussione vera non c’è stata mai! mì non ho più speransa nella vera rivoluzione!...». Ma il giovane scamiciato, con un’alzata di spalle, già ritornava verso il gruppo degli appassionati sportivi. «E quale sarebbe, questa rivoluzione buona?» s’informò dal 10 suo banco l’oste, allungando a Davide un’occhiata pigra. Però senza aspettare la risposta, ripreso dalla discussione già iniziata con gli sportivi, rivoltandosi a costoro esclamò, con una certa foga: «Secondo me, là il pasticcio l’aveva combinato l’arbitro». L’apparecchio adesso trasmetteva musiche varie, e l’oste ne abbassò il volume per 15 seguire meglio le argomentazioni sulle partite. Dai vari punteggi del giorno, i discorsi erano risaliti alle vittorie più recenti della Nazionale contro squadre estere. C’era chi esaltava sopra a tutti un campione, e chi un altro. Il giovanotto scamiciato di poco prima, vociando, sosteneva la supremazia di Mazzola. E a questo punto, irresistibilmente, l’ometto dagli occhi malati si levò dalla sedia per contestarlo: «Intanto 20 la vittoria di Torino», gli strillò fiero della propria competenza, «è stata merito di Gabetto, altro che Mazzola! Due goal gli ha fatto, Gabetto! DUE!» ribadì, agitando trionfalmente due dita sotto il naso del giovanotto. Siccome la radio andava trasmettendo una canzone nuova di successo (che non so ricordare) uno dei giovani, di propria iniziativa, rialzò più forte il volume dell’ap25 parecchio; e per accompagnare il ritmo della canzone prese a fare certi studiati movimenti coi fianchi e coi piedi. Un altro, vantandosi più aggiornato nel ballo, s’interpose a insegnargli le fìgure giuste; e questo nuovo argomento distrasse dallo sport una parte del gruppetto circostante. Un animato, giovanile trapestio1 si aggiunse così alle musiche e alle voci diverse. Ma, al solito, la generale confusione non 30 toccava Davide, o almeno lo sfiorava solo in superficie. Il centro delle sue energie si teneva fisso a quel presunto impegno che oggi, inopinatamente, con urgenza tragica, gli s’era imposto: e sotto un tale assillo imprecisato, tutto il resto, intorno a lui, si disperdeva in frantumi. Persuaso che la domanda dell’oste esigesse una risposta doverosa, con accigliata pazienza si riportò indietro alla propria lezione 35 schematica di prima. E riconcentrandosi sul punto dove l’aveva interrotta, torna1 trapestio: confuso calpestio o rumore simile.

Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 747


to a quel precedente suo tono di buona volontà, quasi catechistico, s’industriò a testificare: che quel famoso sistema istituito eterno universale della sopraffazione ecc. per definissione si tiene sempre incollato al patrimonio, di proprietà privata o statale che sia... E per definizione è razzista... E per definizione deve produrse e 40 consumarse e riprodurse attraverso le oppressioni e le aggressioni e le invasioni e le guerre varie... non può sortire da questo giro... E le sue pretese «rivoluzioni» si possono intendere solo nel senso astronomico della parola che significa: moto dei corpi intorno a un centro di gravità. Il quale centro di gravità, sempre lo stesso, qua è: il Potere. Sempre uno: il POTERE... 45 Ma a questo punto il parlatore dovette rendersi conto che le sue brave parole non venivano raccolte da nessuno se non per isbaglio, come fossero dei pezzi di carta straccia mulinanti al vento... E difatti per un istante ammutolì, con la faccia turbata e perplessa di un bambino al centro di un sogno vociferante... Ma subito si aggrottò, stringendo le mascelle; e all’improvviso, levandosi in piedi, gridò in aria di sfida: 50 «Io sono ebreo!» Frastornati dalla sua uscita, i tavolanti d’intorno staccarono per poco gli occhi dalle carte, mentre Clemente lo sogguardava storcendo le labbra. «E che male c’è a essere ebrei?» disse con dolcezza l’ometto dagli occhi sanguinosi, che frattanto s’era riseduto al proprio posto. «Gli ebrei», dichiarò con gravità quasi ufficiale l’uomo in divisa di 55 fattorino, «sono cristiani uguali agli altri. Gli ebrei sono cittadini italiani come gli altri». «Non era questo, che volevo dire», protestò Davide arrossendo. Si sentiva, difatti, in colpa, quasi sotto l’accusa di aver messo avanti delle questioni sue proprie personali; però in fondo era contento, semplicemente, che almeno qualcuno gli avesse risposto. «Per chi mi avete preso?!» protestò ancora, con un certo impaccio, ricercando il filo 60 che gli sfuggiva, «tazze, classi, cittadinanze, sono balle: spettacoli d’illusionismo montati dal Potere. È il Potere che ha bisogno della Colonna Infame2: “quello è ebreo, è negro, è operaio, è schiavo... è diverso... quello è il Nemico!” tuti trucchi, per coprire il vero nemico, che è lui, il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio... Si nasce ebrei per caso, e negri, e bianchi per caso...» (qua gli 65 parve d’un tratto di ritrovare il filo) «ma non si nasce creature umane per caso!», annunciò, con un sorrisetto ispirato, quasi di gratitudine. Quest’ultima frase, difatti, era l’esordio di una poesia, composta da lui stesso parecchi anni prima, sotto il titolo La coscienza totale, e che adesso gli veniva a proposito. Sconsigliandolo, però, il suo Super-Io, dal mettersi qua a declamare versi propri, gli parve 70 meglio, per l’occasione, di voltare quei versi in prosa; ma gliene uscì lo stesso una voce cantata, enfatica e insieme timida, proprio da poeta che recitasse un suo poema: «Dall’alga all’ameba, attraverso tutte le forme successive della vita, lungo le epoche incalcolabili il movimento multiplo e continuo della natura si è teso a questa manifestazione dell’unica volontà universale: la creatura umana! La creatura umana 75 significa: la coscienza. Questa è la Genesi3. La coscienza è il miracolo di Dio. È Dio! Quel giorno Dio dice: Ecco l’uomo! E poi dice: Io sono il figlio dell’uomo! E così infine riposa, e fa festa... «Ma la coscienza, nella propria festa, è una, totale: non esistono individui separati, 2 è il potere che ha bisogno della Colonna Infame: il riferimento è alla Storia della colonna infame, un saggio di Manzoni pubblicato in appendice ai Promessi sposi (1840), un pamphlet di ispirazione

illuministica contro la superstizione e l’intolleranza, una denuncia risentita degli abusi del potere. 3 Genesi: il Libro della Genesi (nascita, origine) è il primo libro della Bibbia.

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nella coscienza. E nessuna differenza esiste, nella realtà, fra l’una e l’altra creatura 80 umana. Bianchi neri rossi o gialli, femmine o maschi, nascere creatura umana si-

gnifica essere cresciuti al grado più alto dell’evoluzione terrestre! È questo il segno di Dio, l’unico stemma reale dell’uomo: tutti gli altri stemmi, onori e galloni sono dei brutti scherzi, un delirio de pestilensia: chiacchiere e patacche...» «Ma tu, in Dio ci credi?» lo interruppe Clemente, con una mezza bocca storta, che 85 denotava, già dentro l’interrogazione, un giudizio dispregiativo sull’interrogato. «Eh, beato chi ci crede!» sospirò, in proposito, l’ometto dagli occhi sanguinosi... «Che domanda è questa?! eppure, ritenevo di essermi spiegato», borbottò Davide, «... se CREDO IN DIO?... questa è una domanda sballata in se stessa, uno dei soliti trucchi di parole. Un trucco, come tanti altri». 90 «Ah. Un trucco». «Un trucco un trucco. Roba da preti e da fascisti. Parlano di fede in Dio nella patria nella libertà nel popolo nella rivoluzione, e tutte queste loro fedi non sono altro che patacche, truccate per i loro comodi, come le medaglie e le monete. A ogni modo, io sono ATEO, se è questo che volevi sapere». 95 «Allora, ché sta a parlare tanto di Dio, se nemmanco ci crede!» sbottò per proprio conto il sensale, gonfiando un poco la gota con aria di fastidio. Frattanto, siccome il suo comparuccio di partita, l’ambulante, grattandosi un orecchio secondo il loro gergo, lo consultava a distanza su una mossa del gioco, lo autorizzò col termine: «Mena!», e l’ambulante prontissimo buttò sul tavolo la sua carta. 100 «Credere in Dio... E che Dio sarebbe un Dio che ci si può credere e non credere?! Anch’io, da ragazzino, la intendevo a questo modo, più o meno... Ma non è questo, Dio!... Aspettate! mi viene in mente una volta, poco tempo fa, che un amico mio mi domandò: “Tu credi che Dio esista?” “Io credo”, gli risposi pensandoci, “che soltanto Dio esiste’’. “E invece”, disse lui senza pensarci, “io credo che tutte le cose esistono, 105 fuorché Dio!!” “Allora”, abbiamo concluso, “è chiaro che non siamo d’accordo...” E invece io dopo ho scoperto che io e lui dicevamo la stessa cosa...» Simile spiegazione dovette suonare agli ascoltatori (seppure alcuno veramente era stato a sentirla) come un quiz indecifrabile. Forse, avranno presunto che si trattasse di una teologia ebraica... A ogni modo, il solo commento che ne seguì furono certi 110 colpi di tosse di Manonera, pari a note di sarcasmo emesse, per lui, dai suoi polmoni malandati; oltre a un «Ahò, Davide!» discreto, ma abbastanza spavaldo, dalla parte di Useppe. Era già la terza o quarta volta, nel corso della riunione, invero, che Useppe si faceva presente con quella chiamata all’amico; ma era solo per vantarglisi: «noi pure ci stiamo, qua!» senza nessuna pretesa di risposta. E difatti, Davide, al 115 solito, come già le altre volte, non dette cenno nemmeno di avere inteso. Era ricascato a sedere, quasi senza accorgersene, e teneva dietro, ostinato, al corso dei propri argomenti, con l’espressione di chi, da sveglio, tentasse di ricostruire un’avventura sognata: «Difatti si dice: Dio è immortale, proprio perché l’esistenza è una, la stessa, in tutte le cose viventi. E il giorno che la coscienza lo sa, che cosa 120 rimane, allora, alla morte? Nel tutti-uno la morte non è niente: forse che la luce soffre se tu, o io, chiudiamo le palpebre?! Unità della coscienza: questa è la vittoria della rivoluzione sulla morte, la fine della Storia, e la nascita di Dio! Che Dio abbia creato l’uomo, è un’altra delle tante favole, perché invece, al contrario, è dall’uomo che Dio deve nascere. E ancora si aspetta la sua nascita; ma forse Dio non sarà mai 125 nato. Non c’è più speransa nella vera rivoluzione...» Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 749


«Ma tu, saresti rivoluzionario?» parlò di nuovo Clemente, sempre con quella sua maniera subdola e di malavoglia, che deprezzava la risposta dell’altro già prima di averla udita: «Questa», disse Davide con un risolino amaro, «è un’altra domandatrucco. Gente come Bonaparte, o Hitler, o Stalin, risponderebbero sì... A ogni modo, 130 io sono ANARCHICO se è questo che volete sapere!»

Analisi del testo Anarchia e non violenza Si è detto, giustamente, che La Storia è un romanzo senza ideologia, nel senso che la realtà viene mostrata senza interpretazioni o categorie preconcetti, senza giudizi e senza proiezioni, nel suo stesso ritmo vitale, come potrebbe fare Ariosto nell’Orlando furioso. Eppure se dovessimo associare alla scrittrice una ideologia “politica” certamente sarebbe quella anarchica non-violenta, che qui trova come suo portavoce il personaggio di Davide: «la sola rivoluzione autentica è l’ANARCHIA! ANAR-CHIA, che significa NESSUN POTERE, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO». Quel Davide passato attraverso varie identità: il Carlo Vivaldi dello stanzone di Pietralata, sedicente studente bolognese e probabile disertore, e ancora il Piotr della banda partigiana di Nino – primogenito di Ida – e infine il Davide Segre, ebreo benestante, già torturato dalle SS in quanto dissidente politico e con la famiglia interamente decimata. Nel discorso all’osteria Davide, benché offuscato dall’alcol e dall’uso di droga, intende rispondere, pur nel frastuono generale, alla domanda dell’oste su quale sia la “rivoluzione buona”. Allora enuncia la tesi del libro: tutta la Storia è in qualche modo “fascista”, pura logica della forza brutale.

L’uguaglianza tra tutti Davide dichiara a un pubblico di astanti distratto o indifferente, tutto preso dalla cronaca calcistica o dalle canzoni di successo diffuse da una radio a tutto volume, che l’unica vera rivoluzione sarà quella anarchica, che eliminerà l’infezione millenaria del potere e creerà l’uguaglianza definitiva tra gli uomini.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa risponde Davide al ragazzo che gli dice «E falla tu, la rivoluzione, se sei bravo!»? 2. A che cosa servono le guerre secondo Davide? ANALISI 3. Quale atteggiamento mostrano le persone presenti nell’osteria alle parole di Davide? Quale immagine usa il narratore per descriverle? LESSICO 4. Quale sinonimo useresti per spiegare il termine “figure” (r. 27)?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Nel brano si afferma «E nessuna differenza esiste, nella realtà, fra l’una e l’altra creatura umana. Bianchi neri rossi o gialli, femmine o maschi, nascere creatura umana significa essere cresciuti al grado più alto dell’evoluzione terrestre!». Ti sembra che oggi nella società in cui vivi sia davvero così come il protagonista vorrebbe che fosse il mondo? Rispondi in massimo 15 righe.

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4 Aracoeli: una “deserta pietraia” Lessico gnostici Lo gnosticismo è stato un movimento eterogeneo dei primi secoli dopo Cristo, distribuito in varie sette e dottrine “eretiche” che interpretano il messaggio cristiano alla luce dell’ellenismo, e perciò furono combattute dalla Chiesa. Quella gnostica è una visione negativa e dualistica del mondo materiale, di origine platonica: si regge sulla convinzione che gli esseri umani siano precipitati in una condizione imperfetta, intrappolati nella materia, creata da un demiurgo malvagio e soggetta a putrefazione. Ma in essi permane una scintilla divina che può essere riattivata attraverso la “gnosi” o conoscenza iniziatica dei misteri.

In viaggio per trovare se stessi Aracoeli è il mesto romanzo della sconfitta e della “ritirata”, non solo dall’impegno, dalle utopie e dagli ideali dei decenni precedenti, ma dalla vita stessa: in copertina un particolare del dipinto di Van Gogh, Il seminatore suggerisce, subito il tono allucinato, apocalittico di questa storia di degrado e distruzione che potrebbe ricordare certe cupe visioni degli antichi gnostici . Il protagonista e voce narrante Manuel – nato il 4 novembre, giorno della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale – è un omosessuale quarantenne, precocemente invecchiato e laido («ammasso di carne minore») che ha trascorso un’infanzia felice in simbiosi con la madre-ragazza, Aracoeli. Tormentato dal ricordo di questo Eden perduto e alla ricerca di un’identità, decide di ripercorrere le proprie radici tornando indietro nella memoria familiare, come l’io narrante dei due primi romanzi, Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo. Seguendo le tracce dell’amatissima madre spagnola giungerà in una “deserta pietraia” a El Almendral, in Andalusia. Apprendiamo che la selvaggia, analfabeta Aracoeli andò in sposa a un ufficiale di marina, Eugenio, ma il matrimonio venne subito osteggiato dalla famiglia borghesissima di lui. La sorella del padre, Monda, tentò di insegnare alla primitiva Aracoeli le buone maniere, ma c’era in lei un nucleo non addomesticabile. Aracoeli infine morì dopo un accesso di ninfomania autodistruttiva probabilmente causata da una «brutta malattia», «oltraggiando gli affetti famigliari con una furia demenziale e lussuriosa». Manuel prova a ricostruire amorosamente la vita della madre, in un viaggio nello spazio e nel tempo, per ricomporre la propria vita, ma si ritrova dentro un «deserto nero di pietrame angoloso». Un barlume di possibile maturità gli era capitato a tredici anni, in una fuga dal collegio a Roma, prima davanti alla madre morente, poi visitando il padre, malandato e disfatto, pallida parodia di un eroe: lì si era accorto, dopo un momento iniziale di ribrezzo, di amare – inaspettatamente – il padre, per la sua miserabile fragilità e precarietà di creatura, nella quale si era riconosciuto. «Non c’è niente da capire» Gli anni in cui Morante scrive il romanzo sono gli “anni di piombo”, in cui le tensioni ideali e le battaglie politiche dei ragazzi sessantottini che dovevano salvare il mondo si sono ridotti in una “zuffa di sigle e motti” entro una surreale guerriglia tra Rossi e Neri, mentre la società italiana le appariva sempre più imbarbarita, a sua volta specchio di un’intera civiltà ormai esausta, giunta al suo tramonto. La risposta di Aracoeli riflette questo totale disinganno, e svela al figlio il meccanismo incomprensibile del mondo: «Ma, nino chiquito, non c’è niente da capire». Non il tono giocoso delle nenie spagnoleggianti che lei recitava durante l’infanzia del protagonista – «Anda nino anda / que Dios te lo manda» – ma un «un urlo femminile atroce, laido e tragico», privo di qualsiasi conforto. Lo stile Lo stile del romanzo, che accoglie una varietà di registri – popolari (e anzi vernacolari fino all’osceno), aulici, burocratici, mondani, pubblicitari, scientifici – si caratterizza per la presenza di dissonanze che trasmettono il senso del tracollo di una civiltà. La sintassi resta educatissima e la punteggiatura è di una perfezione ammirevole, però la lingua precipita in un ingorgo che riflette il disordine non più riparabile del mondo, neanche da parte della letteratura. Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 751


Desertificazione del mondo Se per Simone Weil la gioia coincideva con il sentimento della realtà, qui Elsa Morante registra una desertificazione della realtà. Il protagonista, nella sua traumatica discesa alle radici, scopre che “vivere” significa “l’esperienza della separazione”, anzitutto di quella dalla madre. Ma, come per gli antichi gnostici, è l’esistenza stessa a essere una caduta – la dolorosa separazione dall’Uno primordiale – da una condizione originaria di felicità. L’isola felice di Arturo sfuma per sempre all’orizzonte. Nessuno potrà più salvare un mondo ormai esposto a degrado.

Aracoeli PUBBLICAZIONE

1982

GENERE

romanzo

CONTENUTO

il racconto del viaggio del protagonista e voce narrante Manuel alla ricerca delle proprie radici

STILE

varietà di registri e presenza di dissonanze

Elsa Morante

T8

Alla ricerca delle proprie radici

LEGGERE LE EMOZIONI

Aracoeli E. Morante, Aracoeli, Einaudi, Torino 1982

Aracoeli è l’ultimo, crepuscolare romanzo della scrittrice, stavolta rivolto non a tutti gli “analfabeti” come il precedente La Storia, ma a un pubblico più ristretto e più motivato, proprio in virtù di una scrittura tesa, eccessiva, a tratti dissonante, capace perciò di confrontarsi con i gerghi di una rumorosa e dissonante contemporaneità. Il protagonista Manuel si reca in Andalusia, in un viaggio a ritroso nel tempo, sulla scia delle radici materne.

Sul principio del viaggio – forse per meglio iniziarmi alla mia clausura – io con atto quasi involontario m’ero tolto gli occhiali. E nel séguito, per un lungo tratto ho dimenticato di servirmene, immemore perfino della mia deficienza visiva: tale è l’ipnotica monotonia del territorio, che accompagna il nostro cammino; di una 5 continuità senza mutamento né orizzonte, finché alla mia passiva contemplazione il paesaggio pare fermo, nella corsa della corriera. Di sopra, esso mi presenta un cielo che non somiglia a una volta d’aria, ma a una crosta di ceneri giallicce, forse depositate da astri in decomposizione già spenti da millennii. E sotto a questo cielo, si stende una regione desertica e rovinosa di 10 macigni, che mi si fa credere, a certi segni esterni, una qualche necropoli fossile di tempi preumani. Scorgo, difatti, sulle sue superfici, la stampa di strane membra mutilate. Una mandibola gigantesca con denti ricurvi a sciabola. Un dorso scaglioso dalle creste aguzze e vertebre simili a lische. Una coda di rettile armata di lunghe spine. Forse, questa fu una valle di fanghi diluviali pietrificati, su cui le

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15 mostruose creature dei primordi, sepolte negli uragani, lasciarono le loro maschere

mortuarie? La corriera – io credo – ha già percorso almeno un terzo della sua strada, quando, trasognato, io mi sono rimesso gli occhiali. Però – diversamente dal solito – questi non hanno portato una trasmutazione reale alla mia veduta. Salvo qualche rettifica superficiale (e per me superflua) questa seconda immagine del 20 paesaggio non è che una copia successiva della prima, lungo una stessa sequenza di noia irreale e funeraria. Adesso, mi si manifesta, al di sopra, un cielo basso, tutto coperto da una piatta nuvolaglia striata, che non sembra di natura acquea, rassomigliando, piuttosto, a una coltre di scorie bruciate, portate fin qua dal soffio africano. E difatti, nella 25 siccità rabbiosa che l’ha denudato, il territorio sottostante richiama gli hammada dei prossimi deserti. Riconosco i massi già visti prima, buttati in disordine uno sull’altro, come enormi pietre tombali rovesciate da un cataclisma. Però, da vicino, sulla loro superficie non si legge niente: quelle, che mi erano parse impronte di strani corpi, sono solo crepe e deformità della materia, la quale mi si scopre, 30 sui blocchi più prossimi, tutta ulcerata, e malata di una sorta di scabbia secca. D’un tratto, a qualche distanza, in un riquadro vedo lo spettacolo di una festa giapponese, accesa di lanternine luminose dai colori verde e oro; ma non tardo a riconoscere che, in realtà, è un piccolo aranceto carico di frutti, irrigato, certo, da una qualche sorgente segreta della Sierra (forse, da un’altra sorgente simile 35 sbocciò la carne in fiore di Aracoeli?) Poi subito la corriera si lascia indietro quel piccolo orto magico. Segue un deserto nero di pietrame angoloso, a cui succede una spianata coperta di detriti minerari, anch’essi neri. E là è spuntato, sullo sfondo, un villaggio texano! Lo stile tipico delle sue sommarie costruzioni, basse, squadrate e calcinose, mi tra40 sporta nell’America di certi film di avventura, visti nei cinema di periferia milanesi, che frequentavo nelle mie povere cacce serali. E adesso, a ripensarci, ricordo infatti di aver letto in qualche guida che alcuni falsi western sono stati girati in questo territorio. Allora, in un rigurgito, mi torna alla gola, e fin dentro la testa, il mio squallido malessere ordinario, a me troppo noto. Mi vedo qui, a correre su una pista 45 tracciata in un deserto, fra miraggi assurdi, segnali falsi e scenari vuoti; e ancora una volta mi ripeto che le chiamate di Aracoeli sono state, esse pure, un falso segnale; e il mio povero, ultimo romanzo andaluso una fabbrica d’ombre equivoche, per trastullo dei miei giorni vani. Dal mondo, in cui pretendo d’incontrare Aracoeli, a me sale la consueta, unica risposta: «Che cosa cerchi, e chi?! non c’è nessuno. E 50 tanto vale che tu ti tolga gli occhiali. Da vedere non c’è niente». A questo punto, i fragori dell’altoparlante, che fin qui respingevo dal mio piccolo spazio d’aria – come avessi gli orecchi tappati con la cera – in uno scoppio subitaneo si sono rovesciati su di me, pari a un branco di sirene storpie e rabbiose cacciate via dai mari. E ancora io mi sono rivisto: un finto Ulisse di terra, viag55 giante fra finti vivi incantati da finte musiche verso colonne d’Ercole anch’esse finte, poiché immancabilmente se ne tornerà indietro. Per qualche verso, lo scroscio di questi suoni parrebbe una musica di ballo; ma di un ballo disgraziato, finta barbarie e finta ebbrezza: una sorta di recitazione forzosa dei mali che umiliano i corpi. Proiettata dai ritmi nel mio cervello, una forma di Aracoeli balla 60 fra la pietraia, per me solo. È vestita come una elegante signora borghese degli anni Trenta, porta calze di seta color lilla e il suo ballo è una sconcia parodia Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento 2 753


dell’adescamento puttanesco. Via via che procede nella sua danza, essa si spoglia degli indumenti; e le sue nudità scoperte provocano a vederle la stessa vergogna misera e irrimediabile che ci fa torcere lo sguardo dai corpi degli animali scuoiati. 65 Intanto, nel suo dimenarsi, lei ride incessantemente, con quell’aria di spregio e rifiuto definitivo di cui sono capaci solo i morti. La pietraia è di nuovo deserta. Nessun passante: né viventi, né spettri. Il solo padrone, su questa rambla, è l’Altoparlante. Si è riempito le interiora di tutti i fracassi e le gazzarre del nuovo secolo e ora le riversa dentro questo casotto viaggiante 70 sotto forma di prodotto musicale. I suoi sconnessi materiali si direbbero raccattati nei supermarket e alla Borsa, ai passaggi dei semafori cittadini, sulle autostrade domenicali, nei capannoni delle fabbriche, nelle discoteche sottoterra, e fra i jukebox cari a Mariuccia. È la voce di Dio. Quello stesso che, sugli inizi, richiesto del suo nome, rispose: Io sono colui che è. 75 È risaputo ch'io non credo in Dio; ma per quanto l'idea paia strana (anche a me stesso) pure, dentro questa sinfonia di chiacchiere rovesciata dall'altoparlante, io tento di captare una frase rivelatrice forse un comunicato diretto proprio a me. Non è possibile che una simile quantità di materia sia solo una valanga di rifiuti, senza un brandello – almeno – di significato. Forse, una sua possibile parola di vita eterna mi è stata 80 qua trasmessa a mia insaputa, per via subliminale, e mi si spiegherà a suo tempo? Io mi metto, e mi ritolgo, e mi rimetto gli occhiali, per ritrovare sempre il solito sfacelo di sassi e rupi. A tratti, si distinguono sullo sfondo forme gobbe di alture disuguali; di roccia color ferro. Oppure si costeggiano cave o frane di pietra spaccata, simili a ossari. L’Altoparlante accenna forse alla presa di Malaga1, evocata ieri 85 sera dal camionista? Sia questa la strada corsa dai fuggiaschi verso Almeria? Ai miei orecchi suonano rombi come di aerei, fragori di cingoli e urla. Ma di tutto questo io non ho nessuna colpa. Ero un muchachito. Quegli eventi, per me, sono lontani di secoli, non meno che la presa di Cartagine. Forse Manuel fu abbattuto su questa sassaia? Sotterrato con altri corpi, a mucchio, in questo tratto di terra stepposa? O 90 questo rovinio di note è il bombardamento del Verano2, a Roma? Questo sibilo fuoriesce dai bronchi e dai polmoni della folla compressa nella delle «docce» a Treblinka?3

1 presa di Malaga: uno degli episodi crucia-

2 bombardamento del Verano: la prima

li della guerra civile spagnola, nel febbraio 1937, quando una controffensiva franchista, cui partecipò anche il Corpo volontari italiani, riconquistò la provincia di Malaga.

incursione aerea alleata su Roma dall’inizio della guerra, il 19 luglio del 1943; venne bombardato il cimitero romano del Verano da parte di aerei americani che inten-

devano colpirne lo scalo ferroviario. Vi furono tremila vittime tra i civili. 3 Treblinka: uno dei principali Lager nazisti, nella Polonia orientale.

Analisi del testo Tra realtà ed irrealtà Riprendiamo il tema del dualismo tra realtà e irrealtà, che Morante espliciterà nel testo sulla bomba atomica (➜ D1 ). Negli ultimi anni la morte dell’amico Pasolini (1975) fu da lei interpretata come un’allegoria della vittoria del “drago dell’irrealtà”, ovvero del nuovo potere fondato sui consumi, della nuova umanità tristemente omologata, con la sua idolatria del denaro. Aracoeli è idealmente dedicato, a partire dalla figura del protagonista, all’amico-poeta scomparso qualche anno prima: ormai il mondo non può più essere “salvato”, neanche dai ragazzini, ma soltanto esorcizzato.

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Stavolta sotto accusa non è solo lo scandalo della Storia umana, ma la natura stessa, incomprensibile e spaventosa. Il corpo non rinvia più, come ad esempio in La Storia, a una maternità felice, generatrice, a sua volta espressione di uno dei momenti più divini della natura, ma viene rappresentato come «caverna di stupendi misteri e di tenebre cruente», minata da un eros autodistruttivo e da una oscura pulsione di morte. Sembra che una “dualità perfida”, come nella più cupa visione degli gnostici antichi, sottenda qualsiasi manifestazione vitale.

Un incontro con sé stesso Il protagonista Manuel è arrivato in Andalusia, nella pietraia dove vorrebbe incontrare l’anima vagante o il fantasma dell’adoratissima madre, e si tratta di un incontro con sé stesso, con la propria tormentata identità e i nodi irrisolti dell’infanzia. Quando Manuel arriva nella nera «regione desertica» simile a una necropoli, l’autrice per descriverla ricorre a similitudini ispirate da un bestiario primordiale. Qui ha una visione allucinata della madre che balla seminuda in modo osceno, come una prostituta, mentre dall’altoparlante esce una musica sconnessa, volgare, fatta di tutte le «gazzarre del nuovo secolo».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il brano in max 5 righe. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo il protagonista dimentica il fatto di non indossare gli occhiali? ANALISI 3. Come è descritto il paesaggio? 4. Come è descritta la madre?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 5. Ti è mai capitato di compiere un viaggio alla ricerca delle tue radici per comprendere meglio te stesso? Scrivi un testo (max 20 righe).

online T9 Elsa Morante

L’incontro con il padre Aracoeli

V. van Gogh, Il seminatore, 1888 (Van Gogh Museum, Amsterdam).

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5 Il singolare postmoderno di Elsa Morante L’ultimo romanzo Con Menzogna e sortilegio Elsa Morante, convinta di trovarsi alla fine di una civiltà e di un’epoca letteraria, voleva scrivere l’ultimo romanzo, riprendendo l’archetipo cinquecentesco del genere, Don Chisciotte e, ancora più indietro nel tempo, l’Orlando furioso, poema cavalleresco del Rinascimento che somiglia a un romanzo: «io volevo scrivere l’ultimo romanzo della terra… volevo anche che il romanzo contenesse tutto ciò che era stata la sostanza del romanzo dell’Ottocento: i parenti poveri e quelli ricchi, le orfanelle, le prostitute dal cuore generoso». In tale proponimento l’autrice potrebbe essere accostata a una sensibilità che qualche anno dopo, intorno al 1970, sarà definita “postmoderna”, prevalentemente in area nordamericana e solo in seguito francese. Il postmoderno, o postmodernismo, si caratterizza per un presagio della fine del mondo, che poi è sempre fine di “un” mondo particolare, in questo caso di quel mondo moderno caratterizzato da una fiducia nel progresso e nella razionalità, nel potere emancipativo della cultura e nel primato dell’Occidente. Ora si afferma invece una visione relativistica, pluralistica, fondata su ironia e scetticismo. Prevale il senso dell’esaurimento di una intera tradizione, della quale ci ritroviamo tutti a essere stanchi epigoni, incapaci di creare cose nuove e originali, costretti a ripetere manieristicamente quella tradizione. Si potrebbe perfino considerare il postmoderno come una versione del Manierismo, di quella tendenza artistica, fiorita tra Cinquecento e Seicento, che rifletteva la crisi delle certezze e che consisteva nell’esasperata imitazione dei modelli michelangioleschi e raffaelleschi. La letteratura si riduce così a riepiloghi – a volte anche geniali –, a enciclopedia, citazione, montaggio, parodia. Grandi interpreti, e anticipatori, del postmoderno sono stati Beckett e Borges già negli anni Cinquanta: da un lato microtragedie in poche stralunate battute e dall’altro spiazzanti, sofisticati rifacimenti dei classici. Il passato culturale è così distante dalla nostra attuale esperienza – smarriti entro un universo digitalizzato e dominato dalla tecnologia, in cui non si distingue più tra reale e virtuale, tra cultura alta e cultura di massa – che possiamo solo citarlo, limitandoci a rifare e riscrivere i grandi capolavori. Il postmodernismo proviene dall’architettura, ma pensiamo a un esempio cinematografico non lontano da Elsa Morante: il regista Stanley Kubrick ha attraversato tutti i generi – fantascienza, storico, horror, guerra ecc. – provando a realizzare ogni volta l’ultimo e più perfetto film di quel genere, nella sua ideale esemplarità di archetipo assoluto. Calvino ed Eco In letteratura, e in Italia, libri più propriamente postmoderni saranno definiti – alla fine degli anni Settanta – Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, composto da tanti incipit narrativi entro una ingegnosa combinatoria metaletteraria e Il nome della rosa di Umberto Eco, un thriller filosofico denso di sapere narratologico, fatto di citazioni e ammiccamenti colti rivolti soprattutto alla classe media istruita. La Storia e la sensibilità postmoderna Proprio Calvino in una lettera piena di ammirazione a Elsa Morante, dopo l’uscita La Storia, riconosce al romanzo due caratteri che in qualche modo confluiranno nella sensibilità postmoderna: la «completezza da enciclopedia» in tutte le digressioni e diramazioni dalla storia principale, e poi un «eclettismo stilistico» che permette all’autrice di superare il

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

rischio del patetico, di una retorica delle lacrime. Ricordiamo pure che Elsa Morante volle concepire la Storia come una riscrittura dell’Iliade “dei giorni nostri”, mentre l’altro grande poema epico che aveva in mente era l’induista Bhavagad gita (Canto del beato signore). Arruolare la Elsa Morante di Menzogna e sortilegio nelle file del postmodernismo può essere una forzatura e un lieve anacronismo, ma in quella volontà di scrivere l’ultimo romanzo integrale, che riassume tutti i romanzi scritti finora, troviamo un’ironia, un gusto metaletterario, un’attitudine giocosa, perfino una divertita e lieve megalomania che la liberano da una certa polverosa immagine di Ottocento attardato in cui qualcuno vorrebbe rinchiuderla.

Giovanna Rosa Un’eccentrica modernità G. Rosa, Elsa Morante, Il Mulino, Bologna 2013

Nel brano che segue il critico Giovanna Rosa parla della svolta cruciale che caratterizza l’attività letteraria della Morante, l’attenzione che riserva ai personaggi nelle sue opere e la sua modernità.

La svolta cruciale nell’attività letteraria morantiana va individuata nell’abbandono della misura breve del racconto a favore dell’ampia orditura romanzesca. «Elsa Morante, ovvero il romanziere», per parafrasare le parole di Giacomo Debenedetti dedicate all’autore della Coscienza di Zeno: «Direi che in lui è innato il gusto del romanzo […] 5 Il romanzo fa parte del suo temperamento di scrittore» (Svevo e Schmitz, 1929). Tutte le cattedrali esibiscono con evidenza solare la loro appartenenza di genere: così è nelle indicazioni di copertina, nei risvolti di quarta, nelle note bibliografiche, nelle introduzioni e nelle postille, sempre di mano dell’autrice, che accompagnano le prime edizioni e le ristampe. L’intera produzione è ricondotta da Elsa sotto le insegne della 10 narratività distesa: Le straordinarie avventure di Caterina sono un «romanzo-fiaba», i versi di Alibi «un coro dei romanzi» e persino del Mondo salvato dai ragazzini, che pur sfugge ad ogni etichetta, la prima indicazione suona «È un romanzo d’avventure e d’amore (regolarmente diviso in parti e capitoli...)». A esaltare l’estro compositivo della scrittrice è il progetto ambizioso di rifondare la 15 «moderna epopea borghese» (Hegel), sfruttandone le varie tipologie Familienroman, Bildungsroman, romanzo storico: solo una narrazione, che è «un piccolo modello di architettura del mondo», può restituire l’«interezza» delle «relazioni umane» (Sul romanzo), ovvero rappresentare le tensioni contraddittorie che, su uno sfondo epocale di civiltà, intrecciano gli affetti dell’intimità privata con le dinamiche della 20 storia collettiva. L’adozione convinta e sicura delle strutture romanzesche implica e corrobora un’altra opzione che confligge con i canoni raffigurativi del novecentismo ultraletterario: la preminenza accordata ai personaggi, colti nella dialettica di pulsioni profonde e condizionamenti sociali:

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Fra tutti i libri possibili prediligiamo quelli […] che ci fanno incontrare con personaggi vivi (sebbene immaginari), e ce ne raccontano le vicende umane (I personaggi, p. 1467). A fronte di una narrativa che ha programmaticamente rinunciato a mettere in scena soggetti plasticamente corposi, per privilegiare fisionomie evanescenti e lineamenti stiliz-

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

zati, Elsa Morante assegna alle figure fictae un ruolo nevralgico nella costruzione della cattedrale. Ai personaggi è dedicata la seconda lirica proemiale di Menzogna e sortilegio. 30 Nella memoria del lettore, indelebili si imprimono non solo i protagonisti, ricchi di fascino equivoco, ma anche le comparse fuggevoli: basta una battuta di dialogo, un paragone a fissarli con inusuale energia icastica: i figli «straccioncelli» di Nicola e Pascuccia Monaco, dalle «facce simili a frutti»; la «gigantessa» Fortunata che assiste al parto di Nunz; i polsi «ingenui» di Gunther su cui si apre La Storia; le ripetute domande 35 perbenistiche di zia Monda in Aracoeli. Senza contare, naturalmente, le schiere allegre e «pazzarielle» degli adolescenti: fanciulli appassionati, contadini partigiani, ragazzette impaurite, corrigendi spavaldi e collegiali mammaroli. La fedeltà morantiana a questo paradigma compositivo, di genere e di procedimenti espressivi, ha indotto la maggioranza degli studiosi, e fra i più titolati, a confinarne 40 l’opera nella tradizione di un ottocentismo attardato, refrattario a cogliere la complessità contemporanea. Una distorsione interpretativa che non tiene conto dei due elementi di modernità che sorreggono i quattro grandi libri: la scelta enunciativa di un io narrante che, in una prospettiva di relativismo molto novecentesco, detiene il dominio sovrano della fiction; l’acconsentimento tenace a un criterio di raffigurazione analitica fondato 45 sulla freudiana «duplicità senza soluzione».

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Quando, secondo il critico, avviene la svolta nell’attività letteraria di Elsa Morante? 2. Che cosa pensa il critico delle sue produzioni che non sono romanzi? 3. A chi viene accordata la preminenza nelle sue opere e perché? 4. Dopo aver approfondito lo studio su Elsa Morante dimostra con un testo argomentativo, in base alle letture fatte, che la sua opera non può essere collocata «nella tradizione di un ottocentismo attardato, refrattario» in cui qualcuno vorrebbe confinarla.

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La produzione narrativa femminile nel Novecento 1 L’universo familiare nell’opera di Natalia Ginzburg La biografia Natalia Levi (Ginzburg è il cognome del primo marito) nasce nel 1916 a Palermo, dove il padre era professore all’università; si trasferisce in seguito con la famiglia a Torino, città in cui avviene la sua formazione culturale e politica grazie ai contatti con gli intellettuali antifascisti attivi nella casa editrice Einaudi (fu amica in particolare di Cesare Pavese). Dal 1940 al 1943 segue nel confino in Abruzzo il marito Leone Ginzburg, dirigente del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, morto nel 1944 per le torture subite in carcere a Roma dove era stato imprigionato durante l’occupazione nazista. Dopo la guerra lavora a Torino nella redazione dell’Einaudi, con Cesare Pavese e Italo Calvino. Dal 1959 al 1961 vive in Inghilterra dove insegna il secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini. Nel 1983 è eletta deputato per la sinistra indipendente. Muore a Roma nel 1991.

Natalia Ginzburg.

Una narrativa incentrata sulla dimensione privata e sul tema della famiglia L’interesse all’esplorazione della dimensione privata e delle dinamiche familiari è un vero e proprio filo rosso nella narrativa di Natalia Ginzburg, dal primo racconto L’assenza pubblicato nella rivista «Solaria» appena diciassettenne fino all’ultimo romanzo La città e la casa (1984). Del 1961 è il racconto lungo Le voci della sera, che anticipa la presenza della dimensione memoriale poi sviluppata in Lessico famigliare (1963), l’opera di maggior successo della Ginzburg. Il tema della famiglia ritorna anche nella produzione successiva, da Caro Michele (1973) a Famiglia (1977) al romanzo-saggio La famiglia Manzoni (1983): in quest’ultimo la Ginzburg, attraverso fonti e documenti originali, ricostruisce in modo suggestivo i rapporti familiari dell’autore dei Promessi sposi con particolare attenzione alle figure femminili. La scrittrice, formatasi nell’ambiente antifascista torinese, ha avuto un ruolo di rilievo nel panorama culturale del dopoguerra grazie anche all’impegno come giornalista e alla partecipazione alla vita politica del Paese. Le sue opere (oltre ai romanzi ha scritto anche testi teatrali) ne hanno fatto un punto di riferimento per il pubblico dei decenni fra gli anni Sessanta e gli Ottanta per l’attenzione critica da lei dedicata alle nuove realtà politiche e sociali: la contestazione giovanile, la dissoluzione della famiglia, i problemi esistenziali del nuovo contesto storico.

Lessico famigliare Il titolo Lessico famigliare (1963) è il romanzo più noto della Ginzburg. In esso la dimensione familiare è evocata attraverso il recupero memoriale: la narratrice mette infatti in scena la sua stessa famiglia e reali sono nomi, luoghi, persone che compaiono nell’opera. Il cardine su cui si struttura la rievocazione autobiografica della Ginzburg, come evidenzia il titolo stesso dell’opera, è la focalizzazione sul linguaggio: il «lessico famigliare» (la Ginzburg usa l’aggettivo con la grafia non etimologica), riportato in vita attraverso il ricordo, è il mezzo per rappresentare i La produzione narrativa femminile nel Novecento 3 759


rapporti all’interno della famiglia, ma soprattutto per far rivivere le abitudini, i valori e i modelli culturali trasmessi da una generazione all’altra: parole e modi di dire ricorrenti nella famiglia sono il simbolo di un’appartenenza e di un’identità comune sottratta all’usura del tempo. Un ritratto positivo ma non idealizzato L’universo familiare del romanzo è quello di una famiglia borghese dall’avvento del fascismo al conflitto mondiale e al secondo dopoguerra, ritratta realisticamente nelle abitudini, nei gesti e nei piccoli rituali che ne scandiscono la vita quotidiana. Il ritratto della Ginzburg è sostanzialmente positivo, al contrario degli Indifferenti di Moravia: nella famiglia della narratrice esistono ancora i valori, i genitori hanno un ruolo autorevole e trasmettono ai figli un’educazione improntata alla semplicità e all’austerità, ma senza eccessi che comportino contraccolpi psicologici. La rappresentazione della Ginzburg non è però idealizzata, sia perché non manca una prospettiva ironica o umoristica, sia perché non vengono celati gli aspetti negativi o problematici, come la difficoltà ad accettare le scelte dei figli e l’insofferenza, in particolare del padre, per l’emergere in essi di interessi diversi dai propri. Il tempo, i luoghi, i personaggi La narrazione ripercorre la vita della famiglia Levi dal tempo dell’infanzia dell’autrice, all’inizio degli anni Venti, fino agli anni Cinquanta. Il luogo privilegiato della rievocazione è Torino. Protagonisti sono il padre, lo scienziato Giuseppe Levi, severo e irascibile, la madre Lidia con il suo carattere “lieve”, i tre fratelli e la sorella, mentre Natalia, la scrittrice, che funge da voce narrante, rimane a lungo nell’opera in secondo piano. Altri personaggi della storia sono i vari parenti (nonni, zii, cugini), ricordati spesso attraverso le battute diventate famose nel lessico familiare; nella vita della famiglia costituiscono inoltre una presenza importante le persone che collaborano alla gestione della casa (dalla donna di servizio alle sarte che confezionano i vestiti). Ci sono poi gli amici dei genitori e dei fratelli, che acquistano maggiore rilievo quando questi diventano grandi. L’irrompere della Storia nel microcosmo familiare A un certo punto nel romanzo la storia familiare si intreccia con la Storia del ventennio fascista e il romanzo assume un valore documentario. Per i genitori il clima politico diventa sempre più oppressivo (il padre e il fratello maggiore di Natalia saranno arrestati); passano per casa Levi, citati con il nome reale, gli esponenti della vita culturale e dell’antifascismo torinese che saranno oggetto delle persecuzioni politiche e razziali, alcuni dei quali avranno un ruolo politico di rilievo dopo la fine del regime e nell’Italia del secondo dopoguerra. Anche i riferimenti alla Storia sono filtrati dalla voce narrante in un’ottica di “normalità”, smitizzante; ne è esempio in particolare il ricordo di Filippo Turati, il fondatore del Partito socialista, nascosto in casa per sottrarlo all’arresto: il punto di vista è quello della bambina, che paragona la figura imponente dell’importante uomo politico a un orso grigio. Con il secondo conflitto inizia una nuova fase sia storica sia familiare, in cui la narratrice, ormai donna adulta, assume un ruolo di primo piano. La sua rievocazione si sofferma in particolare sull’esperienza del confino in Abruzzo dove segue, con i bambini piccoli, il marito Leone Ginzburg (1909-1944, intellettuale antifascista di origine ebrea), ma la narrazione non indulge a effetti patetici o enfatici. L’arresto stesso e la morte in carcere di Leone per le torture subite dopo l’armistizio dell’8 settembre sono rievocati con una prospettiva antiretorica e senza concessioni sentimentali. Dopo la Liberazione, il mutato quadro politico e l’evoluzione della società fanno da sfondo alla nuova vita di Natalia, che, dopo aver lavorato a fianco di Pavese e altri intellettuali torinesi nella casa editrice Einaudi, si trasferisce a Roma, lasciando Torino e l’amata casa paterna.

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Natalia Ginzburg

Un’educazione “all’antica”

T10

LEGGERE LE EMOZIONI

Lessico famigliare N. Ginzburg, Opere, prefaz. di C. Garboli, 2 voll., Mondadori, Milano 1986

Il brano esemplifica i temi e la tecnica narrativa che contraddistinguono il racconto memoriale della Ginzburg: attraverso i personaggi, le abitudini e il «lessico famigliare» rievocati senza idealizzazioni, emergono i valori di una famiglia borghese.

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie1! Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbro5 deghezzi! Non fate potacci2! Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire. Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi3. E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d’hôte4 in In10 ghilterra, vi manderebbero subito via. Aveva, dell’Inghilterra, la più alta stima. Trovava che era, nel mondo, il più grande esempio di civiltà. Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, «un 15 sempio»5. – M’è sembrato un bel sempio, – diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai «sempi» c’erano i «negri»6. «Un negro», era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere. Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negri20 gura»7. – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, 25 nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita. Nelle gite in montagna era consentito portare soltanto una determinata sorta di cibi, e cioè: fontina; marmellata; pere; uova sode; ed era consentito bere solo del tè, che preparava lui stesso, sul fornello a spirito. Chinava sul fornello la sua lunga 30 testa accigliata, dai rossi capelli a spazzola; e riparava la fiamma dal vento con le falde della sua giacca, una giacca di lana color ruggine, spelata e sbruciacchiata alle tasche, sempre la stessa nelle villeggiature in montagna. Non era consentito, nelle gite, né cognac, né zucchero a quadretti: essendo questa, 1 malagrazie: disastri. 2 sbrodeghezzi... potacci: sbrodolature,

5 «un sempio»: uno sciocco, in veneto. 6 i «negri»: il termine, usato senza nes-

pasticci (espressioni coniate dal padre da voci del dialetto triestino). 3 nei loghi: fuori casa, in società 4 table d’hôte: tavola calda, ristorante (con menu a prezzo fisso).

suna sfumatura razziale, serve a irridere chi pur avendo istruzione e cultura, non sa comportarsi in modo civile.

7 «una negrigura»: termine inventato, dai «negri», nello speciale lessico della famiglia Levi indica un comportamento inadeguato alla situazione, come dimostrano gli esempi.

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lui diceva, «roba da negri»; e non era consentito fermarsi a far merenda negli châlet, essendo una negrigura. Una negrigura era anche ripararsi la testa dal sole con un fazzoletto o con un cappelluccio di paglia, o difendersi dalla pioggia con cappucci impermeabili, o annodarsi al collo sciarpette: protezioni care a mia madre, che lei cercava, al mattino quando si partiva in gita, di insinuare nel sacco da montagna, per noi e per sé; e che mio padre, al trovarsele tra le mani, buttava via incollerito. 40 Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia «i negri» che andavan su leggeri in scarpette da tennis, o sedevano a mangiar la panna ai tavolini degli châlet. 45 Mia madre, il far gite in montagna lo chiamava «il divertimento che dà il diavolo ai suoi figli»8, e lei tentava sempre di restare a casa, soprattutto quando si trattava di mangiar fuori: perché amava, dopo mangiato, leggere il giornale e dormire al chiuso sul divano. Passavamo sempre l’estate in montagna. Prendevamo una casa in affitto, per tre 50 mesi, da luglio a settembre. Di solito, eran case lontane dall’abitato; e mio padre e i miei fratelli andavano ogni giorno, col sacco da montagna sulle spalle, a far la spesa in paese. Non c’era sorta di divertimenti o distrazioni. Passavamo la sera in casa, attorno alla tavola, noi fratelli e mia madre. Quanto a mio padre, se ne stava a leggere nella parte opposta della casa; e, di tanto in tanto, s’affacciava alla stanza, 55 dove eravamo raccolti a chiacchierare e a giocare. S’affacciava sospettoso, accigliato; e si lamentava con mia madre della nostra serva Natalina, che gli aveva messo in disordine certi libri; «la tua cara Natalina», diceva. «Una demente», diceva, incurante del fatto che la Natalina, in cucina, potesse udirlo. D’altronde alla frase «quella demente della Natalina» la Natalina c’era abituata, e non se ne offendeva affatto. 60 A volte la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena9; pensava che lui solo sapeva ungere le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze10. – Dove avete cacciato la mia piccozza? – tuonava. – Lidia11! Lidia! dove 65 avete cacciato la mia piccozza? Partiva per le ascensioni alle quattro del mattino, a volte solo, a volte con guide di cui era amico, a volte con i miei fratelli; e il giorno dopo le ascensioni era, per la stanchezza, intrattabile; col viso rosso e gonfio per il riverbero del sole sui ghiacciai, le labbra screpolate e sanguinanti, il naso spalmato di una pomata gialla che 70 sembrava burro, le sopracciglia aggrottate sulla fronte solcata e tempestosa, mio padre stava a leggere il giornale, senza pronunciare verbo: e bastava un nonnulla a farlo esplodere in una collera spaventosa. Al ritorno dalle ascensioni con i miei fratelli, mio padre diceva che i miei fratelli erano «dei salami»12 e «dei negri», e che nessuno dei suoi figli aveva ereditato da lui la passione della montagna; escluso 75 Gino, il maggiore di noi, che era un grande alpinista, e che insieme a un amico 35

8 «il divertimento... figli»: detto in senso ironico, per indicare la tortura inflitta dal padre con la sua severità.

9 grasso di balena: serviva per rendere impermeabile la pelle. 10 i ramponi… piccozze: arnesi dell’attrezzatura per le escursioni in montagna.

11 Lidia: è il nome della madre dell’autrice. 12 «dei salami»: espressione colloquiale per indicare chi si comporta in modo impacciato.

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faceva punte13 difficilissime; di Gino e di quell’amico, mio padre parlava con una mescolanza di orgoglio e di invidia, e diceva che lui ormai non aveva più tanto fiato, perché andava invecchiando. Questo mio fratello Gino era, del resto, il suo prediletto, e lo soddisfaceva in ogni 80 cosa; s’interessava di storia naturale, faceva collezioni d’insetti, e di cristalli e d’altri minerali, ed era molto studioso. Gino si iscrisse poi in ingegneria; e quando tornava 13 faceva punte: scalava cime. a casa dopo un esame, e diceva che aveva preso un trenta14, mio padre chiedeva: 14 un trenta: il voto – Com’è che hai preso trenta? Com’è che non hai preso trenta e lode? più alto nella valutaE se aveva preso trenta e lode, mio padre diceva: – Uh, ma era un esame facile. zione universitaria.

Analisi del testo Il lessico della famiglia Il racconto è condotto da un punto di vista interno al gruppo familiare rappresentato, del quale la scrittrice stessa fa parte; la rievocazione di figure, atteggiamenti, abitudini, anche linguistiche della famiglia è filtrata dall’affettuoso, e ironico, ricordo dell’autrice che scrive a distanza di molti anni. Qui emergono in particolare la forte personalità e l’autorevole ruolo educativo della figura paterna, che impone regole severe sia nei comportamenti domestici, come a tavola, sia nelle varie situazioni e relazioni sociali. Se le regole (o almeno alcune di esse) sono sostanzialmente quelle della “buona educazione” insegnate nelle famiglie borghesi dell’epoca, l’interesse e l’originalità della rievocazione della Ginzburg stanno nel particolare spazio che la scrittrice dà alle modalità lessicali della loro trasmissione: il padre, di carattere forte e incline a furiose collere, era solito censurare con rimproveri veementi i comportamenti non corretti dei figli attingendo a colorite espressioni ispirate al dialetto (era di origine triestina) o con espressioni da lui stesso inventate, come negrigure, che costituiscono esempi particolarmente gustosi di «lessico famigliare».

Un ritratto smitizzante e umoristico Natalia Ginzburg adotta il punto di vista, acuto e disincantato, di se stessa bambina: nell’affettuosa rievocazione della propria infanzia, in cui domina il cipiglio burbero del padre, non c’è posto per la nostalgia idealizzante, né per il giudizio critico tipico dell’età adulta o magari per il risentimento (ad esempio per la scoperta predilezione del padre per il fratello maggiore): la narrazione è sempre distaccata, obiettiva e affida a nitidi particolari concreti la rievocazione di un ambiente umanamente ricco e sereno. Non manca nella narrazione della Ginzburg anche la cifra umoristica, seppur implicita: il lettore non può infatti non sorridere alle frasi colorite del padre e alle sue pretese di educare i figli in modo spartano, senza alcuna concessione non solo al lusso, ma anche alle più normali comodità, da lui considerate negrigure.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste il «lessico famigliare» rievocato dalla scrittrice? TECNICA NARRATIVA 2. Rintraccia nel testo i momenti in cui risulta più evidente il punto di vista della narratrice bambina. LESSICO 3. Quale significato ha il termine negrigure e a quali comportamenti era riferito dal padre? Puoi fare anche esempi riferiti al costume dei nostri tempi. ANALISI 4. Quale modello di vita viene esemplificato attraverso gli ammonimenti del padre?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 5. Prendendo spunto da questo brano, scrivi una pagina in cui rievochi episodi della tua infanzia con la tua famiglia.

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Caro Michele La diagnosi della dissoluzione della famiglia borghese In Caro Michele (1973) la Ginzburg affronta il tema della famiglia in modo diretto, abbandonando la prospettiva autobiografico-memoriale e ambientando il romanzo nel presente. L’azione si svolge all’inizio degli anni Settanta, negli anni difficili della contestazione studentesca e della formazione dei gruppi politici extraparlamentari. Rispetto all’affettuosa rievocazione di Lessico famigliare l’istituzione familiare appare in Caro Michele profondamente cambiata ed è investita da una crisi profonda che il romanzo rappresenta in modo lucido e analitico. Le figure dei genitori hanno ormai abdicato al proprio ruolo educativo: i giovani figli vivono, di conseguenza, una situazione di smarrimento e incertezza, ma anche gli adulti sono segnati dal disagio interiore e dal senso di solitudine. Una storia “esemplare” La vicenda di Michele, il personaggio a cui il titolo assegna un ruolo di rilievo, mette a fuoco le conseguenze di una condizione familiare disgregata. Dopo la separazione dei genitori, è cresciuto con il padre, che ne ha rivendicato l’affido, mentre le sorelle sono rimaste con la madre Adriana. All’inizio del romanzo Michele ha circa vent’anni, vive da solo e dipinge come il padre, affermato pittore, ma non ha un’idea chiara del suo futuro: milita in un gruppo di estrema sinistra, di cui sostiene le idee rivoluzionarie per dare un significato alla sua vita. La sua improvvisa partenza per l’Inghilterra, nonostante il padre stia male, è giustificata col pretesto di voler frequentare un corso di scultura. In realtà la sua è una fuga per paura di essere arrestato (ha nascosto una vecchia mitragliatrice affidatagli da un compagno di militanza politica). Il successivo matrimonio (con un’americana, molto più matura di lui e già divorziata) è un segnale della sua ricerca di una stabilità esistenziale ma l’unione finisce subito (la donna è alcolizzata e non è in grado di soddisfare i suoi bisogni affettivi). Altro ruolo esemplare nel romanzo è quello di Mara, un’amica di Michele; la ragazza, senza sostegni familiari e senza lavoro, gli chiede aiuto perché ha appena avuto un figlio (che dice essere suo). La sua precarietà economica sembra differenziarla dagli altri personaggi, che hanno almeno delle sicurezze materiali, ma per Angelica, la sorella maggiore di Michele, è anche lei una balorda, come balordo è Michele nel giudizio di sua madre, che ne indica così l’instabilità emotiva (➜ T11 OL). Alcuni mesi dopo la sua partenza il giovane è ucciso a Bruges da militanti di destra durante una manifestazione; quando Mara rivela che il bambino non è figlio di Michele, Adriana le promette che potrà contare lo stesso sul suo aiuto. Un romanzo epistolare La struttura del romanzo è in prevalenza epistolare: le lettere che si scambiano i personaggi principali della vicenda (la madre Adriana, il figlio Michele, le due sorelle maggiori e alcuni amici del protagonista) sono a tratti collegate da passi narrativi ad opera di una voce narrante esterna. Il lettore è introdotto direttamente nella storia senza preventive informazioni, che riceve col procedere dello scambio epistolare o che in alcuni casi ricostruisce indirettamente: gli antefatti sono rievocati, a frammenti, soprattutto da Adriana, la principale online narratrice interna. Le dinamiche interne alla famiglia e ai rapT11 Natalia Ginzburg porti interpersonali sono rappresentate con un linguaggio «Sei venuto su molto balordo»: l’autocritica di una madre referenziale, diretto, che riproduce le forme e il ritmo della Caro Michele comunicazione colloquiale.

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2 Lalla Romano: un problematico rapporto madre-figlio La biografia Nasce a Demonte (Cuneo) nel 1906; dopo il liceo frequenta l’università di Torino dove si laurea in Lettere nel 1928; nel capoluogo piemontese ritorna dopo il matrimonio e la nascita dell’unico figlio, Piero. All’insegnamento si aggiunge la sua prima vocazione artistica, la pittura, a cui affiancherà la scrittura, che poi sarà l’attività privilegiata. Amica degli intellettuali antifascisti torinesi, durante la Seconda guerra mondiale a Cuneo, dove si è trasferita con il figlio, partecipa alle attività di sostegno alla lotta partigiana. Nel 1947 si trasferisce a Milano, dove vivrà fino alla morte (2001). Esordisce con la raccolta di poesie Fiore (1941), apprezzata da Montale; la prima opera narrativa è Metamorfosi (1951). La produzione successiva sviluppa in prevalenza temi autobiografici: La penombra che abbiamo attraversato (1964), Le parole tra noi leggère (1969), Una giovinezza inventata (1979), Nei mari estremi (1984). Lalla Romano.

Le parole tra noi leggère Il difficile rapporto madre-figlio Nel romanzo di Lalla Romano Le parole tra noi leggère (1969) è analizzato il difficile rapporto tra una madre (la scrittrice stessa) e un figlio dall’enigmatica personalità all’interno di una famiglia borghese apparentemente normale. Alla problematica relazione tra madre e figlio allude il suggestivo titolo, tratto da una lirica della raccolta La bufera di Eugenio Montale (Due nel crepuscolo): «… le parole / tra noi leggere cadono» (vv. 30-31). Il conflitto sembra emergere già dalle prime manifestazioni di vita del bambino (ancora nel ventre materno scalcia con forza e, appena nato, succhia il latte come se mordesse, «come un leoncino», provocandole dolore). Crescendo, il bambino si dimostra ribelle alle convenzioni dell’educazione borghese e manifesta interessi inusuali (come la passione precoce per le armi); di fronte alle stranezze del figlio l’atteggiamento della madre è ambivalente: da un lato si sente inadeguata al compito e si considera responsabile della diversità del ragazzo, dall’altro vi riconosce un’analogia con la propria tendenza libertaria. La personalità anticonformista del figlio costituisce il filo conduttore del romanzo, dai comportamenti ribelli infantili alla volontà, espressa nell’adolescenza, di essere “ultimo” a scuola, al desiderio di fare un lavoro manuale, in contrasto con la condizione borghese della famiglia. Nella madre, accanto alla preoccupazione, c’è sempre il desiderio di capire, di dare un significato alle scelte e alle passioni del figlio, in cui talvolta ritrova il segno di quelle di altri familiari. Nella sua «amorosa investigazione» (C. Segre) è obiettiva: ne riconosce i pregi ma anche i limiti, soprattutto il rifiuto degli obblighi («pare abbia molte attitudini, meno quella di fare i suoi doveri»). Si interroga (forse in modo un po’ ossessivo), e lo interroga, anche se le domande, come gli elogi, sembrano assillarlo e infastidirlo: la sua riservatezza si manifesta nel bisogno di difendere la sua intimità, di non verbalizzare i suoi stati d’animo (si opporrà al progetto del libro della madre e alla sua pubblicazione, che diventerà motivo di rottura). La produzione narrativa femminile nel Novecento 3 765


All’apprensione materna l’autrice contrappone la serenità del padre, capace di accettare il rifiuto dei modelli di vita normali e la semplicità dei gusti del figlio. Sarà la saggezza paterna a trovare una soluzione per il suo inserimento nel mondo degli adulti con un lavoro (un impiego in banca) che il ragazzo sente come noioso e che però accetta per essere autonomo dai genitori. La struttura Il romanzo è suddiviso in sei sezioni corrispondenti a diverse fasi della vita del figlio, dall’infanzia all’età adulta. I materiali biografici (ricordi, lettere, poesie e temi scritti dal figlio) sono organizzati in ordine cronologico ma i livelli temporali si alternano (il passato si intreccia con riferimenti al presente, ci sono anticipazioni e flashback); la narrazione è costantemente accompagnata dalle riflessioni della voce narrante in prima persona che, mentre ricorda e racconta, analizza l’“oggetto” del suo racconto, cioè il figlio e il suo rapporto con lui. Tra i diversi livelli temporali il presente si distingue come il momento dell’analisi, del rapporto vissuto nella sua immediatezza nelle varie epoche della vita. Ogni sezione è articolata in capitoletti di lunghezza variabile, distinti l’uno dall’altro da uno spazio bianco; ciascuno prende in esame un aspetto, un episodio della vita del figlio, anche attraverso i ricordi degli altri familiari (talvolta scoperti a distanza di decenni). Al punto di vista della madre-autrice si alterna quello del figlio stesso (espresso attraverso i suoi scritti o nei dialoghi familiari) e di altri personaggi (il padre, la nonna, parenti e amici). La prospettiva analitica Se il contesto sociale è simile a quello rappresentato in Lessico famigliare (in entrambi i casi si tratta di una famiglia borghese di intellettuali), i rapporti tra i genitori e il figlio sono però diversi anche in relazione a un momento storico differente (in questo caso Le parole tra noi leggère si svolge nel periodo immediatamente precedente la Seconda guerra mondiale fino agli anni Sessanta). Pur partendo dagli stessi presupposti culturali di Lessico famigliare, la famiglia rappresentata dalla Romano si distingue in quanto il rapporto educativo tradizionale risulta superato dall’approccio problematico della madre-autrice nei confronti del figlio e dal suo interrogarsi sul proprio ruolo. Diversa è soprattutto la prospettiva delle due autrici in rapporto al tema: il romanzo familiare della Ginzburg è memoriale, volto a ricostruire un mondo ormai finito di cui si vuole perpetuare il ricordo; invece il libro della Romano ha un’istanza analitica, muove dalla volontà di capire. Nel romanzo Le parole tra noi leggère la dimensione memoriale, pur presente, è funzionale all’obiettivo dell’analisi-comprensione: alla scrittrice interessa non rievocare il passato e scrivere una “storia”, ma esaminare il delinearsi di una personalità, le ragioni di una diversità, ricostruire un rapporto per meglio capirlo; esplicita con sincerità i propri sentimenti più intimi e profondi (amore, gelosia, rabbia e disperazione), ma dichiara esplicitamente (fin dall’incipit: «Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia») che il proprio intento è conoscitivo («Ma soprattutto io non rinunzio a tentare di conoscerlo»). Questo «metodo investigativo» (C. Segre), già perseguito dalla scrittrice in opere precedenti, qui ha un ruolo ancora più significativo, diventando il criterio di scelta dei materiali memoriali, selezionati e accostati non tanto per ragioni affettive ma per quello che fanno emergere dell’enigmatico mondo interiore del figlio.

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Lalla Romano

Un figlio “infelice”

T12

LEGGERE LE EMOZIONI

Le parole tra noi leggère L. Romano, Opere, a c. di C. Segre, 2 voll., Mondadori, Milano 1991

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

La scrittrice riporta alcuni stralci della sua corrispondenza con il figlio adolescente, reduce da un insuccesso scolastico: dalle lettere la personalità del ragazzo appare anticonformista e insofferente verso i tentativi familiari di condizionare le sue scelte e il suo stile di vita; la madre, come risulta dall’autoanalisi a posteriori, è combattuta tra la preoccupazione per il futuro del figlio e l’impegno a capirlo.

Alla fine della quarta ginnasiale (l’anno di «quei» temi1) fu respinto. L’estate andò al solito dalla nonna2; si rifiutava di venire in montagna con me. «Cara Mina3, sto vegetando a Cuneo. Non so cosa dirti perché qui non succede niente di speciale; anzi per essere più precisi non succede niente. Immagino che 5 dove sei ti divertirai pazzamente. Mandami qualche centesimo per sopravvivere». Io mi preoccupavo molto soprattutto della sua salute; così gli scrissi una lettera che conteneva un seguito di domande del tipo: mangi carne? vai a spasso? e così via. Mi sembrò una buona trovata: avrei finalmente saputo qualcosa di preciso, siccome le lettere della nonna, un po’ perché lei non era «narrativa», un po’ perché voleva 10 che io stessi tranquilla, erano rapide e reticenti4. Rispose: «Cara Mina, ho ricevuto la tua lettera col questionario5, e credo bene incominciare subito da quello. Immaginando che tu abbia trascritto le domande, ti scrivo solamente le risposte: «– alle 12 – alle 12 – sì – a Cuneo – no – no – no – sì – sì – sì – sì – cucinata6 sì 15 – sì – sì – secondo i giorni – no – liquidi a seconda delle circostanze – sì – veicoli – no». (Naturalmente io non avevo trascritto le domande e lui lo sapeva). «Avrai probabilmente già saputo dalla nonna del mio rifiuto di andare a lezione; non intendo qui giustificarmi ma bensì spiegartene la ragione: io ho bisogno di essere aiutato e non osteggiato. Io non sono felice e lo sarei ancora meno se facessi un 20 lavoro che non sono portato a fare, perciò voglio del tempo per decidere. Voglio prendere il scientifico7, ed avere tempo di decidere che cosa vorrò fare poi. Quello che la gente di solito fa “per vivere” non mi attira; mi domando se non si possa fare qualcosa d’altro e comunque sopravvivere. Lavorare “per vivere” dev’essere una cosa ben tragica; io vorrei fare qualcosa senza aver bisogno di farla. Ad ogni modo 25 a questo penserò dopo, quando sarò grande. «Sono in attesa di nuovi centesimi8». È una lettera-manifesto, anzi, una lettera-testamento. Non so se allora me ne rendessi conto, irritata com’ero e anche divertita per lo scherzo delle risposte. Mostrai la lettera a certe giovani signore che accanto a me prendevano il sole davanti all’al30 bergo; e una di loro esclamò: – Io lo amo!

1 «quei» temi: allusione ai temi svolti dal

2 nonna: la madre della scrittrice, che abi-

figlio che avevano avuto un giudizio negativo dagli insegnanti per il loro contenuto anticonformistico e per lo spirito critico, inusuale in un adolescente e considerato non consono al contesto scolastico.

tava a Cuneo. 3 Mina: diminutivo di “mammina”. 4 reticenti: senza le notizie sulla vita del figlio che l’autrice avrebbe voluto avere.

5 questionario: il termine è usato dal figlio in tono polemico.

6 cucinata: si riferisce a una domanda della madre sui cibi mangiati.

7 il scientifico: sott. liceo. 8 nuovi centesimi: nuovo danaro.

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Rimasi stupefatta, lusingata e anche un po’ spaventata. Forse era soprattutto un’espressione mondana; ma penso che fosse anche la scoperta di un essere genuino, imprevedibile, di qui l’ammirazione per il carattere patetico e insieme duro (maturo) di lui. Se le signore avessero potuto leggere la lettera che scrisse a suo padre, l’avrebbero ammirato anche di più. «Caro papà, sento dalla tua lettera che ti preoccupi della mia prigionia9. Però non è una prigione comune come credete voi, dato che cercate sempre di farmi evadere, ma io sono insieme prigione, galeotto, carceriere, direttore e libero cittadino, perciò l’evasione è impossibile. Tu dici che qui non esco tanto come a Milano, ed io esco 40 solo per qualche ragione; a Milano andavo sempre in giro e al cinema. Oppure andavo dai vari ottici e armaioli10 come faccio anche qui, ma devi notare che a Milano le distanze sono dieci volte maggiori. (La similitudine del fungo è magnifica11). Ad ogni modo questa sera ho fatto la mia brava passeggiatina da povero vecchio12 e mi sono molto divertito. Quanto a studiare ho già cominciato, ma in quanto a non 45 essere secondo a nessuno, uno può essere primo o ultimo di fronte al prossimo senza alterare le proprie qualità, secondo le qualità di quest’ultimo. Tanti saluti e baci». 35

Io gli consigliavo Brera13, mi pareva che il suo sicuro successo come disegnatore l’avrebbe incoraggiato; e anche pensarlo insegnante di disegno era una prospettiva non spaventosa come altre. Non ne volle sapere. Non intendeva compromettersi, 50 disse, con una scelta così ristretta. Sembrava, anzi era, una decisione ragionevole. Mi aiutò l’amico Giosue al quale confidavo la mia incertezza. Mi consigliò una scuola privata «seria», nella quale aveva insegnato lui stesso. Così lui intraprese il scientifico: voleva liberarsi almeno dal greco siccome il latino c’era dappertutto (eppure lui era molto più «greco» di quanto supponesse14). 55 Quella scuola doveva essere seria davvero. Intanto mandavano tutti i mesi a casa certi foglietti «nota informativa», nei quali compariva il suo vero nome (senza vezzeggiativo) il che mi sembrava già un buon segno. Contenevano i voti e i giudizi dei vari professori e un commento di pugno del preside. I primi foglietti recarono il solito desolante «potrebbe fare ma...», «nessun interesse», 60 «sembra assente». O al massimo «intelligenza, idee, capacità», e in conclusione: «abulico»15. Improvvisamente tra gennaio e febbraio comparvero nuove note: «netta ripresa», «molto bene» e così via. Ammettendo pure i meriti di quella scuola, doveva esserci stata da parte di lui una collaborazione; e questa non si spiega senza un «moven65 te»16. L’unico fatto registrato quell’anno è la comparsa della moto, che suo padre gli comprò verso il maggio. Io penso che gli sarà servita anche da pretesto per studiare senza perdere la sua dignità.

9 prigionia: la vita ritirata condotta dal

11 La similitudine... magnifica: è un’allu-

14 eppure... supponesse: è un riferimento

figlio a casa della nonna è considerata dal padre una sorta di prigionia. 10 ottici e armaioli: negozi frequentati abitualmente dal ragazzo per costruire gli oggetti di suo interesse.

sione a una frase scritta dal padre. 12 da povero vecchio: il paragone è autoironico ed è basato sullo stile di vita che i genitori gli rimproverano. 13 Brera: l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.

alle attitudini logiche e alla capacità di riflessione che la madre riconosce nel figlio e che sente affine alla cultura greca, culla della filosofia. 15 «abulico»: privo di volontà e interesse. 16 «movente»: motivo.

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Analisi del testo Un adolescente tra bisogno di autonomia e richiesta di aiuto La tecnica narrativa nel passo è contraddistinta dall’assemblaggio di materiali diversi: dai ricordi dell’autrice-madre alle sue riflessioni sui comportamenti del figlio e sulle prese di posizione di questi, espresse nelle lettere a lei e al padre. Le due voci si alternano: quella materna oscilla fra la preoccupazione e il compiacimento per l’ammirazione che il ragazzo suscita; quella del figlio esprime il bisogno-desiderio di autonomia, ma anche l’orgogliosa consapevolezza della propria diversità. La lettera indirizzata in risposta al questionario della madre manifesta all’inizio in modo scherzoso l’atteggiamento polemico del ragazzo nei confronti del tentativo materno di indagare sulla sua vita; nella seconda parte invece l’affermazione dei propri bisogni e delle proprie convinzioni assume una forma incisiva al punto che l’autrice, a posteriori, la definisce una lettera-testamento, vedendovi l’espressione di una volontà chiara e irrinunciabile da parte dell’adolescente di decidere sulla propria vita.

Le ansie di due genitori non autoritari Dal testo si coglie che il giudizio dei genitori (e soprattutto della madre) sulla personalità del figlio è ambivalente, oscillando tra il desiderio che corrisponda a un modello socialmente condiviso (quello borghese del loro ceto) e il riconoscimento, e l’accettazione, della sua diversità; soprattutto se ne intuiscono le aspettative perché si uniformi ai comportamenti di un adolescente “normale”, come risulta dalla sollecitazione a vivere la vita dei suoi coetanei (il padre si preoccupa per la sua prigionia) e ad affermare se stesso («non bisogna essere secondo a nessuno»). A bilanciare l’ansia-preoccupazione per le affermazioni di autonomia del ragazzo c’è lo stupore per l’ammirazione che suscitano il suo spirito anticonformista, espressione di «un essere genuino», e la sua coerenza ai propri princìpi. L’analisi della Romano è scandita da una costruzione sintattica lineare e da un lessico essenziale, che equilibrano il coinvolgimento emotivo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

COMPRENSIONE 1. Che cosa vuol far capire il figlio alla madre con l’espressione “vegetando”? ANALISI 2. Dalla lettera del figlio alla madre risulta l’aspetto costrittivo della famiglia, la volontà dei genitori di uniformarlo a un modello: indica gli argomenti con cui il protagonista difende la propria autonomia. 3. La personalità del figlio è definita attraverso la ricostruzione-analisi della madre, ma è illuminata anche dalla sua stessa voce, attraverso i suoi testi riportati o le parole citate con cui il lettore può stabilire un contatto diretto e farne un’interpretazione autonoma: tu come valuti le lettere del protagonista? SCRITTURA CREATIVA 4. Prova a scrivere anche tu una lettera ai tuoi genitori facendo capire loro le tue aspirazioni, le tue volontà, in che cosa non riescono a comprenderti e ciò che invece ammiri nel loro modo di relazionarsi con te.

3 Anna Maria Ortese Una «zingara sognante» «Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile…». Così si autodefinisce perentoriamente Anna Maria Ortese, una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento: schiva, lontana dalla ribalta e dai circoli letterari, apprezzata dalla critica e non sempre dal pubblico, tranne nell’ultima fase, dopo il 1993, quando l’editore Adelphi, anche su sollecitazione dell’autorevole critico Pietro Citati (che la definiva «zingara sognante»), cominciò a pubblicare la sua intera opera. Tale produzione si compone di romanzi, racLa produzione narrativa femminile nel Novecento 3 769


conti, reportage, poesie, testi teatrali, ma anche di articoli d’occasione: fu la prima donna a seguire il Giro d’Italia, nel 1955, come inviata del settimanale «L’Europeo». Ha saputo incrociare un’originale vena fantastico-surreale – filone minoritario della nostra tradizione letteraria – con la sensibilità verso gli umili e le creature minori. Entro la nostra letteratura contemporanea soltanto nella sua opera il fantastico si colora di etico, l’immaginazione nasce sempre da uno sdegno civile: «Posso dire di esser mossa a lavorare dall’indignazione». Anna Maria Ortese.

Lo stile Pur rifuggendo da qualsiasi sperimentalismo e intento provocatorio, il suo stile non obbedisce agli standard comunicativi del mercato: è una lingua densa, allegorica, realistico-fiabesca, impegnata a raccontare la dimensione nascosta delle cose, espressione di una «letizia aspra, inquieta, insonne e allucinatoria» (Giorgio Manganelli). La biografia e le opere Ortese nasce il 13 giugno 1914 a Roma e muore a Rapallo nel 1998. Suo padre è un funzionario prefettizio a Roma, poi la famiglia – sempre vissuta in condizioni di ristrettezza – si sposta a Potenza, in Libia e infine a Napoli. La morte di due fratelli, entrambi marinai, è un trauma che la segnerà per sempre, seguito dalla scomparsa dei genitori. Fondamentalmente autodidatta, dopo lo studio del disegno e del pianoforte Ortese si appassiona presto alla letteratura, riconoscendola come propria vocazione esclusiva. L’esordio nel 1937 con i racconti Angelici dolori venne notato da Massimo Bontempelli che la sostenne ascrivendola a quel “realismo magico” a lui caro – ovvero: la dimensione magica dentro il quotidiano –, benché con uno sfondo tragico-malinconico. Il suo sentimento ambivalente verso la realtà era composto sia di meraviglia che di apprensione, e si traduceva in incanto ma anche in una fuga verso mondi immaginari. Negli anni del neorealismo una scrittura così elusiva, dissonante e “allucinatoria” doveva restare appartata. Ma Ortese, dopo una raccolta di racconti nel 1950, L’infanta sepolta, trova un’altra personalissima modalità espressiva con il libro successivo, Il mare non bagna Napoli (1953), che mescola narrazione e riflessione sfiorando qui e là un gusto neorealista. Si tratta di cinque pezzi brevi, di cui tre appaiono come reportage giornalistici. Anche il successivo Silenzio a Milano, del 1958, consisteva in reportage capaci di svelare la povertà dietro il luccichio del boom economico. Attitudine visionaria Il primo e più importante racconto della raccolta Il mare non bagna Napoli, Un paio di occhiali – già uscito sulla rivista «Omnibus» –, tematizza l’attitudine visionaria della scrittrice, mostrandone i segreti moventi: narra infatti di una ragazzina molto miope, «quasi cecata», che vive in un vicolo napoletano miserabile, isolata dal mondo; poi un giorno le comprano un paio di occhiali e così resta inorridita vedendo per la prima volta le brutture di quella realtà. Mentre l’ultimo, Il silenzio della ragione, inchiesta appuntita sugli scrittori napoletani di quel periodo, chiamati per nome e accusati di irresponsabile disimpegno verso la città, suscitò polemiche roventi e determinò l’isolamento di Ortese, quasi costretta a lasciare Napoli. Vive con la sorella, impiegata alle Poste, che la sosterrà economicamente per tutta la vita. Nel 1963 esce L’iguana, storia di una povera serva in un’isola esoticheggiante chiamata Ocaña: ha la caratteristica di essere per metà iguana, una creatura mostruosa ma del tutto innocua. Il conte Daddo, milanese, salpa da Genova verso l’oceano,

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dove approda a uno scoglio misterioso in cui abita il marchese Guzman, che ha alle sue dipendenze quella creatura verdissima, una lucertola gigante vestita da donna della quale si invaghisce il conte. La vicenda si complica fino a precipitare in un caleidoscopio di visioni e nel suicidio della donna, trasformata in farfalla. Da dove proviene questa invenzione fantastica? Secondo una testimonianza della stessa scrittrice, dal suo immaginario fiabesco dell’infanzia quando fantasticava di un Drago Verde, figura perturbante ma anche misteriosamente salvifica, per alcuni identificabile con lo Scrittore, con l’Artista, ma che rappresenta pure «gli esseri umani dei Paesi non industrializzati», i più poveri tra i poveri. Autobiografia fantastica di un’”esiliata“ Nel 1975 Il porto di Toledo. Ricordi della vita irreale si presenta come una falsa autobiografia, o autobiografia fantastica, dopo che in Poveri ma semplici e nel Cappello piumato aveva raccontato in modo lineare eventi precisi della sua esistenza. In essa si ritrovano, con nomi diversi, tutte le persone che furono per lei importanti: attraverso gli occhi della tredicenne Damasa, che cammina per i vicoli di vento della sua città, e costruisce la propria identità raccontandola. La lingua, inclassificabile, si muove tra diario e lirica, per raccontare l’amore come conoscenza di sé, dichiarando esplicitamente il grande modello del prosimetro dantesco, la Vita nuova, e suscitando perciò un effetto spesso disorientante sui lettori. Basta scorrere questi titoli della narrativa di Ortese, basati su un’invenzione inverosimile e lievemente straniante – Napoli nella realtà è bagnata dal mare, mentre la città spagnola di Toledo non può evidentemente avere un porto (soltanto: via Toledo è la via principale di Napoli) – per capire la condizione di “esilio”, di assoluto spaesamento in cui la scrittrice si sentiva, e che genera una lingua esiliata, rovesciata. Spaesamento sia nei confronti dell’Italia di quegli anni, un Paese per lei degradato, “modernizzato” nel senso più deteriore, sia nei confronti della natura, percepita leopardianamente come inganno, come promessa non mantenuta di felicità (per lei Leopardi è stato perfino più grande di Dante). Diamole la parola: «La degradazione è la dea del momento. Si portano fiori agli altari della degradazione, ma viene chiamata dissacrazione, che è cosa più lieve. Tutto è dissacrato, o sta per esserlo. Il patrimonio ultramillenario di modi, di intese, simboli, è passato al macero. […] La nostra vita non ha più segnali che siano riconoscibili un istante dopo, o a un metro di distanza. […] Ed è questa vita, così deturpata, questo quotidiano maligno e triste, che io stento a riconoscere come il mio paese e la vita che si prospettava» (da Il corpo celeste, 1997). Successivamente Ortese pubblica Poveri ma semplici (1987, premio Strega), con il seguito del Cappello piumato due anni dopo, infine i due ultimi romanzi Il cardillo addolorato (1993), dove si racconta di tre signori del Nord Europa alla fine del Settecento che vanno a Napoli da un celebre guantaio, le cui bellissime figlie sono mute, e Alonso e i visionari (1996), nel quale si narra di un cucciolo di puma che viene portato dall’Arizona a Napoli, dopo la morte del suo piccolo amico Decio, mentre sullo sfondo si svolge una complicata vicenda che coinvolge anche la stagione terroristica del nostro Paese. Nel primo ritroviamo folletti, streghe, principi impazziti, fantasmi, e il cardillo, «piccolo tra i piccoli», indecifrabile, creatura spietata e inerme; nel secondo il puma è simbolo di grazia e dolcezza, contrapposto alla fredda logica della razionalità umana. Corpo celeste (1997) è infine un’opera-testamento, una raccolta di scritti diaristico-saggistici che disegnano nitidamente la poetica dell’autrice e la sua visione del mondo. Postumo invece Le piccole persone (2016) che testimonia l’intensa attività giornalistica e l’impegno etico-civile di Anna Maria Ortese: scritti in difesa di quelle “pic-

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cole creature”, assolutamente indifese, che sono gli animali, sfruttate e brutalizzate dall’uomo. Ne emerge una religione laica della fraternità con la natura, violentata dalla cultura arrogante della modernità. Una forte delusione La scrittrice, sempre schierata politicamente a sinistra, registra una prima forte delusione quando si trova a visitare l’Unione Sovietica come componente di una delegazione dell’Unione Donne Italiane, organizzazione femminile del PCI, e ne scrive, nel 1954, un minuscolo reportage, Il treno russo. Si tratta del racconto lirico-narrativo di un disincanto, della fine di un mito, e anche perciò venne duramente attaccato dai comunisti. Ma poi prenderà sempre più le distanze, sul piano ideale, da una concezione materialistica dell’esistenza: «il mondo non è materia: è Respiro, Sogno, Visione… non è di alcuno». Lo stesso Marx dopo aver svelato la “truffa” del capitalismo non riesce per lei a vedere l’altra “truffa”, la convinzione o pregiudizio che «il mondo sia materia». Da ciò e non da un precetto morale o da un imperativo categorico deriva la compassione: l’inappropriabilità del mondo, la dipendenza della condizione umana dall’ordine imperscrutabile della natura dovrebbero tradursi nella condivisione fraterna dello stesso destino, di precarietà e mortalità. È giusto parlare di “esigenza spirituale”, anche se il termine “spiritualità” risulta a sua volta compromesso: tutto sta nel capire che ci si pone decisamente oltre qualsiasi rozzo laicismo positivista, in direzione di una “trascendenza” che significa ricerca di un senso ulteriore, di un valore che non coincide con la mera sfilata dei giorni. Una posizione che spinse la Ortese verso un oltranzismo che potremmo definire “politico”, nell’accezione meno riduttiva del termine. Attraverso di lei si esprime un pensiero radicale – sul senso della nostra stessa civiltà – che invano si cercherebbe in filosofi e leader politici di quegli anni. Il legame con Elsa Morante Se ne trova un analogo in un’altra scrittrice, adorata e quasi mitizzata dalla Ortese: l’Elsa Morante degli Scritti pro e contro la guerra atomica, di metà anni Sessanta. Gli interventi raccolti in Le piccole persone (sulla condizione animale) sono ispirati a Lucrezio – lo stupore di fronte alla vanità della Storia – e Leopardi, contro ogni visione antropocentrica: da queste pagine emerge una scrittrice battagliera, piena di indignazione e di rabbia. Per lei il vero peccato originale è la nostra separazione dalla natura, che ci impedisce di riconoscere una parentela con le creature che non sono l’uomo, una comune «identità capace di patire e godere». «La natura è un «respiro grandioso», un «ritmo senza riposo, come quello del mare», e gli animali le appaiono come i nostri «amici senza parole», per i quali tuttavia predisponiamo la vita come un inferno. È in gioco un’intera civiltà, anche oltre l’animalismo: la pretesa di dominio assoluto, la logica mercantile, la centralità dispotica del denaro, con il “freddo” che provoca, come dice Ortese in un’intervista del 1996. La scrittrice dichiara di credere nella “bontà”, la quale «reggeva le stelle e dava vita ai pensieri buoni degli uomini», così scriveva in Poveri e semplici. Qualche anno prima Pasolini aveva messo a epigrafe del film Accattone il verso dantesco «per una lagrimetta ch’el mi toglie», ossia la protesta beffarda, rabbiosa del diavolo che perde il duello con l’angelo per la ragione che è certamente furbo e perfino «loico» però anche stupido poiché alla bontà non ci crede. Atmosfera neorealista e fiabesca Nella raccolta di racconti In sogno e in veglia (1987) in un’atmosfera neorealista e fiabesca che è la cifra dell’intera narrativa ortesiana, si aggira un “folletto” entro l’appartamento popolare di un rione misero di Genova. Stellino, questo il suo nome, alto come un bambino, con una peluria

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dorata-grigia e un buffo cappello a pois, implora una donna di non abbandonarlo, dopo che per tanto tempo ha pure allegrato la sua vita. Il suo lamento, straziante eppure innamorato della vita, evoca la purezza di un poeta provenzale. Chi è? Una creatura fantastica e goffa, aliena e benigna, una specie di E.T. venuto dal Sud, in cui si raccoglie “lo Spirito della vita”, e che verrà gettato nell’immondizia dal marito della donna. Imparentato con la “verdissima” Estrellita, la donna iguana, e la Damasa visionaria del Porto di Toledo, alla fine leggiamo che «i Folletti sulla Terra sono ancora tanti», mentre Stellino si trasforma in una allodola che sparisce tremando nel cielo azzurro. Un motivo ricorrente nella sua opera, dove un’iguana, un cardillo, un puma (il Cucciolo), i tanti folletti sofferenti, simboli di bontà e innocenza, sono – come le minuscole creature offese dalla Storia di Elsa Morante – altrettante figure di Cristo ucciso in croce, tradito, abbandonato. La rivolta del Sessantotto, di cui Il mondo salvato dei ragazzini di Elsa Morante volle essere il controcanto lirico-teatrale, sognava una rivoluzione che riscattasse proprio i folletti sofferenti, gli avanzi dell’umanità – anch’essi parte della vita, da “rispettare e tutelare” –, dunque non solo i proletari e gli “sfruttati” della vulgata marxista ma gli esseri puri e scartati. Il debito di Elena Ferrante Recentemente Elena Ferrante ha riconosciuto pubblicamente il debito nei confronti di Anna Maria Ortese, dichiarando di amare in particolare il suo racconto La città involontaria, discesa nella “città infima”, nella Napoli sotterranea e disperata in Il mare non bagna Napoli. Come è stato giustamente osservato Ortese riunisce in sé le due amiche della fortunata tetralogia ferrantiana (2011-2014): da un lato la “maga” Lila, geniale e chiaroveggente, dall’altro l’intellettuale e scrittrice affermata Elena (Adele Ricciotti). Tutte scoprono che fuori di Napoli il mondo non è tanto migliore. Perfino negli ambienti intellettuali e accademici Elena ritrova l’ipocrisia e la corruzione da cui era fuggita. Neppure la scrittura, la “buona lingua” può salvarci dal degrado generale, che ha cause più profonde, intrecciate con alcune caratteristiche della nostra specie: «solo qualche volta mi sento di appartenere alla specie umana» (Anna Maria Ortese, Corpo celeste).

4 Dacia Maraini

Dacia Maraini.

Scrittrice impegnata Dacia Maraini ha accompagnato la sua prolifica attività di scrittrice – esordì nei primi anni Sessanta – con quella di intellettuale “militante”, impegnata costantemente su temi civili e di rilievo pubblico: emancipazione femminile (intesa in una accezione ampia), impegno contro la guerra, protesta contro le condizioni dei detenuti, allargamento della sfera dei diritti. Tuttavia non può essere appiattita esclusivamente sul femminismo, una esperienza certo per lei fondamentale – basterebbe ricordare Il coraggio delle donne (2020) scritto con la giornalista Chiara Valentini –, ma non fino al punto di oscurare la varietà di umori e suggestioni che troviamo dietro la sua multiforme opera. Né il suo inesausto impegno civile, che deriva da una nobile tradizione intellettuale europea – si pensi in Francia al J’accuse (1898) di Zola a proposito del caso Dreyfus, ufficiale ebreo ingiustamente accusato di tradimento – può essere scambiato per smania presenzialista: anzi, come ha più La produzione narrativa femminile nel Novecento 3 773


volte dichiarato, la scrittrice ha perfino qualche resistenza ad apparire in pubblico e a essere fotografata. La sua opera narrativa parte cronologicamente tra il 1962 e il 1963, con il dittico narrativo della Vacanza e dell’Età del malessere che ancora oggi conserva tutta la freschezza e sensualità di scrittura di un’esordiente non ancora trentenne (il primo prefato da Alberto Moravia, che sarà suo marito per vent’anni); poi – accanto a inchieste, articoli, interventi e laboratori teatrali, all’insegna di un intenso engagement – il romanzo Memorie di una ladra (1972) che appassionò Pasolini per il sapiente lavoro su una lingua popolare d’antan, e apparentemente convenzionale; poi ancora Isolina – saggio e romanzo storico su una donna dei primi del Novecento messa incinta da un tenente degli alpini, in seguito uccisa e fatta sparire –; infine nel 1990 il fortunatissimo La lunga vita di Marianna Ucrìa, nel 1993 Bagheria e nel 2008 Il treno dell’ultima notte. Non vanno trascurate le raccolte di racconti, da Mio marito (1968) fino all’Amore rubato (2012), storie di violenza sulle donne, fisica e psicologica. La lunga vita di Marianna Ucrìa Il romanzo più popolare di Maraini resta La lunga vita di Marianna Ucrìa, che ha come protagonista la rampolla di una nobile famiglia palermitana del Settecento (un’antenata della scrittrice stessa), ragazza divenuta sordomuta dopo aver subito uno stupro a cinque anni, vittima della società patriarcale, ma con una sensibilità accentuata che le permette una naturale identificazione con tutte le vittime: «il silenzio si era impadronito di lei come una malattia o forse una vocazione». Costante dell’opera di Maraini è un confronto con lo “scandalo” della Storia umana, per parafrasare Elsa Morante, il cumulo di ingiustizie e soprusi che ne scandiscono la vicenda. Il treno dell’ultima notte Una giornalista ventiseienne riattraversa l’Europa nel 1956 per avere notizie di un suo compagno d’infanzia, il ribelle Emanuele, ebreo probabilmente finito in un Lager, e così si confronta ancora con il cuore di tenebra della nostra civiltà: da Auschwitz all’invasione sovietica dell’Ungheria avvenuta in quello stesso anno, tra bombardamenti e devastazioni. Bagheria Ma per accostarsi alla variegata opera di Maraini – che comprende anche poesia, drammaturgia, sceneggiature (molti film tratti dai suoi libri), saggi – si potrebbe cominciare da uno splendido memoir ambientato negli stessi luoghi del romanzo storico, Bagheria, perché ne compendia in modo esemplare le diverse vocazioni. Un libro affascinante e ipernarrativo, che si può associare a capolavori come Danubio di Claudio Magris o a Istanbul di Orhan Pamuk, un romanzo-reportage da lei definito “ondulatorio”, di ambiente siciliano e incentrato sull’infanzia, un racconto autobiografico quasi ripercorso in dormiveglia, per successive, lampeggianti visioni. Vi ritroviamo, al meglio, le qualità peculiari della scrittrice. Una finissima attitudine alla ritrattistica: «Gli occhi del nonno Enrico sono del tutto simili a quelli di mia madre, grandi e azzurri, un po’ persi e sognanti. Sono gli occhi di chi ha una tale consuetudine con i privilegi del suo mondo da essere arrivato a detestarli» (dove la psicologia si fonde con la sociologia). Anche, a proposito delle due sorelle: quella «dalla testa picciola e tornita, gli occhi a mandorla quasi cinesi nelle loro palpebre teneramente gonfie», e l’altra «dalle braccia rotondette, la pelle rossiccia tempestata di lentiggini». Torna qui la già citata dimensione sensuale e corporale: basterebbe la pagina sull’odore del padre, «odore di un uomo solitario. Insofferente di ogni legame», un odore di vecchie mele, di biancheria intima, di capelli scaldati dal sole, di scarpe vecchie e pane secco, di fiori macerati… Va inoltre

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registrato lo scatto dell’invenzione saggistica, come la scoperta adolescente della poesia: leggendo Emily Dickinson, e cercando di carpire «il segreto di quel ritmo di ballo lento, succoso, solenne ma anche bizzoso e imprevedibile» concluderà che «la poesia non era molto diversa da quei rompicapi di geometria» che all’inizio le lasciavano la bocca amara. Colpisce la documentazione minuziosa, di tipo antropologico, la storia politica e sociale di Bagheria, con la coraggiosa denuncia del potere mafioso e l’indicazione dei pochissimi comportamenti civicamente virtuosi; il racconto casto, di miracolosa leggerezza, del primo incontro – lei bambina – con il sesso, con le attenzioni invasive (prossime alla molestia) di un adulto («che avesse tra le mani il suo baco così morbido e indifeso fra le mie mani lo considerai allora un gesto di fiducia estrema di cui non potevo che inorgoglirmi»). Infine una ferita immedicabile, probabilmente all’origine della scrittura stessa: l’amore per il padre, «con uno struggimento doloroso come anticipando in cuor mio la distanza che poi ci avrebbe separati... immaginando la sua morte». Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza Della sua fitta produzione segnaliamo un altro testo ibrido, un po’ racconto, un po’ saggio, scritto in forma epistolare: Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza (2013). Maraini, intellettuale di formazione rigorosamente laica, esalta la ribellione coraggiosa di santa Chiara, una donna priva della parola, per ragioni storiche, dunque distante dall’autrice, da noi e dal nostro verbosissimo presente, la quale a un certo punto ha scelto, dopo un incontro con san Francesco, una povertà radicale e la “libertà” di non possedere. Ed ebbe coraggio perché questo significa per una donna pensare e scegliere con la propria testa. Maraini ha scritto tra l’altro una bella e partecipe introduzione a Ragione e sentimento di Jane Austen, riconoscendo al romanzo una “felicità mozartiana”. Nei romanzi di Austen vi è la centralità della passeggiata, della camminata delle protagoniste, in campagna, o nel parco delle ville. Un’invenzione poetica che permise alla scrittrice inglese di ritrovare quello spazio di libertà femminile, solitaria e intangibile, che riecheggia nelle pagine di Maraini. Le caratteristiche della scrittura Anche a partire dalla rilettura di Bagheria, ma senza trascurare il resto dell’opera narrativa, proviamo a sottolinearne due aspetti: un piglio illuminista e un’esperienza di solitudine. Anzitutto una tonalità emotiva singolarmente antisentimentale, contro qualsiasi cliché della “scrittura al femminile”, scrittura che coinciderebbe per qualche critico indolente con il cliché di una autocoscienza intimistica, rugiadosa. In un’occasione Paolo Milano parlò di «durezza», della capacità cioè di raccontare la pubertà «senza il velo di sentimenti». Perfino Marianna Ucrìa, ritratto di una giovane sordomuta, e antenata settecentesca della scrittrice riscoperta in un quadro a Bagheria, nella villa dei nobili Alliata del ramo materno, è immune da qualsiasi lacrimoso sentimentalismo, dalla retorica del patetico di tanti orfanelli di Dickens. In primo piano c’è sempre un’intelligenza emotivamente partecipe ma anche capace di temperato distacco, un’illuministica e inesausta voglia di capire, il puntiglio di decifrare l’enigma dell’esistenza. A proposito dei versi di Dacia Maraini, Cesare Garboli ha invece parlato di una solitudine percepita come «una fatalità e insieme una malattia inspiegabile», la «disperazione di essere ricondotti sempre a sé stessi». A questa solitudine la scrittrice ha cercato una qualche riparazione attraverso l’impegno civile a favore di nobili cause – la «gentile militanza» di cui parla Paolo Di Paolo, unico rimedio contro il fanatismo dell’ideologia –, l’adesione alla contestazione del Sessantotto e

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al femminismo, definito l’unica vera rivoluzione del secolo passato, la vocazione a schierarsi con gli umili e i più fragili, la ricerca di una comunità fraterna. Ma è come se un residuo di questa solitudine restasse lì, incombusto, non interamente formalizzabile, e ogni volta tornasse a motivare un nuovo libro. Con il padre aveva provato, in una involontaria “strategia” esistenziale, ad anticiparne con l’immaginazione la morte stessa, per attenuare la sofferenza. Forse di fronte a quella disperazione, serenamente e razionalmente accettata, il “distacco” – almeno apparente – della scrittura può servire a prevenire la sventura, il malheur connaturato alla condizione umana, per non farsene sopraffare del tutto. All’inizio di Bagheria, Maraini racconta del suo primo incontro con il mare, in Sicilia, dato che provenendo dal Giappone, dove il padre era stato internato per antifascismo, non ne aveva mai fatto esperienza: «ora facevo conoscenza con quel corpo materno e sfuggente, maligno e gentile che è il mare e me ne sarei innamorata per sempre». A questa natura, sempre leopardianamente «maligna e gentile», generosa e un poco infida, tornano forse ogni volta tutte le storie che raccontiamo. La grande festa Citiamo infine il denso romanzo autobiografico La grande festa (2011), meditazione sulla morte in forma di “esercizio spirituale”, così come lo intendevano gli antichi stoici ed epicurei, e dialogo continuo con i propri morti, che ci sono sorprendentemente vicini, come nelle cosmogonie africane: siamo costantemente incuriositi dal “paese dei morti”, perché ospita i nostri cari e perché prima o poi ci ospiterà. I ritratti delle persone amate, la sorella Yuki e il giovane compagno prematuramente scomparso Giuseppe Moretti anzitutto, poi Moravia, Maria Callas, Pasolini, le figure famigliari, sono vibranti, capaci di riassumere in un solo gesto, in una postura, l’intero loro destino (ad esempio nella voce di Yuki percepisce qualcosa di festoso e insieme di malinconico). Ci mostrano involontariamente come la principale funzione della letteratura – e un diario come questo appartiene alla letteratura esattamente come un romanzo – è di sottrarre all’oblio e all’insignificanza le persone, di ricordarle e trattenerle ancora per un attimo.

EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

Il coraggio di Artemisia ripercorso dalla scrittrice Anna Banti Personalità complessa e poliedrica, Lucia Lopresti, in arte Anna Banti, nata a Firenze nel 1895 e morta a Ronchi di Massa nel 1985, sfugge a ogni tentativo di definizione. Instancabile poligrafa, è una figura straordinaria tout court: ha vestito i panni della storica dell’arte, della scrittrice, della critica letteraria, teatrale, cinematografica e della traduttrice. A partire dal 1950 svolge anche un importante ruolo culturale, fondando, insieme al marito Roberto Longhi, grande storico dell’arte, la rivista Paragone, di cui cura la sezione letteraria. Donna dal forte carattere, dopo il matrimonio matura una decisione importante: abbandonare la storia dell’arte per dedicarsi alla letteratura. «Consideravo la critica la cosa più nobile che uno potesse esercitare […]» spiegò. «L’abbandonai quando capii che avrei fatto della critica d’arte di secondo piano. Avevo sposato Longhi e non potevo permettermelo. Volevo essere io, autonoma». Una rinuncia sofferta,

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

per non vivere in eterno da seconda all’ombra del marito; così nasce Anna Banti, alla fama certa preferisce uno pseudonimo, un’identità altra, quella «che mascherandosi crea, e solo creando si sottrae a due prigioni: quella dell’origine e quella del matrimonio». Banti è stata autrice di sette raccolte di racconti, di nove romanzi e di numerosi interventi saggistici. Fin dai suoi esordi, le sue opere si connotano per un tema specifico: una costante attenzione rivolta alla condizione della donna nella società e una raffinata analisi psicologica dei suoi personaggi. La sua raccolta di racconti più conosciuta si intitola non a caso Il coraggio delle donne e il suo romanzo più noto, Artemisia, pubblicato nel 1947, ripercorre la vicenda di uno stupro subito da una ragazza giovanissima. La narrazione si snoda attraverso il filtro della storia, modalità a lei consona; l’ambientazione nel passato si configura come un modo diverso e più efficace di raccontare il

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presente, una sorta di dialogo-racconto, in cui la voce della protagonista, una pittrice seicentesca, si intreccia con quella dell’autrice. La stessa Anna Banti, nella dedica al lettore, presenta la sua eroina così: «Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi». La figura della pittrice oggi è nota, ma è stata la Banti a riscoprirla per prima e a proporla al grande pubblico dopo secoli di oblio. In breve la vicenda: Artemisia Gentileschi è figlia del pittore pisano Orazio, unica femmina, prima di tre fratelli. Vive a Roma all’epoca di Caravaggio, comincia giovanissima ad aiutare il padre mostrando da subito un precoce talento. All’età di 17 anni subisce la violenza di Agostino Tassi, pittore di vedute amico del padre, che la tacita con una vana promessa di matrimonio riparatore. Il padre finalmente si decide a denunciare lo stupratore; lo scandalo del processo, di cui sono conservati gli atti, e che la pittrice affronta coraggiosamente, segna il suo destino. Maritata da Orazio a un suo debitore, Artemisia si trasferirà

a Firenze, da dove avrà inizio la sua carriera straordinaria, che la porterà a lavorare per importantissimi committenti a Napoli, Parigi e Londra. È una donna che reagisce alla violenza subita e affronta la sfida dell’emancipazione, prova ad amare ma infine deve accettare la solitudine. Artemisia viene tratteggiata come una donna troppo diversa da qualsiasi moglie e madre dell’epoca, troppo indipendente e troppo libera, che si trova a dover conciliare, con fatica, la maternità con la professione, come succede ancora oggi dopo più di quattrocento anni. Il romanzo si configura come un tributo alla potenza creativa dell’arte, la storia di una donna raccontata da una donna che in lei si identifica e si riconosce. Un passaggio cruciale Ecco il racconto della violenza subita nel dialogo immaginario tra la scrittrice e la pittrice, ricostruito sulla base degli atti del processo. Artemisia lo affronta all’età di 18 anni con straordinaria determinazione e dignità; subisce un’umiliante visita ginecologica delle ostetriche e la “tortura della Sibilla”, consistente nello stringere con funi le dita fino a farle sanguinare, messa in atto per verificare l’attendibilità della sua deposizione. Durante la tortura ha il coraggio di guardare in viso il suo carnefice e gridare: «Questo è l’anello che tu mi dai, queste le promesse».

«Dalla finestra di Corte Savella1 vampe di caldo, mosche, guaiti e litigi dei mendicanti in istrada per i rifiuti della minestra dei carcerati. Accanto avevo il lezzo2 dei due birri3, colle corde e i legni della tortura ancora in mano. Uno era pietoso, gli lagrimava un occhio. Sapevo anche, senza guardarlo, che la mascella di Agostino 5 tremava. Non m’importava di sposarlo e neppure di essere disonorata, come dicevano. Fu allora che raccontai tutto quello che era successo, tutto: per filo e per segno...» Debbo aiutarla, stanca più di lei4. «Non al secondo, ma al primo esame raccontasti ogni cosa. Tuo padre, che aveva scritta la denunzia nella prima collera partì per Frascati, non ti voleva vedere. Eri in mano dei vicini, dei piagnoni Stiat10 tesi, di madonna Tuzia mezzana, di Cosimo furiere5: chi ti suggeriva una cosa, chi un’altra, tu volesti fare a modo tuo come in confessione.» Mi beve le parole di bocca, assente con la testa. «Eravamo soli in sala. Madonna Tuzia batteva il tagliere in cucina. Dissi, ho la febbre, lasciatemi stare. Disse, ho più febbre di voi; e mi prese per mano, volle che andassimo avanti e indietro passeggiando: l’uscio della mia 15 camera era aperto. Mi tenne a forza sul letto con le pugna e coi denti, ma io avevo visto sulla cassa il coltellino di Francesco6, mi allungai, lo agguantai, e menavo di sotto in su, tagliandomi la palma.» 1 Corte Savella: il carcere a Roma dove si tenne il processo. 2 lezzo: il cattivo odore.

3 birri: agenti di polizia. 4 Debbo aiutarla, stanca più di lei: la scrittrice aiuta la pittrice nel racconto.

5 piagnoni Stiattesi… furiere: sono personaggi che ruotano attorno alla vicenda. 6 Francesco: uno dei fratelli di Artemisia.

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EDUCAZIONE CIVICA

La narrazione di quanto è avvenuto Il testo presenta la narrazione dello stupro attraverso una climax crescente: dalla descrizione del contesto degradato fuori dell’ambiente in cui si svolge il processo e della tortura subita, rievocata mediante l’odore disgustoso degli sbirri, alla mascella del violentatore che trema perché sa che Artemisia non fermerà la corsa della sua deposizione. Infatti, benché consumata dal ricordare, incoraggiata dalla scrittrice, la protagonista, d’un fiato “come in confessione”, ci presenta fotogramma dopo fotogramma i momenti della sopraffazione: il sottrarsi di lei, la smania di lui, la camminata che precede il gettarla e bloccarla sul letto. A nulla valgono i tentativi di ribellione di lei. Parità di genere La scelta coraggiosa della scrittrice Anna Banti è stata quella di imperniare un romanzo su un processo

pubblico, avvenuto in un’età in cui denunciare di aver subìto violenza da parte di una donna aveva un prezzo altissimo, e cioè l’esser segnati da una lettera scarlatta, e vedere la propria dignità equiparata a una somma di denaro. Coraggiosa, ancora, se pensiamo che la mentalità non era diversa nel 1947, quando il romanzo viene pubblicato. La tragicissima vicenda umana denunciata è purtroppo quanto mai attuale. La fierezza della protagonista nel rivendicare il diritto all’inviolabilità della propria persona ce la rende vicina e ci aiuta a riflettere su temi importanti della nostra epoca, come quello della parità di genere. Tale diritto è inserito nell’Agenda 2030, ed è l’obiettivo n. 5: eliminare ogni forma di violenza nei confronti di donne e bambine, sia nella sfera privata che in quella pubblica, compresi il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale e di ogni altro tipo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

1. Quali aspetti denunciano lo squallore dell’ambiente in cui avviene la deposizione di Artemisia? 2. La figura della ragazza violata giganteggia sui personaggi che la circondano: quali sentimenti traspaiono sui volti dei suoi carnefici e del suo stupratore? 3. Esamina la rapidità e l’incalzare delle azioni che segnano la violenza attraverso il succedersi dei tempi verbali.

Interpretare

4. Con l’aiuto dell’insegnante esaminate il cosiddetto “codice rosso”, la legge 69/2019 che tutela le vittime di violenza domestica e di genere. 5. Ricercate informazioni riguardo i centri antiviolenza in Italia: quando sono sorti e l’attività di tutela e supporto alle donne che svolgono.

Fissare i concetti Elsa Morante e la produzione narrativa femminile nel Novecento Elsa Morante 1. Quando e con quale opera la Morante approda al romanzo? 2. Qual è la sua concezione del mondo? 3. Di che cosa tratta il romanzo Menzogna e sortilegio? 4. A che genere appartiene il romanzo L’isola di Arturo? 5. Quale sottotitolo pone l’autrice al romanzo La Storia? Quale messaggio vuole trasmettere? 6. Quale merito ebbe il romanzo La Storia nell’epoca dell’impegno? Natalia Ginzburg 7. Di che cosa tratta il romanzo Aracoeli? 8. Quando viene pubblicato Lessico famigliare della Ginzburg? 9. Si può dire che in Lessico famigliare si possa individuare un modello educativo? 10. Qual è la struttura narrativa di Caro Michele della Ginzburg? Come spieghi la scelta dell’autrice? 11. Quali problemi della famiglia emergono in Caro Michele della Ginzburg? Lalla Romano 12. Per quali ragioni il rapporto tra madre e figlio descritto nel romanzo della Romano Le parole tra noi leggère è problematico? Anna Maria Ortese 13. Quando arriva il consenso del pubblico per Anna Maria Ortese? 14. Come si caratterizza la scrittura di Ortese? 15. Come si colloca l’opera di Ortese all’interno della nostra letteratura contemporanea? Dacia Maraini 16. Qual è il romanzo più popolare di Dacia Maraini e di che cosa parla? 17. Quali caratteristiche presenta Bagheria? 18. Quale legame intercorre tra Dacia Maraini ed Elsa Morante?

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Il Novecento Duecento e Trecento (Prima parte) La letteratura Elsa Morante ecortese la produzione nella Francia feudalenel Novecento narrativa femminile

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autrice

Realismo morantiano e ruolo della letteratura Elsa Morante, probabilmente la maggiore scrittrice italiana del Novecento, ha costruito romanzi imponenti, in cui si intrecciano la descrizione naturalistica e la componente fantastica, l’attenzione al dettaglio quotidiano e l’influsso del mito. La realtà per Morante consiste nella totalità dell’esistenza umana, fatta di esperienza concreta e di sogno, di serietà morale e di gioco, di comico e di tragico: una continua dialettica di opposti che nella vita non trova vera conciliazione: è la letteratura a offrirci un’immagine intera e rappresentativa del reale, dosando razionalità e immaginazione. La contrapposizione morale è soprattutto tra reale e irreale: chi si comporta male proietta se stesso in una dimensione di irrealtà, dato che la realtà è fatta di relazione con gli altri. Opere e stile Menzogna e sortilegio (pubblicato nel 1948) è un romanzo familiare in cui la narratrice ripercorre l’album delle figure parentali. Nel 1957 ebbe grande successo il romanzo di formazione L’isola di Arturo. Nel 1968 Morante pubblica Il mondo salvato dai ragazzini, sorta di “manifesto” del Sessantotto. Nel 1974 esce il romanzo La Storia, ambientato a Roma durante la Seconda guerra mondiale. L’ultimo romanzo di Morante è Aracoeli (1982), segnato da una visione molto pessimista della società. L’opera di Morante offre una continua sperimentazione che mescola stili e generi. I grandi modelli ottocenteschi sono riprodotti immettendo in essi un’inquietudine novecentesca. La scrittrice, attraverso una lingua media e però mai banale, si rivolge a tutti i lettori, colti e meno colti.

2 Un lungo capitolo della storia italiana del Novecento

L’isola di Arturo: formazione e disincanto Arturo è un ragazzo dell’isola di Procida, orfano di madre. Il romanzo delinea la sua progressiva educazione sentimentale e la sua “iniziazione alla vita”, che passano attraverso un tormentato sentimento per la matrigna e la smitizzazione della figura del padre. La Storia: l’eterno scandalo e il dolore dei più deboli Narrando le vicende di Ida, Useppe e degli altri personaggi, Morante innalza la sua protesta contro la Storia dei grandi e dei potenti, in difesa degli umili e delle vittime. L’opera divise la critica ma ebbe il merito di risvegliare il bisogno di narrativa in Italia, dopo che il Sessantotto si era alimentato quasi solo di saggi. Calvino riconosce alla Storia due caratteri che confluiranno nella sensibilità postmoderna: la “completezza da enciclopedia” in tutte le digressioni dalla storia principale e un “eclettismo stilistico”.

3 La produzione narrativa femminile del Novecento

Natalia Ginzburg L’interesse all’esplorazione della dimensione privata e delle dinamiche familiari è il filo conduttore della narrativa di Natalia Ginzburg, in particolare nelle opere Lessico famigliare (1963) e Caro Michele (1977). La prima è la rievocazione di un mondo ormai

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 779


finito; ma la rappresentazione della Ginzburg non è idealizzata: non manca una prospettiva ironica o umoristica. Lalla Romano Nel romanzo di Lalla Romano Le parole tra noi leggère (1969) è analizzato il difficile rapporto tra una madre (la scrittrice stessa) e un figlio dall’enigmatica personalità all’interno di una famiglia borghese apparentemente normale. Il libro Romano ha un’istanza analitica: ha origine dalla volontà di capire le ragioni del disagio del figlio. Anna Maria Ortese In opere come Il porto di Toledo. Ricordi della vita irreale (1975) e altri romanzi e racconti, Anna Maria Ortese ha saputo incrociare un’originale vena fantasticosurreale con la sensibilità verso gli umili e le creature minori. Dacia Maraini Autrice in particolare di La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) e di Bagheria (1993), Dacia Maraini ha accompagnato la sua prolifica attività di scrittrice con quella di intellettuale “militante”, impegnata su temi civili e di rilievo pubblico: emancipazione femminile, rifiuto della guerra, allargamento della sfera dei diritti.

Zona Competenze Competenza digitale

Rintraccia nel romanzo La Storia tutti gli eventi storici che fanno da sfondo. Elabora un PowerPoint attraverso il quale ripercorri gli eventi ed esponili alla classe.

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Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

15 La letteratura postmoderna

La categoria concettuale del postmoderno nasce nel Nord America negli anni Settanta, mente in Italia si diffonde negli anni Ottanta. Il termine postmoderno implica l’idea di una frattura sostanziale rispetto al modernismo novecentesco: una frattura caratterizzata dalla compromissione con la cultura di massa e con il Kitsch (ne è un esempio la pop art di Andy Warhol che rielabora immagini e icone della cultura di massa), e dall’accoglimento di elementi provenienti da epoche diverse in un’eclettica combinazione. Ibridismo e ambiguità appaiono elementi fondamentali della visione estetica postmoderna.

1 Letteratura e postmoderno:

precursori e modelli

2 Ilinpostmoderno Italia Eco 3 Umberto e Il nome della rosa Bufalino 4 Gesualdo e Le menzogne della notte Tabucchi: 5 Antonio la vita come “rebus” 781


1

Letteratura e postmoderno: precursori e modelli Una premessa Nel Nord America si incomincia a parlare di postmoderno fin dagli anni Settanta, mentre in Italia questa categoria concettuale ed estetica si diffonde negli anni Ottanta. È opportuno distinguere tra “postmoderno” come insieme di caratteristiche che riguardano, anche a livello di costume, gli ultimi decenni del Novecento e “postmodernismo”, da intendersi come una particolare visione dell’arte propria dell’età contemporanea (che può interessare l’architettura, l’arte figurativa, la letteratura). È d’altra parte ovvio che vi siano inevitabili connessioni tra il modello socio-culturale e antropologico postmoderno e le manifestazioni artistico-letterarie che vi si iscrivono. In precedenza abbiamo fatto riferimento alle più generali componenti ideologiche del postmoderno, sintetizzabili nella sfiducia generalizzata nelle ideologie politiche, nelle grandi “narrazioni filosofiche”, nella perdita di autorevolezza di istituzioni come la scuola, la famiglia, i partiti, tradizionali produttori di ideologie forti, nella globalizzazione dell’economia e della conoscenza, nel pluralismo e nel relativismo. Qui ci limiteremo agli aspetti del postmoderno che interessano propriamente il modo di fare letteratura, riferendoci agli autori e alle opere che in qualche modo possono essere definiti “postmoderni” anche senza che vi sia da parte degli scrittori una consapevole adesione a una poetica “postmodernista”. Occorre inoltre dire che non è possibile fissare un termine preciso alla tendenza postmoderna: pur in presenza di nuove coordinate socio-culturali, componenti postmoderne sussistono infatti anche in opere e autori degli anni Novanta e oltre. La narrazione postmoderna negli Usa In ambito letterario sono per primi gli Stati Uniti, dove si erano ormai affermati da decenni il tardo capitalismo, la cultura di massa, una civiltà ipertecnologica e fondata sull’informazione, a dar vita a una ricca produzione narrativa postmoderna: essa è caratterizzata dal pastiche stilistico, dal gusto del citazionismo, dalla mescolanza di generi, dalla complicazione degli intrecci (spesso vi domina l’intrigo, il complotto, anche in rapporto a una visione particolarmente negativa del Potere). Figura centrale della narrativa postmoderna statunitense è Thomas Pynchon (n. 1937), il cui complesso romanzo L’arcobaleno della gravità (1973), ambientato in Inghilterra negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, è considerato il manifesto del postmodernismo (ma significativo è anche Vineland, del 1989, in cui viene parodizzata la società di massa). Un altro scrittore importante è Don De Lillo (n. 1936), di cui ricordiamo, tra le altre opere, Rumore bianco (1985), un apologo sulla civiltà ipertecnologica. Un grande precursore: Borges Precursore di molti aspetti postmoderni è lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986 ➜ C7), la cui influenza è ben riconoscibile in romanzi italiani dichiaratamente postmoderni, dal Nome della rosa di Umberto Eco (➜ D1a T3 ) alle Città invisibili e soprattutto al Castello dei destini incrociati di Calvino (➜ C20). Nei racconti dello scrittore argentino, estremamente raffinati e intellettualistici, ricorrono l’infrazione delle coordinate spazio-temporali, lo scambio realtà-finzione, i continui ed esibiti rimandi all’intertestualità, la riscrittura sofisticata, tutti aspetti che caratterizzano la let-

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teratura postmoderna. Centrale nell’immaginario di Borges è il labirinto, vero e proprio emblema della visione conoscitiva del postmoderno. Nelle ultime pagine delle sue Lezioni americane Calvino, sottolineando la sua predilezione per Borges, ne definisce sinteticamente proprio le qualità postmoderne, tra cui la capacità di adottare per tematiche altamente filosofiche, in particolare la riflessione sul tempo, forme collaudate di narrazione, come il racconto di spionaggio: tale si presenta ad esempio a prima vista il celebre racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano (1956). Il romanzo combinatorio di Georges Perec Un altro autore, questa volta europeo, che viene esaltato nelle stesse pagine da Calvino per la sua capacità di creare una struttura narrativa combinatoria è Georges Perec (1936-1982), il maggior esponente del sofisticato gruppo dell’Oulipo). La sua opera più importante, pubblicata nel 1978, è La vita: istruzioni per l’uso (La vie mode d’emploi), definita da Calvino una «nuova “commedia umana”» (dopo quella, celebre, di Balzac). Il poderoso romanzo di Perec è stato tradotto in italiano nel 1984. La vita: istruzioni per l’uso, dedicato a Raymond Queneau, fondatore dell’Oulipo, è una sorta di “romanzo di romanzi” (Calvino ne ha parlato come di un «iperromanzo»): ogni capitolo è infatti la descrizione metodica di una delle stanze (in tutto ne vengono descritte 99) di uno stabile parigino di dieci piani e da dieci stanze per piano e, insieme, degli oggetti (catalogati secondo complessi e obbligati schemi matematici) che rimandano alla vita e ai rapporti con gli altri inquilini di chi vi abita o vi ha abitato, in una commistione continua di passato e presente (l’arco di tempo considerato dalla narrazione è tra il 1875 e il 1975). Gigantesco puzzle Di fatto le singole narrazioni (che si richiamano, quasi in una sorta di “enciclopedia”, a diverse tipologie narrative: poliziesco, storico ecc.), sono interdipendenti e organizzate obbligatoriamente attorno al luogo che le unifica (appunto il palazzo parigino), così che il romanzo finisce per essere una sorta di gigantesco puzzle (e il tema del puzzle, non a caso, è centrale anche a livello della trama, in particolare nella storia di Percival Bartlebooth). Al di sotto della storia, che può sembrare soltanto bizzarra, c’è una riflessione amara sull’impossibilità di sfuggire all’arbitrarietà insensata della vita, ma il romanzo è anche un’immagine metaforica della letteratura e del suo significato in un’epoca postmoderna. La trama Principale storia (➜ T1 OL) è quella di Percival Bartlebooth, un eccentrico e ricco inglese, che, dopo aver imparato per dieci anni l’arte dell’acquerello dal pittore Valène, per i vent’anni successivi gira il mondo con il suo fidato maggiordomo con un programma specifico e meticoloso che in qualche modo dia un senso alla sua vita: arrivare a dipingere 500 acquerelli di porti di mare. Gli acquerelli vengono spediti, via via che sono realizzati (esattamente ogni quindici giorni), all’abilissimo artigiano Gaspard Winckler (anche lui un inquilino del palazzo), che ne deve ricavare altrettanti complicati puzzle (di ben 750 pezzi ognuno), dopo averli incollati su legno. Bartlebooth, ritornato in Francia, si impegna a ricomporre i puzzle (uno ogni quindici giorni nell’ordine esatto della loro creazione) per poi farli riportare uno per uno (una volta staccati dal loro supporto e ricomposti) nel luogo in cui erano state dipinte le marine. Infine, ogni singolo foglio avrebbe doonline vuto essere immerso in una soluzione solvente che avrebbe T1 Georges Perec dissolto l’immagine. Bartlebooth però non riesce a portare a Gli strani viaggi di Bartlebooth e Smauf La vita: istruzioni per l’uso, cap. XV termine la sua impresa. Letteratura e postmoderno: precursori e modelli 1 783


PER APPROFONDIRE

L’Oulipo e la letteratura potenziale Georges Perec è stato uno dei principali esponenti del gruppo dell’Oulipo (sigla da Ouvroir de Littérature Potentielle, “Officina di letteratura potenziale”), fondato nel 1960 a Parigi da Raymond Queneau (1903-1976) e ispirato a un’originale sperimentazione. Queneau aveva già dato un saggio della sua poetica innovativa negli Esercizi di stile (1947) “riscritti” nel 1983 da Eco, che ebbero una certa influenza anche sulla letteratura italiana (in particolare su Calvino). In essi un banale fatto di vita quotidiana è narrato in 99 modi diversi, come avviene nelle “variazioni su tema” musicali (Queneau disse infatti di essere stato stimolato a scrivere il libro proprio dall’ascolto dell’Arte della fuga di Bach). Nell’Oulipo – a cui aderirono tra gli altri il maestro del surrealismo Marcel Duchamp e Italo Calvino, che allora già viveva a Parigi – la letteratura è vista come campo sperimentale, le cui potenzialità devono ancora essere esplorate (da qui il termine “letteratura potenziale”). L’idea fondamentale che ispira la sperimentazione dell’Oulipo è che la creatività e la fantasia possano essere stimolate dalla “costrizione” (in francese si parla di letteratura sous contraintes), cioè da norme vincolanti che l’autore accetta di rispettare, come ad esempio scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera. In alcuni casi l’adozione di questa prospettiva porta a soluzioni iperintellettualistiche fini a sé stesse, ma certo l’Oulipo contribuì a diffondere il gusto per una letteratura che sia disposta a sottoporsi a regole razionali prestabilite, evitando i canali obbligati dell’espressione di emozioni e sentimenti, una letteratura che sia combinazione originale di strutture narrative. Alcune opere di Calvino si richiamano espressamente ai princìpi dell’Oulipo: in particolare Il castello dei destini incrociati (1973 ➜ C20 T3 ) e soprattutto Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979 ➜ C20), un romanzo fatto di dieci inizi di romanzi diversi. Vicini alla prospettiva dell’Oulipo sono inoltre scrittori come Giorgio Manganelli (del 1979 è Centuria, «cento romanzi fiume» ➜ C12, che non a caso, presentato da Calvino, ha grande successo in Francia); Umberto Eco, autore a sua volta di divertenti giochi linguistici; e Guido Almansi, che si è prodotto in virtuosistiche riscritture, poesie rovesciate, variazioni di stile (Maramao, 1989). “Oulipiano”, in senso lato, è il celebre libro di Ersilia Zamponi destinato a giovanissimi lettori I draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole (1986).

Centuria Nello stesso anno (1979) in cui Calvino pubblica Se una notte d’inverno un viaggiatore esce Centuria, una raccolta di «cento piccoli romanzi fiume» come la definisce l’autore, Giorgio Manganelli: l’ossimoro evidentemente ironico allude al fatto che ogni microromanzo (ognuno di circa una cinquantina di righe) che compone il libro è in un certo senso il progetto di quello che potrebbe diventare un “romanzo-fiume”. Ogni “romanzo” è dedicato a un “caso” in genere surreale, di cui l’autore non indaga le ragioni psicologiche, limitandosi a una asettica comunicazione di dati. In un’intervista sull’«Avanti!» dell’8 aprile 1979 Manganelli racconta come è nato il libro: «Avevo per caso molti fogli da macchina leggermente più grandi del normale, e mi è venuta

la tentazione di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio: è un po’ il mito del sonetto, cioè di una struttura rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve necessariamente misurarsi. Ma il fascino è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti obbliga all’essenziale, che ti costringe a combattere contro l’espansione incontrollata. Insomma, credo che se non avessi avuto quei fogli non sarei riuscito a scrivere questo libro». Tradotto e pubblicato in Francia nel 1985 con una prefazione di Calvino, che ne rimase entusiasta, il libro riscosse molto successo tra il pubblico francese. La cosa non stupisce data l’evidente concordanza con le esperienze che in quegli stessi anni erano portate avanti dall’Oulipo.

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2 Il postmoderno in Italia La crisi delle ideologie e dell’impegno politico Nella letteratura italiana aspetti postmoderni, e in particolare la contaminazione di generi e linguaggi, si possono riscontrare già prima degli anni Ottanta: ad esempio nel romanzo-fiume di Arbasino Fratelli d’Italia (è del 1963 la prima edizione ➜ C12) o Hilarotragoedia di Manganelli (➜ C12). Ma è dagli anni Ottanta che i caratteri propri del postmoderno si radicano e si diffondono nella cultura letteraria italiana, anche in rapporto alla crisi delle ideologie e dell’impegno politico che caratterizza quel periodo. Essi sono particolarmente evidenti nella narrativa e soprattutto nel romanzo. Cercheremo qui di schematizzarli affiancando alla tipologia indicata le scelte di lettura. La rinuncia alla funzione ideologica del romanzo Il romanzo perde una fondamentale prerogativa che aveva mantenuto anche nella crisi conoscitiva ed etica del primo Novecento: la funzione di trasmettere dei messaggi forti (che magari potevano essere problematici, o addirittura negativi). Rispetto alla neoavanguardia, la funzione sociale della letteratura si indebolisce ulteriormente e viene meno anche la sua funzione propriamente conoscitiva, perché si percepisce che o non c’è un significato nella condizione umana o ce ne sono diversi e contraddittori. Come la vita, anche la storia non solo non ha nulla da insegnare ma risulta un inestricabile labirinto persino per gli osservatori più acuti e culturalmente attrezzati (come Guglielmo da Baskerville, il monaco-detective del Nome della rosa ➜ T3 ). Questa sostanziale rinuncia del romanzo a farsi “lettura del mondo” e magari proposta di una “contro-verità”, come era stato inteso da Pirandello, è espressione e conseguenza dell’ideologia debole propria del postmoderno (➜ SCENARI, PAG. 620). L’ambiguità, l’enigmaticità L’enigmaticità è la cifra prevalente in molti romanzi e racconti, che si configurano espressamente come “opere aperte”: è il caso dei racconti di Tabucchi (➜ T5 ) e di un romanzo che per più aspetti è definibile come postmoderno: Le menzogne della notte di Bufalino (➜ T4 ), in cui i confini tra verità e bugia sono particolarmente labili, e persino l’identità personale si sfalda in frammenti incomponibili. La dissoluzione dell’io che scrive Nella narrativa postmoderna tende spesso a scomparire la fisionomia dell’autore che possiamo intravedere tra le righe di un’opera (la sua identità biografica, la sua visione del mondo, anche politica). Nella pagina conclusiva della quinta e ultima (dal titolo Molteplicità) delle sue Lezioni americane, Calvino scrive in proposito parole illuminanti. Dopo aver elogiato il «romanzo come grande rete», di cui le sue stesse ultime opere sono esempio paradigmatico, aggiunge: «Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».

Il postmoderno in Italia

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L’ibridismo delle forme narrative e dei codici I generi o sottogeneri romanzeschi tendono a dissolversi del tutto, ma più facilmente a essere impiegati come modelli aperti, intrecciati in una commistione di forme narrative e relativi codici. Lo si constata facilmente in uno dei generi più illustri, il romanzo storico, che trova una nuova fortuna: anche quando sembra di trovarci di fronte a un romanzo storico canonico, in realtà è facile verificare la presenza di un ibridismo di codici letterari e forme narrative. È così ad esempio nel Nome della rosa (➜ T3 ), che mescola romanzo storico, filosofico, giallo; o nelle Menzogne della notte (➜ T4 ) di Bufalino, apparente rivisitazione del romanzo storico avventuroso ottocentesco, ma in realtà, come lo definisce l’autore stesso, «giallo filosofico».

Lessico metaletterario Che riguarda la metaletteratura, intendendo in tal modo una letteratura intesa come fonte da cui attingere elementi di contenuto da rimaneggiare e utilizzare in vario modo. La metaletteratura è autoreferenziale in quanto si concentra sui processi della scrittura più che sulla narrazione.

“Letteraturizzazione” della vita, metaletteratura, citazionismo, riscritture Forse l’aspetto che più identifica la letteratura postmoderna in relazione alla crisi delle ideo­logie è la tendenza a fare della letteratura la vera realtà: all’interesse per il mondo e i suoi problemi tende a sostituirsi l’universo fittizio della letteratura, volutamente deprivato di vita, di passioni, di emozioni ed esplorato nei suoi meccanismi. Non è un caso che personaggi letterari compaiano di frequente nel tessuto dei romanzi moderni: in Requiem di Tabucchi, ad esempio, il poeta Pessoa è un personaggio, il romanzo Tutto il ferro della Torre Eiffel di Michele Mari (n. 1955) pullula di figure e oggetti appartenenti alla letteratura (➜ D1b ). La diffusione (e la moda culturale) della narratologia negli anni Settanta porta gli scrittori a una sofisticata consapevolezza dei meccanismi narrativi che conferisce a molti romanzi e racconti caratteri metaletterari a volte anche troppo cerebrali e autoreferenziali: sono editi entrambi nel 1979 Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino (➜ C20), metaromanzo, costituito da dieci inizi che corrispondono ad altrettanti modi di avviare un romanzo; e Centuria di Manganelli (PER APPROFONDIRE, Centuria PAG. 785), cento microromanzi, ognuno dei quali racconta “un caso” in uno spazio obbligato (circa una cinquantina di righe). La convinzione che tutto sia già stato detto e scritto porta a un altro aspetto tipico della letteratura postmoderna: il gusto della citazione, con costanti rimandi intertestuali (più o meno esibiti e decifrabili). Lo si ritrova in Eco, in Tabucchi, ma anche nei narratori “giovani”, a partire da Tondelli. Frequenti sono poi le riscritture di opere precedenti. Già alla fine degli anni Settanta escono nello stesso anno due riscritture di Pinocchio, a opera di letterati che avevano fatto parte del Gruppo 63: Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) e Malerba (Pinocchio con gli stivali). La tendenza continua: Alessandro Baricco (n. 1958) riscrive alcune scene ed episodi dell’Iliade in un mondo senza dèi (Iliade, 2004); Emilio Tadini (1927-2002) ripensa La tempesta shakespeariana (La tempesta, 1993) ambientandola nella periferia milanese: l’isola incantata del capolavoro teatrale diventa una catapecchia; Prospero, il protagonista, diventa un ex commerciante di stracci che sta per essere sfrattato dalla polizia. Frequente è poi la riscrittura di una vicenda resa celebre dalla letteratura da un altro punto di vista (come nel racconto di Tabucchi ➜ T5 ): in Vissi d’arte (1992), ispirato al celebre melodramma pucciniano Tosca, Paola Capriolo (n. 1962) riscrive la vicenda dal punto di vista del perfido barone Scarpia, di cui si immagina che venga ritrovato un diario segreto. A sua volta, Malerba in Itaca per sempre (1997) riscrive il mito di Ulisse dalla parte di Penelope: diversamente dal testo omerico, immagina che la sposa fedele fin dall’inizio abbia riconosciuto il suo sposo e che, ferita dal suo silenzio, finga ostinatamente di non riconoscerlo.

786 Il Novecento (Seconda parte) 15 La letteratura postmoderna


Recupero-reinvenzione della storia A differenza delle avanguardie il postmoderno non nega il valore del passato né intende creare una netta frattura con esso, ma anzi lo recupera con interesse, come dimostra il gran numero di romanzi che vengono definiti neostorici (➜ PER APPROFONDIRE, I romanzi neostorici). Tuttavia, spesso non c’è una vera discesa nelle profondità della storia (lo impedisce un sostanziale scetticismo). La storia è concepita come insieme di materiali, «grande serbatoio culturale di immagini da consumare», come scrive Remo Ceserani. Materiali che sono sottoposti a procedimenti di combinazione, reinvenzione e riscrittura (che può anche essere ironica). La rinuncia all’individualità dello stile, il pastiche In genere, nella cultura letteraria del postmoderno vanno perdendosi le cifre stilistiche individuali e si tende ad assimilare in modo onnivoro, a rielaborare e contaminare gli stili altrui in forme diverse di pastiche (a volte con finalità parodiche). Pier Vittorio Tondelli (19551991 ➜ C22), in quegli anni considerato fra i più interessanti dei giovani scrittori, apre la strada alla tendenza, poi presente in altri giovani autori che ne seguirono il modello, ad accogliere e contaminare i linguaggi del cinema, della televisione e soprattutto della musica, codice di riferimento prediletto dalle nuove generazioni. Stanno a sé le scelte degli scrittori siciliani (come Consolo e Bufalino), il cui stile neobarocco, aulico e prezioso, decisamente controcorrente, è frutto di una precisa scelta: la resistenza alla banalizzazione linguistica, alla “chiacchiera” propria della postmodernità. Una scelta linguistica in linea con la rigorosa coscienza etica che ispira le opere dei due scrittori siciliani.

PER APPROFONDIRE

La concezione estetica postmoderna traspare in questo dipinto in cui l’autore – il pittore e scrittore milanese Emilio Tadini (1927-2002) – combina in chiave ironica elementi di epoche, stili e provenienze diverse. Accanto a due citazioni colte (la pittura metafisica di De Chirico e quella suprematista di Malevič), affianca una maschera simile a quelle usate dai saldatori.

I romanzi neostorici Il successo mondiale del Nome della rosa (1980) dà inizio negli anni Ottanta a un vero e proprio boom, destinato a protrarsi nel tempo (anche perché spinto dalle case editrici), del romanzo storico, o forse meglio sarebbe dire “neostorico”, dato che i nuovi romanzi storici degli anni Ottanta-Novanta ben poco hanno a che vedere con il modello ottocentesco (si tratta comunque di romanzi ibridi, in cui varie tipologie narrative sono fuse, secondo i caratteri propri del postmoderno). Le epoche in cui i romanzi sono ambientati possono essere le più diverse: il Medioevo bizantino per Il fuoco sacro di Malerba (1990), il Seicento per La chimera (1990) di Vassalli, il Settecento per La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) di Dacia Maraini, l’epoca napoleonica per Le strade di polvere (1987) di Rosetta Loy, l’età risorgimentale per I fuochi del Basento (1987) di Raffaele Nigro, per citare solo alcuni dei molti romanzi di questo filone.

La diffusione del sottogenere neostorico, che conquista il gusto dei lettori, può essere spiegata in un contesto storico-culturale caratterizzato dalla fine delle illusioni e delle ideologie, dalla crisi del romanzo come strumento capace di interpretare un presente destituito di valore. Si guarda allora alla storia passata, in alcuni casi, per cercarvi figure importanti, eventi capitali, o per lo meno significativi senza che all’autore sia richiesta una assunzione di responsabilità ideologica. Ciò non vale certo per un autore come Vincenzo Consolo, autore già nel 1976 di un romanzo neostorico: Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato al tempo dello sbarco in Sicilia di Garibaldi, negli stessi anni del Gattopardo (➜ C9). Ma, a differenza dell’opera di Tomasi, il romanzo neostorico è inteso da Consolo come severa testimonianza civile, ricerca di verità, in una prospettiva opposta al romanzo di consumo. A una concezione alta della letteratura risponde anche la sua ricerca linguistica sperimentale.

Il postmoderno in Italia

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Cos’è il postmoderno? Due definizioni “d’autore”

D1

Abbiamo accostato due passi che, in modo diverso – e in tempi diversi –, focalizzano in modo efficace il concetto di postmoderno: il primo è estratto dalle Postille al Nome della rosa che Umberto Eco scrive cinque anni dopo l’uscita (1980) del romanzo. Il secondo passo è posto in apertura del romanzo di Michele Mari Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002).

Umberto Eco

Un esempio illuminante

D1a

Postille al Nome della rosa L’inserimento delle Postille al Nome della rosa, in appendice al romanzo, offre la possibilità a Umberto Eco di riflettere sul postmoderno.

U. Eco, Postille al Nome della rosa, Bompiani, Milano 1985

La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente1. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle 5 “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala2. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca 10 di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia... Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore. […] 1 non innocente: non ingenuo, cioè consapevole.

2 Liala: pseudonimo di Amalia Liana Cambiasi Negretti Odescalchi (1897-1995),

autrice di romanzi rosa di straordinario successo.

Concetti chiave In questo passo Eco individua come elementi costitutivi del postmoderno (a cui lui stesso ascrive Il nome della rosa) la consapevolezza che ogni linguaggio rimanda ad altri linguaggi e la rivisitazione necessariamente ironica del passato (che Eco stesso compie in modo sofisticato nel suo best seller).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che differenza istituisce Eco tra “moderno” e “postmoderno”? ANALISI 2. Che cosa significa l’espressione «non si può più parlare in modo innocente»? Che cosa implica quella che Eco chiama “innocenza”?

Interpretare

SCRITTURA 3. Umberto Eco invita il lettore ad avvicinarsi al passato con una nuova chiave interpretativa. Pensi che questo approccio sia possibile solo per il lettore colto o che le opere postmoderne di carattere neostorico possano essere fruite anche dal lettore ingenuo? Per rispondere, puoi fare riferimento all’approfondimento sui vari livelli di lettura del Nome della rosa (PER APPROFONDIRE, La pianificazione di vari livelli di lettura e il successo del romanzo PAG. 794). Scrivi le tue opinioni in un testo argomentativo di massimo 15 righe.

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Michele Mari

D1b

La madeleine di plastica Tutto il ferro della Torre Eiffel

M. Mari, Tutto il ferro della Torre Eiffel, Einaudi, Torino 2002

Il passo è collocato in apertura al romanzo Tutto il ferro della Torre Eiffel. Il testo è in corsivo e, attraverso questa scelta, l’autore ne segnala la rilevanza: da un lato funge da introduzione a un romanzo che si fonda tutto sulla letteratura, dall’altro ha un valore esemplare anche autonomo, in rapporto al tema dell’arte e della letteratura nel clima ideologico del postmoderno e nell’epoca della sua “riproducibilità tecnica” (a cui fa riferimento il celebre saggio di Walter Benjamin, introdotto appunto come personaggio nel romanzo). A suo modo, il breve testo costituisce insieme un racconto postmoderno e un racconto “sul” postmoderno.

Combray non si chiama Combray ma Illiers1: oggi però i cartelli stradali e le guide lo designano per Illiers-Combray. Quivi, un museo intitolato a Marcel Proust: otto sale di prime edizioni, fotografie, calamai, flaconi di pastiglie per l’asma2, giacche da camera, fazzoletti cifrati, canne da passeggio3, ricco materiale tuttavia svalutato dalla sua stessa 5 collocazione, che distendendosi dalla seconda all’ultima sala lo fa successivo all’unico oggetto presente nella prima sala, in una teca di plexiglas cm 35x20x25: la madeleine4. Nei primi anni del museo la madeleine era di autentica frolla: ad essa provvedeva il custode, che ogni lunedí mattina apriva la teca, rimuoveva il biscotto e lo sostituiva con uno fresco. Cosa poi il custode facesse del vecchio non è dato sapere: è verosimile 10 lo mangiasse, non per questo deducendone alla crassità dei suoi lobi illuminazioni mnemoniche5. La sostituzione settimanale della madeleine era dovuta alla sua impossibilità di indurirsi seccando: anzi come porosa e burrosa l’instabile pasta tendeva a disgregarsi perdendo dopo una dozzina di giorni uno spolviglio di forfora rancia, cui si aggiungevano piú cospicui frammenti se qualcuno urtasse la teca. Il direttore del museo 15 aveva chiesto al pasticcere di mettere piú burro nell’impasto, ma l’esito non era stato buono: concotto6 dal calore degli interni faretti, quel sovrappiú di manteca7 allargava ben presto nella superficie spugnosa della madeleine fiori brunastri che le davano un incongruo aspetto leopardato: quando non evocassero la sofferenza della foglia di vite arrugginita dalla peronòspora8. A non dir delle camole e dei piccoli vermi che, a di20 spetto di ogni ermetismo9, nascevano spontaneamente nella pasta rafferma: uscendone poi per darsi all’avventurosa esplorazione del loro tabernacolo-mondo10, come a irridere ancora, i putrigeniti, alle positive dimostrazioni di Spallanzani e Pasteur11. 1 Combray... Illiers: nella Recherche Proust (1871-1922) dà il nome fittizio di Combray a Illiers, cittadina nella regione del centro della Francia, ora denominata Illiers-Combray. 2 flaconi... asma: Marcel soffriva di una grave forma d’asma. 3 fazzoletti… passeggio: altri oggetti legati alle sue abitudini, i fazzoletti con le cifre o il monogramma e i bastoni di canna di bambù alla moda del tempo. 4 la madeleine: piccolo dolce, tipico del comune di Commercy, nella Lorena, dalla particolare forma a conchiglia (per gli stampi in cui i biscotti sono infornati). La madeleine è diventata un dolce-simbolo grazie al celeberrimo episodio del primo libro della

Recherche, in cui il narratore, inzuppando uno di questi biscotti nel tè, sente riaffiorare dentro di sé, grazie alla “memoria involontaria”, le immagini dell’infanzia, e un intero universo di sensazioni, persone, oggetti del passato (➜VOL 3A C16 T2 ). 5 non per questo... mnemoniche: commento scopertamente ironico: il fatto di mangiare la madeleine non conferisce di per sé al cervello grossolano («alla crassità dei suoi lobi») del custode la capacità di provare le stesse “illuminazioni memoriali” provate dall’io narrante dell’opera di Proust. 6 concotto: cotto ulteriormente. 7 manteca: impasto cremoso composto con burro o panna.

8 peronòspora: specie di funghi parassiti dannosi per alcune piante coltivate.

9 a dispetto… ermetismo: nonostante l’ermetica chiusura della teca. 10 tabernacolo-mondo: si tratta delle teca di plexiglass che ha una sorta di valore sacrale in quanto custodisce la celebre madeleine e per i vermi è il mondo intero da esplorare. 11 come a irridere... Pasteur: come se i vermi generati dalla putrefazione (i putrigeniti) volessero farsi beffa delle acquisizioni scientifiche nell’ambito dei processi biologici (Lazzaro Spallanzani [1729-1799] è il fondatore della biologia moderna, e Louis Pasteur [1822-1895] un pioniere nello studio dei microrganismi e nella cura di infezioni).

Il postmoderno in Italia

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Cosí il custode sostituiva, e continuò a sostituire fino al giorno in cui andò in pensione. Quello stesso giorno il direttore si trovò ad affrontare un problema sindacale. 25 Il nuovo custode fece notare che il proprio mansionario non prevedeva quella speciale corvée12, e che se proprio si doveva, gli fosse pagata a parte. Uomo puntiglioso, il direttore non volle sottostare: onde, dopo aver lasciato invecchiare quell’ultima madeleine ben oltre i limiti tollerabili, elaborò la soluzione che vige tuttora. Fu cosí che, commissionata a un laboratorio di giocattoli di Rouen, venne acquisita al museo una madeleine di plastica: un’imitazione perfetta, non fosse per il segno della saldatura 30 12 speciale corvée: mansione lavoratifra le due valve della conchiglia-biscotto: secondo infallibile legge del PVC13. va non ordinaria. Tu la vedi, questa cosa, e ridi: ma è un pianto; e dici: se la letteratura genera questo, è 13 PVC: sigla con cui è conosciuto il questo, la letteratura. Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenpolivinilcloruro, un da dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma tipo di termoplastica di largo impiego. 35 di letteratura, cosí, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto.

Concetti chiave Un libro sulla letteratura e i suoi “feticci” Tutto il ferro della Torre Eiffel è un libro sofisticato, una lettura impegnativa: solo addetti ai lavori possono cogliere e apprezzare le continue citazioni o allusioni, tipicamente postmoderne, a opere letterarie e figure (reali e fantastiche) che con la letteratura hanno in vario modo a che fare (come Céline, SaintExupéry, Klaus Mann, il figlio di Thomas Mann). Il personaggio centrale è lo studioso Walter Benjamin (1892-1940), che il romanzo immagina nel 1936 nei suoi celebri vagabondaggi per Parigi (Parigi, capitale del XIX secolo); cui si aggiungono lo storico Marc Bloch (1886-1944), che indaga su personaggi morti suicidi, e il grande critico Erich Auerbach (1892-1957), l’autore di Mimesis, fondamentale saggio sul realismo occidentale. Al profetico saggio di Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936-37, che nel romanzo si immagina egli abbia appena concluso), fa indiretta allusione il brano proposto: centrale è in esso l’idea che l’opera d’arte, in un tempo – quello della cultura di massa – in cui è possibile riprodurla attraverso le conquiste della tecnologia (dalla fotografia alla televisione, al cinema, alla radio e oggi ai mezzi digitali 3D) possa essere fruita anche dalla massa e in condizioni e situazioni personali (nella propria camera anziché in un museo). Inevitabilmente l’arte, diventando “copia”, ha perduto però l’aura di sacralità connessa alla sua unicità e irripetibilità. L’arte può diventare feticcio, come appunto la famosa madeleine proustiana riprodotta in PVC ed esposta nella teca di plexiglass (ma nel romanzo circolano altri feticci, come il vaso con i “fiori del male” di Baudelaire…).

La dissacrazione di un’icona e il discorso metaletterario Una vera e propria icona, tra i più celebri e nominati oggetti-simbolo della letteratura di ogni tempo, cioè la madeleine, viene sottoposta alla dissacrante ironia di Mari: il biscotto, chiuso nella teca, irrancidisce, muffisce, produce addirittura dei vermi che passeggiano nel tabernacolo (significativo l’uso di un termine che appartiene all’area del sacro), alla fine si trasforma in oggetto-merce di plastica. La metamorfosi della madeleine, a un secondo grado, diventa metafora della sorte della letteratura una volta perduto lo spirito che la sacralizza, e una volta “contaminata” con il mondo della cultura di massa e consumistica: un destino, sembra dire l’autore, che va ben oltre le previsioni di Benjamin.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

online T2 Giorgio Manganelli Un microromanzo Centuria, Cinque

COMPRENSIONE 1. Perché, secondo Mari, l’arte può diventare un feticcio? SCRITTURA 2. Nell’introduzione al testo si è detto che esso può essere interpretato a un tempo come “racconto postmoderno” e come “racconto sul postmoderno”. Prova a spiegare perché (max 10 righe).

online

Per approfondire Giorgio Manganelli

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3 Umberto Eco e Il nome della rosa Umberto Eco, un intellettuale eclettico Umberto Eco (1932-2016) è uno degli intellettuali e scrittori italiani più conosciuti a livello internazionale soprattutto per il successo mondiale del romanzo Il nome della rosa (1980). Personalità eclettica, Eco è stato professore di semiotica all’Università di Bologna presso il DAMS, ha collaborato per molti anni con il quotidiano «la Repubblica» e con il settimanale «L’Espresso», mostrando sempre un’attenzione critica al costume contemporaneo e alle dinamiche della società di massa. Ne sono derivati vari scritti: tra i più importanti Diario minimo (1963), che contiene la celebre satira del “fenomeno Mike Bongiorno” (seguito nel 1990 dal Secondo diario minimo), Dalla periferia dell’impero (1973), Sugli specchi e altri saggi (1985) fino al più recente A passo di gambero (2006). Ha fatto parte del Gruppo 63, contribuendo al dibattito della neoavanguardia (nel 1962 aveva scritto Opera aperta, dedicato a un’analisi dei linguaggi sperimentali e delle ideologie dell’avanguardia). Lo studioso di semiotica e narratologia L’attività di romanziere che ha dato la fama a Eco non può essere compresa senza far riferimento ai suoi interessi e ai suoi studi nel campo della semiotica e della filosofia del linguaggio (Trattato di semiotica generale, 1975; Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984), e soprattutto nell’ambito narratologico, a cui ha dedicato saggi di grande rilevanza a partire dalla fine degli anni Settanta: allo strutturalismo si richiama Le forme del contenuto (1971), a cui segue Lector in fabula (1979), in cui Eco analizza il ruolo determinante del lettore nella costruzione del senso di un’opera letteraria. Il romanziere Nel 1980 Eco pubblica il suo primo e più celebre romanzo, Il nome della rosa, che diventa presto un best seller mondiale, tradotto in moltissime lingue ed esaltato soprattutto dalla critica straniera; a questo primo seguono altri romanzi che però non ne replicano il successo. Il pendolo di Foucault (1988) riprende la struttura del “giallo”, ambientato però nel presente. In esso tre redattori di una casa editrice, lavorando al computer, cercano di smascherare il progetto criminale di una setta che si prefigge di dominare il mondo e le cui radici risalgono all’ordine medievale dei Templari. Il terzo romanzo, L’isola del giorno prima (1994), è ambientato nel Seicento. Il protagonista Roberto de la Grive naufraga vicinissimo a un’isola che però (a differenza del Robinson di Defoe) non può raggiungere perché non sa nuotare. «L’isola è collocata proprio sul 180° meridiano, che divide in due la Terra e segna la linea del cambiamento di data: luogo utopico e mitico, è il punto in cui il “prima” diventa “dopo”, il “qui” coincide con l’“altrove”» (Cannella). Tra il 2000 e il 2004 escono due nuovi romanzi: Baudolino (2000), nel quale Eco torna al prediletto Medioevo con una serie di avventure picaresche che hanno per protagonista un contadino, appunto Baudolino, che viene adottato dall’imperatore Federico Barbarossa; e La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), sorta di romanzo multimediale che prende le mosse dalla perdita di memoria di sé di un libraio antiquario, colpito da ictus. Del 2010 è Il cimitero di Praga. Nel 2015 Eco è tornato alla ribalta con Numero zero, ambientato nel 1992, in piena Tangentopoli, in cui affronta i problemi attuali della comunicazione giornalistica. Postuma è Umberto Eco e Il nome della rosa 3 791


uscita una raccolta delle sue “Bustine di Minerva”, pubblicate su «l’Espresso» fra il 2000 e il 2015, dal titolo dantesco di Pape Satàn Aleppe. Il nome della rosa: un romanzo postmoderno “costruito a tavolino” Il romanzo di Eco è considerato il primo esempio in Italia dell’esplicita volontà di costruire un romanzo postmoderno. Di postmoderno del resto (e delle relative categorie estetiche e narrative) parla lo stesso Eco nelle Postille scritte nel 1983 (➜ D1a ) e annesse a tutte le edizioni del romanzo successive alla prima. L’ambientazione spazio-temporale Le vicende si svolgono nel tardo Medioevo e precisamente nel 1327, al tempo del dilagare dei movimenti ereticali e del contrasto fra l’imperatore Ludovico il Bavaro e il papa avignonese Giovanni XXII. Il luogo è un’abbazia benedettina, non meglio precisata, del Nord Italia. L’intera azione dura sette giorni, ognuno dei quali scandito dalle sette ore liturgiche della regola benedettina (da mattutino a compieta). La trama L’autore finge di aver ritrovato nel 1968 la versione francese di un manoscritto del XIV secolo in cui un monaco benedettino ormai vecchio, Adso da Melk, narra le fosche vicende di cui è stato testimone cinquant’anni prima. All’abbazia Adso, allora giovane novizio, giunge con il dotto francescano Guglielmo da Baskerville, incaricato di mediare i contrasti fra l’ordine francescano e il papa. Nell’abbazia si è appena verificata la morte misteriosa di un monaco miniatore e l’Abate incarica Guglielmo di indagare. Al primo seguono altri cinque delitti, compreso quello del bibliotecario Malachia, avvelenato come già un altro monaco, e alla fine dell’Abate stesso. L’inquisitore Bernardo Gui individua negli “eretici” Remigio e Salvatore i responsabili. Intanto le indagini di Guglielmo si concentrano su una sezione inaccessibile della labirintica biblioteca dell’abbazia. Dopo essere riusciti a penetrarvi, Guglielmo e Adso trovano ad attenderli Jorge da Burgos. I delitti sono in realtà opera di questo vecchio monaco, intenzionato a impedire a chiunque la lettura del secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia e al riso, che si considerava perduto, ma di cui un preziosissimo esemplare era conservato nella biblioteca dell’abbazia. La lettura del libro era considerata, dall’intransigente fanatismo di Jorge, pericolosa: grazie all’autorità di Aristotele il comico avrebbe infatti trovato piena legittimità e a tutti sarebbe stato consentito di irridere, di dissacrare attraverso l’arte. È per questo che ha cosparso di veleno le pagine del manoscritto uccidendo quelli che avevano cercato di nascosto di leggerlo. Scoperto, Jorge cerca di inghiottire i fogli avvelenati, strappati dal libro. Nel tentativo disperato di Guglielmo e Adso di impedirglielo, si sviluppa un incendio. Non solo il libro proibito, ma l’intera biblioteca e l’abbazia sono divorate dal fuoco. La rivisitazione della storia Con la competenza che gli deriva dall’essere uno studioso del Medioevo, Eco ricostruisce nel romanzo i conflitti politico-religiosi che dilaniarono la società tardo-medievale, le principali tendenze del sapere del tempo (l’enciclopedismo e l’allegorismo), i temi centrali del dibattito filosofico e teologico. La rivisitazione storica tiene comunque d’occhio un presente angoscioso: eresie, fanatismi, millenarismo apocalittico del Medioevo si confrontano indirettamente nel romanzo di Eco con le nuove testimonianze di fanatismo irrazionale che caratterizzavano in Italia gli anni di piombo. L’abilità combinatoria Nel Nome della rosa sono mescolati generi narrativi “alti” e “bassi”: dal romanzo giallo-poliziesco (Eco è grande conoscitore della narrativa poliziesca, da Conan Doyle a Ian Fleming) al romanzo gotico (con gli ingredienti

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canonici degli enigmi e degli omicidi in un ambiente chiuso, isolato, cupo e misterioso), al romanzo storico e filosofico. Eco mescola citazioni vere e false, attribuisce a personaggi medievali frasi appartenenti a epoche differenti, come nel caso di un giudizio del filosofo del Novecento Ludwig Wittgenstein, che alla fine dell’avventura Guglielmo pronuncia attribuendolo a un mistico tedesco. La contaminazione riguarda anche il livello stilistico-lessicale: in una lingua di base piana, quasi giornalistica, Eco innesta passi didascalico-sentenziosi, dotte citazioni latine e così via. Una prova di virtuosismo è il pastiche linguistico usato per il personaggio dell’eretico Salvatore: in una vera e propria «mescolanza babelica» (Pischedda), Eco fonde parlata veneta, inserti di antico francese, provenzale, latino involgarito, come in questo esempio: «Vide quando draco venturus est a rodegarla l’anima tua! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todos le peccata!...». L’intertestualità Nell’opera domina un continuo rimando (sia diretto, attraverso la citazione vera e propria, sia mimetizzato) ad altri libri, ad altri testi, non solo medievali, che affollano la ricchissima “enciclopedia” dell’erudito professor Eco. I nomi stessi di alcuni personaggi spesso sono riferimenti ad altre figure della cultura e/o della letteratura, a cominciare dal personaggio chiave del romanzo: nel nome del dotto francescano Guglielmo da Baskerville si fonde infatti il riferimento a Guglielmo da Occam, importante filosofo medievale, di cui il personaggio ha la ferrea logica, e il titolo di una celebre opera di Arthur Conan Doyle (1859-1930), ovvero Il mastino dei Baskerville. Lo stesso ritratto fisico di Guglielmo riecheggia da vicino il ritratto di Sherlock Holmes che Conan Doyle fa nel secondo capitolo di Uno studio in rosso. Del resto, Guglielmo in ogni senso è una sorta di “Sherlock Holmes del Medioevo”, ha un inequivocabile humour britannico, e il suo rapporto con Adso, il giovane monaco che lo accompagna, riproduce il rapporto tra Sherlock Holmes e Watson (a cui anche fonicamente rimanda il nome Adso). L’antagonista di Guglielmo, il vecchio monaco che custodisce i segreti della biblioteca-labirinto dell’abbazia, è cieco e si chiama Jorge da Burgos. Impossibile non pensare a uno dei modelli della letteratura postmoderna, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges e a uno dei suoi racconti più noti: La biblioteca di Babele (ma Jorge, nel suo fanatismo, è l’esatta antitesi dello scrittore argentino). Un’ideologia “debole” Il nome della rosa può documentare lo spirito postmoderno anche per quanto riguarda il messaggio ideologico che traspare dal complesso dell’opera, soprattutto in rapporto a Guglielmo, protagonista dell’“inchiesta”: tra i pensatori medievali egli si richiama soprattutto a Occam, tradizionalmente considerato scettico dissolutore della Scolastica. Nelle pagine conclusive del romanzo Guglielmo appare addirittura una figura postmoderna: lo scetticismo, ai limiti del nichilismo, che enuncia alla fine della vicenda, è infatti proprio di tempi da “pensiero debole” (➜ SCENARI, PAG. 620), come quello a cui appartiene Eco. Specchio forse del suo autore, Guglielmo esce sconfitto dalla “sfida al labirinto”: la conoscenza umana è limitata e fallace, all’uomo rimane solo l’esercizio intellettualistico e autoreferenziale della decifrazione dei “segni”, in cui Guglielmo-Eco è maestro, anche se gli rimane oscura la relazione tra di essi. «Dove sta tutta la mia saggezza?» confessa alla fine Guglielmo al suo discepolo. «Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere che non vi è un ordine nell’universo.» Umberto Eco e Il nome della rosa 3 793


Un titolo enigmatico Il suggestivo ed enigmatico titolo del romanzo, scelto per colpire e incuriosire il lettore, è tratto dall’esametro latino che lo chiude: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», cioè “La rosa originaria esiste solo nel nome, noi uomini possediamo solo i nomi delle cose” (in altre parole: esiste la rosa “in sé”? Non lo sappiamo, conosciamo solo il “nome”). Come Eco stesso dichiara nelle Postille, è tratto da un verso di un De contemptu mundi [Il disprezzo del mondo] di un benedettino del XII secolo, Bernardo Morliacense. Il senso della citazione si collega alla visione scettica e postmoderna che percorre il romanzo: tutto svanisce nel nulla, soltanto i nomi delle cose restano a testimoniarne l’esistenza. Ma forse anche la realtà delle cose è inattingibile: il linguaggio che cerca di definirla è tutto ciò che abbiamo, ma è comunque diverso e lontano dalla realtà.

PER APPROFONDIRE

Il nome della rosa GENERE

romanzo “neostorico” postmoderno, con mescolanza di vari generi narrativi

DATA DI PUBBLICAZIONE

1980

CONTESTO STORICO

tardo Medioevo

CONTENUTO

strani delitti che accadono in un’abbazia, con sullo sfondo i conflitti politico-religiosi che dilaniarono la società tardo-medievale

La pianificazione di vari livelli di lettura e il successo del romanzo Caratterizza l’autore del Nome della rosa una competenza narratologica particolarmente sofisticata, che si traduce nella pianificazione oculata del “lettore modello” della sua opera attraverso la messa in atto di precise strategie testuali. Nel saggio Lector in fabula, contemporaneo al Nome della rosa, Eco definisce il “lettore modello” come un lettore capace di decifrare in modo corretto la strategia creativa dell’autore. A proposito del romanzo dichiara nelle Postille: «Che lettore modello avevo in mente mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco». È il lettore colto, in grado di cogliere fin da subito l’allusione del titolo dell’Introduzione al romanzo: «Naturalmente, un manoscritto...» (che ammicca innanzitutto ai Promessi sposi), un lettore che trarrà particolare piacere dalla decifrazione dei rimandi colti disseminati nella narrazione.

Ma, secondo Eco, l’autore può iscrivere nel testo molteplici lettori modello, ognuno dei quali dispone di diversa competenza anche culturale e diversa abilità interpretativa. Il testo configurerà quindi differenti piste di lettura in cui l’una non esclude l’altra: è quanto Eco realizza in modo magistrale nel Nome della rosa, e questa raffinata strategia compositiva non è stata certo irrilevante nello straordinario successo del romanzo. Come scrive un attento interprete dell’opera: «Chi privilegerà il racconto giallo e chi il discorso storico; chi cercherà rapporti con la contemporaneità politico-sociale e chi si impegnerà nel riconoscimento delle fitte citazioni di cui il romanzo è intessuto. Fino ad arrivare a una sorta di lettore ideale, dotato di tutte le competenze necessarie e perciò in grado di valorizzare appieno il testo che gli sta di fronte» (Pischedda).

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Umberto Eco

T3

La biblioteca-labirinto Il nome della rosa

U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980

I due brani appartengono alla seconda delle giornate in cui è scandita l’azione del romanzo, e rispettivamente al momento che segue la recita liturgica dei vespri e alla notte. Il narratore (come in tutto il romanzo) è Adso, che scrive degli accadimenti molti anni dopo, ormai anziano. Nel primo passo Guglielmo parla con un vecchissimo monaco che suggerisce l’analogia tra la biblioteca, in cui si annida il mistero “nero” dell’abbazia, e l’immagine del labirinto. Nel secondo Adso e Guglielmo penetrano nella biblioteca e, nonostante le lucidissime teorizzazioni di Guglielmo sulla pianta di questa, si smarriscono “come secondo copione”.

Secondo giorno DOPO VESPRI Dove, malgrado il capitolo sia breve, il vegliardo Alinardo dice cose assai interessanti sul labirinto e sul modo di entrarvi. […] Prima di entrare in refettorio, facemmo ancora una piccola passeggiata nel chiostro, per dissolvere i fumi del sonno all’aria fredda della sera. Vi si aggiravano ancora alcuni monaci in meditazione. Nel giardino prospiciente il chiostro scorgemmo il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata, che ormai imbecille1 nel corpo, trascorreva 5 gran parte della propria giornata tra le piante, quando non era a pregare in chiesa. Sembrava non sentire freddo, e sedeva lungo la parte esterna del porticato. Guglielmo gli rivolse alcune parole di saluto e il vecchio parve lieto che qualcuno si intrattenesse con lui. “Giornata serena,” disse Guglielmo. 10 “Per grazia di Dio,” rispose il vecchio. “Serena nel cielo, ma scura in terra. Conoscevate bene Venanzio2?” “Venanzio chi?” disse il vecchio. Poi una luce si accese nei suoi occhi. “Ah, il ragazzo morto. La bestia si aggira per l’abbazia...” “Quale bestia?” 15 “La grande bestia che viene dal mare... Sette teste e dieci corna e sulle corna dieci diademi e sulle teste tre nomi di bestemmia. La bestia che pare un leopardo, coi piedi come quelli dell’orso e la bocca come quella del leone3... Io l’ho vista.” “Dove l’avete vista? In biblioteca?” “Biblioteca? Perché? Sono anni che non vado più nello scriptorium4 e non ho mai 20 visto la biblioteca. Nessuno va in biblioteca. Io conobbi coloro che salivano alla biblioteca...” “Chi, Malachia, Berengario5?” “Oh no...” il vecchio rise con voce chioccia6. “Prima. Il bibliotecario che venne prima di Malachia, tanti anni fa...” 1 imbecille: infermo, malandato (latinismo). 2 Venanzio: è il giovane monaco trovato annegato in una tinozza piena del sangue dei maiali sgozzati (si tratta del secondo omicidio avvenuto nell’abbazia).

3 La grande bestia... del leone: la descrizione di Alinardo ricalca da vicino un passo dell’Apocalisse (13, 1-2), il testo profetico di Giovanni che ebbe particolare fortuna nel Medioevo. La bestia è figura di Satana, del male.

4 scriptorium: il luogo in cui i monaci amanuensi copiavano i testi antichi.

5 Malachia, Berengario: il primo è l’attuale bibliotecario, il secondo l’aiuto bibliotecario. 6 chioccia: stridula.

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“Chi era?” “Non mi ricordo, è morto, quando Malachia era ancora giovane. E quello che venne prima del maestro di Malachia ed era aiuto bibliotecario giovane quando io ero giovane... Ma nella biblioteca io non misi mai piede. Labirinto...” “La biblioteca è un labirinto?” 30 “Hunc mundum tipice laberinthus denotat ille7”, recitò assorto il vegliardo. “Intranti largus, redeunti sed nimis artus8. La biblioteca è un gran labirinto, segno del labirinto del mondo. Entri e non sai se ne uscirai. Non bisogna violare le colonne d’Ercole9...”. “Quindi non sapete come si entra nella biblioteca quando le porte dell’Edificio sono 35 chiuse?” “Oh sì,” rise il vecchio, “molti lo sanno. Passi per l’ossario. Puoi passare per l’ossario, ma non vuoi passare per l’ossario. I monaci morti vegliano.” “Sono quelli i monaci morti che vegliano, non quelli che si aggirano di notte con un lume per la biblioteca?” 40 “Con un lume?” Il vecchio parve stupito. “Non ho mai sentito questa storia. I monaci morti stanno nell’ossario, le ossa calano a poco a poco dal cimitero e si radunano lì a custodire il passaggio. Non hai mai visto l’altare della cappella che reca all’ossario?” “È la terza a sinistra dopo il transetto, è vero?” 45 “La terza? Forse. È quella con la pietra dell’altare scolpita con mille scheletri. Il quarto teschio a destra, spingi negli occhi10... E sei nell’ossario. Ma non ci vai, io non ci sono mai andato. L’Abate non vuole.” 25

Secondo giorno NOTTE Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni e, come accade nei labirinti, ci si perde. Rimontammo allo scriptorium, questa volta per la scala orientale, che saliva anche al piano proibito, il lume alto davanti a noi. Io pensavo alle parole di Alinardo sul 50 labirinto e mi attendevo cose spaventevoli. Fui sorpreso, come emergemmo nel luogo in cui non avremmo dovuto entrare, di trovarmi in una sala a sette lati, non molto ampia, priva di finestre, in cui regnava, come del resto in tutto il piano, un forte odore di stantio o di muffa. Nulla di terrificante. La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colon55 nine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio11 numerato e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch’esso ripieno di libri. Su tutti i

7 Hunc... ille: “il labirinto della biblioteca allude (allegoricamente) a questo mondo”. È uno dei molti passi in latino dell’opera. 8 Intranti... artus: “largo per chi entra, ma troppo angusto per chi torna indietro”.

9 Non bisogna... Ercole: secondo la mitologia greca, le colonne d’Ercole erano state poste dall’eroe su due promontori dello stretto di Gibilterra per contrassegnare i limiti del mondo; qui, per metafora, rappresentano il divieto di accedere alla biblioteca.

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10 spingi negli occhi: premi gli occhi (del quarto scheletro effigiato). L’operazione faceva aprire la via di accesso all’ossario. 11 un cartiglio: motivo ornamentale che raffigura un rotolo di carta, in parte svolto, su cui è apposta un’iscrizione.


60 volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con

una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta12. Sopra all’arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: Apocalypsis Iesu Christi13. Non pareva sbiadito, anche se i caratteri erano antichi. Ci avvedemmo14 dopo, anche nelle altre stanze, che questi cartigli erano in verità 65 incisi nella pietra, e abbastanza profondamente, e poi le cavità erano state riempite con della tinta, come si usa per affrescare le chiese. Passammo per uno dei varchi. Ci trovammo in un’altra stanza, dove si apriva una finestra, che in luogo dei vetri portava lastre di alabastro, con due pareti piene e un varco, dello stesso tipo di quello da cui eravamo appena passati, che dava su un’altra stanza, la quale aveva 70 due pareti piene anch’esse, una con finestra, e un’altra porta che si apriva davanti a noi. Nelle due stanze due cartigli simili nella forma al primo che avevamo visto, ma con altre parole. Il cartiglio della prima diceva: Super thronos viginti quatuor, quello della seconda: Nomen illi mors15. Per il resto, anche se le due stanze erano più piccole di quella da cui eravamo entrati in biblioteca (infatti quella era eptagonale16 75 e queste due rettangolari) l’arredo era lo stesso: armadi con libri e tavolo centrale. Accedemmo alla terza stanza. Essa era vuota di libri e senza cartiglio. Sotto alla finestra un altare di pietra. Vi erano tre porte, una da cui eravamo entrati, l’altra che dava sulla stanza eptagonale già visitata, una terza che ci immise in una nuova stanza, non dissimile dalle altre, salvo che per il cartiglio che diceva: Obscuratus 17 80 est sol et aer . Di qui si passava a una nuova stanza, il cui cartiglio diceva Facta grando et ignis18; era priva di altre porte, ovvero, arrivati a quella stanza non si poteva procedere e occorreva tornare dietro. “Ragioniamo,” disse Guglielmo. “Cinque stanze quadrangolari o vagamente trapezoidali, con una finestra ciascuna, che girano intorno a una stanza eptagonale 19 85 senza finestre a cui sale la scala. Mi pare elementare . Siamo nel torrione orientale, ogni torrione dall’esterno presenta cinque finestre e cinque lati. Il conto torna20. La stanza vuota è proprio quella che guarda a oriente, nella stessa direzione del coro della chiesa, la luce del sole all’alba illumina l’altare, il che mi sembra giusto e pio. L’unica idea astuta mi pare quella delle lastre di alabastro. Di giorno filtrano una 90 bella luce, di notte non lasciano trasparire neppure i raggi lunari. Non è poi un gran labirinto. Ora vediamo dove portano le altre due porte della stanza eptagonale. Credo che ci orienteremo facilmente.” Il mio maestro si sbagliava e i costruttori della biblioteca erano stati più abili di quanto credessimo. Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione, 95 l’ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte. Tutte avevano una finestra, anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l’interno dell’Edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell’ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano certo a riconoscere il luogo con un colpo d’occhio. 12 non vi era... di sorta: non c’era traccia di sporcizia. 13 Apocalypsis Iesu Christi: “la rivelazione di Gesù Cristo”. Si tratta delle parole con cui si apre il libro dell’Apocalisse. 14 Ci avvedemmo: ci accorgemmo. 15 Super... mors: ancora versi dell’Apocalisse, rispettivamente, “sui troni (stava-

no) ventiquattro (vecchi)” e “il suo nome era morte”. 16 eptagonale: a forma di poligono ettagonale (con sette angoli). 17 Obscuratus... aer: “il sole e l’aria si oscurarono”. 18 Facta grando... ignis: “ci furono grandine e fuoco”.

19 Mi pare elementare: elementare è espressione usata comunemente, rivolgendosi a Watson, da Sherlock Holmes. 20 Siamo... il conto torna: precedentemente Guglielmo, osservando la struttura esterna dell’abbazia, aveva pen­sato di aver individuato la pianta dell’interno.

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Analisi del testo La creazione della suspense Il primo passo è occupato dal dialogo tra Guglielmo da Baskerville e un vecchissimo monaco. Eco riesce a creare un’atmosfera suggestiva in cui aleggia il senso del proibito e serpeggia la paura: attraverso le parole di Alinardo il lettore immagina che dall’infrangere i limiti e le proibizioni possano derivare gravi punizioni. Fa balenare l’idea che le morti (fino a quel momento due) verificatesi tra i monaci dell’abbazia possano essere frutto del peccato e segnalino l’avvento del tempo dell’Apocalisse. Dalle parole ambigue del monaco, che mostra di conoscere esattamente il modo in cui si penetra nella biblioteca, si deduce che molti ci siano stati, nonostante la proibizione dell’Abate, e probabilmente – nonostante lo neghi – lui stesso. L’obiettivo di creare un clima inquietante secondo i dettami tipici del racconto fantastico è riuscito: infatti Adso (in cui si proietta e immedesima il lettore un po’ sprovveduto) all’inizio del passo successivo si attende cose terribili nel momento di infrangere il divieto («Io pensavo alle parole di Alinardo sul labirinto e mi attendevo cose spaventevoli»).

La biblioteca-labirinto: un omaggio a Borges Nel secondo passo Adso e Guglielmo si trovano nella sala centrale, da cui si diparte la struttura della biblioteca che, nel passo precedente, Alinardo ha definito un labirinto. Su quattro lati si aprono passaggi ad altre sale, nelle quali, a loro volta, si aprono nuovi passaggi, in una struttura ordinata ma appunto, al contempo, labirintica. All’implacabile razionalismo di Guglielmo la biblioteca non sembra a prima vista «un gran labirinto» e pensa di potervisi orientare senza difficoltà, ma non è così: i due – come in ogni labirinto che si rispetti – si smarriscono e solo casualmente riusciranno alla fine a ritrovare il punto da cui erano entrati. Nella rappresentazione della biblioteca-labirinto è evidente la suggestione esercitata su Eco (e non solo su di lui: basti pensare a Calvino) dal celebre racconto di Borges (➜ C7) La biblioteca di Babele (1941), pubblicato in Italia nel 1951 (nella raccolta Finzioni). In esso l’universo è immaginato come un’immensa biblioteca che contiene tutti i libri reali e tutti i libri possibili. È impossibile però per l’uomo (che Borges identifica nell’immagine metaforica del «bibliotecario imperfetto») decifrare la legge matematica della biblioteca, cioè, fuor di metafora, cogliere il senso indecifrabile dell’universo. Nella visione di Borges l’immagine tradizionale della biblioteca come simbolo di un sapere codificato, certo, si rovescia in quella, di segno opposto, del labirinto come simbolo tradizionale di smarrimento. Se ne deduce che non esiste più alcuna certezza, che il senso stesso del mondo vacilla. La tematica metafisica del racconto di Borges, con i suoi contorni di angosciosa problematicità, nel romanzo di Eco, se non proprio parodizzata, viene però riprodotta in un modo ironico e sostanzialmente “leggero” tipicamente postmoderno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Su che cosa verte il dialogo tra Guglielmo e Alinardo? Quale particolare importante rivela il vecchio monaco che consente ai due protagonisti di accedere alla biblioteca? ANALISI 2. Verso la fine del brano (r. 79 e seguenti) emergono in modo abbastanza chiaro la personalità e il ruolo esercitato da Guglielmo nel romanzo. Quali sono le caratteristiche che Eco attribuisce al personaggio? STILE 3. Nei due brani sono frequenti le citazioni in latino: come spieghi questa presenza nel romanzo? Quale effetto producono su un lettore colto? E su un lettore culturalmente non attrezzato?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. L’immagine-simbolo del “labirinto” richiama direttamente la visione borgesiana della realtà; per lo scrittore argentino il labirinto è anche metafora del libro, universo che custodisce verità superiori ma luogo nel quale è possibile perdere l’orientamento. Quali caratteristiche ha in comune il labirinto di Borges con la biblioteca del monastero? Reperisci il racconto La biblioteca di Babele di Borges e sviluppa un confronto con la biblioteca evocata nel Nome della rosa, riflettendo sugli spunti proposti in un testo espositivo (max 15-20 righe).

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4 Gesualdo Bufalino.

Gesualdo Bufalino e Le menzogne della notte La biografia Lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino (1920-1996) svolse per molti anni l’attività di insegnante di lettere a Comiso (presso Ragusa), sua città natale. Esordì come scrittore a più di sessant’anni, con Diceria dell’untore (1981), frutto di una pluridecennale gestazione (il romanzo era stato iniziato nel 1950). L’opera vinse il premio Campiello e rivelò alla critica e al pubblico le doti di fine narratore di Bufalino, autore colto e raffinato (conoscitore della poesia simbolista, amante di Mann, Proust e Baudelaire). Dopo il folgorante esordio, pubblica: Argo il cieco ovvero i sogni della memoria (1984, prose autobiografiche), L’uomo invaso e altre invenzioni (1986, raccolta di racconti), i romanzi Le menzogne della notte (1988), Calende greche (1992), Tommaso e il fotografo cieco (1996). Alla produzione narrativa si accompagna quella poetica (L’amaro miele, 1982) e una ricca e raffinata produzione di saggi, aforismi, brevi prose.

Diceria dell’untore È il primo e principale romanzo di Bufalino, di carattere autobiografico: è ambientato in un sanatorio siciliano nel 1946 (lo scrittore stesso era stato ricoverato in sanatorio a causa di una tubercolosi, proprio dal 1944 al 1947). Il romanzo è narrato in prima persona da un giovane che, unico tra i suoi compagni, riesce a sfuggire alla morte e sente di dover testimoniare la sua esperienza all’interno del sanatorio. I nuclei tematici del romanzo sono l’amore (del protagonista per la misteriosa, affascinante Maria, condannata a morire di tisi, con la quale fugge dal sanatorio), la morte e la malattia, sentita come condizione che consente di accedere a una più profonda conoscenza della vita e di sé stessi. Si tratta di temi tipici della letteratura decadente, che rimandano in particolare all’opera di Thomas Mann (La montagna incantata, Tristano), che infatti è uno dei principali modelli letterari di Bufalino. Il romanzo si caratterizza per l’accentuata dimensione simbolica, che investe anche i luoghi e il paesaggio, e per una scrittura sontuosa, barocca.

Diceria dell’untore GENERE

romanzo autobiografico

DATA DI PUBBLICAZIONE

1981

AMBIENTAZIONE

sanatorio siciliano nel 1946

TEMI

amore, malattia e morte

STILE

scrittura sontuosa, barocca

Gesualdo Bufalino e Le menzogne della notte 4 799


Le menzogne della notte: un’investigazione postmoderna La struttura e il soggetto Le menzogne della notte è un romanzo breve, scandito in 14 capitoletti titolati. I primi introducono la “cornice”: il luogo in cui si svolge l’azione (una stanza claustrofobica in una prigione-fortezza a picco su un isolotto compreso nel Regno delle Due Sicilie), i protagonisti e la materia della narrazione (il Governatore Consalvo de Ritis scorre i profili giudiziari di quattro condannati a morte per cospirazione contro il re che devono essere giustiziati il mattino dopo). Dei successivi capitoletti, quattro contengono ognuno i racconti dei quattro condannati nella lunga notte che li separa dalla morte (V, VII, IX, XI): il barone Corrado Ingafù racconta la storia tragica del suo rapporto con il gemello Secondino, il poeta Saglimbeni narra di una convalescenza durante la quale assapora l’«estasi dell’inazione», il soldato Agesilao racconta dell’ossessione che lo ha portato a uccidere l’uomo che lo ha generato attraverso uno stupro, il giovane studente Narciso racconta come ha scoperto l’amore e insieme sé stesso. I racconti sono intervallati (nei capitoletti intermedi) dalle riflessioni dei quattro cospiratori e da quelle del misterioso frate Cirillo, un pericoloso brigante, anch’egli condannato a morte, che li ha indotti a raccontare e che li provoca con il suo cinismo e la sua dissacrante ironia. Il Governatore aveva offerto ai condannati la possibilità di salvarsi, se anche uno solo di loro avesse rivelato (in forma rigorosamente anonima) il nome del misterioso “Padreterno”, un rivoluzionario nemico giurato del re, di cui i quattro sono fedelissimi seguaci, ma fino alla fine non si sa se qualcuno di loro tradirà. Nel XIII capitolo, intitolato Diabolus ex machina (➜ T4.1), frate Cirillo si rivela essere in realtà il Governatore stesso (il vero brigante è già stato giustiziato), che si è camuffato per carpire con l’inganno ai condannati (cosa che la tortura non era riuscita a fare) il nome del misterioso “Padreterno”. Consalvo crede di averli ingannati e di avere in mano il nome che incautamente si sono fatti sfuggire, ma negli ultimi suoi giorni di vita (quando il “Padreterno”, identificato nel fratello del re, è stato a sua volta giustiziato) ha la sensazione di essere stato beffato: il nome non era forse quello che aveva creduto o forse addirittura il Padreterno non esiste neppure e l’hanno inventato i ribelli per incutere paura. Per non aver servito adeguatamente il suo sovrano decide di uccidersi. L’ultimo capitolo (XIV ➜ T4.2 ), è costituito dal testamento del Governatore Consalvo e dalla lettera che egli scrive al re, in cui manifesta le sue angosciose perplessità su quanto è accaduto nella “notte delle menzogne” (da qui il titolo del romanzo). La cifra dell’enigmaticità Le menzogne della notte è un esempio della destrutturazione della forma romanzo tipica del postmoderno, innanzitutto perché si qualifica programmaticamente come “opera aperta”, soggetta a diverse interpretazioni e prospettive di lettura: non solo c’è discrepanza tra i profili ufficiali dei condannati e i loro racconti notturni, ma c’è contraddizione anche tra questi racconti e le verità celate che ognuno dei condannati ha dentro di sé, come evidenzia sarcasticamente frate Cirillo-Consalvo. «Fantasia storica» e «giallo metafisico» Lo sfondo del romanzo è storico, ma si tratta, secondo la definizione data dall’autore, di una «fantasia storica». Tuttavia, il genere in cui forse può maggiormente essere iscritto il romanzo è il giallo poliziesco, anche se lo scrittore siciliano traspone il copione usurato dell’investigazione – come

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avviene spesso nelle opere migliori del postmoderno – a un livello “alto” (e infatti di «giallo metafisico» parla l’autore stesso): nelle Menzogne della notte l’inchiesta riguarda non solo e non tanto l’identità del cospiratore di cui i quattro sono seguaci, ma più in generale il destino umano, il senso (o non senso) delle scelte di vita individuali, della storia («Chi può giurarmi almeno che, spento il tiranno, avremo un mondo più lieto?!» chiede il più giovane dei quattro, Narciso) e della vita stessa. La verità del mondo e della stessa personalità umana coincide alla fine con il guazzabuglio di manzoniana memoria. La dimensione intertestuale Un altro aspetto prettamente postmoderno del romanzo di Bufalino è la frequente allusione, oltre che al romanzo manzoniano, a vari testi illustri della sua memoria letteraria e filosofica (Platone, Pascal, Leopardi, Stendhal e altri ancora) e l’utilizzazione nella costruzione delle vicende di topoi propri della tradizione narrativa come l’avventura, il riconoscimento e così via. Il rimando intertestuale più esplicito riguarda due opere celeberrime della tradizione narrativa: Le mille e una notte (a cui allude la narrazione online notturna e la prospettiva della morte) e soprattutto il DecaT4 Gesualdo Bufalino La notte degli inganni meron. Nel primo passo antologizzato Cirillo-Consalvo parla Le menzogne della notte, cap. XIII e XIV esplicitamente (e ironicamente) di «Decamerone notturno».

Le menzogne della notte GENERE

romanzo breve, giallo “metafisico”

DATA DI PUBBLICAZIONE

1988

STRUTTURA

14 capitoletti titolati

TEMI

destino umano, senso della vita individuale e della storia

Gesualdo Bufalino e Le menzogne della notte 4 801


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Antonio Tabucchi: la vita come “rebus” Letteratura come inchiesta Antonio Tabucchi (1943–2012), narratore, saggista, traduttore, è considerato uno degli scrittori più rappresentativi e qualificati del postmoderno (e peraltro uno dei pochissimi che hanno accettato che la propria opera fosse definita all’interno di questa categoria). Lo dimostrano già i continui, sofisticati rimandi intertestuali presenti nelle sue opere (Conrad, Kipling, Stevenson, Pirandello, Borges, Baudelaire, ma anche autori cinematografici come Hitchcock e altri). Ma è anche indicativa la concezione della vita come “rebus” (è anche il titolo di un racconto di Tabucchi) destinato a rimanere irrisolto, serie di equivoci, di appuntamenti mancati, di combinazioni. La stessa personalità individuale rimane misteriosa: quelli di Tabucchi sono personaggi dalla “biografia imperfetta”, di cui si conoscono solo dei dettagli, che inducono il narratore a cercare nuovi aspetti, altre visuali, in un’idea della letteratura come inchiesta alla ricerca di “verità nascoste”, senza però che si pervenga a una conclusione univoca. Antonio Tabucchi è stato un fine studioso della letteratura portoghese: in particolare ha curato l’edizione di tutte le opere del grande poeta Fernando Pessoa (1888-1935), che ha fatto conoscere in Italia. Ha esordito come narratore nel 1975 con Piazza d’Italia, una coinvolgente saga familiare sullo sfondo della storia italiana dall’Ottocento al secondo dopoguerra. A distanza di pochi anni segue un altro romanzo, Il piccolo naviglio (1978). La sua qualità di fine narratore si esplicita soprattutto nella misura breve del racconto: Il gioco del rovescio (1981), Piccoli equivoci senza importanza (1985), I volatili del Beato Angelico (1987), L’angelo nero (1991), Sogni di sogni (1992). Tabucchi è anche autore di pièces teatrali (I dialoghi mancati, 1988, omaggio a Pessoa e Pirandello). Sostiene Pereira La fama di Tabucchi presso il grande pubblico è però legata soprattutto al romanzo di carattere storico-politico Sostiene Pereira (1994) vincitore del Premio Campiello e Viareggio, dal quale è stato tratto nel 1995 un fortunato film con la regia di Roberto Faenza e Mastroianni nel ruolo del protagonista. Il romanzo è ambientato a Lisbona alla fine degli anni Trenta al tempo della dittatura di Salazar e racconta il processo interiore che porta Pereira, un goffo giornalista che scrive sulle pagine culturali di un giornale, dopo l’incontro con un giovane rivoluzionario, alla scelta di ribellarsi al regime e di denunciare le violenze della polizia, diventando finalmente protagonista della propria vita. Altri romanzi sono Notturno indiano (1984), Requiem, un’allucinazione (1992), scritto originariamente in portoghese, e il giallo poliziesco La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), ispirato a un reale fatto di cronaca. Piccoli equivoci senza importanza Si tratta di una raccolta di undici racconti del 1985, nella quale Tabucchi dà spazio agli equivoci, appunto, che lo scrittore intende come «malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili». Tema fondamentale della raccolta è una visione della vita come serie di appuntamenti con il caso, scelte esistenziali dai motivi inesplicabili, prospettive ambigue (scelte è parola ricorrente anche nel racconto antologizzato). Frequente nella raccolta, come in tutte le opere di Tabucchi, è il gusto postmoderno della rivisitazione di temi e personaggi letterari (in Stanze la protagonista si rivela essere la sorella di

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un celebre personaggio della letteratura italiana; o in un altro racconto, I treni che vanno a Madras, in cui Tabucchi fa comparire un personaggio che dice di chiamarsi Peter Schlemihl come il celebre personaggio di Chamisso poi ripreso da E.T.A. Hoffmann). I racconti utilizzano spesso ingredienti propri del racconto fantastico, e altrettanto spesso sono mescolati (come nel fantastico canonico) “meraviglioso” e realismo quotidiano; ma Tabucchi rivisita e rivitalizza il genere attraverso una sottile indagine psicologica e soprattutto una visione nichilista prettamente postmoderna. Aspetti postmoderni ancora sono il tema della personalità doppia o ambigua, e soprattutto l’uso di trame aperte, la presenza di storie inconcluse e pronte a rovesciarsi, da cui si deducono la provvisorietà e la precarietà di ogni prospettiva. Antonio Tabucchi.

Piccoli equivoci senza importanza GENERE

raccolta di 11 racconti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1985

TEMI

visione della vita come serie di appuntamenti con il caso

Antonio Tabucchi

T5

Un esempio di riscrittura “dalla parte di” Piccoli equivoci senza importanza, Stanze

A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano 1985

Nel racconto Stanze, protagonista è una donna ormai alle soglie della vecchiaia che, assistendo il fratello gravemente malato, riflette non senza amarezza sul tempo e sulla vita. Nel corso della narrazione, da alcuni dettagli, il lettore è indotto a identificare il malato in un celeberrimo personaggio della letteratura italiana e in Amelia, protagonista del racconto, la sorella.

Amelia guarda il leggero velo di nebbia che in lontananza sta calando sul tetto della casa e pensa: è tardi, dobbiamo affrettarci. Il sentiero è ripido e sinuoso, lastricato di granito tagliato largo, con l’umidità della sera sembra un ruscello pietrificato dal tempo, ci sono cespugli di rosmarino e di salvia che lo fiancheggiano, l’aria è fresca 5 e l’aroma è intenso, delle macchie gialle tappezzano già la costa della collina: è di nuovo l’ottobre, pensa Amelia, forse domani avremo il primo giorno di pioggia. [...]. Della sua casa, dal sagrato, si vedono appena il tetto e le finestre del piano superiore; c’è un rampicante che si inerpica fino ai davanzali, è già semispoglio per l’autunno; la finestra di Guido1 ha una luce fioca: la lampada schermata sul tavolino 10 da notte. Accanto al lume di ottone, sul fazzoletto di trina gialla, un Dantino2 con la rilegatura dorata come in libro d’ore3, il flacone di cristallo graduato con la polvere 1 Guido: il fratello della protagonista, ce-

2 un Dantino: volume di piccolo for-

lebre letterato, è gravemente ammalato.

mato e in caratteri minuti contenente il

testo integrale della Divina Commedia.

3 libro d’ore: piccolo libro di preghiere.

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per la pozione durante le crisi più leggere, una scatolina d’avorio con un rosario di madreperla, un corno rosso di corallo. Amelia, camminando, passa in rassegna gli oggetti a memoria come può farlo chi conosce la minuziosa geografia di una 15 stanza. L’armadio di noce occupa la parete di fondo. Sua madre vi riponeva i lini e le canape, anche lei ce li conserva ancora: lenzuola spesse e ingiallite che hanno ospitato per generazioni i sonni della sua famiglia; una volta l’armadio aveva una chiave grossa che spiccava nel mazzo appeso al chiodo del guardaroba dove erano appese le chiavi di tutta la casa con cartellini scritti con inchiostro marrone: dispen20 sa, biancheria, arca ripostiglio, armadio camere. Sulla destra dell’armadio, sotto la finestra, c’è un piccolo tavolo col ripiano di marmo, quando Guido era ancora in grado di alzarsi era lì che scriveva, guardando nel riquadro della finestra le cime degli alberi e la costa della collina. Nel cassetto destro, nascosto in una piccola scacchiera pieghevole, teneva il suo diario che lei ha letto puntualmente ogni mattina, 25 per anni, confrontando la sua impressione della giornata trascorsa con la descrizione eseguita dal fratello. Pensa come è falsa la scrittura, con quella sua prepotenza implacabile fatta di parole definite, di verbi, di aggettivi che imprigionano le cose, che le candiscono in una fissità vitrea, come una libellula restata in un sasso da secoli che mantiene ancora la parvenza di libellula ma che non è più una libellula. 30 Così è la scrittura, che ha la capacità di allontanare di secoli il presente e il passato prossimo: fissandoli. Ma le cose sono diffuse, pensa Amelia, e per questo sono vive, perché sono diffuse e senza contorni e non si lasciano imprigionare dalle parole. Sul piccolo tavolo di Guido sono allineati i libri della sua vita; alcuni hanno rilegature di cuoio antico, altri una rilegatura cartonata che assomiglia a un marmo 35 azzurro, con venature color cenere: i Vangeli, una Eneide settecentesca stampata a Parigi per i tipi dei fratelli Michaud, l’Aminta del Tasso, la Vita dell’Alfieri, il Petrarca, Shelley, le liriche di Goethe, l’Adelchi di Manzoni. Nella pagina bianca prima del frontespizio, in alto a destra, l’ex-libris4 di Guido, un quadratino color seppia con un faro che lancia un fascio di luce sopra un mare notturno e sotto, in corsivo, 40 guido, con l’iniziale minuscola. Nel cassetto sinistro, legate con nastri di vari colori, ci sono le lettere che Guido ha ricevuto nella sua vita. Le ha ordinate lei per anni, catalogandole in ordine di importanza: l’Accademia, l’Università, i letterati italiani e stranieri, gli editori, le riviste, i questuanti5. Alcune cominciano così: Caro Maestro e Amico; altre dicono 45 solo: Eccellenza, e hanno calligrafie pompose e svolazzanti. Negli ultimi mesi della malattia sono arrivate poche lettere dei veri pochi amici e una lettera formale dell’Accademia che esprimeva preoccupazione per lo stato di salute del Maestro e augurava una pronta guarigione. Amelia ha risposto con un biglietto cortese e breve: “Mio fratello non è in grado di rispondere, per il momento; apprezzo molto la 50 Vostra generosa attenzione”. Sul cassettone con la specchiera, di fianco alla finestra, ci sono i ritratti. Sono quasi tutti ritratti di Guido e di lei, e uno della mamma da bambina; quelli di mamma e papà insieme ha voluto tenerli lei in camera sua, sul suo cassettone. Camminando, Amelia guarda quei ritratti e pensa a come passa il tempo. Come passa il tempo.

4 ex-libris: all’interno della copertina o sul frontespizio era consuetudine contrassegnare l’appartenenza di un libro a una

determinata persona (lat. “dai libri [di]”), con il nome, e un’immagine o un fregio, spesso accompagnato da un motto.

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5 i questuanti: coloro che chiedevano a Guido, data la sua notorietà, qualche favore.


Nel primo ritratto Guido ha dodici anni, indossa una giacca da uomo, i pantaloni di velluto sono a mezza gamba, chiusi in fondo con tre bottoni laterali. Porta degli scarponcini alti, con le fibbie, e il piede destro è appoggiato su un tronco di cartapesta che il fotografo ha messo nello studio per dare un ambiente rustico. Sul fondale di tela è dipinta una balconata incongrua che dà su una specie di golfo di Napoli, 60 ma senza pini e senza Vesuvio. Nell’angolo destro, trasversalmente, la calligrafia dell’autore ha lasciato il suo nome: Studio Savinelli, Fotografo. Amelia guarda la fotografia accanto e sono già passati dieci anni. È incorniciata in una cornice d’argento; l’umidità, che ha forse reagito con il metallo, ha disegnato sui bordi una macchia sinuosa come l’orlo lasciato dalle onde su una spiaggia. 65 Guido è alla sinistra di Amelia e le offre il braccio destro al quale lei si appoggia leggiadramente, come una sposa. Guido ha un vestito scuro e una cravatta ampia, lungo i fianchi regge il cappello per la falda. Lei ha un vestito bianco, leggermente vaporoso, con un nastro in vita. In testa porta un cappello di paglia che le ombreggia il viso, la linea scura le taglia la fronte fino agli occhi, che si scorgono appena: 70 ma il resto del viso è inondato di luce e un sorriso ingenuo e forse felice le scopre i denti candidi. È estate. Il pergolato di vite, dietro di loro, disegna pozze d’ombra sul cortile. Sul tavolino di ferro battuto c’è una brocca che qualcuno ha riempito di fiori. Sembrano proprio due sposi, come se la cerimonia fosse appena finita. È il giorno della laurea di Guido, c’è stato un pranzo sotto il pergolato [...]. 75 Amelia sa che odia quella fotografia. Ha imparato a odiarla molti anni dopo, quando ormai odiarla non aveva più senso. Lo sa e preferisce non sapere il vero perché. Preferisce che di quel lontano momento che la lastra catturò, la infastidiscano particolari insignificanti: il suo sorriso così infantile e quasi stupido, la spalla destra di Guido leggermente cadente che denota forse un lieve imbarazzo: cose così, in80 significanti. E poi ci sono altre due fotografie accanto a questa, ma queste non le odia, fanno parte della sua vita vera, quando le scelte ormai erano fatte. Le scelte. Quali scelte?, pensa Amelia camminando e scostando col bastone un tralcio di rovi che dal ciglio ha invaso il sentiero. Da un po’ usa il bastone, non perché sia così vecchia, cammina molto bene e non ha bisogno di sostegni: ma le piace uscire la 85 domenica pomeriggio col bastone che fu di suo padre; è una canna d’India elegante e snella, con un pomo d’argento a forma di piccola testa di cane. Quali scelte. Nella terza fotografia Guido ha un’espressione solenne come vuole la circostanza: ha la toga, regge in mano un papiro arrotolato e con l’altra mano si appoggia al bordo di una fontana senza l’acqua, nel chiostro dell’Università. L’ultima fotografia è un 90 pranzo ufficiale, il festeggiato è Guido, che siede al centro della tavola. Sono stati ripresi alla fine del pranzo, quando le bevande hanno sciolto sui volti la prosopopea6 dell’avvenimento, rendendoli disponibili e indifesi. Ci sono i letterati e gli artisti, il magrolino in fondo alla tavola è un musicista celebre che lei ha sempre trovato insipido come le sue composizioni. Lei siede alla destra del fratello, nei suoi occhi 95 si legge soddisfazione e contentezza, ma le labbra le si sono assottigliate, rispetto alla fotografia dei suoi diciott’anni: hanno perso generosità e offerta, sono labbra avare, guardinghe, vigilano le parole, i pensieri, la vita. Com’è strano il tempo. Il signor Guido ha avuto una crisi, le dice Cesarina sommessamente, il dolore doveva 6 la prosopopea: l’aria ufficiale, 100 essere insopportabile perché si mordeva le mani per non gridare, poi ha cominciato l’atmosfera di soa lamentarsi piano come una bestia, ora forse si è assopito, non ne può più. lennità. 55

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7 consommé: brodo.

8 concrezione: propriam., qualsiasi formazione (organica o inorganica) per sedimentazioni successive nel tempo.

Cesarina è una sposa con le guance bianche e rosse e un seno enorme, tutta latte e sangue, porta con sé l’ultimo nato e lo fa dormire in una cesta di paglia sulla madia, è un bimbone pacifico che si sveglia solo per reclamare il cibo, lei lo allatta seduta 105 su uno sgabello di cucina. Ha preso il posto di sua madre, nel servizio, sua madre si chiamava Fanny, ha servito in casa per tutta la vita, era una coetanea di Amelia e da bambine giocavano insieme, se Amelia si fosse sposata ora avrebbe una figlia della sua età, a volte ci pensa, e due o tre nipoti. Le risponde che ora se ne occuperà lei, grazie, ormai è così negli ultimi tempi; e ora 110 vada pure a casa, si è fatto tardi e la strada per il paese è scura e piena di buche. Risponde alla buona notte e prende la caraffa dell’acqua; la minestra è pronta, dice ancora Cesarina, ho fatto un consommé7 leggero. Salendo le scale sente il rumore del cancello che si apre e si richiude; ora nella casa c’è solo il lieve rumore dei suoi passi, dalla camera di Guido filtra una fessura di luce, passando sente il suo 115 respiro pausato e lugubre: dorme. Apre con cautela la porta accanto, la sua camera, e la richiude con altrettanta cautela, appena un cigolio del vecchio legno; si toglie il mantello al buio e lo appende all’attaccapanni a treppiedi accanto alla porta; sul cassettone arde un lumicino perenne davanti alla fotografia di papà e mamma: sono due volti antichi in un ovale sfocato che sorridono al nulla. Nella semioscurità 120 cerca la veste da camera e apre la finestra. L’aria è pungente e la luna che spunta dalla collina diffonde nel cielo un alone sfrangiato dagli alberi. Amelia si stende sul letto e guarda fuori, la notte. Quel letto era dei suoi genitori, è lì che due persone, tanti anni fa, la concepirono. La parete a cui è appoggiato il suo letto lo divide dal letto di Guido. Così, divisi da una parete, per tanto tempo. Amelia pensa a questo e 125 pensa di nuovo al tempo. Le sembra quasi di sentirlo scorrere, ora che la campagna dorme e il silenzio è grande: è come un ronzio, il rumore di un fiume sotterraneo. Pensa a quante notti ha dormito in quel letto pensando alla persona che dormiva dall’altra parte del muro. E pensa all’odio. Anche l’odio è una cosa diffusa, non si lascia imprigionare dalle parole, ha molteplici forme di vivere, sfumature, frange, 130 chiaroscuri impercettibili, flussi, andamenti. Fa sì che di una persona si arrivi a desiderare la morte. Lei ha provato questo desiderio così a lungo, segretamente. Ma non saprebbe dire quando è cominciato: l’odio ha una sua concrezione8 strana, quando è definito e formulabile era già nato in noi, preesisteva in silenzio acquattato in una piega dell’animo. E poi, forse, non era odio. Amelia pensa a questa espressione: le 135 pieghe dell’animo. E pensa alla sua verità, perché l’animo ha molte pieghe. Le arriva un gemito acuto, come un sibilo. È così che Guido si sveglia quando cominciano i dolori. Poi il lamento diventa straziante, un guaito, e a volte un unico grido immenso e pauroso nella notte. Si alza e accende il lume. Sul panno di lino steso sulla toeletta è pronta la scatolina di metallo con la siringa bollita, l’alcool, il 140 cotone, le fiale. Ora Guido si è svegliato, graffia la parete con un dito, su e giù, la sua unghia ha scavato un solco profondo nell’intonaco del muro sopra il suo letto. Amelia prende la seghetta di ferro e sfrega rapidamente l’ampolla, estrae la siringa dall’astuccio, fa schizzare via l’acqua rimasta nell’ago, aspira il liquido della fiala, gira la siringa verso l’alto e aziona abilmente lo stantuffo per espellere le ultime 145 bolle d’aria, immerge un batuffolo di cotone nel flacone dell’alcool, lo strizza. Vengo subito, Guido, dice a sua volta. Pensa a cosa significa la pietà e sa che le sue mani la stanno amministrando. Dentro il petto sente un vuoto, come un tunnel gelido. Ma le mani che reggono la siringa sono ferme: senza un brivido, senza un tremito.

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Analisi del testo Il ribaltamento della prospettiva Protagonista assoluta del racconto è Amelia, una donna di mezza età, di cui il narratore adotta integralmente il punto di vista, registrandone le impressioni e i pensieri. La figura del fratello, che, da quanto si dice, è una persona importante (le lettere gli si rivolgono infatti come Maestro, o addirittura Eccellenza) è invece presentata sullo sfondo, nel suo letto di malato, ma soprattutto vive nel testo esclusivamente in rapporto alla figura della sorella, alle sue percezioni, ricordi, rimpianti. L’originalità del racconto sta proprio in questo ribaltamento di prospettiva: mentre l’intera vita di Amelia è stata infatti subordinata al culto del celebre fratello (che vari dettagli consentono di identificare con Giovanni Pascoli) e dedicata alla cura amorevole della sua persona, il racconto le assegna il primo piano assoluto. La scelta narrativa dell’autore non è certo casuale, ma da un lato corrisponde al gusto postmoderno di scrivere una storia “dal punto di vista di” (in questo caso la sorella del celebre scrittore, Mariù, qui con il nome fittizio di Amelia), dall’altro rispecchia l’idea di Tabucchi della letteratura come indagine “ricomponente”, “svelante”, capace di portare alla luce una verità che comunque mantiene ampi margini di enigmaticità.

Un titolo enigmatico Il racconto porta un titolo a prima vista spiazzante: Stanze. In realtà è più che altro la stanza di Guido che è minuziosamente descritta per il lettore dal pensiero di Amelia che sta tornando a casa. È proprio attraverso una serie di dettagli, di oggetti presenti nella stanza e percorsi analiticamente dal narratore, attraverso il punto di vista di Amelia, che assume consistenza la figura di Guido: la piccola edizione della Commedia che si trova sul suo comodino già fa ipotizzare che il malato sia un letterato. I libri sul tavolino da lavoro (classici della letteratura italiana e latina, qualche straniero) ne indicano poi alcune propensioni letterarie. Le lettere, che la sorella ha meticolosamente diviso e ordinato secondo i mittenti, quasi già pensando al loro valore documentario dopo la morte dell’illustre fratello, suggeriscono una carriera importante anche nel campo accademico. Altri oggetti alludono invece alla particolare relazione tra i due fratelli che convivono nella vecchia casa di famiglia: in particolare il diario di Guido nascosto nel cassetto, che la sorella ha quotidianamente letto per anni, suggerisce in Amalia la presenza di una morbosa curiosità per la vita interiore di Guido, che rimanda a sua volta all’intreccio inquietante delle vite dei due fratelli. Un ruolo centrale nel racconto hanno però soprattutto le fotografie che si trovano sul cassettone nella stanza di Guido e che inducono la donna a riflettere sul trascorrere del tempo («Come passa il tempo») e sulla sua stessa vita, su quelle scelte (o meglio non scelte) che hanno comportato la sua rinuncia a una vita propria, anche sentimentale. In questo senso le fotografie (una delle quali non a caso Amelia dice di odiare) hanno la funzione di un pirandelliano “specchio”, poiché in esse la donna “si vede vivere” (di Pirandello, uno degli autori amati da Tabucchi, si avvertono nella sua opera non pochi echi). Ma in un certo modo “specchio” capace di rivelare le frustrazioni esistenziali di Amelia è anche l’opulenta, carnale domestica «tutta latte e sangue» (mentre Amelia sembra vivere di pensiero) che allatta il suo bambino e che le ricorda ogni giorno la sua rinuncia alla vita. Il titolo rivela solo verso la fine del racconto la sua portata simbolica: non solo la stanza di Amelia è contigua a quella del fratello, ma, ancor più, a testimoniare e simboleggiare la loro simbiosi, le testate dei letti di Guido e Amelia sono separate solo dalla parete.

Un finale ambiguo e aperto Come avviene non di rado nella narrativa di Tabucchi e nella letteratura definibile come postmoderna, il finale del racconto è particolarmente ambiguo e “aperto”. Come nei più canonici racconti fantastici, il narratore dissemina indizi che pongono al lettore delle domande. Nelle vesti di “infermiera” Amelia suscita qualche dubbio: le sue mani, nel preparare la siringa per Guido, si dispongono ad “amministrare la pietà”. Ma cosa contiene la siringa? Un semplice antidolorifico? Ma allora perché l’autore enfatizza questo momento contrapponendo il gelido vuoto che Amelia sente nel cuore alla sua fermezza? Forse la siringa contiene un veleno letale destinato a uccidere Guido? E in questo caso quella di Amelia è eutanasia ispirata alla pietà per la sofferenza intollerabile di Guido, oppure, sulla base dei precedenti “indizi”, è il desiderio di ribellarsi a una presenza soffocante e di essere finalmente lei a decidere la sorte del fratello?

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rapporto lega i due fratelli? ANALISI 2. Ricostruisci sulla base degli elementi significativi del racconto un identikit di Amelia.

Interpretare

SCRITTURA 3. In Stanze è quasi del tutto assente l’azione, così che sostanzialmente si può parlare di un “racconto di pensieri”: motiva questo giudizio in un testo di massimo 10 righe. TESTI A CONFRONTO 4. Non è difficile intravedere dietro i due personaggi del racconto Giovanni Pascoli e la prediletta sorella Mariù, che visse accanto al fratello e gli sopravvisse poi circa quarant’anni custodendone la memoria e l’opera. Raccogli informazioni sul rapporto assai intenso che legò Mariù al celebre fratello e quindi confronta questi dati della biografia pascoliana con il racconto che hai letto.

PER APPROFONDIRE

SCRITTURA CREATIVA 5. Prova tu a scrivere un racconto ‘dal punto di vista di’: scegli un personaggio celebre della letteratura, o di altri ambiti, e scrivi di lui assumendo il punto di vista di qualcuno che lo conobbe da vicino (può essere anche un personaggio immaginario).

Dylan Dog, un eroe postmoderno Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo, protagonista dell’omonimo fumetto horror di enorme successo, nasce da un’idea di Tiziano Sclavi nel 1986. Aspetto simile all’attore Rupert Everett, accompagnato dal fedele e scombinato assistente Groucho (identico a Groucho Marx), Dylan Dog si è trovato ad affrontare, negli oltre 400 albi usciti fino a ora, mostri di ogni tipo, zombie, streghe, licantropi, serial killer; è finito in dimensioni parallele, nello spazio, nell’oltretomba, sempre e comunque con quell’aplomb disincantato e ironico che lo ha reso famoso. Dylan Dog è stato oggetto di studi sociologici e antropologici, di libri, nonché di ormai numerosissime tesi di laurea e Umberto Eco, suo grande estimatore, ha commentato a proposito: «Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni e giorni». Al di là del successo commerciale di questa pubblicazione, che rimane uno dei “casi” più significativi nella storia del fumetto, «Dylan Dog» ha sempre suscitato notevoli apprezzamenti da parte dei lettori più sofisticati e della critica per alcune caratteristiche che in un certo modo lo avvicinano a un prodotto letterario come Il nome della rosa di Eco. Il celebre romanzo di Eco del 1980 può essere fruito da un pubblico molto eterogeneo, dai lettori più semplici che rimangono avvinti dalla trama da giallo storico agli intellettuali, che tra le pagine del romanzo possono sbizzarrirsi a ricercare un’infinità di citazioni colte inserite volutamente dall’autore. Il successo da best seller del romanzo di Eco risiede senz’altro anche in questo aspetto, esattamente come è avvenuto per il fumetto di Sclavi. La trasversalità di lettura è infatti una delle caratteristiche più interessanti di «Dylan Dog», essendo un fumetto che vira dal noir allo splatter più esplicito e al contempo un serbatoio di infiniti rimandi culturali alla letteratura, all’arte, al cinema. Molti albi propongono un doppio binario di lettura dunque: da un lato l’intrattenimento offerto dalla storia horror, dall’altro un itinerario di ricerca delle citazioni più o meno esplicite.

Innanzitutto, già il nome dell’investigatore dell’incubo trae origine dal poeta inglese Dylan Thomas (1914-1953), mentre il suo rapporto con l’assistente Groucho rimanda ad altre celebri coppie letterarie: innanzitutto a Sherlock Holmes e John Watson di Sir Arthur Conan Doyle (1887) e a Don Chisciotte e Sancio Panza di Cervantes (1606). Un esempio esplicito del gusto per la citazione di Sclavi con il suo Dylan Dog è rappresentato ad esempio dall’albo Golconda (n. 41), ispirato al dipinto omonimo del 1953 del celebre artista surrealista René Magritte (1898-1967), che raffigura un’inspiegabile pioggia di uomini in bombetta sui tetti di una città. Nel fumetto di Sclavi avviene esattamente lo stesso nel cielo di Londra, dove all’arrivo dei misteriosi personaggi si associa una serie di orribili delitti. Sclavi ha poi reso omaggio ad altri classici della letteratura fantastica, da Frankenstein di Mary Shelley (albo omonimo n. 60) a L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells (albo L’isola misteriosa n. 23), da Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson (albo Jekyll! n. 33), a Io sono leggenda di Richard Matheson (albo L’ultimo uomo sulla Terra n. 77). L’albo numero 67, L’uomo che visse due volte, invece (oltre a rimandare nel titolo al celebre film di Hitchcock La donna che visse due volte del 1958) è una trasposizione del Fu Mattia Pascal in versione horror, contaminata con altri riferimenti cinematografici al tema del doppio: il protagonista Matthew Pascal si trova infatti a fronteggiare il suo doppio malvagio Adrian Meis, una sorta di metà oscura e criminale che si è sostituita a lui. L’aspetto geniale del gusto citazionistico di Dylan Dog è inoltre quello di spaziare da rimandi colti a riferimenti al cinema più commerciale di genere fantastico-horror, in una continua contaminazione. Se l’albo Partita con la morte (n. 66), in cui un uomo sospeso tra la vita e la morte può ritornare a vivere cercando di vincere la Morte a scacchi, cita la famosa scena della partita a scacchi tra il cavaliere e la Morte del Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957), l’albo Lama di rasoio (n. 28),

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in cui le mogli apparentemente perfette sono in realtà dei robot, rimanda al romanzo di Ira Levin La fabbrica delle mogli e all’omonimo film del 1975 (recentemente rifatto col titolo di La donna perfetta). Infine non mancano i rimandi ai grandi classici cinematografici del passato, di cui Sclavi è grande appassionato. La fatale rivalità tra due vecchie sorelle che vivono isolate nell’albo La scogliera degli spettri (n. 35) ricorda inevitabilmente il celebre cult movie Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), mentre l’albo Polvere di stelle (n. 147) è una sorta di versione horror di Viale del tramonto (1950); in questo caso infatti Dylan Dog si trova ad affrontare una diva del muto sopravvissuta allo scorrere del tempo grazie al fatto di essere una spietata e sanguinaria vampira. Il numero 18 intitolato Cagliostro (come l’alchimista settecentesco) è uno dei più ricchi in quanto a rimandi cinefilo-letterari. Si passa dall’apparizione di un personaggio identico a Cary Grant che finisce ucciso da due apparentemente innocue vecchiette (riferimento al film Arsenico e vecchi merletti di Frank Capra del 1944), all’incontro tra Dylan Dog e lo scrittore Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), uno dei maestri della

letteratura fantastica, e i mostri del suo Ciclo di Cthulhu. In questo stesso albo Dylan Dog facendo l’autostop incontra una “certa” Marion Crane con la quale raggiunge il Bates Motel (riferimenti a Psycho di Alfred Hitchcock del 1960), e infine si trova a fronteggiare nella New York moderna una strega dalle fattezze identiche a Grimilde (riferimento a Biancaneve e i sette nani di Walt Disney del 1937). Lovecraft è uno degli autori preferiti di Sclavi, insieme al contemporaneo Stephen King (i suoi Shining e Misery tornano in un paio di albi) e al classico Edgar Allan Poe. La zona del crepuscolo (albo n. 7) e il suo seguito Ritorno al crepuscolo (albo n. 57) sono entrambi omaggi al grande scrittore americano e in particolare citano ampiamente il racconto Testimonianza sul caso del signor Valdemar (1845) sul mesmerismo, inteso come pratica in grado di sottrarre l’individuo alla morte. I riferimenti a Poe si ritrovano più volte in altre storie di Dylan Dog, da La morte rossa (albo n. 126), evidente riferimento al racconto La maschera della morte rossa del 1842, al titolo dell’albo numero 63 Maelstrom che evoca invece il racconto Una discesa nel Maelstrom (1842).

Fissare i concetti La letteratura postmoderna 1. Dove nasce la categoria di postmoderno? 2. Quali sono le caratteristiche principali del postmoderno? 3. Che cos’è l’Oulipo? 4. Quale grande scrittore può essere considerato un precursore del postmoderno? 5. Come si esprime il postmoderno in Italia? 6. Quali elementi del postmoderno confluiscono nel Nome della rosa? 7. A quali categorie di lettori si indirizza Il nome della rosa? 8. Perché Le menzogne della notte può essere definito “un’investigazione postmoderna”? 9. Quali argomenti vengono trattati in Piccoli equivoci senza importanza di Tabucchi?

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Il Novecento (Seconda parte) La letteratura postmoderna

Sintesi con audiolettura

1 Letteratura e postmoderno: precursori e modelli

La narrativa postmoderna statunitense Il concetto di postmoderno nasce alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti. Limitandoci all’idea di postmoderno in letteratura, la produzione narrativa postmoderna che si sviluppa in America è caratterizzata dalla mescolanza di generi e stili, dal gusto del citazionismo e dalla complicazione degli intrecci. Principale esponente della narrativa postmoderna americana è Thomas Pynchon, autore del romanzo L’arcobaleno della gravità (1973) considerato il manifesto del postmodernismo. Il modello Borges Lo scrittore Jorge Luis Borges, argentino, è precursore nei suoi racconti di diversi aspetti postmoderni, in particolare la violazione delle coordinate spazio-temporali, lo scambio realtà-finzione, i continui rimandi intertestuali, la riscrittura sofisticata. Significativa poi nell’immaginario borgesiano è l’idea del labirinto, emblema della visione conoscitiva postmoderna. Georges Perec e l’Oulipo Georges Perec (1936-1982) è autore del romanzo La vita: istruzioni per l’uso (La vie mode d’emploi, 1978). L’opera si configura come una sorta di “romanzo di romanzi”: le singole narrazioni fanno riferimento a diverse tipologie narrative (poliziesco, storico ecc.), sono interdipendenti e organizzate attorno al luogo che le unifica, palazzo parigino, così che il romanzo finisce per essere una sorta di gigantesco puzzle. Perec è stato uno dei principali esponenti del gruppo dell’Oulipo (sigla da Ouvroir de Littérature Potentielle, “Officina di letteratura potenziale”) fondato nel 1960 a Parigi. Nell’Oulipo la letteratura è vista come campo sperimentale, le cui potenzialità devono ancora essere esplorate (da qui il termine “letteratura potenziale”).

2 Il postmoderno in Italia

Le caratteristiche del postmoderno in Italia Dagli anni Ottanta i caratteri propri del postmoderno si radicano e si diffondono nella cultura letteraria italiana, soprattutto nel genere del romanzo, che innanzitutto perde la sua funzione ideologica di trasmettere dei messaggi forti. Con la funzione sociale della letteratura viene meno anche la sua funzione conoscitiva, perché si percepisce che o non c’è un significato nella condizione umana o ce ne sono diversi e contraddittori, non a caso cifre caratteristiche di racconti e romanzi sono enigmaticità e ambiguità. Inoltre, nella narrativa postmoderna tende a scomparire la fisionomia dell’autore che può trasparire tra le righe di un’opera (la sua identità biografica, la sua visione del mondo, anche politica). Scompaiono anche, o meglio si dissolvono, generi o sottogeneri romanzeschi che più facilmente sono impiegati come modelli aperti, intrecciati in un ibridismo di forme e codici narrativi (lo si può constatare nel celebre romanzo di Eco del 1980 Il nome della rosa). Forse l’aspetto che più identifica la letteratura postmoderna in relazione alla crisi delle ideologie è la tendenza a fare della letteratura la vera realtà: all’interesse per il mondo e i suoi problemi tende a sostituirsi l’universo fittizio della letteratura, volutamente deprivato di vita, di passioni, di emozioni ed esplorato nei suoi meccanismi. Altri aspetti tipici della letteratura postmoderna sono il gusto della citazione e la pratica di riscritture di opere precedenti.

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3 Umberto Eco e Il nome della rosa

Intellettuale eclettico Personalità eclettica, l’attività di romanziere di Umberto Eco non può essere compresa senza far riferimento ai suoi interessi e ai suoi studi nel campo della semiotica, della filosofia del linguaggio e nell’ambito narratologico. Nel 1980 esce Il nome della rosa, il suo primo romanzo, che riscuote un enorme successo. Seguono altri romanzi che però non ne replicano la fortuna: Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), Il cimitero di Praga (2010), Numero zero (2015). Il nome della rosa Il romanzo è considerato il primo esempio in Italia di un dichiarato tentativo di voler costruire un romanzo postmoderno. Le vicende sono ambientate in un’abbazia benedettina del Nord Italia nel 1327. Nel Nome della rosa sono mescolati generi narrativi “alti” e “bassi”: dal romanzo giallo-poliziesco al romanzo gotico, al romanzo storico e filosofico. La contaminazione riguarda anche il livello stilistico-lessicale: in una lingua piana, quasi giornalistica, Eco innesta passi didascalico-sentenziosi, dotte citazioni latine e così via. Continui sono i rimandi ad altri testi, non solo medievali, che affollano la ricchissima “enciclopedia” dell’erudito professor Eco.

4 Gesualdo Bufalino e Le menzogne della notte

Le menzogne della notte, dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino (19201996), è un romanzo breve che riflette diverse caratteristiche della letteratura postmoderna, innanzitutto la destrutturazione della forma romanzo, perché si qualifica programmaticamente come “opera aperta”. Si riscontra inoltre una marcata commistione di generi: lo sfondo del romanzo è storico, ma si tratta di una «fantasia storica»; il genere è il giallo poliziesco, anche se l’inchiesta riguarda non tanto l’identità del colpevole, ma più in generale il destino umano. Altro aspetto tipicamente postmoderno è il frequente rimando a vari testi illustri della sua memoria letteraria e filosofica.

5 Antonio Tabucchi: la vita come “rebus”

Narratore, saggista e traduttore, Antonio Tabucchi (1943–2012) è considerato uno degli scrittori più rappresentativi del postmoderno. La sua fama è legata soprattutto al romanzo di carattere storico-politico Sostiene Pereira (1994). Incarna lo spirito postmoderno dell’autore soprattutto la raccolta di undici racconti Piccoli equivoci senza importanza (1985). Tema fondamentale della raccolta è una visione della vita come serie di appuntamenti con il caso. Il gusto postmoderno emerge dalla rivisitazione di temi e personaggi letterari; spesso inoltre i racconti utilizzano ingredienti propri del racconto fantastico, e mescolano “meraviglioso” e realismo quotidiano con una visione nichilista prettamente postmoderna. Altri aspetti postmoderni si ravvisano nel tema del doppio, della personalità ambigua, e soprattutto nell’uso di trame aperte.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Prepara una presentazione in formato multimediale sulle peculiarità della narrativa postmoderna in Italia.

Scrittura

2. Il romanzo postmoderno sembra rinunciare alla funzione ideologica che aveva mantenuto anche nella crisi conoscitiva del primo Novecento. Ti sembra che questo sia un limite? La letteratura dovrebbe fornire modelli e indicazioni per agire sulla società?

Sintesi

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Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

16 Pier Paolo Pasolini LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Pasolini Pasolini non amava le elucubrazioni filosofiche, la metafisica e i sistemi ideologici astratti che considerava nobili giustificazioni su cui il potere di ogni tempo poteva fare affidamento. Questo scriveva, a ventun anni, in una lettera del 1943 al coetaneo Franco Farolfi.

Non mi interessano quelle cose astratte che sono Dio, Natura, Parola. I filosofi non mi interessano affatto se non in certi brani poetici. Non trovo nulla di più vano e doloroso che prendere a prestito un linguaggio usato da secoli e servirmene per una nuovamente astratta costruzione filosofica [...]. L’unica filosofia che io senta moltissimo vicina a me è l’esistenzialismo, con il suo poetico (e ancora vicinissimo a me) concetto di “angoscia”, e la sua identificazione esistenza-filosofia. P.P. Pasolini, Lettere, a c. di N. Naldini, vol. I, Einaudi, Torino 1988

Nella dolorosa dichiarazione che segue, affidata a un’intervista, Pasolini mette in luce un nodo centrale della sua vita e della sua fisionomia intellettuale, legato alla condanna della sua “diversità”.

Sono vent’anni che la stampa italiana, e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c’è dubbio che a questa messa al bando da parte dell’opinione pubblica abbia contribuito l’omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio d’ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento: il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione. [...]. Molti non mi hanno mai perdonato di scrivere tra di loro senza essere infeudato ad alcun potere né vincolato dalla legge della sopravvivenza. Il mio vero peccato è di avere esercitato il mestiere di giornalista da polemista e da poeta, nella più totale insubordinazione. Questa insubordinazione, l’hanno trasferita sul piano morale, e l’omosessualità è divenuta, mediante tale operazione di transfert, il principio stesso del male. [...] È una tecnica vecchia come il mondo: quella dell’amalgama calunnioso. Tutti i processi alle intenzioni che hanno condotto contro scrittori, da Socrate a Oscar Wilde, passando per Baudelaire, hanno giocato sulla confusione tra finzione creativa e vissuto. P.P. Pasolini, Diverso come gli altri, in Il sogno del centauro, in Saggi sulla politica e la società, Mondadori, Milano 2009

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Pier Paolo Pasolini è oggi considerato una delle figure più rappresentative della cultura italiana del secondo Novecento. La sua importanza non riguarda solo la letteratura e la cultura ma più in generale la storia italiana, con la quale si è sempre confrontato, convinto della responsabilità civile e morale dell’intellettuale. Forse più ancora che per le sue opere – che spaziano dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema – Pasolini è oggi ricordato per l’appassionata riflessione critica che ha attraversato tutta la sua vita, sui problemi socioculturali e politici dell’Italia dal dopoguerra ai difficili anni Settanta. Muovendo dall’idealizzazione di un mondo arcaico pre-industriale e da un’autentica tensione etica, Pasolini rifiuta l’Italia snaturata dal benessere consumistico, dal potere mediatico e dalla dilagante corruzione politica. La sua critica assume toni apocalittici negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, pubblicate dopo la sua tragica morte.

1 Ritratto d'autore Una vasta produzione 2 all’insegna dell’autobiografismo e della passione civile

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1 Ritratto d’autore 1 Vita di un intellettuale “contro” VIDEOLEZIONE

L’infanzia, le figure della madre e del padre Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna nel 1922. Il padre, Carlo Alberto Pasolini, militare di carriera, discende da una nobile famiglia ravennate, mentre la madre, Susanna Colussi, è una maestra elementare friulana. Con il padre, uomo autoritario e passionale, Pier Paolo avrà sempre un rapporto conflittuale. Non solo alcune opere di Pasolini (in particolare le tragedie), ma la sua stessa vocazione polemica, le battaglie contro ogni ottusa autorità, possono essere considerate – come lo scrittore stesso ha suggerito – espressione del conflitto con la figura paterna. Fin da bambino Pier Paolo ha invece un legame particolarmente forte con la madre, che condizionerà la sua vita privata e che è presumibilmente alla radice delle sue scelte intellettuali: Susanna ama le letture, la poesia, è spontaneamente avversa alla retorica politica che la cultura del fascismo andava imponendo. (➜ D1 OL)

Un brillante studente a Bologna Dopo vari spostamenti, nel 1937 la famiglia si stabilisce a Bologna, dove Pasolini frequenta il liceo classico e poi si iscrive alla facoltà di Lettere a soli diciassette anni. Studente assai dotato, si appassiona alla filologia romanza e alle arti figurative, avendo come maestro un grande studioso, Roberto Longhi. Agli studi e alle vaste letture (soprattutto di poesia) associa la passione per il calcio, che coltiverà per molti anni e le lunghe gite in bicicletta online con gli amici: «Lo sport è veramente la mia pura, continua, D1 Pier Paolo Pasolini Supplica a mia madre spontanea consolazione» scrive in una lettera. Si laurea brilPoesia in forma di rosa lantemente nel 1945 con una tesi su Pascoli. CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

1956

La rivolta popolare in Ungheria è repressa dall’Unione sovietica. Crisi della sinistra italiana.

Cronologia interattiva 1946

In seguito al referendum del 2 giugno nasce la Repubblica italiana. 1939-1945

Seconda guerra mondiale

1920

1930

1940

1950

1942-43

Lascia per sempre il Friuli e, con la madre, va a vivere a Roma.

1950

1922

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna.

1939

Terminato il liceo, si iscrive alla facoltà di Lettere a Bologna. Pubblica la sua prima raccolta di poesie, Poesie a Casarsa, in dialetto friulano.

1954

Pubblica La meglio gioventù, che raccoglie le poesie dialettali.

1945

Si laurea con una tesi su Pascoli. 1947

Si iscrive al Pci.

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PER APPROFONDIRE

Casarsa, «terra d’elezione» Il paese natale della madre, Casarsa, in Friuli, dove la famiglia Pasolini si recava per le vacanze, e dove il futuro scrittore risiede stabilmente dal 1942 al 1950, è il luogo elettivo del suo immaginario, per lo meno fino al momento drammatico del suo abbandono: ne deriveranno importanti scelte di vita e letterarie, come quella di scrivere, appena ventenne, le sue prime poesie nel dialetto friulano di quella zona (Poesie a Casarsa).

Il mito della figura materna L’esordio poetico di Pasolini, Poesie a Casarsa, è un omaggio al dialetto della terra materna. Il giovanissimo poeta invia la sua raccolta al critico Gianfranco Contini, ricevendone un lusinghiero giudizio e addirittura una recensione sul «Corriere del Ticino» del 24 aprile 1943. Pier Paolo e la madre Susanna Colussi, a Roma nel 1961 (ph. Mario Dondero).

Per difendere il dialetto di Casarsa e per diffonderne l’uso poetico (non solo quindi locale ed esclusivamente orale) Pasolini cerca di dar vita, insieme ad alcuni giovani del posto, prima a un gruppo culturale informale e poi, nel 1945, a una vera e propria “accademia”: l’Academiuta di lenga furlana. In essa Pasolini ha il ruolo autorevole del filologo-maestro nei confronti dei giovani poeti, di cui vengono prodotti piccoli almanacchi dialettali, gli stroligut.

1962

Istituzione della scuola media unica.

1969-1974 1968

Scoppia la rivolta studentesca.

1960

Serie di attentati terroristici a Milano (1969), Bologna e Brescia (1974).

1970

1980

1967-75

Prosegue l’attività di sceneggiatore e regista con Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1970); seguirà la Trilogia della vita (1971-1974) e infine Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

1955-59

Escono i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) e le raccolte poetiche Le ceneri di Gramsci (1957) e L’usignolo della Chiesa cattolica (1958).

1990 1975

Muore assassinato all’idroscalo di Ostia. 1973

Inizia a collaborare con il «Corriere della Sera». Gli articoli confluiscono in Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (postume, 1976). 1972

Inizia a lavorare al romanzo Petrolio, lasciato incompiuto e pubblicato postumo nel 1992.

1961-64

Pubblica La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa. Inizia l’esperienza cinematografica con Accattone (1961) cui seguono altri film ambientati a Roma e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

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La scoperta della “diversità” Con la propria sessualità Pasolini ha avuto sempre un rapporto contraddittorio e drammatico, pur senza mai nascondere la propria omosessualità. Nel 1950 a un’amica, Silvana Mauri, che si era innamorata di lui, scrive: «Io ero nato per essere sereno, equilibrato, naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro». In un’altra lettera ne parla come del “demonio”, con il quale si troverà a convivere per il resto della sua non lunga vita.

PER APPROFONDIRE

L’adesione al marxismo e il mestiere di insegnante Pier Paolo è spontaneamente antifascista, ma non sceglie di aderire alla lotta armata nella Resistenza come invece fa il fratello minore Guido (partigiano della brigata Osoppo, morirà nel 1945 a Porzûs, in uno scontro con partigiani filo-jugoslavi, in uno degli episodi più oscuri della Resistenza). Nell’immediato dopoguerra si avvicina all’ideologia marxista e si iscrive al Partito comunista. Pasolini aveva un’autentica vocazione didattica e nella prima parte della sua vita è stato soprattutto un insegnante: dal 1943 al 1949 in Friuli. In un secondo tempo, tra il 1951 e il 1953, insegnerà a Roma, in periferia. L’esperienza scolastica sarà poi abbandonata per il lavoro di scrittore e, in seguito, di regista.

Una vocazione pedagogica Un filo rosso tra le opere e i film La vocazione pedagogica percorre, come un filo rosso, la vita e la produzione di Pasolini dal tempo dell’insegnamento a Casarsa fino agli interventi giornalistici degli ultimi mesi di vita sul «Corriere della Sera»; ma situazioni e figure pedagogiche sono introdotte anche nei film: dal corvo-pedagogo, in cui si incarna Pasolini stesso, di Uccellacci e uccellini, al centauro in Medea. Questa forte vocazione a insegnare ciò di cui era convinto, soprattutto ai giovani, traspare già nelle lettere di Pasolini giovanissimo agli amici bolognesi: egli tendeva a esercitare una leadership intellettuale verso gli amici, che a volte risultava un po’ ingombrante (un suo compagno di università parla di lui come di un «despota suadente»). Pasolini pedagogo di massa Dal 1960 al 1965 la passione pedagogica di Pasolini si misura con interlocutori di massa nella rubrica Dialoghi con Pasolini che tiene sulla rivista del Partito comunista «Vie nuove». Nonostante la crisi ideologica che viveva ormai da tempo, Pasolini evidenzia nel dialogo con la base del partito una grande volontà di chiarire e divulgare con pacatezza ed equilibrio la sua visione dei rapporti umani e sociali. Interlocutori per lui privilegiati sono i più sprovveduti culturalmente e i giovani, ma è anche alla dirigenza del partito che Pasolini indirettamente si rivolge, cercando, con la sua autorevolezza di intellettuale, di suggerire una visione progressista e moderna: parla di psicoanalisi e affronta argomenti allora tabù come il sesso. Gennariello: una risposta ai “giovani infelici” Delle Lettere luterane, pubblicate postume, fa parte anche Gennariello, un mini-trattato pedagogico rimasto incompiuto, in cui Pasolini immagina che un maestro cinquantenne (lui stesso) impartisca delle lezioni di vita e di pensiero a un ragazzo napoletano (Gennariello appunto), ennesima riproposta della “meglio gioventù” che era stata prima friulana, poi borgatara. Le “lezioni”, come viene dichiarato subito, saranno ispirate a una lettura critica e polemica della società (una sorta di “pedagogia dello scandalo”), ma d’altra parte Pasolini invita il suo discepolo a non temere «la sacralità e i sentimenti, di cui

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il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci». Nel trattatello, che va letto in stretto rapporto allo sconsolato ritratto del mondo giovanile che apre le Lettere luterane (I giovani infelici), serpeggia ancora qualche speranza, ancora si avverte la presenza di “passione” e “ideologia”. Ma il maestroPasolini è consapevole che le cose in cui aveva creduto non esistono più e il ragazzo cui si rivolge idealmente vive ormai in un mondo che egli non può comprendere: «Non si può insegnare se nel tempo stesso non si apprende». Questa amara consapevolezza spiega l’interruzione del trattatello. «Difendi, conserva, prega»: l’ultimo insegnamento di un maestro scomodo L’insegnamento estremo e disperato di Pasolini è contenuto nell’ultimo testo, in dialetto friulano, di La nuova gioventù: Saluto e augurio, forse l’ultima poesia di Pasolini, pubblicata a pochi mesi dalla morte (marzo 1975). Si tratta di una sorta di dolente testamento ideologico e spirituale che il maestro-Pasolini rivolge questa volta a un giovane fascista (nell’accezione ampia che Pasolini dava a questo termine), immaginato, così come Gennariello, anche nel suo aspetto fisico. Si tratta di un giovane fazioso, che programmaticamente odia Pasolini. Per paradosso però, è proprio a questo novello Fedro (così Pasolini-Socrate gli si rivolge) che il poeta-pedagogo affida una serie di precetti morali per il futuro, espressi in parole e immagini ispirate al linguaggio evangelico. Il messaggio è incentrato sulla difesa dei valori sacri della tradizione cattolico-rurale propri di una civiltà arcaica contro lo snaturamento prodotto dalla speculazione e del progresso. Ne riportiamo alcuni versi in traduzione. Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie, le vasche del letame abbandonate. Difendi il prato / tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese, godi di questa idea, tienla nel cuore. La confidenza col sole e la pioggia, / lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!// […].


L’addio al Friuli, la fuga a Roma «come in un romanzo» Nel 1949, in seguito a una denuncia anonima, Pasolini viene accusato di corruzione di minorenni (sarà assolto, in appello, solo nel 1952). Viene rimosso dal posto di insegnante, nonostante le proteste dei genitori dei suoi ragazzi, e lo stesso Pci lo espelle per immoralità. Lascerà per sempre l’amato Friuli: all’alba del 28 gennaio 1950 Pier Paolo e la madre fuggono a Roma («come in un romanzo» dirà in seguito). Pasolini vive subito una sorta di innamoramento nei confronti di Roma: nel suo immaginario poetico, «questa nuova Casarsa», secondo le sue stesse parole, sostituisce ben presto il Friuli con la sua struggente bellezza, la vitalità del suo popolo, la sua disponibilità ad accogliere, con allegra indifferenza, «qualsiasi sbandato o reietto» (Naldini). Pasolini, lui stesso all’inizio povero ed emarginato dalla classe sociale piccolo-borghese di cui faceva parte, trova una spontanea consonanza con gli “ultimi” delle borgate: un sottoproletariato che vive alla giornata, spesso di espedienti, e che sarà centrale nella sua vita e nei suoi romanzi. Intellettuali e borgatari: gli amici di Pasolini A Roma Pasolini si circonda di pochi amici fidati, quasi tutti scrittori di una certa fama o destinati a raggiungerla ben presto: tra di essi quasi subito figura il poeta Sandro Penna. E poi Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani e Carlo Emilio Gadda. In un secondo tempo diventerà assiduo soprattutto della coppia Morante-Moravia, con i quali compirà memorabili viaggi in India e Africa. L’amica più fedele è però l’attrice Laura Betti, che sarà l’infaticabile, battagliera custode della sua memoria e dei suoi scritti dopo la morte. Agli intellettuali di spicco si associano due umili borgatari, onnipresenti nella casa di Pasolini: Sergio Citti, che poi affiancherà Pasolini nell’attività cinematografica, e Ninetto Davoli, che Pasolini conosce nel 1963, mentre prepara il Vangelo secondo Matteo. Proprio con Ninetto Pasolini cenerà nell’ultima sera della sua vita. Ragazzi di vita: l’inizio di una difficile celebrità Dal 1953 al 1961 Pasolini scrive il meglio della sua produzione, grazie alla quale diventa noto non solo alla critica ma anche al vasto pubblico: i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), le raccolte poetiche Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961), i saggi critici di Passione e ideologia (1960); inoltre è il principale animatore della rivista «Officina» (1955-1959). Ragazzi di vita ha grande successo di pubblico ma sconcerta e divide la critica, anche di parte marxista (ad es. Carlo Salinari parla di ispirazione «torbida»). Il romanzo viene accusato di oscenità dalla presidenza del Consiglio dei ministri e Pasolini deve affrontare un processo (sarà assolto con formula piena). Tra gli altri, testimoniano a favore del romanzo Giuseppe Ungaretti e il critico cattolico Carlo Bo, che rileva addirittura nell’opera un valore religioso nella difesa degli ultimi. Ritratto d’autore 1 817


Gli anni della persecuzione: la trasformazione mediatica di Pasolini in “personaggio” Da quel momento ogni nuova opera di Pasolini suscita scalpore e polemiche, se non addirittura denunce, dividendo in schieramenti contrapposti il pubblico e la critica. Pasolini diventa così suo malgrado un “personaggio” che, con la complicità della stampa più conservatrice, è identificato dall’opinione pubblica nei suoi personaggi, nel mondo “basso” e violento evocato nei suoi romanzi: “pasoliniano” diventa così sinonimo, in particolare a Roma, di omosessualità, degradazione sociale e persino malavita. È l’inizio di una vera e propria persecuzione: lo scrittore viene spiato, fotografato, deve affrontare continuamente processi (arriva addirittura a subire una denuncia per tentata rapina!) che lo mettono a dura prova psicologicamente, anche se si concludono sempre con un’assoluzione. Un nuovo amore: il cinema Dagli anni Sessanta la principale attività artistica di Pasolini diventa il cinema, grazie al quale conoscerà un grande successo internazionale. L’esordio è alla Mostra del cinema di Venezia del 1961 con Accattone, considerato il suo capolavoro. Il suo interesse per il cinema ha a che fare con una crescente sfiducia nella possibilità della letteratura di incidere sulla realtà e con un mutato clima politico e culturale: a partire dal 1956 (dopo i fatti di Ungheria) la sinistra è segnata da una lacerante crisi, l’avanzata dell’industrializzazione e del neocapitalismo rende rapidamente inattuali le storie di borgata care a Pasolini. Inizia il dibattito sul rapporto tra “letteratura e industria”, avviato da Elio Vittorini sulla rivista «Il Menabò», e si profila la neoavanguardia, che Pasolini avverserà aspramente. I viaggi, alla ricerca dell’“alternativa” Con gli anni Sessanta Pasolini comincia a viaggiare in paesi del Terzo Mondo, per il suo lavoro cinematografico, ma anche alla ricerca di ideali alternativi al mito ormai perduto del popolo borgataro. Nel 1960-61 con Moravia e Morante si reca in India e ne trae il reportage L’odore dell’India. In seguito, si recherà in varie zone dell’Africa, in mondi poverissimi in cui ricercava quella primigenia sacralità della creatura umana che si era smarrita nell’Italia che cambiava.

Pasolini sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Gli ultimi quindici anni: l’età della polemica Intanto Pasolini assume sempre più il ruolo del polemista, sul piano sia etico-politico sia culturale-letterario: da una parte attacca senza esclusione di colpi sia la borghesia, che considera responsabile del degrado politico e morale del paese, sia il conformismo di sinistra, dall’altro critica violentemente la neoavanguardia. Pur essendo famoso è sempre più isolato: «io, del Nuovo / Corso della Storia / – di cui non so nulla – come / un non addetto ai lavori, un / ritardatario lasciato fuori per sempre – » (Nuova poesia in forma di rosa). Scoppiata la contestazione del Sessantotto, Pasolini non solo rimane ai margini del movimento, ma addirittura lo attacca, nella convinzione che il movimento sia non una vera rivoluzione, ma una rivolta interna alla borghesia stessa. In occasione della battaglia studentesca a Valle Giulia a Roma contro le forze di polizia, in una poesia diventata celebre (Il PCI ai giovani!!) difende provocatoriamente i poliziotti “figli di poveri” mentre dichiara il suo odio per gli studenti, figli di borghesi.

online D2 Pier Paolo Pasolini

Avete facce di figli di papà II PCI ai giovani!!

Pasolini corsaro e luterano A partire dagli anni Settanta intensifica gli interventi critici e teorici (per lo più raccolti in Empirismo eretico) e manifesta sempre più una volontà di

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online

Video Pasolini polemista (intervistato da Enzo Biagi, 1971)

testimonianza e opposizione. Dal 1973 inizia a collaborare con il «Corriere della Sera» con articoli poi raccolti in Scritti corsari. Oltre a ospitare la polemica nei confronti dell’omologazione linguistica e comportamentale divenuta ormai ricorrente, gli interventi sono contraddistinti da una evidente volontà di provocazione, che induce lo scrittore ad assumere posizioni controcorrente in occasione di importanti eventi e temi scottanti della storia italiana di quegli anni (come il divorzio, la legalizzazione dell’aborto o l’istituzione della scuola media unica). Ancora più veementi, ispirati a un moralismo intransigente e profetico, gli scritti pubblicati postumi con il titolo di Lettere luterane in cui Pasolini, tra l’altro, chiede, a nome degli italiani, che si faccia luce sulle trame oscure che insanguinarono l’Italia a partire dalla strage di piazza Fontana e invoca un processo pubblico per la classe dirigente che ha guidato il paese dopo il fascismo. Si ritira sempre più spesso in una torre isolata nella campagna (a Chia, presso Viterbo), simbolo lampante della sua stessa emarginazione, dove lavora febbrilmente agli ultimi scritti, tra cui il romanzo Petrolio, lasciato incompiuto (sarà pubblicato allo stato di abbozzo nel 1992). In una villa presso Mantova, nel 1975, realizza il più terribile e disperato dei suoi film: Salò o le 120 giornate di Sodoma, espressione di un pessimismo ormai radicale che non prevede più alcuno sbocco. Una morte “oscura” Nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 Pasolini è brutalmente assassinato al lido di Ostia: una morte oscura, su cui pesano a tutt’oggi inquietanti interrogativi. L’omicidio fu attribuito a un “ragazzo di vita”, reo confesso, che anni dopo ritratterà. Dopo gli affollatissimi funerali, in Campo dei Fiori, svoltisi in un clima di grande tensione emotiva, Pasolini viene sepolto nel piccolo cimitero di Casarsa, in Friuli, la terra da dove era partita la sua avventura umana e intellettuale.

2 La visione del mondo Un’opera dalla forte impronta ideologica L’opera di Pasolini si fonda fin dall’inizio su una forte componente ideologica, che non si richiama però a specifici sistemi filosofici, verso i quali lo scrittore mostra un sostanziale scetticismo. La visione pasoliniana del mondo è comunque ricollegabile in senso lato all’area ideologica del comunismo, cui Pasolini aderisce assai presto e a cui rimarrà sempre fedele, anche se con una posizione costantemente critica o addirittura apertamente polemica. Nello strutturarsi di tale ideologia, più che il pensiero di Marx, incide la lettura dell’opera di Gramsci, in particolare Letteratura e vita nazionale, ma è forse ancora più importante l’istintiva adesione di Pasolini all’universo popolare. L’adesione viscerale al popolo L’adesione di Pasolini al popolo, rappresentato prima dai contadini di Casarsa, poi dal sottoproletariato romano delle borgate, rimarrà sempre viscerale, irrazionale, più che motivata da vere e proprie ragioni politiche. Pasolini considera il popolo depositario di energia vitale, di genuinità, di “sanità”. Il popolo è capace di aderire istintivamente alla vita, è capace di “innocenza”, è in qualche modo più vicino alla dimensione del sacro, che l’avanzata del capitalismo e del consumismo ha nel tempo sempre più corroso. Intellettuale sofisticato di estrazione piccolo-borghese, lo scrittore cercherà in tutti i modi di “immergersi” nel popolo, di condividerne da vicino la vita, gli umori, la mentalità (partecipa alle sagre paesane e rionali, frequenta le balere). Ritratto d’autore 1 819


Il mito, tutto sommato irrazionale, quasi “romantico”, del popolo, che percorre gli interventi e le opere di Pasolini per lo meno fino all’inizio degli anni Sessanta, attira su di lui l’accusa di “populismo” da parte degli intellettuali marxisti. Un’accusa che egli rovescia in scelta consapevole: se populista significa essere «un marxista che ama il popolo di un amore preesistente al marxismo, o in parte al di fuori di esso», Pasolini ammette di essere populista (Pasolini su Pasolini). Un laico con una visione religiosa della vita In più occasioni Pasolini allude alla sua visione laica, se non proprio addirittura ateistica, del mondo, elaborata fin dalla prima giovinezza: la lettura nell’adolescenza di autori come Leopardi e Schopenhauer, ma anche la tradizione laica del liceo Galvani frequentato a Bologna contribuiscono a fare di lui, come ebbe a dire, «un miscredente nel significato più letterale del termine». Per contro lo scrittore riconosceva di avere una concezione religiosa della vita, fondata sull’amore istintivo per gli “ultimi” e su una visione arcaica, contadina, “poetica” della religione, assimilata anche grazie alla madre negli anni friulani. Pasolini distingue nettamente però la Chiesa come istituzione dalla religione: della prima condanna il pragmatismo e il frequente asservimento al potere politico; verso il messaggio evangelico ha invece un atteggiamento di rispetto o addirittura di attrazione, che lo distingue dalla rigida negazione propria del marxismo ortodosso. In un’intervista del 1974 su «L’Europeo», definendosi un «marxista eretico», afferma: «Tutto quello che Marx ha detto della religione è da prendere e da buttar via, è frutto di una colossale ignoranza. E la critica alla religione è una grossa fetta del marxismo». Centrale nell’immaginario pasoliniano è, secondo il suo biografo ufficiale, il cugino Nico Naldini, l’immagine sofferente di Cristo sulla croce, “scandalo” che richiama alla necessità di un impegno anche civile: «Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?)» (➜ D2b ). L’attrazione di Pasolini per la figura di Cristo e il messaggio evangelico trova un’altissima testimonianza poetica nel Vangelo secondo Matteo (1964): il film, come è logico immaginare, crea scompiglio e divisioni nelle gerarchie cattoliche e, per ragioni diverse, nel mondo della cultura di sinistra, testimoniando la posizione anomala e per molti aspetti “scomoda” di Pasolini.

Pier Paolo Pasolini e Enrique Irazoqui, in un momento di pausa sul set del film Il Vangelo secondo Matteo, dinnanzi allo struggente paesaggio dei Sassi di Matera (1964).

820 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


La critica all’universo neocapitalista e al consumismo Proprio sulla base del mito, in lui molto radicato, della originaria “sanità” proletaria, Pasolini considera negativa la transizione che all’inizio degli anni Sessanta, soprattutto nel Nord, stava trasformando l’Italia da paese arcaico e contadino in nazione industriale e depreca l’emigrazione che stava avvenendo in modo massiccio dalle campagne alle città e dal Sud verso il Nord. Pasolini condanna il nascente consumismo frutto del boom economico e il ruolo della borghesia capitalistica che stava imponendo anche alle classi meno abbienti nuovi comportamenti, nuovi valori – o meglio pseudovalori – e persino una nuova lingua omologata, (➜ SCENARI, PAG. 638 ss.) annullando la ricchezza linguistica del paese rispecchiata dai suoi dialetti. Con intuizione che spesso è stata definita “profetica” Pasolini depreca l’avvento della civiltà di massa, che stava comportando una vera e propria mutazione antropologica, soprattutto tra le giovani generazioni: «Questi ragazzi hanno perso la loro individualità, son tutti uguali, fascisti, antifascisti, studenti, operai, borghesi, sottoproletari, delinquenti» (da un’intervista del 1974). Questo processo, da lui giudicato un vero e proprio «genocidio», è favorito per Pasolini dall’ingerenza sempre più forte nella vita degli italiani dei mass media e in particolare della televisione (➜ D3a ). Nella poesia Il glicine (che chiude La religione del mio tempo) scrive versi che hanno il sapore di una lapidaria sentenza: «Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole». Scrive il critico Enzo Golino che in questi pochi versi Pasolini sembra sintetizzare le catastrofiche teorie della Scuola di Francoforte sulla società di massa (➜ SCENARI, PAG. 615).

Ritratto d’autore 1 821


L’intellettuale come testimone critico Dagli anni Sessanta e soprattutto Settanta, Pasolini assume posizioni sempre più polemiche riguardo alle tendenze politiche e culturali del suo tempo, che gli fruttano, nonostante il successo delle sue opere (soprattutto cinematografiche), una crescente impopolarità negli stessi ambienti della sinistra. Pasolini aderisce sempre più all’idea di un ruolo critico dell’intellettuale, non “schierato” e non compromesso con il potere: una posizione che ricorda da vicino l’ultimo Leopardi. Con il grande poeta ottocentesco Pasolini condivide un destino di progressivo isolamento dovuto alle sue posizioni controcorrente: attacca, come già si è detto, il Sessantotto, movimento in cui coglie impietosamente una natura borghese e non veramente rivoluzionaria; in nome di un’idea tutto sommato nostalgica della società, arriva a condannare la legge che aveva introdotto la scuola media dell’obbligo; e prende posizione contro la legalizzazione dell’aborto e contro il divorzio. D’altra parte proprio la sua posizione isolata, di scomodo testimone, gli consente durissime requisitorie politiche: una volta assunto il volto del “corsaro” degli ultimi articoli, del “profeta” e dell’“eretico” che nulla ha da guadagnare né da perdere, Pasolini può farsi liberamente “voce” di tutti gli italiani che chiedono giustizia e vogliono la verità sugli eventi oscuri che in quegli anni insanguinavano il paese e può invocare un processo pubblico per la classe dirigente che ha guidato il paese dopo il fascismo (➜ T3 OL).

Il pensiero di Pier Paolo Pasolini visione laica

ideologia marxista

ma

ma

senso religioso

non allineato al Pci

intellettuale impegnato in molteplici campi culturali

narrativa • poesia • saggistica • teatro • cinema • giornalismo

• intervenire contro l’omologazione della cultura e della lingua • critica al neocapitalismo e al consumismo

testimone critico del suo tempo

822 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


Pasolini e la religione

D3

La diffusa presenza di spunti di riflessione etico-religiosa e di vere e proprie suggestioni liturgiche nell’opera di Pasolini rimanda a un nodo senz’altro centrale nell’immaginario dello scrittore. Presentiamo una serie di brevi testi che nell’insieme possono dare almeno un’idea dei caratteri assunti dalla tematica religiosa nell’opera di Pasolini.

Pier Paolo Pasolini

«Io sono propenso... a una contemplazione mistica del mondo»

D3a

LEGGERE LE EMOZIONI

Il malinteso P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a c. di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999

Nel passo che segue Pasolini chiarisce la sua originale posizione nei confronti del cattolicesimo istituzionale.

Non mi piace il cattolicesimo in quanto istituzione, non per ateismo militante, ma perché la mia religione, o meglio il mio spirito religioso – che non ha nulla a che vedere con un’appartenenza fondata sul battesimo – ne viene offeso. Rimane poi questo cripto-cristianesimo, che mi imputano i più aggressivi, quasi fosse una tara 5 vergognosa. Dirò per rispondere loro che difficilmente un occidentale può non essere cristianizzato, se non un cristiano convinto. A maggior ragione un italiano. […] Io sono propenso a un certo misticismo1, a una contemplazione mistica del mondo, beninteso. Ma questo è dovuto a una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la pro10 fondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose.

1 Io sono propenso a un certo misticismo: i biografi testimoniano che Pasolini lesse testi della letteratura mistica e ne trasse sugge-

stioni profonde. Qui egli allude genericamente a una visione che coglie la presenza del divino nella natura e nelle cose del mondo.

Concetti chiave Nel testo Pasolini da un lato prende le distanze dal cattolicesimo istituzionale, dall’altro riconosce in sé la propensione a una visione mistica, intesa come ammirazione della natura e degli uomini, intuizione del senso profondo – implicitamente religioso – delle cose. Rivolgendosi a chi lo accusa di cripto-cristianesimo, sottolinea come l’essere cristianizzato sia un elemento connaturato all’essere occidentale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la posizione dello scrittore in materia religiosa, posizione che traspare chiaramente da questo pur brevissimo intervento. ANALISI 2. Cerca sul vocabolario o in internet che cosa significa letteralmente l’espressione criptocristianesimo. A chi pensi alludesse in quegli anni Pasolini quando parla di persone aggressive che gli rimproveravano questo atteggiamento? Per quali ragioni pensi lo facessero?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Pasolini, pur prendendo le distanze dal cattolicesimo istituzionale, dichiara di avere una propensione al misticismo. Tu come vivi la dimensione religiosa? Fa parte della tua vita? Scrivi le tue riflessioni in un massimo di 15 righe.

Ritratto d’autore 1 823


Sguardo sul cinema La ricotta La ricotta (1963) è il quarto episodio di un film a più mani: ROGOPAG (la sigla corrisponde ai nomi dei quattro registi: Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti). L’episodio di Pasolini fu subito sequestrato per vilipendio alla religione: si vide nell’opera una blasfema parodia della crocifissione (anche se alcuni autorevoli docenti della Pontificia Università Gregoriana dissentirono da questo giudizio). Ne seguì un acceso processo durante il quale l’avvocato difensore di Pasolini lesse un testo scritto dal suo assistito qualche tempo prima, nel quale tra l’altro si diceva: «Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!) ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo [...]. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me». Lo stesso Pasolini, nella presentazione della Ricotta, scrisse: «La storia della Passione è la più grande che io conosca, e i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti». online D3b Pier Paolo Pasolini La crocefissione L’usignolo della Chiesa Cattolica, vv. 20-37

Pasolini sul set de La ricotta.

online D3c Pier Paolo Pasolini

«Eppure, Chiesa, ero venuto a te La religione del mio tempo

D3d Pier Paolo Pasolini

La “Passione” di un borgotaro Alì dagli occhi azzurri

Video La scena della Deposizione

Pier Paolo Pasolini

“Una illuminazione improvvisa”: il Vangelo di Matteo

D3e

Quasi un testamento P.P. Pasolini, Romanzi e racconti (19621975), a c. di W. Siti e S. De Laude, vol. II, Mondadori, Milano 1998

Il testo che segue è una sorta di appunto tratto da una delle conversazioni che Pasolini intrattenne con il giornalista inglese Peter Dragadze. L’insieme degli appunti, riscritti e corretti dallo stesso Pasolini, furono da lui definiti un «testamento spirituale».

Ero ad Assisi, ospite di una comunità religiosa, a discutere del mio primo film. Quel giorno arrivò senza preannuncio, ad Assisi, papa Giovanni XXIII. Ciò bloccò il traffico nella cittadina; e io fui costretto a restare chiuso in camera, rimandando la partenza. Sul comodino c’era il Vangelo1. Ho cominciato, per noia, a rileggerlo. Dopo 5 due pagine avevo già deciso che avrei girato quello che sarebbe stato il mio Vangelo secondo Matteo. Si è trattato quindi di un trauma, di una illuminazione improvvisa. Ma ora so che se anche avessi scelto ragionando non avrei potuto scegliere che il Vangelo secondo Matteo. Esso è infatti, dei quattro Vangeli, il più rivoluzionario. 1 il Vangelo: in un’intervista del 1963 Pasolini dichiara: «Fin dagli inizi io ho sempre frequentato il Vangelo [...] c’era in me questa specie di suggestione, di inconscio amore o di conscio amore per il Vangelo. [...]. Quello della religione è, cioè, proprio un problema interno di tutta la mia produzione».

Concetti chiave Nell’appunto proposto Pasolini rievoca a distanza di anni l’occasione da cui nacque l’ispirazione per uno dei suoi film più poetici, Il Vangelo secondo Matteo. Un’ispirazione nata come illuminazione improvvisa dalla lettura, iniziata per noia in una camera d’albergo, del più rivoluzionario dei quattro Vangeli, il Vangelo secondo Matteo.

824 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa spinge Pasolini a rileggere il Vangelo? ANALISI 2. Quale caratteristica presenta il Vangelo secondo Matteo?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Al centro dell’“appunto” di Pasolini c’è l’ispirazione. Rifletti sull’interpretazione di ispirazione come trauma. Credi che l’esperienza artistica nasca sempre da una illuminazione improvvisa? Rispondi facendo riferimento ad autori studiati e a tue letture personali.

3 Scritti corsari e Lettere luterane Dal gennaio del 1973 Pasolini inizia a collaborare in modo continuativo con il «Corriere della Sera», espressione di quella moderna borghesia imprenditoriale a cui lo scrittore imputava l’involuzione del paese. Non per questo Pasolini rende più morbida la sua denuncia: al contrario, sceglie di attaccare duramente la società borghese e capitalista dall’interno di essa, utilizzando la “tribuna” che gli veniva offerta in un grande quotidiano grazie alla notorietà raggiunta soprattutto come regista. Gli articoli pubblicati dal 1973 al 1975 prevalentemente sul «Corriere» sono raccolti da Pasolini poco prima della morte e pubblicati con il titolo provocatorio e incisivo, da lui voluto, di Scritti corsari. Nella nota introduttiva Pasolini affida al lettore la “ricostruzione del libro”, ovvero l’identificazione, nella molteplicità degli interventi, di un’unità di fondo. Bersagli della polemica pasoliniana sono il consumismo (anche sessuale) e la perdita del “sacro” soprattutto tra le giovani generazioni; le colpe della classe politica democristiana che ha governato l’Italia dopo il fascismo e che, alleata con il potere economico e con i nuovi media, ha contribuito a portare il paese a una vera e propria mutazione antropologica di segno negativo. Di spirito simile, ma con una vis polemica ancora più rovente, sono le Lettere luterane, una raccolta di vari scritti pubblicata postuma presso Einaudi nel 1976 con un titolo complessivo che si deve all’autore stesso. Solo il primo pezzo, I giovani infelici, e la poesia finale erano ancora inediti al momento della morte dello scrittore. I vari articoli e il trattatello pedagogico incompiuto Gennariello erano comparsi sul «Corriere della Sera» e sul «Mondo» tra il gennaio e l’ottobre 1975. Con i termini ”corsaro“ e ”luterano“ Pasolini fa diretto riferimento al carattere ribelle, irregolare, dissidente, delle sue posizioni, alla sua proposta di una visione alternativa, addirittura “eretica”, non solo al conformismo del regime ma anche a quello della sinistra, che Pasolini condanna duramente arrivando a parlare di «fascismo degli antifascisti».

Scritti corsari

Lettere luterane

GENERE

raccolta scelta di articoli di giornale, già pubblicati sul «Corriere della Sera» dal 1973 al 1975

DATA

1975

CONTENUTO

attacchi alla società borghese e capitalista e al consumismo generalizzato

GENERE

raccolta di vari scritti

DATA

l’opera venne pubblicata postuma nel 1976

CONTENUTO

polemica veemente e risentito moralismo verso i mali della società

Ritratto d’autore 1 825


D4

La polemica verso il proprio tempo Negli ultimi anni, oltre che dedicarsi all’attività cinematografica, Pasolini assume il volto del polemista, criticando aspramente quella che considerava da ogni punto di vista una degenerazione irreversibile dei costumi e dei modi di vita e assumendo posizioni volutamente provocatorie al riguardo. Denuncia anche coraggiosamente la colpevole inefficienza del potere politico e l’omertà che impedisce l’accertamento della verità riguardo le stragi che avevano insanguinato l’Italia.

Pier Paolo Pasolini

D4a

Contro il potere televisivo Scritti corsari

P.P. Pasolini, Scritti corsari, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999

Il passo è tratto da un articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione. In seguito, con la soppressione di un’ultima parte (che conteneva la vera e propria “sfida”), è entrato a far parte degli Scritti corsari con il nuovo titolo Acculturazione e acculturazione.

Nessun centralismo fascista1 è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta2. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la 5 repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro3, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura4 è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica5 voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due 10 rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così 15 storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione6 distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico7, 20 ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. […] Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la 1 centralismo fascista: durante il fascismo ogni manifestazione della vita sociale e culturale era controllata in modo dirigista dalle autorità politiche che facevano capo al governo. 2 restava lettera morta: non produceva alcun effetto. 3 Centro: Pasolini utilizza il termine, enfatizzandolo con la maiuscola, come sinonimo

del potere economico-politico, da cui emanano le direttive culturali a esso funzionali. 4 abiura: con questo termine si allude propriamente all’atto di rinnegare sotto giuramento le proprie idee (come ad esempio nel caso di Galileo, accusato di eresia dalle autorità ecclesiastiche). 5 ideologia edonistica: visione del mondo finalizzata al piacere.

826 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini

6 omologazione: azzeramento delle differenze, ridotte a un unico modello. 7 Un edonismo neo-laico: un sistema di vita, basato sul conseguimento del piacere, ispirato a posizioni di novità rispetto alle forme storiche, soprattutto ottocentesche, del pensiero laico (si pensi ad esempio al positivismo).


vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non 30 riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari8, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo 35 spavaldo i «figli di papà», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari 40 – umiliati – cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo-borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi9). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo-borghese, nell’adeguarsi al modello «televisivo» – 45 che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico10, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento 50 delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe 55 dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani11 fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non 60 è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo12, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata13 per sempre... 25

8 sottoproletari: categoria sociale (che non rientra o rientra solo marginalmente e occasionalmente nel sistema produttivo) che Pasolini, negli anni centrali della sua attività letteraria (quelli in cui scrive Ragazzi di vita), considerava depositari di autenticità e vitalità, capaci di intuire il «mistero della realtà» di cui si parla poco dopo.

9 mimesi: imitazione. 10 pragmatico: passibile di impiego pratico. 11 le scritte... mussoliniani: Pasolini allude qui a una ingenua forma di persuasione di massa utilizzata dal regime fascista, cioè gli slogan esposti sulle facciate delle case di campagna.

12 il nuovo fascismo: con questa espressione, che Pasolini utilizza più di una volta, lo scrittore allude al sistema neocapitalistico, che asservisce le masse proprio come il fascismo, ma certamente con strumenti più efficaci, come appunto la televisione. 13 bruttata: sporcata.

Ritratto d’autore 1 827


Concetti chiave Una tesi provocatoria

Il poeta Edoardo Sanguineti.

In questo celebre passo Pasolini sostiene una tesi assai forte e provocatoria: l’identificazione della moderna società consumistica creata dal neocapitalismo (il passo è del 1973) con un nuovo totalitarismo, assai peggiore di quelli del passato. Il risultato prodotto da quello che Pasolini chiama il nuovo Centro è infatti per lui ben più grave del centralismo fascista poiché, nel nome dell’ideologia del consumo, ha prodotto una reale, diffusa omologazione nel paese e ha eliminato con un colpo di spugna le differenze culturali, l’originalità propria sia dei diversi strati sociali sia delle diverse aree regionali del paese. Ciò è stato possibile da un lato grazie alla modernizzazione dei collegamenti tra le varie zone del paese e tra esse e il centro del potere economico-politico, dall’altro, e soprattutto, grazie alla rivoluzione dei mezzi di comunicazione. È in particolare sul ruolo negativo della televisione che si incentra l’appassionato J’accuse, l’atto di accusa dello scrittore che ha comportato quella che egli chiama l’abiura (termine ricorrente nel lessico pasoliniano) da parte dei ceti popolari alla propria identità antropologica, nel tentativo, peraltro destinato al fallimento, di rincorrere i modelli della borghesia. I modelli imposti dalla televisione snaturano il proletariato e d’altra parte impediscono una reale evoluzione dei ragazzi piccolo-borghesi.

La «sindrome dell’“età dell’oro”»

La visione nostalgica di un passato in cui il sottoproletariato conservava senza vergogna la propria identità non poteva non suscitare reazioni, perché sembrava far coincidere l’emancipazione degli strati sociali più bassi con uno snaturamento. Ad esempio, il poeta Edoardo Sanguineti, critico marxista ed esponente della neoavanguardia, che più volte si trovò in rapporti polemici con Pasolini, rispose all’articolo di Pasolini sul giornale «Paese sera» (5 gennaio 1974) ironizzando pesantemente su quello che gli sembrava il mito dell’«analfabeta felice». Anche altri attaccarono Pasolini per la mitizzazione di una presunta “età dell’oro”: ad esempio sull’«Unità» (16 gennaio 1974) Roberto Romani, in un articolo intitolato Tra l’Arcadia e l’Apocalisse, considera il mito edenico pasoliniano frutto di «un’avversione di matrice cattolica contro la società moderna».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la tesi dello scrittore e ricostruisci la struttura del passo e i passaggi argomentativi. COMPRENSIONE 2. Perché Pasolini considera autoritaria e repressiva la televisione? 3. Perché, secondo te, è proprio la televisione il bersaglio degli attacchi pasoliniani? ANALISI 4. Spiega e commenta l’espressione con cui Pasolini definisce l’ideologia propria del nuovo potere totalitario (r. 8). 5. Sulla base di che cosa si differenziano il centralismo fascista da quello della società dei consumi? LESSICO 6. Spiega in rapporto al contesto le seguenti espressioni: Centro, omologazione, periferia, rivoluzione del sistema di informazioni. STILE 7. Analizza il testo (che nasce come articolo del «Corriere della Sera»), dal punto di vista stilistico, sintattico e lessicale e individua le caratteristiche dello stile giornalistico.

Interpretare

SCRITTURA 8. La polemica riflessione di Pasolini si presta a una riflessione critica rivolta al mondo di oggi, con particolare riferimento alla realtà giovanile: ritieni ancora attuale l’articolo di Pasolini? Scrivi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

828 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini

I cittadini italiani vogliono sapere

D4b

Lettere luterane Il tema della necessità di un “processo” alla classe dirigente italiana ricorre in più testi giornalistici delle Lettere luterane. Il passo che riportiamo è uno stralcio dall’articolo Perché il Processo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 28 settembre 1975 (circa un mese prima della morte di Pasolini) in risposta a un articolo della «Stampa» di qualche giorno prima.

P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a c. di W. Siti e S. De Laude Mondadori, Milano 1999

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di co5 siddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la 10 campagna. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione 15 (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente). I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più accentratrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista 20 divenuto meramente mafioso. Ho detto e ripetuto la parola «perché»: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere, appunto, e prima di tutto, perché esistono.

Concetti chiave Le scelte retoriche di una “saggistica politica d’emergenza”

«Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta: dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa “ricerca”». Questa dichiarazione di Pasolini, riportata da Franco Brevini (Per conoscere Pasolini, 1981), può ben introdurre lo spirito dei testi “luterani”. La scelta di essere un “intellettuale disorganico” consente a Pasolini di pronunciare parole accusatorie di inaudita durezza nei confronti del potere. Pasolini dà vita a una «saggistica politica d’emergenza» (Berardinelli), genere poco praticato dalla cultura italiana, da cui derivano le specifiche scelte retoriche della prosa “luterana” e “corsara”: «Uno dei dati più originali della prosa “corsara” e “luterana” [è] la sua unità e la sua compattezza, l’eliminazione delle esitazioni e delle variazioni di tono della pubblicistica precedente, ancora legate all’incertezza sul canale nel quale inoltrare i messaggi». Portando all’estremo sviluppo la chiarezza analitica della sua prosa critica, Pasolini perviene a una scrittura lucida, tutta cose. In essa traspare a ogni riga la passione civile che motiva il discorso di Pasolini, ma al contempo lo scrittore non rinuncia a un rigoroso argomentare razionale, nell’intento di capire e di far capire.

Ritratto d’autore 1 829


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in uno schema ciò che, secondo Pasolini, i cittadini italiani vogliono e pretendono di sapere. ANALISI 2. Che cosa intende Pasolini con l’affermazione finale (rr. 22-24)? Perché Pasolini chiede, a nome di tutti gli italiani, giustizia e verità sugli eventi oscuri che in quegli anni segnavano il nostro paese? LESSICO 3. Perché Pasolini conferisce al termine «democratizzazione» un’accezione addirittura comica? STILE 4. Individua i procedimenti stilistico-retorici caratteristici della prosa “luterana”.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Dopo aver fatto una ricerca in Rete sul clima storico che fa da sfondo alle considerazioni di Pasolini, prepara un intervento orale di circa 3 minuti per spiegare il significato del duro attacco alla classe dirigente politica di quegli anni. Presta attenzione, in particolare, alla conclusione del pezzo.

online D4c Pier Paolo Pasolini

«Io so», 14 novembre 1974 Scritti corsari

Pier Paolo Pasolini

D4d

L’articolo delle lucciole Scritti corsari

P.P. Pasolini, Scritti corsari, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6

L’articolo comparve per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 1° febbraio 1975, con il titolo Il vuoto del potere in Italia, e fu poi inserito, nel medesimo anno, negli Scritti corsari, con il titolo L’articolo delle lucciole.

Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni, le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, 5 abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”. 10 Il regime democristiano1 ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali2) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va 15 dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.

1 regime democristiano: La Democrazia cristiana è un partito di ispirazione cattolica che fu al potere in Italia dal 1948 al 1992. Fu delegittimato dallo scandalo

di Tangentopoli. Pasolini considera la politica conservatrice della Democrazia cristiana figlia della politica del fascismo. 2 radicali: esponenti del Partito radica-

830 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini

le, che negli anni Settanta del Novecento combatté numerose battaglie in difesa dei diritti civili come, ad esempio, quelle in favore di aborto e divorzio.


Prima della scomparsa delle lucciole La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. […] La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale. 20 Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali 25 “valori” (come del resto durante il fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza 30 e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani. Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che 35 tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. […] Dopo la scomparsa delle lucciole I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleoca40 pitalistico3, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI4 in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. 45 Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l’“arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. 50 Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste. In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché 55 l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche5. Era impossibile che gli italiani 3 paleocapitalistico: che riguarda la prima

4 MSI: Movimento Sociale Italiano, partito

5 Non siamo… millenaristiche: Pasolini

fase di industrializzazione che prese l’avvio in Italia nel primo decennio del XX secolo.

di destra fondato nel 1946. Raccolse l’eredità del Partito fascista. Il suo esponente più rappresentativo fu Giorgio Almirante.

ritiene che i cambiamenti del presente non debbano essere interpretati superficialmente come un passaggio storico.

Ritratto d’autore 1 831


reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel 65 mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comporta70 mentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. […]. 60

Concetti chiave La scomparsa delle lucciole

Pasolini, attraverso l’immagine della scomparsa delle lucciole, traccia un’analisi lucida e drammatica della società italiana, a partire dall’immediato dopoguerra per arrivare ai primi anni Sessanta. Gli italiani non hanno saputo attraversare indenni i cambiamenti provocati dal boom economico: il processo di modernizzazione e di industrializzazione ha condotto a una mutazione antropologica che ha cancellato le identità culturali e i valori dell’arcaica civiltà contadina. Il degrado è tragico, addirittura peggiore di quello subito durante il fascismo. Ora gli italiani «sono diventati in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale».

Lo stile

Pasolini attacca con la forza delle sue argomentazioni l’omologazione culturale della sua epoca, ma lascia spazio anche a momenti lirici.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per quale motivo la “scomparsa delle lucciole” può essere considerata uno spartiacque importante nella “mutazione” della società italiana? 2. Spiega il motivo per cui Pasolini ritiene che, nella fase della storia italiana che precedette la “scomparsa delle lucciole”, si possa parlare di continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano (r. 18). ANALISI 3. In apertura della sezione Dopo la scomparsa delle lucciole dedicata a ciò che accadde in Italia, Pasolini sostiene che «I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più» (rr. 39-40). Che cosa intende dire con questa affermazione? STILE 4. L’articolo ha un’impostazione argomentativa, ma sono presenti anche dei passaggi lirici. Individuali nel testo.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5, 6

SCRITTURA 5. Nell’articolo di Pasolini è presente un tema di stringente attualità: la denuncia del degrado ambientale – simboleggiato dalla “scomparsa delle lucciole” – provocato dal boom economico. In un testo di massimo 15 righe, esponi le tue personali considerazioni sugli effetti del consumismo e della selvaggia cementificazione nella nostra epoca.

832 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


2

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 1 Una sperimentazione su più fronti Pasolini è stato un autore versatile ed estremamente prolifico: in poco più di trent’anni scrive almeno 20.000 pagine, distribuite su più fronti (poesia, narrativa, sceneggiature cinematografiche, teatro, saggistica, prosa giornalistica). In questa vastissima produzione è difficile, e forse non corretto, istituire gerarchie di valore per farne una classificazione canonica (del tipo opere maggiori e opere minori), anche per l’osmosi tra produzione saggistica, letteraria e cinematografica che caratterizza la sua opera. Questa produzione ha le sue radici innanzitutto nel sostrato autobiografico che si ritrova quasi in ogni pagina di Pasolini; inoltre, tutte le opere sono sostenute da un’ideologia “forte”, impostata fin dall’inizio, e da una costante intenzione pedagogico-polemica. In ogni ambito Pasolini assume una posizione originale, non conformandosi alle tendenze imperanti: questo vale innanzitutto per la produzione poetica, che si contrappone – in nome di una letteratura concepita come appassionata testimonianza di vita, come veicolo di idee – sia alla criptica lirica ermetica e post-ermetica, sia alle sperimentazioni sofisticate e intellettualistiche della neoavanguardia, con cui entra in forte polemica. Meno vistosa, ma comunque presente, è la distanza dei romanzi di Pasolini (Ragazzi di vita e Una vita violenta) dalla lezione neorealista, a cui pure, apparentemente, sembra richiamarsi. Anche nella produzione teatrale, a cui si dedica a partire dagli anni Sessanta, Pasolini compie scelte decisamente controcorrente. Decide infatti addirittura di riproporre un “teatro di parola” (come già aveva fatto D’Annunzio), che rifiuta ogni elemento spettacolare e rinnova l’essenziale ritualità della tragedia greca, da cui era stato profondamente colpito traducendo nel 1960 l’Orestea di Eschilo. I grandi conflitti propri della tragedia antica sono però trasposti nel mondo moderno e riferiti alla visione pasoliniana e al suo stesso vissuto personale. Tra i sei drammi (Orgia, Pilade, Affabulazione, Porcile, Calderón, Bestia da stile), forse il più significativo è Affabulazione (pubblicato postumo nel 1977), incentrato sul tema del rapporto tra padre e figlio, di chiara origine autobiografica. Alle opere letterarie va aggiunta la vasta produzione saggistica. Scena dal film Porcile (1969).

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 833


Del 1960 è Passione e ideologia, in cui lo scrittore riunisce saggi precedenti di critica letteraria, scritti nel decennio tra il 1948 e il 1958: la prima parte contiene due importanti saggi, La poesia dialettale del Novecento (1952) e Poesia popolare italiana (1955); nella seconda sono presenti le articolate riflessioni di Pasolini sulla letteratura del Novecento nelle quali il giovane scrittore già evidenzia l’originalità delle sue posizioni. Il suggestivo titolo associa due componenti entrambe fondamentali della personalità umana e intellettuale di Pasolini: la dimensione emozionale, intuitiva, passionale e lo sguardo critico-razionale. Del 1972 è un’altra importante raccolta saggistica, Empirismo eretico, che raggruppa in tre diverse sezioni rispettivamente questioni letterarie, linguistiche, e aspetti legati alla cinematografia, a cui sempre più Pasolini si stava dedicando. Di tono fortemente polemico, emotivo, addirittura profetico sono gli articoli di contenuto antropologico-sociale-politico degli ultimissimi tempi (Scritti corsari, 1975; e Lettere luterane, 1976, postumo) sui quali soprattutto si fonda l’immagine di Pasolini diffusa presso il vasto pubblico. Importantissima infine è la scrittura dedicata al cinema, a partire dall’inizio degli anni Sessanta e sostenuta dall’attività registica.

2 Pasolini poeta controcorrente online

Video Pasolini, poeta della contraddizione

L’interesse della critica, più che sui romanzi, è oggi maggiormente focalizzato sulla poesia di Pasolini, un universo che deve ancora essere pienamente esplorato. Una poetica antinovecentista (➜ C17, PAG. 870) Profondamente convinto delle responsabilità etico-civili dell’intellettuale, Pasolini rifiuta una poesia “cifrata”, cioè per pochi eletti. Da qui il recupero – nella fase più significativa della sua produzione (Le ceneri di Gramsci, 1957, e La religione del mio tempo, 1961) – di modelli pre-novecenteschi: il poemetto pascoliano in terzine e l’uso della rima, l’adozione di un taglio discorsivo e a volte addirittura argomentativo per le sue poesie (non a caso sono state definite «articoli in versi»), la scelta di privilegiare vocaboli precisi più che evocativi. Per lui il linguaggio della poesia deve essere caratterizzato da razionalità, logicità e storicità. La polemica con la Neoavanguardia Alla poesia “pura”, teorizzata e realizzata dagli ermetici, Pasolini contrappone un’idea di poesia che si confronti costantemente con la realtà del tempo: un’idea “forte” di letteratura che lo induce a un rapporto ferocemente polemico con la Neoavanguardia, da lui considerata una forma di sterile “neo-accademismo”, di snobistico rifiuto di ogni riferimento alla vita reale. In un passo dell’importante saggio Libertà stilistica (inizialmente pubblicato nella rivista «Officina» e quindi entrato nella raccolta Passione e ideologia), Pasolini non esita a definirsi “antimoderno” e a contrapporsi a certo ostentato sperimentalismo. “Sperimentale” di certo è anche la sua poesia più matura, ma la sua carica innovativa si traduce essenzialmente nella tendenza narrativa e nel plurilinguismo. Nel libro-intervista Pasolini su Pasolini, lo scrittore dà una definizione assai significativa dei caratteri del suo stile: «Adopero il materiale stilistico più disparato: poesia dialettale, poesia decadente, certi tentativi di poesia socialista; c’è sempre nei miei scritti una contaminazione stilistica, non ho uno stile personale, mio, completamente inventato da me, benché possegga uno stile riconoscibile. Se lei legge una mia pagina, non stenta a riconoscerla come mia. Non sono riconoscibile

834 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


perché inventore di una formula stilistica, ma per il grado di intensità al quale porto la contaminazione e la commistione dei differenti stili. [...] Quello che conta è la profondità del sentimento, la passione che metto nelle cose; non sono tanto né la novità dei contenuti, né la novità della forma».

Le fasi della produzione poetica: dagli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta La poesia dialettale All’interno della produzione poetica di Pasolini, che attraversa tutta la sua esistenza, un posto sicuramente importante è occupato dalla poesia in dialetto friulano, con cui esordisce, appena ventenne (Poesie a Casarsa, 15 testi quasi tutti brevi pubblicati a sue spese nel 1942). La scelta di usare il dialetto della zona di Casarsa, in Friuli, certamente originale nel panorama letterario del tempo, non è ingenua e immediata; al contrario, il giovanissimo poeta mostra già una sofisticata consapevolezza letteraria: si accosta al dialetto con sguardo di appassionato filologo, e la visione che lo ispira, come lui stesso precisa, è vicina alle poetiche simboliste. Nel dialetto Pasolini cerca una lingua vergine, evocativa, lontana da ogni incrostazione letteraria. Nel 1954 riunisce tutte le sue poesie friulane nella raccolta La meglio gioventù, dedicata al critico-filologo Gianfranco Contini. Il titolo è preso da un celebre canto degli alpini (Sul ponte di Perati). I temi La prima parte del canzoniere dialettale ha al centro il mito dell’innocenza della terra friulana e dei suoi contadini, che per il poeta rappresentano una sorta di paradiso perduto: anche se assai giovane, egli ha già sperimentato la condizione della “modernità” nel dolore del vivere, nella frattura tra “natura” e “coscienza”. Le influenze letterarie più evidenti nella prima parte della raccolta sono i poeti provenzali e Pascoli, sia nei motivi (la ricorrenza delle campane, della sera, delle figure della madre e dei fanciulli), sia nel tono (a volte patetico-sentimentale), sia nell’uso di metri brevi. La seconda parte del canzoniere ha un’ispirazione epico-sociale ed è cronologicamente legata alla guerra, alla Resistenza e al dopoguerra. Una dolorosa palinodia Poco prima di morire Pasolini nega il mondo evocato nella Meglio gioventù e riscrive il libro (La nuova forma de “La meglio gioventù”, 1975): ne deriva un rabbioso rovesciamento e una vera e propria profanazione dei miti giovanili, nella volontà di calpestare e distruggere ciò che ha amato. La ragione di questa singolare operazione è il mutamento antropologico, che Pasolini stigmatizza in tante sue pagine saggistiche, un mutamento che ha di fatto cancellato quella «meglio gioventù». L’usignolo della Chiesa cattolica Tra il 1943 e il 1949, a Casarsa, parallelamente alle poesie dialettali, Pasolini scrive anche versi in lingua, che saranno pubblicati solo nel 1958 con il titolo L’usignolo della Chiesa cattolica (l’usignolo è simbolo ricorrente nella poesia provenzale ben nota a Pasolini). Si tratta di una raccolta molto composita, in cui emerge in particolare il motivo religioso, qui presente nell’intreccio di eros e misticismo: la contemplazione del Cristo crocefisso, è stato osservato, «ha qualcosa dell’estasi sensuale dei mistici più accesi» (Golino), ma è anche intrisa di suggestioni decadenti. Domina la raccolta il bisogno di confessione da parte di Pasolini, l’enunciazione di conflitti drammatici enfatizzati ai fini della costruzione di un “personaggio”, quello del poeta stesso: in particolare, il conflitto tra morale e sensualità, tra istituzione e individuo (da qui la presenza di forti ossimori come «candore corrotto» o «impura castità», segnalata dal critico Franco Brevini). Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 835


La raccolta centrale: Le ceneri di Gramsci La scelta controcorrente di una poesia civile Nel 1957 Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci, la sua raccolta poetica più significativa. È composta da undici poemetti caratterizzati da un andamento narrativo e disposti in ordine cronologico, uno dei quali, il più noto, dà il titolo all’intera raccolta (➜ T1 ) La scelta metrica è ispirata volutamente alla tradizione: i poemetti sono infatti in terzine di endecasillabi con una forte presenza della rima. Una scelta certo controcorrente come, sul piano dei contenuti, quella di dar vita a una poesia “civile”, anche se il tema civile è sempre saldato alla dimensione interiore dell’io lirico e il contenuto dei testi risulta poi dichiaratamente pessimistico, per nulla propositivo. Lo stile privilegia un linguaggio colloquiale e realistico. I poemetti più significativi, oltre a quello che dà il nome alla raccolta, sono Il pianto della scavatrice (1956) e Una polemica in versi (1956). Il poemetto eponimo Le ceneri di Gramsci (1954) ha come tema centrale il rapporto contrastato di Pasolini con la dimensione politico-ideologica. È diviso in sei parti, e prende spunto da una visita del poeta alla tomba di Antonio Gramsci al Cimitero degli Inglesi (anche detto “degli acattolici”) presso il popolare quartiere del Testaccio, a Roma. Il titolo riproduce le parole iscritte sul cippo della tomba di Antonio Gramsci («Cinera Gramsci»). L’atmosfera funebre e il titolo stesso che associa al nome del fondatore del Partito comunista il termine “ceneri” rimandano a una crisi insieme personale e storica, al fallimento delle speranze suscitate dalla Resistenza («la fine del decennio in cui ci appare // tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita», «tu, morto, e noi / morti ugualmente, con te, nell’umido / giardino»). Dalla quarta sezione in poi emerge prepotentemente la presenza dell’io lirico, di cui vengono portate alla luce le contraddizioni laceranti: l’attrazione per il popolo concepito come “natura” e non come depositario di una coscienza politica, l’ebbrezza di vita, che si identifica nell’adesione al mondo dei sensi, la passione in contrapposizione all’ideologia. Su questa base si costruisce, in opposizione all’identificazione Gramsci-Pasolini, l’identificazione del poeta con l’altro morto illustre del Cimitero degli Inglesi: il poeta romantico Shelley, con la sua «carnale / gioia dell’avventura, estetica / e puerile». Proprio la constatazione del vuoto degli ideali, del vuoto della storia, dà forza maggiore alla vita corporea, alla brulicante felicità dei ragazzi, del mondo popolare in cui il poeta si immerge nell’ultima parte del poemetto, congedandosi significativamente dall’ombra di Gramsci. Il pianto della scavatrice Composto nel 1956 (anno del XX Congresso del Partito comunista sovietico) il poemetto traccia una sorta di autobiografia, un “mini-romanzo di formazione” dello scrittore in rapporto a Roma, «stupenda e misera città» che lo ha formato negli anni della sua giovinezza («mite / violento rivoluzionario / nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva»). Il lamentoso suono di una scavatrice, diventa lo Pasolini davanti alla tomba di Antonio Gramsci, al cimitero acattolico di Roma.

836 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


struggente “correlativo-oggettivo” di un tempo finito, ma che si apre al contempo al cambiamento («Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore»). Una polemica in versi Composto anch’esso nel 1956, è un testo quasi saggistico dal dichiarato significato politico: nel poemetto il poeta rivolge una risentita accusa ai dirigenti del Partito comunista, che si trovano ormai «sui binari / morti». L’involuzione burocratica paralizza il partito, un’involuzione resa attraverso immagini forti: il vento non gonfia più «le rosse / bandiere», «è già vecchio / il piano di lotta di ieri, cade / a pezzi sui muri il più fresco manifesto». Dalla sua posizione fin da ora di osservatore critico, di dissidente, il poeta può invitare il Partito a un’avventura ideologica che ne sblocchi gli automatismi dogmatici e rilanci gli ideali spenti: «è all’errore / che io vi spingo, al religioso / errore».

Le ceneri di Gramsci GENERE

raccolta di 11 poemetti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1957

CONTENUTO

poesia di impegno civile

Collabora all’analisi

T1

Pier Paolo Pasolini

«Lo scandalo del contraddirmi» Le ceneri di Gramsci, I e IV

P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a c. di W. Siti, Mondadori, Milano 2003

Il poemetto Le ceneri di Gramsci, che dà il titolo alla raccolta omonima, è scritto da Pasolini nel 1954, più o meno in parallelo a Ragazzi di vita. Riproduciamo la prima e la quarta sezione, le più note e significative del poemetto. La prima sezione prospetta lo scenario entro cui si sviluppa la riflessione di Pasolini e introduce quindi il dialogo del poeta con Antonio Gramsci; la quarta pone in primo piano l’angosciosa presa di coscienza da parte del poeta della costitutiva conflittualità della sua adesione al popolo.

I Non è di maggio questa impura aria che il buio giardino straniero1 3 fa ancora più buio, o l’abbaglia con cieche schiarite2... questo cielo di bave3 sopra gli attici giallini 6 che in semicerchi immensi fanno velo alle curve del Tevere, ai turchini La metrica Terzine di endecasillabi, al-

1 il buio giardino straniero: il cosiddet-

cune volte ipometri o ipermetri a rima incatenata (ma alle rime si sostituiscono spesso delle assonanze).

to Cimitero degli Inglesi, o anche “degli acattolici”, a Roma, dove si trova la tomba di Antonio Gramsci.

2 l’abbaglia... schiarite: lo rischiara con lampi di luce improvvisi. 3 bave: leggeri soffi di vento.

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 837


monti del Lazio... Spande4 una mortale 9 pace, disamorata come i nostri destini5, tra le vecchie muraglie l’autunnale maggio. In esso c’è il grigiore del mondo, 12 la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita6; 15 il silenzio, fradicio e infecondo... Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore era ancora vita7, in quel maggio italiano 18 che alla vita aggiungeva almeno ardore, quanto meno sventato e impuramente sano dei nostri padri – non padre, ma umile 21 fratello8 – già con la tua magra mano delineavi l’ideale9 che illumina (ma non per noi10: tu, morto, e noi 24 morti ugualmente, con te, nell’umido giardino) questo silenzio. Non puoi, lo vedi?, che riposare in questo sito 27 estraneo11, ancora confinato12. Noia patrizia ti è intorno13. E, sbiadito, solo ti giunge qualche colpo d’incudine 30 dalle officine di Testaccio14, sopito nel vespro: tra misere tettoie, nudi mucchi di latta, ferrivecchi, dove 33 cantando vizioso un garzone già chiude la sua giornata, mentre intorno spiove15. […]

4 Spande: diffonde (il sogg. è l’autunnale maggio dei vv. 10-11). 5 una mortale... destini: la pace dal sapore funebre che regna nel luogo è paragonata alla perdita di passioni di chi, come Pasolini, ha visto tramontare le speranze di rinnovamento nella società italiana. 6 la fine del decennio... la vita: Pasolini allude al decennio tra il 1945, termine della Seconda guerra mondiale, e il 1954, anno in cui scrive il poemetto. In quel decennio che si chiude è tramontata la speranza di rinnovare il mondo.

7 Tu giovane... ancora vita: il poeta si

10 ma non per noi: ma non per me (Paso-

rivolge a Gramsci, rievocando la data del primo maggio 1919, in cui fu fondata la rivista «Ordine Nuovo», dalla cui esperienza sarebbe poi nato il Partito comunista. L’espressione «l’errore / era ancora vita» allude alle vitali illusioni che nutrivano quel felice momento (non è esclusa una memoria leopardiana). 8 non padre... fratello: Gramsci è sentito non come un’autorità severa di tipo paterno, ma come un fratello. 9 l’ideale: la rivoluzione comunista.

lini usa frequentemente il noi per parlare di sé). 11 sito estraneo: luogo straniero. 12 ancora confinato: per lunghi anni Gramsci fu incarcerato. 13 Noia patrizia ti è intorno: attorno alla tomba di Gramsci sono sepolti molti aristocratici inglesi (ma anche nobili russi fuggiti in Italia in seguito alla rivoluzione). 14 Testaccio: quartiere popolare di Roma nei pressi del quale si trova il Cimitero degli Inglesi. 15 spiove: cessa di piovere.

838 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


IV Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, 87 in luce, contro te nelle buie viscere16; del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione – 90 mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione17; attratto da una vita proletaria 93 a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua 96 coscienza18; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, 99 una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto 102 amore, non accorante simpatia19... Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, 105 come loro per vivere mi batto ogni giorno. Ma nella desolante mia condizione di diseredato, 108 io possiedo: ed è il più esaltante dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma come io possiedo la storia20, 111 essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce21?

16 essere con te... viscere: Pasolini de-

18 attratto... coscienza: sono questi i versi

19 ed altro più... simpatia: il poeta rifiu-

nuncia le proprie contraddizioni: razionalmente e sentimentalmente aderisce all’ideologia marxista, ma nell’intimo è contrario a essa. 17 del mio paterno... passione: traditore della condizione borghese a cui appartiene (paterno stato) nel pensiero e in qualche labile azione, lo scrittore è consapevole (mi so) di essere vincolato a essa nel profondo da un’attrazione istintuale e da ragioni di gusto personale (estetiche).

centrali di tutto il poemetto in cui si esplicita con grande chiarezza la contraddittoria adesione di Pasolini al popolo: quello che egli ama nel popolo è antecedente alla riflessione del marxismo, egli venera (è per me religione) l’allegria popolare che non ha nulla a che fare con la lotta per i diritti dei subalterni che dura da secoli; lo attrae la natura e non la coscienza popolare.

ta altre forme di adesione al popolo che possono essere giuste ma non sincere e corrispondere a un amore astratto invece che a quella viscerale simpatia che sente propria. 20 possiedo la storia: possiedo la consapevolezza razionale del corso della storia. 21 ma a che... luce: lo scrittore si chiede a che cosa serva la luce della consapevolezza razionale se non è capace di vivificare l’azione.

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 839


Collabora all’analisi Comprendere e Analizzare

La prima sezione del poemetto può essere divisa in due parti: la prima colloca la riflessione del poeta in un determinato ambiente fisico e naturale, la seconda introduce il dialogo del poeta con Antonio Gramsci davanti alla sua tomba. 1. Indica i versi corrispondenti alla prima e alla seconda parte. L’ampia sequenza descrittiva che occupa la prima parte del poemetto non ha tanto il fine realistico di delineare le caratteristiche del luogo, ma introduce specifiche connotazioni simboliche che rimandano al significato complessivo del poemetto: la tristezza angosciosa del luogo, la giornata autunnale anche se è maggio, il silenzio funebre, diventano corrispettivi della fine degli ideali che animarono la Resistenza, della crisi dei valori in cui Gramsci aveva creduto. 2. A quale luogo si fa riferimento? Quale espressione usa l’autore per designarlo? 3. Fai la parafrasi dei vv. 8-15. 4. Individua e trascrivi i sostantivi e gli aggettivi che rimandano all’area semantica della tristezza, dell’abbandono. 5. Puoi vedere nel testo l’allusione a un preciso periodo storico? Quali eventi in Italia (e fuori) possono spiegare il desolato pessimismo dello scrittore? 6. L’agg. profondo (riferito a «sforzo di rifare la vita») è posto in rima con l’agg. infecondo (di per sé riferito al silenzio del cimitero). Quale concetto segnala il collegamento tra i due termini attraverso la rima? La seconda parte della prima sezione costituisce un muto dialogo con Antonio Gramsci (il Tu del v. 16), figura centrale nella formazione di Pasolini, come più volte egli stesso ha sottolineato. A Gramsci egli deve in larga parte la sua stessa idea di cultura; al grande pensatore lo accomuna anche una forte vocazione pedagogica. Ma nel corso della sua vita Pasolini, assunto il ruolo marcato di “dissidente” votato alla persecuzione, sente particolarmente vicino il Gramsci “carcerato”, nel quale si identifica, il Gramsci (come scrive lo stesso Pasolini in Libertà stilistica) «tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero». Secondo vari critici Pasolini riduce Gramsci a un suo “doppio”: non a caso lo immagina giovane ardente, nell’atto di indicare la via, ma anche condannato presto all’emarginazione, alla prigionia: nel suo volto di «martire giovinetto» (Asor Rosa), figura ricorrente nell’immaginario pasoliniano, Gramsci perde quasi i connotati storici per diventare una sorta di alter ego del poeta, a sua volta perseguitato ed emarginato. 7. Quale immagine indica l’importante ruolo storico del personaggio? 8. Quale significato ti sembra possa avere la precisazione «non padre, ma umile / fratello»? 9. Il riferimento paradigmatico a un Gramsci giovane, l’associazione della sua giovinezza con l’errore che ancora viveva, ovvero le illusioni di cambiare il mondo, la stessa immagine della mano che addita l’ideale, richiamano Leopardi (in particolare la celebre canzone A Silvia). Cerca di dare concretezza a questa probabile reminiscenza leopardiana. 10. Che cosa accomuna il periodo più duro della vita di Gramsci (l’emarginazione e la prigionia) alla sorte delle sue spoglie? 11. Interpreta il significato del riferimento ai suoni del quartiere, alla vita e al lavoro del popolo, che giungono “sbiaditi”, come lontani, alla tomba di Gramsci. Nella quarta sezione emerge l’io lirico, di cui sono portate alla luce le laceranti contraddizioni in rapporto all’ideologia marxista e all’adesione al popolo. Celeberrima la terzina (vv. 85-87) in cui Pasolini enuncia con sintetica evidenza la contraddizione che gli impedisce una razionale adesione all’ideologia marxista: da un lato in luce, cioè nell’apparenza, nelle prese di posizione pubbliche, egli è “con Gramsci”; nel profondo del suo essere, a livello irrazionale e d’istinto, sa di rimanere ancorato alle sue radici borghesi: la sua vicinanza al proletariato non è quindi di matrice ideologico-politica; più che sensibile alla difesa dei diritti dei subalterni, è attratto dalla loro vitalità. La sezione si chiude con una angosciosa domanda, relativa al significato che può avere la consapevolezza storica propria di un intellettuale di formazione borghese.

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12. Sintetizza con parole tue la contraddizione che costituisce il nodo centrale del poemetto. 13. Nel testo ricorrono frequentemente delle contrapposizioni. Spiega il senso delle seguenti antitesi: • Pasolini nel suo rapporto con Gramsci: cuore / luce vs buio / viscere; • Pasolini nel suo rapporto con la classe borghese: pensiero / «un’ombra di azione» vs «calore / degli istinti» / «estetica passione»; • Pasolini nel suo rapporto con il popolo: allegria vs «millenaria / sua lotta»; natura vs coscienza; giusto vs «non sincero»; «astratto / amore» vs «accorante simpatia». 14. Che cosa differenzia il poeta dai poveri? 15. Qual è il significato della domanda che chiude la quarta sezione, quella maggiormente autobiografica, del poemetto?

Interpretare

16. Ora che hai letto e analizzato il testo, spiega e interpreta il titolo: Le ceneri di Gramsci. 17. Pasolini inaugura una particolare forma di poesia civile, animata dalla passione ideologica, attenta ai temi collettivi, ma al contempo ancorata alla dimensione dell’io. Sviluppa un’analisi complessiva del testo in questa prospettiva. 18. Spiega la distanza della poesia di Pasolini dalla poesia dell’Ermetismo a livello sia tematico sia metrico-stilistico.

Dagli anni Sessanta agli anni Settanta: il tempo della polemica Nel decennio dal 1961 al 1971 Pasolini pubblica altre raccolte poetiche: La religione del mio tempo nel 1961 (un titolo ironico, considerata l’eclissi della dimensione del sacro nella società contemporanea, su cui Pasolini torna più volte), Poesia in forma di rosa (1964) e Trasumanar e organizzar (1971). Le prime due raccolte Considerate nel loro complesso, le prime due raccolte costituiscono un amaro bilancio storico e insieme esistenziale e testimoniano la presenza nell’autore di un pessimismo ormai radicato. In un intervento giornalistico del 1961, in risposta al critico marxista Salinari, Pasolini conferma che La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni Sessanta: «La sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue». Cronologicamente le poesie confluite nelle due raccolte si iscrivono nel periodo della vita in cui Pasolini, tramontato il mito felice del popolo, ormai persa la fiducia che la letteratura possa incidere sulla società, si dedica al cinema e inizia una fitta attività saggistica dominata da una sempre più accentuata volontà polemica. Allo stesso modo anche la produzione poetica di questi anni è dominata da una netta contrapposizione al proprio tempo, che si traduce ora in dura polemica, ora in un atteggiamento di narcisistico vittimismo: Pasolini vede attorno a sé solo simboli di rovina e si autorappresenta come un emarginato, un relitto, un fossile («Io sono una forza del passato»), uomo solo, perseguitato, immagine vivente della “diversità” del poeta rispetto al mondo inautentico del neocapitalismo e della banalità televisiva. Un antidoto all’omologazione snaturante della società dei consumi può provenire solo da mondi “diversi” e ancora primitivi: la superstite utopia pasoliniana si incarna nel volto di un giovane algerino, Alì dagli occhi azzurri, protagonista di una suggestiva lirica inserita nella raccolta Poesia in forma di rosa, significativamente intitolata Profezia e dedicata al filosofo francese Sartre. La gente a cui Alì appartiene Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 841


sbarcherà a milioni nel sud dell’Italia e, dietro Alì dagli occhi azzurri, risalirà l’Italia, invaderà l’Occidente e rifonderà, in una sorta di palingenesi, il corso della storia. Traspare nell’inquietante “profezia”, oggi estremamente attuale, la visione utopistica del Terzo Mondo, che spinge lo scrittore, deluso dalla società italiana, a viaggiare verso paesi poveri e sottosviluppati, come l’India e l’Africa, alla ricerca della perduta vitalità e genuinità del “popolo”. Trasumanar e organizzar L’ultima raccolta di poesie è pubblicata nel 1971 dopo sette anni di silenzio e consegue a nuove delusioni, come il Sessantotto, che il poeta condanna in celebri versi. In poesie di tono diverso e di differenti scelte metriche, Pasolini ripropone il contrasto tra la propria figura di uomo e intellettuale e un tempo sentito sempre più come negativo. Carattere specifico della nuova raccolta è la presenza massiccia del tema politico (segnalato anche da titoli di tipo cronachistico), la deliberata noncuranza stilistica e l’inusuale tono ironico, evidente già nell’associazione, presente nel titolo, tra il pragmatico verbo organizzar e il dantesco trasumanar (“trascendere i limiti della condizione umana”, un neologismo dantesco, dal primo canto del Paradiso).

La produzione poetica di Pasolini La meglio gioventù L’usignolo della Chiesa cattolica

motivi religiosi e legati alla civiltà

Le ceneri di Gramsci

poesia di impegno civile

La religione del mio tempo Poesia in forma di rosa Trasumanar e organizzar

contrapposizione al proprio tempo, vuoto di valori

3 Pasolini romanziere Ragazzi di vita La genesi e l’elaborazione del libro La genesi di Ragazzi di vita (1955), il maggiore romanzo di Pasolini, si trova nell’incontro fra il mito friulano della “meglio gioventù” e il contatto esaltante di Pasolini, giunto a Roma, con l’universo delle borgate romane. Il testo del romanzo è il frutto di una complessa elaborazione: fin dal 1950 Pasolini aveva steso un primo nucleo narrativo con il titolo di Il Ferrobedò al quale si aggiunsero via via altri racconti, a conferma della struttura sostanzialmente “episodica” dell’opera. Nel frattempo, Pasolini andava indagando attentamente lo sfondo sociologico delle vicende che intendeva rappresentare, ovvero l’universo popolare romano (Studi sulla vita del Testaccio, 1951, Appunti per un poema popolare, 1951). Nel 1954 presenta un progetto complessivo dell’opera all’editore Garzanti, che la pubblicherà nel 1955, ma imponendo all’autore, nel momento delle bozze, pesanti interventi di censura su frasi e interi episodi, ritenuti troppo scabrosi.

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Un “antiromanzo popolare” Ragazzi di vita non corrisponde certamente all’idea convenzionale di romanzo: manca innanzitutto un vero e proprio protagonista (neppure Riccetto può davvero incarnare tale ruolo), manca un “filo conduttore”, manca in fondo un vero e proprio intreccio (il romanzo è costituito da episodi che si susseguono rimanendo sostanzialmente autonomi l’uno dall’altro); men che meno esiste infine un “sugo della storia”. Più che le vicende di singoli personaggi l’opera di Pasolini ritrae per fotogrammi, in modo quasi “cinematografico”, la vita del sottoproletariato delle borgate, colto nel momento della prima giovinezza attraverso uno sguardo sociologicamente curioso e portatore di un’evidente simpatia. La materia narrativa è organizzata in otto capitoli, unificati dalla continuità dei luoghi (tutti interni a Roma e alle sue periferie) e dal ritmo frenetico dell’azione. I “ragazzi di vita” I personaggi che si muovono sulla scena del romanzo sono tutti ragazzi. Solo in rari casi essi sono identificati dal nome proprio (Amerigo, Genesio). Per lo più sono designati da un soprannome, un nome in codice loro assegnato dalla comunità borgatara di cui fanno parte sulla base di qualità o dell’aspetto fisico: il Riccetto, il Lenzetta, il Piattoletta, il Caciotta. Si tratta di personaggi dalla psicologia elementare, caratterizzati da una vitalità “biologica” che li spinge a lanciarsi continuamente in avventure ora comiche, ora grottesche, ora tragiche, per soddisfare bisogni elementari: il cibo prima di tutto, ma anche il sesso. Sospinti da un’esuberante energia, sono continuamente proiettati nel vortice dell’azione, nel ritmo di una vita picaresca, disperata ma anche a suo modo allegra, che sempre si rinnova in nuove scorribande per lo più al di fuori della legalità (➜ T2 ) Un universo “chiuso” fuori della storia Quello dei “ragazzi di vita” è un mondo chiuso, che non ammette dialettica al suo interno e non consente di fatto un’evoluzione dei personaggi che derivi dal confronto con la vita adulta e/o con la società, ma prevede solo una “uscita” definitiva. Ciò ha a che fare con il mito pasoliniano del sottoproletariato che anima il romanzo e che interpreta tale mondo come “natura” contrapposta a “coscienza”: i ragazzi vivono in una sorta di “limbo” che non ammette compromissioni con la società civile e men che meno con la politica e la storia. Lo stesso gergo circoscritto in cui si esprimono è funzionale a sancire una separatezza nella quale per Pasolini sta il fascino di questo mondo. Lo sguardo partecipe dell’autore Anche se non manca nel romanzo una prospettiva sociologica nel rappresentare il degrado e l’emarginazione che spingono alla delinquenza i ragazzi, l’interesse dell’autore per i personaggi e il mondo del sottoproletariato è viscerale, irrazionale, legato al suo personale vissuto: essi rappresentano ai suoi occhi la vitalità della prima giovinezza e una primitività quasi romantica. Proprio l’assenza di un obiettivo di denuncia, oltre ad alcuni aspetti narratologici, allontana il romanzo pasoliniano dall’ottica neorealista: Ragazzi di vita non è assolutamente un romanzo neorealista come invece fu letto, essendo piuttosto vicino allo sperimentalismo teorizzato nella rivista «Officina». Pasolini nella borgata del Quartucciolo a Roma.

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 843


Le scelte narrative e stilistiche È soprattutto sul piano stilistico-linguistico che il romanzo si presenta come sperimentale. Di fatto Pasolini tenta un’operazione analoga a quella verghiana (ma si sente anche l’influenza del modello di Gadda), cioè la mimesi del modo di pensare e parlare del sottoproletariato romano, che, nel suo caso, corrisponde alla sua adesione al mondo descritto. Nell’estate del 1951 Pasolini aveva conosciuto Sergio Citti, diciottenne, imbianchino, appena uscito dal riformatorio: il borgataro di Tor Pignattara sarà da allora in poi il suo «dizionario vivente» (Naldini), un vero e proprio consulente linguistico. Mentre scriveva Ragazzi di vita, Pasolini annotava su un taccuino, con spirito filologico, le espressioni del parlato popolare romano che lo colpivano e ne chiedeva poi spiegazioni a Citti. La massiccia immissione della parlata delle borgate, del loro gergo, è presente in particolare nei dialoghi tra i personaggi, che rendono con immediatezza il parlatopensato dei “ragazzi di vita”. Allo stesso intento di mimesi risponde anche l’uso ricorrente del discorso indiretto libero. I modi dialettali entrano in parte anche nell’italiano medio utilizzato invece dalla voce narrante che, a differenza del narratore verghiano, è onnisciente e introduce non di rado interventi esplicativi o di commento che testimoniano l’evidente “simpatia” dell’autore per il mondo rappresentato. Spesso raffinatamente letterarie sono invece le descrizioni paesaggistiche, in cui traspare in modo evidente il punto di vista dell’autore colto.

PER APPROFONDIRE

Ragazzi di vita

GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1955

CONTENUTO

rappresentazione del mondo popolare, visto come realtà istintiva e vitale

Un libro “scottante” Come si è detto, nonostante i tagli delle scene più scabrose già imposti all’autore dall’editore, Ragazzi di vita fu accusato di pornografia dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Indubbiamente alcune scene, il ricorrente turpiloquio, l’assoluta mancanza di una coscienza morale nei ragazzi, potevano scandalizzare negli anni Cinquanta soprattutto gli ambienti benpensanti e cattolici. Ma non mancarono critiche severe anche dalla critica marxista, infastidita dalla mancanza nei personaggi di una coscienza di classe e di un’ideologia politica. D’altra parte, dietro l’accusa di pornografia si celava anche

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lo sconcerto per l’indiretta carica politica del libro, in cui era presente un’impietosa diagnosi di una situazione sociale gravemente degradata, quella delle borgate romane: «Il cancro sociale e urbanistico di quelle borgate era stato voluto dalla dittatura di Mussolini: la guerra e il dopoguerra avevano cronicizzato la situazione. La nuova democrazia decollava verso il benessere economico, ma quella invisibile piaga, urlante piaga umana, si estendeva sempre più, pari a una metastasi. Un libro, intriso di eleganze letterarie, aveva dato parola a tutto ciò» (Siciliano).


Pier Paolo Pasolini

T2

L’avventurosa lotta per la sopravvivenza dei giovani borgatari Ragazzi di vita, cap. 5

P.P. Pasolini, Ragazzi di vita, in Romanzi e racconti, vol. I, Mondadori, Milano 2006

Il brano proposto (tratto dal capitolo intitolato Le notti calde, uno dei più “movimentati” del romanzo) può ben testimoniare le caratteristiche salienti di Ragazzi di vita. Nella prima scena il Riccetto e alcuni compagni (Alduccio, il Lenzetta, Lello) tentano di rubare in un’officina, ma sono costretti a rinunciare all’impresa. Nella seconda è protagonista il solo Riccetto, che si aggira in cerca di cibo al mercato.

D’altra parte, il Riccetto, i quattro soldi che guadagnava facendo il pischello del pesciarolo1, non gli bastavano. E allora come fai a comportarti da ragazzo onesto! Quando c’era da rubare, rubava, capirai, con quella fame addietrata di grana che teneva2! Adesso poi c’aveva pure l’anello da fare alla ragazza3... Così, col Lenzetta, 5 decisero di organizzare un furto in grande: di farsi un bottino di semiassi e altro ferrovecchio da restare ingranati almeno per una mesata4. Partirono in quattro: il Riccetto, il Lenzetta, Alduccio e un certo Lello, un amico del Lenzetta, ch’era di quelli che frequentavano il Bar della Pugnalata. Erano col carrettino. 10 Come imboccarono la Casilina5, cominciò a soffiare il vento e delle colonne di polvere bianca e d’immondezza cominciarono a girare qua e là sui larghi e sugli spiazzi, suonando sui fili della ferrovia di Napoli come su una ghitarra6. In quattro e quattr’otto, dietro tutto quel bianco il cielo si fece nero, e contro quel fondale nero come l’inferno, le facciate rosa e bianche della Casilina brillavano come carte di 15 cioccolatini. Poi anche quella luce si offuscò, e tutto fu scuro, spento, ormai freddo, sotto gli sfregamenti delle ventate che riempivano gli occhi di granelli di polvere. I quattro s’andarono a riparare sotto un portoncino appena in tempo per non prendersi addosso il primo rovescio d’acqua. Tuonava con dei rimbombi che pareva che sei o sette cupoloni di San Pietro, messi dentro un bidone che li potesse contenere 20 tutti, fossero sbattuti uno contro l’altro lassù in mezzo al cielo, e i loro botti si sentissero poi un po’ fasulli qualche chilometro discosto, dietro le file delle case e le distese dei quartieri, verso il Quadraro o verso San Lorenzo7, o chissà in che posto, proprio magari là dove c’era ancora un po’ di cielo azzurro e ci volavano i passeretti. Dopo una mezzoretta spiovve8 e i quattro arrivarono infreddoliti e bagnati come 25 pulcini a Porta Metronia, dalle parti dov’erano stati a rubare l’altra volta: era spiovuto, ma il cielo ancora era tutto buio, come ci fosse stato messo davanti un velo per coprirci qualche cosa di pauroso, e questo velo fosse più pauroso ancora: qua e là lo sgaravano9 dei lampetti rossi. Era venuto sera almeno due ore prima, e a Porta Metronia era tutto deserto e gocciolante. I quattro fecero la conta10: al Riccetto 30 toccò star fuori col carrettino. Gli altri entrarono, e come furono dentro il magazzino,

1 il pischello del pesciarolo: il garzone

3 Adesso... alla ragazza: il Riccetto si è

del pescivendolo (letteralmente pischello significa “ragazzetto”). 2 fame addietrata... teneva: bisogno arretrato di denaro (grana) che aveva.

fidanzato con Irene. 4 restare ingranati… mesata: avere soldi per almeno un mese. 5 la Casilina: la strada che da Roma va a Napoli.

6 ghitarra: chitarra. 7 Quadraro... San Lorenzo: quartieri di Roma, come ancora altri più avanti. 8 spiovve: cessò di piovere. 9 sgaravano: squarciavano. 10 fecero la conta: estrassero a sorte.

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fecero un’altra volta la conta per chi doveva entrare per primo col sacco. Toccò a Lello. Con uno spagheggio11 che tremava come una foglia Lello entrò, e riempì il sacco di semiassi, trapani e altra roba, in modo che non ce la faceva più quasi a smuoverlo. Allora riuscì a chiamare il Lenzetta e Alduccio che lo aiutassero a por35 tare il sacco, visto che ormai il peggio era fatto. Uscì ma non trovò più gli altri due. Allora corse fuori dal magazzino, dal Riccetto che stava lì a aspettare col carretto, e gli chiese dov’erano andati. E il Riccetto gli disse che lui li aveva visti entrare. Lello allora rientrò, per cercare di portar fuori da solo il sacco sul carrettino. Il Riccetto lo vide sparire dentro il magazzino ma, come dopo un po’ ricomparve trascinando 40 il sacco, venne fuori il guardiano e gli si gettò addosso. Intanto il Lenzetta e Alduccio, ch’erano entrati in un magazzino che stava dietro il deposito di ferrivecchi, che dalla strada non si vedeva, ora stavano risortendo12 da laggiù con l’altro sacco pieno di roba che il Riccetto non capiva, ma che erano delle forme di formaggio. Come furono nel cortile del deposito, però, smicciarono13 Lello acchiappato dal guardiano 45 che cercava di svincolarsi e di tagliare14, ma non ce la faceva. Allora, per aiutarlo, lasciarono perdere il sacco del formaggio, e si gettarono pure loro addosso al guardiano: questo però, poveraccio, cominciò a chiamare aiuto, e così corsero fuori da un forno lì presso il padrone del forno e i suoi garzoni. Soltanto Alduccio riuscì a svignarsela: ma prima d’arrivare sulla strada, dove il Riccetto, facendo finta di 50 niente, lo stava a aspettare, proprio sul cancello gli si mise davanti dell’altra gente ch’era corsa lì; lui allora filò giù lungo la rete metallica verso un altro cancello più piccolo ch’era più avanti: fece per scavalcarlo ma nella fretta scivolò con un piede sul ferro bagnato, e rimase infilato con una coscia s’una sbarra a punta come una lancia, che gli si conficcò tutta dentro. Ma poté lo stesso saltare dall’altra parte, e il 55 Riccetto gli corse incontro per aiutarlo: gli altri due o tre che gli erano corsi dietro, vedendo che s’era fatto male, lo lasciarono perdere, per non avere niente che fare. Il Riccetto prese Alduccio sotto braccio, lo accompagnò un po’ più giù, verso la Passeggiata Archeologica, e come furono in un punto scuro, gli fasciò stretto con un pezzo di canottiera la ferita; poi andarono ancora avanti, presero la circolare15, 60 restando di dietro, sulla piattaforma, e scesero al Ponte Rotto. Il Riccetto lasciò Alduccio all’ingresso dell’ospedale Fatebenefratelli. Intanto, piano piano, era ricominciato a piovere e tuonare, per quei quartieri e quelle strade per dove il Riccetto, pensando che o Alduccio all’ospedale o gli altri due in camera di sicurezza, presi a ceffoni o a sacchettate di sabbia, avrebbero parlato, si preparava a vagabondare 65 per tutta la notte. Cominciava a schiarire. Sopra i tetti delle case si vedevano striscioni di nubi, sfregati e pestati dal vento, che, lassù, doveva soffiare libero come aveva soffiato al principio del mondo. In basso, invece, non faceva che ciancicare16 qualche pezzo di 70 manifesto penzolante dai muri, o alzare qualche carta, facendola strusciare contro il marciapiede scrostato o sui binari del tram. Come le case si allargavano, in qualche piazza, su qualche cavalcavia, silenzioso come un camposanto, in qualche terreno lottizzato dove non c’erano che cantieri

11 Con uno spagheggio: con una paura (anche in italiano si usa: prendersi uno spaghetto).

12 risortendo: uscendo. 13 smicciarono: videro di scorcio. 14 tagliare: scappare.

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15 la circolare: l’autobus che percorreva la circonvallazione.

16 ciancicare: stropicciare.


con le armature17 alte fino al quinto piano e praticelli zellosi18, allora si scorgeva tutto il cielo: coperto da migliaia di nuvolette piccole come pustole, come bollicine, che scendevano giù verso le cime svanite e dentellate dei grattacieli in fondo, in tutte le forme e tutti i colori. Conchigliette nere, cozze giallognole, baffi turchini, 75 sputi color rosso d’uovo; e in fondo, dopo una striscia d’azzurro, limpido e invetrito come un fiume della terra polare, un nuvolone color bianco, tutto riccio, fresco e immenso che pareva il Monte del Purgatorio. Il Riccetto se ne tornava, bianco in faccia come un cencio, giù verso via Taranto, 80 piano piano, aspettando che piazzassero le bancarelle del mercatino e venisse gente a far la spesa. Aveva una fame, povero figlio, che stava per sturbarsi19, e metteva un piede avanti all’altro senza sapere neanche lui dove andava. [Alla ricerca di cibo, il Riccetto viene invitato da uno spazzino, con il miraggio che poi potrà cibarsi dei rifiuti, ad aiutare a scaricare i bidoni dell’immondizia sul camion della spazzatura. Una volta raggiunto sul camion l’immondezzaio in una zona periferica della città, la ricerca di Riccetto di qualcosa di commestibile si rivelerà infruttuosa. Il povero ragazzo, sfinito dal caldo e dalla fame, ritorna con un autobus in città e poi, come un cane affamato, al mercato di via Taranto da cui era partito.] Allumava20 le bancarelle dei fruttaroli21, e qualche persica22 e due o tre mele, riuscì a fregarle: se le andò a mangiare in un vicoletto. Poi ritornò più affamato ancora con 85 quel po’ di dolce nello stomaco, attratto dall’odore del formaggio che veniva dalla fila delle bancarelle bianche proprio lì di fronte al vicoletto, dietro la funtanella, sul selciato fradicio. C’erano allineate delle mozzarelle, delle caciotte, e dei provoloni appesi in alto, e sopra il banco c’erano delle pezze già tagliate di emmenthal e di parmigiano, o di pecorino; ce n’erano pure dei pezzi ridotti alla misura di tre o quattro etti, e 90 anche meno, isolati e sparsi tra le forme intere. Il Riccetto, turbato, mise gli occhi su una fetta di gruviera, dalla pasta un po’ ingiallita, e così odorosa che toglieva il fiato. Ci s’accostò, facendo moina23, e aspettando che il padrone fosse assorbito dalla discussione con una cliente, grassa come un vescovo, che stava da un bel pezzetto lì a esaminare con aria velenosa il formaggio, e con una mossa fulminea zac si beccò 95 il pezzo di gruviera e se lo schiaffò in saccoccia24. Il padrone lo sgamò25. Piantò il coltello in una forma, fece: «Un minuto, a signó26», uscì fuori dal banco, acchiappò pel colletto della camicia il Riccetto che se la squagliava facendo il tonto, e con aria paragula27, sentendosi in pieno diritto di farlo, gli ammollò due sganassoni che lo voltò dall’altra parte. Il Riccetto furioso, come si riebbe dall’intontimento, senza pensar 100 tanto gli si buttò sotto a testa bassa, tirando alla disperata dei ganci28 ai fianchi: l’altro sbarellò29 un momento, ma poi, siccome era grosso due volte il Riccetto, cominciò a menarlo in modo tale che se degli altri bancarellari non fossero corsi lì a separarli, l’avrebbe mandato diretto al Policlinico. Ma però, da fusto e da dritto30 come si sentiva, poté permettersi di calmarsi subito. Disse a quelli che lo reggevano: «Lassateme, 17 armature: ponteggi. 18 zellosi: imbrattati di sporco (zella). 19 sturbarsi: svenire. 20 Allumava: sbirciava. 21 fruttaroli: fruttivendoli. 22 persica: pesca.

23 facendo moina: facendo finta di niente, dandosi un contegno. 24 saccoccia: tasca. 25 lo sgamò: se n’accorse. 26 a signó: signora. Il vocativo preceduto da a e la forma tronca sono forme tipiche del romanesco.

27 paragula: furbastra. 28 tirando… ganci: tirando pugni (nel pugilato, sferrati con il braccio piegato ad angolo retto) come capitava. 29 sbarellò: vacillò. 30 da fusto e da dritto: da grande e grosso e da scaltro.

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 847


lassateme, a moretti31, che nun je fo’ niente32. Che me metto co li regazzini, io?». Il Riccetto invece, tutto pesto e con un po’ di sangue che gli spuntava tra i denti, continuò a calciare ancora per un pezzetto tra le braccia di quelli che lo reggevano. «Damme er formaggio mio, e spesa33», fece già quasi conciliante il formaggiaro. «E dàje ’sto formaggio», fece un pesciarolo lì appresso. Il Riccetto si sfilò fiacco dalla 110 tasca il pezzo di gruviera, e glielo porse, con una faccia smorta, masticando vaghi pensieri di vendetta e inghiottendo il rancore con il sangue delle gengive. Poi, mentre che il treppio34 intorno si scioglieva, siccome che il fatto era proprio trascurabile, se ne andò giù in mezzo alla folla, tra le bancarelle rosse, verdi, gialle, tra montagne di pomodori e di melanzani, coi fruttaroli che urlavano intorno così forte che si doveva115 no piegare sulla pancia, tutti allegri e contenti. Si diresse giù a via Taranto, e si fece piano piano i quattrocento scalini che portavano al pianerottolo dove dormiva. Non si reggeva più in piedi per la debolezza; vide, sì, che la porta dell’appartamento vuoto, di solito chiusa, era aperta e sbatteva di tanto in tanto a qualche colpo d’aria: ma non ci fece caso. Barcollando e a gesti lenti come uno che nuota sott’acqua, cacciò dalla 120 saccoccia un pezzo di spago, lo fece passare per due occhielli e lo legò, tenendo così chiusi i battenti. Poi s’allungò sul pavimento, già addormentato. Non doveva essere passata neppure mezzora – giusto il tempo perché la portiera facesse una telefonata e quelli arrivassero – che il Riccetto si sentì svegliare a pedate e si vide addosso due poliziotti. Per farla breve, durante la notte l’appartamento lì accanto era stato svaligia125 to; per questo la porta sbatteva. Il Riccetto, svegliato, poverello, da chissà che sogni – forse di mangiare a un ristorante o di dormire su un letto – s’alzò stropicciandosi gli occhi, e senza capirci niente seguì ciondolando giù per le scale i poliziotti. “Perché m’avranno preso”, si chiedeva, ancora non del tutto sveglio. “Boh...!” Lo portarono a Porta Portese, e lo condannarono a quasi tre anni – ci dovette star dentro fino alla 130 primavera del ’50! – per imparargli35 la morale. 105

31 a moretti: ragazzi, gente (propr. chi è scuro di capelli, poi appellativo generico).

32 nun je fo’ niente: non gli faccio niente. 33 spesa: paga.

34 treppio: crocchio di persone. 35 imparargli: insegnargli.

Analisi del testo Struttura e tematiche Il testo presentato si articola in due distinte scene: la prima vede in azione il gruppo dei “ragazzi di vita”, impegnati in un tentativo di furto, nel secondo protagonista assoluto è il Riccetto. In entrambi gli episodi l’azione narrativa è messa in moto da bisogni elementari, come del resto avviene in tutto il romanzo: nel primo caso la ricerca di denaro, nel secondo la ricerca di cibo per sfamarsi. Bisogni che presuppongono una condizione di miseria ed emarginazione che accomuna tutti i “ragazzi di vita” e costituisce il realistico sfondo sociologico del romanzo. Nel primo episodio i ragazzi si propongono, grazie alla vendita della refurtiva, di vivere almeno per un mese senza problemi economici (ingranati). La precarietà che caratterizza la loro misera esistenza, il vivere alla giornata, li spinge a cercare continuamente nuove avventure, quasi sempre all’insegna dell’illegalità, senza che li sfiori neppure un barlume di coscienza morale. Il tentativo (fallito) di furto nel deposito è descritto “in presa diretta” attraverso una sintassi semplificata e verbi prevalentemente di azione (entrò, uscì, corse, rientrò, ricomparve ecc.). Il secondo episodio ha come protagonista il Riccetto. La molla dell’azione è in questo caso la fame arretrata del ragazzo. Dopo aver faticato per ore a lavorare con degli spazzini per rimediare un po’ di cibo, il Riccetto si ritrova al punto di partenza. È ormai giorno e il mercato dove il ragazzo si aggira comincia ad animarsi con i primi clienti. La fame lo porta guidato dall’olfatto verso un banco di formaggi. Nonostante l’abilità con cui

848 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


sottrae un pezzo di formaggio, è scoperto dal formaggiaio e l’avventura anche in questo caso finisce male: il Riccetto si ritrova non solo affamato ma anche pestato. Il ciclo iniziato nella notte precedente con il primo furto fallito si chiude anche peggio: durante la notte il Riccetto è svegliato dai poliziotti che lo arrestano per un furto che non ha commesso.

La tipologia della voce narrante e le scelte lessicali Come si può vedere soprattutto nel primo episodio, nel quale mancano totalmente i dialoghi, nelle parti di narrazione, affidate a una voce narrante in terza persona, Pasolini impiega prevalentemente un italiano medio, con inserimento di alcune espressioni dialettali, in particolare nel lessico («pischello del pesciarolo»). Il secondo episodio ha più termini dialettali (allumava, persica, facendo moina, saccoccia, aria paragula) che diventano dominanti quando il narratore dà la parola direttamente al formaggiaio. È in questo breve, colorito inserto che la mimesi del parlato e del pensato popolare è massima. Una vera e propria regressione alla mentalità e al lessico del mondo narrato si ha però anche nel brevissimo inserto iniziale di discorso indiretto libero: la voce è quella del narratore, ma il punto di vista è quello di Riccetto o di uno dei “ragazzi di vita”. Se l’espressione «E allora come fai a comportarti da ragazzo onesto!» a livello sia linguistico che mentale non è riferibile ai ragazzi di vita, il seguito del breve inserto adotta integralmente l’ottica borgatara di Riccetto nell’ammettere la necessità di rubare e in alcune parole come addietrata, grana, teneva. La voce narrante del romanzo di Pasolini non è in ogni caso paragonabile a quella “impassibile” dei Malavoglia: è infatti una voce narrante onnisciente, che spiega al lettore chi sono i partecipanti al furto, illumina ad esempio sul contenuto dei sacchi che contengono forme di formaggio («pieno di roba che il Riccetto non capiva, ma che erano forme di formaggio») ed è una voce emotivamente partecipante, come si vede dagli incisi («povero figlio», poverello riferito al Riccetto). Nelle descrizioni lo scrittore si allontana dalla mentalità del mondo narrato e assume il punto di vista di un autore colto: il tono è addirittura lirico e i paragoni sono comunque frutto di un narratore non “popolare”, come nel caso del paragone tra i mulinelli di polvere e immondizia che suonano sui fili della ferrovia come su una chitarra.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi le vicende narrate in non più di 10 righe, possibilmente mantenendo i caratteri specifici del testo originario. COMPRENSIONE 2. In quali contesti ambientali e sociali si iscrive il racconto? ANALISI 3. Quali aspetti del carattere dei personaggi emergono dal brano? Rintracciali. TECNICA NARRATIVA 4. Il passo mostra l’oscillazione all’interno della voce narrante tra un massimo di vicinanza al mondo narrato (quasi una regressione) e un minimo: evidenziala attraverso riferimenti al testo e cerca poi di spiegare il senso che essa ha in un autore come Pasolini. LESSICO 5. Commenta la scelta dei nomi dati da Pasolini ai personaggi.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Nella stesura di Ragazzi di vita Pasolini aveva certo presente il modello verghiano: indica gli aspetti che a livello di ideologia e di scelte narrative possono accomunare i due autori e quelli che invece li distinguono. ESPOSIZIONE ORALE 7. Per alcuni critici Ragazzi di vita era come una riproposta del neorealismo: in un’esposizione orale di circa tre minuti, prova a indicare le ragioni per cui tale interpretazione critica non è sostenibile.

online T3 Pier Paolo Pasolini

Pasolini interpreta Ragazzi di vita Pasolini rilegge Pasolini

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 849


Una vita violenta Trilogia incompiuta A Ragazzi di vita segue Una vita violenta, pubblicato sempre presso Garzanti nel 1959. Il romanzo ebbe grande successo e fu tradotto in molte lingue. Una vita violenta avrebbe dovuto far parte, dopo Ragazzi di vita, di una trilogia “romana” e “borgatara” che resta incompiuta: del terzo romanzo, Il rio della grana, esistono solo abbozzi. Di fatto sarà il film Accattone (1961) a prenderne il posto: le tematiche sono infatti analoghe e il mondo evocato è sempre quello delle borgate. Un romanzo più tradizionale Dal punto di vista narrativo Una vita violenta è più vicino al modello tradizionale di romanzo: diviso in due parti simmetriche, ognuna di cinque episodi, si sviluppa attorno alle vicende di un indiscusso protagonista, Tommaso Puzzilli, anche lui inizialmente un “ragazzo di vita”; la narrazione ne segue la storia, da un breve squarcio della sua infanzia (nel primo episodio) alla morte con cui si conclude il romanzo. Un’ideologia più sfaccettata L’universo sociale a cui appartiene Tommaso è lo stesso del primo romanzo: anche in questo caso dominano la povertà, la ricerca di denaro, una cinica amoralità che spinge il protagonista a unirsi ai giovani borgatari non solo in furti, ma anche in azioni teppistiche fasciste. Ma, a differenza dei protagonisti di Ragazzi di vita, chiusi in una realtà antropologica immobile, per Tommaso l’autore prevede un’evoluzione che, significativamente, inizia proprio con l’emancipazione dal mondo delle borgate. All’inizio della seconda parte del romanzo la famiglia Puzzilli abbandona la squallida vita delle baracche per trasferirsi in un appartamento dell’Ina-Case popolari: da qui inizia per Tommaso una crescita che lo induce a cercare un lavoro, a pensare al matrimonio e a progettare di iscriversi alla Democrazia cristiana, con l’opportunistico obiettivo di sistemarsi. Ma si ammala di tubercolosi e finisce in un sanatorio: qui inizia a maturare un’elementare coscienza politica che, una volta dimesso, lo porta a iscriversi al Partito comunista. Durante un’inondazione che colpisce il quartiere di baracche dove un tempo abitava, Tommaso salva una donna, ma il suo fisico debilitato non regge alla fatica e il giovane muore proprio quando avrebbe potuto iniziare una nuova vita. La crisi del mito populista Il romanzo esplicita la crisi del mito populista che sta alla base del primo romanzo, al quale non si sostituisce però una fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive», anche se la critica di indirizzo marxista salutò come un fatto positivo l’apparizione del tema politico, che finalmente apriva alla speranza del futuro i personaggi del popolo. In realtà proprio quando Pasolini passa dal mito alla storia il pessimismo si accentua.

Una vita violenta GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1959

CONTENUTO

messa in discussione del mito “populista”

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Petrolio: un progetto innovativo Un romanzo incompiuto Nel 1972 Pasolini inizia a scrivere un amplissimo romanzo, a cui stava ancora lavorando quando fu assassinato il 2 novembre 1975: ci sono pervenute circa cinquecento pagine, pubblicate nel 1992 da Einaudi a quasi vent’anni dalla morte dell’autore. I vari testi si presentano come appunti numerati in ordine progressivo, a volte titolati. Il titolo Il titolo dell’opera era già previsto da Pasolini (insieme a un altro, più enigmatico: Vas) ed è stato forse suggerito dall’intreccio tra politica e finanza legato all’ENI, l’Ente nazionale idrocarburi fondato da Enrico Mattei (1906-1962), morto poi tragicamente in un sospetto incidente aereo. Utilizzando un espediente consueto nella tradizione letteraria, da Ariosto a Manzoni, Pasolini nel 1973 in un’annotazione presenta il testo che stava scrivendo come «edizione critica di un testo inedito», testimoniato da vari manoscritti e da altri materiali. Ciò dimostra che Petrolio non si presenta allo stato frammentario solo per la morte improvvisa dell’autore, ma anche per una precisa volontà di sperimentazione di Pasolini, ormai apertamente critico nei confronti della “forma romanzo”. Non esiste nelle pagine di Petrolio un vero e proprio protagonista: certo la figura più rilevante è quella di Carlo Valletti, ingegnere piemontese che vive una scissione tra un io razionale e un io preda della più abbietta sensualità (una figura in parte autobiografica), intorno al quale si muove l’inquietante scenario politico dell’Italia nei primi anni Settanta. La contaminazione dei generi La volontà sperimentale induce Pasolini a dissolvere del tutto le convenzioni romanzesche attuando un’ardita contaminazione di generi: dalla pagina saggistica alla pagina di viaggio, alla fantapolitica al racconto erotico, alle riflessioni metaletterarie, in una sorta di moderno Satyricon o anche di una versione attualizzata delle Metamorfosi di Apuleio (anche in Petrolio ci sono delle metamorfosi).

Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, in un comizio a Milano (4 giugno 1953).

Petrolio GENERE

romanzo (incompiuto)

DATA DI PUBBLICAZIONE

nel 1992 Einaudi pubblica circa 500 pagine dell’opera

CONTENUTO

inquietante scenario politico dell’Italia dei primi anni Settanta

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 851


Pier Paolo Pasolini

Intellettuali e politici in un salotto romano

T4

Petrolio P.P. Pasolini, Petrolio, in Romanzi e racconti, vol. II, Mondadori, Milano 2008

Tratto dall’«appunto 32», che reca il sottotitolo Provocatori e spie (nel 1960), questo brano tratto dal romanzo incompiuto e postumo Petrolio presenta alcuni protagonisti della vita intellettuale e della politica degli anni Sessanta, facilmente riconoscibili sotto il velo ironico dell’autore.

Ricordo i personaggi che avevano spicco in quei gruppi (e che una giornalista avrebbe notato per primi nella sua lista, piena di una cieca fiducia in un ‘establishment’ oltre tutto in ‘decollo’). Chi non li conosceva – e, come il giovane Carlo1 li vedeva magari per la prima volta – dopo le affrettate presentazioni – li guardava da lontano 5 con lo stesso sguardo con cui si guarda la vita quotidiana delle teofanie2. C’era un intellettuale3, da molti anni all’opera e quindi celebre e venerabile, che tuttavia aveva ancora l’aria giovanile di chi non crede a nulla ma si interessa a tutto: i suoi capelli erano bianchi e cortissimi, il suo naso pronunciato, la bocca rientrante, senza labbra, e aguzzo il mento; foltissime, barbariche le sopracciglia, con sotto gli 10 occhi vivaci e eternamente distratti di chi è un po’ sordo. In qualunque posa si mettesse seduto o in piedi, era continuamente inquieto, inquieto quasi con violenza. Benché perfettamente estraneo, in ricevimenti del genere, vi si trovava a suo agio, faceva perfettamente parte del quadro: era lontano da lì, ma visto che era lì, accettava il gioco, e non desisteva neanche per un momento 15 dalla tensione della sua intelligenza. Ogni sua parola era una parola critica: nonno e nipote, egli stava in mezzo a quella flottiglia eternamente arenata, come la prua di una vecchia nave che avesse solcato tutti i mari, ma in un’avventura più intellettuale che poetica: divenuta poetica, però, a causa di un rigore intellettuale mai neanche per un istante allentato. 20 Un altro intellettuale4, una quindicina d’anni più giovane di lui, stava in un altro angolo del salotto, infinitamente più timido e quindi più aggressivo: la sua aggressività – mescolata alla naturale dolcezza anzi, quasi soavità del suo carattere – pareva far parte di un ruolo ch’egli era stato costretto ad accettare. Non aveva affatto l’aria di sentirsi a suo agio; se mai aveva l’aria di sentirsi imposto lì solo dal suo successo 25 e dal suo tempestoso prestigio. L’aria era quella dell’adolescente, magro e scavato, con zigomi quasi esotici e smarriti occhi castani. Una sensualità indecente grondava dal suo corpo non meno asceticamente e rigidamente votato a un’avventura tutta intellettuale, come il suo più anziano amico: i suoi calzetti, del resto, erano allora corti, e i suoi vestiti un po’ troppo vistosi. 30 C’era anche un uomo politico5 – era ministro da dieci anni e poi lo sarebbe stato per altri quindici – seduto su una poltroncina rossa, con un viso tondo di gatto ritratto tra le spalle, come non avesse collo o fosse un po’ rachitico: la fronte grossa di intellettuale era in contrasto col suo sorriso furbo, che aveva qualcosa di indecen1 il giovane Carlo: è il giovane ingegnere piemontese, protagonista in ampie parti di Petrolio. 2 teofanie: apparizioni del divino (l’espressione suona ironica).

3 C’era un intellettuale...: dalla descrizione si riconosce il narratore e giornalista Alberto Moravia (1907-1990), per molti anni al centro della vita culturale romana. 4 Un altro intellettuale: anche in questo caso il personaggio è agevolmente identificabile: si tratta di Pasolini stesso.

852 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini

5 C’era anche un uomo politico: si tratta di Giulio Andreotti (1919-2013), figura di spicco della storia italiana, esponente della Dc, più volte presidente del Consiglio dei ministri.


35

te: voleva cioè manifestare, con furberia e degradazione, la coscienza della propria furberia e degradazione. Del resto il sentimento della vita intesa come ‘gioco’, come ‘scommessa’ da perdere o da vincere, e quindi tutta fondata sull’azione e sul comportamento, se in lui aveva il suo campione reale, era un modello di vita che più o meno inconsciamente era seguito da tutti, in quel ricevimento, compresi coloro che ne ridevano, magari presuntuosamente (per esempio dalle colonne de “L’Espresso”6). 6 compresi… de “L’Espresso”: negli anni Sessanta, «L’Espresso» era un periodico con forte connotazione politica di sinistra, che non perdeva occasione per attaccare l’establishment.

Analisi del testo Ritratti pasoliniani Il passo presenta uno spaccato molto significativo del mondo che Pasolini stesso frequentava a Roma. Il punto di vista assunto all’inizio è quello del giovane ingegnere Carlo Valletta, intimidito dal trovarsi di fronte a personaggi molto noti. Significativo il paragone, volutamente iperbolico, che associa i personaggi famosi, a cui si trova di fronte Carlo, a delle teofanie (letteralmente “manifestazioni del divino”). La voce narrante prende però subito le distanze dalle impressioni del giovane Carlo, per rispecchiare il giudizio critico dell’autore stesso. Dei tre personaggi presentati (uno dei quali è Pasolini) è tracciato un icastico ritratto anche fisico. Nel ritratto del primo, Alberto Moravia, si rispecchia il rapporto di amicizia, stima, ma al contempo di dissenso, che nella realtà legò Moravia a Pasolini (e che di recente è stato messo a fuoco in uno studio di Renzo Paris, Pasolini e Moravia. Due volti dello scandalo, Einaudi, 2022). Dopo i dettagli realistici dell’aspetto fisico di Moravia, Pasolini si focalizza sullo scetticismo dello scrittore («non crede a nulla»), coniugato però alla volontà di “esserci” («ma si interessa a tutto») negli ambienti che contano. Moravia è “estraneo”, ma al contempo “vi si trova a suo agio”, “lontano”, ma “visto che era lì accettava il gioco”, pur non rinunciando mai a esercitare la sua visione critica. Una sintetica valutazione che mette acutamente a fuoco luci e ombre del personaggio Moravia. E non manca un giudizio, forse larvatamente limitativo, su un Moravia più intellettuale che veramente scrittore.

L’autoritratto Sorprendente è poi la capacità di “leggersi” che dimostra l’autoritratto che Pasolini traccia subito dopo: evidenzia la propria aggressività frutto di timidezza, ma anche derivata da un ruolo imposto dall’opinione pubblica, il rigore intellettuale non diverso da quello dell’amico Moravia, dal quale però lo differenzia significativamente il disagio di trovarsi in quell’ambiente, a cui era pervenuto grazie al successo dei suoi libri e a un conquistato prestigio, definito significativamente “tempestoso” (presumibilmente Pasolini allude agli scandali suscitati dalle sue opere).

L’ultimo ritratto L’ultima parte è dedicata a Giulio Andreotti, esponente di spicco della Democrazia cristiana. Impossibile non riconoscere il celebre politico nel ritratto fisico fatto da Pasolini, che già peraltro rimanda al ritratto morale di Andreotti, alla sua ambiguità. Il passo si conclude con un giudizio severo non solo sul personaggio ma su una intera società di cui egli rappresenta in un certo senso l’emblema: una società in cui la vita è una scommessa da vincere a qualunque costo. Il passo si chiude con un riferimento critico e polemico agli intellettuali di sinistra.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Nel testo vengono ritratti due intellettuali (Moravia e lo stesso Pasolini) e un importante politico democristiano, Giulio Andreotti. Identifica per ogni personaggio, anche attraverso riferimenti agli aspetti stilistico-linguistici (lessico, paragoni ecc.), quelli che ti sembrano i tratti caratterizzanti che lo scrittore intendeva sottolineare attraverso la sua descrizione.

Interpretare

SCRITTURA 2. Nell’ultima parte del testo si nomina un modello di vita che tutti i presenti al ricevimento seguivano (compresi coloro che lo criticavano a parole). Spiega con parole tue di quale modello si tratta.

Una vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo e della passione etico-civile 2 853


4 Pasolini scrittore-regista Pasolini e il cinema Il rapporto tra Pasolini e la cinematografia è un esempio unico nella storia della letteratura. I film di Pasolini, di cui è stato sia sceneggiatore sia regista, sono parte essenziale della sua opera (forse addirittura la più riuscita), e sono in stretto rapporto con la sua produzione letteraria e con il suo difficile itinerario di intellettuale. Pasolini si rivolge al cinema quando inizia a dubitare del ruolo della letteratura, perché gli sembra che aderisca alla realtà in modo più diretto e autentico. Inoltre, più efficacemente della letteratura, il cinema, potendo contare su un pubblico più vasto, avrebbe potuto svolgere un ruolo importante di testimonianza ideologica in antitesi alla banalità televisiva.

La prima fase: oltre il neorealismo Accattone e Mamma Roma Dopo alcune esperienze come sceneggiatore, Pasolini affronta la sua prima esperienza registica con Accattone (1961) e, a brevissima distanza, Mamma Roma (1962), ambientati nello stesso contesto sottoproletario e borgataro a cui fanno riferimento i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, con cui sono in evidente rapporto di continuità. Dello stesso universo umano fa parte anche il personaggio di Stracci nella Ricotta (1963). Sulla rappresentazione del vitalismo popolare presente nei romanzi prevale però qui ormai una dimensione funerea e disillusa. La lezione del neorealismo cinematografico certamente si avverte (anche nella scelta di attori non professionisti), ma nei film di Pasolini si manifesta una visione più complessa e più “colta”, evidenziata già dalla scelta di accompagnare la tragica vicenda del borgataro Accattone con le note della Passione secondo Matteo di Bach. La tecnica registica di Pasolini non è meramente descrittivo-mimetica: tende infatti a ridurre all’essenziale l’inquadratura, enfatizzando i primi piani frontali, anche per la suggestione di modelli pittorici come Giotto, Masaccio, Mantegna. Il Vangelo secondo Matteo Del 1964 è Il Vangelo secondo Matteo, dedicato a papa Giovanni XXIII, morto l’anno prima. Pasolini sceglie di attenersi fedelmente, senza quasi una vera e propria sceneggiatura, al Vangelo di Matteo, il più arcaico dei Vangeli. La volontà di Pasolini di evitare il rischio dell’agiografia si traduce in una nuda testimonianza, di andamento quasi cronachistico. Nel film, ambientato nel Sud Italia (Basilicata e Calabria), la figura di Cristo, impersonato da un giovane studente spagnolo, è vista nel suo volto terreno più che trascendente, di “arrabbiato” rivoluzionario, sovvertitore di convenzioni e costumi sociali. La dolente madre di Cristo è impersonata da Susanna Colussi, la madre del regista.

I film sulla crisi ideologica e dei valori del mondo contemporaneo La crisi della sinistra come modello ideologico nel boom economico degli anni Sessanta induce Pasolini a distaccarsi dal mito del proletariato per un’analisi critica della società contemporanea. Ne deriva la scelta antirealistica di un pessimistico apologo surreale (in cui le immagini storiche, reali, dei funerali di Togliatti acquistano a loro volta un evidente significato simbolico), Uccellacci e uccellini (1966) con protagonisti Totò e il popolano Ninetto Davoli, accompagnati da un corvo parlante che impersonifica l’intellettuale marxista (e che finirà mangiato dai due).

854 Il Novecento (Seconda parte) 16 Pier Paolo Pasolini


online

Approfondimento Il cinema e la famiglia borghese

La crisi della borghesia e in particolare il disfacimento della famiglia borghese, la sua impossibilità di istituire rapporti autentici, sono centrali in Teorema (1968), tratto da un testo narrativo, e in Porcile, ricavato dall’omonimo testo teatrale, che potrebbero essere definiti allegorie della modernità.

La fuga dal presente nella dimensione del mito La polemica crescente di Pasolini nei confronti della società borghese-capitalista, in cui si è perduta la dimensione del sacro, lo induce come regista a un allontanamento dal presente verso una dimensione arcaica precedente la storia: la traduzione dell’Orestea (1960) è alla base dei film incentrati sul mito classico: da Edipo re (1967) a Medea (1970), quest’ultimo con la straordinaria interpretazione del grande soprano Maria Callas.

Dalla Trilogia della vita a Salò

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Approfondimento Pasolini e il Decameron

Alla pessimistica visione del mondo contemporaneo, Pasolini reagisce con l’immersione nel mondo della letteratura nella Trilogia della vita, ispirata al genere medievale della novella: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). Attraverso la rivisitazione delle celebri raccolte novellistiche Pasolini va alla ricerca della dimensione felice dell’eros, di un’innocente istintualità. Ma si rivelerà presto un approdo precario e temporaneo (e Pasolini scriverà nel giugno 1975 una amara Abiura dalla “Trilogia della vita”). Nel 1975 Pasolini realizza il suo ultimo, disperato, film: Salò o le 120 giornate di Sodoma, tratto dal romanzo settecentesco del marchese de Sade, ma ambientato al tempo della Repubblica di Salò. Si tratta di un’allegoria del potere (rappresentato da quattro personaggi importanti che seviziano ragazzi e ragazze), in cui il sesso si associa a una fredda violenza, diventando metafora della sistematica nullificazione dell’essere umano propria della società moderna. Il film sarà presentato a Parigi poche settimane dopo la tragica morte dello scrittore.

Pasolini regista e sceneggiatore Accattone Mamma Roma

oltre il neorealismo

Il Vangelo secondo Matteo

Gesù più terreno che trascendente

Uccellacci uccellini Teorema

la crisi ideologica e di valori

Trilogia della vita

fuga nella letteratura dalla pessimistica visione del mondo

Salò o le 120 giornate di Sodoma

immagine metaforica di un mondo in dissoluzione

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5 Un’ambigua fortuna: il “caso Pasolini” Un successo dovuto al “personaggio” Pasolini Pasolini, nella parte centrale della sua attività di scrittore, ebbe largo successo tra il pubblico, un successo che inizia alla metà degli anni Cinquanta con la pubblicazione di Ragazzi di vita (1955). Occorre però precisare che alla fortuna del libro contribuì non poco lo scalpore suscitato dal processo per oscenità che egli dovette affrontare, molto pubblicizzato dalla stampa, che fece di lui un personaggio. Questa situazione si ripeterà anche in seguito, con l’altro romanzo “romano”, Una vita violenta del 1959, e poi anche con alcuni dei suoi film. La fama di “immorale” che circondò ben presto Pasolini creò intorno a lui e alla sua opera una curiosità per certi aspetti morbosa (Pasolini, tra l’altro, non nascondeva la propria “diversità” sessuale in tempi in cui anche solo parlare di omosessualità era un tabù). D’altra parte, questo interesse per il “personaggio Pasolini” si traduceva nella vendita dei suoi romanzi e si rivelerà fruttuoso anche per i produttori dei suoi film, a cui il pubblico accorreva numeroso sebbene essi non fossero certo concepiti per un pubblico di massa. Gli interventi polemici della critica Per quanto riguarda la critica, si può in generale dire che l’opera di Pasolini, almeno negli anni chiave della sua produzione, ovvero fino alla fine degli anni Cinquanta, suscita interventi sempre molto passionali, provoca roventi polemiche, prese di posizione spesso umorali, anche in rapporto alla volontà provocatoria di Pasolini e alla carica ideologica che innerva sempre la sua opera. Gli interventi critici più “forti” e che maggiormente hanno segnato il dibattito sull’opera di Pasolini hanno come momenti nodali le pubblicazioni di tre opere: Ragazzi di vita (1955), Le ceneri di Gramsci (1957) e Una vita violenta (1959). Le riserve dei critici di sinistra verso la narrativa pasoliniana Ragazzi di vita fu in genere accolto con giudizi positivi per l’indubbia novità che il romanzo presentava nel panorama letterario di quegli anni. Anche critici ben lontani dalle scelte ideologiche e stilistiche di Pasolini, come Cecchi, Bo o De Robertis, mostrarono con varie motivazioni di apprezzarlo. Paradossalmente invece, proprio per ragioni di riserva ideologica, furono i critici di quella sinistra a cui apparteneva Pasolini stesso ad attaccare il romanzo (il più duro di essi fu Carlo Salinari) considerando reazionaria l’immagine che traspariva da esso di un popolo “selvaggio” completamente privo di coscienza di classe e di consapevolezza politica e l’uso considerato “folklorico” del dialetto romanesco. La struttura narrativa più tradizionale di Una vita violenta e la presenza di un personaggio-protagonista che comunque accede a un barlume di coscienza politica suscitarono qualche sporadico consenso a sinistra, mentre molti critici vi videro invece una riproposta dei miti decadentistici (ad esempio Giorgio Bárberi Squarotti in Poesia e narrativa del secondo Novecento). Qualche anno dopo, d’altra parte, il critico marxista Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo (1965), un libro sul populismo celebre in quegli anni, attacca entrambi i romanzi principali di Pasolini, in cui rintraccia un «coacervo di populismo, progressismo, decadentismo estetizzante e morbosità animalesca». Il giudizio sulle Ceneri di Gramsci Un consenso abbastanza unanime accoglie invece la raccolta di poemetti Le ceneri di Gramsci, considerata dalla critica co-

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munque importante anche come documento storico (l’opera esce nel periodo della crisi dei partiti comunisti dopo i fatti di Ungheria e in parte ne costituisce una testimonianza appassionata). Se ne colgono tuttavia anche le laceranti contraddizioni ideologiche dell’autore, che si traducono in disomogeneità stilistica: Le ceneri di Gramsci sono giudicate un punto di svolta per il delinearsi di una nuova poesia, ma non ancora un punto di arrivo. L’attacco della Neoavanguardia Tra i più virulenti critici di Pasolini sono i rappresentanti della Neoavanguardia attaccata aspramente dallo scrittore in più interventi: se il critico Angelo Guglielmi su «Il Verri» (giugno 1960) sviluppa una delle più aspre stroncature di Pasolini, insieme moralistica e letteraria, nell’articolo Pasolini maestro di vita Fausto Curi sempre su «Il Verri» (dicembre 1961) ne demolisce impietosamente l’intera produzione critico-teorica (Sulla poetica e la critica di Pasolini), che peraltro non godette in generale di grande considerazione presso la critica. La fama europea come regista Una volta iniziata l’attività di cineasta, l’opera di Pasolini interessa sempre meno alla critica letteraria: le opere che escono dopo il 1960 non suscitano molto consenso e spesso addirittura mostrano di infastidire e sconcertare la critica per le continue svolte e provocazioni. Al contrario cresce tra il pubblico dei non addetti ai lavori la popolarità della figura di Pasolini, anche appunto per l’effetto trainante del cinema. Un cinema che, per il suo carattere spesso dissacrante, alimenta le polemiche: le prime proiezioni scatenano gazzarre fasciste, ma dividono anche, come nel caso della Ricotta e del Vangelo secondo Matteo, i cattolici, costringendoli a scomodi schieramenti pro o contro Pasolini. Certo è dal cinema che viene a Pasolini una fama europea e, con la “trilogia della vita” (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle Mille e una notte, 1974), addirittura oltre Atlantico. Il successo procura all’autore grande popolarità e introiti consistenti, che non mancano di suscitare critiche e accuse di incoerenza, come nel caso di Montale, particolarmente acido nei suoi confronti. La morte e il “mito” di Pasolini La tragica morte dello scrittore, per certi aspetti coerente con il “personaggio Pasolini”, ne rilancia l’ambiguo mito presso il pubblico, ma dà anche avvio nel tempo a una più pacata interpretazione dello scrittore grazie a nuove, prestigiose edizioni delle sue opere, tradotte anche in molte lingue straniere.

Pasolini nel 1964.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Roberto Carnero Il centenario di Pier Paolo Pasolini, grande inattuale Avvenire.it, 4 marzo 2022

Lo scrittore, nato il 5 marzo 1922, è stato a lungo controverso per opere scandalose. Ma, nell’epoca del disimpegno, è rimasta viva la sua critica sociale.

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini: autore controverso, a lungo scandaloso, nell’Italia del suo tempo, per un’omosessualità che non nascondeva, “maledetto” per le circostanze di una morte tragica (assassinato all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975) la cui dinamica non è stata del 5 tutto veramente chiarita, ma anche segnato da una costante fascinazione per la dimensione del sacro (il suo Vangelo secondo Matteo è forse il più bel film mai girato sulla vita di Gesù). Cent’anni dalla nascita è uno di quegli anniversari tondi che determinano attenzione e riflessione attorno a un autore, a maggior ragione un autore come Pasolini, 10 sulla cui opera è fiorita negli anni una produzione critica che non ha il pari con quella relativa a nessun altro scrittore del Novecento. Un anniversario come questo è l’occasione per porsi alcune domande. Ne voglio isolare tre. Qual è l’originalità di Pasolini? Quali le ragioni della sua importanza? In che cosa è ancora attuale? Domande alle quali bisogna provare a rispondere senza retorica, 15 uscendo dalla tentazione dell’agiografia: Pasolini va affrontato e discusso, non necessariamente approvato in tutto ciò che ha fatto o ha detto. La sua originalità è legata all’estrema versatilità del percorso creativo: Pasolini esordisce come poeta (Poesie a Casarsa, 1942), prosegue come romanziere (Ragazzi di vita, 1955), continua come regista di film (a partire da Accattone, 1961), scrive per il teatro e per 20 i giornali, è critico letterario ed editorialista. Dipingeva anche: e forse quest’ultima è l’unica concessione al dilettantismo in una carriera artistica in cui ha raggiunto vette altissime in ogni settore in cui si è cimentato. Ma la sua opera va letta nel suo insieme, senza scindere i diversi generi: allora appare davvero come una grande opera “totale”, in cui le diverse fasi si intrecciano in un discorso creativo 25 aperto e mobile. Quanto all’importanza di Pasolini, nessun altro scrittore della sua epoca ha lasciato una traccia, nel vissuto nazionale e nella nostra memoria collettiva, simile alla sua, attraverso l’opera e la vita. L’importanza di Pasolini non riguarda solo la letteratura e la cultura, ma anche la storia italiana, poiché con essa egli ha 30 continuato a confrontarsi, convinto com’era della responsabilità morale e civile dell’intellettuale. Seppure non senza alcune ambiguità e personali idiosincrasie1, Pasolini è stato capace di interrogarsi sul presente, di leggere la contemporaneità in relazione al passato, e dunque di intuire le direzioni in cui il futuro si sarebbe incamminato. Senza per questo essere un ‘profeta’: definizione tanto abusata da 35 diventare un frusto2 luogo comune. Pasolini è attuale? Per la sua posizione scomoda, ai suoi tempi Pasolini è stato un grande “inattuale”. Prima, nei confronti della politica, è stato un intellettuale “disorganico”, autonomo e indipendente da qualsiasi ipoteca ideologica; poi, mentre, dalla fine degli anni Cinquanta in avanti, veniva meno presso gli artisti italiani la dimensione dell’impegno e si affermava la 1 idiosincrasie: avversioni, antipatie.

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2 frusto: banale, privo di originalità.


40 cultura postmoderna portatrice di un’idea dell’arte (letteratura compresa) ludica e

giocosa, in Pasolini, invece, persiste – e anzi sembra intensificarsi nell’estrema fase del suo lavoro (si pensi agli interventi degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, al romanzo incompiuto Petrolio o anche a un film scioccante e disturbante come Salò) – una tenace volontà di critica alla società dei consumi, ai suoi falsi valori 45 e alla prassi politica di quegli anni. Ma paradossalmente quella che allora poteva essere considerata l’inattualità di Pasolini si è trasformata dopo la sua morte, sempre più, sino a oggi, in una fortissima, singolare attualità. È come se, dopo le censure e gli ostracismi subìti in vita, ora Pasolini, quasi per una sorta di compensazione riparativa, sia divenuto una presenza costante e ine50 ludibile. Sarebbe bello che l’occasione del centenario pasoliniano venisse còlta soprattutto dai più giovani, da quei ragazzi a cui Pasolini ha dedicato tante delle online sue riflessioni e ai quali continuava – e continua tutt’oggi – a parlare. Purtroppo, Interpretazioni critiche è ancora un autore che si incontra poco a scuola (come, del resto, quasi tutti i a confronto contemporanei). I giovani conoscono il nome di Pasolini e magari qualche sua Alfonso Berardinelli citazione trovata in rete o sui social. Ma spesso ne ignorano l’opera: le poesie, i Pasolini personaggio-poeta romanzi, gli interventi giornalistici, i film. È il momento di scoprirli.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Analisi e comprensione

Produzione

1. Individua la tesi sostenuta dal critico. 2. Chiarisci il senso del titolo dell’articolo. 3. Che cosa intende dire Carnero, quando afferma, in merito a Pasolini, che dobbiamo porci delle domande «alle quali bisogna provare a rispondere senza retorica, uscendo dalla tentazione dell’agiografia» (rr. 14-15)? 4. Quale invito muove Carnero ai giovani? 5. Pasolini è stato un duro critico della società dei consumi. Ti sembra che l’argomento sia ancora attuale? Sviluppa le tue considerazioni a riguardo in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Fissare i concetti Pier Paolo Pasolini La biografia e la visione del mondo 1. Quale importanza ebbero il Friuli e la città di Roma nella poetica e nelle opere di Pasolini? 2. Quale rapporto ebbe Pasolini con la religione? 3. Quale atteggiamento ebbe Pasolini nei confronti del Sessantotto? 4. Contro quali bersagli si rivolgono gli attacchi pasoliniani? 5. Perché Pasolini si interessò al sottoproletariato urbano? Pasolini poeta 6. Quali sono le principali caratteristiche della raccolta Le ceneri di Gramsci? Pasolini romanziere 7. Quale interesse mostra lo scrittore per il mondo delle borgate rappresentato nel romanzo Ragazzi di vita? 8. Quali sono le principali caratteristiche strutturali, tematiche e stilistiche del romanzo Ragazzi di vita? 9. Per quale motivo Petrolio può essere considerato un progetto innovativo? Pasolini regista 10. Quali sono i caratteri fondamentali del cinema pasoliniano?

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Il Novecento (Seconda parte) Pier Paolo Pasolini

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La vita di un intellettuale “contro” Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna nel 1922, da madre friulana e padre ravennate di nobili origini. Con quest’ultimo Pasolini ha un rapporto profondamente conflittuale, mentre è molto legato alla madre e alla terra natale di lei. A Casarsa, in Friuli, Pasolini vivrà stabilmente dal 1942 al 1950 e a questo luogo dedicherà il suo esordio poetico, Poesie a Casarsa. Dopo la laurea in Lettere, conseguita a Bologna nel 1945, Pasolini si dedica all’insegnamento, per cui ha una vera e propria vocazione. Nel 1950 fugge a Roma, in seguito a una denuncia per corruzione di minori (da cui sarà assolto solo nel 1952) e alla conseguente rimozione dal posto di insegnante nonché all’espulsione dal Partito comunista, cui si era iscritto nell’immediato dopoguerra. Coltiva intanto la sua attività di scrittore che gli fa guadagnare notorietà: nel 1955 il romanzo Ragazzi di vita riscuote un grande successo ma divide la critica, tanto che il libro sarà accusato di oscenità dalla presidenza del Consiglio dei ministri e lo scrittore dovrà affrontare un processo, da cui sarà assolto. Seguiranno il romanzo Una vita violenta (1959) e le raccolte di poesie Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961). In questo periodo di intensa produzione letteraria lo scrittore diventa bersaglio privilegiato dell’opinione pubblica e della stampa, che contribuiscono a crearne un’immagine distorta, un “personaggio” a tutti gli effetti. L’aggettivo “pasoliniano” diventa dunque sinonimo, soprattutto a Roma, di omosessualità, degradazione sociale e addirittura malavita. Pasolini vive in questi anni una vera e propria persecuzione ed è costretto ad affrontare un processo dopo l’altro. Nonostante sia stato sempre assolto, queste continue “vessazioni” lo mettono psicologicamente alla prova. Dagli anni Sessanta l’interesse principale di Pasolini diventa il cinema: esordisce nel 1961 con Accattone, considerato il suo capolavoro. Agli anni Settanta risale infine la fase di polemica più scottante: Pasolini manifesta sempre più una volontà di testimonianza e opposizione. Morirà assassinato presso il lido di Ostia in circostanze oscure, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. La visione del mondo Pasolini ha una visione laica della vita, che non esclude però un senso intimamente religioso di essa, testimoniato dall’attrazione per il Vangelo e dalla presenza centrale nel suo immaginario poetico della Crocefissione. Non a caso la sua opera cinematografica più poetica è Il Vangelo secondo Matteo. L’opera di Pasolini è caratterizzata da una marcata impronta ideologica, che si richiama al marxismo, a cui lo scrittore rimase sempre fedele, mentre difficili furono talvolta i suoi rapporti con il Pci e con la critica di sinistra, a causa delle sue posizioni sempre provocatorie, non allineate alle direttive del partito. Pasolini ripropone il ruolo impegnato dell’intellettuale e considera la letteratura, ma anche la saggistica e il cinema, come veicolo di idee, testimonianza etico-civile. L’autore mitizza una società pre-industriale nella quale il popolo (incarnato in particolare nel sottoproletariato romano delle borgate) è depositario di vitalità, di autenticità. Invece

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condanna aspramente la società industrializzata e consumistica che si andava delineando nei primi anni Sessanta, in cui la televisione aveva un ruolo negativo nell’uniformare i comportamenti, spegnendo le diverse tradizioni locali, anche linguistiche (i dialetti). Negli ultimi anni di vita, negli articoli giornalistici confluiti in Scritti corsari e Lettere luterane (postume), Pasolini denuncia con coraggio le trame oscure che stavano producendo nel paese sanguinosi attentati, assumendo il ruolo di scomoda e profetica voce critica.

vasta produzione all’insegna dell’autobiografismo 2 Una e della passione etico-civile La produzione di Pasolini è molto vasta e interessa vari ambiti: la poesia, la narrativa, la saggistica, il teatro e il cinema. Pasolini poeta controcorrente Nel complesso della sua vasta produzione poetica Pasolini si oppone sia alla linea ermetica sia alla neoavanguardia a favore di una poesia nutrita di motivi autobiografici e civili. Pasolini esordisce appena ventenne con la raccolta Poesie a Casarsa in dialetto friulano (la lingua materna). Le poesie dialettali sono poi tutte raccolte in La meglio gioventù (1954). Segue L’usignolo della Chiesa cattolica (poesie scritte prima del 1950, ma pubblicate solo nel 1958), in cui Pasolini costruisce un primo ritratto di sé come uomo e intellettuale segnato da una costitutiva dimensione conflittuale. La raccolta poetica più importante è rappresentata dagli 11 poemetti che costituiscono Le ceneri di Gramsci (1957). I testi più rilevanti sono Il pianto della scavatrice e Le ceneri di Gramsci, che dà il titolo alla raccolta, in cui Pasolini esprime una visione amaramente disillusa in rapporto alla crisi degli ideali della Resistenza e, più in generale, alla crisi della sinistra. Le raccolte successive sono La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964) e Trasumanar e organizzar (1971). In esse Pasolini esibisce un dissenso sempre maggiore rispetto a un tempo vuoto di valori, a una società in cui si sente sempre più isolato. Pasolini romanziere: Ragazzi di vita Il primo importante romanzo di Pasolini, Ragazzi di vita (1955), è pubblicato alla fine della stagione neorealista. Sembra infatti richiamarsi alla poetica neorealista la scelta dell’autore di rappresentare il sottoproletariato romano delle borgate attraverso le avventure di un gruppo di ragazzi, impegnati nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. A differenza del neorealismo, manca però in Ragazzi di vita un intento di denuncia e una prospettiva politica progressista, manca un personaggio esemplare. Il popolo pasoliniano è mitizzato in quanto energia primitiva fuori dalla storia, è privo di una coscienza di classe. Radicale, ben oltre il neorealismo, è la scelta linguistica, in particolare nei dialoghi: viene riprodotto il parlato popolare romanesco, ricostruito con precisione filologica dall’autore Una vita violenta Pubblicato nel 1959, Una vita violenta presenta una struttura più tradizionale, a cominciare dalla presenza di un vero e proprio intreccio narrativo e di un protagonista. Il romanzo ne segue nel tempo la vita e il cammino di maturazione anche ideologica, che lo porta fuori dall’universo borgataro, fino alla morte in seguito a un gesto di coraggiosa solidarietà. Petrolio Negli ultimi anni di vita Pasolini lavora a un ampio romanzo lasciato incompiuto per la sua morte improvvisa e violenta (1975). Sarà pubblicato solo nel 1992. Ambientato a Roma, ma non più nel mondo popolare, costituisce un ambizioso tentativo di romanzo polimorfo, che assomma linguaggi diversi e vari modelli narrativi sullo sfondo degli anni della strategia della tensione. Pasolini scrittore-regista Con Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), ricollegabili per il contesto e i temi ai due romanzi “popolari”, Pasolini inizia l’attività cinematografica, che

Sintesi

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nel tempo diventa primaria e grazie alla quale ottiene un notevole successo di pubblico e di critica. A una prima fase appartiene anche Il Vangelo secondo Matteo (1964), film discusso sulla vita e la figura di Gesù. Seguono film incentrati sulla crisi dell’ideologia marxista (Uccellacci e uccellini) e sulla dissoluzione della borghesia (Teorema, Porcile). In Edipo re e Medea Pasolini rivisita alla luce di una prospettiva ideologica moderna il mito greco. La Trilogia della vita (Il Decameron, 1971, I racconti di Canterbury, 1972, Il fiore delle Mille e una notte, 1974) segna un momento di felice creatività, legato alla regressione al mondo della novellistica antica, alla ricerca dell’innocenza e di una sessualità giocosa. L’ultima opera cinematografica, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), ispirata all’opera del marchese De Sade e ambientata al tempo della Repubblica di Salò, appare dominata da un cupo pessimismo. Il sesso diventa qui esercizio perverso di potere, immagine metaforica di una società in dissoluzione. Un’ambigua fortuna: il “caso Pasolini” Nonostante il largo successo di pubblico riscosso da Pasolini a partire dalla pubblicazione di Ragazzi di vita, nel 1955, va notato che alla fortuna del romanzo contribuì lo scalpore provocato dall’accusa all’autore per pornografia. La diffusione di un’immagine di Pasolini e della sua opera come immorali suscitò un interesse quasi morboso per il “personaggio Pasolini”, un fatto che sicuramente incise sulle vendite dei suoi libri e sugli incassi dei suoi film. Attorno alla produzione pasoliniana la critica accende un aspro dibattito dal tono polemico che è scandito dalla pubblicazione di tre opere cruciali: Ragazzi di vita (1955), Le ceneri di Gramsci (1957) e Una vita violenta (1959). Negli anni Sessanta poi, la polemica si sposterà verso la produzione cinematografica di Pasolini, spesso dal carattere dissacrante, che gli permetterà però di conquistare fama europea. Il violento omicidio di Pasolini contribuisce ad alimentare il mito e lo scandalo attorno al “personaggio Pasolini”, ma è anche il punto di partenza per una interpretazione più pacata dello scrittore e della sua opera.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Su molte questioni scottanti del dibattito politico-culturale dei suoi anni (movimento del Sessantotto, questione religiosa, aborto, divorzio ecc.), Pasolini assunse posizioni decisamente controcorrente, rispetto anche alla sua stessa appartenenza ideologica. In un intervento orale di circa 5 minuti, illustra queste posizioni e spiegane le principali motivazioni.

Scrittura argomentativa

2. Nella stesura di Ragazzi di vita, Pasolini di certo aveva presente il modello verghiano: in un testo argomentativo di massimo 20 righe, indica gli aspetti che a livello di ideologia e di scelte narrative possono accomunare i due autori e quelli che, invece, li distinguono.

Competenza digitale

3. La morte di Pier Paolo Pasolini, a distanza di quasi trent’anni, è ancora un enigma irrisolto. Fai una ricerca in Rete per trovare notizie sugli ultimi sviluppi della vicenda e costruisci una presentazione in formato digitale da mostrare in classe. Puoi partire dall’intervista che Walter Veltroni (ex politico italiano ed ex sindaco di Roma, oggi scrittore e regista) ha rilasciato ad Andrea Purgatori durante la trasmissione “Atlantide” su La7 il 13 aprile 2023 e dall’articolo, sempre di Veltroni, La morte di Pasolini: tre ipotesi, e una certezza, pubblicato sul «Corriere della Sera» il 6 marzo 2023.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Da Lettere luterane. Il passo è tratto da un articolo di Pasolini pubblicato sul «Corriere della Sera» il 24 luglio 1975.

La droga: una vera tragedia italiana Per chi non si droga, colui che si droga è un «diverso». E come tale viene generalmente destituito di umanità, sia attraverso il rancore razzistico che si attirano sempre addosso i «diversi», sia attraverso l’eventuale comprensione o pietà. Nei rapporti col «diverso» intolleranza o tolleranza sono la stessa cosa. C’è da dire 5 tuttavia che mentre gli intolleranti credono che la diversità dei diversi non abbia spiegazioni e quindi meriti soltanto odio, i tolleranti si chiedono spesso, più o meno sinceramente, quali siano le ragioni di tale «diversità». Ora tanto io che il mio lettore siamo dei «tolleranti»: c’è da avere qualche dubbio su questo? Perciò la domanda che pongo è la seguente: «Per quale ragione quei “diversi” che sono 10 i drogati si drogano?» C’è indubbiamente una spiegazione che riguarda i singoli, e cioè la psicologia. Se io parlo e analizzo – senza né moralismo né sentimentalismo né complicità – un singolo drogato, ho subito una vita concreta da prendere in esame: con la sua infanzia, i suoi genitori, i suoi mali, ecc. Quindi quel poco di sapere 15 psicanalitico di cui ogni intellettuale può disporre è sufficiente a trarre qualche diagnosi: la quale diagnosi è però eternamente la stessa: desiderio di morte. Tale «fine» individuale – spesso anche consapevole – getta una luce, retroattiva e dal basso, su tutta l’individualità analizzata, che ne è così resa profondamente coerente: un tutto unico a sé stante. La «diversità» è sempre inaccessibile. Ma se il 20 rapporto col singolo drogato non ha, come dire, sbocchi, è irrelato1 – e l’eccesso di concretezza di un «caso umano», è come sempre elusivo rispetto alla storia – al contrario il rapporto con la massa dei drogati o, meglio, col fenomeno della droga, può essere reso parlabile, razionalizzato, storicizzato. Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par 25 di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare, semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le cose da vicino. Ad un livello medio – riguardante «tanti» – la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal 30 desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura. Per amare la cultura occorre una forte vitalità. Perché la cultura – in senso specifico o, meglio, classista – è un possesso: e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso. Chi non ha neanche in minima dose questa energia, rinuncia. E poiché in genere, a causa dei suoi traumi e della sua sensibilità si tratta di 35 un individuo destinato alla cultura specifica, dell’élite, ecco che si apre intorno a lui quel vuoto culturale da lui, del resto, disperatamente voluto (per poter morire): vuoto che egli riempie col surrogato della droga. L’effetto della droga, poi, mima il sapere razionale attraverso un’esperienza, per così dire, aberrante ma, in qualche modo, omologa ad esso. Anche a un livello più alto si verifica qualcosa 1 irrelato: non relazionato ad altro.

Verso l’esame di Stato 863


40 di simile: ci sono dei letterati e degli artisti che si drogano. Perché lo fanno?

Anch’essi, credo, per riempire un vuoto: ma stavolta si tratta non semplicemente di un vuoto di cultura, bensì di un vuoto di necessità e di immaginazione. La droga in tal caso serve a sostituire la grazia con la disperazione, lo stile con la maniera. Non pronuncio un giudizio. Dico una cosa. Ci sono delle epoche in cui 45 gli artisti più grandi sono appunto dei disperati manieristi […]. Ma la parola «cultura» non indica soltanto la cultura specifica, d’élite, di classe: indica anche, e prima di tutto (secondo l’uso scientifico che ne fanno gli etnologi, gli antropologi, i migliori sociologi) il sapere e il modo di essere di un paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo con l’infinita serie di norme, 50 spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli, che determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento […]. Voglio dire che il fenomeno della droga […] è divenuto cioè un fenomeno che riguarda la massa e comprende dunque tutte le classi sociali […]. Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo «spazio» (o «vuoto») per 55 la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, «totale», in Italia è andata distrutta, o è in via di distruzione. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più. Per esempio: i due valori «Dio» e «famiglia», che sono due valori idioti e alienati, quando in nome loro 60 parlano i preti o i moralisti (magari in divisa), ma che sono invece due valori tout court2, quando in nome loro si istituisce una vita popolare – magari sotto il livello di quella che noi chiamiamo storia – oggi non contano più: in nome loro non si può più parlare ad alcun giovane; e tantomeno a un giovane drogato. […] In realtà il fenomeno della droga è un fenomeno nel fenomeno: ed è questo 65 secondo fenomeno più vasto quello che importa: che è, anzi, una vera grande tragedia storica. Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba «adattare», come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una «cultura» il consumismo). […] 2 tout court: senza ulteriori precisazioni.

Comprensione e analisi

Interpretazione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto dell’articolo. 2. Che cosa intende Pasolini con la frase «in realtà il fenomeno della droga è un fenomeno nel fenomeno»? 3. Pasolini, nell’articolo, afferma che, secondo lui, la droga è sempre un surrogato. Che cosa intende dire? Analizza lo stile dell’articolo. Perché, secondo te, Pasolini fa un ampio uso delle virgolette? Nella prima parte dell’articolo Pasolini ci fa implicitamente capire che anche chi si ritiene tollerante, nel momento in cui si pone degli interrogativi sulle ragioni che spingono a essere «diversi», parta dal presupposto che il termine di paragone sia quello della propria «normalità». Esponi le tue considerazioni su questo tema, utilizzando le tue letture, conoscenze ed esperienze.

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Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

17 Linee della lirica del secondo Novecento

La poesia del secondo Novecento è caratterizzata da un’estrema varietà di linee tematiche e di tendenze stilistiche, ma un elemento accomuna i poeti attivi dopo la guerra: il rifiuto dell’Ermetismo, che si coniuga con una rinata volontà di comunicare. La poesia riallaccia il legame con la vita: torna all’impegno civile, ricomincia a rappresentare la realtà, dalle vicissitudini dell’esistenza quotidiana ai grandi eventi della storia. Getta uno sguardo critico su un’Italia trasformata dal boom economico, ma non rinuncia ad affrontare tematiche più profonde e complesse, a interrogarsi sui grandi problemi dell’esistenza. Alla novità dei temi corrisponde un’inesausta ricerca stilistica, che si esplica in varie direzioni, dalla rivoluzione linguistica della Neoavanguardia, alle contaminazioni del linguaggio colto e raffinato con quello parlato, prosastico, quotidiano: una libertà nella ricerca espressiva che forse nessuna epoca della poesia italiana aveva mai prima conosciuto.

innovazioni della 1 Lepoesia del secondo Novecento

a confronto 2 Laconpoesia la storia come specchio 3 Ladellapoesia società: il tema dell’alienazione

autoritratto 4 Poesia e poesia narrativa 865


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Le innovazioni della poesia del secondo Novecento 1 Dopo l’Ermetismo La lirica “pura” Nel primo dopoguerra, con l’Ermetismo (➜ C2) la poesia tende a collocarsi in una dimensione atemporale, estraniata dalla realtà contingente: più che a situazioni concrete, i poeti mirano ad atmosfere evocative; più che a confrontarsi con la storia, tendono all’assoluto. Se inoltre le avanguardie volevano instaurare una comunicazione diretta con il pubblico – sia pur in termini polemici – ora i poeti ermetici preferiscono rifugiarsi nel proprio mondo interiore; perseguono un ideale di “lirica pura”, che si riallaccia al simbolismo; adottano un linguaggio distante dalla lingua d’uso, allusivo, lirico e aulico, permeato di reminiscenze letterarie. Il processo all’Ermetismo Con la Seconda guerra mondiale, e soprattutto con la Resistenza, si fa strada una nuova presa di coscienza delle responsabilità civili e politiche degli intellettuali; ne nasce una sorta di “processo” all’Ermetismo, accusato di allontanarsi dalla storia, dal reale, e si avverte l’esigenza di una poesia più vicina alla realtà, più al passo con la storia, meno solipsistica, più accessibile anche ai lettori meno colti. In questo senso può essere presa ad esempio l’evoluzione di Salvatore Quasimodo che, dopo gli esordi ermetici, nel secondo dopoguerra opta per una poesia impegnata e ispirata ai valori civili. Una svolta non del tutto radicale La svolta della poesia del secondo dopoguerra non è però del tutto radicale: infatti, non tutti i poeti si allontanano in questo periodo dall’Ermetismo, come mostra ad esempio Mario Luzi, uno dei più grandi autori italiani del Novecento, che, dopo aver difeso le ragioni della scuola ermetica, imprimerà una svolta alla propria poetica soltanto negli anni Sessanta, pubblicando nel 1963 una raccolta intitolata Nel magma, a significare la volontà di calarsi nel flusso caotico dell’esistenza e di aprirsi a un più strenuo confronto con il mondo reale, radicalmente mutato rispetto a quello che aveva visto nascere l’Ermetismo (➜ C19). La svolta degli anni Sessanta Il cambio di rotta della poesia di Luzi non è un fenomeno isolato: quello tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta è un momento di svolta per il paese, che si trasforma dal punto di vista politico, economico, sociale, culturale, del costume: in un’Italia diversa nasce una poesia diversa. La nuova identità della società italiana... Il boom economico conduce molto rapidamente la società italiana a un massiccio livello di industrializzazione, sovvertendone però in profondo l’identità. Identità messa in crisi anche dal crescente influsso dei mass media, con la diffusione della televisione, che aveva portato per la prima volta gli italiani, prima in maggioranza dialettofoni, a condividere un linguaggio comune, che però corre il rischio di impoverirsi e diventare standardizzato.

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... e la nuova identità della poesia In questa Italia che va mutando, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la poesia rinnova sia i temi sia il linguaggio. Tra i temi balzano in primo piano quelli dell’alienazione e della massificazione, mentre il linguaggio alto della tradizione letteraria è abbandonato, o contaminato con quello della prosa. La necessità di innovare il linguaggio è avvertita in questo periodo da tutti i poeti italiani, ma in prima linea sono gli esponenti della Neoavanguardia e del neosperimentalismo. La poesia prosastica e il Neosperimentalismo Il Neosperimentalismo è teorizzato da Pasolini e dagli autori che si riuniscono attorno alla rivista bolognese «Officina», uscita tra il 1955 e il 1959. Convinti che la poesia debba aprirsi alla nuova realtà dell’industrializzazione e della fabbrica, ne rinnovano il linguaggio, in particolare ampliando il campo delle scelte lessicali, ma puntando alla chiarezza e alla forza comunicativa (di qui l’adozione di moduli colloquiali e discorsivi). Differenziandosi dai poeti della Neoavanguardia (➜ C12), i poeti neosperimentali non rinunciano alla tradizione, ad esempio nel campo della metrica, e, in chiave moderna, riprendono forme come le terzine dantesche, già riprese ad esempio da Pascoli. La poetica dei neosperimentali è significativamente definita da Pasolini «una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito». Lasciati ormai decisamente alle spalle non solo l’Ermetismo, ma anche il neorealismo, tutti i poeti italiani avvertono peraltro l’esigenza di un rinnovamento: alcuni, riprendendo la tendenza primo-novecentesca dei crepuscolari, utilizzano un linguaggio tendente alla prosa (Giudici, Raboni, Cucchi); altri, dalla fama già consolidata, seguono vie personali, come Sereni, che persegue una sempre maggiore chiarezza referenziale e dà spazio a voci diverse dall’io, come Caproni, la cui poesia diviene asciutta e antilirica (➜ C19), e come Zanzotto (➜ C19), che adotta un linguaggio sperimentale, per certi versi accostabile a quello degli autori della Neoavanguardia, anche se con intenti diversi. Lo stesso Montale, a partire da Satura, del 1971 (➜ C4), rinnoverà profondamente la sua poesia, aprendola a stilemi prosastici e colloquiali. Resta comunque il fatto che, come si è detto, la più radicale sperimentazione, destinata a incidere più in profondo sull’idea stessa di poesia, resta quella della Neoavanguardia.

2 La Neoavanguardia: lo scardinamento del linguaggio “alienato” L’alienazione Tema fondamentale della poesia della Neoavanguardia è l’alienazione. L’idea è che, in una società industrializzata e dominata dai mass media, l’alienazione non dipenda solo dalle strutture materiali del capitalismo industriale, ma anche e soprattutto dal linguaggio, usato ideologicamente da chi ha – e vuole conservare – il potere. Per Sanguineti, poeta e teorico della Neoavanguardia, anche il linguaggio apparentemente più neutrale, a una più attenta analisi rivela sempre un’ideologia ben precisa, che, anzi, risulta tanto più profondamente condizionante quanto più inavvertita. La tecnica del montaggio Per i teorici della Neoavanguardia, primo compito degli intellettuali è perciò vanificare la pretesa di neutralità del linguaggio. A questo scopo essi adottano la tecnica del montaggio, derivata dall’ambito cinematografico (➜ PER APPROFONDIRE, Dal montaggio cinematografico al montaggio letterario, PAG 868). Associando in una sorta di collage messaggi fra di loro dissonanti, ne smascherano la tendenziosità, altrimenti non evidente. Si tratta del procedimento divenuto poi familiare, nei mass media, con il programma televisivo Blob (che, non a caso, vede Le innovazioni della poesia del secondo Novecento 1 867


tra i suoi ideatori Angelo Guglielmi, teorico della Neoavanguardia). Questa tecnica poetica novecentesca trova dei precedenti nei poeti anglosassoni Thomas S. Eliot (1888-1965) e soprattutto Ezra Pound (1885-1972). Un nuovo linguaggio L’idea caratterizzante la Neoavanguardia è che la liberazione dal linguaggio alienato debba avvenire attraverso il linguaggio. A differenza dei teorici del Neosperimentalismo, gli autori della Neoavanguardia non ritengono possibile far passare un messaggio liberatorio nel linguaggio alienato dei mass media. Si propongono perciò di smontarlo, decostruirlo, quasi farlo esplodere. Come spiega Alfredo Giuliani (nell’introduzione all’antologia I Novissimi, del 1961), essi creano un linguaggio schizomorfo: dissociato, asintattico, caotico, frammentario, frantumato, aggregato di componenti appartenenti ai più diversi strati ideologici e sociali della lingua, accostati per farne emergere le contraddizioni.

PER APPROFONDIRE

Le fasi di sviluppo della Neoavanguardia Il movimento della Neoavanguardia si sviluppa in varie fasi. La prima è legata all’iniziativa di singoli poeti, che pubblicano opere poetiche linguisticamente “rivoluzionarie”, come Laborintus di Sanguineti (1956) e La ragazza Carla di Pagliarani (su rivista nel 1960) in cui è già adottata la tecnica del collage. Segue una seconda fase di aggregazione e di condivisione della nuova poetica: data significativa è il 1961, anno in cui è pubblicata la raccolta I Novissimi, che riunisce opere di Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti e dello stesso Alfredo Giuliani. Il titolo I Novissimi mette in luce l’intento innovativo della raccolta, il suo porsi come momento ultimo, di non ritorno, di una lunga storia passata, dato che novissimi significa in latino, nel linguaggio religioso apocalittico, anche “estremi, ultimi”. Programma comune di questi poeti è la ricerca di un nuovo linguaggio e il rifiuto di una poesia introspettiva. La terza fase è quella del confronto, con toni anche molto polemici, con gli autori italiani più legati alla tradizione. Il momento più significativo in questo senso è un convegno tenuto a Palermo nel 1963, in seguito al quale gli intellettuali neoavanguardisti, divenuti numerosi, si autodesignano come Gruppo 63 e trovano un punto d’incontro nelle prese di posizione (a volte francamente eccessive) contro letterati tradizionali, anche molto noti e ammirati, come Bassani, Cassola e Pratolini. Come era avvenuto per avanguardie della prima metà del secolo, ad esempio i surrealisti, anche gli intellettuali della Neoavanguardia si dividono, entrando in crisi, sul rapporto fra letteratura e politica. Dopo il ’68, infatti, alcuni, come Balestrini, danno la priorità alla politica; altri, come Giuliani, sostengono che la liberazione intellettuale sia prioritaria rispetto a quella politica e rivendicano il valore autonomo della letteratura.

Dal montaggio cinematografico al montaggio letterario Il Novecento è per Sanguineti il «secolo del montaggio», per la spinta al rinnovamento che tale tecnica cinematografica ha prodotto sulla letteratura e le arti di questo periodo. Nel cinema il montaggio è introdotto dal regista americano David Griffith (1875-1948), che per la prima volta se ne serve per collegare situazioni lontane nel tempo e nello spazio, come nel film Intolerance (1916), in cui alterna spezzoni di quattro diverse vicende collegate dal tema comune dell’intolleranza: la caduta di Babilonia, la passione di Cristo, il massacro degli Ugonotti, una storia moderna di conflitti sociali. Ma è il regista sovietico Sergej M. Ejzenštejn (1898-1948), che, ispirandosi ai princìpi della dialettica di Hegel e di Marx, e sostituendo al principio dell’analogia quello del conflitto, ne

scopre le immense potenzialità per offrire un punto di vista critico sulla realtà storica. Ne può essere esempio, nel film Ottobre (1928), la rappresentazione del politico menscevico Kerenskij, le cui inquadrature si alternano con quelle di un pavone meccanico (a significarne la vanità), di un busto di Napoleone (per ironizzare sulla pretesa di essere un grande politico) e di bicchieri di cristallo (a denunciarne la debolezza e l’incapacità di guidare il processo rivoluzionario). È proprio quest’uso del montaggio a suscitare l’interesse dei poeti delle avanguardie, come mezzo per proporre uno sguardo critico senza che debba intervenire un io giudicante, ma per la forza sprigionata dall’accostamento di immagini in violento e allo stesso tempo illuminante contrasto.

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3 Oltre la Neoavanguardia, verso il nuovo millennio Gli anni Settanta: la politica mette in ombra la poesia Alla produzione ricca e innovativa degli anni Sessanta, si contrappone negli anni Settanta un’involuzione, una certa stanchezza, dovuta a due principali fattori: da un lato l’esaurirsi della spinta al rinnovamento, che dà esito a un formalismo avanguardistico deprivato delle ragioni teoriche degli inizi, dall’altro il primato sempre più indiscusso della politica. In reazione al prevalere dell’istanza politica si pongono la rivista «Niebo» (in polacco, “cielo”), tra il 1977 e il 1980, diretta da Milo De Angelis, e l’antologia La parola innamorata, uscita nel 1978 a cura di Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro, accomunate da un’idea di poesia come superiore esperienza conoscitiva, e della sua estraneità a un tempo dato, storicamente determinato. La svolta degli anni Ottanta: il ritorno al privato Altro momento di svolta è quello degli anni Ottanta, quando maturano tendenze ancor oggi in atto: l’interesse predominante per la politica viene meno, e la tendenza al ripiegamento nel privato, propria dell’epoca, determina una rivalutazione della poesia, a tutt’oggi non esaurita: come ad esempio dimostrano i numerosi siti internet a essa dedicati, alcuni dei quali di ottimo livello, per nulla disertati dai giovani, la poesia appare infatti attualmente a molti come un antidoto alla massificazione della cultura e del linguaggio, uno spazio di autenticità capace di riscattare dalla banalità dell’esistenza quotidiana. La poesia italiana nell’attualità In tale prospettiva, la poesia non appare affatto in crisi, ma, al contrario, sembra avere ritrovato una sua funzione importante. Il livello qualitativo medio è considerato oggi più alto di quello di altri generi letterari, perché, essendo estranee a strategie commerciali, le raccolte da pubblicare sono scelte per il loro effettivo valore, più che, come più spesso accade nella narrativa, per calcoli di profitto, alla ricerca di possibili best seller. La vera sfida oggi è il rapporto del linguaggio poetico con la comunicazione globale: la poesia non può certo più chiudersi in una torre d’avorio, sottraendosi al rapporto con la lingua d’uso, ma deve staccarsi per una sua forza intrinseca dal flusso di parole che ci investe quotidianamente, rendendosi memorabile e tale da arricchire l’esperienza del mondo e della vita. Altre linee della poesia novecentesca Nella poesia del secondo Novecento, oltre a quelli sopra considerati, si possono riconoscere altri raggruppamenti di poeti animati da ideali comuni, come ad esempio la “linea lombarda”, dal titolo di una fortunata antologia redatta da Luciano Anceschi nel 1952: un gruppo di autori, il più noto dei quali è Vittorio Sereni, accomunati da una poesia vicina alla prosa, erede della tradizione di impegno etico e civile dell’ambiente lombardo, una “poesia fatta di cose”, che risente dell’influsso filosofico della fenomenologia, insegnata all’Università di Milano dal filosofo Antonio Banfi. Tuttavia, come ha sottolineato Mengaldo, raggruppamenti di questo genere riguardano più la poetica che la poesia, e non possono perciò essere assunti come criterio per storicizzare le diverse voci poetiche del secolo. Lo stesso Mengaldo perciò, per la sua fondamentale antologia dei Poeti del Novecento (1978), ha preferito adottare un criterio di ordinamento cronologico, in base alla data di pubblicazione della prima raccolta importante di ciascun poeta. A questo criterio ci atterremo anche noi. Le nostre scelte didattiche In questo capitolo la trattazione è organizzata per temi, in modo da agevolare il confronto fra i testi e la costruzione di percorsi didattici all’interLe innovazioni della poesia del secondo Novecento 1 869


no del complesso panorama della poesia novecentesca; in ogni sezione abbiamo poi adottato in linea di massima il criterio cronologico suggerito da Mengaldo. Tale organizzazione tematica ha solo una funzione strumentale; quindi, nel caso che un poeta possa essere inserito in diversi ambiti, ne abbiamo considerato l’opera unitariamente, a partire da un tema che lo caratterizzi in particolare, per poi considerarla nel suo insieme.

4 La periodizzazione: “novecentismo” e “antinovecentismo” MAPPA INTERATTIVA

La forma poetica nel Novecento fra classicismo e sperimentazione

La presenza di diverse linee poetiche “moderne” A secolo ormai concluso, la poesia del Novecento appare un panorama variegato in cui si intersecano profili diversi che talvolta, dopo un’apparente eclissi, ricompaiono a distanza di anni. Perciò risulterebbe oggi difficile, e in parte fuorviante, voler individuare una linea maestra per la poesia del secolo ormai terminato, «una sorta di marcia trionfale verso il Nuovo» (Berardinelli), perché nel secolo corrono parallele diverse linee evolutive, che possono a pari titolo essere definite “moderne”. Il critico Paolo Giovannetti ne individua tre: la prima collegata alla tradizione del simbolismo e dell’Ermetismo; la seconda, allo sperimentalismo linguistico; la terza, alla contaminazione della lirica pura con altri generi e linguaggi: narrazione, dialogo, discorso prosastico, aforisma filosofico. “Novecentismo” e “antinovecentismo”: problemi di un’etichetta critica Fino a qualche decennio fa, la bussola per orientarsi nella poesia del Novecento era la nozione di “novecentismo”, a cui di solito si contrapponeva un insieme disomogeneo e variegato, definito “antinovecentismo”. Ma si tratta di categorie datate: furono elaborate, in un periodo ancora lontano dalla conclusione del secolo, e con un intento polemico e militante, da Pier Paolo Pasolini, che, contestando la tendenza allora egemone a una poesia caratterizzata dalla concentrazione espressiva e dalla trasfigurazione lirica soggettiva, culminante nell’Ermetismo, le contrapponeva una linea “antinovecentesca”, caratterizzata dalla chiarezza, dalla tendenza narrativa, da una più piana musicalità, da forme metriche tradizionali, dal rifiuto dei procedimenti ermetici del simbolismo e dell’analogia, dall’«apertura del lessico a un confronto immediato con la realtà» (Lorenzini): una tendenza rappresentata, oltre che dallo stesso Pasolini, da Penna, Bertolucci, Saba. I limiti della categoria di “antinovecentismo” Alla teorizzazione di Pasolini va dato il merito di aver evidenziato l’importanza di esperienze poetiche apparentemente rivolte al passato, ma in realtà feconde di sviluppi futuri. La categoria di “antinovecentismo” conserva perciò ancor oggi un valore storico, ma, se estesa oltre l’epoca in cui fu formulata, può risultare di scarsa utilità, per varie ragioni: innanzitutto, perché comprenderebbe poetiche fra loro troppo diverse; in secondo luogo perché, se nel primo Novecento quella denominata “novecentismo” è stata la linea egemone, questa gerarchia di valori è sovvertita nella seconda metà del secolo. Le categorie di “novecentismo” e “antinovecentismo” sono poi difficilmente applicabili ad alcuni poeti, come, ad esempio, Caproni, un autore inscritto nell’antinovecentismo per le prime raccolte, dalla lieve musicalità e apparente semplicità, ma che, successivamente, per la tematica filosofica e lo stile prosciugato ed essenziale dei suoi ultimi libri, appare ormai ben lontano da tale etichetta. Sembra perciò, come si è detto e come ormai la maggior parte dei critici riconosce, più opportuno considerare la poesia del secolo trascorso (e perché no, di quello iniziato) caratterizzata da una pluralità di linee evolutive, tutte parimenti “moderne”.

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2 La poesia a confronto con la storia 1 Franco Fortini: dalla guerra partigiana a quella del Golfo La biografia Franco Lattes, nato a Firenze nel 1917 da padre ebreo, assume il cognome della madre, Fortini, nel 1940, in seguito alle leggi razziali. Insegna prima negli istituti tecnici, poi storia della critica all’Università di Siena; svolge anche un’intensa attività di traduttore, dal francese e dal tedesco, pubblicando traduzioni di Proust, Brecht. Partecipa alla Resistenza in Val d’Ossola; si stabilisce poi a Milano. Esordisce come poeta nel 1946 con la raccolta Foglio di via e altri versi, in cui elementi stilistici ancora ermetici coesistono con contenuti ideologici impegnati. Delle raccolte successive si possono ricordare Questo muro (1973), che inaugura una linea poetica più personale, seguito da Paesaggio con serpente (1984) e da Composita solvantur (1994). Contemporaneamente si dedica a un’intensa attività saggistica e giornalistica, segnalandosi per il suo spirito polemico, che lo porta spesso in contrasto con altri intellettuali suoi contemporanei. Iscritto al Partito Socialista, lo abbandona nel 1957 per protesta contro l’imperialismo sovietico. Muore a Milano nel 1994. La figura di un intellettuale critico La tematica storica assume un importante rilievo anche nell’opera di Franco Fortini che si è distinto nella cultura del Novecento non soltanto come poeta, ma come intellettuale impegnato in vari campi: critico, insegnante universitario, traduttore, giornalista, polemista. La sua idea di poesia è indissolubilmente legata all’impegno: lo scrittore deve assumere per lui un ruolo critico, civilmente e politicamente impegnato, secondo il modello del tedesco Bertolt Brecht, da Fortini ammirato e tradotto, e degli intellettuali della Scuola di Francoforte. Anche Fortini, come Quasimodo, muove dall’Ermetismo, ma l’esigenza di comunicare con un largo pubblico lo spinge in seguito in tutt’altra direzione: abbandonate le oscurità ermetiche, adotta una lingua poetica chiara e logica, che definisce nitidamente i concetti, non evocativa né allusiva, fondata non sui simboli, ma sulle allegorie. Estraneo agli esperimenti linguistici della Neoavanguardia, secondo la poetica di «Officina», di cui era collaboratore, Fortini tende a veicolare contenuti attuali in una forma tradizionale, come mostrano i due testi qui presentati, che riecheggiano antiche ballate – sul modello di Villon (1431-post 1463), con La ballata degli impiccati, e di Heine (17971856) – e che assumono un ritmo cantabile grazie alle rime, nel primo testo alternate, nel secondo baciate. Franco Fortini.

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T1

Guerra di ieri e guerra di oggi Il Canto degli ultimi partigiani è tratto dalla raccolta Foglio di via, pubblicata nel 1946, nell’immediato dopoguerra; Lontano lontano appartiene invece a Composita solvantur del 1994. Tema comune ai due testi è la guerra: nel primo quella partigiana, a cui il poeta prese parte direttamente; nel secondo, la guerra del Golfo del 1991, degli Stati Uniti contro l’Iraq, verso cui il poeta denuncia l’indifferenza dell’Occidente.

Franco Fortini

T1a F. Fortini, Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1967

Canto degli ultimi partigiani Foglio di via Sulla spalletta del ponte le teste degli impiccati nell’acqua della fonte 4 la bava degli impiccati. Sul lastrico del mercato le unghie dei fucilati sull’erba secca del prato 8 i denti dei fucilati. Mordere l’aria mordere i sassi la nostra carne non è più d’uomini. Mordere l’aria mordere i sassi 12 il nostro cuore non è più d’uomini. Ma noi s’è letta1 negli occhi dei morti e sulla terra faremo libertà2. Ma l’hanno stretta i pugni dei morti 16 la giustizia che si farà.

La metrica Ottonari nelle prime due strofe, endecasillabi nelle successive. Rime alternate, con il ricorrere in rima di alcune parole identiche (impiccati, fucilati, sassi, uomini).

1 noi s’è letta: noi abbiamo letto. La forma è un dialettalismo toscano frequente nel parlato. 2 faremo libertà: conquisteremo la libertà. Anche questa forma, per l’abbas-

samento del registro linguistico, tende a suggerire l’idea di un coro di persone appartenenti al popolo.

Franco Fortini

T1b F. Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994 AUDIOLETTURA

Lontano lontano... Sette canzonette del Golfo in Composita solvantur Lontano lontano si fanno la guerra. Il sangue degli altri si sparge per terra. Io questa mattina mi sono ferito a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

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Succhiando quel dito, pensavo alla guerra. Oh povera gente, che triste è la terra! Non posso giovare, non posso parlare, non posso partire per cielo o per mare1.

E se anche potessi, o genti indifese, 10 ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese! Potrei sotto il capo dei corpi riversi posare un mio fitto volume di versi? Non credo. Cessiamo la mesta ironia. Mettiamo una maglia, che il sole va via. La metrica Distici di doppi senari, tutti con cesura al mezzo; rime baciate. 1 per cielo o per mare: in aereo o in nave.

Analisi del testo La diversità di due situazioni storiche Le due poesie, accomunate dal contrasto tra la situazione cupa e drammatica e la cantabilità facile dei versi, hanno un tema comune: entrambe parlano di guerre sanguinose; entrambe considerano il rapporto fra chi muore in guerra e chi, essendo testimone di tale sacrificio, è investito della responsabilità di dargli un senso. Ma le due situazioni storiche descritte sono completamente diverse.

La guerra dei partigiani Il Canto degli ultimi partigiani, ancora partecipe del clima post-resistenziale, esprime una continuità fra i morti e i vivi, essendo questi ultimi chiamati a difendere i valori di giustizia e libertà per cui i partigiani sono morti. La poesia può essere divisa in due parti: nella prima (le due strofe iniziali), immagini di espressionistica violenza indicano come in moltissimi luoghi restino tracce delle atrocità della guerra (la spalletta del ponte, l’acqua, il lastrico, l’erba). La brutalità delle immagini trova un corrispettivo nella prevalenza di suoni duri, ed è evidenziata dalla ripetizione in rima di parole identiche (impiccati : fucilati) che conferisce ai versi un ritmo ossessivo e martellante. Il prevalere delle frasi nominali sottolinea l’evidenza dei particolari macabri e urtanti. Nelle prime strofe, per l’assenza dei verbi, e quindi dei soggetti, il punto di vista è impersonale. Nelle due successive è introdotto un punto di vista umano, corale. Dapprima sono i morti a parlare, come nella Ballata degli impiccati di Villon, ricordando la loro fine. Nella strofa successiva un diverso soggetto corale (noi) rappresenta il punto di vista di chi si sente chiamato a dare compimento a quelle vite spezzate, a dare senso alle loro sofferenze e alla loro morte difendendo gli ideali per cui hanno combattuto, la giustizia e la libertà.

La guerra come spettacolo televisivo La situazione di Lontano, lontano, scritta nel periodo della prima guerra del Golfo (1991), è radicalmente mutata; la prospettiva non è più quella di un soggetto corale, ma di un io anonimo, un personaggio che può rispecchiare l’anziano poeta, ma anche un qualsiasi spettatore televisivo. Inoltre, questa volta le tracce della guerra non sono, come nel testo precedente, dolorosamente inscritte nei luoghi della vita quotidiana, ma, al telespettatore occidentale, appaiono soltanto come immagini evanescenti sullo schermo. In contrasto con la violenza espressionistica delle immagini della guerra partigiana, quelle del conflitto del Golfo hanno la levità dei sogni e delle visioni, e non sollecitano affatto la responsabilità di chi guarda il sangue sparso «per terra» e appare ben più toccato, egoisticamente, dal freddo serale, dal pensiero di dover indossare un golf, dalla puntura al dito delle spine di rosa.

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Il ritmo facile di filastrocca per bambini, quasi da girotondo, che caratterizza il testo, con la sua forma metrica di dodecasillabi, ordinatamente divisi dalla cesura, scanditi e privi di enjambement, resi cantabili dalla rima baciata, sottolinea la leggerezza colpevole e l’indifferenza del consumatore televisivo occidentale, viziato dal benessere e dalla facilità di una vita ormai da decenni al riparo dalle guerre che toccano altre parti del mondo.

Il simbolo della rosa: la sfiducia nella poesia L’indifferenza del personaggio, con le sue puerili giustificazioni, e l’evidente autoironia, richiamano i toni della poesia crepuscolare, suggerendo come il poeta, ormai anziano, abbia perso la fiducia, nutrita in passato, nella capacità della poesia di ridestare la coscienza civile dei lettori; di qui la proposta ironica di mettere un proprio volume di versi sotto la testa di quegli uccisi. La stessa immagine della rosa, ricorrente nella poesia di Fortini come «emblema di felicità, di leggerezza o di liberazione» (Luperini), potrebbe forse anche rappresentare la poesia, ormai sentita come un’attività tanto bella quanto inutile, priva della funzione ideologica e morale che l’autore le aveva in passato attribuito. Il titolo stesso della raccolta, in latino, Composita solvantur (“Si dissolva ciò che è legato”), suona come la confessione di una perdita della fiducia nel ruolo dell’intellettuale, che in passato aveva sostenuto l’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi in sintesi il contenuto dei due componimenti in non più di 5 righe, poi individua il tema centrale e le parole chiave. ANALISI 2. Sottolinea nelle due poesie le immagini con cui il poeta descrive la violenza della guerra. Riscontri qualche differenza? STILE 3. Indica in forma schematica le analogie e le differenze tra le due poesie dal punto di vista formale (caratteristiche del lessico, della sintassi e del ritmo dei versi).

Interpretare

SCRITTURA 4. Quale differente concezione del ruolo del poeta e dell’intellettuale emerge nelle due poesie? Motiva la risposta in un testo di circa 15 righe. LETTERATURA E NOI 5. L’indifferenza dello spettatore televisivo o del fruitore di video in Rete, di fronte alle atrocità che gli appaiono soltanto sullo schermo, non è soltanto un tema letterario, ma è, soprattutto, una realtà che coinvolge tutti noi. Ti sembra che l’uomo contemporaneo sia ormai assuefatto alla vista del dolore e che si collochi lontano lontano da esso o che provi ancora partecipazione osservando le tragedie che coinvolgono i suoi simili?

online La poesia politica di Bertolt Brecht

T2a Bertolt Brecht Contro la guerra Mio fratello aviatore T2b Bertolt Brecht Allegoria dell’ingiustizia sociale Il susino, Poesie di Svendborg

Spettatori televisivi vedono scene di guerra alla TV.

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2 Vittorio Sereni: memoria personale e memoria storica La biografia Nasce a Luino, sul lago Maggiore, nel 1913. Si laurea in lettere a Milano; esordisce con la raccolta Frontiera, del 1941; durante la Seconda guerra mondiale combatte in Grecia e in Sicilia, dove è fatto prigioniero degli alleati e internato in un campo di prigionia in Algeria. A tale esperienza è dedicata la seconda raccolta, Diario d’Algeria (1947). Dopo la fine della guerra lavora dapprima come insegnante, poi nell’editoria. Si afferma come uno dei maggiori poeti italiani con Strumenti umani (1965), forse la sua raccolta migliore, seguita nel 1981 da Stella variabile. Muore a Milano nel 1983.

online

Video Sereni si racconta

Un testimone della storia ma non un poeta-vate Nella sua opera Vittorio Sereni dedica un ampio spazio alla storia, offrendo una testimonianza degli eventi decisivi del secolo (dalla Seconda guerra mondiale, alla Shoah, al boom economico italiano e all’industrializzazione). Mentre però altri scrittori, come ad esempio Quasimodo e Fortini, nel clima del secondo dopoguerra si riallacciano alla concezione del “poeta vate”, e si pongono come portatori di ideali e di valori, Vittorio Sereni mantiene una posizione più dubbiosa e riservata (in una lettera del 1961 scrive: «Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia “verità” da trasmettere»). Ma proprio in questo suo voler essere un uomo comune e nel suo atteggiamento di riservatezza e apparente distacco, Sereni trova una sua forza, riuscendo «a tramutare insicurezza, estraneazione e una signorile perplessità in un attento ascolto di sé e degli altri» (E. Testa). Una poesia dialogica Rinunciando alla centralità dell’io, la poesia di Sereni si caratterizza per l’apertura dialogica a voci diverse. In questo modo l’autore tende a far emergere il proprio punto di vista in maniera filtrata e indiretta, come accade nella poesia Saba (➜ T3b ), in cui la delusione per le elezioni del 1948 – che videro uno scontro frontale tra Democrazia cristiana e sinistre, con una pesante sconfitta di queste ultime, e che segnarono di fatto la fine delle aspettative della Resistenza – è espressa non attraverso le parole del misurato autore, ma dell’amico poeta Saba, in un discorso diretto colorito e veemente, come era proprio del suo carattere. Lo stile di Sereni Con l’inserzione del discorso diretto e la presenza di vari personaggi, la poesia di Sereni si accosta alla narrativa, a cui la apparentano anche il linguaggio «scarno, asciutto, preciso» (Curi), quasi prosastico, mai però disgiunto da una raffinata misura letteraria e da una sobria musicalità. L’evoluzione nelle diverse raccolte Queste caratteristiche maturano progressivamente nelle diverse raccolte del poeta: la prima, Frontiera, del 1941, è ancora vicina allo stile ermetico, come mostrano il lessico, raffinato e selettivo, e le atmosfere indeterminate e simboliche. L’immagine della frontiera, che ispira il desiderio e insieme il timore di varcarla, ha diverse valenze: dal punto di vista biografico si riferisce a Luino, in provincia di Varese, luogo d’origine del poeta, vicino alla frontiera che divideva l’Italia fascista dalla Svizzera e dall’Europa; ma, oltre allo spazio, la frontiera riguarda il tempo, simboleggiando la “linea d’ombra” fra la giovinezza e l’età adulta. La seconda raccolta, Diario d’Algeria (1947), è incentrata sull’esperienza storica della guerra e della deportazione del poeta in un campo di prigionia inglese; dal punto di vista stilistico, Sereni comincia ad allontanarsi dall’Ermetismo, rappresentando in modo più realistico e concreto, talvolta quasi diaristico, eventi e situazioni. Tra la seconda e la terza raccolta, Gli strumenti umani (1965), trascorrono quasi La poesia a confronto con la storia 2 875


vent’anni. L’evoluzione stilistica è ancor più marcata: la lingua poetica di Sereni si apre sempre più spesso alle cadenze informali del parlato. Anche in questa raccolta la storia – sempre intrecciata con l’esperienza personale – è un tema portante: il libro traccia infatti un percorso che, dalla guerra e dall’Olocausto, approda alla società italiana degli anni Sessanta e all’emergere della civiltà industriale. Anche il titolo è polisemico: gli «strumenti umani» sono, da una parte, quelli del lavoro in fabbrica, a cui è dedicato un famoso testo (Una visita in fabbrica ➜ C13 T1c ), dall’altra le qualità che danno valore agli uomini, gli “strumenti” dell’umanità per essere tale, e quindi in primo luogo la poesia. L’ultima raccolta di Sereni è Stella variabile (1981), il cui titolo, ripreso dall’ambito astronomico, si riferisce a stelle di luminosità incostante, alludendo alla mancanza di certezze sia del poeta sia della sua epoca.

T3

Storia e memoria Queste due poesie di Sereni si incentrano sul rapporto tra la storia e l’esperienza personale del poeta. La prima è tratta dal Diario d’Algeria, in cui Sereni descrive la propria condizione di prigioniero degli anglo-americani, essendo stato catturato in Sicilia quando ancora l’Italia combatteva a fianco dei tedeschi. Nella notte in cui avviene lo sbarco in Normandia, l’alba del 6 giugno 1944, il poeta ha un presentimento, confermato dalla lettura dei giornali il giorno successivo. Egli stesso racconta: «Mentre ero in prigionia in Africa […] una notte guardavo la luna in parte coperta da una nuvola; mi venne in mente che forse gli alleati stavano sbarcando in Europa». Anche la poesia Saba, tratta da Gli strumenti umani, testimonia un momento storico cruciale, le elezioni italiane dell’aprile 1948, che segnano la fine delle speranze resistenziali. Saba è raffigurato mentre, aspramente deluso per l’esito elettorale, si aggira per Milano (dove si trovava in quel periodo) dando voce e sfogo (vociferando) alla sua indignazione e al suo sconforto.

Vittorio Sereni

T3a V. Sereni, Poesie, a c. di D. Isella, Mondadori, Milano 1995

Non sa più nulla, è alto sulle ali Diario d’Algeria Non sa più nulla1, è alto sulle ali2 il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna3. Per questo4 qualcuno5 stanotte mi toccava la spalla mormorando6

La metrica Due strofe di versi liberi di lunghezza varia, dal settenario al verso lungo di 16 sillabe ripetuto in entrambe le strofe (vv. 2 e 11).

1 Non… nulla: la morte ha annullato la coscienza e la memoria. 2 è alto… ali: l’espressione sembrerebbe evocare il volo dell’anima verso il cielo, ma non a questo si riferisce il laico Sereni, come precisa nello scritto autobiografico Algeria ’44 (nella raccolta di prose Immediati

dintorni, 1962) in cui racconta come i feriti e i cadaveri degli anglo-americani fossero sgombrati dal campo di battaglia con un ponte aereo. Perciò le ali sono quelle di un aeroplano, non di un angelo. 3 il primo… normanna: il primo soldato ucciso durante lo sbarco in Normandia, momento cruciale della Seconda guerra mondiale, quando, nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, gli alleati aprirono questo nuovo fronte di guerra nel centro dell’Europa. L’aggettivo bocconi (disteso a faccia

876 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

in giù), con la sua evidenza fisica, mette in rilievo la cruda realtà della guerra. 4 Per questo: per l’avvenuto sbarco. 5 qualcuno: come precisa Sereni, non si tratta di una presenza reale. L’autore stesso spiega (nel volume Sulla poesia): «non è un compagno, ma un pensiero diventato persona, una mia immaginazione». 6 mormorando: la levità del suono evocata dal verbo sottolinea come la figura sia soltanto frutto dell’immaginazione.


5

di pregar per l’Europa7 mentre la Nuova Armada8 si presentava alla costa di Francia.

Ho risposto nel sonno: – È il vento, il vento che fa musiche bizzarre9. 10 Ma se tu fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace10. Questa è la musica ora: 15 delle tende che sbattono sui pali11. Non è musica d’angeli, è la mia sola musica e mi basta –. Campo Ospedale 127, giugno 1944 7 per l’Europa: la vittoria degli alleati avrebbe liberato l’Europa dall’oppressione nazista. 8 Nuova Armada: la flotta alleata è così designata con riferimento all’Invencible Armada (Invincibile Armata) della Spagna di Filippo II, che combatté contro l’Inghilterra nel 1588, in un altro momento

storico decisivo per le sorti dell’Europa. Il riferimento alla flotta spagnola, che, distrutta dalle tempeste e dalla più efficace strategia inglese, si era dimostrata tutt’altro che invincibile, mette in risalto la durezza dello scontro affrontato dalle forze alleate. 9 bizzarre: strane, diverse dal consueto.

10 morto… pace: estraneo alla storia: «È come dire: sono tagliato fuori dalla storia, dagli avvenimenti, non più in grado di agire in nessun senso», spiega il poeta in proposito. 11 tende… pali: le tende del campo di prigionia in Algeria, dove si trovava Sereni, che, agitate dal vento, sbattono sui pali di sostegno.

Analisi del testo Il tema della guerra La poesia Non sa più nulla, è alto sulle ali riflette la situazione storica e quella personale del poeta al momento dello sbarco in Normandia (giugno 1944). Nello scenario notturno si contrappongono due luoghi: la spiaggia normanna, dove sono in azione le truppe di sbarco, e, a grande distanza, l’Algeria, dove è prigioniero Sereni, catturato dagli alleati quando ancora l’Italia era in guerra al fianco della Germania. Dominante lo scenario della guerra, evocato con pochi e duri tratti: il corpo del soldato è disteso bocconi, un dettaglio realistico che pare ispirato agli scatti del fotografo di guerra Robert Capa (Budapest 1913 - Indocina 1954), che aveva «fissato in un’istantanea il momento in cui il primo soldato fu falciato dal fuoco delle mitragliatrici tedesche sulla spiaggia di Normandia», come commenta in proposito lo stesso poeta; alle sue spalle, la flotta alleata, così potente da evocare l’Invincibile Armata di Filippo II. Ma il ricordo storico, per la disfatta della flotta cinquecentesca, erroneamente considerata invincibile, lascia intuire quanto l’esito bellico fosse ancora incerto, nonostante la superiorità delle forze alleate.

La preghiera per l’Europa Alla contrapposizione dei due scenari si associa quella delle due figure nella poesia: il « primo caduto», morto per la libertà, e quella del poeta prigioniero. L’anonimo soldato, falciato per primo perché evidentemente corso davanti a tutti gli altri, coraggiosamente, è una figura eroica: il poeta lo immagina perciò trasfigurato, come un angelo che venga a risvegliarlo, chiedendogli di pregare per l’Europa. Ma il poeta ha combattuto con l’esercito italiano prima dell’8 settembre, quindi contro gli alleati, anche se con scarsa convinzione, ed è stato catturato senza l’onore delle armi; ora, prigioniero, si sente confinato «in un angolo morto della storia», quasi estraneo ai grandi eventi, decisivi per la storia europea; la sua condizione inerte e passiva di prigioniero si concretizza nel dettaglio del vento che fa sbattere le tende del campo contro i pali di sostegno,

La poesia a confronto con la storia 2 877


immagine di chiusura opposta alla spaziosità infinita e all’altezza suggerita dal primo verso, con il soldato morto. Il contrasto è evidenziato anche da un termine chiave della poesia, musica (con 4 occorrenze nella seconda strofa): la «musica d’angeli», simbolo di libertà, è contrapposta al soffiare del vento, che (spiega lo stesso Sereni) «vuole sottolineare la mia situazione di estraneità, di emarginazione, di miseria».

La polisemia del testo Il fascino della poesia è nell’atmosfera di sospensione fra realtà e sogno, in cui i dati concreti assumono un valore polisemico: l’espressione «è alto sulle ali», che anticipa il soggetto del v. 2 quasi riflettendo la corsa in avanti del «primo caduto», è riferita alle manovre operative degli alleati, che trasportavano con un ponte aereo i feriti e i morti in Inghilterra; le ali non sono dunque quelle di un angelo, ma quelle di un aereo. Questa spiegazione non annulla però le suggestioni del verso nell’immaginazione del lettore, indotto ad associare l’altezza del volo alla glorificazione del soldato, ma anche a immaginare, con una visione con echi danteschi (ad esempio il V canto del Purgatorio), un distacco dell’anima, quasi un volo angelico (suggestione rinforzata da «musica d’angeli», v. 16), dal corpo, abbandonato bocconi. Anche l’espressione «non sa più nulla» (v. 1) è polisemica: benché, nella concezione laica di Sereni, si riferisca all’annullarsi della coscienza nella morte, suggerisce l’idea di un distacco dalla brutale violenza della storia.

Il superamento dell’Ermetismo Tali elementi tematici trovano riscontro negli aspetti formali del testo: il legame fra il caduto e il poeta (di antitesi ma anche di vicinanza spirituale) è ribadito dalla simmetria tra le due strofe (un verso, che spicca sugli altri per la sua lunghezza, è ripetuto identico in entrambe: vv. 2 e 11); in entrambe c’è inoltre un riferimento alla preghiera per l’Europa (vv. 5 e 12). Il contrasto tra l’ideale di libertà e di rinascita dell’Europa e la realtà di sconforto e disillusione del prigioniero è poi evidenziato dal lessico, in cui termini di eterea spiritualità (alto, ali, vento, musica) si contrappongono ad altri concreti e prosaici (bocconi, sbattono, pali), che rivelano quanto nel Diario d’Algeria Sereni si fosse allontanato dall’iniziale formazione ermetica, per coniugare il realismo delle situazioni alla libertà dell’immaginazione poetica.

Vittorio Sereni

T3b V. Sereni, Poesie, a c. di D. Isella, Mondadori, Milano 1995

Saba

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Gli strumenti umani Berretto pipa bastone, gli spenti oggetti di un ricordo1. Ma io li vidi animati indosso a uno ramingo in un’Italia di macerie e di polvere2. 5 Sempre di sé parlava ma come lui nessuno ho conosciuto che di sé parlando e ad altri vita chiedendo nel parlare altrettanta e tanta più ne desse a chi stava ad ascoltarlo.

La metrica Versi liberi. 1 spenti… ricordo: quando Sereni scrive la poesia, Saba era già morto da alcuni anni (1957).

2 ramingo... polvere: il poeta ricorda il periodo della guerra (quando il poeta era ramingo e dovette nascondersi presso gli amici per sfuggire alle persecuzioni

878 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

razziali antiebraiche) e dell’immediato dopoguerra.


E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile3, lo vidi errare da una piazza all’altra dall’uno all’altro caffè di Milano inseguito dalla radio4. «Porca – vociferando – porca». Lo guardava 15 stupefatta la gente. Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito. 10

3 dopo il 18 aprile: il 18 aprile 1948, alle elezioni politiche (seconda consultazione elettorale a suffragio universale, dopo quella del 1946), vinse con larghissima maggioranza la Democrazia cristiana

sul Fronte democratico popolare, cioè il Partito socialista e il Partito comunista uniti. 4 inseguito… radio: Sereni ricorda di Saba: «Il risultato di quelle elezioni lo scon-

volse. Per questo nei giorni che ho detto prendeva il largo non appena gli arrivava la voce di una radio».

Analisi del testo Saba e le elezioni del 1948 Saba, poesia solo apparentemente semplice, in realtà propone molteplici spunti tematici. Da una parte fornisce un indimenticabile ritratto del poeta triestino Umberto Saba (1883-1957), che si staglia vividamente a partire dall’immagine iniziale degli oggetti a lui appartenuti («Berretto pipa bastone»). L’asindeto, che accentua la rapidità del ritratto, sembra suggerire l’incalzante vitalità del poeta nel ricordo dell’amico Sereni. Saba appare nei versi animato da un’intensa passione per la vita, che riesce a comunicare agli ascoltatori: gli oggetti, altrimenti spenti, sono da lui animati, e quando il poeta parla, “chiede vita”, ma ancora di più ne regala agli interlocutori. Proprio per questa sua carica emotiva e passionale, Saba è più profondamente ferito, quando le elezioni del 1948 segnano la sconfitta di molti degli ideali della Resistenza. Come osservandolo con gli occhi della gente stupefatta, meravigliata per la sua irruenza, Sereni ne registra la reazione, priva di misura ma intensamente umana, che si esprime nelle parole, pronunciate gridando (vociferando), ma anche negli inquieti, frenetici movimenti che esprimono il desiderio di un’impossibile fuga (mentre corre da una piazza all’altra, il poeta è «inseguito dalla radio», che ribadisce i risultati elettorali per lui insopportabili) da un’Italia che sembra averlo tradito: «L’indignazione di Saba di fronte al risultato che vide la maggioranza assoluta della DC è da riferirsi non tanto a un suo frontismo in senso filocomunista (non lo era affatto) quanto piuttosto […] alla rinunzia rispetto a ogni speranza di movimento portata qualche anno prima dalla resistenza armata ai tedeschi e dalla liberazione» (Sereni). Attraverso il ritratto di Saba, Sereni può dunque esprimere il suo senso di delusione storica in modo più intenso di quanto gli avrebbe consentito il suo carattere pacato e riservato. Il rapporto di amicizia tra i due caratteri opposti e complementari di Saba e Sereni fa pensare a una famosa lirica dello stesso Sereni, Il grande amico, sempre nella raccolta Gli strumenti umani: «Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi…».

Anche l’Italia come protagonista La poesia evoca inoltre, in efficaci e rapidi scorci, la storia dell’Italia del dopoguerra: dapprima ridotta in macerie dal conflitto («un’Italia di macerie e di polvere») ma animata dalla speranza di chi, come Saba (ramingo, perché aveva dovuto abbandonare Trieste per nascondersi a Firenze, essendo ricercato per le sue origini ebraiche) e come Sereni, riponeva fiducia in un suo rinnovamento; in seguito, a giudizio dell’autore e del suo personaggio, tradita dallo sviluppo storico successivo, di cui le elezioni del 1948 costituiscono un momento di svolta. Protagonista della poesia di Sereni, perciò, non è solo Saba, ma anche l’Italia: l’immagine della donna che ha tradito chi l’amava, pur così viva e spontanea nelle parole gridate di Saba, non può non ricordare le invettive dei poeti che, a cominciare da Dante (Purg. VI, 76-78), hanno rappresentata la nostra nazione con una figura di donna: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!».

La poesia a confronto con la storia 2 879


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che modo l’immagine del vento si lega alla situazione della poesia? 2. Quale capovolgimento di ruoli avviene in ➜ T3a tra il «primo caduto» e il poeta? Come si può spiegare? LESSICO 3. Si è sottolineato come la parola musica (➜ T3a ) sia ripetuta più volte: rintracciane le occorrenze e spiega quali significati contrastanti assume.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Come quelle dell’Allegria di Ungaretti, il testo della prima poesia, tratta dal Diario d’Algeria, è contrassegnato da un luogo e da una data precisi. Trovi altre analogie con le poesie di Ungaretti dedicate al primo conflitto mondiale? Quali differenze puoi invece rilevare?

EDUCAZIONE CIVICA

5. Nella poesia emerge l’immagine dell’Italia come donna che ha tradito chi l’amava. Solitamente invece ha una lunga tradizione l’immagine dell’Italia come donna ferita e martoriata: dal poema dantesco, alla canzone petrarchesca Italia mia, all’ultimo capitolo del Principe di Machiavelli. Dopo aver ripreso i testi citati e aver eventualmente aggiunto altre testimonianze, sviluppa il tema in un breve testo. Puoi anche riferirti a riprese più recenti dell’immagine, magari in chiave ironica, come quella del documentario Girlfriend in a Coma (2012) di un osservatore straniero, il giornalista Bill Emmott, in cui l’amica in coma del titolo è proprio la martoriata Italia attuale.

nucleo

Costituzione

competenza 1

Puoi anche riferirti a cantautori che hanno fatto dell’Italia il soggetto delle loro canzoni (come Francesco De Gregori con Viva l’Italia del 1979 o Luciano Ligabue con Buonanotte all’Italia del 2007).

online T3c Vittorio Sereni

Il tempo e la memoria Giovanna e i Beatles

3 Antonio Porta: le “menzogne” dei Grandi e la violenza della storia

Antonio Porta.

La biografia Antonio Porta è lo pseudonimo assunto dallo scrittore Leo Paolazzi, in omaggio al grande poeta milanese Carlo Porta. Nasce a Vicenza nel 1935, e trascorre poi la sua vita a Milano, esercitando un’intensa attività intellettuale: giornalista, critico scrittore in prosa, oltre che poeta, partecipa alla Neoavanguardia ed è tra i fondatori della rivista politico-culturale e letteraria «Alfabeta» (1979-1988). Muore improvvisamente a Roma nel 1989. La poesia di Porta come «amplificazione conoscitiva del reale» Tra i poeti più partecipi dell’attualità del proprio tempo e più capaci di renderne l’impatto in versi incisivi, è sicuramente Antonio Porta. Rispetto ad altri poeti neoavanguardisti il rinnovamento di Porta non riguarda tanto la lingua (nelle prime raccolte adotta un più marcato sperimentalismo linguistico, mentre dopo gli anni Ottanta si orienta verso un linguaggio più comunicativo), quanto lo sguardo, dato il proposito dichiarato dall’autore di mettere da parte nella sua poesia ogni impostazione soggettiva (di fare guerra all’io) per porre in primo piano la realtà. Questa è rappresentata facendone emergere l’impatto violento, con una carica espressionistica che, secondo Alfredo Giuliani, la deforma «in un guardare stravolto».

880 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Della storia e della contemporaneità, lo scrittore tende a mettere in evidenza gli aspetti più crudi, con immagini dure e violente, per renderli in tutto il loro attrito e il loro peso. Infatti, Porta «invece di allontanare la vista dal “male” lo scruta» (Giuliani) per indurre nel lettore un’esperienza perturbante di shock, da cui trarre «un’amplificazione conoscitiva del reale» (Piccini). La tecnica del montaggio Tale effetto è ottenuto grazie a un abile montaggio delle immagini, associate come fotogrammi cinematografici di racconti fortemente ellittici, con un effetto di movimento bloccato in successive istantanee: gli eventi sono rappresentati come una successione di “stati”, di cui il lettore è chiamato a riempire i vuoti. Le immagini staccate e fortemente incise si imprimono così nella mente del lettore con una carica ossessiva. La denuncia di una violenza onnipresente Queste caratteristiche stilistiche servono a porre sotto gli occhi del lettore la realtà senza velarla o edulcorarla. Il poeta è infatti convinto che si debba imparare a sostenere con il necessario coraggio il carico di negatività e di violenza insito nella realtà. Violenza che il poeta mostra a tutti i livelli, dall’ordine naturale (fondato sulla reciproca lotta e distruzione degli esseri viventi) a quello della cronaca e dell’attualità, a quello della politica mondiale: già negli anni Sessanta egli avverte che il nazismo non è stato debellato con la guerra, ma che i suoi metodi sono stati ripresi da altri regimi; invita perciò i lettori a uno sguardo critico, diffidente delle menzogne mediatiche: «Attento abitante del pianeta / guardati! Dalle parole dei Grandi / frana di menzogne, lassù / balbettano, insegnano il vuoto / La privata, unica, voce / metti in salvo: domani sottratta / ti sarà, come a molti, oramai» (Europa cavalca un toro nero ➜ T4 OL). La cruda brutalità di alcune immagini della poesia di Porta non deve però far pensare a un nichilismo dell’autore: di formazione cattolica, lo scrittore manifesta al contrario un costante impegno etico. Come egli online stesso scrive in versi rivolti a Edoardo Sanguineti (Se anche T4 Antonio Porta Europa cavalca un toro nero sapessi e forse so): «do per scontato / il male e cerco il bene, I rapporti disperata-mente».

Antonio Porta

T5 A. Porta, Poesie (1956-1988), a c. di N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1988

Airone

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Il giardiniere contro il becchino Scritta nel 1980, la poesia è la quarta della sezione Airone, una serie di 18 testi, inclusa nella raccolta Il giardiniere contro il becchino (1988). Come suggerisce il titolo, il tema della raccolta è la lotta della vita contro la morte. Quello dell’airone è uno sguardo che contempla dall’alto la distruzione del pianeta, ma che testimonia anche il riemergere continuo della vita.

4. (5.8.80) quello che è rimasto, quello che resiste, là sotto, tu lo vedi, airone, sotto le montagne di macerie, 5 dentro i crateri delle bombe, La poesia a confronto con la storia 2 881


sotto le colline d’immondizia, lì dove resiste, continua, rinasce la semplice vita, ultima, dimenticata, dileggiata1 10 rimossa2, ridotta a poltiglia nella mente degli uomini, la semplice vita, il nascere e morire, rinascere3 e volare via, 15 aprirsi, amare, quello che è vivo, amore, sotto la semina4 dell’odio […] La metrica Versi liberi. 1 dileggiata: schernita, derisa. 2 rimossa: dimenticata, respinta nell’inconscio.

3 rinascere: sentire che anche dopo la morte dell’individuo, la vita continua. Nel testo n. 9 della stessa serie: «chi continuerà a parlarti / ci sarà non io / e il pensiero

non mi dà tristezza né gioia / ma quiete, soltanto, felicità del limite». 4 semina: perché l’odio fa nascere altro odio.

Analisi del testo Lo sguardo sul pianeta distrutto e il rinascere della vita Composta circa vent’anni dopo l’adesione alla Neoavanguardia, questa poesia rivela un mutamento nella poetica dell’autore, che ora esprime un punto di vista soggettivo, e adotta uno stile più chiaro e discorsivo. Anche il tema della contrapposizione fra male e bene, che prima risultava soltanto implicito nella poesia di Porta, in cui era sempre prevalsa la denuncia del male, ora è reso esplicito: all’azione distruttiva degli uomini sulla terra sono contrapposte le forze positive dell’amore e della vita. Lo sguardo dell’airone contempla dall’alto cumuli di macerie, esito catastrofico della storia, con le sue guerre, rovine, disastri ecologici; però, al di sotto, vede anche costantemente, quasi caparbiamente, rinascere la vita. Il poeta trasmette l’idea che, anche in assenza di prospettive ultraterrene, si possa avvertire la continuità della vita cosmica, a cui l’individuo, sentendosi parte nel tutto, è chiamato ad aprirsi con il suo amore per la vita, al di là dei limiti della propria individualità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della poesia in massimo tre righe. COMPRENSIONE 2. Quali accuse sono implicitamente rivolte agli uomini? Quale invito invece?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Il filosofo e saggista tedesco Walter Benjamin (1892-1940) esprime la sua visione della storia in un famoso passo (Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962) di commento a un quadro di Paul Klee (1879-1940) intitolato Angelus Novus. Dopo aver letto il passo, confrontalo con la poesia di Porta, mettendo in luce affinità e differenze.

5

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine

882 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


10

su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosí forte che egli non può piú chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

4. Prendendo spunto dal testo di Porta, rifletti sul senso dell’inutilità della guerra nella risoluzione dei conflitti e sullo strascico di violenza, di morte e di distruzione che essa porta dietro di sé.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

online T6 Tommaso Ottonieri

La guerra reale e la realtà virtuale Hotel jugoslavia (i.e. Nintendo War)

4 Lo sguardo sulla storia di Wisława Szymborska La biografia Nasce nel 1923 a Kórnik in Polonia. Cresce in una famiglia con tradizioni patriottiche e insurrezionali, nel 1935 viene iscritta al liceo delle Orsoline e comincia ad avvertire una crisi religiosa. Nel 1951 si iscrive al Partito Comunista, ma restituisce la tessera nel 1966. Nel 1957, grazie a una borsa di studio del Ministero della Cultura si trasferisce a Parigi. Dai primi anni Settanta inizia un’intensa attività di traduttrice dal francese. Nella sua vita si è dedicata alla poesia e alla saggistica. Viene insignita del Premio Nobel nel 1996. Muore a Cracovia nel 2012.

Wisława Szymborska.

Uno sguardo obliquo sulla storia Diverse poesie della grande poetessa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura del 1996, sono dedicate alla storia. Nella sua opera assume importanza centrale lo sguardo, il modo di vedere le cose, inconsueto e rivelatore. Attraverso la sua poesia, Wisława Szymborska «con penetrante acutezza amplia l’orizzonte conoscitivo, dilata la vista sulla realtà in genere e sull’uomo in particolare, con un ribaltamento dei luoghi comuni» (Marchesani). Tale ribaltamento di visuale tocca anche la storia: partendo da un dettaglio inavvertito, da un particolare apparentemente insignificante, la poetessa illumina gli eventi di una luce nuova, di una dimensione umana più ricca e profonda. Lei stessa insiste sull’importanza dei particolari apparentemente di poco conto, avvertendo in un’intervista: «Le persone si istupidiscono all’ingrosso, e rinsaviscono al dettaglio. Dunque amiamo e sosteniamo i casi al dettaglio». Poesie sulla storia del Novecento Un esempio dell’inconsueto sguardo adottato sulla storia dalla poetessa è La prima fotografia di Hitler, su un’immagine infantile del futuro capo nazista, un piccolo bambino del tutto simile agli altri, accolto con la stessa tenerezza e speranza in un radioso futuro, senza che alcun segno ne potesse annunciare il destino: una poesia che induce a riflettere sull’origine del male. Alla vicenda di Hitler, sempre osservata da un punto di vista singolare, si riferisce anche il Monologo di un cane coinvolto nella storia: la parabola di ascesa e caduta del La poesia a confronto con la storia 2 883


nazismo si riflette nella prospettiva straniata del cane «eletto», con «sangue di lupo nelle vene», ucciso per odio di un padrone «unico nel suo genere». È dedicata alla storia del Novecento anche Un parere in merito alla pornografia. Poesia dal titolo provocatorio, che in realtà riflette sulla libertà di opinione, è scritta nel 1983 in una Polonia soggetta a un regime filosovietico, che reprime la libertà: l’autrice mette in luce la forza contagiosa della libertà di pensiero, assumendo ironicamente la prospettiva di chi la teme. Un altro esempio del particolare sguardo della poetessa polacca è la poesia L’odio, in cui la storia è rappresentata come l’effetto del più «efficiente» dei sentimenti, in grado di nascere senza una vera ragione, di sprigionare una forza inesauribile, di trascinare le masse. Dedicata a una storia più recente è Fotografia dell’11 settembre, che ci fa rivivere l’attentato alle Torri Gemelle di Manhattan (del 2001).

Wisława Szymborska

T7

Fotografia dell’11 settembre Attimo

W. Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009

Tratta dalla raccolta Attimo (2002), la poesia fa riflettere il lettore sulla tragedia delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, fissate nelle foto nel momento in cui si gettavano dai grattacieli dopo lo schianto dei due aerei. A un’occhiata distratta, in proporzione agli enormi edifici, quelle persone sono quasi invisibili: lo sguardo della poesia restituisce loro la dimensione umana.

Sono saltati giù dai piani in fiamme – uno, due, ancora qualcuno sopra, sotto.

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La fotografia li ha fissati vivi, e ora li conserva sopra la terra verso la terra. Ognuno è ancora un tutto con il proprio viso e il sangue ben nascosto. C’è abbastanza tempo perché si scompiglino i capelli e dalle tasche cadano gli spiccioli, le chiavi. Restano ancora nella sfera dell’aria, nell’ambito di luoghi che si sono appena aperti. Solo due cose posso fare per loro – descrivere quel volo e non aggiungere l’ultima frase.

884 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Analisi del testo Il rispetto dello sguardo per le vittime Nelle fotografie delle Torri Gemelle in fiamme, se si osserva con attenzione, si intravedono dei puntini, di solito non notati da un distratto lettore di quotidiani. Sono le persone che si sono gettate nel vuoto nell’estremo tentativo di salvarsi dalle fiamme, una realtà terribile che si tende forse a rimuovere. La poesia intende ridare a quei puntini la loro realtà di persone, nella loro individualità, con volti uno diverso dall’altro e corpi ancora integri. Questo sguardo diverso sembra evocare una dimensione dilatata e sospesa del tempo; ricorrono infatti nella poesia termini che richiamano l’idea di una fissità temporale: «li ha fissati», «li conserva», «è ancora un tutto», «Restano ancora». Il lettore si sofferma, come prolungandolo, su quell’attimo in cui i capelli si scompigliano e le chiavi cadono dalle tasche, e non pensa più ai morti come a un numero, in modo freddo e generico, ma si raffigura realmente l’esperienza di quelle persone, ancora sospese tra la vita e la morte. Ma accanto alla partecipazione alla loro sofferenza e terrore, la scrittura chiede per loro anche rispetto: perciò, come un fotogramma, ferma l’immaginazione e la scrittura sull’ultimo momento in cui erano ancora vive, contrapponendo la compassione e la partecipazione umane alla curiosità e al sensazionalismo dei media.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa dice l’autrice di poter fare con la sua poesia per i morti nell’attentato alle Torri Gemelle? 2. Qual è, a tuo giudizio, il messaggio fondamentale del testo? ANALISI 3. Spiega il significato del verso 6.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Scrivi una poesia che testimoni una tragedia della storia del passato o del presente, seguendo il modello della Szymborska.

5 La storia e l’attualità nella poesia di Erri De Luca

Erri De Luca.

La biografia e le opere Nato a Napoli nel 1950, si occupa di narrativa, teatro, traduzione di poesie. A diciotto anni lascia la sua città e inizia l’impegno politico nella sinistra extra-parlamentare. Svolge le più varie mansioni in diverse città italiane e straniere: fattorino, fotografo di ritratti, manovale in cantiere, operaio alla Fiat. È un esperto scalatore. Oggi vive nella campagna romana, dove ha piantato e continua a piantare alberi. L’esordio come scrittore avviene nel 1989 con il romanzo Non ora, non qui (1989). Tra le sue opere si segnalano: Montedidio (2001); In nome della madre (2006); Il giorno prima della felicità (2009); Il peso della farfalla (2009); Le regole dello Shangai (2023) e Cercatori d’acqua (2023). Le poesie spesso affrontano il tema della storia, in chiave di denuncia, come in Fiumi di guerra (sul conflitto nella ex Jugoslavia) o in Preghiera di un soldato di notte, entrambe nella raccolta Opera sull’acqua e altre poesie. Intellettuale riservato ma sempre attivamente e coerentemente impegnato (è stato volontario in Tanzania e nella ex Jugoslavia come autista di convogli umanitari), De Luca cerca soprattutto di dare voce a drammi di vaste proporzioni storiche, sottovalutati o ignorati da chi non ne è vittima, come nel caso delle tragedie dei migranti. Dopo la poesia qui proposta, lo scrittore ha dedicato a questo tema anche la sezione omonima del poema Solo andata (2005), in cui ripercorre il viaggio di un gruppo di migranti clandestini, e in un coro finale dà loro la parola. La poesia a confronto con la storia 2 885


Erri De Luca

T8

Naufragi Opera sull’acqua e altre poesie

E. De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino 2002

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 2 nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

La poesia è dedicata a un dramma ricorrente nel nostro tempo, l’immigrazione dai paesi più poveri verso l’Italia, lungo il braccio di mare fra Nord Africa e Sicilia, e lungo il canale di Otranto, su imbarcazioni inadatte e stipate all’inverosimile, che troppe volte non raggiungono la meta, disseminando il mare di vittime della miseria.

Nei canali di Otranto e Sicilia migratori senz’ali, contadini di Africa e di oriente affogano nel cavo delle onde. Un viaggio su dieci s’impiglia sul fondo, 5 il pacco dei semi si sparge nel solco scavato dall’ancora e non dall’aratro. La terraferma Italia è terrachiusa. Li lasciamo annegare per negare.

La metrica Versi liberi.

Analisi del testo La terraferma è terrachiusa Il tema della poesia è il destino dei migranti, che – provenienti dai paesi poveri o da terre martoriate da guerre civili – cercano un destino migliore o di sfuggire alle persecuzioni. Un destino che troppo spesso è segnato dalle “tragedie del mare”, quando imbarcazioni inadeguate e stracariche di migranti si rovesciano nel Mediterraneo, trascinando sul fondo il loro carico umano. L’esito infausto della traversata è prefigurato dall’espressione migratori senz’ali, che indica come il viaggio sia destinato ad essere fallimentare. Anche l’immagine della terraferma, che suggerisce la speranza di un approdo, contrasta con il neologismo terrachiusa, simmetricamente collocato all’altra estremità del verso, a indicare l’Italia e il suo rifiuto all’accoglienza. L’indifferenza di fronte alla tragedia è sottolineata, nell’ultimo verso, dalla rima interna annegare: negare. Le tragedie dell’immigrazione non sempre trovano adeguato spazio nei quotidiani e nei telegiornali, e spesso la gente è distratta e poco coinvolta. Il testo, breve e quasi prosastico, attento ai dati referenziali (la percentuale di un «viaggio su dieci» con esito infausto), trova efficacia nell’evidenza delle immagini; le rime interne, come quella dell’ultimo verso, e quella dei vv. 1-2 (canali : ali), l’assonanza tra i vv. 4 e 5 (fondo : solco), la consonanza tra i vv. 3 e 4 (onde : fondo) conferiscono ai versi una scabra musicalità, mettendo in rilievo il tema fondamentale del testo, il contrasto fra le attese di un futuro migliore e il destino di morte a cui i migranti vanno incontro.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa significa che il solco è «scavato dall’ancora»? ANALISI 2. Il testo è strutturato sulla contrapposizione terra-mare. Indica le connotazioni assunte dai due elementi e collegale ai temi della poesia. 3. Quali sono a tuo giudizio le immagini che meglio sintetizzano il senso della poesia?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2 nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

SCRITTURA 4. Sono passati più di vent’anni da quando Erri De Luca ha scritto questa poesia e il viaggio dei migranti è sempre più segnato da un destino di morte. Rifletti su questa amara constatazione ed esponi le tue considerazioni sul tema dell’accoglienza in un testo di massimo 20 righe.

886 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


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La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione trasformazioni sociali riflesse nella poesia italiana 1 Le del secondo Novecento Il tema dell’alienazione tra la Neoavanguardia e la poesia attuale Uno dei temi che caratterizzano la poesia del Novecento è quello dell’alienazione, l’espressione con cui si indica il disagio esistenziale nella massificata realtà contemporanea. Dopo l’esaurirsi delle speranze post-resistenziali, dagli anni Cinquanta, la poesia impegnata sul piano civile e politico, ormai distante dall’ottimismo neorealistico, tende ad assumere un ruolo critico più che propositivo. L’obiettivo polemico è la società dei consumi e del boom economico, e l’alienazione che essa produce: un filone tematico che si sviluppa lungo tutto l’arco del secondo Novecento, e oltre, nell’opera di diversi poeti, da Pagliarani a Sanguineti, appartenenti alla Neoavanguardia, a Giovanni Giudici, al recente Valerio Magrelli, il quale, in una forma limpida e razionale che ha fatto parlare di un “illuminismo” dell’autore, mette ancor oggi in guardia il lettore sui lati oscuri e alienanti del mondo odierno.

del lavoro impiegatizio: Elio Pagliarani 2 L’alienazione e La ragazza Carla online

Video Il poemetto di Pagliarani nel 2015 è diventato un film per la regia di Alberto Saibene.

La biografia Nasce nel 1927 a Viserba, vicino a Rimini, da una famiglia operaia; si trasferisce diciottenne, nel 1945, a Milano, dove lavora come impiegato e traduttore dall’inglese in una società milanese di import-export (simile a quella descritta nel suo poemetto La ragazza Carla). In seguito si laurea in scienze politiche e diviene insegnante, esercitando anche l’attività di giornalista; nel 1960 si trasferisce a Roma. Esordisce come poeta nel 1954, con la raccolta Cronache e altre poesie; nel 1962 pubblica La ragazza Carla e altre poesie. Le opere successive mantengono, e anzi accentuano, il carattere sperimentale e il plurilinguismo del primo libro. Muore a Roma nel 2012. Il tema del “lavoro alienato” Per la novità del linguaggio, Pagliarani si pone come modello per la Neoavanguardia, di cui poi sarà uno degli esponenti, in particolare con il poemetto La ragazza Carla, pubblicato nel 1960 sul «Menabò» di Vittorini, e in volume nel 1962, il cui tema – sintetizza Walter Siti – è «il lavoro alienato». Pagliarani non si limita soltanto alla denuncia, ma tenta di indicare una via d’uscita all’alienazione contemporanea: «non è vero che non si possa far altro che contemplare la propria alienazione: saremo in gabbia, ma c’è anche chi si dibatte e prova a dar calci contro le sbarre», così in un convegno del 1965. La novità dell’opera: dalla lirica soggettiva allo “spaccato sociologico” Gli elementi più innovativi del poemetto sono la rinuncia al soggettivismo proprio della lirica e la tecnica del montaggio. L’autore non affronta il problema in prima persona (anch’egli era stato impiegato), ma crea un personaggio, la diciassettenne Carla, impiegata a Milano in una multinazionale, «una piccolissima borghese La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 887


con un piccolo destino in una grande città industriale e commerciale» (Giuliani), per mostrare come il contesto sociale e lavorativo influenzi una ragazza ingenua e inesperta, quasi modellandola a sua immagine. Le novità della struttura e del linguaggio Ma la vera novità del poemetto è il linguaggio. L’autore estende enormemente il lessico selettivo della poesia novecentesca, includendo nel poema il parlato e vari linguaggi settoriali, da quello dell’economia (quando un impiegato della ditta trasferisce valuta all’estero), a quello giuridico e politico, ai vari ambiti tecnici (ad esempio sono inserite pagine di un manuale di dattilografia, studiato da Carla): al plurilinguismo corrisponde un ampliamento della porzione di realtà rappresentata. Un’altra novità è il montaggio di diversi spezzoni di discorso. L’autore (che inizialmente aveva concepito l’opera come soggetto per un film) utilizza una tecnica affine al montaggio cinematografico, che risente anche dell’influsso delle avanguardie, dei futuristi italiani, di Majakovskij, degli anglosassoni Eliot e Pound, ma non è immemore del dialettale Tessa e del Pascoli di Italy. Così, come in un collage, sovrappone frammenti di discorsi di vari parlanti, che rappresentano punti di vista alternativi sulla realtà: dal capufficio che istruisce Carla sul suo ruolo di impiegata, ai familiari, al punto di vista della protagonista che emerge solo gradualmente, dopo un’iniziale passività. Il carattere discontinuo ed eterogeneo dei materiali (ai discorsi sono intercalati passi di libri e canzoni) è evidenziato dal frequente utilizzo di caratteri grafici diversi. Nel poemetto, data la scelta di impersonalità, si può anche riscontrare una ripresa delle tecniche del verismo, in particolare della verghiana “regressione” del narratore, quando ad esempio sono riportati i giudizi dell’ambiente di Carla, non coincidenti con quelli dell’autore («Da questo si capisce che la Carla / l’hanno cresciuta male» I, 6, 7-8).

online

Per approfondire Milano, città emblema della modernità

La morale del poemetto L’autore non rinuncia però del tutto a fornire una sua morale, e, alla conclusione dell’opera (in una sorta di coro manzoniano) – in un discorso distinto dal resto del poema per l’utilizzo dei tradizionali versi endecasillabi, del carattere tipografico corsivo e di un linguaggio alto e ricco di echi letterari – allarga la prospettiva dalla vicenda di Carla a una verità più generale, affermando che l’uomo può resistere alla storia (e quindi ai condizionamenti dell’ambiente) soltanto se è capace di amare: l’amore è dunque visto come atto di libertà che riscatta dall’alienazione contemporanea. Il romanzo di formazione di Carla La ragazza Carla assume anche i caratteri di un romanzo di formazione: come scrive l’autore, nella vicenda è messa alla prova la capacità della protagonista «di diventare adulta, di adeguarsi coscientemente alla vita, alla città che grava oggettiva sulle vicende individuali». Dapprima la ragazza «sensibile scontrosa impreparata» appare disorientata e passiva rispetto all’ambiente; poi il poemetto segue le tappe della sua crescita, dalla frequenza della scuola serale per stenodattilografi, all’impiego, alle vicissitudini nella ditta, alla maturazione personale, con gli alti e bassi della relazione con il collega Aldo. Con il tempo, Carla acquisisce la capacità di prendere iniziative, come quando trova il coraggio, prima per lei impensabile, di uscire da sola di domenica, esplorando la città in una passeggiata dai «boschi di cemento» della periferia, fino al centro ricco di vita e di luci. Il poemetto come rappresentazione storica e sociale La città di Milano, vista con gli occhi di Carla, è in effetti l’altra vera protagonista dell’opera di Pagliarani. L’autore la rappresenta alla vigilia del boom economico, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, emblema del tempo moderno: una città ricca, produttiva, e nello stesso tempo alienante.

888 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Elio Pagliarani

T9

Storia di un’impiegata milanese La ragazza Carla, II, 1-2

E. Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), a c. di A. Cortellessa, Garzanti, Milano 2006

I due brani (tratti dalla seconda delle tre parti di cui si compone il poemetto) delineano il rapporto di Carla con il suo nuovo ambiente di lavoro in una multinazionale «all’ombra del Duomo».

Carla Dondi fu Ambrogio1 di anni diciassette primo impiego stenodattilo2 all’ombra del Duomo

5

Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro sia svelta, sorrida e impari le lingue le lingue qui dentro le lingue oggigiorno capisce dove si trova3? TRANSOCEAN LIMITED4 qui tutto il mondo5... è certo che sarà orgogliosa.

Signorina, noi siamo abbonati alle Pulizie Generali, due volte la settimana, ma il Signor Praték6 è molto esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente – così nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino 15 sarà sua prima cura la mattina7. 10

UFFICIO A UFFICIO B UFFICIO C8.

Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno adesso che lavori ne hai diritto molto di più9. [...] II, 2 All’ombra del Duomo10, di un fianco del Duomo i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche La metrica Poemetto polimetro di versi e prosa ritmata; suddiviso in tre sezioni (di 9, 7, e 7 capitoli).

1 fu Ambrogio: figlia del defunto Ambrogio. Carla è quindi orfana di padre. La freddezza del linguaggio burocratico mette in luce il carattere alienante dell’ambiente di lavoro. 2 stenodattilo: da stenodattilografa. Avendo frequentato una scuola serale, come è narrato nella prima sezione del poemetto, Carla ha imparato a battere a macchina e stenografare, cioè utilizzare un sistema rapido di scrittura sotto dettatura. 3 Sollecitudine... dove si trova?: sta parlando uno dei superiori di Carla, che la accoglie nel suo primo giorno di lavoro, spiegandole come dovrà adattarsi al nuovo ambiente.

4 TRANSOCEAN LIMITED: è il nome della società internazionale presso cui Carla è stata assunta (Transocean Limited Import Export Company). 5 qui tutto il mondo: il discorso rivolto alla ragazza si interrompe nel mezzo di una frase. Poiché la focalizzazione è sul personaggio di Carla, si vuole evidentemente indicare come la ragazza abbia smesso di seguire quanto le viene detto, probabilmente perché ansiosa e incapace di comprendere concetti complessi (l’accenno al mondo nella frase interrotta fa pensare che il datore di lavoro stia parlando del carattere multinazionale della ditta, mentre Carla, al momento dell’assunzione, sarà più interessata a quanto la riguarda personalmente).

6 il Signor Praték: è il padrone della ditta. 7 sarà... mattina: pulire l’ufficio, come è sottinteso dall’indicazione.

8 UFFICIO A... C: scritte sulle porte degli uffici, viste da Carla.

9 Perché... di più: sono le parole di qualcuno dei familiari di Carla, probabilmente della madre. Il fatto che Carla non mangi evidenzia il suo stato d’animo nervoso e inquieto, mentre le parole dei familiari indicano come la concezione arida della realtà, per cui il valore di una persona dipende da quanto lavora e guadagna, sia divenuta un luogo comune. 10 All’ombra... Duomo: l’ufficio di Carla è nel centro di Milano, vicino a piazza Duomo.

La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 889


mobili11 sulle facciate del vecchio casermone d’angolo fra l’infelice corso Vittorio Emanuele12 e Camposanto13, 5 Santa Radegonda14, Odeon bar cinema e teatro un casermone sinistrato e cadente che sarà la Rinascente15 cento targhe d’ottone come quella TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY16 le nove di mattina al 3 febbraio. 10 La civiltà si è trasferita al nord come è nata nel sud, per via del clima, quante energie distilla alla mattina il tempo di febbraio, qui in città17? Carla spiuma18 i mobili Aldo Lavagnino19 coi codici20 traduce telegrammi night letters21 una signora bianca22 ha cominciato i calcoli sulla calcolatrice svedese. Sono momenti belli23: c’è silenzio e il ritmo d’un polmone24, se guardi dai cristalli25 20 quella gente che marcia al suo lavoro diritta interessata necessaria che ha tanto fiato caldo nella bocca quando dice buongiorno è questa che decide 25 e son dei loro26 non c’è altro da dire. E questo cielo contemporaneo27 in alto, tira su la schiena28, in alto ma non tanto questo cielo colore di lamiera 15

11 le polveri... mobili: si tratta di una delle insegne luminose intermittenti, sulle facciate di alcuni edifici (casermoni) in piazza Duomo, che pubblicizzano le polveri (negli anni Cinquanta-Sessanta fa, erano sciolte nell’acqua per darle l’effervescenza). 12 infelice... Emanuele: corso Vittorio Emanuele era stato molto danneggiato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. 13 Camposanto: la chiesa di santa Maria Assunta in Camposanto. 14 Santa Radegonda: via del centro di Milano. 15 la Rinascente: celebri grandi magazzini presso la Galleria Vittorio Emanuele. 16 TRANSOCEAN... COMPANY: cfr. nota 4. 17 La civiltà... città: è luogo comune che il freddo del nord favorisca l’attività (distilla “diffonde, instilla”). L’autore commenta:

«il curioso pensiero sulla civiltà che s’è trasferita al Nord, per via del freddo che forza la gente a muoversi e a lavorare, è un modo comico di esprimere la “morale locale”». 18 spiuma: spolvera (col piumino). Carla, secondo l’invito del capufficio, pulisce i locali. 19 Aldo Lavagnino: collega con cui in seguito Carla avrà una relazione. 20 codici: riferimenti interni, protocolli delle pratiche d’ufficio. 21 night letters: lettere e ordini arrivati di notte, con tariffa ridotta. 22 signora bianca: l’indeterminatezza della figura deriva dallo sguardo ingenuo e stupito di Carla, adottato dall’autore. Probabilmente la collega di lavoro veste un camice bianco o una divisa da lavoro bianca.

890 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

23 Sono... belli: la prospettiva è ancora quella di Carla, che trova piacevole la tranquillità del mattino in ufficio. 24 d’un polmone: della respirazione. Suggerisce la vitalità della metropoli milanese. 25 dai cristalli: dai vetri, dalle finestre dell’edificio. 26 son dei loro: con orgoglio, Carla si sente parte della categoria degli impiegati. 27 questo cielo contemporaneo: alla prospettiva di Carla subentra quella del narratore, che inscrive la vicenda dell’impiegata nel contesto storico più vasto della civiltà industriale. 28 in alto... schiena: qualcuno raccomanda a Carla di stare diritta mentre batte a macchina; può essere un collega d’ufficio, o il ricordo dell’insegnante alla scuola di stenodattilografia frequentata dalla ragazza.


30

sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa29 sopra tutti i tranvieri ai capolinea

non prolunga all’infinito

i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli coperti di lamiera? È nostro questo cielo d’acciaio che non finge Eden e non concede smarrimenti30, è nostro ed è morale il cielo31 che non promette scampo dalla terra, proprio perché sulla terra non c’è 40 scampo da noi nella vita. 35

29 a Sesto... Bovisa: Sesto San Giovanni e

30 È nostro... smarrimenti: la prospettiva

Cinisello sono comuni dell’hinterland milanese; la Bovisa è un quartiere periferico della città.

qui è quella dell’autore, che esprime il suo punto di vista ateo e materialista. Nel cielo grigio di Milano l’autore vede rappresentata la condizione moderna, priva della spe-

ranza in una salvezza ultraterrena («non finge / Eden»), dedita al lavoro e alle cose presenti («non concede smarrimenti»). 31 è morale... cielo: il cielo grigio è morale perché non crea false illusioni.

Analisi del testo Il tema dell’alienazione e la logica produttiva Già all’inizio del passo è messa in risalto la spersonalizzazione burocratica con cui, in una sorta di curriculum («Carla Dondi fu Ambrogio»), è descritta la protagonista, destinata a far parte della folla anonima degli impiegati. Sono poi riportati, proposti direttamente, senza commento, i discorsi che durante il primo giorno di lavoro le vengono rivolti, con ogni probabilità dal capufficio, che la incoraggia a una totale dedizione al suo impiego, esortandola a essere orgogliosa di far parte di una grande multinazionale; ma che, al contempo, ribadisce la condizione subordinata della ragazza, come giovane e come donna, invitandola, per amore del lavoro, a spolverare i locali dell’ufficio, un compito che, come impiegata, non le spetterebbe; tale mancanza di rispetto verso la giovane si manifesterà in forma ancora più grave in una parte successiva del poemetto, quando il proprietario della ditta, il signor Praték, le rivolgerà pesanti avances. Ma anche le parole apparentemente innocue e banali dei familiari sono ispirate alla stessa logica produttiva: affermando che Carla vale di più e ha maggiori diritti da quando lavora, manifestano infatti una mentalità produttivistica, povera di valori umani, ma purtroppo attuale.

Le novità dello stile “cinematografico” Come si è accennato, Pagliarani in un primo tempo aveva pensato alla storia di Carla come un soggetto cinematografico, e la costruisce come un film. Dal cinema l’autore riprende la tecnica del montaggio di diversi spezzoni di discorso, sottolineata dall’interposizione di spazi bianchi e da rientri a capo, e talvolta dall’utilizzo di differenti caratteri tipografici: una libertà grafica che riprende quella delle avanguardie del primo Novecento, e in particolare del futurismo; ne risulta un discorso discontinuo, caratterizzato da numerose ellissi, che non esclude tuttavia una progressione narrativa che fa percepire la graduale maturazione del personaggio. Nel primo dei due brani, infatti, Carla appare disorientata e a disagio nel nuovo ambiente di lavoro, come l’autore riesce a far capire attraverso la registrazione in presa diretta delle sue sensazioni, che, per l’assenza quasi completa della punteggiatura e le numerose ellissi, suggeriscono l’ansia e la confusione di chi non domina razionalmente gli eventi; il disorientamento della ragazza è ulteriormente sottolineato dall’improvvisa interruzione del discorso del capo (v. 8) nella prospettiva focalizzata della ragazza, che evidentemente non riesce più a seguirlo; Carla appare poi del tutto passiva quando registra soltanto le immagini visive delle porte dei tre uffici ABC. Nel passo successivo, anche qui senza che il narratore intervenga a esplicitarlo, Carla appare cambiata, ormai inserita nell’ambiente di lavoro e orgogliosa di farne parte, mostrando come le parole del superiore al suo ingresso in ufficio abbiano fatto presa su di lei.

La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 891


Milano, città “morale”, che non concede illusioni Due sono le prospettive adottate sulla città. In un primo momento il narratore adotta il punto di vista, visivo e psicologico, della protagonista del poemetto, che da una finestra dell’ufficio guarda dall’alto piazza Duomo, con gli impiegati che marciano veloci verso gli uffici, sentendosi fiera di essere ormai una di loro. Alla prospettiva di Carla subentra poi quella più ampia del narratore, che si allarga all’intera città, dai grattacieli del centro ai capannoni industriali della periferia, di lì scoprendo il «cielo contemporaneo» della metropoli, grigio come le lamiere, simbolo di una visione della realtà priva di consolazioni metafisiche (il cielo «non finge / Eden»), in cui l’unica vita data è quella sulla terra. In evidente contrasto con l’immagine manzoniana del “cielo di Lombardia” («così bello quand’è bello, così splendido, così in pace»), in cui si presagisce una consolazione metafisica, quello grigio della città contemporanea, pesante come ferro, privo di spiragli di luce, dà luogo a una prospettiva della realtà che l’autore definisce morale perché priva di illusioni consolatorie.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la funzione dell’incipit? 2. Emerge, a tuo giudizio, un’implicita critica del mondo rappresentato? TECNICA NARRATIVA 3. Indica i punti del testo in cui la focalizzazione è quella del personaggio e quelli in cui invece appartiene al narratore onnisciente. ANALISI 4. In quali passi del testo viene evidenziato il tema dell’alienazione? Rintraccia le espressioni che meglio esprimono il disagio di Carla e degli altri lavoratori. STILE 5. Caratteristico dello stile del poemetto è il plurilinguismo, l’intrecciarsi di discorsi differenti. Individua le diverse voci, i diversi linguaggi e punti di vista sulla realtà che riesci a distinguere.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Leggi la poesia della polacca Wisława Szymborska, Scrivere il curriculum, nella raccolta Gente sul ponte del 1986, in cui si evidenzia lo stesso tipo di alienazione della ragazza Carla. In quali passi della poesia ti sembra che più efficacemente si mostri come l’immagine di una persona richiesta per un curriculum lavorativo sia lontanissima dalla sua reale dimensione umana? Rispondi esponendo le tue considerazioni in un testo di massimo 15 righe.

Che cos’è necessario? È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. 5

A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve. È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e malcerti ricordi in date fisse.

10

Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione.

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Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi. Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni.

20

25

Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio in vista. È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.

3 Sanguineti: l’alienazione del linguaggio La biografia Nasce a Genova nel 1930; quando è ancora bambino, la famiglia si trasferisce a Torino, dove completa gli studi, laureandosi in lettere. Dopo l’esordio del 1956 con Laborintus, è tra i fondatori della Neoavanguardia e del Gruppo 63; nel frattempo intraprende la carriera di professore universitario, esercitata per la maggior parte del tempo all’Università di Genova, dove si stabilisce. Intellettuale eclettico e innovatore, e al contempo lucido e razionale, affianca ai testi poetici importanti saggi critici e collabora con esponenti di varie avanguardie artistiche, tra i quali Berio per la musica, Baj per la pittura, Ronconi per il teatro, con cui allestisce una fortunata innovativa messa in scena dell’Orlando furioso. Tra il 1979 e il 1983 è eletto in Parlamento, come deputato indipendente nelle liste del Pci. Muore a Genova nel 2010.

Luca Ronconi con Mariangela Melato.

Il linguaggio come fonte di alienazione Il rapporto tra il tema dell’alienazione e il linguaggio caratterizza tutta la produzione letteraria di Sanguineti. Fin dall’esordio, con il poemetto Laborintus, che insieme a La ragazza Carla di Pagliarani anticipa il movimento della Neoavanguardia, lo scrittore sovverte i canoni della poesia italiana del tempo, adottando la tecnica del montaggio di frammenti eterogenei, desunta in particolare dal poeta statunitense Ezra Pound (1885-1972). Idea centrale di Sanguineti – e poi uno dei princìpi fondamentali della Neoavanguardia – è che il linguaggio non possa mai essere neutrale, ma veicoli sempre un’ideologia, anche se per lo più sottintesa e, quindi, che abbia sempre un potere condizionante. Se il linguaggio deriva da una società alienata, anche il soggetto che costruisce la sua identità attraverso la mediazione del linguaggio, sarà inevitabilmente affetto dalla medesima alienazione. Per Sanguineti perciò viene meno ogni possibilità di “poesia pura”, espressione dell’individualità di un soggetto immune dai condizionamenti del contesto storico e sociale.

La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 893


Laborintus: la «babele plurilinguistica» Lo scrittore propone perciò in Laborintus (1956), la sua prima opera, una poesia che neutralizzi gli effetti dell’alienazione mettendoli allo scoperto. Come rivela il titolo, Laborintus (che da una parte allude al labirinto, e quindi alla difficoltà di trovare una via d’uscita dall’alienazione contemporanea; dall’altra, come afferma l’autore, si rifà al latino labor intus, che significa “lavoro all’interno”, per indicare la costruzione faticosa del poema) è una vera e propria «babele plurilinguistica» (V. Guarracino), ardua da comprendere non solo per il comune lettore, costituita dall’accostamento di elementi lessicali disparati, provenienti dalle più diverse lingue e tradizioni culturali; tratti dal greco, dal latino, dalle lingue moderne, dall’alchimia e dalla psicoanalisi junghiana: frammenti dissonanti che non possono essere ricondotti a unità. Ed è ciò che Sanguineti vuole mostrare: la crisi della cultura occidentale, con la sua stratificazione di componenti contraddittorie, che producono un io dissociato e schizofrenico. Questo viene mostrato attraverso la creazione di due personaggi fondati su archetipi junghiani, uno maschile, Laszo (che rappresenterebbe l’individuazione del soggetto), l’altro femminile, Ellie (che incarna la fusione degli opposti, l’inconscio, «la palude» in cui tutte le cose nascono e muoiono): l’impossibilità della loro congiunzione allude alla situazione di «esaurimento storico» dell’individuo moderno, incapace di mediare tra conscio e inconscio e di costruire una soggettività non alienata. La via d’uscita dall’alienazione Anche Sanguineti, come Pagliarani, intende però trovare una via d’uscita dall’alienazione, come spiega in un saggio del 1961, contenuto nell’antologia I Novissimi, in cui afferma di aver affrontato nella sua prima opera la «Palus Putredinis [la palude della putredine], precisamente, dell’anarchismo e dell’alienazione, con la speranza, [...] di uscirne poi veramente, attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle». Già nelle raccolte successive a Laborintus, Erotopaegnia e Purgatorio de l’Inferno (poi pubblicate, insieme a Laborintus, nel 1964, nel volume complessivo Triperuno), il poeta mostra infatti l’intento di uscire dalla “selva dantesca” di Laborintus. La sua poesia diviene più chiara e comunicativa, anche se mantiene elementi avanguardistici come l’adozione di versi irregolarmente distribuiti sulla pagina, e l’uso non tradizionale della punteggiatura: i testi infatti sono aperti dalla minuscola e chiusi dai due punti, a indicarne i reciproci legami; ma la struttura logica del discorso è ora ripristinata e sono utilizzati elementi retorici, come l’anafora, per imprimere ai versi una cadenza e un ritmo che li distingua dalla semplice prosa. Dal punto di vista tematico in queste raccolte acquistano rilievo le «cellule di resistenza», ossia le vie d’uscita dall’alienazione, che lo scrittore individua nello spirito critico, nell’impegno civile e politico, e nell’amore per la famiglia. Ma anche questi elementi sono riportati a una dimensione concreta, che rispecchia la visione materialistica dell’autore, e che impedisca mistificazioni ideologiche; così, ad esempio (in Erotopaegnia 4) Sanguineti parla della gravidanza e della nascita di un bambino presentandoli nella concreta realtà fisica; oppure, in Corollario, dedica una originale dichiarazione d’amore alla moglie, senza effusioni sentimentali, ma spiegando che, se dovesse rivivere, non cambierebbe nulla della sua vita, pur non esente da errori, per non correre il rischio di non incontrare la donna che lo ha reso felice.

online T10 L’alienazione consumistica T10a Edoardo Sanguineti

Questo è il gatto con gli stivali Purgatorio de l’Inferno

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Edoardo Sanguineti

T10b

LEGGERE LE EMOZIONI

Piangi piangi Purgatorio de l’Inferno

E. Sanguineti, Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964

AUDIOLETTURA

Anche in questo testo, incentrato sulla società attuale, in cui tutto è mercificato, il poeta si rivolge a uno dei suoi figli, per insegnargli a comprendere il mondo in cui vive.

piangi piangi, che1 ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno con tredici righe, un’azione della Montecatini2: piangi piangi, che ti compero 5 una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente, un robot, un catechismo con illustrazioni a colori, una carta geografica con bandierine vittoriose3: piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio4 di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba 10 di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella bomba a mano: piangi piangi, che ti compero tanti francobolli dell’Algeria francese5, tanti succhi di frutta, tante teste di legno, tante teste di moro, tante teste di morto6: 15 oh ridi ridi, che ti compero un fratellino7: che cosí tu lo chiami per nome: che cosí tu lo chiami Michele8:

La metrica Versi liberi. 1 che: è il primo di una serie di che polivalenti (con valore consecutivo e finale insieme), d’uso nel parlato. 2 un’azione della Montecatini: una quota del capitale societario della Montecatini (poi Montedison), un’importante industria chimica italiana.

3 vittoriose: che contrassegnano i territo-

6 tante teste... di morto: allusione ri-

ri occupati dopo vittorie in guerra. 4 capidoglio: il capidoglio (o capodoglio) è un grande mammifero dell’ordine dei cetacei, simile a una balena. 5 Algeria francese: l’Algeria era stata occupata dai francesi, contro cui gli algerini condussero una guerra d’indipendenza tra il 1954 e il 1962.

spettivamente alle teste dei burattini (e in senso figurato degli stupidi) e dei bersagli girevoli che i cavalieri nei tornei dovevano colpire con la lancia. 7 ti compero un fratellino: uso popolare del verbo comprare in senso metaforico nel senso di “avere un figlio”. 8 Michele: è il nome del terzo figlio del poeta.

Analisi del testo Piangi piangi: i disvalori della società consumistica Piangi piangi presenta varie affinità con il testo precedente: anch’esso è un discorso rivolto a un figlio, con una critica alla società consumistica e ai suoi falsi valori, e anch’esso, dal punto di vista stilistico, assume un ritmo cadenzato e cantilenante, simile a una ninna nanna, per l’anafora di «piangi piangi, che ti compero». Anche in questo caso a una denuncia generica e astratta il poeta preferisce il riferimento a cose concrete, a oggetti che rappresentano gli aspetti alienanti della modernità consumistica: la natura resa estranea all’uomo (la frutta è presente solo come succo di frutta; l’animale, il capidoglio, è di plastica), la meccanizzazione (il robot), il consumismo (le merci sono rigorosamente di marca, come il frigorifero Bosch in miniatura). Il consumismo coinvolge anche gli oggetti attinenti alla religione, come il catechismo con illustrazioni a colori. Altri beni, dal salvadanaio alle azioni della Montecatini (dono ben poco adatto a un bambino...), simboleggiano la corsa all’arricchimento; altri si riferiscono alla guerra, come a voler incoraggiare il bambino all’aggressività e allo spirito bellico: la spada giocattolo, le bandierine dei territori conquistati e, con un effetto di climax, le «teste di morto»; anche i francobolli dell’Algeria francese alludono alla guerra e a un dominio coloniale.

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La struttura e lo stile del testo Dal punto di vista stilistico, spicca l’aggettivazione, volutamente banale e standardizzata, usata in modo ironico, per indicare come il linguaggio possa tendere ad annullare le facoltà critiche dei lettori e la capacità di distinguere il bene e il male; così, provocatoriamente, la bomba a mano è definita bella («una bella scheggia di una bella / bomba a mano»), con l’aggettivo evidenziato dal forte enjambement. Il messaggio della poesia è sottolineato dalla divisione in due parti di disuguale lunghezza: nella prima l’accumulo degli oggetti – che non appagano, non danno gioia – non può placare il pianto del bambino. La seconda parte, più breve, si distingue dall’altra già nell’apertura: l’interiezione oh, che suggerisce l’emozione gioiosa del bambino (rafforzata da ridi ridi), precede la frase ti compero, il Leitmotiv del testo; nel verso seguente poi compare per la prima volta il soggetto personale tu, sottolineato dalla ripetizione, a evidenziare come il bambino solo ora sia considerato un vero soggetto, chiamato non più a consumare, ma a essere libero e ad amare, ponendosi in relazione con un altro essere umano, il fratellino: l’unico, tra le cose nominate, a offrirgli una gioia vera, non l’effimera e vuota soddisfazione del consumismo sfrenato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dei due testi (8 righe complessive). ANALISI 2. In ➜T10b le cose si contrappongono agli esseri umani, la morte alla vita, la violenza della guerra all’amore. Quali oggetti denunciano i disvalori del mondo consumistico, e per quali ragioni? STILE 3. Rintraccia il passo in cui è più evidente il ricorso all’ironia e cerca di spiegarne la funzione.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Sanguineti denuncia i mali della società consumistica che induce a identificare la felicità con il possesso di beni materiali. Tu come vivi le lusinghe della società dei consumi? Sei immune dalle sue attrattive e dal conformismo che essa produce? Scrivi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

4 Giudici: l’alienazione della mentalità borghese La biografia Nasce a Le Grazie (La Spezia) nel 1924 e cresce in una situazione familiare difficile e complessa (perde infatti la madre a soli tre anni; il padre, impiegato, si risposa e ha altri cinque figli). La famiglia si trasferisce prima a La Spezia, poi, nel 1933, a Roma, dove Giudici completa i suoi studi di letteratura; poi si impiega presso l’Olivetti, lavorando soprattutto in ambito pubblicitario ed editoriale. Esordisce con la prima raccolta poetica, La vita in versi, nel 1965; nel 1969 esce un’altra sua importante raccolta, Autologia. Nel frattempo scrive articoli e saggi, traduce opere letterarie da diverse lingue, comprese il russo e il cèco. Dagli anni Novanta vive per lo più nella sua casa presso Lerici. Muore nel 2011 nella sua città natale. Le due specie di alienazione Giovanni Giudici è un altro autore che pone il tema dell’alienazione al centro della sua opera. Egli stesso afferma: «lo scrivere versi è una conseguenza dell’alienazione, anzi, per essere precisi, delle due fondamentali specie dell’alienazione: quella connaturata all’uomo (conseguenza, secondo la religione cattolica, della caduta originale) e quella che le strutture sociali gli hanno portato attraverso la storia (così ben individuata da Hegel e definita da Marx)».

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A questa condizione Giudici non solo dedica una sua poesia (➜ T11a ), ma nei suoi versi rappresenta spesso la figura dell’anonimo impiegato, con le sue «impiegatizie frustrazioni», i suoi tic, le sue piccole nevrosi. E anche analizzando la propria storia personale Giudici scopre che la condizione di alienazione mette le sue radici già nell’infanzia, preparando l’individuo a inserirsi come docile ingranaggio nella società borghese. Una poesia che nasce da un’autoanalisi sincera L’autore riconosce infatti, in alcune poesie ispirate alla propria vicenda personale, che i pregiudizi conformistici, assimilati dall’ambiente piccolo-borghese in cui è cresciuto, hanno reso difficoltoso il suo rapporto con il padre, un uomo fuori dagli schemi, insolvente debitore e insofferente dei modelli di comportamento della classe media («dio re patria e duce calpestante»), a cui il figlio lo avrebbe voluto vedere ligio, salvo poi vergognarsi in seguito, da adulto, di tale infantile pretesa. Il valore della poesia di Giudici, riconosciuto fra i classici del Novecento, sta proprio anche nell’impietosa sincerità con cui si confronta con i propri errori. Il confronto tra ideale e reale e il “sublime” prosastico Per la sua poesia che scava così a fondo nella coscienza individuale, Giudici adotta uno stile prosastico e apparentemente dimesso, solo superficialmente paragonabile a quello dei crepuscolari perché mira non all’abbassamento ironico delle realtà descritte, ma all’innalzamento attraverso la profondità dello scavo interiore: «Mirare al sublime è mirare alla conquista integrale di noi stessi», scrive Giudici in un appunto del 1960. Il poeta si serve infatti con maestria dei mezzi più semplici, riuscendo a colpire il cuore e l’intelligenza dei lettori e ad armonizzare ogni elemento testuale, anche quelli prosastici e colloquiali, cosicché i suoi versi risultano tra «i più melodici, i più abilmente dissonanti della poesia italiana recente» (Berardinelli).

E. Munch, Sera sul viale Karl Johan, olio su tela, 1892 (Museo di Arte, Bergen).

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T11

Uno sguardo critico sulla società borghese Le tre poesie di Giudici antologizzate sono accomunate dallo sguardo critico sulla società borghese.

Giovanni Giudici

T11a

Mi chiedi cosa vuol dire La vita in versi

G. Giudici, I versi della vita, a c. di Rodolfo Zucco, Mondadori, Milano 2000

La prima poesia affronta il tema dell’alienazione, mettendo in luce la frustrazione del lavoro operaio o impiegatizio.

5

10

Mi chiedi cosa vuol dire la parola alienazione: da quando nasci è morire per vivere in un padrone

Puoi resistere, ma un giorno è un secolo a consumarti: 15 ciò che dài non fa ritorno al te stesso da cui parte.

che ti vende – è consegnare ciò che porti – forza, amore, odio intero – per trovare sesso, vino, crepacuore.

È un’altra vita aspettare ma un altro tempo non c’è: il tempo che sei scompare, 20 ciò che resta non sei te.

Vuol dire fuori di te già essere mentre credi in te abitare perché ti scalza il vento a cui cedi.

La metrica Strofe di ottonari, con rima alternata (con qualche irregolarità, come ai vv. 14-16).

Analisi del testo Gli effetti dell’alienazione La poesia è strutturata come una risposta a una domanda sull’alienazione di un interlocutore (non meglio identificato, probabilmente un giovane, o comunque una persona inesperta, come fanno supporre le parole dell’io poetico); assume perciò un tono colloquiale, sottolineato da forme proprie del parlato, come te (per “tu”) al v. 20. I versi brevi, legati da rime alternate, contribuiscono all’icastica linearità del discorso, incentrato sugli effetti sulla vita quotidiana di un’organizzazione del lavoro che priva l’individuo di autonomia e di libertà creativa. Il testo prende in esame diversi aspetti dell’alienazione: prima di tutto (vv. 1-8) il fatto che che, lavorando alle dipendenze di un padrone, l’operaio (o impiegato) gli consegna, con il proprio lavoro, la propria vita, ricevendo in cambio un’esistenza svilita, in cui i sentimenti vitali dell’essere umano (forza, amore, odio) si traducono nei loro corrispettivi degradati («sesso, vino, crepacuore»); di conseguenza (vv. 9-12) l’uomo non è più autenticamente se stesso, ma, come la metafora dei vv. 11-12 sottolinea, è piegato ai condizionamenti esercitati su di lui, come una pianta scalzata dalle proprie radici da un vento impetuoso. Nella strofa successiva (vv. 13-16) si dice che il lavoratore alienato, nella società industriale, subisce una “sottrazione di sé”, perché consegna ad altri il proprio lavoro parcellizzato: rinuncia così alla prerogativa dell’uomo faber, tipica dell’artigiano, che può esprimere la propria identità e creatività rispecchiandosi nell’opera compiuta. L’ultima strofa (vv. 17-20) affronta il tema del tempo: l’uomo, operaio o impiegato, “vende” il proprio tempo di lavoro, alienando, cioè cedendo ad altri, gran parte della propria vita, rinunciando perciò a una parte di se stesso.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto della lirica; individua parole chiave e tema centrale. ANALISI 2. Quali sono, secondo l’autore, i modi in cui l’individuo tenta di sottrarsi alla sua condizione alienata? Perché appaiono vani? LESSICO 3. In ogni strofa ricorrono degli infiniti verbali. Quali aspetti dell’alienazione mettono in luce ciascuno?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto questa poesia con altri componimenti che affrontano il tema dell’alienazione, della frustrazione del lavoro operaio o impiegatizio, evidenziando possibili analogie e differenze.

online T11b Giovanni Giudici

Cambiare ditta La vita in versi

Giovanni Giudici

T11c

LEGGERE LE EMOZIONI

Piazza Saint-Bon La vita in versi

Mentre la seconda poesia (Cambiare ditta) delinea il personaggio di un anonimo e insoddisfatto impiegato, Piazza Saint-Bon (una piazza di La Spezia, vicina alla casa di famiglia del poeta) pone la questione sul piano personale, attraverso uno scavo autobiografico in cui l’autore riconosce anche nella propria formazione i disvalori di un mondo piegato alle leggi dell’economia e a un falso perbenismo.

Sbràita decoro il creditore, infierisce sull’insolvente, gli minaccia galera, fa adunare la gente del passaggio serale: il giusto chiede giustizia al procuratore del re1. 5

10

Gli è contro solo il bambino che trema di paura e vergogna, ma che finge di appartenere ad altri – non si stringe al genitore maltrattato. Il figlio del debitore – io sono stato. Per mio padre pregavo al mio Dio una preghiera2 dal senso strano3: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo.

La metrica Versi liberi di varia misura, ripartiti in quattro strofe, ciascuna di quattro versi, salvo la terza, di due.

1 al procuratore del re: in tribunale (al tempo dell’infanzia di Giudici, lo stato italiano era monarchico).

2 una preghiera: il Padre nostro. 3 dal senso strano: perché in contraddizione con quanto stava avvenendo.

La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 899


Analisi del testo La piazza, luogo di umiliazione e vergogna Così l’autore ricorda l’episodio autobiografico che fa da spunto alla lirica: «quando abitavamo, per poco più di un anno, a La Spezia, io avevo sette anni, eravamo minacciati di sfratto perché mio padre non pagava l’affitto, e l’esattoria comunale minacciava il pignoramento dei mobili e la loro pubblica vendita, per mancato pagamento delle imposte. Io mi sentivo profondamente umiliato». La poesia è ambientata nella piazza di una cittadina, in cui tutti si conoscono, luogo emblematico della dimensione sociale, e perciò dell’umiliazione pubblica e della vergogna: essere accusato in piazza come debitore insolvente mortifica il padre agli occhi del figlio. Nella poesia si alternano diversi punti di vista.

L’alternanza delle focalizzazioni La focalizzazione della prima strofa è esterna, come se la scena fosse osservata da uno spettatore. Domina la figura del creditore, la cui aggressività, in contrasto con il decoro da lui stesso invocato, è posta in rilievo dal verbo incipitario Sbràita, e ribadita da altri verbi che, con un effetto di crescendo, mettono in luce il suo accanimento impietoso: infierisce, minaccia, fa adunare. Nella seconda strofa si fa strada il punto di vista del bambino, figlio del debitore, che prova vergogna e paura (sia per l’aggressività del creditore, sia perché questi aveva minacciato la galera e il processo). Emerge però anche l’ammissione dolorosa del proprio tradimento: per la vergogna, il ragazzo si tiene lontano dal genitore maltrattato, come a nascondere di esserne il figlio. Un tradimento che richiama l’archetipo evangelico dell’apostolo Pietro, che rinnega Gesù.

Dalla confessione individuale ai falsi valori della società Nel distico successivo l’autore propone un altro significativo mutamento del punto di vista, passando dalla terza persona (il bambino del v. 5) alla prima (io al v. 9), e poi dalla narrazione alla confessione. Confessione posta in evidenza sia dalla posizione del pronome, alla fine del verso, sia dal trattino che lo precede e lo isola, sia dall’enjambement che lo stacca dal verbo: elementi che mettono in luce il suo senso di colpa nell’ammettere la propria viltà, per aver preferito, almeno nelle intenzioni, mettersi dalla parte del più forte, rinnegando il padre, la vittima. Ma la confessione di viltà del protagonista non può essere disgiunta da un punto di vista più ampio, da «un giudizio implicito ma inconfutabile, sul mondo» (Berardinelli). Cresciuto nei valori della religione cattolica (tra l’altro aveva studiato da ragazzo in un collegio religioso), il poeta verifica quanto siano lontani dai valori in realtà dominanti nella società borghese. L’atteggiamento impietoso e vendicativo del creditore, che richiama l’attenzione curiosa (e forse anche l’approvazione) dei passanti, fa vacillare le sue certezze, perché in contrasto con i principi a cui era stato educato, e fa riflettere su una società che a parole professa i valori cristiani, ma nei fatti li tradisce sistematicamente.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. COMPRENSIONE 2. Di quali colpe si accusa il protagonista? Quali sono le sue attenuanti? 3. Che cosa significa decoro per il creditore? Si può condividere il suo punto di vista? ANALISI 4. Quale effetto ottiene l’autore non rivelando subito di essere stato il bambino descritto nella scena? Come fa emergere con gradualità la rivelazione?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. La poesia tocca i temi dell’umiliazione e della vergogna. Come ti comporteresti in una situazione simile a quella in cui si era trovato Giovanni Giudici bambino? Come vivi il giudizio degli altri?

900 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


5 L’odierna alienazione del mondo mass-mediatico: Valerio Magrelli La biografia È nato nel 1957 a Roma, dove ha frequentato un liceo sperimentale in cui si dedicava particolare attenzione alle avanguardie artistiche, letterarie e cinematografiche; ha completato gli studi alla Sorbona (letteratura e cinema) e a Roma (filosofia); attualmente insegna letteratura francese all’Università degli Studi Roma tre. Esordisce come poeta nel 1980 con la raccolta Ora serrata retinae. È autore di saggi e opere di narrativa; collabora con riviste letterarie e con importanti quotidiani. È anche apparso in un episodio del film di Nanni Moretti Caro diario (1993), dove interpreta la parte di un medico. La poesia di Magrelli come approccio critico alla realtà contemporanea Valerio Magrelli è il poeta contemporaneo che, sulla linea di Pagliarani, Sanguineti, Giudici, getta uno sguardo più acutamente critico sulla società del nostro tempo, mettendo in luce l’alienazione della attuale società. In un suo articolo del 2010, Magrelli espone la sua idea di una poesia critica rispetto alla società: «la poesia esige un approccio reattivo, capace di sottrarre la parola alla mercificazione quotidiana, ed è appunto questo a rendere la sua lettura così complessa, impegnativa e impegnata, salutare, “etica”… La poesia rappresenta la negazione dell’oggetto di consumo». Uno stile per il nuovo millennio Ciò che distingue Magrelli dai poeti della Neo­ avanguardia (a cui può essere accostato per i temi) è lo stile, rispondente a esigenze contemporanee: uno stile che si confà all’era del web, che, invaso da una sovrabbondante quantità di messaggi, esige chiarezza e insieme riconoscibilità del discorso poetico. Magrelli adotta uno stile preciso ed essenziale, ma poetico per la densità semantica, la ricchezza e originalità delle figure retoriche, l’attenzione all’aspetto fonico: uno stile la cui modernità non sta nella sovversione dei canoni (come altri poeti degli ultimi decenni torna spesso alla metrica tradizionale e alla rima), ma in un’inedita essenzialità. A ben guardare, a lui, forse più che a ogni altro poeta italiano odierno, si possono attribuire le caratteristiche che Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, indicava come essenziali per la letteratura del Duemila: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Leggerezza, rapidità, esattezza La poesia di Magrelli si caratterizza per la sua “leggerezza” e “rapidità”: è infatti essenziale, concisa, spesso di brevità epigrammatica. Basti ad esempio citare, nelle Didascalie per la lettura di un giornale (1999), il folgorante distico intitolato Piccolo schermo, in cui, parafrasando il celeberrimo detto kantiano «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione [...]: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me», lo scrittore ironizza sullo scadimento della cultura e dell’etica contemporanea nell’era televisiva: «La legge morale dentro di me, / l’antenna parabolica sopra di me». Per quanto riguarda l’esattezza, la lingua «netta e precisa» (E. Testa) di Magrelli deriva da un costante sforzo di attenzione, dello sguardo e del pensiero, che lo scrittore descrive con l’efficace metafora di una matita ben temperata, in una poesia di Ora serrata retinae: «Sto rifacendo la punta al pensiero, / come se il filo fosse logoro / e il segno divenuto opaco. // Gli occhi si consumano come matite / e la sera disegnano sul cervello / figure appena sgrossate e confuse [...]». Allo sforzo percettivo corrisponde, nell’intenzione del poeta, la ricerca della parola più esatta e precisa per rendere ciò che è stato pensato, come è affermato in una poesia della stessa raccolta: «Preferisco venire dal silenzio / per parlare. Preparare la parola / con cura, perché arrivi alla sua sponda / scivolando sommessa come una barca, / mentre la scia del pensiero / ne disegna la curva [...]». La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 901


Visibilità e molteplicità Il titolo stesso della prima raccolta, Ora serrata retinae, indica l’attenzione che Magrelli riserva alla percezione visiva. Si tratta – spiega lui stesso – di un termine tecnico della medicina oculistica, che indica la linea di confine della retina. L’attenzione alla percezione evidenzia il legame della poesia di Magrelli con la corrente filosofica della fenomenologia, che tende a cogliere l’essenza delle cose sottraendole alle abitudini percettive. Inoltre, la poesia di Magrelli spazia in diversi ambiti conoscitivi, con un atteggiamento mentale razionale che dai critici è stato definito “illuministico”, e tende a stabilire rapporti fra i più diversi campi. Ne è un esempio la già citata raccolta Didascalie per la lettura di un giornale, in cui le forme dell’alienazione contemporanea sono analizzate traendo spunto dalle diverse parti di un quotidiano (➜ T12b OL), e insegnando al lettore a saper guardare dietro le cose.

T12

Il potere dei media Nelle poesie presentate si analizza il rapporto tra media e nomini, i quali sono ormai sottoposti al loro potere.

Valerio Magrelli

T12a

Una società dominata dai media Ecce Video

V. Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi, Torino 1996

Ecce video, racconto tragicomico della morte di un accanito telespettatore, la cui fine coincide con quella dell’apparecchio televisivo, si compone di due sonetti, il primo dedicato alla “morte” del televisore, il secondo alla sua “resurrezione”.

In memoriam E. H. ritrovato nel suo appartamento nove mesi dopo il decesso seduto davanti alla tv I.

4

Morí fissando1 il suo Televisore la sfera di cristallo del presente2, guardava il Niente e ne vedeva il cuore3, cercava il Cuore e non vedeva niente4.

8

Chi sfidò il lezzo del buio malfermo5 si accorse che veniva dall’Illeso6, non dal Morto, ma dal Morente Schermo, non dal Corpo, bensí dal Video acceso.

La metrica Sonetti con schema ABAB CDCD EFE FEF; imperfette le rime di I (vv. 1-3 e 9-11-13); di II (vv. 2-4 e 9-11-13). 1 fissando: il verbo sottolinea l’effetto ipnotico della televisione, al punto che, iperbolicamente, lo spettatore non riesce a distoglierne lo sguardo neppure nel momento della morte; il possessivo

suo sottolinea il legame ossessivo del protagonista all’oggetto. 2 sfera... presente: la televisione è come una sfera magica, ma anziché il futuro, ti fa vedere soltanto il presente. 3 ne vedeva... cuore: nei programmi televisivi, del tutto insignificanti.

902 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

4 cercava... niente: cercava i sentimenti (il Cuore), ma non poteva trovarli nella realtà virtuale. 5 Chi sfidò... malfermo: quelli che osarono entrare, senza temere il lezzo del corpo decomposto nell’oscurità incerta e pericolosa dell’appartamento. 6 Illeso: è il televisore, a cui la maiuscola attribuisce un valore ironicamente sacrale.


11

Carogna divorata dagli insetti, il Monitor frinisce7 e brilla breve senza piú palinsesti e albaparietti8.

14

La Sua vita larvale9 svanì lieve (goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.), circonfusa di niente, effetto neve10. II.

4

Per interposta decomposizione11 (Transfert, Pasqua del Video, Eucarestia)12 la parodia della Resurrezione ebbe la forma di Tele-patia13.

8

Fu una morte mimetica14, vicaria15, e l’animula vagula16, farfalla luminosa del pixel17, volò in aria, blandula bolla che ritorna a galla.

11

Quale anima risale verso il cielo? Se la merce, marcito status symbol, si fa carne corrotta18, rotto il velo19

14

l’Immagine si muta in cirro, nimbo20, diventa puro spolverio, sfacelo, onda di impulsi e interferenze, Limbo.

7 frinisce: propriamente il verbo rimanda al verso della cicala, a cui può essere paragonato il fruscìo del televisore fuori uso. 8 albaparietti: nome di una nota showgirl, ironicamente indicata con la minuscola, unendo nome e cognome (secondo un procedimento già del crepuscolare Gozzano), a sottolineare l’anonima insignificanza di tutto ciò che appare in televisione. 9 vita larvale: sottolinea che quella vista alla televisione non è una vita reale. 10 effetto neve: disturbo delle trasmissioni televisive, quando all’immagine si sovrappongono migliaia di puntini bianchi in movimento simili a nevischio. 11 interposta decomposizione: la decomposizione della televisione si sostituisce a quella dello spettatore.

12 Transfert... Eucarestia: dalla cultura religiosa a quella psicoanalitica, esempi di sostituzione, in cui una persona (umana o divina) ne rappresenta un’altra. Nella psicoanalisi il transfert è il fenomeno per cui il paziente proietta sull’analista i sentimenti provati per le figure familiari dell’infanzia. 13 Tele-patia: gioco di parole e neologismo dal punto di vista del significato, dato che qui non si riferisce al senso consueto del termine, ma indica la sofferenza della Televisione (in sostituzione di quella umana). 14 mimetica: che imita quella umana. 15 vicaria: che sostituisce l’uomo; vicario è colui che esercita una funzione in luogo di un altro.

16 animula vagula: citazione di una famosa poesia dell’imperatore Adriano, ripresa anche al v. 8 (animula vagula blandula “piccola anima smarrita e soave”; trad. L. Storoni Mazzolani). 17 pixel: unità di visualizzazione di una immagine digitale su uno schermo. 18 corrotta: decomposta. 19 rotto il velo: uscita dal corpo; il velo, nel senso di “corpo”, è immagine letteraria petrarchesca (Canzoniere, CCCII v. 11 «e là giuso è rimaso, il mio bel velo»), ironicamente attribuita al televisore. 20 cirro, nimbo: tipi diversi di nuvole; i cirri sono nuvole bianche, d’alta quota, sottili, che non danno precipitazioni; i nimbi (o, più comunemente, nembi) sono al contrario nuvole basse, temporalesche.

Analisi del testo Una fantasiosa parabola della dipendenza dal mezzo televisivo Attraverso una divertente e fantasiosa invenzione, Magrelli denuncia lo svuotamento della coscienza contemporanea, quando il mondo virtuale (in questo caso televisivo) prende il posto di quello reale. L’uomo è morto davanti al suo teleschermo, ma, per una sorta di ironico contrappasso, a decomporsi non è il defunto, ma il televisore. A risorgere, non può più essere l’anima dell’uomo, completamente annientata dalla televisione, ma appunto quella della tv, da cui ormai dipendevano tutti i pensieri, le emozioni, i sentimenti del telespettatore. Perciò

La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 3 903


le immagini televisive svaniscono, lasciando posto al nulla, così come il niente era contemplato dal telespettatore sul teleschermo. L’ironia dei sonetti è accentuata da diversi particolari. La perdita dell’anima dello spettatore, annullata dal mezzo televisivo, è evidenziata in modo parodico dal titolo, che riecheggia l’Ecce homo, espressione riferita al Cristo che si incarna, e subisce la crocifissione per riscattare gli uomini dal peccato. Nella società dei media, è il video che si sostituisce all’uomo (Ecce video), annullando non il suo peccato, ma le sue facoltà razionali e di sensibilità; di qui il singolare miracolo: è l’unica “anima” rimasta, quella della televisione, a risalire in cielo come una nuvoletta.

Lo stile: ripresa di elementi tradizionali in un contesto nuovo I due testi sono particolarmente accurati a livello fonico e retorico; in contrasto con la novità dei contenuti, l’autore riprende elementi canonici abbandonati nel primo Novecento, ridando vita al sonetto, con i suoi regolari versi endecasillabi, compreso quello costituito, con perizia tecnica, di monosillabi anglicizzanti del linguaggio televisivo (I, v. 13) che rende fonicamente il disturbo dell’audio del televisore “in agonia”; anche le rime sono regolari, a parte qualche infrazione con effetto ironico, come albaparietti in rima fonica con E.T. (I, vv. 11-13) e symbol con nimbo (II, vv. 10-12). Sono numerose anche le figure retoriche, come il chiasmo dei vv. 3-4 del sonetto I, che sottolinea la parola chiave niente, fonicamente richiamata, nell’ultimo verso, da neve; le antitesi dei vv. 7-8; le metafore, come quella della sfera di cristallo, in cui non si vede il futuro, ma il presente, che denuncia la banalizzazione della vita odierna, appiattita sulla realtà quotidiana; appare accentuato anche il fonosimbolismo, ad esempio, nel sonetto I, con la ripetizione dei suoni i e r (v. 10), che mimano gli ultimi sussulti del video e dell’audio, prima della sparizione dell’immagine, con l’effetto neve del verso finale. L’autore armonizza sapientemente elementi lessicali disparati: neologismi (albaparietti, Tele-patia nel senso di “sofferenza della televisione”), sintagmi raffinati (buio malfermo, vita larvale), vocaboli tecnici (Monitor, Transfert, pixel), termini propri del parlato quotidiano, citazioni colte (l’animula vagula blandula della poesia di Adriano); coglie inoltre di sorpresa il lettore, spiazzandolo con accostamenti sorprendenti, come quello fra Monitor e carogna, in realtà non troppo dissimulato atto d’accusa all’odierna televisione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa racconta il primo sonetto? E il secondo? ANALISI 2. Qual è il “miracolo” accaduto? LESSICO 3. A quali diversi ambiti specialistici fa riferimento il lessico? STILE 4. Quali versi rendono con i suoni la realtà descritta?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. In un intervento orale di massimo tre minuti, spiega in che senso il testo può essere ricollegato al tema dell’alienazione e quali aspetti ne mette in luce.

online T12b Valerio Magrelli

La società contemporanea nello specchio del giornale Didascalie per la lettura di un giornale

online

Temi/testi a confronto

T13 Ezra Pound

L’alienazione e l’economia: contro l’usura Cantos XLV e LIII

T14 Thomas Stearns Eliot Londra, città “irreale” La terra desolata I, 60-73

904 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

online

La contestazione della società americana

T15a Allen Ginsberg Emarginazione, ribellione, follia dei giovani migliori T15b Allen Ginsberg L’America-Moloch


4

Poesia autoritratto e poesia narrativa 1 La poesia autoritratto La “letteratura dell’io” nel secondo Novecento Una linea tradizionale della poesia è quella per cui l’autore “traduce” in versi la propria esperienza di vita. Questa poesia autobiografica prende essenzialmente due direzioni, non sempre nettamente distinguibili, l’autoritratto interiore e la narrazione. Nel primo caso l’autore affida ai versi l’espressione del proprio sentire: questa poesia introspettiva trova il suo principale modello nel Canzoniere petrarchesco, per diversi secoli punto di riferimento fondamentale per la lirica; altri grandi esempi di poesia soggettiva sono i sonetti di Foscolo e i Canti di Leopardi. Nel secondo Novecento la predominanza di questo modello è messa in discussione: tramonta la fiducia che si possa esprimere il fondo più nascosto e segreto dell’essere umano, di cui la psicoanalisi e autori come Pirandello e Svevo hanno mostrato la complessità inesauribile; entra dunque in crisi la poesia dell’“io” visto come struttura unitaria e monade isolata dal contesto socio-culturale. La poesia dell’esclusione e dell’emarginazione Eppure, anche nel secondo Novecento, alcuni autori non rinunciano alla “confessione” in poesia. È il caso soprattutto di poeti che si sentono esclusi, diversi, estranei al contesto sociale, e che ricorrono all’antico sfogo, consolatorio e quasi salvifico, della poesia: come Cardarelli, Penna e, più recentemente, Alda Merini. In altri casi, partendo dalla consapevolezza dell’impossibilità di una confessione “sincera” delle proprie emozioni, i poeti sottolineano la componente “teatrale” ed esibizionistica della confessione in prima persona (l’esempio più significativo in questo senso è quello di Patrizia Cavalli) o ne accentuano la componente letteraria, riprendendo forme e stilemi della lirica dei secoli passati, nella tradizione del manierismo, come nel caso di Patrizia Valduga.

Il classicismo inquieto di Vincenzo Cardarelli La biografia Vincenzo Cardarelli, pseudonimo di Nazareno Caldarelli, nasce nel 1887 a Corneto Tarquinia (Viterbo). Compie studi irregolari e si trasferisce a Roma nel 1906, dove esercita vari mestieri, poi si dedica al giornalismo e alla poesia. Si trasferisce quindi a Firenze, dove è tra i fondatori della rivista «La Ronda»; nel 1916 pubblica il suo primo libro, Prologhi, che come altri successivi (fra cui Favole e memorie, 1925 e Lettere non spedite, 1946), riunisce prose e versi. Muore a Roma nel 1959. Un contestatore dell’Ermetismo La poesia di Vincenzo Cardarelli si afferma negli stessi anni che vedono la nascita e l’affermarsi dell’Ermetismo, a cui si contrappone sia per la tendenza a un aperto autobiografismo sia per lo stile limpido, con una chiara e logica articolazione sintattica e immagini nitide e definite. Cardarelli rifiuta l’irrazionalismo della poesia ermetica, e si pone al di qua della svolta simbolistica e decadente della poesia, contestando il modello di Pascoli e di D’Annunzio, a cui contrappone il classicismo romantico di Leopardi. In un saggio del 1942 scrive: Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 905


«Tutti mi danno addosso perché discorsivo. E che hanno mai fatto i poeti se non discorrere? Voi direte “cantare”. Ma è proprio quel certo canto dannunziano o pascoliano che io volli fuggire fin dal principio». Quando si affermò definitivamente l’Ermetismo, Cardarelli, famoso negli anni Venti-Trenta, venne messo da parte e considerato superato, fino a essere quasi dimenticato, ed etichettato in modo riduttivo come “poeta neoclassico”, anche per la sua collaborazione alla rivista classicistica «La Ronda». Un modello ancora attuale Ma l’etichetta di “neoclassico”, che rimanda a una personalità poetica ancorata alla tradizione, «non coglie il senso reale della sua esperienza di poeta», come osserva Sanguineti. Il classicismo di Cardarelli, infatti, non deve essere inteso come la riproposizione di moduli poetici tradizionali, ma come la fedeltà a una linea di dominio razionale delle emozioni, tradotte in una forma limpida ed esatta, senza lasciare «margini sfocati di non detto» (Mengaldo). In questo senso Cardarelli appare assolutamente “moderno” e anzi, il suo linguaggio poetico – chiaro, lucido e razionale, con un andamento riflessivo e prosastico, anche se di prosa alta e sostenuta, in cui le emozioni sono sottoposte a un rigoroso controllo stilistico – è in sintonia con gran parte della poesia del secondo Novecento e oggi tutt’altro che inattuale. La tendenza a una poesia prosastica, sebbene nobilitata dall’inserzione di un lessico colto e letterario, e dall’accurata tessitura retorica, in Cardarelli si accompagna a una produzione in prosa (le raccolte dello scrittore comprendono per lo più prose e versi), anch’essa ispirata a temi autobiografici e di grande raffinatezza ed efficacia stilistica, tanto da costituire uno dei più ammirati modelli di «prosa d’arte».

Vincenzo Cardarelli

T16

Gabbiani Gabbiani

V. Cardarelli, Opere, a c. di C. Martignoni, Mondadori, Milano 1981

Attraverso una similitudine (i gabbiani in volo) felicemente costruita, l’autore rappresenta il suo carattere inquieto, il suo modo di intendere la vita, il suo destino.

Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro, in perpetuo volo. 5 La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere 10 balenando in burrasca1. La metrica Versi liberi. Alternanza di versi lunghi (endecasillabi) e brevi (senari, settenari e ottonari), con una rima e varie assonanze. 1 balenando in burrasca: dibattendosi in mezzo alle burrasche della vita; balenare qui ha il senso di “vacillare, barcollare”.

906 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Analisi del testo L’autoritratto del poeta L’autoritratto esemplifica lo stile “classico” di Cardarelli, che descrive il proprio carattere e le proprie scelte di vita attraverso una similitudine, che si estende lungo tutto l’arco del testo, tra sé e i gabbiani. La similitudine, più della metafora, è indice dell’atteggiamento logico e analitico del poeta, perché non sovrappone le realtà considerate, ma le mantiene distinte. Il ritratto pone in primo piano l’aspirazione inappagata del poeta alla pace (v. 2), parola chiave, richiamata dal sinonimo quiete, ripetuto due volte (vv. 7 e 8). Tale aspirazione è proiettata sui gabbiani, sempre intenti a volare, sfiorando l’acqua con irrequietezza. L’acqua rappresenta la vita, e il poeta mette in luce la sua incapacità di affrontarla («La vita la sfioro», v. 5) e le difficoltà esistenziali che la rendono tempestosa («balenando in burrasca», v. 10). Sono immagini che fanno pensare a una persona sradicata e priva di affetti: il poeta, infatti, abbandonato dalla madre quando era bambino, a soli diciassette anni era fuggito di casa per contrasti con il padre che ostacolava la sua volontà di dedicarsi alla letteratura. Alcune espressioni come Non so iniziale e forse al v. 7 sottolineano poi l’incertezza sul destino e la difficoltà del poeta di conoscersi fino in fondo.

Lo stile come dominio interiore Con uno stile classico e composto il poeta dà così forma a una realtà interiore inquieta, tormentata e priva di certezze. La classicità dello stile si rivela nel ricorso a versi per lo più tradizionali, endecasillabi e settenari (come nelle canzoni libere di Leopardi). I vv. 3-5 sono legati da una rima irregolare (loro : sfioro) e da un’assonanza (volo), a sottolineare la similitudine tra il poeta e i gabbiani; il lessico si articola intorno a due campi semantici contrapposti, quello della quiete e quello delle passioni tempestose; burrasca, altra parola chiave della poesia, è messa in evidenza dall’allitterazione con balenando. Sulla linea di Foscolo e Leopardi, il poeta propone con questo testo un autoritratto inquieto e tormentato, dominando la passionalità dei sentimenti attraverso la limpidezza dello stile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. ANALISI 2. Quali caratteristiche di sé mette in luce il poeta? Quale contrasto domina la sua personalità? STILE 3. Individua i campi semantici principali della poesia e trascrivi i termini ad essi correlati.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di massimo tre minuti spiega, con esempi tratti dal testo, perché il classicismo di Cardarelli appare assolutamente “moderno”. LETTERATURA E NOI 5. Rifletti sul tema dell’inquietudine esistenziale come traspare da questa lirica e dalle poetiche di altri scrittori. Credi che la trasposizione in versi del proprio disagio possa avere una funzione terapeutica?

Vincenzo Cardarelli.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 907


Sandro Penna: l’esclusione dalla società e l’adesione alla vita La biografia Nasce a Perugia nel 1906. Dopo studi irregolari, ottenuto il diploma in ragioneria, si trasferisce a Roma, dove esercita mestieri occasionali; nel 1939 pubblica la prima raccolta, con il titolo di Poesie. Sebbene apprezzato da poeti come Saba, a cui per primo aveva fatto conoscere i suoi versi, preferisce mantenersi ai margini del mondo intellettuale, in una riservata solitudine. Muore a Roma nel 1976. L’esperienza dell’esclusione Anche la lirica di Sandro Penna è in sostanza un autoritratto. Estranea alla dimensione storica e all’impegno politico e civile, si incentra sulla sua esperienza esistenziale, di esclusione e insieme di adesione alla vita. Un’esclusione prima di tutto biografica: nell’Italia fascista lo scrittore è emarginato per la sua omosessualità e, sentendosi non accettato, esprime i suoi sentimenti nella poesia preferendo osservare la vita da lontano piuttosto che prendervi direttamente parte. Uno stile armonioso per contenuti trasgressivi La poesia è dunque per Penna un risarcimento, un modo per trovare un’armonia altrimenti irraggiungibile. Di qui deriva lo stile di questo poeta che, a contenuti potenzialmente trasgressivi (l’attrazione omosessuale è uno dei temi dominanti), fa corrispondere la limpida e armoniosa semplicità della forma. Per il suo stile Penna si ispira a Saba, ed è fin dalla prima raccolta del 1939, Poesie, lontano dall’Ermetismo, a quel tempo modello lirico predominante: adotta versi per lo più tradizionali, un lessico semplice e quotidiano, ricercando un’assoluta chiarezza e trasparenza comunicativa, e una musicalità lieve e armoniosa. Il rifiuto dello stile ermetico è congruente con l’intento della poesia di Penna, che non è quello di ricercare l’Assoluto, ma di esprimere le emozioni e il rapporto vitale con il mondo. D’altra parte la sua poesia, ben lontana dal “male di vivere” montaliano, è dominata dal principio del piacere e tende a rappresentare momenti “estatici”, di felice armonia con l’esistenza: «Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole». Questa sua “gioia di vivere” però tende per lo più a sprigionarsi, come la luce dall’oscurità, da uno stato d’animo opposto, di frustrazione e di stanchezza, raffigurando «la bipolarità delle emozioni, l’ambivalenza degli affetti» (Naldini). Il movimento pendolare degli stati d’animo «tra un’espressione panica, solare, luminosa dell’io e una reintroversione, una regressione nell’infelicità e nel mistero» (Garboli), e l’intensità dei momenti gioiosi, sono resi da Penna con una freschezza e intensità di espressione che accentuano il fascino della sua poesia, e che, anche per la qualità pittorica delle immagini, l’hanno fatta accostare all’opera di artisti come Matisse, pittore fauve della felicità e dell’ebbrezza, e De Pisis, la cui pittura dai colori luminosi è mossa dalla vibrazione atmosferica e dall’accendersi intenso della vitalità.

T17

L’oscillazione degli stati d’animo: dalla tristezza all’intensità vitale

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Queste due liriche trasmettono sentimenti opposti, poiché l’una rappresenta lo spegnersi della tensione vitale per la malinconia, l’altra il suo accendersi in una condizione di euforica gioiosità: esse testimoniano perciò l’oscillazione degli stati d’animo caratteristica della poesia di Penna.

908 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Sandro Penna

T17a S. Penna, Poesie, Garzanti, Milano 1989

Mi nasconda la notte e il dolce vento Mi nasconda la notte e il dolce vento. Da casa mia cacciato e a te venuto mio romantico amico fiume lento. Guardo il cielo e le nuvole e le luci 5 degli uomini laggiù così lontani sempre da me. Ed io non so chi voglio amare ormai se non il mio dolore. La luna si nasconde e poi riappare – lenta vicenda inutilmente mossa 10 sovra il mio capo stanco di guardare.

La metrica Tre strofe di endecasillabi, la prima e la terza di tre versi, con rima fra il primo e il terzo; al centro una quartina.

Sandro Penna

T17b S. Penna, Poesie, Garzanti, Milano 1989

La vita è… ricordarsi di un risveglio La vita è... ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba: aver veduto fuori la luce incerta: aver sentito nel corpo rotto la malinconia 5 vergine1 e aspra dell’aria pungente. Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane: l’azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori 10 un mare tutto fresco di colore.

La metrica Due strofe, ciascuna di cinque endecasillabi.

1 la malinconia vergine: lo stato d’animo malinconico per la luce incerta del crepuscolo, nella giornata ancora non iniziata.

Analisi del testo Il senso di esclusione e di solitudine esistenziale Le due poesie, accomunate dall’armonia e dalla musicalità, caratteristiche della lirica penniana anche quando i toni sono pessimistici, rappresentano l’oscillazione fra diversi stati d’animo, resi con immediatezza. Il primo testo esprime una caduta della vitalità nell’abbattimento e nella tristezza; parola chiave della poesia può essere l’aggettivo lento (v. 3), sottolineato dalla posizione a fine verso, e ripreso all’inizio del v. 9, che, attribuito a elementi della natura (il fiume e l’apparire della luna), ne suggerisce la consonanza con lo stato d’animo del poeta. Il senso di malinconia è sottolineato dal ritmo rallentato della poesia che, frantumata da cesure ed enjambements, impone una lettura pausata e lentamente modulata. Un’altra parola chiave, anch’essa ripetuta, volta a segnalare l’esclusione del poeta, è il verbo nascondere che, attribuito a elementi del paesaggio (v. 1), sottolinea il legame dell’io lirico con il mondo naturale, e l’esclusione da quello sociale, ribadito dal desiderio di sottrarsi alla vista e alla compagnia degli altri. Il non sentirsi accettato («Da casa mia cacciato», v. 2) è così interiorizzato in un senso di solitudine, di lontananza dagli altri e di stanchezza esistenziale.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 909


Il sentimento di adesione alla vita e di gioia liberatoria Un sentimento di tristezza e di oppressione traspare anche nella prima delle due strofe del secondo testo (➜ T17b ), ma in questo caso la malinconia è soltanto lo sfondo che fa meglio risaltare il momento liberatorio di riconciliazione con la vita. La poesia è la prima scritta da Penna e può essere considerata una sintesi della sua visione del mondo. Non è la semplice registrazione di un’esperienza (venne infatti scritta di notte, nel dormiveglia, racconta lui stesso), come potrebbe sembrare a prima vista, ma rappresenta la sua idea della vita, affidata alle oscillazioni degli stati d’animo e delle emozioni. La malinconia domina la prima strofa: l’ambiente, un treno notturno, suscita una sensazione di precarietà e inquietudine, per la luce incerta e debole che non giunge a illuminare lo scompartimento; lo stato di malessere è anche fisico (il corpo rotto, indolenzito); nel lessico prevalgono termini negativi (triste, incerta, malinconia). Il mutamento improvviso dell’atmosfera è sottolineato dall’antitesi (Ma) che apre la seconda strofa, ispirata a un opposto sentimento di adesione alla vita: nello scompartimento è entrato un giovane marinaio, in divisa bianca e azzurra, e la sua apparizione sembra emanare luce e freschezza, mentre fuori dal finestrino il mare appare fresco di colore, con una sinestesia dalla vivacità impressionistica. Come se fossero improvvisamente sorti due centri di luce, le due apparizioni disperdono l’impressione di disagio, e fanno sentire di nuovo la gioia di vivere.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza i due testi in non più di 3 righe. COMPRENSIONE 2. Quali sentimenti contrastanti evocano le due poesie? ANALISI 3. Quali elementi paesaggistici appaiono nelle due poesie? Come viene visto il rapporto con la natura? STILE 4. Individua nei due testi i campi semantici della malinconia e della gioia.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 5. Il primo verso della seconda lirica (➜T17b ) presenta l’occasione della poesia come rivelazione di ciò che è la vita secondo l’autore. Spiega in un breve testo (max 15 righe) quale concezione del vivere ne emerge. 6. Sandro Penna ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’esclusione. Credi che essere esclusi comporti sempre sofferenza o pensi che essere diversi, nell’accezione di non essere allineati al sentire comune, possa essere anche indice di una maggiore consapevolezza di sé?

Alda Merini, l’esperienza della follia e la «Terra Santa» del manicomio La biografia Nasce a Milano nel 1931; subisce forti traumi durante la guerra, quando è sfollata con la famiglia e deve interrompere gli studi; intanto, giovanissima, aveva pubblicato poesie apprezzate da autorevoli critici. Dopo la nascita della seconda figlia è colpita da disturbi psichici e ricoverata in un ospedale psichiatrico; i ricoveri, con brevi intervalli di ritorno a casa, si succederanno dal 1965 al 1979 (creando difficoltà alla vita familiare, tali che le due ultime delle quattro figlie della poetessa vengono date in affido). Grazie alla legge 180 del 1978 (legge Basaglia) e all’aiuto di amici, tra cui la studiosa Maria Corti, la poetessa riesce a ritornare a una relativamente maggiore stabilità psicologica e non solo riprende a scrivere, ma compone il suo capolavoro, la raccolta La Terra Santa (1984), testimonianza della sua esperienza psichiatrica; seguiranno altre sillogi poetiche e testi in prosa (L’altra verità, Diario di una diversa, 1986; La pazza della porta accanto, 1995). Muore a Milano nel 2009.

910 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Il «destino della poesia» e le difficoltà della vita Più che di una particolare tendenza stilistica, la poesia di Alda Merini è la testimonianza di una toccante esperienza umana. Alda Merini rappresenta oggi molte cose: un caso letterario, amplificato dall’interesse suscitato nel mondo televisivo e giornalistico; una persona dalla vita contrastata e infelice; nei suoi momenti migliori, una grande poetessa, capace di esprimere in versi emozionanti la propria esperienza: il disagio psichico, ma anche la “follia” disumana del manicomio. I caratteri della poesia di Alda Merini La poesia di Alda Merini è fluente, vivida di immagini, accesamente metaforica. Le immagini bibliche si sovrappongono a quelle della realtà quotidiana, in particolare nella raccolta La Terra Santa, conferendo un senso esemplare alla vicenda umana della poetessa, resa drammatica dallo squilibrio psichico e dall’internamento in un ospedale psichiatrico. Lo stile trova misura e compiutezza espressiva in alcune delle sue raccolte, mentre in altre a volte è ridondante, “eccessivo”, anche perché la Merini negli ultimi anni aveva preso l’abitudine di dettare i suoi versi, rinunciando a controllarne l’esuberanza.

Alda Merini

T18 A. Merini, Fiore di poesia, 1951-1997, a c. di M. Corti, Einaudi, Torino 1998

Il dottore agguerrito nella notte La poesia descrive un momento della vita in manicomio: la visita notturna del medico di guardia, che somministra una pesante dose di sedativi agli ammalati agitati.

Il dottore agguerrito nella notte viene con passi felpati alla tua sorte, e sogghignando guarda i volti tristi degli ammalati, quindi ti ammannisce 5 una pesante dose sedativa per colmare il tuo sonno e dentro il braccio attacca una flebo che sommuova il tuo sangue irruente di poeta. Poi se ne va sicuro, devastato 10 dalla sua incredibile follia il dottore di guardia, e tu le sbarre guardi nel sonno come allucinato e ti canti le nenie del martirio. La metrica Due strofe di versi liberi, per lo più endecasillabi; rima tra i vv. 9 e 12, assonanza tra i vv. 1 e 2.

Analisi del testo Il medico e l’ammalato Il testo fa parte di una raccolta in cui Alda Merini descrive la sua esperienza in manicomio ed è incentrato sul contrasto tra la figura dell’ammalato e quella del medico. Il malato avverte di essere visto da lui solo come un essere estraneo, temibile e inquietante. Nella prima strofa il medico di guardia giunge al letto del ricoverato; il suo atteggiamento appare ostile (agguerrito) e quasi beffardo (sogghigna davanti ai «volti tristi / degli ammalati», come a sottolineare la sua superiorità), mentre il particolare dei passi felpati (spiegabile nella situazione notturna del reparto) sembra il segno di un atteggiamento infido e subdolo. Con

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 911


il ricoverato non c’è alcun rapporto umano: sa solo infilare l’ago della flebo nel suo braccio per calmare il «sangue irruente di poeta» (con riferimento alla scrittrice). L’atteggiamento del medico tradisce il timore del confronto con l’altro, dominato da così irruenti emozioni da farne temere il contagio.

L’«incredibile follia» del medico La seconda strofa rovescia la prospettiva della prima: l’«incredibile follia» non è quella dell’ammalato, ma è quella del dottore di guardia, devastato, paradossalmente più “folle” del ricoverato nel reparto psichiatrico, perché preso dalla sua insensibilità di “normale” e dalla sua presunta sicurezza; per effetto dei sedativi, il malato cade nel sonno come allucinato, recluso fra le sbarre del lettino e quelle delle finestre, e può solo confortarsi con la poesia, intonando «le nenie del martirio».

L’equilibrio stilistico Nella raccolta La Terra Santa l’autrice raggiunge un suo equilibrio stilistico, come in questa lirica, in cui riesce a dominare una materia incandescente. Il discorso fluisce limpido e chiaro, con un lessico studiato: ad esempio, un verbo come ammannisce (v. 4), ponendo l’accento sull’azione, indica come il medico sia più attento a somministrare il sedativo in modo distaccato, asettico, piuttosto che sollecito nei confronti della persona a cui lo dà; colmare (v. 6), riferito al sonno, esprime l’idea della tranquillità indotta con farmaci sul malato agitato, il termine sommuova (v. 7) è un esatto riferimento all’azione della flebo. La cura formale è comprovata anche da un’eco di Montale (il v. 9 – «se ne va sicuro» – richiama il v. 5 di Non chiederci la parola: «Ah l’uomo che se ne va sicuro») e in chiusura dal termine martirio che rimanda alla sfera religiosa. Il titolo stesso della raccolta, La Terra Santa, allude al tema biblico, di cui il manicomio è la negazione: è il luogo (come è detto in altri versi della raccolta) in cui le Tavole dei comandamenti non valgono («il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta»), Dio è assente (in Vicino al Giordano: «ma il Cristo non c’era: dal mondo ci aveva divelti / come erbaccia obbrobriosa»), il valore dell’essere umano è annullato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto della poesia (max 5 righe). ANALISI 2. Descrivi la figura del dottore nella poesia e il suo rapporto con il paziente. 3. Quali sono i rapporti fra le due strofe? In cosa si differenziano? Che cosa le unisce? LESSICO 4. Spiega il significato del termine martirio (v. 13) in rapporto al tema trattato. 5. Come la poetessa usa l’aggettivazione? Commenta la scelta degli aggettivi ai vv. 1, 8, 10.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Nel sito ufficiale dedicato alla poetessa (www.aldamerini.it) leggi la Lettera al medico in manicomio. Poi evidenzia i punti di contatto con questa poesia.

Patrizia Cavalli e la crisi dell’io, «sempre aperto teatro» La poesia diaristica di Patrizia Cavalli Un’altra poetessa che colloca al centro della propria produzione poetica l’esperienza individuale, trattandola in modo originale, è Patrizia Cavalli. Nata a Todi nel 1947, si è presto stabilita a Roma, esordendo nel 1974 con la raccolta Le mie poesie non cambieranno il mondo. L’opera poetica di Patrizia Cavalli è lontana dai grandi temi ideologici e metafisici; è invece per lo più concentrata sul tema della felicità e infelicità individuale e orientata sulla dimensione privata dell’io, di cui offre un’interpretazione originale. Coglie infatti,

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modernamente, gli aspetti di contraddizione, di mutevolezza, di falsa coscienza che caratterizzano l’io, ma non tenta affatto di dare un’immagine “vera”, profonda di sé, di scandagliare la propria coscienza. Al contrario, rappresenta gli stati alterni dell’io in poesie spesso brevi, quasi diaristiche, di concisione epigrammatica, che poggiano sulla convinzione che l’immagine di un io unitario sia solo un vano fantasma. L’io «sempre aperto teatro» Nella raccolta Sempre aperto teatro (del 1999) l’io è rappresentato come un teatro “vuoto”, in quanto, secondo una tematica novecentesca (si pensi a Pirandello), privo di una reale consistenza: «La scena è mia, questo teatro è mio, / io sono la platea, sono il foyer, / ho questo ben di dio, è tutto mio, / così lo voglio, vuoto, / e vuoto sia. Pieno del mio ritardo». Come Patrizia Cavalli ha affermato in un’intervista, la sua poesia tende a sciogliere la «compatta unità» del carattere. Scopre così un “io precario”, in bilico tra insicurezza ed esibizione teatrale spavalda e aggressiva, tra verità e finzione, tra chiaroveggenza e autoinganno, tra serietà e ironia. L’io narrante delle poesie di Patrizia Cavalli oscilla fra apertura e chiusura, tra desiderio di indipendenza e timore della solitudine, tra autoanalisi riflessiva e passioni incandescenti, tra sincerità e finzione, come quando inventa passioni per sfuggire la noia, ricercando una vita più intensa: «Due ore fa mi sono innamorata. / Tremo d’amore e seguito a tremare, / ma non so bene a chi mi devo dichiarare». Tutto comunque si compie dentro all’io, in una dimensione solipsistica, in cui quello che conta non è tanto il riscontro oggettivo dell’esperienza, quanto la ripercussione soggettiva nel “teatro della mente”. L’invito alla leggerezza Il messaggio che emerge dalla poesia di Patrizia Cavalli è l’invito ad affrontare la vita intensamente, ma con uno spirito ironico, con intelligente leggerezza evitando di restare prigionieri di ossessioni e falsi problemi. Leggerezza che si traduce in uno stile apparentemente colloquiale, caratterizzato da un ritmo fortemente cadenzato (spesso con l’uso di rime baciate) per cui i suoi versi, di facile cantabilità, «si stampano perentori nella memoria» (Berardinelli).

T19

L’io casa e l’io prigione I due componimenti che seguono sono esemplificativi dell’analisi dell’io fatte dall’autrice: l’io non è un’unità piena e stabile, ma è mutevole e può diventare una prigione.

Patrizia Cavalli

T19a P. Cavalli, Sempre aperto teatro, Einaudi, Torino 1999

Anima piena, anima salotto Anima piena, anima salotto, più piena, sempre piena, lacrimosa. Anima quieta che resta nella stanza, chiusa tenace assente spaventosa. Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 913


Patrizia Cavalli

T19b P. Cavalli, L’io singolare proprio mio, in Poesie (1974-1992), Einaudi, Torino 1992

Ma davvero per uscire di prigione Ma davvero per uscire di prigione bisogna conoscere il legno della porta, la lega delle sbarre, stabilire l’esatta gradazione del colore? A diventare 5 così grandi esperti, si corre il rischio che poi ci si affezioni. Se vuoi uscire davvero di prigione, esci subito, magari con la voce, diventa una canzone.

Analisi del testo Le rappresentazioni dell’io attraverso la metafora spaziale In queste poesie l’io è rappresentato con due metafore spaziali: la casa e la prigione. La prima (➜ T19a ) ne evidenzia la mutevolezza con l’immagine delle stanze di una casa: l’anima può essere un salotto, quando è più ricca di vitalità, e si rivolge all’esterno, ansiosa di comunicare; altre volte, invece, è stanza, cioè si chiude in se stessa, assente al mondo, e si isola nella tristezza, «chiusa tenace assente spaventosa». La metafora della prigione rappresenta invece le ossessioni e la sofferenza psicologica da cui non si riesce a evadere. In contrasto con chi teorizza che il riconoscimento di traumi rimossi serva a conquistare la salute psichica, l’autrice suggerisce di voltare le spalle alle sofferenze, e di farlo subito, senza crogiolarsi nel proprio malessere. L’invito finale a «uscire […] di prigione» diventando una canzone è un invito alla leggerezza e all’amore per la vita, che chiede di non affezionarsi troppo alla propria sofferenza per non restarne prigionieri. Ripensare continuamente alle cause del proprio dolore è come per il prigioniero voler conoscere la propria prigione in tutti i particolari: meglio guardare avanti e gettarsi decisi nella vita, e forse la felicità non sarà così irraggiungibile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

STILE 1. In ➜T17a vv.1-2 è presente un’allitterazione: rintracciala e spiegane il significato. SCRITTURA 2. Quali sono le metafore spaziali utilizzate da Patrizia Cavalli per descrivere l’io? Quali condizioni psicologiche rappresentano? Illustrale in un breve testo (max 15 righe).

2 La poesia narrativa La poesia narrativa nel periodo dell’Ermetismo La poesia del secondo Novecento si distanzia da quella della prima metà del secolo anche per il diverso rilievo assegnato alla narrazione. L’Ermetismo, rivolto alla ricerca dell’Assoluto al di là della realtà contingente, è agli antipodi di una poesia narrativa, che viene perciò trascurata fino alla svolta post-resistenziale. Già nel periodo dell’Ermetismo, tuttavia, ci sono autori che si discostano dalla tendenza prevalente, e coltivano la poesia-racconto: in particolare, Bertolucci e Pavese. Il primo si dedica a una “poesia della memoria”, con l’intento di far rivivere, con sensibilità proustiana, “il tempo perduto”; Pavese mette in scena personaggi diversi dall’io narrante, costruendo racconti in versi apparentemente realistici, in realtà densi di connotazioni simboliche e mitiche.

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L’accentuarsi della tendenza narrativa nel secondo Novecento Nella seconda metà del secolo scorso, invece, la poesia, aprendosi alla realtà, torna ad assegnare uno spazio cospicuo alla narrazione. La poesia-racconto assume però spesso, modernamente, forme sperimentali e d’avanguardia, come nel poemetto La ragazza Carla di Pagliarani o nelle opere di Porta. La svolta narrativa determina tra l’altro anche un recupero del modello dantesco, che nella seconda metà del Novecento assume un’importanza senza precedenti, ispirando anche, ad esempio in autori come Luzi e Caproni, un tipo di racconto allegorico, dalle implicazioni metafisiche. La tendenza a raccontare emerge anche nella struttura delle raccolte, spesso organizzate con un filo conduttore narrativo, sia che siano ispirate a vicende reali (ad esempio Cucchi, De Angelis, Valduga) o a situazioni di tipo allegorico-metafisico (Caproni, Luzi e, nell’ambito della poesia più recente, Cesare Viviani, ad esempio nel poemetto L’opera lasciata sola); si tratta in questi casi di una narrazione “enigmatica”, che rende impossibile conferire un senso univoco agli eventi narrati perché raccontati in modo frammentario e misterioso, con ellissi, sospensioni, ambiguità.

Attilio Bertolucci: il racconto in versi “alla ricerca del tempo perduto” La biografia Nasce nel 1911 a San Prospero (nei pressi di Parma) da una famiglia di proprietari terrieri. Appassionato di letteratura fin da ragazzo, si iscrive a giurisprudenza, frequentandola senza risultato per quattro anni, finché passa a Lettere a Bologna, dove segue le lezioni del famoso critico d’arte Roberto Longhi ed entra in un circolo di intellettuali, conoscendo fra gli altri Giorgio Bassani. Insegna a Parma per alcuni anni, poi nel 1951 si trasferisce a Roma, dove svolge attività giornalistica ed editoriale; lavora anche come documentarista e critico cinematografico. Dopo l’esordio nel 1929 con la raccolta di poesie Sirio, seguono La capanna indiana nel 1951, Viaggio d’inverno, nel 1971, La camera da letto (in due parti: 1984 e 1988). È padre dei registi Bernardo e Giuseppe Bertolucci. Muore a Roma nel 2000. L’“antinovecentismo” di Bertolucci Anche la poesia di Attilio Bertolucci, come quella di Pavese, è estranea al filone ermetico dominante ai tempi del suo esordio. Iscritto perciò dai critici nell’antinovecentismo, già fin dalle prime raccolte Bertolucci mostra una particolare attenzione al reale e una vena narrativa che resterà costante, culminando nella raccolta La capanna indiana e, soprattutto, nel poemetto (in realtà un vero e proprio romanzo in versi) La camera da letto, in cui racconta le vicende della propria famiglia sullo sfondo della storia italiana tra il 1798 e il 1951. Il tempo della memoria: Bergson, Proust, Bertolucci La camera da letto, sicuramente l’opera più originale di Bertolucci, costituisce una sfida, vinta dall’autore, per chi riteneva che il poema fosse un genere inattuale. La poesia narrativa di Bertolucci è diversa da quella di Pavese: Pavese racconta vicende con un valore emblematico e universale, Bertolucci tende a far rivivere una realtà concreta e individuale, per sottrarla alla morte e all’oblio. Il suo racconto è perciò ricco di particolari e, snodandosi in modo ampio e riccamente circostanziato, «non narra ma evoca [...] secondo i ritmi ingovernabili dell’intermittenza del cuore» (Berardinelli). Il prevalere del tempo interiore della memoria, la “durata” secondo Bergson, è sottolineato dalla discontinuità del ritmo narrativo: l’autore lo dilata non nei momenti oggettivamente più importanti, ma in quelli in cui la memoria è più vivida e ricca di dettagli, indugiando sulle più minute sensazioni per restituire la ricchezza del Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 915


reale. Il modello è la Recherche di Proust, opera prediletta da Bertolucci, da cui riprende l’intento di sottrarre all’oblio il “tempo perduto”, in modo che divenga “tempo ritrovato”. Uno sguardo cinematografico La ragione per cui Bertolucci affida il suo racconto familiare a un poema, e non a un romanzo, è probabilmente da ricondurre alla capacità della poesia di rendere in modo vivo e intenso le sensazioni e le emozioni, ciò che veramente conta nella sua saga familiare. Nella Camera da letto è presentato peraltro anche un interessante quadro storico del secolo, sebbene visto da un’ottica particolare, a volte con un taglio cinematografico: il poema deve molto all’influenza del cinema, che, seguito con passione da Bertolucci, sarà scelto come mezzo espressivo dai suoi figli Giuseppe e Bernardo, registi di fama. Sarà soprattutto Bernardo, con il celebre film Novecento (1976), a compiere un’operazione per certi aspetti simile a quella del padre, raccontando la vita di due ragazzi nell’affresco della storia del secolo.

Sguardo sul cinema Poesia e cinema: la saga del Novecento di Attilio e Bernardo Bertolucci Attilio Bertolucci e il cinema Nel Novecento è inscindibile il legame tra letteratura e cinema. L’opera di Bertolucci ne è un esempio: il poeta è stato anche critico cinematografico e già durante gli anni universitari, come allievo del critico d’arte Roberto Longhi (insieme a Pasolini), ha coniugato la passione per la poesia con quella per le arti figurative e il cinema. Lo “sguardo cinematografico” del poeta è stato spesso sottolineato dai critici, come Cesare Garboli che ha definito La camera da letto «un film inversi». È stato inoltre posto in evidenza il rapporto fra il poema di Bertolucci e Novecento (1976), il celebre film del figlio Bernardo. Lo stesso Bernardo ammette di averlo girato in “competizione” con il poema paterno, che lesse prima della pubblicazione. In effetti tra le due opere si riscontrano affinità nella struttura narrativa, dato che anche il film propone, sullo sfondo della storia del secolo, una vicenda individuale: quella dell’amicizia tra Olmo, figlio di contadini, e Alfredo, erede dei proprietari della tenuta, nati nello stesso giorno dell’anno 1900.

Il confronto tra La camera da letto e Novecento Dal punto di vista ideologico, la visione di Bernardo, politicamente a sinistra, si differenzia da quella del padre, più conservatore. Sono però evidenti analogie nella scelta degli episodi storici, come il grande sciopero agrario del 1908, rappresentato da entrambi, e nel rilievo dato al ritmo delle stagioni e ai momenti topici della vita contadina, come la trebbiatura. L’opera del poeta e quella del figlio regista, come osserva il critico Paolo Lagazzi, sono inoltre accomunate da due nodi tematici, «la ricerca di uno spazio di bellezza e di grazia», sottratto alla storia, e «il bisogno di misurarsi, nel tempo, con quella forza segreta, sfuggente e ineludibile che è il destino». Analogie non casuali: il cinema di Bernardo nasce dal costante confronto, anche se non certo a senso unico, con la carismatica figura del padre poeta.

Bernardo e Attilio Bertolucci.

916 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Attilio Bertolucci

T20

Nonno e nipote La camera da letto, XV

A. Bertolucci, Opere, a c. di P. Lagazzi e G. Palli Baroni, Mondadori, Milano 1997

Nel brano (tratto da un capitolo del poema), Giovanni Rossetti, il nonno del protagonista, si fa accompagnare dal nipote, allora un bambino fra i nove e i dieci anni, nella città termale di Salsomaggiore, per curarsi il diabete, che poi lo porterà alla morte. Attilio perde un anno di scuola, ma si arricchisce di nuove esperienze, fra cui quella per lui affascinante del teatro dei burattini.

Questo è l’anno che Giovanni Rossetti, diabetico, per una caduta da niente scendendo dalla carrozza, a San Lazzaro, di ritorno dalla città, imbocca 5 la strada della sua morte. Non c’è ormai passo che lui faccia, da quello, appena incerto per il dolore fresco, sul molle terreno, che gli appartiene, del giardino misto 10 di foglie scampate a un anno finito senza rimedio e di vermi nati questa mattina, e poi, procedendo con sforzo, sul mattone assorbente luce e perdita di luce1; non c’è gesto (nel caldo 15 delle stufe avvampanti l’abbandono più rapido di spolvero2 e cappello con la stanchezza che un tempo voleva dire impazienza sensitiva della primavera); 20 non c’è mutazione ormai del pigmento sensuale ancora, sui settanta, del suo viso intaccato3; non c’è passo o gesto o mutazione in lui che non significhi morte. 25 E tu4 che osservi ignaro di là dai vetri febbrili5 del collegio un passero cui le zampe s’imbrattano d’umore e di terriccio, pesandogli, tu prediletto, dovrai accompagnare Giovanni Rossetti per un tratto 30 del cammino rimastogli. Lascia che la tua mano prigioniera, inquieta si scaldi nella sua, La metrica Versi liberi di varia lunghezza, a partire dal bisillabo.

1 sul mattone... perdita di luce: sul pavimento di mattoni che, con il colore prima caldo e luminoso, poi freddo, riflettono l’alternarsi di luce e ombra.

2 spolvero: spolverino, soprabito. 3 intaccato: segnato dalla malattia. 4 E tu: il poeta si rivolge a se stesso bambino.

5 febbrili: l’aggettivo è per ipallage attribuito ai vetri delle aule del collegio, mentre si riferisce alle emozioni intense del ragazzo.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 917


sino a che entro i fischi terminali non s’annunci e appaia, 35 vinte le bende labili del fumo6, città di cure e perdizione7, piccola babilonia, Salsomaggiore. [...] Oggi è mercoledì, un mercoledì di maggio inoltrato che porta un caldo vento sin dentro la piccola città dove vivi le tue grandi vacanze invidiando 100 i bambini locali che impallidiscono nelle aule e guardano ai viali squassati, figurandosi di correre e gridare come i passeri portati via, penne e suoni, dalle raffiche intermittenti. Per te è l’ora 105 di andare in farmacia per guttaperca8 (resto mancia): i vecchi, i malati amano, nelle loro sedentarie soste in riposi forzati, inviare messaggeri, figli dei figli, sangue del proprio sangue –, 110 dove non li porta più il piede fragile, e per Giovanni Rossetti bluastro di cancrena – là nella vita che si anima crescendo il giorno e la temperatura dell’aria e del corpo, similmente. I soldi che ti scottano nelle tasche infantili – 115 le granatine precoci9 non riescono a consumarli – oggi potrai alfine barattarli con un piacere nuovo e misterioso: il teatro dei burattini. Lascia che termolabile10 già, ignaro, l’aspettazione dell’ora lilla11 in cui il sole muore lentamente 120 sulle colline basse a corona di Salsomaggiore e nasce ardente di fuochi e lampi la vita di un medioevo regale e villano12 ti colori la faccia d’ardore subfebbrile13. Basterà che spiando di dietro il sipario vermiglio 125 l’occhio rotondo di gufo avvezzo alle ore notturne

6 vinte... fumo: dissolto il fumo. L’immagine impressionistica del fumo che si dissolve come una benda che viene tolta (bende labili) riporta al campo semantico della malattia. 7 città di cure e perdizione: per il bambino, che perde un anno scolastico trascorrendo una lunga vacanza, Salsomaggiore è una città di perdizione.

8 guttaperca: sostanza plastica per adesivi, qui cerotto per il nonno. 9 granatine precoci: bevande a base di ghiaccio tritato, cosparse di sciroppo rosso; precoci perché comprate prima che fosse estate. 10 termolabile: soggetto ad alterazioni febbrili dovute a stati emotivi. 11 ora lilla: l’ora del tramonto, con un’im-

918 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

magine impressionistica che mette in rilievo il colore. 12 un medioevo regale e villano: l’ambientazione medievale degli spettacoli del teatro dei burattini, con i vari personaggi, principi e servi. 13 colori… sub­febbrile: ti faccia arrossire il viso per un calore quasi di febbre a causa dell’eccitazione gioiosa.


del più anziano dei fratelli Preti14 conti un numero sufficiente di tavolini occupati perché una musica attacchi, foriera di15 avvenimenti ignoti: medicamento sufficiente a rimetterti 130 in equilibrio termico, a rallentare i battiti del tuo cuore e allontanare dalla superficie del tuo essere l’urgenza pulsante e minacciosa della vita personale. Qui comincia l’arte, qui la finzione 135 si fa tempo più vero di quello che doloroso scorrendo tocca le tue membra: amori e duelli, suono di mandòle e di spade interrompe e varia saviamente l’astuzia dei servi cui soltanto è concesso 140 lo sfogo delle bastonate a imitazione dei tornei e il salto delle mazurke e polke a contrappunto degli inchini regali16. 14 fratelli Preti: burattinai di Modena, che

16 suono… regali: il teatro dei burattini,

gestivano un teatrino (cui allude il sipario vermiglio, v. 124) in un caffè di Salsomaggiore. 15 foriera di: che preannunziava.

ispirato a quello della commedia dell’arte, piace al ragazzo per la sua varietà, poiché vi si intrecciano scene con personaggi nobili, e quindi duelli, amori, serenate con mandolini (mandòle) a situazioni comi-

che (liti a colpi di bastone, salti, danze) i cui protagonisti sono i servi, probabilmente maschere della commedia dell’arte; mazurke e polke sono danze molto vivaci, di matrice popolare.

Analisi del testo I temi della morte, della vita e dell’arte Nel racconto in versi emergono tre temi, tra loro collegati, che sono centrali in tutto il poema di Bertolucci: la morte, la vita e l’arte, che per il bambino è costituita dal teatro dei burattini. L’ombra della morte, che il poeta cerca di esorcizzare attraverso la memoria e la poesia, avvolge il mondo del ragazzo e accompagna il nonno malato, come rivela l’anafora delle negazioni che scandiscono il suo lento procedere («Non c’è / ormai passo», vv. 5-6; «non c’è gesto», v. 14; «non c’è mutazione», vv. 19-20; «non c’è passo o gesto o mutazione in lui / che non significhi morte», vv. 23-24). Anche gli elementi della descrizione (come il terreno molle e fangoso, le foglie, i vermi) sembrano alludere in modo simbolico al disfacimento. Accanto all’ineluttabilità del destino e della morte, il poeta pone però l’accento sulle manifestazioni della vita, con un’attenzione e una resa impressionistica che lo ha fatto accostare a un altro esponente dell’antinovecentismo, Sandro Penna. I momenti sono consegnati al ricordo attraverso la poesia, con l’intento di preservarli, come provano il presente della narrazione («Oggi è mercoledì», v. 96), il rivolgersi a sé stesso bambino come per distanziarsi dal narratore ormai adulto («E tu», v. 25), l’insistenza sulle sensazioni legate all’avvicendarsi delle stagioni (il caldo di maggio, più intenso nelle ore del mezzogiorno, il vento a raffiche intermittenti) e delle ore, in particolare l’ora lilla, che con un tocco impressionistico evoca la luce rosata del tramonto.

Il tema del teatro e dell’arte online

Per approfondire Un’arte per i bambini di ieri: il teatrino

Mediatrice tra la morte e la vita appare essere l’arte: nella lirica essa è il teatro dei burattini, una forma popolare e ingenua, ma che per il bambino, spaesato perché lontano dalla casa e dalla scuola, e per la malattia del nonno, rappresenta la possibilità di allontanare le sensazioni di angoscia e di minaccia, per accedere a quella diversa esperienza del tempo su cui si fonda l’arte: «Qui comincia l’arte, qui la finzione / si fa tempo più vero di quello che doloroso / scorrendo tocca le tue membra» (vv. 134-136).

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 919


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in non più di 5 righe. ANALISI 2. Quali tipi di sensazioni sono evocate nel testo? Fai qualche esempio. LESSICO 3. Osserva gli aggettivi utilizzati dall’autore; a quali campi semantici appartengono? Quali temi tendono a mettere in rilievo? STILE 4. Esemplifica lo stile prosastico di Bertolucci come risulta da questo testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Bertolucci rappresenta l’attrattiva del teatro di burattini. In un intervento orale di massimo tre minuti spiega quali aspetti gli apparivano più affascinanti e quale idea dell’arte emerge nella descrizione dello spettacolo del teatrino.

La poesia “in prosa” e narrativa di Giovanni Raboni La biografia Nato nel 1932 A Milano, dove trascorre quasi tutta la vita, si laurea in legge, e dapprima lavora come consulente legale, poi si dedica a lavori editoriali per diverse case editrici. Esordisce come poeta negli anni Sessanta; la prima raccolta importante è Le case della Vetra (1966); nel 1988 pubblica A tanto caro sangue, in cui ripropone una selezione di testi precedenti, spesso profondamente modificati. Con la raccolta Versi guerrieri e amorosi (1990), Raboni attua una svolta nella sua poetica, confermata nelle raccolte successive recuperando le forme metriche chiuse e accentuando la letterarietà del linguaggio. Traduttore dal francese (Racine, Baudelaire Apollinaire, soprattutto la Ricerca di Proust), autore di importanti studi critici e saggi, Raboni è stato una presenza autorevole nel dibattito culturale del secondo Novecento. È morto nel 2004. Per Raboni, come ebbe a scrivere nel saggio L’arte della dissonanza, la modernità della poesia, di cui egli indica come capostipite Baudelaire, sta «nell’alleanza che essa propone e attua fra poesia e prosa», che consente di allargarne gli orizzonti, includendovi temi e forme prima riservati solo alla narrativa. La poesia “inclusiva”, il cui modello dichiarato è l’opera di Sereni, è ricondotta dai critici alla “linea lombarda”, caratterizzata dall’attenzione alla realtà, dalla concretezza delle immagini, dal linguaggio lirico “impuro”, con inserti di discorso diretto e lessico colloquiale, e dalla spiccata componente etica. Il tema della città Milano è spesso protagonista della poesia di Raboni, venata di nostalgia per le vecchie atmosfere milanesi. Ne è un esempio Risanamento (➜ T21 ), in cui il poeta rievoca i quartieri di una vecchia Milano ormai perduta, con il Naviglio ancora scoperto, la nebbia, le case di ringhiera, le strade con l’acciottolato, le osterie. La “prosa” come argine alla commozione In altri testi, di tipo quasi diaristico, Raboni racconta vicende della sua famiglia ed episodi della propria vita; in questi casi, lo stile basso, prosastico, colloquiale, tende a «fungere da contrappunto all’insorgenza sentimentale» (Curi), frenando la commozione. Il poeta ama infatti indugiare su temi malinconici e in particolare sulla morte, vista nella sua concretezza, priva di qualunque consolazione religiosa. Talvolta lo stesso indugiare sulla descrizione degli oggetti e delle situazioni, densa di particolari realistici, ha l’intento di evitare l’esibizione di un dolore privato, come avviene ad esempio nel testo dedicato alla morte dell’amico Bartolo Cattafi (➜ T22 ) o in altre poesie dedicate ai genitori.

920 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Giovanni Raboni

T21

LEGGERE LE EMOZIONI

Risanamento A tanto caro sangue

G. Raboni, L’opera poetica, a c. di R. Zucco, Mondadori, Milano 2006

La poesia appartiene alla raccolta Le case della Vetra (1966) ed è stata riproposta, con profonde modificazioni, in A tanto caro sangue (1988). Nella zona della cerchia dei Navigli, presso piazza Vetra a Milano, un tempo c’era un quartiere popolare, poi quasi interamente abbattuto per fare posto a un parco (il parco delle due basiliche monumentali di San Lorenzo e Sant’Eustorgio), a cui Raboni ha intitolato la sua raccolta, Le case della Vetra. Il poeta è stato ispirato sia dai propri ricordi, sia dai racconti di suo padre, quando la Milano dei Navigli allora scoperti era ancor più umida e nebbiosa. Ne scaturisce una riflessione nostalgica e malinconica.

Di tutto questo non c’è più niente1 (o forse qualcosa s’indovina, c’è ancora qualche strada acciottolata a mezzo, un’osteria). 5 Qui, diceva mio padre, conveniva venirci col coltello… Eh sì, il Naviglio2 è a due passi, la nebbia era più forte prima che lo coprissero… Ma quello che hanno fatto, distruggere le case, 10 distruggere quartieri, qui e altrove, a cosa serve? Il male non era lì dentro, nelle scale, nei cortili, nei ballatoi3, lì semmai c’era umido da prendersi un malanno. Se mio padre 15 fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra che serva? è il modo? A me sembra che il male non è mai nelle cose, gli direi. La metrica Versi liberi, con frequenti en-

2 il Naviglio: canale artificiale adatto alla

3 ballatoi: lunghi balconi estesi a tutta la

decasillabi.

navigazione, utilizzato per il trasporto delle merci. La copertura quasi completa dei Navigli milanesi risale agli anni Trenta del secolo scorso.

facciata dell’edificio, su cui si aprono le porte delle diverse unità abitative. Le case a ballatoio sono dette anche “di ringhiera”.

1 Di tutto… niente: l’accenno alla distruzione è rafforzato dal riferimento all’incipit di San Martino del Carso di Ungaretti: «Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro».

Analisi del testo “Risanamento” o distruzione? La chiave della poesia è nel titolo, ironico: il termine risanamento era stato infatti utilizzato a proposito della ristrutturazione urbanistica pesantemente intervenuta sui quartieri centrali di Milano, in particolare intorno a piazza Vetra, dove la famiglia di Raboni aveva abitato. Già a partire dagli anni Trenta, quando il poeta era bambino, e poi nel dopoguerra, erano state abbattute molte case popolari, costringendo gli abitanti del quartiere a trasferirsi in zone più periferiche. La poesia fa trasparire il rammarico per ciò che è stato perduto: il vecchio quartiere, di cui l’autore ricerca le tracce con cura amorevole (alcune strade acciottolate, qualche superstite osteria), rievocando le vecchie case abbattute, scomode, umide, vecchie, con i loro ambienti interni, i cortili, i ballatoi, le scale. La nostalgia coinvolge anche gli abi-

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 921


tanti del quartiere, appartenenti alla Milano popolare della “mala”, della malavita (quella poi rievocata ad esempio nelle canzoni di Jannacci), che spesso si arrangiavano con attività illegali (nel quartiere, secondo il padre del poeta, «conveniva venirci col coltello»). Il poeta ricorda come le ristrutturazioni edilizie che mutano il volto del nucleo più antico delle città, cancellandone l’anima, siano avvenute anche altrove (v. 10). Il tema ricorre infatti di frequente nella letteratura moderna, come nella poesia Il cigno (I fiori del male ➜ VOL 3A C4 T5 OL), in cui Baudelaire, passando per il nuovo viale del Carrousel, aperto dove un tempo si ergevano i vecchi quartieri distrutti dallo sventramento, rimpiange una Parigi che ormai esiste soltanto nella sua memoria («La vecchia Parigi non esiste più: come muta / più rapido d’un cuore mortale il volto d’una città!»).

La “linea lombarda”: lo stile colloquiale… Il poeta affida il messaggio a un testo dall’andamento dialogico, più problematico che assertivo, in cui il colloquio è con il padre defunto e l’argomento è il vecchio quartiere. Nelle forme proprie del parlato (come l’esclamazione Eh sì) si riconosce la contaminazione tra poesia e prosa ricercata da Raboni secondo il suo ideale stilistico di “poesia inclusiva”, sull’esempio di Sereni, suo importante punto di riferimento.

... e la riflessione etica La poesia si lega alla “linea lombarda” per la visione etica che la anima: la concretezza con cui è smontata la falsa motivazione del “risanamento” (in realtà attuato per vendere a caro prezzo gli alloggi ristrutturati del centro) e la convinzione che il male (la delinquenza in questo caso) non si vince respingendo quelli che la miseria può aver indotto all’illegalità, né distruggendo i vecchi edifici che li avevano ospitati.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Quali differenze Raboni riconosce tra il quartiere della Vetra nel passato e ciò che ne è rimasto nel presente? Che cosa è stato distrutto? 2. Indica quali versi esprimono un giudizio negativo sul risanamento.

Interpretare

SCRITTURA 3. Nella poesia ritroviamo un tema importante, già toccato da Calvino nel suo romanzo La speculazione edilizia nel 1963 e, ancora prima, da Gadda alla fine degli anni Trenta, nella Cognizione del dolore: la denuncia della speculazione edilizia che deturpa il volto dell’Italia. L’articolo 9 della nostra Costituzione dovrebbe garantire la tutela del paesaggio, ma purtroppo, oggi come ieri, il nostro paese continua a essere sfregiato dall’avanzare del cemento. Rifletti su questo tema ed esponi le tue considerazioni in un testo di massimo 20 righe.

LEGGERE LE EMOZIONI

online T22 Giovanni Raboni Interni clinica 3 A tanto caro sangue

SCRITTURA CREATIVA 4. Prova ora a “mimare” Raboni, scrivendo un componimento, in prosa o in poesia, fondato sulla riflessione nostalgica e malinconica di un luogo o di un quartiere a te noto e cambiato dal tempo che passa. Cerca anche di imitare la tecnica narrativa dell’autore.

online T23 Dario Bellezza Ad un cane L’avversario

922 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

online

Dario Bellezza La narrazione di una vita semplice


Maurizio Cucchi: il racconto enigmatico sul padre perduto La biografia e le opere Nato nel 1945 a Milano, dove vive e dove lavora come traduttore, saggista, critico e consulente editoriale, ha esordito nel 1976 con Il disperso, poi compreso, con le successive raccolte (Le meraviglie dell’acqua, 1980, Glenn, 1982, Donna del gioco, 1987, Poesia della fonte, 1993, L’ultimo viaggio di Glenn, 1999) nel riassuntivo Poesie 1965-2000. Ha poi pubblicato i versi per teatro Jeanne d’Arc e il suo doppio (2008), le raccolte Vite pulviscolari (2009) e Malaspina (2013). È anche autore dei romanzi Il male è nelle cose (2005), La maschera ritratto (2011), L’indifferenza dell’assassino (2012), del volume di prose La traversata di Milano (2007), della raccolta di prose e dei versi sparsi Rebus macabro (2014). Tra i maggiori riconoscimenti ricevuti da Cucchi si segnalano il premio Viareggio (1983), il premio Montale (1993), il premio Bagutta (2014). Ha curato, insieme a Stefano Giovanardi, l’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, 1945-1995 (1996 e 2004) e ha pubblicato una raccolta di saggi e articoli, Cronache di poesia italiana (2010). Collabora con i quotidiani «Il Giorno», «La Stampa» e «Avvenire». L’originale struttura narrativa della poesia di Cucchi Anche la poesia di Maurizio Cucchi ha una decisa impronta narrativa e trova un equilibrio tra racconto e autobiografia, caratterizzandosi per una linea di continuità fra le diverse raccolte, che nell’insieme «paiono comporre un unico libro» (Testa), il cui “filo rosso” è il complesso rapporto con la figura paterna. L’originalità della struttura narrativa dell’opera di Cucchi sta nel fatto che la graduale riconciliazione con il ricordo paterno corre di pari passo con la riconciliazione del poeta con sé stesso. La raccolta d’esordio: Il disperso In un primo momento la figura del padre si affaccia nella poesia di Cucchi in modo enigmatico e allusivo; nell’opera Il disperso si seguono le tracce di un personaggio misteriosamente scomparso: non si sa se è morto, e come, o se invece è fuggito; il protagonista cerca affannosamente indizi e interroga testimoni che, però, offrono versioni incerte e contraddittorie. L’avvicinamento graduale alla figura del padre Soltanto anni più tardi, nel poemetto in prosa Glenn (1982), soprannome del padre, la sua figura appare in piena luce: Glenn racconta frammenti della propria storia, come la drammatica vicenda della campagna di Russia, di cui era stato reduce. Nella raccolta L’ultimo viaggio di Glenn (1999), si aggiungono capitoli della storia del personaggio: lo spaesamento del ritorno e poi il suicidio. Nelle diverse raccolte, il graduale ricomporsi dei frammenti della storia corrisponde al processo psicologico con cui il figlio supera il trauma dell’ultimo gesto, e arriva a comprendere il padre, a vedere la realtà con i suoi occhi; ad assumerlo infine, nonostante tutto, come modello positivo. Il perdono e la riconciliazione coincidono così per l’autore con la scoperta della «parte migliore» di sé. Lo stile di Cucchi: la continuità della “linea lombarda” La poesia di Cucchi è “minimalista”, quasi prosciugata, sobria, vicina alla prosa, densa di oggetti e di situazioni concrete, anche se talora enigmatiche; tali caratteristiche, insieme allo sfondo milanese di molti suoi versi, hanno fatto ascrivere il poeta alla “linea lombarda” della poesia; Cucchi in particolare si avvicina a Giudici, che egli ammira per la sua poesia come ricerca di una verità interiore, inscritta però in un concreto ambito storico-sociale. Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 923


T24 Dopo la lirica, a c. di E. Testa, Einaudi, Torino 2005

Il dialogo a distanza con il padre Questi due testi sono composti a distanza di tempo e riflettono l’evoluzione del rapporto dello scrittore con la figura paterna: il primo (da una raccolta del 1993) rievoca con nostalgia l’infanzia e i momenti felici trascorsi con il padre, il secondo (da una raccolta del 1999) segna la riconciliazione, frutto di un lungo cammino interiore, con la memoria del genitore.

Maurizio Cucchi

T24a

’53 Poesia della fonte L’uomo era ancora giovane e indossava un soprabito grigio molto fine. Teneva la mano di un bambino silenzioso e felice. 5 Il campo1 era la quiete e l’avventura, c’erano il kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno2. Era la primavera del ’53, l’inizio della mia memoria. 10 Luigi Cucchi3 era l’immenso orgoglio del mio cuore, ma forse lui non lo sapeva.

La metrica Una strofa di versi liberi. 1 Il campo: il campo di calcio, allo stadio. 2 il kamikaze... Veleno: soprannomi di quattro giocatori dell’Inter di quegli anni.

3 Luigi Cucchi: il padre del poeta.

Maurizio Cucchi

T24b

Lui se ne andò L’ultimo viaggio di Glenn Lui se ne andò gettandoci nell’improvviso smarrimento. In un sacchetto della polizia, ecco gli assegni, il pettine, 5 la benda per il polso... Ciao, dico adesso senza più tremare. Io ti ho salvato, ascoltami. Ti lascio il meglio del mio cuore e con il bacio della gratitudine, 10 questa serenità commossa.

Analisi del testo Il ricordo del padre e di un’epoca Il testo T24a è incentrato sulla rievocazione di un’epoca piena di sogni e di speranze, come è sottolineato dal titolo, costituito da una data, il 1953 (Cucchi aveva otto anni). La distanza di quel momento felice, presto oscurato dal suicidio del genitore, è sottolineata dal discorso non in prima, ma in terza persona. Soltanto gradualmente si scopre l’identità del padre e del figlio, e il nome del padre occupa un intero verso, a significare l’amore per lui e la commozione del

924 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


ricordo. Uno dei momenti più felici è quello in cui il genitore accompagna il figlio ad assistere a una partita di calcio: quell’occasione crea una complicità fra di loro, e per il bambino, orgoglioso del padre ancora giovane, essere tenuto per mano rappresenta la sicurezza dell’affetto, nell’affrontare l’avventura della partita, resa leggendaria dagli “eroi” del calcio, ricordati con i loro soprannomi, sicuramente oggetto di tante conversazioni tra i due. Ma l’ultimo verso getta un’ombra: il bambino non ha forse saputo esprimere al padre tutto il suo amore, o il padre non ha saputo comprenderlo: «era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva» (vv. 11-12).

L’itinerario di riconciliazione interiore La poesia tratta da L’ultimo viaggio di Glenn (➜ T24b ) traccia un itinerario interiore di riconciliazione con la figura paterna. Anche in questo testo l’uso dei pronomi personali segna le opposte dimensioni della distanza e dell’avvicinamento. Il pronome iniziale Lui, di terza persona indeterminato, segna la massima distanza, quando la famiglia è avvertita del suicidio del padre, di cui restano soltanto degli oggetti («gli assegni, il pettine, / la benda per il polso»), di una concretezza minacciosa e disanimata. L’espressione «se ne andò» dice che la perdita del padre è sentita dal figlio come un abbandono. Il saluto affettuoso «Ciao» che apre la seconda strofa – in cui il poeta si rivolge direttamente al padre – e l’uso del pronome di seconda persona evidenziano la ripresa del dialogo interiore prima interrotto. «Io ti ho salvato» indica la conclusione di un percorso per cui il figlio, riuscendo a comprendere e guardando le cose dal punto di vista del padre, superato l’egocentrismo infantile, torna a vederlo come un modello, fondamento di un riacquisito equilibrio interiore: ora il figlio può, almeno dentro di sé, rivolgersi al padre «senza più tremare», ritrovando in sé la gratitudine per quanto gli ha dato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza i due componimenti evidenziando i rapporti tra padre e figlio. COMPRENSIONE 2. In che senso, nella memoria dell’autore, la figura del padre muta nel tempo? 3. Quali sentimenti legano l’io narrante al padre? Perché sono complessi? ANALISI 4. Quali elementi narrativi e quali riflessivi compaiono nei due testi? Qual è il loro rapporto? LESSICO 5. Indica come l’uso dei pronomi nelle due poesie segni l’evoluzione del rapporto interiore con il padre.

Interpretare

SCRITTURA 6. In un testo di massimo 15 righe spiega in che modo viene tratto il tema del ricordo nei due componimenti.

Vivian Lamarque: la verità dell’infanzia La biografia e le opere Vivian Lamarque, pseudonimo di Vivian Daisy Donara Provera Pellegrinelli Comba, è nata a Tesero, in provincia di Trento, nel 1946. Figlia illegittima, all’età di nove mesi viene data in adozione a una famiglia milanese. È cresciuta a Milano, dove tuttora vive. Nel capoluogo lombardo ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Tra le raccolte poetiche si segnalano: Teresino (1981), vincitore del Premio Viareggio per l’Opera Prima, Il Signore d’oro (1986), Poesie dandole del Lei (1989), Il signore degli spaventati (1992), Una quieta polvere (1996), Poesie per un gatto (2007), Madre d’inverno (2016), Premio Bagutta nel 2017, L’amore da vecchia (2022), Premio Viareggio per la poesia 2023 e Premio Strega Poesia 2023. Collabora con il «Corriere della Sera». Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 925


La poesia come regressione all’infanzia Anche nei versi di Vivian Lamarque dominano temi autobiografici, che la poetessa esprime in uno stile “minimalista”, che cioè privilegia forme semplici, persino elementari, utilizzando, secondo l’esempio di Saba e del primo Caproni, rime facili e orecchiabili, e adottando un tono ingenuo, giocoso, che riecheggia il linguaggio puerile, in una sorta di regressione all’infanzia. Questa scelta ha precise ragioni, in primo luogo di carattere biografico. La scrittrice, infatti, ha vissuto un’infanzia difficile: adottata a nove mesi, si trasferisce con la nuova famiglia a Milano; quando ha quattro anni il padre adottivo muore, a dieci traumaticamente viene a sapere dell’adozione. Poi si sposa, ha una figlia, si separa. Ha fatto l’insegnante e la traduttrice, ha scritto racconti, favole e filastrocche; nel 1981, dopo varie pubblicazioni di versi su riviste, esce la sua prima raccolta di poesie in volume, Teresino. Esperienza decisiva è stata una lunga cura presso un analista junghiano, da cui anche la sua poesia trae ispirazione. La ricerca di una verità profonda Ritornare al punto di vista dell’infanzia, per la Lamarque, significa guardarsi dentro, ma anche ritrovare ingenuità e candore, e riscoprire le intuizioni profonde sulla vita proprie dei bambini, che non giudicano e non condannano. Se un giudizio emerge, nelle sue opere, esso traspare dalle cose stesse, da particolari apparentemente minimi, ma colti con sguardo acuto. Il linguaggio si pone in sintonia con lo sguardo infantile: «l’invenzione (e la forza) dell’autrice sta tutta qui: nell’attrito tra una forma leggera e cantabile, facile fin quasi alla filastrocca […] e un contenuto sentimentale-psicologico affilato e doloroso» (Daniele Piccini). Con il medesimo punto di vista e con il medesimo linguaggio minimalista la scrittrice affronta anche temi profondi e importanti; ad esempio in una breve poesia (dalla raccolta Una quieta polvere, 1996), con un linguaggio lieve, caratterizzato dalla quasi completa assenza di punteggiatura e da una ripetizione di tono infantile, evocando le domande dei bambini che mettono in imbarazzo gli adulti, con una similitudine appartenente a un mondo infantil-adolescenziale, l’autrice tocca con leggerezza il tema della morte: «A vacanza conclusa dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna / la loro vacanza non è ancora finita: / sarà così sarà così / lasciare la vita?».

Vivian Lamarque.

926 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Vivian Lamarque

T25

Babbi Una quieta polvere

V. Lamarque, Una quieta polvere, Mondadori, Milano 1996

In questa poesia, la scrittrice parla dei suoi due «babbi»: il padre biologico, che non l’aveva riconosciuta legalmente, e quello adottivo, morto quando lei aveva quattro anni. Nell’apparente semplicità del testo, l’autrice fa trasparire un confronto fra due figure, una capace di donare amore e sostegno, l’altra chiusa nel proprio egoismo.

Caro babbo I (in ordine di n.) che ti chiamavi E. che facevi il Preside che quando ti ho detto 5 scusi mi hanno detto che lei è mio padre hai fatto un salto indietro hai fatto un salto indietro Caro babbo II (ma primo) 10 che ti chiamavi Dante che facevi il Campione d’Italia di Sollevamento Pesi e il Vigile del Fuoco che salvavi le persone che hai fatto in tempo 15 a salvare anche me prima di morire a 34 anni.

Analisi del testo Un linguaggio semplice ma attentamente calibrato Il linguaggio apparentemente ingenuo, semplice, caratterizzato da frequenti ripetizioni di parole elementari (che, voci del verbo fare), in realtà è attentamente calibrato dall’autrice. Il discorso puerile appare quasi come un copione adatto a una recitazione che trasmetta direttamente le emozioni infantili. Lo sguardo innocente dell’infanzia rivela la diversa statura morale delle due figure. L’espressione burocratica («in ordine di n.»), così come la sola iniziale del nome, E., sottolineano la freddezza e la chiusura del padre naturale. I vv. 3-6 (con l’accavallarsi di «ti ho detto» e «mi hanno detto») sottolineano l’imbarazzo della comunicazione fra il padre naturale e la figlia; a parlare è solo la figlia, che dà del lei al padre appena conosciuto, scusandosi impacciata perché evidentemente dall’altra parte non viene nessun segnale di incoraggiamento. Il verso finale della prima strofa è ripetuto due volte nello stesso identico modo, ma assume due valori diversi, che richiedono una lettura diversa: la prima volta la frase descrive ciò che oggettivamente è avvenuto («hai fatto un salto indietro»), e può essere pronunciata in un tono neutro; la seconda contiene un severo giudizio implicito per un padre, e risulta perciò istintivo per il lettore conferirgli un’intonazione di rimprovero.

Il contrasto tra il padre naturale e il padre adottivo La seconda strofa, dedicata al secondo padre, è in apparenza speculare alla prima, ma in realtà di tono del tutto diverso: il padre adottivo, chiamato con il suo nome, appare come un uomo generoso e protettivo, quasi un eroe per la bambina, come risulta dalle maiuscole che contrassegnano le sue attività: salvare (parola chiave della poesia) è il compito del padre, vigile del fuoco, ed è ciò che egli è riuscito a fare per Vivian, nella pur breve vita che il destino gli ha riservato.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 927


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto dei due componimenti (massimo 8 righe complessive). ANALISI 2. Confronta le figure dei due babbi nelle parole dell’autrice. STILE 3. Quali sono gli effetti dello stile minimalistico adottato? Lo ritieni efficace? Per quali ragioni?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il rapporto con la figura paterna che emerge dalle poesie di Vivian Lamarque con quello che viene presentato da Saba, tra i modelli di riferimento della poetessa, in Mio padre è stato per me l’assassino (➜C3 T7 ).

La narrazione della vita intensa: Milo De Angelis La biografia e le opere Milo De Angelis nasce nel 1951 a Milano. Esordisce nel 1976 con la raccolta Somiglianze. Seguono poi Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010); Incontri e agguati (2015); Linea intera, linea spezzata (2021). Ha tradotto molte opere dal francese e dalle lingue classiche. Nel 2017 è stato insignito del Premio Lerici alla carriera. Nello stesso anno la sua opera completa è stata pubblicata nel volume Milo De Angelis. Tutte le poesie 1969-2015. Una via diversa dalla Neoavanguardia È uno dei poeti che si oppongono alla Neoavanguardia; per lui la poesia non deve rappresentare l’attualità, ma cogliere la verità dell’esperienza, e «saper andare oltre, superarla, aspirando a qualcosa di assoluto, alto», come ha dichiarato in un’intervista. Per diffondere l’idea di una poesia che restituisca priorità all’esperienza soggettiva, fonda nel 1977 la rivista «Niebo», destinata ad avere un’influenza notevole sui poeti delle più giovani generazioni. Al centro dell’opera di Milo De Angelis è la percezione dell’intensità della vita, un’esperienza che il poeta trae dalla finitezza della vita stessa, dal senso che il tempo dato è limitato e irrevocabile. Per questo predilige situazioni di vita intense, in cui viene accolta la sfida del destino, ed emerge un vitalismo che ha radici nella filosofia di Nietzsche. L’intensità di vita e il suo riflesso nello stile Le situazioni di vita intense, per De Angelis, non sono solo quelle oggettivamente significative o drammatiche, ma spesso momenti infantili o adolescenziali, in cui ci si mette alla prova: possono essere gare sportive, sfide giovanili, situazioni rischiose, vissute con vivificante emozione. Queste situazioni di vita intensa, che hanno spesso come sfondo il paesaggio metropolitano milanese, sono rese in uno stile dinamico, di bruciante intensità, spesso ellittico, accelerato, con una narrazione per rapidi scorci, «con un continuo mutamento dei soggetti, dei tempi e delle azioni rappresentate» (Testa); è caratteristico del poeta anche il ritmo martellante e percussivo, come pure l’energia del verso, che appare come il corrispettivo stilistico della volontà di padroneggiare gli eventi. Fra le ultime raccolte di De Angelis, Tema dell’addio (2005) è dedicata alla morte della moglie (2003), la poetessa Giovanna Sicari. Più che come una narrazione continuata, la raccolta è strutturata come il susseguirsi dei momenti più intensi della online vita in comune, vissuti con bruciante e poi dolorosa intensità, T26 Milo De Angelis dai momenti spensierati e felici dei primi incontri, all’annuncio Per quell’innato scatto Biografia sommaria (sezione III, della gravidanza, alla malattia, alla vita che si spegne a poco a Capitoli del romanzo) poco, all’addio.

928 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


Milo De Angelis

T27 M. De Angelis, Tema dell’addio, in Poesie, Mondadori, Milano 2008

Non è più dato Come in una serie di istantanee, la poesia scandisce i momenti vissuti con la moglie, ancora intensamente presenti nel ricordo, ma anche nella consapevolezza che non potranno più tornare.

Non è più dato. Il pianto che si trasformava in un ridere impazzito, le notti passate correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro 5 il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto, nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore. Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola la morte, poche le ossessioni, poche 10 le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade che portano fuori di noi, poche le poesie.

La metrica Versi liberi.

Analisi del testo L’addio a una stagione della vita In Non è più dato, l’addio non è soltanto alla donna amata, ma a una stagione della vita, la giovinezza. Tema fondamentale della poesia è l’irrevocabilità del tempo, scandito dall’iterazione, ripetuta con un ritmo martellante, della frase «Non è più dato», che indica la presa di coscienza di un destino di cui è avvertita la tragicità senza possibilità di riparazione. Lo stilema dell’iterazione ossessiva si associa – come il poeta osserva a proposito di un altro testo della stessa raccolta – a «un bilancio di ciò che rimane e di ciò che è scomparso per sempre. È una sorta di resoconto giuridico della vita e della morte: da una parte, quello che ha diritto di esistere e, dall’altra, quello che invece non può ritornare. È un furore matematico: questo è passato, questo c’è ancora. È come se, nel nubifragio della perdita, fosse l’unico modo di fare chiarezza, di salvare il salvabile, di aggrapparsi a una certezza».

Lo stile dinamico dell’intensità della vita I versi, lunghi e spezzati, scanditi da frequenti cesure, sembrano illuminare per un attimo, come brevi folgorazioni, momenti di vita rimasti impressi nella memoria. Il dinamismo e l’energia emotiva sono sottolineati anche dal lessico, caratterizzato da verbi d’azione (correndo, inseguendo) e da termini associati alla sfera delle emozioni più intense, legate alla giovinezza (ridere impazzito, batticuore, tumulto, frenesia). La poesia può essere divisa in due parti, entrambe aperte dalla frase Non è più dato: la prima (vv. 1-7) incentrata sulla dolorosa presa di coscienza dell’irrevocabilità del passato, la seconda sul tentativo di tracciare un bilancio della vita, riconoscendone la brevità (con il suggerimento implicito di viverla intensamente), come sottolinea la ripetizione di espressioni chiave (uno solo, una sola; poche, pochi). In primo piano anche il tema dell’unicità del destino che ciascuno è chiamato ad affrontare («poche le strade / che portano fuori di noi»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Riporta le parole del testo che si riferiscono alla vita vissuta nella sua pienezza. STILE 2. Il testo è caratterizzato da numerose anafore. Qual è la loro funzione?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di massimo 3 minuti spiega quale concezione della vita emerge nella poesia.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 929


Patrizia Valduga: il manierismo stilistico come freno alle emozioni La biografia e le opere Nasce a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, nel 1953. Tra le sue raccolte vanno ricordate: Medicamenta (1982), la raccolta con cui esordisce; La tentazione (1985); Donna di dolori (1991); Requiem (1994); Corsia degli incurabili (1996); Cento quartine e altre storie d’amore (1997); Quartine. Seconda centuria (2001); Lezione d’amore (2004); Il libro delle laudi (2012); nel 2018, l’antologia Poesie erotiche e il saggio Per sguardi e per parole; Belluno. Andantino e grande fuga (2019). Autrice di numerose traduzioni di autori inglesi e francesi, nella sua poesia affronta prevalentemente temi privati e personali, superando l’immediatezza emotiva attraverso uno stile che si potrebbe definire manieristico, perché riprende con strenua esattezza le strutture metriche e retoriche della poesia dei primi secoli, utilizzando forme canoniche del passato – come il sonetto, le terzine dantesche, l’ottava, la sestina – con regolari schemi di rime, giochi retorici ed esercizi stilistici spesso ispirati alla poesia barocca, da lei prediletta. Arginando in questo modo il flusso disordinato delle emozioni, la scrittrice tratta temi come l’amore, per lo più inteso in senso erotico, rifacendosi anche spesso al tema barocco della vanitas e dell’incombere finale della morte e della dissoluzione del corpo. Se in molti testi il particolare stile adottato non è disgiunto da una componente ironica, nella raccolta dedicata alla malattia e alla morte del padre, Requiem, lo stile funge efficacemente da argine a una commozione che rischierebbe di essere troppo intensa, per la perdita di una persona tanto amata e venerata, da costringere l’autrice a un’impietosa resa dei conti con sé stessa, per il suo non sentirsi degna dell’esemplare figura paterna.

Patrizia Valduga

T28 P. Valduga, Requiem, Einaudi, Torino 2002

Requiem In un dialogo interiore con il padre, dopo la sua morte, la poetessa ne rievoca il calvario della malattia e la capacità di insegnare ai suoi cari, fino all’ultimo momento, come si vive «con onore».

VI. Sedevi e ragionavi al tuo dolore1: per non darci dolore custodivi il tuo dolore tutto dentro al cuore, e quella poca vita benedivi2 5 e la perdevi quasi con onore giorno per giorno, per noi così vivi nell’estate dei morti, al sole d’oro. Forse dicevi il tuo dolore a loro. […] La metrica Ottave di endecasillabi, con il tradizionale schema ABABABCC. 1 ragionavi al tuo dolore: controllavi il

tuo dolore, cercando di ragionare con la tua sofferenza. 2 quella... benedivi: rendevi più degna

930 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento

la poca vita rimasta (ma anche ne eri riconoscente).


XX. Dio, ti scongiuro, prendigli la mente, non torturare un cuore torturato, oh, fa’ presto, fa’ che non senta niente, che è insanguinato, cateterizzato, 5 piagato... Finisci pietosamente l’opera che da tanto hai cominciato, salvalo dall’angoscia, salvatore, e fammi grande come il mio dolore! Oh padre padre, patria del perdono3, 10 mi hai dato questa vita e questo cuore, mi hai dato tutto quello che ho di buono, e io a te non ho dato che dolore, e il non volermi ancora come sono4... oh padre padre, anche come si muore 15 tu mi hai insegnato, il senso della vita dentro la morte, a prezzo della vita... 3 patria del perdono: nel senso che il solo che possa perdonare è il padre, e quin-

di a lui la poetessa rivolge la richiesta di perdono.

4 il non volermi... sono: il non accettarmi.

Analisi del testo La poesia dei sentimenti fondamentali dell’essere umano Come Saba (in Amai ➜ C3 T10 ) riprende la rima fiore : amore, «la più antica, difficile del

mondo», Patrizia Valduga sceglie le parole più semplici e comuni della vita, per esprimere sentimenti ed esperienze universali. Questi termini chiave sono sottolineati da ripetizioni, anche in rima (dolore : cuore). Nella prima delle ottave antologizzate la parola chiave dolore ritorna infatti in modo quasi ossessivo (quattro volte nel breve giro di un’ottava, la prima in rima nel verso d’apertura): questo insistito richiamo esprime la volontà della figlia d’immedesimarsi nella sofferenza che il padre, con atteggiamento composto e dignitoso, celava ai suoi cari, per non farli soffrire. Il ritmo martellante conferito dalla ripetizione della parola chiave rende particolarmente intensa l’espressione del sentimento; il termine onore (in rima con dolore) sottolinea il carattere esemplare della figura paterna. Il tema della morte è sottolineato dal contrasto tra la «poca vita» del padre e lo splendore delle belle giornate autunnali che i suoi familiari possono godere.

Le parole chiave della raccolta La seconda ottava è più dura e realistica. Scritta al presente, si rivolge a Dio, chiedendo di porre fine alla tortura del padre, di annullargli la coscienza, e di aiutare la figlia a sopportare un dolore così grande. Tra i campi semantici prevale quello della sofferenza (non torturare, cuore torturato), messo in rilievo anche dall’omoteleuto («insanguinato, cateterizzato, / piagato»). Al campo semantico della sofferenza si contrappone quello dell’invocato soccorso (salvalo, salvatore, sottolineati dalla figura etimologica).

Lo stile e il modello della poesia mistica di Jacopone Con la loro elaborata tessitura retorica e la frequenza di anafore, allitterazioni, ossessive ripetizioni, le ottave danno voce all’irrimediabilità del lutto ed evocano, in un rapporto umano così fondamentale come quello fra padre e figlia, cadenze che ricordano la poesia religiosa di Jacopone da Todi, nella lauda Donna de Paradiso, anch’essa caratterizzata da un’invocazione ripetuta, della madre al figlio. Nel momento della sua scomparsa, la poetessa si rivolge al padre per chiedergli perdono, in una sorta di preghiera laica, dopo aver tratto il bilancio di una vita di cui, a confronto di quanto il padre ha saputo donare, tanto più acutamente sono sentite le imperfezioni.

Poesia autoritratto e poesia narrativa 4 931


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale “confessione” fornisce la scrittrice nel testo dedicato al padre? STILE 2. Ricorre spesso nei due testi la figura della ripetizione. Che effetti ottiene? In quali versi ti sembra che risulti più efficace? 3. Nelle ottave, sono numerose le apostrofi: individuale e spiegane lo scopo comunicativo.

Interpretare

online T29 Davide Rondoni Il terzo figlio Apocalisse amore

TESTI A CONFRONTO 4. La rappresentazione della morte del padre è ricorrente nella letteratura. Facendo riferimento alle tue letture, istituisci un confronto tra la poesia di Patrizia Valduga e componimenti di altri autori a te noti, in merito a questo tema.

online T30 Davide Rondoni Pantani Pro nobis

Fissare i concetti Linee della lirica del secondo Novecento Le innovazioni della poesia del secondo Novecento 1. Quali sono le caratteristiche fondamentali della poesia della Neoavanguardia? 2. Quali sono le ragioni del “processo” all’Ermetismo? La poesia a confronto con la storia 3. Per quale motivo Franco Fortini può essere definito un “intellettuale critico”? 4. Quale posizione mantenne Vittorio Sereni nei confronti della storia rispetto ad altri artisti? 5. Come viene rappresentata l’”attualità” nella poesia di Antonio Porta? 6. Quale sguardo sulla storia caratterizza la poesia della Szymborska? 7. Quali temi vengono toccati dalla poesia di Erri De Luca? La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione 8. Cosa si intende con “alienazione “nel contesto della poesia del secondo Novecento? 9. Come viene presentata l’alienazione del lavoro impiegatizio nell’opera di Pagliarani? 10. Quali sono le principali innovazioni in poesia apportate dal movimento della Neoavanguardia? 11. Quali aspetti caratterizzano la poesia di Sanguineti come innovativa rispetto alla lirica del primo Novecento? 12. Con quali modalità Giudici sviluppa nei suoi testi il tema dell’alienazione? 13. Come presenta Magrelli l’alienazione del mondo mass-mediatico? Poesia autoritratto 14. Cosa si intende con l’espressione “poesia autoritratto”? 15. Quali caratteristiche presenta il cosiddetto “classicismo inquieto” di Cardarelli? 16. Come può essere caratterizzata la poesia di Sandro Penna? 17. Quali difficili esperienze hanno segnato la vita e l’opera di Alda Merini? Poesia narrativa 18. Quali temi e quali scelte stilistiche contraddistinguono la poesia di Attilio Bertolucci? 19. Come può essere definita la poesia di Raboni? 20. Come viene rappresentata la figura paterna nell’opera di Cucchi? 21. Quale immagine dell’infanzia emerge dalla produzione poetica di Vivian Lamarque? 22. Perché Milo De Angelis rappresenta una via diversa all’avanguardia? 23. Perché parlando dello stile di Patrizia Valduga si può parlare di manierismo? 24. Quali caratteristiche presenta la poesia al femminile del secondo Novecento?

932 Il Novecento (Seconda parte) 17 Linee della lirica del secondo Novecento


NovecentoeeTrecento Duecento oltre La letteratura Linee della lirica cortese nella del secondo FranciaNovecento feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Le innovazioni della poesia del secondo Novecento

La poesia del secondo Novecento è caratterizzata da un’estrema varietà di linee tematiche e di tendenze stilistiche. Già alla metà del secolo entra in crisi la lirica pura e il suo linguaggio simbolico-allusivo, e si avverte l’esigenza di un più diretto legame della poesia con la realtà: Salvatore Quasimodo (1901-1968) le assegna il compito di “rifare l’uomo” e, abbandonato l’Ermetismo, adotta uno stile più colloquiale e apertamente comunicativo per rappresentare le tragedie della Seconda guerra mondiale e per denunciare il divario tra lo sviluppo tecnologico del Novecento, e il mancato progresso morale, poiché il comportamento dell’uomo è ancora dominato da un’istintività primordiale.

2 La poesia a confronto con la storia

La storia (il secondo conflitto mondiale, la persecuzione degli ebrei, il boom economico, l’industrializzazione) è centrale anche nell’opera di Vittorio Sereni (1913-1983), considerato il principale esponente di una linea (definita “lombarda” dal critico Luciano Anceschi) caratterizzata da un rapporto critico con la realtà, dalla sobrietà stilistica, dall’apertura a diverse voci dialogiche e dall’impegno morale, pur nel rifiuto del ruolo di “poeta vate”.

3 La poesia come specchio della società: il tema dell’alienazione

Con l’emergere della società consumistica e dei mass media, negli anni Sessanta, il ruolo critico della poesia si accentua ulteriormente e investe in particolare il linguaggio, visto come strumento di alienazione: di qui le innovazioni dei poeti della Neoavanguardia, che, attraverso il montaggio di testi e linguaggi eterogenei, mettono in luce i condizionamenti ideologici che vengono veicolati attraverso un uso strumentale della parola.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 933


4 Poesia autoritratto e poesia narrativa

La tendenza al rinnovamento del secondo Novecento coinvolge anche forme di poesia più tradizionali, come quella narrativa e quella rivolta alla confessione dell’io, di cui esplora il carattere complesso, in sintonia con la cultura del Novecento e con la psicoanalisi. La complessa stratificazione dell’io emerge anche nella poesia di Andrea Zanzotto (19212011), caratterizzata da un marcato sperimentalismo linguistico che apparentemente può ricordare la Neoavanguardia, ma che è rivolto a scopi diversi: cercare l’autenticità occultata dietro una lingua banale e usurata. Attraverso il linguaggio Zanzotto cerca di riportare alla luce le radici profonde dell’essere, compiendo con la sua poesia una ricerca di natura filosofica. Lo stretto legame tra poesia e filosofia caratterizza anche alcune delle più significative raccolte di Giorgio Caproni (1912-1990), su temi come il limite della conoscenza umana, la ricerca di Dio, l’origine del Male, l’essenza del Bene. Nella poesia di Caproni sono frequenti le allegorie e le ambientazioni “metafisiche”: luoghi urbani che si rivelano passaggi verso un’altra dimensione, misteriosa e sconosciuta. Nella poesia di Zanzotto e di Caproni, i grandi interrogativi dell’esistenza sono affrontati da un punto di vista fondamentalmente laico. Nell’opera di Mario Luzi (1914-2005) gli stessi interrogativi sono affrontati invece sulla base di una religiosità profonda, ma inquieta, per l’impossibilità di trovare una spiegazione alla presenza del male nel mondo e alla violenza della storia. La poesia del secondo Novecento si presenta dunque con una straordinaria varietà di temi e di generi, ed esplora a fondo le possibilità della lingua, rivelandone la complessità affascinante e mai prima così sottilmente messa in luce.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Presenta oralmente (circa 5 minuti) la denuncia della società consumistica e dei suoi idoli attraverso l’opera di Sanguineti e di Magrelli.

Scrittura

2. Presenta, in un testo di circa due colonne di foglio protocollo, come e con quali significati la quotidianità – oggetti, situazioni, personaggi, luoghi – irrompe nella lirica del secondo Novecento.

Competenza digitale

3. Per le scelte compositive di alcuni autori si è parlato di tecniche affini a quella del montaggio cinematografico. Rintraccia e analizza l’uso di questa tecnica nelle poesie di Porta e Pagliarani, individuando per le diverse sequenze narrative il tipo di inquadratura più adatto e l’apparizione di diversi personaggi nella scena rappresentata. Realizza un PowerPoint, che illustri il risultato del tuo lavoro, da presentare alla classe.

934 Il Novecento (Seconda parte) Linee della lirica del secondo Novecento


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano V. Sereni, Amsterdam, Gli strumenti umani, sezione Apparizioni o incontri in V. Sereni, Poesie, a. c. di D. Isella, Mondadori, Milano 1995.

A portarmi fu il caso tra le nove e le dieci d’una domenica mattina svoltando a un ponte1, uno dei tanti, a destra lungo il semigelo d’un canale2. E non 5 questa è la casa, ma soltanto -mille volte già vista3sul cartello dimesso: «Casa di Anna Frank». Disse più tardi il mio compagno: quella 10 di Anna Frank non dev’essere, non è

privilegiata memoria. Ce ne furono tanti che crollarono per sola fame senza il tempo di scriverlo. Lei, è vero, lo scrisse. 15 Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più ritrovandola sempre. Per questo è una e insondabile4 Amsterdam nei suoi tre quattro variabili elementi 20 che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori che quanto è grande il suo spazio perpetua5, anima che s’irraggia ferma e limpida su migliaia d’altri volti, geme 25 dovunque e germoglio6 di Anna Frank. Per questo è sui suoi canali vertiginosa7 Amsterdam. Comprensione e analisi Interpretazione

1 svoltando a un ponte: nella poesia di Sereni gli incontri e le apparizioni avvengono spesso a una svolta di strada. 2 il semigelo di un canale: un canale semigelato. 3 mille volte già vista: da altri visitatori. 4 insondabile: impenetrabile. 5 perpetua: il verbo nel contesto è usato transitivamente, con il significato di “riproduce, moltiplica”. Il soggetto è Amsterdam e l’oggetto colori ed elementi. 6 geme … germoglio: la paronomasia che unisce le due parole sottolinea il fatto che tutta la città di Amsterdam reca impressa la drammatica vicenda di Anna Frank. 7 vertiginosa: che dà le vertigini. Amsterdam è vertiginosa perché conduce il visitatore verso dolorose meditazioni.

1. Presenta il contenuto della poesia e descrivine sinteticamente la struttura metrica. 2. Cosa intende, secondo te, Sereni, quando parla di una «privilegiata memoria» (v. 10)? 3. Qual è la figura retorica più ricorrente nel componimento? Quale funzione espressiva ricopre? 4. Qual è, secondo te, la funzione delle due parti della poesia? Questa poesia, ricordando la tragica vicenda di Anna Frank, ci fa comprendere come la letteratura sia una risorsa privilegiata della memoria. Partendo dal testo di Sereni, elabora una tua riflessione sul tema, facendo riferimento ad altri autori o forme d’arte a te noti.

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Di che cosa si occupa la letteratura? «La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità», scrive Antonio Tabucchi (1943-2012) nel suo romanzo Sostiene Pereira (1994). Partendo dalla considerazione di Tabucchi e traendo spunto dalle tue conoscenze e dalle tue letture, esponi il tuo punto di vista sul tema proposto.

Verso l’esame di Stato 935


Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

18 Amelia Rosselli L’autrice vista dal critico Pier Vincenzo Mengaldo… Ma l’aggressione disgregatrice perpetrata da questi «versi fatti con furore di distrazione» pochissimo o nulla ha in comune con lo sperimentalismo guidato e tecnologico della neo-avanguardia […] ed esattamente opposto ne è l’esito: una scrittura, o piuttosto una scrittura-parlato, intensamente informale, in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione assoluta della lingua della poesia a lingua del privato. P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Meridiano Mondadori 1978

… e dal critico Stefano Colangelo L’imprevedibile corto circuito provocato, già negli anni Cinquanta, da Amelia Rosselli tra l’occorrenza di due sistemi formali – la composizione musicale e la ricerca metrica – e l’assimilazione nativa di tre lingue – l’inglese, il francese e solo più tardi l’italiano – rende ancora oggi vano il tentativo di ricollocare l’autrice in un determinato contesto di militanza letteraria, tutto e solamente tradizionale e nazionale. Poesia del Novecento. Dal secondo dopoguerra ad oggi, a cura di N. Lorenzini, voce redatta da S. Colangelo, Carocci 2002

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Amelia Rosselli è stata una delle voci poetiche più intense del secolo scorso in Italia. La sua produzione, intrecciata anche drammaticamente con la biografia, costituisce un unicum nella poesia italiana. Ha fama di essere “oscura”, ma la sua è l’oscurità piena di luce dei poeti simbolisti che si situano all’origine della poesia moderna e con la sua poesia sempre tenta di dire l’indicibile. Amelia Rosselli è difficile e facile: una poetessa di formazione musicale, incantata sia dalla dodecafonia che dal canto popolare, capace come Gozzano di far cozzare aulico e prosaico, colloquialità e lingua petrarchesca.

1 Ritratto d’autrice lingua 2 Una sperimentale 937 937


1 Ritratto d’autrice 1 Una poesia facile e difficile Oscurità nobile Amelia Rosselli è stata una delle voci poetiche più intense del secolo scorso in Italia. La sua produzione poetica, scandita dagli studi di musicologia e intrecciata anche drammaticamente con la biografia, costituisce un unicum nella poesia italiana. A proposito della sua opera andrebbe subito sfatato un luogo comune, che rischia di tenerne lontani troppi lettori. Amelia Rosselli, autrice “apolide” (Pasolini) e trilingue (conoscenza di italiano, inglese e francese), ha fama di essere “oscura”. In poesia esiste una oscurità giustificata, “nobile”, che è parte della sua stessa natura di linguaggio allusivo, anticonvenzionale: è l’oscurità piena di luce dei poeti simbolisti che inaugura la poesia moderna, e poi dei nostri ermetici, una oscurità che tende la parola fino all’estremo, che prova a dire l’indicibile. Il poeta Vittorio Sereni ha osservato che l’esperienza umana, fatta egualmente di pensieri ed emozioni, è inesauribile, e che «mai tutto è veramente detto». C’è una oscurità gratuita, che coincide con un gergo per iniziati e che serve solo a simulare profondità: il filosofo Nietzsche in uno dei suoi taglienti aforismi scrive che quando vediamo l’acqua torbida di un fiume pensiamo che sia profonda anche quando non lo è. L’oscurità di Amelia Rosselli, consegnata ai suoi versi lunghi, concatenati, a una lingua vertiginosa e continuamente reiventata, è sempre necessaria, alla ricerca di una comunicazione intensificata. La sua poesia è profondamente “realista”

Cronologia interattiva 1922

Marcia su Roma. Affermazione del fascismo in Italia.

1939

Ha inizio la Seconda guerra mondiale.

1930

1940

I nazisti entrano a Parigi.

1945

1940

1930

1940-1946

Nasce a Parigi.

Esule a Londra, in Canada, negli Stati Uniti. 1937

Il padre Carlo viene ucciso dai fascisti in un attentato.

938 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli

1956

Termina la Seconda guerra mondiale.

1950

1946

1961

Intervento armato dell’URSS in Ungheria.

Primo rientro in Italia.

Viene eretto il muro di Berlino.

1960

1964

Pubblica Variazione belliche.


– come ha sottolineato Pasolini –, intende cioè aderire fedelmente alla realtà, soltanto che per lei la realtà è caotica, sfuggente, metamorfica. Per accostarla occorre dunque avere contatto con una lingua poetica particolarissima, in qualche modo sismica: in essa ogni parola «appare sempre pronta a sbandare o a tracimare in un’altra», come sottolinea il poeta Giovanni Giudici, generando una permanente labilità di significato, a tratti disorientante. Eppure in essa sentiamo sempre una incandescente sincerità, la evidenza di una «componente di vita vissuta» (Giudici), dove l’esperienza più intima e privata trova il suo ritmo, e coglie una verità abbagliante che ci riguarda tutti. Eccone un esempio, a proposito di un sentimento di amore tormentoso e purissimo, “disinfettato”:

Amarti e non poter far altro che amarti, inconvenienza di cui soffrii una volta e poi non più, per poi ricadere. Soffrendoti invitavi: parlare più chiaro, lacerare l’aria di piccoli gridi ottusi, poi disinfettare l’aria stessa e chiamarla amore anch’essa […] (da Serie ospedaliera, in Le poesie, Garzanti, Milano 2007)

È una poesia difficile e facile al tempo stesso, intrattabile ma anche accogliente, per una ragione molto semplice. Nei suoi studi di musicologia Amelia Rosselli è attratta sia dalla musica dodecafonica, che dissolve il sistema tonale allontanandosi da qualsiasi consuetudine di ascolto, e sia dalla musica popolare, fatta di ripetizioni e schemi riconoscibili. Una poesia che non è mai cedimento al caos e all’informe: proprio l’idea di un lapsus controllato – la sua lingua ne è piena (non dice “fra quelli” ma “fra di quelli”), come anche di deformazioni morfologiche, volute sgrammaticature, giochi di parole, ambiguità semantiche – già indica una volontà di controllo formale.

1968

1985

Contestazione studentesca. 1969-1974

Serie di attentati terroristici in Italia.

1970

1969

Serie ospedaliera.

1989

Michail Gorbacev viene eletto segretario generale del PCUS.

È abbattuto il muro di Berlino.

1980

1976

Documento.

Appunti sparsi e persi.

La CEE diventa Unione Europea

1996

Ristampa Libellula.

1983

1995

2000

1985

Si trasferisce definitivamente a Roma. Primi scritti.

Processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica.

1990

1980

1980

1990-1991

Suicidio a Roma.

1990

Esce Diario ottuso.

1981

Improptu.

Ritratto d’autrice 1 939


In essa avviene un continuo gioco di opposti: dissonanza e armonia, ironia e strazio, ordine rigoroso e apparente dismisura. Non tutto si capisce dei suoi componimenti, basati su associazioni a volte incongrue di immagini, sulla misteriosa apparizione di animali (che potrebbe far pensare a una ispirazione surrealista), su allitterazioni spiazzanti, su parole che sembrano germinare da altre parole. Ma uno degli insegnamenti del linguaggio poetico è che una poesia si può amare senza “possederla” del tutto: dobbiamo solo farla risuonare per un po’ dentro di noi, provando a percepire non tanto e solo la sua metrica quanto la sua vibrazione e prosodia, la sua cadenza ritmica, i suoi “campi ritmici”, abbandonandoci alla molteplicità di significati che evoca. Come ha detto un autorevole critico, Pier Vincenzo Mengaldo, la poesia di Rosselli benché «vissuta anzitutto come abbandono al flusso buio della vita psichica e dell’immaginario», risulta sempre orientata da «una disperata volontà di colloquio». In Amelia Rosselli, che ha personalmente sfiorato gli orrori del Novecento, ricavandone cicatrici indelebili, vita e opera sono continuamente annodate tra loro. Vediamo in che modo.

2 La vita e l’opera Le origini e la giovinezza Nasce a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli, esule antifascista, attivissimo cospiratore, fondatore del movimento “Giustizia e libertà” ispirato a un ideale socialista e antitotalitario (in seguito travasato nell’esperienza del Partito d’Azione) e da Marion Cave, inglese e attivista nel partito laburista. Amelia ha solo sei anni quando il padre parte volontario per la Spagna, a combattere il franchismo nella guerra civile. Un anno dopo Carlo e Nello Rosselli sono uccisi durante una imboscata fascista, su esplicito ordine di Mussolini. Questi eventi, e il suo continuo fuggire e peregrinare da un paese all’altro, lasciarono una traccia indelebile su di lei, traducendosi in un disturbo mentale confinante con la psicosi: diagnosi di schizofrenia paranoide e depressione. Un disturbo che riaffiora di continuo, fino al tragico gesto conclusivo, l’11 febbraio 1996. Era convinta di essere seguita dai servizi segreti che volevano ucciderla. La sua figura, fragile – come la libellula che intitola un suo poema multilingue – ma ostinata, poteva opporre al male solo la grazia della scrittura poetica, unico radicamento di una esistenza nomade e travagliata. Torniamo alla giovinezza: resta a Parigi fino al 1940, l’anno dell’invasione nazista che costringe lei e la madre a riparare a Londra. Poi in Canada e a New York, dove continua gli studi. Dopo la guerra, a sedici anni, viene in Italia, e raggiunge la casa della nonna a Firenze. Ma non riesce a ottenere la convalida degli studi, dunque è costretta a ripartire per Londra, dove comincia a studiare violino, pianoforte e composizione.

Il padre di Amelia, Carlo Rosselli.

940 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli


Parola chiave

Musica e poesia Gli interessi musicali predominano su quelli letterari per tutti gli anni Cinquanta, anche se lavora come traduttrice dall’inglese. Scrive saggi di etnomusicologia , studia con importanti musicisti come Luigi Dallapiccola, Sylvano Bussotti e Goffredo Petrassi, frequentando i corsi estivi di Darmstadt, culla della musica atonale e post-tonale. Le sue riflessioni sulla musica sono raccolte in Spazi metrici, dove è influenzata dalla metafisica del silenzio di John Cage, geniale allievo di Schönberg. In quegli stessi anni inizia a coltivare la passione per la poesia e ha una relazione di amicizia e amore con il poeta lucano Rocco Scotellaro, morto precocemente nel 1953. Musica e poesia interagiscono continuamente tra di loro. Stabilità della forma e instabilità della lingua: il verso diventa per lei uno “spazio cubico”, tridimensionale – contrapposto al verso libero della poesia moderna, definito “esausto” – forma esatta e ben salda, che impone un limite alla mutevolissima lingua ma permette al suo “babelare commosso” di esprimersi, come lei stessa l’ha definita nella prima poesia di Variazioni belliche. “Babelare” nel senso di una lingua babelica, magmatica, composta di tanti gerghi e idiomi, “commosso” perché scandito da una emotività palpitante, ferita. Non bisogna però concludere che si tratti di poesia per iniziati, o che per apprezzarla ci sia bisogno di studiare la musica atonale e la linguistica moderna. Dato che coincide con un «abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica» (Pier Vincenzo Mengaldo, in Poeti italiani del Novecento, 1978), con una scrittura informale vicina al parlato, allora il lettore dovrà anch’egli abbandonarsi allo stesso flusso, rinunciando a voler interpretare tutto: la poesia di Amelia Rosselli, che si sforza di dire l’indicibile, resiste a ogni chiarificazione ultima. Nell’opera rosselliana si esprime una volontà di identificazione con chi non ha voce, con la tradizione orale della musica, con la poesia popolare caratterizzata dalla anonimia dei cantori. Un’influenza significativa esercitata dal lavoro etnomusicologico di De Martino e Carpitella è rintracciabile in Cantilena (poesie per Scotellaro), canzoniere dedicato all’amico scomparso prematuramente, che è costruito come un lamento funebre, tradizionalmente fondato sulla iterazione.

etnomusicologia Diego Carpitella (Reggio di Calabria 1924 - Roma 1990), etnologo e studioso di musica popolare, influenzato dall’opera di Bela Bartòk; fu tra gli iniziatori in Italia dell’etnomusicologia, che consiste nello studio delle tradizioni orali di tutte le musiche del mondo. Dall’inizio degli anni Cinquanta prese

parte con un’équipe interdisciplinare guidata da Ernesto De Martino (antropologo, studioso del sacro) alle ricerche sul pianto rituale in Lucania e sul tarantismo nel Salento, nelle quali vennero documentati aspetti originali della cultura musicale popolare italiana.

Musica atonale (o dodecafonica) Spesso ostica all’ascolto, e perfino in contrasto con la fisiologia acustica dell’orecchio – almeno come si è formata in Occidente – risulta incomprensibile al di fuori del clima primonovecentesco di un’epoca segnata dalle avanguardie artistiche e letterarie (da Joyce al futurismo). Ideata dal grande musicista Arnold Schönberg, benché preannunciata in musicisti dell’Ottocento come Wagner, sovverte gli schemi della musica occidentale, basata su una gerarchia di suoni. Qui troviamo invece una serie di dodici suoni – i 12 semitoni della scala cromatica temperata, nata alla fine del Seicento – tra loro in relazione perfettamente

egualitaria, con effetto disorientante sull’ascoltatore, privo di punti di riferimento. Viene infatti a mancare la tonica, cioè la nota fondamentale dell’accordo, né si percepisce più alcuna melodia. A volte accusata di intellettualismo ed esasperata artificiosità – in Italia ha avuto una accoglienza limitata – la musica atonale costituisce però la rivoluzione musicale più importante del secolo scorso. A rigore anche tradizioni musicali diverse dalla nostra – ad esempio quella asiatica o africana, basate su una scala pentatonica di soli cinque suoni – andrebbero definite “atonali”.

Ritratto d’autrice 1 941


Le opere Nel 1964 pubblica la sua prima opera, Variazioni belliche, già conclusa quattro anni prima e anticipata sulla rivista «Menabò» nel 1963 con una presentazione di Pasolini. Di questa presentazione la poetessa contesterà la definizione di “apolide” e “cosmopolita”, dal momento che lei fu costretta a espatriare ed emigrare continuamente a causa della guerra, sentendosi dunque più una “rifugiata”. Vive e lavora a Roma, dove frequenta gli ambienti intellettuali e artistici (avrà una intensa amicizia con il pittore Renato Guttuso, da lei amato), e tra l’altro viene invitata alle riunioni del Gruppo 63, al quale lei, troppo appartata e solitaria, non diventerà mai organica. Estranea a manifesti e raggruppamenti, scrive in Variazioni belliche:

[…] Combiniamo menzogne e fragili riviste d’avanguardia costose come le ambizioni che esse proteggono […] (da Variazioni belliche, in Le poesie, Garzanti, Milano 2007)

Nel 1969 pubblica Serie ospedaliera, caratterizzata dalla presenza della malattia diagnosticatale in quel periodo (morbo di Parkinson) contenente il poemetto La libellula, poi riproposto separatamente nel 1985. Ma da tempo soffre anche di esaurimenti nervosi, viene sottoposta a elettroshock, ed è perseguitata dall’ossessione paranoide di essere seguita dai servizi segreti intenzionati ad ucciderla, memoria incancellabile dell’uccisione del padre a opera di sicari. Nel 1976 dà alle stampe Documento (1966-1973), nel 1980 i Primi scritti (1952-1965), poesie e prose in tre lingue e nel 1983 Appunti sparsi e persi (1966-1977), contenente le poesie disperse dall’autrice. Dopo sette anni di lontananza dalla poesia – in cui dà alle stampe una raccolta di prose, Diario ottuso – pubblica nel 1981 Impromptu, nel 1985 ristampa un poemetto del 1958, Libellula, e infine nel 1992 la plaquette Sleep, venti poesie in inglese con traduzione di Antonio Porta. Il suicidio e il lascito poetico Nel 1996, come abbiamo detto, dopo aver combattuto una lunga depressione, e con l’accentuarsi della sindrome persecutoria, si toglie la vita, scegliendo la stessa data della poetessa suicida Silvia Plath, da lei amata e tradotta. La sua enigmatica figura, adorata da un ristretto cenacolo di poeti e scrittori, stinge nella mitologia letteraria. Un po’ sciamana devota alla sapienza orientale e un po’ l’albatro incatenato della poesia di Baudelaire, appariva «aureolata di una bellezza diafana, di un modo d’incedere principesco, di una stravaganza sfuggente e ridanciana» (Sandra Petrignani). Il delirio, la malattia mentale, non definiscono tanto una situazione eccezionale quanto permettono alla sua poesia di comunicare con la parte di malessere, di pena di vivere di ogni lettore, con chiunque «non può dormire di notte/facilmente ingannato dalla marcia della/vita» (Documento 1966-1973). Targa dedicata alla poetessa presso l’abitazione romana in cui trascorse gli ultimi vent’anni di vita.

942 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli


2 Una lingua sperimentale

Versi sperimentali e precisi La voce poetica di Rosselli non è solo sperimentale e coltissima, ma anche struggente. Ed è struggente perché in essa tutto cade, fatalmente: cade l’alba, «a rintocchi», cadono le bombe, «io non / so se tu cadi», «Se volevo cadevo», «Gli angioli che non sanno cadere, gli eserciti che non /sanno cadere», persino la luna «pende…» , anche se Amelia non vorrebbe («purché tu non/cada»), e infine cade lei stessa (con una reminiscenza dantesca: «caddi tremante nelle/braccia di Dio»), fino a precipitare con il corpo quel giorno del 1996 in cui decise di gettarsi dalla finestra del suo appartamento: «per la fibra dell’universo che rifiuta di cadere ad ogni/ nostra caduta…». Nei suoi versi quasi dilatati, così intensamente fisici e così carichi di musicalità dissonante, il dettato altissimo viene sfiorato qui e là dalla disarmata nostalgia di una canzonetta: «Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio/cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta/del bar vicino». Versi lunghi (a volte due endecasillabi), sdruccioli, molto ritmati, poiché lei non vuole riprendere fiato, e anzi dice la sua verità, ustionante o lieve, fino in fondo, oltre la cornice tradizionale della poesia. La lingua è come straniata dai lapsus (volontari e non), da citazioni storpiate da altre lingue («le pulchre abitudini»), da errori lessicali spesso voluti, in qualche caso germoglianti da una intima necessità, dalle molte deformazioni del lessico, da paronomasie e bisticci di parole, da storpiature morfologiche (“my” al posto del pronome riflessivo “mi”), da forestierismi (specie inglesismi) e solecismi (strafalcioni), da parole inventate (ad esempio “brimosi” allude a “bramosi” e anche all’inglese “to brim”, “traboccare”), da deviazioni e ambiguità di senso, dalle già citate sgrammaticature. Solo qualche esempio: non «sulla sua passione» ma «su della sua passione» (che sembra una reminiscenza del Belli…), e così «dentro della preghiera rimaneva…», «dentro della conoscenza risiedeva…», «dentro del caffè….», «dentro del mare…», o anche «contro d’ogni impero…». ma anche «la giornata si pronunciava difficile e arguta» al posto di «la giornata si preannunciava difficile e arguta», «enormi stesure di sabbia» invece di «enormi distese di sabbia», e «sembra scappare all’aprire dell’aurora» in luogo di «sembra scappare all’apparire dell’aurora», infine «rimai verso una proda» e non «remai verso una proda». In queste sostituzioni o deviazioni la parola assente – che sarebbe più appropriata – e che viene solo richiamata nel testo poetico, «risuona come idea nella mente» (Rosselli), capace di generare e “guidare” nuove associazioni nella mente del lettore. Pasolini ebbe a notare che il lapsus, l’errore lessicale e grammaticale, nella Rosselli «si fa da sé», espressione di una lingua «imposseduta» dall’autrice (e di un «nucleo spirituale inesprimibile razionalmente»). Per un poeta perfino la propria madrelingua diventa straniera. È dunque qualcosa di “oggettivo” e di liberatorio imparentato con gli esperimenti dei surrealisti. Le sillabe sono per lei particelle ritmiche e insieme vanno a comporre quelle “idee” che sono anche solo delle congiunzioni, degli articoli: “come” o “il” diventano per Rosselli idee. Certo, ci troviamo qui in una oltranza del linguaggio poetico: è difficile per noi accettare che un suono diventi di per sé una idea, che l’elemento semantico (il significato) discenda dalla mera sonorità. Eppure, tutto questo ci invita a superare i cliché del senso comune e ad avventurarci in una zona poco esplorata della lingua. Una lingua sperimentale 2 943


Rinunciamo alla pretesa di capire tutto, anche perché sapere qualcosa non significa sempre poterlo spiegare. Banalmente: la coordinazione di movimenti che implica la guida di un’auto non siamo in grado di spiegarla bene. L’elemento semantico si incardina sulla sonorità, da essa indistinguibile. Il registro alto è interrotto, da materiali “bassi”, da inserti della conversazione quotidiana: «Che cazzo vuoi disse il portiere alla portinaia difficoltosa/credi ch’io non sia capace. L’estraneo». Questa poesia può essere criptica o spigolosa, ma non è mai vaga né imprecisa. La centralità delle immagini dal mondo animale Rosselli, spaventata dal mondo e perseguitata dai fantasmi, crede però nella bontà del cuore umano. «Il cuore pensa: nulla può fermarlo dal pensare/“il cuore è buono”, non ce la faccio più/ a guidare il rinoceronte» (da Serie ospedaliera, 1963-1965). La poesia penetra fin dentro ai pensieri segreti del cuore intorno a sé stesso, come non potrebbe fare nessuna sonda. Nella sua musicalità post-tonale, fondata su particolari rispondenze foniche e di significato – dove una cadenza accentuativa iniziale definisce il passo da stabilire per il resto del componimento – irrompe ogni tanto una immagine aliena (o infantile), ispirata dal mondo degli animali: qui e altrove la figura del rinoceronte, o il cammello che striscia: «Due tigri nel giardino…», due scimmie che «solcarono l’anima di tracce invisibili», «un pesce con la bocca aperta», un topo «arcigno e spietato» o «sapiente» e «d’incontentabile seduzione», il «logorante pianto dei pipistrelli» il sonetto che suona «con le campane/dei muli», o in una poesia tarda («il mondo è sottile e piano:/pochi elefanti vi girano, ottusi»). Dal suo personale bestiario affiora un grido di dolore, la confessione di una impossibilità – «non ce la faccio più...» –, ma anche la colorata allegria infantile. I “buchi bianchi”, le zone di luce della poesia di Rosselli In una poesia da Serie ospedaliera si rivolge alla Primavera: «tu non hai mica la paura che io tengo, dell’inverno / quando abbrividisce il vento». Una primavera che «semina disagi» nella sua anima, che si dilegua sorniona «nascosta da una nuvola di piogge». Poi lei invoca «Di vivere avrei bisogno», però scrive che la primavera ha ucciso il grano nella sua gola. Sono versi insieme lievi e funerei, disperati e giocosi, a volte con un andamento da filastrocca: il suo pianto «strapazza le foglie che ieri / mi sembravano voglie». Un altro componimento comincia così: «Se per il caso che mi guidava io facevo capriole». Il bisogno di vivere, l’istinto di fare capriole, si scontra con un limite invalicabile. Eppure quel continuo, inesorabile cadere lascia intravedere un’apertura inaspettata, entro un universo fatto a imbuto dove alto e basso si confondono tra loro, dove spazio e tempo si distorcono, e dove la caduta si converte nel suo opposto. Con un ardito salto di disciplina rivolgiamoci per un momento alla fisica, e alle sue recenti scoperte. Sappiamo che il buco nero è il luogo di dominio incontrastato della gravità, nel quale si può solo cadere. È una stella collassata, la cui materia precipita vorticosamente, curvando lo spazio e il tempo per finire in un punto di densità infinita, chiamato “singolarità”. Il fisico Carlo Rovelli ha ipotizzato che il buco nero potrebbe concludersi in un buco bianco: le cose salgono invece di cadere. La poesia di Amelia Rosselli è cosparsa di “buchi bianchi”, di zone splendenti di luce ed energia che si contrappongono alle zone oscure che intrappolano la luce.

944 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli


T1

Amelia Rosselli

LEGGERE LE EMOZIONI

Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana Variazioni belliche A. Rosselli, Le poesie, a c. di E. Tandello, Garzanti, Milano 2007

Dentro un paesaggio devastato da guerre, catastrofe ambientale, la poetessa, con il timore della fine della nostra specie, analizza lo sviluppo dei paesi ricchi che cannibalizza i paesi poveri.

Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana. Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della1 mia passione! La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio. Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male, 5 la tristezza, le fandonie2, l’incoscienza, la pluralità dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci 10 supino la tua stella è la tua dimora Caduta sulla linea di battaglia. La bontà3 era un ritornello che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della demarcazione tra poveri e ricchi. La metrica Versi liberi, lunghissimi (fino a 22 sillabe). 1 su della: tipico lapsus o sgrammaticatura.

2 fandonie: ripetuto tre volte, poi fan-

3 La bontà: entro un panorama putrefatto,

donia, così coscienze: sono figure della ripetizione mutuate, almeno in parte, dal canto popolare.

riguarda i poveri, gli oppressi, altre volte chiamati gli “umili in spirito”.

Analisi del testo Il male e il bene Come abbiamo detto la lingua poetica di Rosselli, nonostante la sua immagine prevalente di oscurità, non si discosta in modo significativo dalla lingua comune. In questo componimento comincia con una constatazione “apocalittica” ma anche indiscutibilmente realistica che riguarda il nostro presente. «Siamo l’ultima specie umana…». Poi nel terzo verso al presente succede l’imperfetto narrativo, alla sfera pubblica si sostituisce la sfera privata, e su quella percezione innesta un elemento invece contraddittorio: il suo desiderio del “solleone” (il caldo, la luce), e poi quello di vincere il “male” dentro la sua esistenza. Per “male” intende un lungo e meticoloso elenco di cose. Qui incontriamo una parola leggermente desueta: “fandonie”, cioè a dire bugie, menzogne, frottole, storie non vere inventate per burla o per vantarsi (la parola, di etimo sconosciuto, viene usata quasi soltanto al plurale). Inaspettatamente nell’elenco del male incontriamo il “bene”, però si precisa: «somministrazioni d’ogni bene». Dunque si tratta di un bene somministrato dall’alto, imposto, burocratico, dunque falso, vicino alle “fandonie”. Come spesso accade nella sua poesia all’immagine cupa, e non del tutto infondata, della catastrofe attuale si contrappone il richiamo all’amore, al suo amore, benché questo giaccia a terra, supino. Si conclude con una considerazione amara: la “bontà” sbandierata come un ritornello diventa pura retorica, quasi un modo di convincere i “poveri” a essere rassegnati, pacificati, anch’essi supini, appunto “buoni”.

Una lingua sperimentale 2 945


Le sgrammaticature Anche qui ritroviamo irregolarità e sgrammaticature, come quel «su della mia passione». Non si tratta tanto di una scelta ideologica, dettata cioè dall’adesione a una ideologia avanguardistica, quanto di una condensazione o ingorgo della lingua, che è poi il tentativo di dire quanto resta nell’ombra della nostra comunicazione quotidiana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Nella poesia la poetessa concretizza il “male” attraverso un lungo e meticoloso elenco di cose; rintraccia nella poesia gli elementi e trascrivili. LESSICO 2. Il desiderio dalla Rosselli viene definito “pio”: come spiegheresti questo aggettivo? Ti sembra che conservi qualcosa di religioso e sacrale? STILE 3. Rintraccia nel testo le sgrammaticature che contraddistinguono la poesia dell’autrice.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

T2

SCRITTURA 4. La poetessa al v. 4 afferma «Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male». Ti è mai capitato di vedere nel mondo o di vivere situazioni “di male” e provare il desiderio di combatterle e di vincere la battaglia?

Amelia Rosselli

Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio Variazioni belliche A. Rosselli, Le poesie, a c. di E. Tandello, Garzanti, Milano 2007

Attraverso un cortocircuito tra il dubbio spirituale o teologico e la canzonetta sentimentale del juke boxe del bar, tra piano culturale e piano privato, tra l’inferno delle angosce notturne e gli angeli protettori, si svela il «malanno insoddisfatto» della poetessa, con le sue contraddizioni e il suo spirito ludico (le «pedate inconscie agli amici»).

Se nella notte sorgeva un dubbio su dell’essenza del mio cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta del bar vicino. Se dalla notte sorgeva il dubbio dello etmisfero cangiante e sproporzionato, allora richiedevo 5 aiuto. Se nell’inferno delle ore notturne richiamo a me gli angioli e le protettrici che salpavano per sponde molto più dirette delle mie, se dalle lacrime che sgorgavano diramavo missili e pedate inconscie agli amici che mal tenevano le loro parti di soldati amorosi, se dalle finezze 10 del mio spirito nascevano battaglie e contraddizioni, allora moriva in me la noia, scombinava l’allegria il mio malanno insoddisfatto; continuava l’aria fine e le canzoni attorno attorno svolgevano attività febbrili, cantonate disperse, ultime lacrime di cristo che non si muoveva per 15 sì picciol cosa, piccola parte della notte nella mia prigionia. La metrica Versi liberi, lunghi fino a 22 sillabe.

946 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli


Analisi del testo L’iterazione Componimento costruito sull’uso iterato del periodo ipotetico («Se nella notte» «se dalla notte» «Se nell’inferno» «se dalle lacrime» «se dalle finezze»), tratto stilistico tipico delle Variazioni belliche. In particolare nel periodo ipotetico alle cinque protasi – i “se” – corrisponde poi una sola apodosi – cioè la proposizione principale: “allora…” –, proprio per enfatizzare il condizionale, l’assoluta incertezza in cui precipita l’io lirico. L’attacco anaforico «Se nella notte» evoca il sillogismo ipotetico: «Se dalla notte sorgeva il dubbio dello etmisfero cangiante sproporzionato», e poi il connettivo del ragionamento (“allora”) «allora richiedevo aiuto».

Una comunicazione autentica Al solito abbiamo le alterazioni morfologiche, i lapsus come “etmisfero” (per Pasolini la cifra stilistica dell’autrice), le sgrammaticature volute – “su dell’essenza” –, una punteggiatura irregolare. Un sabotaggio della comunicazione ordinaria non per negare la comunicazione, come avviene per molta avanguardia, ma per conseguire una comunicazione più autentica, apparentemente sconnessa e vicina al parlato, benché in modi stranianti. Il critico Franco Fortini era consapevole degli equivoci che questa poesia poteva generare, della sua profonda verità, superiore ai tanti discorsi parassitari su di essa e ai suoi intellettualistici imitatori: «Amelia Rosselli, in poesia, è così vera e forte che si perdonano i discorsi di non pochi suoi discutibili ammiratori. A rendere del tutto inconsueta quella sua poesia sono le dolorose trovate formali che – avrebbe detto Montale – gli studenti canaglie le hanno già rubate, freddamente imitandola».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che modo svanisce il dubbio di cui parla la poetessa al v. 1? ANALISI 2. Che cosa intende la poetessa con «malanno insoddisfatto»? 3. La poesia presenta immagini contrastanti: rintracciale nel testo e trascrivile. STILE 4. Rintraccia tutte le anafore presenti nel testo.

Interpretare

T3

SCRITTURA CREATIVA 5. Scrivi una poesia che contenga anafore e immagini contrastanti.

Amelia Rosselli

Perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi Appunti sparsi e persi, 1966-1977 A. Rosselli, Appunti sparsi e persi. 1966-1977, Garzanti, Milano 2024

Amelia Rosselli anche nei suoi versi più lacerati, in cui sembra precipitare disarmata (senza la spada di Cristo) nel delirio della propria follia, recupera un piglio ironicogiocoso: «vi amo, vi avrei amato…».

Perdonatemi perdonatemi perdonatemi vi amo, vi avrei amato, vi amo ho per voi l’amore più sorpreso più sorpreso che si possa immaginare. 5

Vi amo vi venero e vi riverisco vi ricerco in tutte le pinete vi ritrovo in ogni cantuccio ed è vostra la vita che ho perso.

10

Perdendola vi ho compreso perdendola Vi ho sorpresi perdendola vi ritrovo! L’altro lato della pineta era così buio! solitario! rovinoso!

Essere come voi non è così facile; sembra ma non lo è sembra 15 cosa tanto facile essere con voi ma cosa tanto facile non è. Una lingua sperimentale 2 947


Vi amo vi amo vi amo sono caduta nella rete del male ho le mani sporcate d’inchiostro 20 per amarvi nel male. Cristo non ebbe così facile disegno nella mente tesa al disinganno Cristo ebbe con sé la spada e la guaina io non ebbi alcuna sorpresa.

25

Candore non v’è nei vostri occhi benevolenza era tanto rara scambiando pugni col mio maestro ma v’avrei trovati.

Vi amo? Vi amerei? Tante cose 30 nel cielo e nel prato ricordano amore che fugge, che scappa dietro le case. Dietro ogni facciata vedere quel che mai avrei voluto sapere; dietro 35 ogni facciata vedere quel che oggi non v’è.

La metrica Versi liberi.

Analisi del testo Lo stile La figura retorica della poesia è l’epanalessi, la ripetizione di una stessa parola per due o più volte. La certezza dell’amore presente incrocia un condizionale passato del tutto incongruo.

Il desiderio di amare Benché caduta nella rete del male vorrebbe amare tutti, vorrebbe aver amato tutti, anche se privi di candore e benevolenza: tutta la sua poesia insegue l’amore che fugge. Immagini tra loro slegate affiorano in modo confuso come da un diario privato e a tratti indecifrabile, da un flusso di coscienza ininterrotto: gli amici – cercati financo nei cantucci e nelle pinete –, Cristo, un non identificato maestro con cui si trova a duellare. Si noti l’ambiguità di quell’amore “sorpreso”: sorprendente per la stessa autrice, quasi scoperto dentro di lei, e sorpreso per la presenza di tanti amici, sia pure nascosti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. La poetessa continua ad amare nonostante che cosa, nonostante quale stato d’animo? ANALISI 2. Che cosa vuole dire la poetessa con l’espressione «ho le mani sporcate d’inchiostro»?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. Rintracci nella poesia gli elementi contenutistici e stilistici che caratterizzano la poesia della Rosselli ed esponili alla classe (max 3 minuti).

Fissare i concetti Amelia Rosselli 1. Quale lingua utilizza la Rosselli nelle sue poesie? 2. Che cosa sono i lapsus controllati presenti nella poesia della Rosselli? 3. Quali eventi hanno lasciato una traccia indelebile nella vita della poetessa? 4. In quale opera la Rosselli raccoglie le sue riflessioni sulla musica? 5. Quali sono le raccolte poetiche composte dalla Rosselli ed in quale data vengono pubblicate? 6. Quale potere ha la “parola assente” nella sua poesia? 7. Quale registro linguistico si rintraccia nelle opere della Rosselli? 8. Quale significato hanno le immagini del mondo animale presenti nelle sue poesie?

948 Il Novecento (Seconda parte) 18 Amelia Rosselli


Il Novecento Duecento e Trecento (Seconda parte) La letteratura Amelia Rossellicortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autrice

Una poesia facile e difficile Amelia Rosselli ha fama di essere “oscura”. In poesia esiste un’oscurità giustificata, “nobile”, che è parte della sua stessa natura di linguaggio allusivo e anticonvenzionale, e c’è un’oscurità gratuita, che coincide con un gergo per iniziati e che serve solo a simulare profondità. L’oscurità di Amelia Rosselli è sempre necessaria, alla ricerca di una comunicazione intensificata. La sua poesia è profondamente “realista” – come ha sottolineato Pasolini –, intende cioè aderire fedelmente alla realtà, soltanto che per lei la realtà è caotica, sfuggente, metamorfica. Per accostarla occorre dunque avere contatto con una lingua poetica particolarissima, in qualche modo sismica. In essa sentiamo sempre una incandescente sincerità, dove l’esperienza più intima e privata trova il suo ritmo, e coglie una verità che ci riguarda tutti. È una poesia difficile e facile al tempo stesso, intrattabile ma anche accogliente, una poesia che non è mai cedimento al caos e all’informe. Le origini e la giovinezza Nasce nel 1930 dall’esule antifascista Carlo Rosselli, e da Marion Cave, inglese e attivista nel partito laburista a Parigi ove rimane fino al 1940. Dopo l’invasione nazista si trasferisce a Londra, poi in Canada, poi a New York per continuare gli studi. Dopo la guerra, a sedici anni, viene in Italia, e raggiunge la casa della nonna a Firenze. Ma non riesce a ottenere la convalida degli studi, dunque è costretta a ripartire per Londra, dove comincia a studiare violino, pianoforte e composizione. La sua vita è segnata dall’uccisione del padre da parte di fascisti francesi, su ordine di Mussolini. Questo evento, e il continuo fuggire da un paese all’altro, lasciano una traccia indelebile nell’autrice che si traduce in un disturbo mentale. Disturbo che riaffiora di continuo fino al suicidio, l’11 febbraio 1996. Musica e poesia Gli interessi musicali (l’etnomusicologia, la musica atonale) predominano su quelli letterari per tutti gli anni Cinquanta, anche se lavora come traduttrice dall’inglese. Poi si coniugano e interagiscono con la poesia. Nell’opera della Rosselli si esprime una volontà di identificazione con chi non ha voce, con la tradizione orale della musica, con la poesia popolare caratterizzata dalla anonimia dei cantori. Le opere Pubblica la sua prima opera nel 1964, Variazioni belliche, anticipata sulla rivista «Menabò» nel 1963 con una presentazione di Pasolini. Vive e lavora a Roma, dove frequenta gli ambienti intellettuali e artistici. Nel 1969 pubblica Serie ospedaliera, caratterizzata dalla presenza della malattia diagnosticatale in quel periodo (morbo di Parkinson). Da tempo sofferente anche di esaurimenti nervosi, è perseguitata dall’ossessione di essere seguita dai servizi segreti intenzionati a ucciderla (come accadde

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 949


al padre). Nel 1976 esce Documento (1966-1973), nel 1980 i Primi scritti (1952-1965), poesie e prose in tre lingue e nel 1983 Appunti sparsi e persi (1966-1977). Dopo sette anni di lontananza dalla poesia – in cui dà alle stampe una raccolta di prose, Diario ottuso – pubblica nel 1981 Impromptu, nel 1985 ristampa un poemetto del 1958, Libellula, e infine nel 1992 la plaquette Sleep, venti poesie in inglese con traduzione di Antonio Porta. Nel 1996, con l’accentuarsi della sindrome persecutoria, si toglie la vita.

2 Una lingua sperimentale

Versi sperimentali e precisi La voce poetica di Rosselli non è solo sperimentale e coltissima, ma anche struggente. I versi sono lunghi (a volte due endecasillabi), sdruccioli, molto ritmati. La lingua è come straniata dai lapsus (volontari e non), da citazioni storpiate da altre lingue, da errori lessicali spesso voluti, dalle molte deformazioni del lessico, da paronomasie e bisticci di parole, da storpiature morfologiche, da forestierismi (specie inglesismi) e solecismi (strafalcioni), da parole inventate, da deviazioni e ambiguità di senso, dalle già citate sgrammaticature. Per un poeta la lingua è qualcosa di “oggettivo” e di liberatorio imparentato con gli esperimenti dei surrealisti. Le sillabe sono per Rosselli particelle ritmiche e anche se può essere difficile accettare che un suono diventi di per sé una idea e che l’elemento semantico si incardini sulla sonorità, da essa indistinguibile, tutto questo ci invita a superare i cliché del senso comune e ad avventurarci in una zona poco esplorata della lingua. Rinunciamo alla pretesa di capire tutto, anche perché sapere qualcosa non significa sempre poterlo spiegare. La centralità delle immagini dal mondo animale Nella musicalità post-tonale della poesia di Rosselli, fondata su particolari rispondenze foniche e di significato, irrompe ogni tanto una immagine aliena (o infantile), ispirata dal mondo degli animali. Dal personale bestiario della poetessa affiora un grido di dolore, la confessione di un’impossibilità – «non ce la faccio più…» –, ma anche la colorata allegria infantile.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Scrivi una poesia che presenti le seguenti caratteristiche: versi lunghi, se possibile sdruccioli, presenza di lapsus, errori lessicali, parole inventate, registro alto ed elementi della conversazione quotidiana, concetti opposti.

Testi a confronto

2. Dopo aver ricercato informazioni e fonti fai un confronto rilevando somiglianze e differenze con la poesia di Alda Merini.

Lavoro di gruppo

3. Dopo aver diviso la classe in tre gruppi, cercate informazioni sulla poesia di Amelia Rosselli. Un gruppo dovrà indagare sui rapporti della poetessa con la musica, un gruppo sulla presenza delle immagini di animali nella sua poesia, un gruppo sul tema della ricerca religiosa nella sua poesia. Preparate un podcast per presentare alla classe i risultati della vostra ricerca.

950 Il Novecento (Seconda parte) Amelia Rosselli


Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica

Nel secondo Novecento si avverte una frequente tendenza della poesia ad affrontare tematiche relative a interrogativi quali la vita oltre la morte, l’esistenza e l’essenza del divino, la natura del linguaggio. Pur nella diversità delle prospettive e degli esiti, si tratta di una poesia ad alta densità filosofica, che non a caso abbandona dopo secoli il modello lirico petrarchesco per ritornare a Dante, modello onnipresente della poesia del secondo Novecento. Sono tra poco quarant’anni d’ansia, d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide/ com’è rapida a marzo la ventata/ che sparge luce e pioggia, son gli indugi,/ lo strappo a mani tese dai miei cari,/ dai miei luoghi, abitudini di anni/ rotte a un tratto che devo ora comprendere./ L’albero di dolore scuote i rami…/ Mario Luzi, “Nell’imminenza dei quarant’anni”, Onore del vero

Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa:/ se c’è qualcuno come te, la vita non è persa. Pier Paolo Pasolini, “A Caproni”, Epigrammetti, 1958-59

Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso:/ ma qual sasso tra erratiche macerie,/quale scaglia da cumuli e congerie/ identificherò nel bosco, ahi lasso? Andrea Zanzotto, “Sonetto di Ugo, Martino e Pollicino”, Il galateo in bosco, sezione Ipersonetto, XIII, 1978

la poesia come tramite 1 Luzi: tra il mondo terreno e l’Eterno e il tema dell’assenza 2 Caproni di Dio l’io si interroga 3 Zanzotto: sul rapporto con la realtà e con il linguaggio

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1

Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno La biografia Mario Luzi nasce nel 1914 a Sesto Fiorentino, in provincia di Firenze. Studia al liceo classico, appassionandosi alla poesia e alla filosofia, poi si laurea in letteratura francese, che insegna prima al liceo poi all’università. Esordisce come poeta nel 1935, con la raccolta La barca, cui seguono Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947). Tra le raccolte successive si segnalano: Nel magma (1963 e, in edizione accresciuta, nel 1966), che segna una svolta e un deciso allontanamento dall’Ermetismo, Su fondamenti invisibili (1971), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Intellettuale schivo, alieno da posizioni polemiche, ma sempre attento alla situazione politica e culturale italiana, nel 2004 è stato nominato senatore a vita; più volte candidato al Nobel. Muore nel 2005, a Firenze, dove ha trascorso quasi tutta la sua lunga vita.

Luzi, negli anni Settanta.

La fede religiosa come costante nell’opera di Luzi Nell’opera di Luzi – nonostante una marcata e progressiva evoluzione dal punto di vista delle scelte di stile e di poetica – si riconosce una costante: l’idea, sostenuta da una fede religiosa profonda, che la poesia non debba mirare al mondo contingente, ma al rapporto con l’eterno. Anche quando si confronta con la storia, Luzi tende sempre a cogliere «una significazione ulteriore, un principio trascendente nel reale» (Testa). E, proprio approfondendo il tema del rapporto fra immanenza e trascendenza, gradualmente si allontana dall’iniziale Ermetismo e intraprende un percorso personale, tra i più significativi della poesia italiana del secolo. Luzi ha una visione del mondo fondata su una fede coltivata fin dall’infanzia per la significativa influenza della figura materna (➜ T3 ) e sviluppata attraverso letture filosofiche e teologiche: in primo luogo sant’Agostino, poi Søren Kierkegaard (1813-1855); importante anche la lettura di Teilhard de Chardin (1881-1955), teologo francese che collega la fede cristiana all’evoluzionismo.

La barca GENERE

raccolta di versi ermetici

DATA

1935

TEMI

tema dell’assenza e dell’attesa

STILE

ricercato ed elevato

952 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


L’adesione all’Ermetismo Luzi esordisce in pieno clima ermetico, nel 1935, con La barca, che presenta tutte le caratteristiche dell’Ermetismo, dai temi dell’attesa e dell’assenza, al lessico elevato e ricercato, all’oscurità allusiva. Nella sua fase ermetica, Luzi giungerà a limiti di oscurità che divengono proverbiali (basta pensare al «cipresso equinoziale» della poesia Avorio, nella raccolta Avvento notturno). D’altra parte, per Luzi l’Ermetismo non è una moda: è il suo stesso sentimento religioso – e la tensione verso l’assoluto, una costante della sua poesia – a portarlo ad aderire a questo orientamento poetico, animato da una tensione profonda verso l’assoluto, che si sviluppa su riviste cattoliche come «Frontespizio». Proprio per la sincerità della sua ispirazione, Luzi appare oggi «il maggiore poeta dell’Ermetismo» (Berardinelli), e sicuramente il più rappresentativo (➜ C2). L’evoluzione della poetica di Luzi Con il tempo, tuttavia, anche Luzi si allontana dall’Ermetismo, in senso non tanto tematico, quanto stilistico: la sua poesia diviene meno oscuramente allusiva e più vicina al parlato quotidiano, anche se è sempre animata da una ricca trama di simboli, fra i quali assumono particolare rilievo, in chiave religiosa, quelli del vento e della fiamma, che alludono al moto spirituale verso la trascendenza. La discesa nel cuore incandescente della realtà La svolta più significativa avviene con la raccolta Nel magma, del 1963, il cui titolo allude a una discesa nel cuore incandescente della realtà: in questa opera, molto differente dalle precedenti, il poeta introduce una struttura narrativa e dialoghi con personaggi che oppongono le loro ragioni a quelle dell’autore. In confronti a volte aspri, la centralità dell’io poetico è abbandonata e la verità emerge dal contrapporsi dei diversi punti di vista. Anche le ambientazioni, realistiche e spesso cittadine, divergono da quelle usuali della lirica: gli incontri avvengono lungo l’argine di un fiume, in un caffè periferico, in treno, allo sportello di un ufficio, nella hall di un albergo. Luzi introduce inoltre un linguaggio realistico, «di una discorsività bassa e prosastica» (Testa), in sintonia con una tendenza generale della poesia italiana degli anni Sessanta. Una poesia-dialogo A volte i personaggi rappresentati nella raccolta sono antagonisti del poeta, come nella poesia Presso il Bisenzio, in cui quattro interlocutori, incontrati sulle rive di un fiume, lo rimproverano per non essersi bruciato «al fuoco della lotta», per non essersi dedicato a una poesia politicamente impegnata e per aver puntato troppo ambiziosamente, nella sua opera, a una realtà metafisica: «Tu dici di puntare in alto, di là dalle apparenze, / e non senti che è troppo»; altre volte nelle poesie appaiono personaggi che fanno comprendere verità esistenziali, come l’amico vicino alla morte per una grave malattia, incontrato in un caffè, che esprime un punto di vista religioso più condiscendente e umano di quello del poeta (➜ T1 OL). La poesia-pensiero delle successive raccolte Nelle raccolte successive si accentua sempre più il carattere speculativo della «poesia-pensiero» di Luzi. Come riflesso di un crescente impegno nella vita culturale e politica, lo scrittore dà sempre più rilievo al tema del contrasto fra il mondo visibile e i suoi «fondamenti invisibili», tra la verità eterna della trascendenza e il mondo storico, su cui assume un punto di vista sempre più critico, denunciandone le sofferenze e le ingiustizie, in contrasto con il messaggio evangelico. La poesia di Luzi assume di conseguenza un sempre più accentuato pathos drammatico (anche in concomitanza con la scoperta della propria vocazione al teatro, che si esprime, a partire dagli anni Settanta, in opere quali una messa in scena del Purgatorio dantesco, nel 1990, e una rievocazione di don Pino Puglisi, il sacerdote siciliano ucciso dalla mafia, nel Fiore del dolore, Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno 1 953


2003) e fa posto a interrogativi, invocazioni, preghiere a un Dio che il poeta non può e non vuole giudicare, ma che confessa di non riuscire, a volte, a comprendere. Questa poesia metafisica e drammatica, per il suo tono mai pacificato (Luzi si definisce un «cristiano critico»), non appare poi così lontana da quella del laico e razionalista Caproni con cui, nonostante la diversità delle posizioni ideologiche, Luzi intrattenne negli anni un profondo rapporto di amicizia. Uno stile polifonico La messa a fuoco della dimensione concreta e magmatica della realtà, nel suo contrasto con la verità trascendente ed eterna, si riflette sul piano linguistico, determinando una crescente polarizzazione tra il linguaggio prosaico e quotidiano della realtà e quello alto, sostenuto e prezioso dell’aspirazione all’eterno e immutabile; sempre più, con il tempo, la poesia di Luzi tende dunque al plurilinguismo dello stile, in cui, come spesso accade nella poesia metafisica novecentesca, riemerge il grande modello della Divina Commedia.

online

Video e Audio Autoritratto di Luzi

Luzi sullo sfondo di Firenze.

Nel magma GENERE

raccolta di versi

DATA

1963

STRUTTURA

struttura narrativa imperniata su dialoghi con personaggi

CONTENUTO

ricerca della verità attraverso diversi punti di vista

STILE

discorsivo

954 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


Mario Luzi

D1

Vola alta, parola Per il battesimo dei nostri frammenti

M. Luzi, L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998

Il titolo della raccolta – Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) – da cui è tratto questo testo compendia la concezione della vita e della poetica di Luzi che, constatando la frammentarietà della vita moderna, aspira a darle senso attraverso la fede religiosa e la poesia.

Vola alta, parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith1 della tua significazione2, giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami nel buio della mente3 – 5 però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo4 di me o almeno il mio ricordo, sii 10 luce, non disabitata5 trasparenza... La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza6? La metrica Versi liberi di varia lunghezza. 1 nadir e zenith: il punto più basso (nadìr) e il più alto (zenith) della volta celeste sulla verticale dell’osservatore. Il riferimento dilata il v. 1 con alta e in profondità. 2 significazione: possibilità di significare.

3 la cosa... mente: la cosa si illumini (gra-

6 La cosa... sofferenza: verso di difficile

zie alla poesia) nel buio della mente. La sinestesia (esclami) evidenzia il valore di rivelazione della poesia. 4 il caldo: il calore dei miei sentimenti. 5 disabitata: vuota, lontana dalla dimensione umana.

interpretazione; risponde alla domanda su cosa debba esprimere la parola poetica, ponendo un’alternativa che si può forse così riassumere: la parola deve esprimere la realtà e la sua essenza? oppure la sofferenza dell’io e quella del mondo?

Concetti chiave Una poesia tra terra e cielo

Il poeta si rivolge alla propria poesia, per dichiarare la finalità che vorrebbe conferirle. Si tratta di un ideale alto, ma non irraggiungibile, perché talvolta lo si è visto realizzato («talvolta lo puoi», si riferisce probabilmente a esempi letterari come quello di Dante): una poesia che associ il contingente e l’eterno, rappresentata dall’immagine di una linea di unione fra la terra e la volta celeste, fino alle sue due estremità, zenith e nadir. Alla parola chiave Vola che, posta in apertura, trasmette lo slancio di una lirica che si proietti oltre le cose terrene, il poeta associa la speranza che la sua poesia non sia astratta e puramente intellettuale, bensì si leghi alla vita di chi l’ha scritta: «non separarti / da me».

Una poesia che riassume l’itinerario poetico dell’autore

Il testo può essere anche letto come una riflessione dell’autore sul proprio itinerario poetico e sulla sua graduale presa di distanza dall’Ermetismo: la disabitata trasparenza alluderebbe in questo senso all’astrattezza della poesia ermetica, staccata dal contingente, a cui il poeta contrappone ora l’esigenza di raccordare la realtà umana a quella trascendente.

Il valore della parola

Un altro tema del testo è quello della parola, che il poeta ritiene possa rivelare l’essenza delle cose, come mostra la sinestesia «sogno che la cosa esclami / nel buio della mente». In un passo critico, a questo proposito, Luzi osserva come nella realtà quotidiana il rapporto tra cose e parole tenda continuamente a corrompersi, ma la poesia possa riuscire nell’impresa di recuperarlo,

Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno 1 955


quando essa «trova e ritrova questa immedesimazione con la cosa, questa identificazione; e non è più una cifra, o un segno convenzionale, ma è finalmente la Parola, che significa la Cosa...».

Il confronto tra Luzi e Caproni

L’idea che la poesia possa attingere alla verità differenzia la lirica metafisica di Luzi da quella del laico Caproni, convinto che l’uomo, chiuso entro gli stretti confini della propria esperienza, non abbia alcuna possibilità di accesso alla verità. Per Caproni, dunque, la parola può soltanto definire i limiti della ragione umana, mentre per Luzi è luogo dell’incontro dell’uomo con «un Dio che è logos e parola, filigrana verbale del mondo».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual compito, secondo Luzi, deve assolvere la poesia? ANALISI 2. Che cosa intende Luzi con cosa (vv. 3 e 11)? 3. Qual è la funzione espressiva dell’antitesi presente nell’ultimo verso?

Interpretare

SCRITTURA 4. Nel componimento è presente un afflato religioso. In un testo di max 10 righe cerca di spiegare il significato di questa affermazione, facendo puntuali riferimenti al testo.

online T1 Mario Luzi Nel caffè Nel magma

Mario Luzi

T2

LEGGERE LE EMOZIONI

A che pagina della storia Al fuoco della controversia

M. Luzi, L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998

Il titolo della raccolta da cui è tratto il testo, Al fuoco della controversia (1978), ne indica i temi: il fuoco, con il suo incessante movimento, rappresenta il divenire della realtà, ma la fiamma è anche tradizionalmente simbolo dell’annunziarsi della Presenza divina; la controversia è l’interrogarsi incessante del cristiano che, come il poeta, vive la fede in modo non pacificato e che si interroga sulle ragioni del male e dell’ingiustizia nel mondo. Di tale “controversia” questa è una delle composizioni più rappresentative.

A che pagina della storia, a che limite della sofferenza – mi chiedo bruscamente, mi chiedo di quel suo «ancora un poco e di nuovo mi vedrete»1, detto mite, detto terribilmente 5

e lui forse è là, fermo nel nocciolo dei tempi2, là nel suo esercito di poveri acquartierato nel protervo campo3 in variabili uniformi4: uno e incalcolabile come il numero delle cellule. Delle cellule e delle rondini.

La metrica Due strofe di versi liberi. 1 «ancora... vedrete»: nel Vangelo di Giovanni (16, 16) queste le parole di Cristo, che

annunciano la Resurrezione: «Fra poco non mi vedrete più; poi, dopo un po’, mi rivedrete»; «Voi vi rattristerete, ma poi la vostra tristezza diventerà gioia».

956 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica

2 nel nocciolo dei tempi: per l’eternità. 3 acquartierato... campo: che sta nell’accampamento che non si arrende (protervo).

4 in variabili uniformi: in varie sembianze.


Analisi del testo La ribellione del cristiano per l’ingiustizia del mondo Come spesso nella poesia di Luzi, la lirica è suddivisa in due parti antitetiche, che qui corrispondono alle due strofe del testo. Nella prima è espresso il senso di ribellione del cristiano verso il mondo esistente, troppo carico di sofferenza e distante dalla Città di Dio promessa agli uomini. L’anafora di A che, la ripetizione di mi chiedo, l’avverbio bruscamente, in rima interna con terribilmente, determinano un andamento concitato, che sottolinea il drammatico confronto del poeta con la storia, vista come un succedersi di sofferenze intollerabili. La strofa è pervasa dal senso dell’attesa di un Cristo redentore per le vittime (detto mite), ma vendicatore contro chi commette il male (detto terribilmente).

Il tempo lineare della storia e quello eterno della rivelazione Al senso di drammatica aspettativa della prima strofa, imperniata su un tempo lineare, si contrappone, nella seconda, una visione che travalica il divenire per calarsi nel «nocciolo dei tempi», nell’intuizione religiosa dell’eternità: forse il ritorno di Cristo annunciato nel Vangelo non deve essere inteso come un momento successivo a un altro, ma come qualcosa che eternamente coesiste con il divenire storico. In questa prospettiva, la storia può essere interpretata come un incessante ritorno di Cristo, che rivive nei poveri, nei sofferenti, nelle vittime della storia e che perciò non è uno, ma milioni. Per suggerire l’idea di tale molteplicità, l’autore la paragona al numero incalcolabile delle cellule e delle rondini che, evocando l’idea del volo, suggeriscono anche il distacco dalla dimensione terrena.

Le analogie con La Pentecoste manzoniana Un’altra immagine significativa della seconda strofa è quella dell’esercito di poveri in cui, sotto variabili forme, rivive Cristo, evidenziata da termini appartenenti al campo semantico della guerra. L’immagine di un esercito accampato di credenti e le metafore militari richiamano La Pentecoste manzoniana, in cui la Chiesa è «campo di quei che sperano». Manzoniana è anche l’idea di una Chiesa vista non come istituzione alleata con i potenti, ma schierata a difesa dei deboli e dei sofferenti. La contrapposizione fra il tempo e l’eternità rimanda alle Confessioni di sant’Agostino, predilette da Luzi, il cui decimo libro, come l’autore stesso ricorda, fu per lui una sorta di breviario. Mario Luzi nel 2001.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la domanda posta nel testo? Qual è una possibile risposta? ANALISI 2. In che modo il poeta accosta i temi religiosi della sua ricerca a problematiche civili? STILE 3. Quali figure retoriche sottolineano l’enfasi drammatica della prima strofa? 4. Per mezzo di quali espedienti formali il poeta esprime la tensione che anima il testo?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. Luzi si interroga sulle ragioni del male e dell’ingiustizia nel mondo. Come ti rapporti tu con la sofferenza che ti circonda? Ti poni delle domande di carattere filosofico ed esistenziale? Rispondi, esponendo le tue riflessioni in un testo di max 20 righe. ESPOSIZIONE ORALE 6. In una intervista, Luzi afferma: «Io sono qualcuno che cerca di rendersi conto del suo rapporto col tempo, e anche con il non-tempo, con quello che evade dalla temporalità». In un intervento orale di max 3 minuti spiega come questa affermazione si possa applicare al testo letto.

Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno 1 957


Mario Luzi

T3

Madre mia, madre mia Per il battesimo dei nostri frammenti

M. Luzi, L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998

Scritta anni dopo la morte della madre, la poesia ricorda l’importanza del suo insegnamento cristiano, mai dimenticato, come sua guida fondamentale.

Madre, madre mia l’essere molto amati non medica la solitudine, la affina1 5 anzi, la escrucia2 in un limìo3 d’inanità4 e di rimorso. Posso, sì, averlo udito perdutamente5 10 parlare così il discorso... E intanto taceva il suo contrario in ogni lingua ma io lo ricordavo, 15 per me era presente: «Amare, questo sì ti parifica al mondo6, ti guarisce con dolore7, ti convoglia nello stellato fiume8 20 e sono dove tu sei, si battono creato ed increato9, allora, in un trepidare unico10. Allora, in quel punto». Lo ricordavo. La metrica Versi liberi di varia lunghezza.

4 inanità: senso di inutilità. 5 udito perdutamente: sentito, senza

1 la affina: la rende più acuta. 2 la escrucia: la rende più tormentosa (la-

averlo pienamente compreso. 6 ti parifica al mondo: ti fa entrare nel mondo, nella creazione divina. 7 con dolore: anche se fa soffrire.

tinismo, dal verbo excrucio, “tormento”). 3 limìo: tormentoso affanno.

8 ti convoglia... fiume: ti fa entrare nel flusso della vita dell’universo che tende verso l’eterno. 9 sono... increato: sei nel punto d’unione tra creato ed eterno. 10 in un trepidare unico: nell’unico movimento del divenire.

Analisi del testo L’amore e la partecipazione alla creazione divina La poesia è dedicata da Luzi alla madre e al suo insegnamento. Da lei, profondamente credente, il poeta racconta di essere stato indirizzato alla fede: «Il cristianesimo è stato prima di tutto un’ammirazione e una imitazione di mia madre. [...] Lei riusciva a inserire le cose in un ordine, anche doloroso». Un fondamentale insegnamento materno, argomento della poesia, si esprime nella contrapposizione tra amare ed essere amati. È amare, non essere amati, che dà senso alla vita e la «convoglia nello stellato fiume» della creazione divina.

958 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


In questa prospettiva, non conta l’amore ricevuto – che anzi, se non ricambiato, accentua la solitudine e la disperazione (il «limìo / d’inanità e di rimorso») – bensì quello donato. Solo questo, anche se può provocare sofferenza quando non è ricambiato, rende l’uomo partecipe della creazione divina, che è un atto d’amore, guarendolo dalla solitudine e dal senso di inutilità.

Le immagini della poesia L’universo pervaso dall’amore divino e umano, in continuo perfezionamento spirituale secondo la teoria filosofica del gesuita Teilhard de Chardin (1881-1955, teologo francese, sostenitore di un’evoluzione dell’universo in senso cristiano), è reso dal poeta attraverso l’immagine di un fiume «stellato»: il fiume, simbolo del divenire, sfocia nell’eternità, raffigurata dalla fissità delle stelle. L’uomo non può razionalmente comprendere come il contingente si unisca all’eterno, ma lo può afferrare in modo intuitivo attraverso l’amore.

Le caratteristiche stilistiche La tensione verso qualcosa di più alto della realtà contingente è sottolineata nel testo dai versi brevi, collocati liberamente nella riga, in alcuni casi preceduti da spazi bianchi, come se tendessero a staccarsi dai vincoli dell’inizio del verso, per proiettarsi in una dimensione più alta, e dal lessico raro, prezioso e raffinato. Il climax dei vv. 3-5 (non medica... la affina... la escrucia) sottolinea la sofferenza dell’uomo quando, inaridito e incapace di amare, sente accrescere la propria solitudine e distanza dal mondo. Il discorso ha un andamento razionale, scandito da chiari nessi logici; assume un particolare rilievo la figura dell’antitesi, su cui si impernia tutto il testo, costruito su una serie di contrapposizioni: non medica si oppone a ti guarisce, amare ad essere amati, essere soli ad essere immersi nella realtà in divenire dell’amore divino, così come il discorso udito perdutamente, cioè non recepito, si oppone all’insegnamento della madre, sempre presente nella memoria; ma sono contrapposti anche la visione egoistica propria del mondo contemporaneo, in cui sembra che conti di più essere amati che amare, e i valori trasmessi dalla madre, erede di un’antica civiltà contadina legata a un sentire più generoso, più umano e profondo. I suoni musicali contribuiscono alla suggestione del testo: ai vv. 4-6, il suono della i, in particolare quella accentata di limìo, sottolinea la sofferenza mentre, dal v. 16, la frequenza della r (Amare, creato, increato, trepidare), con la leggerezza aerea dei suoni, suggerisce il fluire della vita cosmica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del componimento (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Quale legame si stabilisce, per il poeta, tra amare ed essere amati? ANALISI 3. Cos’è lo stellato fiume descritto? Perché amare introduce in esso? STILE 4. Quale figura retorica è presente in creato ed increato al v. 22? Valutane l’effetto in rapporto al tema della poesia.

Interpretare

online T4 Mario Luzi

TESTI A CONFRONTO 5. Metti a confronto questo componimento con la poesia di Ungaretti La madre, nella raccolta Sentimento del tempo (➜ C1), dal punto di vista tematico e formale (caratteristiche del lessico, della sintassi e del ritmo dei versi) e fai una schedatura degli elementi di affinità e di contrasto. Quali immagini della figura materna offrono i due poeti? In che modo i due poeti delineano il ruolo della madre quale intermediaria tra il poeta-figlio e Dio? Qual è stato il rapporto di Ungaretti e Luzi con la religione nel corso delle rispettive vite?

Muore ignominiosamente la repubblica Al fuoco della controversia

online T5 Mario Luzi

Nell’imminenza dei quarant’anni Onore del vero

Luzi: la poesia come tramite tra il mondo terreno e l’Eterno 1 959


2

Caproni e il tema dell’assenza di Dio La biografia Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912; il padre Attilio è un ragioniere, appassionato di musica, mentre la madre, Anna Picchi, è sarta e ricamatrice. Nel 1922 la famiglia si trasferisce a Genova, dove Giorgio intraprende studi musicali (si specializza nel violino, e in armonia e composizione) ma, non riuscendo a sopportare la tensione di suonare in pubblico, rinuncia alla carriera concertistica; diventa maestro di scuola, e continuerà questa professione che eserciterà anche dopo aver raggiunto una certa fama come poeta. Durante la seconda guerra mondiale combatte sul fronte occidentale; in seguito, partecipa alla Resistenza in Val Trebbia. Esordisce nel 1936 con le poesie di Come un’allegoria, poi confluite insieme ad altre nella raccolta Il passaggio d’Enea (1956) che lo fa conoscere. Nel 1950 la morte della madre ispira a Caproni una delle raccolte più belle, Il seme del piangere (1959); seguiranno Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982) e Res amissa (1991, postuma). All’attività poetica, Caproni ha sempre affiancato quella saggistica e di traduttore dal francese (in particolare di Proust e Céline). Muore a Roma nel 1990.

Giorgio Caproni nel 1983.

La distanza dall’Ermetismo e il percorso originale di Caproni Fin dalle prime raccolte la poesia di Caproni si distingue da quella ermetica; è una lirica chiara, comunicativa, facilmente comprensibile e apparentemente realistica; inizialmente, perciò, per la sua «esattezza visiva e fluidità melica» (Mengaldo), essa viene accostata dai critici a quella di Saba, e collocata nella linea dell’Antinovecentismo. Alla luce delle successive raccolte, tuttavia, tale etichetta appare riduttiva per uno dei percorsi più personali della lirica del Novecento che, riprendendo in modo originale non solo Saba, ma anche Ungaretti e Montale, si sviluppa con esiti alti e profondamente originali fino alle ultime raccolte, in un itinerario che colloca il poeta fra i grandi del Novecento: «Oggi non c’è dubbio per qualunque persona sensata che Caproni sia tra i massimi e più originali poeti del dopo-Montale», afferma Pier Vincenzo Mengaldo. Il poeta metafisico Nel distanziarsi dalla poetica allusiva dell’Ermetismo, Caproni dichiara: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa m’ha sempre messo in sospetto». Pure, osserva sempre Mengaldo, gli oggetti disegnati in modo determinatissimo, ma decontestualizzati, in un clima onirico, non appartengono alla sfera realistica, bensì a quella metafisica. Anche i luoghi della poesia di Caproni, pur essendo riconoscibili negli spazi urbani di Genova e Livorno, le città dove è vissuto, appaiono come spazi metafisici, immersi in un tempo irreale e sospeso: ferrovie, bar, latterie, più che luoghi reali cittadini appaiono «sfondi purgatoriali» (Testa), che non conducono verso il paradiso, ma verso un inquietante nulla simboleggiato dalla nebbia che li avvolge: così nelle Stanze della funicolare, il poeta

960 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


immagina un viaggio onirico sulla funivia genovese, che approda in sedi misteriose e irreali; o, nella poesia L’ascensore, l’ascensore genovese che risale dal mare alle zone più alte della città simboleggia l’approdo a una realtà altra, avvolta nel mistero. Il viaggio come “correlativo oggettivo” dell’esplorazione dei limiti della ragione Il viaggio, tema fondamentale nell’opera di Caproni, si svolge dunque per lo più in spazi irreali, che suscitano un senso di spaesamento e di inquietudine, collocati alla frontiera tra essere e non essere, «luoghi non giurisdizionali» (➜ T11 ), ossia sottratti alle leggi consuete della vita. Rappresentano ciò che oltrepassa le «frontiere invalicabili della ragione» (Testa): Caproni stesso si dichiara un razionalista («Io sono un razionalista che pone limiti alla ragione») che sonda continuamente i limiti dell’umano comprendere. Alla sua poesia si può perfettamente applicare quanto Montale afferma a proposito della propria opera: «Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica». Il debito con Montale Tra la poesia di Montale e quella di Caproni vi sono dunque evidenti affinità. Lo stesso Caproni sottolinea il proprio debito verso il poeta genovese, scrivendo: «M’incontrai per la prima volta con Ossi di seppia intorno al ’30, a Genova, e subito quelle pagine m’investirono con tale energia […] da diventar per sempre parte inseparabile del mio essere [...]; posso dire ch’egli è uno dei pochissimi poeti d’oggi che in qualche modo sia riuscito ad agire sulla mia percezione del mondo». Affinità nella percezione del mondo che si rivelano in alcune immagini ricorrenti nella poesia di entrambi (anche per Caproni si può parlare di “correlativo oggettivo”), come ad esempio quella del muro, simbolo dei limiti umani alla conoscenza. Le affinità con Saba... In alcune raccolte di Caproni, in particolare nel Seme del piangere, è però anche evidente il modello di Saba. In alcuni testi programmatici il poeta enuncia il proposito di scrivere rime leggere e musicali, adatte al personaggio della raccolta, la madre da giovane. Nella poesia Per lei, ad esempio, richiamando Amai di Saba, scrive: «Per lei voglio rime chiare, / usuali: in -are. / Rime magari vietate, / ma aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini» (➜ T6 ). ... e con Ungaretti In realtà, tuttavia, Caproni ricerca soprattutto un’aderenza musicale del significante al significato. Perciò se una leggerezza ariosa, memore della poesia di Saba, caratterizza i versi dedicati alla figura gentile della madre giovinetta, nei libri successivi dell’autore – dedicati a temi quali la ricerca e la morte di Dio, il maJean-BaptisteCamille Corot, Veduta di Genova dalla Passeggiata dell’Acquasola, 1834.

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 961


le, lo scacco della ragione – la musicalità a cui egli tende è antimelodica, «scabra ed essenziale», richiamando con ciò ancora la lezione di Montale. La poesia di Caproni tende inoltre sempre più, con il tempo, a forme concise ed essenziali, composte di versi brevissimi e frantumati dagli enjambements, che danno sempre più spazio al «silenzio che sta dietro e tra le parole» (Coletti); un dettato prosciugato che rivela un altro fondamentale modello novecentesco, l’Ungaretti di Allegria di naufragi, come conferma lo stesso Caproni: «M’insegnava infatti a ritrovare in casa nostra il sapore perduto della grande – semplice – poesia parola per parola, silenzio per silenzio». Le raccolte poetiche di Caproni come libri unitari La musicalità peculiare di ciascun libro di Caproni evidenzia il carattere unitario delle singole raccolte, costituite, almeno a partire dal Seme del piangere, come veri e propri “libri di poesia”, con un canovaccio narrativo, e il ricorrere di variazioni sul tema, che stabiliscono legami fra testo e testo. Il passaggio di Enea La prima raccolta di Caproni con un certo grado di unitarietà, è Il passaggio di Enea (1956), il cui titolo è ispirato a un gruppo marmoreo settecentesco (rimasto illeso in piazza Bandiera, a Genova, per il resto quasi tutta ridotta in macerie dai bombardamenti della seconda guerra mondiale) raffigurante Enea che sorregge il padre e tiene per mano il figlio. Nel personaggio di Enea, reduce da Troia distrutta con il vecchio Anchise e Ascanio bambino, il poeta vedeva rispecchiata la situazione degli italiani che, usciti dalla guerra, avevano visto crollare il loro vecchio mondo. Un dono postumo alla madre: Il seme del piangere La struttura di libro organico si riscontra però soprattutto a partire dalla raccolta Il seme del piangere (1959). Il titolo rievoca i versi del Purgatorio dantesco in cui Beatrice, nel Paradiso Terrestre, induce Dante a piangere per il rimorso dei peccati commessi. E il rimorso è uno dei sentimenti che ispirano il libro: il poeta lo prova verso la madre, Anna Picchi (morta per malattia nel 1950, in età ancora relativamente giovane), temendo di non esserle stato abbastanza vicino nel suo doloroso calvario. Il poeta immagina allora di restituirle attraverso i versi la giovinezza e la vita, creando con la poesia un tempo irreale in cui egli, adulto, possa incontrare la madre giovinetta. La leggerezza ariosa e musicale dei versi tende a restituire della madre adolescente un’immagine capace di compensare agli occhi del figlio il senso di un’angosciante perdita. Il congedo del viaggiatore cerimonioso, la “trilogia filosofica”, Res amissa Nel Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965), il poeta introduce figure che chiama “prosopopee” (la prosopopea è una figura retorica attraverso cui si introducono a parlare persone morte o immaginarie, o anche cose inanimate o entità astratte); ognuna di queste è un alter ego del poeta che parla, di solito con un monologo rivolto a un pubblico silenzioso. Negli anni seguenti Caproni pubblica tre libri, quasi una trilogia, accomunati dalla tematica filosofica, dal linguaggio essenziale e dal carattere unitario che ricalca la struttura di un’opera musicale. Il primo, Il muro della terra (1975), è incentrato sul tema del limite alla conoscenza; il secondo, Il franco caccia-

962 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


tore (1982), il cui titolo riprende quello di un’opera lirica di Carl Maria von Weber (1786-1826), sulla ricerca metafisica di un Dio inesistente o scomparso; il terzo, Il conte di Kevenhüller (1986), sulla caccia a una misteriosa e inafferrabile Bestia feroce, allegoria del male, così difficile da afferrare perché quelli che più ferocemente la inseguono non sanno di averla dentro di sé, «così confitta in ognuno che colpirla equivale ad uccidersi» (Testa): «La bestia che cercate voi, / voi ci siete dentro» (Saggia apostrofe a tutti i caccianti). Al male del Conte di Kevenhüller si contrappone il bene perduto, oggetto dell’ultima raccolta, pubblicata postuma nel 1991, Res amissa: “La cosa perduta”, appunto.

Le opere di Giorgio Caproni TITOLO

GENERE

DATA

TEMI / CONTENUTO

Il passaggio di Enea

raccolta di versi

1956

situazione dell’Italia post-bellica

Il seme del piangere

raccolta di versi

1959

rimorso del poeta nei confronti della madre morta

Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee

raccolta di versi

1965

discorsi di persone morte o cose inanimate rivolti, in genere, a un pubblico silenzioso

Il muro della terra

raccolta di versi

1975

il limite della conoscenza

Il franco cacciatore

raccolta di versi

1982

ricerca metafisica di un Dio inesistente o scomparso

Il conte di Kevenhüller

raccolta di versi

1986

caccia a una misteriosa Bestia, allegoria del male

Res amissa

raccolta di versi

1991 (postuma)

riflessione sul bene perduto

online T6 Giorgio Caproni

PER APPROFONDIRE

Per lei Il seme del piangere

Il libro di poesia Un importante aspetto della poesia del secondo Novecento è la tendenza a inserire i testi in raccolte strutturate come “libro di poesia”; tendenza già anticipata, nel primo Novecento, da raccolte come quelle di Gozzano e dagli Ossi di seppia di Montale. Come sottolinea il critico Enrico Testa, alcuni caratteri distinguono una semplice raccolta di testi poetici da un vero e proprio “libro di poesia”. Se ne possono ricordare in particolare tre: • elementi che ricorrono in più testi, conferendo unità al libro:

personaggi, luoghi, situazioni;

• elementi di struttura: presenza di testi proemiali e conclusivi, divisione in sezioni, segnali di inizio e fine della raccolta e delle sezioni; • progressione tematica: sviluppo dei temi fondamentali nel corso del libro.

Testo di riferimento: E. Testa, Il libro di poesia: tipologie e analisi macrotestuali, Il Melangolo, Genova 1983.

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 963


T7

La reversibilità del tempo Il tempo può tornare indietro? Nella vita no, ma nella poesia sì. È questa l’idea che ispira la raccolta di Caproni Il seme del piangere. Così, in un tempo irreale, creato dal desiderio, il poeta può incontrare la madre giovane, sullo sfondo della città di Livorno: ma anche la città, ariosa e luminosa, cornice della giovinezza di Annina, può tornare a esistere soltanto nei versi, essendo stata in gran parte ridotta in macerie dalla Seconda guerra mondiale.

Giorgio Caproni

T7a

Perch’io... Il seme del piangere

G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

Il testo, posto all’inizio della raccolta, dopo l’epigrafe tratta dal Purgatorio di Dante (XXXI, 45-46: «udendo le sirene, sie più forte, / pon giù il seme del piangere e ascolta») evoca il momento, doloroso ma anche consolatorio, in cui il poeta compone i versi dedicati alla madre.

... perch’io, che nella notte abito solo, anch’io, di notte, strusciando un cerino sul muro, accendo cauto una candela bianca nella mia mente – apro una vela 5 timida nella tenebra, e il pennino strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto che mi bagna la mente...

La metrica Endecasillabi con alcune rime, irregolari.

Analisi del testo La tenebra della morte e la luce della memoria Nel Purgatorio, giunto al Paradiso Terrestre, Dante incontra Beatrice, che lo induce a piangere per il rimorso dei peccati commessi; anche la raccolta di Caproni nasce dal pianto («scrivo / e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto / che mi bagna la mente»). La poesia si apre su uno scenario di tenebra, d’angosciosa solitudine, con il poeta nel chiuso di una stanza, luogo di pena e di rimorso. Ma nell’oscurità si apre una luce: la luce della memoria e della poesia, capace di ricreare la vita e i momenti più felici della madre, quando era ancora una ragazza.

I simboli del ricordo L’angoscia del ricordo è simboleggiata dallo scricchiolio del pennino, nella fatica di scrivere e riscrivere, perché le parole vincano finalmente il pianto che «bagna la mente». La precarietà della memoria è simboleggiata da un correlativo oggettivo, l’effimera e tenue luce di un cerino, che subito si spegne, dopo essere stato acceso strofinandolo contro un muro. Anche il muro è un correlativo oggettivo, ricorrente nella poesia di Caproni, a indicare il limite della conoscenza umana, e in questo caso l’irreparabile distanza dalla madre morta, per il poeta che non si affida a una consolazione religiosa. Simboleggiano, invece, la poesia due immagini luminose contro l’oscurità, sottolineate dall’enjambement: la «candela / bianca» che illumina la mente, restituendo il ricordo della giovinezza della madre, e la «vela / timida nella tenebra» che suggerisce uno spazio aperto alla libertà dell’immaginazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. La poesia fa da proemio alla raccolta: individua gli elementi che ne indicano la funzione. 2. Perché, a tuo giudizio, la vela è definita «timida» (v. 5)? ANALISI 3. La poesia è costruita sull’antitesi luce-oscurità: indica le immagini che si riferiscono ai due elementi contrapposti e il loro significato simbolico.

964 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


STILE 4. Indica gli enjambements che mettono in risalto alcuni termini, ponendoli in rapporto con i temi della poesia.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. L’immagine del muro è frequente in poesia. Verifica come essa ricorra in altri testi di Caproni, in testi di Montale e nella poesia di Ungaretti La madre, nella raccolta Sentimento del tempo («il muro d’ombra»). Confronta l’immagine nei diversi testi.

Giorgio Caproni

T7b

Per una bicicletta azzurra Il seme del piangere

G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

Secondo il proposito espresso in Perch’io…, il poeta fa rivivere nella poesia la madre morta e, grazie all’immaginazione, retrocede a un tempo anteriore alla propria nascita, quando la madre, adolescente, percorreva in bicicletta le ariose strade di Livorno.

Per una bicicletta azzurra, Livorno come sussurra! Come s’unisce al brusio dei raggi, il mormorio!

5

Annina sbucata all’angolo ha alimentato lo scandalo. Ma quando mai s’era vista, in giro, una ciclista?

La metrica Versi brevi (settenari, ottonari e un novenario al v. 1), con rime baciate.

Analisi del testo Tra ricordi stilnovistici e realtà moderna La poesia ha una musicalità lieve e armoniosa, di un’ariosa leggerezza, che ricorda le ballate e le canzonette degli stilnovisti e che, con gli agili versi, le rime baciate, i suoni lievi (in particolare il prevalere della r nella prima strofa) evoca altresì la figura snella della madre, quando era ancora giovane e correva leggera in bicicletta. Sfondo della scena e cornice della sua apparizione è Livorno, luminosa e ventilata città di mare. Apparentemente semplice, la poesia riesce a fondere il ricordo letterario dello stilnovismo, che ispira tutta la raccolta, e la vita reale. Annina che passa in bicicletta, accompagnata dal brusio e dal “sussurro” di tutta la città, evoca infatti le donne di Guinizzelli e Dante, aeree ed evanescenti, circondate dalla stupita ammirazione di chi le contempla mentre passano, quasi fossero angeli. Ma, nello stesso tempo, Annina è una figura reale e moderna, che desta “scandalo” con le sue corse in bicicletta (un emblema di gioia di vivere, libertà e giovinezza).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della poesia in max 3 righe. COMPRENSIONE 2. Perché, secondo te, la madre del poeta desta scandalo al suo passaggio in bicicletta? STILE 3. Quale idea trasmette la rima azzurra/sussurra (vv. 1-2)?

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Scrivi una breve poesia con al centro un moderno rider che percorre le vie della tua città e metti in luce i sentimenti e le sensazioni di chi osserva il suo rapido passaggio.

online T7c Giorgio Caproni Ad portam Inferi Il seme del piangere

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 965


Giorgio Caproni

T8

Congedo del viaggiatore cerimonioso

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

online

Audio

Tratta dalla raccolta Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965), è forse la poesia più famosa di Caproni. Un personaggio, giunto alla meta finale di un viaggio in treno – allegoria della vita – si congeda dai compagni di scompartimento con un monologo che racchiude e condensa «una prospettiva globale sul valore dell’esistere, dal punto alto che precede l’ultimo passo» (Surdich). Come spiega in una lettera del 1961 al poeta Carlo Betocchi, Caproni immaginava il testo come un pezzo teatrale recitato da un attore «con certa lenta enfasi».

Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia. Anche se non so bene l’ora 5 d’arrivo, e neppure conosca quali stazioni precedano la mia, sicuri segni mi dicono, da quanto m’è giunto all’orecchio 10 di questi luoghi, ch’io vi dovrò presto lasciare. Vogliatemi perdonare quel po’ di disturbo che reco. Con voi sono stato lieto 15 dalla partenza, e molto vi sono grato, credetemi, per l’ottima compagnia. Ancora vorrei conversare a lungo con voi. Ma sia. 20 Il luogo del trasferimento lo ignoro. Sento però che vi dovrò ricordare spesso, nella nuova sede, mentre il mio occhio già vede 25 dal finestrino, oltre il fumo umido del nebbione che ci avvolge, rosso il disco della mia stazione. Chiedo congedo a voi 30 senza potervi nascondere, lieve, una costernazione. Era così bello parlare

La metrica Versi liberi di varia misura, con alcune rime liberamente disposte, in dieci strofe di diversa lunghezza.

966 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


insieme, seduti di fronte: così bello confondere 35 i volti (fumare, scambiandoci le sigarette), e tutto quel raccontare di noi (quell’inventare facile, nel dire agli altri), 40 fino a poter confessare quanto, anche messi alle strette, mai avremmo osato un istante (per sbaglio) confidare. (Scusate. È una valigia pesante anche se non contiene gran che: tanto ch’io mi domando perché l’ho recata, e quale aiuto mi potrà dare poi, quando l’avrò con me. 50 Ma pur la debbo portare, non fosse che per seguire l’uso. Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco. Ora ch’essa è nel corridoio, mi sento 55 più sciolto. Vogliate scusare). 45

Dicevo, ch’era bello stare insieme. Chiacchierare. Abbiamo avuto qualche diverbio, è naturale. 60 Ci siamo – ed è normale anche questo – odiati su più d’un punto, e frenati soltanto per cortesia. Ma, cos’importa. Sia 65 come sia, torno a dirvi, e di cuore, grazie per l’ottima compagnia. Congedo a lei, dottore, e alla sua faconda dottrina. 70 Congedo a te ragazzina smilza, e al tuo lieve afrore di ricreatorio e di prato1 sul volto, la cui tinta mite è sì lieve spinta2. 75 Congedo, o militare (o marinaio! In terra

1 lieve… prato: leggero profumo di un luogo ricreativo e di campo; afrore è un profumo forte e penetrante, qui temperato dall’aggettivo lieve; il ricreatorio e l’ambiente naturale del prato suggeriscono un’immagine di innocenza. 2 la cui tinta… spinta: la giovane ha un’attrattiva delicata e senza una sensualità esibita (lo sottolinea la ripetizione dell’aggettivo lieve).

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 967


come in cielo ed in mare), alla pace e alla guerra. Ed anche a lei, sacerdote, 80 congedo, che m’ha chiesto s’io (scherzava!) ho avuto in dote di credere al vero Dio. Congedo alla sapienza e congedo all’amore. 85 Congedo anche alla religione. Ormai sono a destinazione. Ora che più forte sento stridere il freno, vi lascio davvero, amici. Addio. 90 Di questo, sono certo: io son giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento.

Analisi del testo Il tema metafisico La poesia è un’allegoria sulla vita e sulla morte. Il viaggio è quello della vita, da cui il protagonista a un certo punto è costretto a congedarsi: dal finestrino gli si dischiude un paesaggio che egli riconosce come la sua stazione d’arrivo («sicuri segni mi dicono, / da quanto m’è giunto all’orecchio / di questi luoghi, ch’io / vi dovrò presto lasciare», vv. 8-11), immersa nella nebbia, quindi nel mistero. La nebbia raffigura l’impossibilità di vedere ciò che ci attende al di là della vita. Anche il treno ha, nella poesia di Caproni, il valore di un simbolo metafisico, come egli stesso spiega in un’intervista: «il treno (che non può fermarsi né deviare quando vuole, come l’automobile) potrebbe darci il senso quasi dell’agostiniana predestinazione, in luogo del libero arbitrio».

Il punto di vista etico Quando il «viaggiatore cerimonioso», allo stridere del freno, scende, augura agli altri buon proseguimento: non è una frase di circostanza, ma il senso stesso della poesia. Il viaggiatore è posto di fronte a un ignoto che può terrorizzare, ma riesce a superare lo smarrimento e a dominare il timore assumendo un atteggiamento equilibrato, di «disperazione calma, senza sgomento». Accetta con coraggio il congedo dalla vita e dalle sue consolazioni, la sapienza, l’amore, la religione, rappresentate da allegorici compagni di viaggio: un dottore (v. 68), una ragazzina smilza, dal colorito delicato (tinta / mite, vv. 73-74) simbolo dell’innocenza e dell’attrazione della giovinezza, un sacerdote, un militare (con implicito rimando all’esercito, all’aviazione, alla marina: vv. 75-77).

Il valore dei rapporti umani Sebbene si immagina avvenga di fronte alla morte, il monologo ha un tono affabile e colloquiale. Il viaggiatore non vuole pesare sugli altri, né recare disturbo e manifesta una gentilezza, appunto, «cerimoniosa». Se la discesa dal treno corrisponde alla morte, il viaggio rappresenta la vita e ciò che in essa conta, il rapporto con gli altri: perciò il protagonista ringrazia i suoi compagni di scompartimento, che simboleggiano le persone che lo hanno accompagnato nel corso della vita, «per l’ottima compagnia» (vv. 17 e 67). Della vita ormai trascorsa restano i momenti sereni trascorsi insieme («parlare insieme, seduti di fronte», «confondere i volti»), l’aver condiviso gioie e piaceri (lo scambio delle sigarette), le chiacchiere, i racconti,

968 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


le amabili discussioni, le confidenze. Il viaggiatore riconosce che con i compagni di viaggio ci sono stati a volte dissidi (qualche diverbio), ma sempre frenati dal rispetto, dall’educazione e dalla misura. Se la vita è pessimisticamente vista come viaggio verso il nulla (il poeta non crede in una consolazione religiosa: il prete che gli chiede se ha creduto nel vero Dio per lui scherzava! [v. 81]), è ancora più necessario essere comprensivi e amichevoli con gli altri, per non accrescere il peso dell’esistenza, ma anzi per alleviarlo, come buoni compagni di viaggio (un tema che può ricordare La ginestra e in generale l’ultimo Leopardi).

Il viaggiatore come alter ego del poeta Ma nel «viaggiatore cerimonioso», riservato e insieme gentile, affabile, si può riconoscere anche un ritratto del poeta stesso. Antonio Debenedetti, che lo aveva avuto come maestro e poi amico, scrive: «Mi ha dato un insegnamento fondamentale: mi ha insegnato a ribellarmi senza fare male a nessuno, nemmeno a me stesso». E le parole del «viaggiatore cerimonioso» possono singolarmente ricordare quelle che il maestro Caproni, congedandosi dai suoi alunni di quinta elementare, volle dettare loro: «La vostra guida vi lascia. Il suo volto è fiero, ma anche un poco triste. Non dimenticatela. Ha spartito con voi, per tre anni, bello e brutto tempo. Vi ha amato come un padre».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto narrativo della poesia in 5 righe circa. COMPRENSIONE 2. Quale messaggio, secondo te, è contenuto nel testo? Sintetizzalo in 3 righe. ANALISI 3. Nel testo è presente un’opposizione tra uno spazio interno e uno esterno. Quali sono le differenze? Che cosa indica ciascuno di essi? 4. Considera le frasi del viaggiatore poste tra parentesi e indica in cosa si differenzino dal resto del discorso. LESSICO 5. Spiega nel contesto il significato di queste parole: costernazione (v. 31), diverbio (v. 59), faconda (v. 69).

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 6. La poesia di Caproni fa riflettere sull’importanza dei rapporti umani e della solidarietà come strumento per alleviare il peso che grava sulle nostre esistenze. Quanto è importante, secondo te, la solidarietà verso gli altri? Ti sembra che essa rappresenti un valore nella nostra epoca e che l’invito di Leopardi nella Ginestra, riecheggiato dalle parole di Caproni, a unirsi in una social catena sia stato recepito dalle persone che vivono nel mondo odierno?

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 969


Giorgio Caproni

Anch’io

T9

Il muro della terra Il testo, breve ed epigrammatico, dà, con il suo ultimo verso, il titolo alla raccolta. Il «muro della terra» è un’espressione ripresa da Dante, che indica il muro di cinta della città infernale; per il poeta, come egli stesso spiega in un’intervista, «significa il limite che incontra, ad un certo momento, la ragione umana».

G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

Ho provato anch’io. È stata tutta una guerra d’unghie. Ma ora so. Nessuno potrà mai perforare 5 il muro della terra. La metrica Strofa di versi di varia lunghezza; rima tra i vv. 2 e 5.

Analisi del testo Il confronto con il modello dantesco L’espressione «il muro della terra» riprende il dantesco (If X, 2) «tra ’l muro de la terra», “tra le mura della città” di Dite, nel momento in cui Dante e Virgilio sono finalmente riusciti a penetrare nella cittadella infernale e si trovano nel girone degli epicurei. Ma il varco era stato difficile, anzi impossibile con le loro sole forze umane: ostacolati com’erano dai demoni, avevano dovuto attendere che un angelo, simbolo della Grazia, aprisse loro la porta. Per il poeta moderno, invece, in assenza della Grazia, il muro resta una barriera invalicabile. Il muro diviene così il correlativo oggettivo del limite alla conoscenza del senso dell’universo, una barriera al di là della quale, per Caproni, ci sono soltanto il nulla e il mistero.

Le caratteristiche dello stile I versi concisi ed essenziali, quasi lapidari, riassumono il senso di un’indagine metafisica senza esito, come è mostrato dai tre tempi verbali, il passato della ricerca (Ho provato), il presente della consapevolezza (ora so), il futuro dell’impossibilità di conoscere ciò che è al di là della realtà terrena («Nessuno potrà mai perforare / il muro della terra»). Ma tale consapevolezza non è acquisita con rassegnazione, come mostra il tentativo di varcare il muro con «una guerra / d’unghie», che forse evoca un ricordo della novella verghiana Rosso Malpelo, in cui il ragazzo scava inutilmente con le unghie per disseppellire il padre, travolto da una frana nella cava sotterranea in cui lavorava (➜ VOL 3A C7): un’immagine che simboleggia la debolezza dei mezzi umani, ma anche la disperata ostinazione a cercare la verità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della poesia in max 3 righe. STILE 2. Nel componimento prevale la paratassi o l’ipotassi?

Interpretare

online T10 L’assenza

e il bisogno di Dio

SCRITTURA 3. In un testo di max 15 righe esponi le tue personali riflessioni sul senso del limite della conoscenza umana.

T10a Giorgio Caproni Lo stravolto Il muro della terra

T10b Giorgio Caproni Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento Il muro della terra

T10c Giorgio Caproni Sulla staffa Il franco cacciatore

970 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica

T10d Giorgio Caproni Benevola congettura Il franco cacciatore

T10e Giorgio Caproni Invocazione Res amissa


Giorgio Caproni

T11

L’ultimo borgo Il franco cacciatore

G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

Un gruppo di misteriosi viaggiatori giunge a una terra di frontiera (come indica il titolo, si lasciano alle spalle L’ultimo borgo): allegoricamente, il confine dell’umana ragione.

S’erano fermati a un tavolo d’osteria. La strada era stata lunga. 5 I sassi. Le crepe dell’asfalto. I ponti più d’una volta rotti o barcollanti. Avevano le ossa a pezzi. E zitti dalla partenza, cenavano a fronte bassa, ciascuno 15 avvolto nella nube vuota dei suoi pensieri. 10

Che dire.

Avevano frugato fratte e sterpeti. 20 Avevano fermato gente – chiesto agli abitanti. Ovunque solo tracce elusive 25 e vaghi indizi – ragguagli reticenti o comunque inattendibili.

Ora sapevano che quello era 30

35

l’ultimo borgo. Un tratto ancora, poi la frontiera e l’altra terra: i luoghi non giurisdizionali. L’ora

era tra l’ultima rondine

e la prima nottola1.

La metrica Versi liberi di varia misura, suddivisi in strofe irregolari.

1 L’ora era... nottola: l’ora del crepuscolo, fra il tramonto del sole (il volo delle ultime rondini) e l’inizio della notte, con il volo della civetta, che inizia solo al crepuscolo (con un ricordo di Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto: «la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo»).

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 971


Un’ora già umida d’erba e quasi 40 (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua diroccata e lontana.

Analisi del testo Il valore simbolico del viaggio Il tema è quello del viaggio, ma si tratta di un viaggio allegorico: quello della ragione ai propri confini. Un gruppo di personaggi anonimi e indeterminati, come se fossero senza volto, si ferma al tavolo di un’osteria, dopo un lungo cammino. Non solo non parlano, ma anche i loro pensieri sono come una nube vuota. Del viaggio, ormai giunto al termine, ricordano la lunghezza e la fatica, le difficoltà (i sassi), i passaggi difficili, quasi impossibili, da superare (i ponti rotti o barcollanti). Il cammino lasciato alle spalle svela il significato del viaggio come un interrogarsi, vano, sul senso ultimo della vita. L’allitterazione («frugato fratte e sterpeti») sottolinea la tensione della ricerca e insieme la sua infruttuosa inutilità (gli sterpeti appaiono come il correlativo oggettivo del vuoto di senso); le uniche tracce (le parziali verità trovate) risultano vaghe e incerte.

I luoghi non giurisdizionali La successiva sequenza, dal v. 19, aperta dall’indicazione di tempo presente (Ora), rappresenta l’approdo dei viaggiatori a una terra di confine, al di là della quale le leggi vigenti, allegoricamente le poche certezze su cui si sostiene la vita, non valgono più (sono giunti ai «luoghi non giurisdizionali», sottoposti a una diversa legge). Poiché il viaggio si configura come allegoria di una ricerca intellettuale, le leggi non più vigenti nel punto di arrivo sono quelle della ragione, al di là della quale ci si addentra nei territori del mistero, dell’infinito e del nulla. In questi territori non valgono più i normali strumenti di orientamento, come la misura del tempo: perciò l’ora può essere soltanto indicata in modo vago, come «un’ora che è insieme di fine e di annuncio» (G. Ferroni). Si coglie che siamo in una dimensione “altra” dal senso di spaziosità indefinita, evocato dal suono, udito in lontananza, di una frana d’acqua diroccata e lontana: la frana, immagine ricorrente nella poesia di Caproni, suggerisce come tutto alla fine precipiti nel nulla.

Il significato simbolico dei luoghi di confine I luoghi di confine hanno un significato simbolico, spiegato dallo stesso poeta: «Io sono un razionalista che pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che cosa non lo so, ma so che il destino di qualsiasi ricerca è imbattersi nel “Muro della terra” oltre il quale si stendono i “luoghi non giurisdizionali”, dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori del territorio in cui vige. [...] Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c’è l’inconoscibile». È questo territorio di confine tra finito e infinito che la sua poesia esplora.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in max 5 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa rappresentano «i luoghi non giurisdizionali»? ANALISI 3. Riporta le citazioni che indicano come la ricerca oltre i confini della ragione sia stata vana. 4. Che cosa significa, nel contesto, l’aggettivo diroccata (v. 30)? Quale significato simbolico evoca?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Il viaggio descritto nella poesia può ricordare un passaggio del Canto notturno di un pastore errante di Leopardi. Verifica questa ipotesi e individua le analogie fra i due testi.

online T12 Giorgio Caproni La frana Il conte di Kevenhüller

online T13 Giorgio Caproni Io solo Il conte di Kevenhüller

972 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giovanni Raboni I luoghi «d’esilio» della poesia di Caproni G. Raboni, in G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999

In una prosa densa di suggestioni, il poeta Giovanni Raboni (1932-2004) individua nella produzione poetica di Caproni tre fondamentali nuclei tematici: la città, la madre, il viaggio.

1. La poesia di Caproni coagula, fin dall’inizio, intorno a pochi, fondamentali nuclei tematici. Nell’ordine – cioè più o meno nella successione secondo la quale si sono manifestati; ma la loro connessione è così stretta da determinare un intreccio praticamente indissolubile – possiamo distinguere tre grandi temi: il tema della città, il 5 tema della madre, il tema del viaggio. [...] A dieci anni, Caproni va a vivere a Genova, che diventa la sua città e, si può dire, l’oggetto del suo primo innamoramento. […] Ma quando Caproni va a vivere a Roma diventa un amore da lontano, un amore impossibile, infelice. Diventa il rimpianto di un amore. […] 10 Dopo il tema della città, il tema della madre. Ad esso è dedicata gran parte – la parte essenziale, caratterizzante – della seconda delle grandi raccolte di Caproni, Il seme del piangere (1959). Anche quello per la madre è un amore impossibile, un amore-rimpianto: reso tale dal tempo, dalla morte; una distanza temporale che Caproni vive come se fosse spaziale, cioè come se fosse ipotizzabile (sebbene, certo, 15 non verificabile) percorrerla nel senso inverso. Proprio qui si rivela un primo nodo, un primo intreccio importante fra un tema e un altro tema. Non a caso Caproni, operando una squisita rievocazione stilistica, usa modi e cadenze della ballata d’esilio, e alla propria ballata o ballatetta si rivolge, non perché si rechi in un luogo dove egli non spera di «tornar giammai»1, ma, ana20 logicamente, perché voli all’indietro nel tempo sino agli anni in cui sua madre, Anna Picchi, era giovinetta e fresca sposa (e poi dolente, affaticata, smarrita viaggiatrice dell’Ade, come nella magnifica poesia intitolata Ad Portam Inferi). […]. Il terzo grande tema della poesia di Caproni è il tema del viaggio, che pervade gran parte del Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e del successivo e già ricordato 25 Il muro della terra, ma è anticipato con grande forza, parecchi anni prima, nelle bellissime Stanze della funicolare, che costituiscono una vera e propria cerniera dell’intreccio o sistema tematico caproniano, con quel viaggio-volo della funicolare (trasformata volta a volta in furgone militare, carro funebre, navicella spaziale, macchina del tempo) al di sopra della città amata e attraverso le diverse età dell’uomo, 30 e con quel ritorno finale alla nebbiosa latteria del prologo che è, nello stesso tempo, una regressione al grado zero dell’infanzia e una discesa nel regno dei morti. Il tema è scopertamente, violentemente allegorico: il viaggio è quello della vita, e il poeta-viaggiatore ne commemora le tappe e, soprattutto, ne osserva e commenta l’avvicinarsi alla fine (alla meta?) con un’ironia pacata e tuttavia tormentosa, con 35 una strana, luminosa assenza sia di disperazione che di speranza (o, per usare sue parole, con una disperazione «calma, senza sgomento»). Un’allegoria, ripeto, violen-

1 ballata… «giammai»: il riferimento è a Perch’i’ non spero di tornar giammai di Guido Cavalcanti (➜ VOL 1A C4 T15 ), ripresa da Caproni.

Caproni e il tema dell’assenza di Dio 2 973


INTERPRETAZIONI CRITICHE

ta, scoperta: ma, proprio per questo, resistentissima ad ogni tentativo di trascrizione; cristallina; impenetrabile. […] 2. Come ho già suggerito, i tre temi (della città, della madre, del viaggio) appaiono, 40 nella vita reale dei singoli testi e del testo complessivo che ne risulta, così intrecciati, così ribaditi l’uno all’altro e l’uno nell’altro da formare, più che una successione, un anello di temi […]. È certo, comunque, che i tre temi hanno un comune denominatore, che è quello dell’esilio. Esilio dallo spazio (la città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio). […] E che fa dell’intera sua opera poetica (se 45 vogliamo ricorrere a una formula) un grande, struggente e severo canzoniere d’esilio o, in altro senso, un ininterrotto diario di viaggio: viaggio nel tempo e nello spazio, viaggio nel nulla (nella nebbia, nell’Ade) ricordando la madre e la terra, viaggio nel tunnel dell’assenza di Dio assaporando l’amaro trionfo della sua scomparsa, viaggio nell’antimateria – nel non spazio, non tempo, non-luogo – capovolgendo (e al 50 tempo stesso celebrando con raggelata e affettuosa ironia) gli appuntamenti, i riti, le «cerimonie» dell’ovvietà quotidiana. 3. Il discorso tematico sin qui contemplato si radicalizza, si estremizza nella parte più recente dell’opera di Caproni: in alcune sezioni, o singole poesie, del Muro della terra, e, più ancora, in quell’unica, frantumata e ininterrotta poesia che è Il franco 55 cacciatore. Il tema dominante, quasi esclusivo, è ormai, infatti, la più forte, la più grave, la più «oltranzistica» delle variazioni sul tema-cardine dell’esilio: è, nientemeno, il tema della «terra bruciata», della morte di Dio, dell’inesistenza e necessità di Dio, dell’impossibilità di scovare il «Deus absconditus»2, ma anche di cancellarne il buco, il vuoto, il nome. Non si tratta, naturalmente, di una novità tematica assoluta 60 nella poesia di Caproni, caratterizzata (da sempre, direi) da una sorta di religiosità laica basata sul rovesciamento dei segni, sul ribaltamento della presenza dell’oggetto d’amore in assenza assoluta, in rimpianto arido e cocente dell’oggetto d’amore. L’assenza di Dio, insomma, come equivalente o anagramma3 della lontananza dalla città amata, dell’irraggiungibilità del passato e dunque della madre, dello svaporare 65 e annebbiarsi delle tappe del viaggio, cioè della vita... [...].

2 «Deus absconditus»: il “Dio nascosto” del filosofo francese Blaise Pascal, che si occulta per non violare la libertà dell’uomo.

3 anagramma: gioco enigmistico che consiste nel permutare le lettere di una o più parole in modo tale da creare altre parole o frasi di senso compiuto.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Sintetizza in modo schematico le argomentazioni con cui l’autore sostiene che le raccolte poetiche di Caproni sono accomunate dal “tema dell’esilio”. 2. Quale tipo di amore lega Caproni a Genova? Quale alla madre? 3. Raboni dice che la poesia di Caproni è caratterizzata «da una sorta di religiosità laica basata sul rovesciamento dei segni, sul ribaltamento della presenza dell’oggetto d’amore in assenza assoluta, in rimpianto arido e cocente dell’oggetto d’amore». Cosa intende dire, secondo te? 4. Sulla scorta del testo critico e delle tue conoscenze di Caproni, esponi – in un testo di massimo 20 righe – le tue considerazioni sul tema del viaggio nella sua poesia.

974 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


3

Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà e con il linguaggio La biografia Andrea Zanzotto nasce nel 1921 a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, dove trascorrerà gran parte della sua vita. I suoi interessi letterari lo spingono a frequentare il liceo classico e a iscriversi poi alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, dove si laurea nel 1942 con una tesi sulla scrittrice sarda Grazia Deledda. Durante la seconda guerra mondiale, aderisce alla Resistenza veneta; nel 1946 emigra a Losanna, in Svizzera, e torna in Italia l’anno seguente. Nel 1949 ottiene l’abilitazione all’insegnamento e comincia a lavorare nelle scuole elementari. Nel 1950 concorre al premio San Babila per la sezione “Inediti” e risulta vincitore – nella giuria sono presenti alcuni tra i più grandi poeti del tempo, Montale, Quasimodo e Ungaretti – con un gruppo di poesie scritte tra il 1940 e il 1948, poi pubblicate nel 1951 con il titolo Dietro il paesaggio. Seguono le raccolte Elegia e altri versi (1954) e Vocativo (1957). Nel 1962 esce per Mondadori il volume di versi IX Egloghe. La sua fama viene consacrata alla fine degli anni Sessanta con la raccolta Beltà (1968), presentata a Roma da Pier Paolo Pasolini, a Milano da Franco Fortini e recensita da Eugenio Montale. Negli anni Settanta pubblica la raccolta Pasque (1973) e inizia una collaborazione con il regista Fellini per il film Casanova. I testi per il film, assieme al poemetto Filò, vengono pubblicati nel volume omonimo. Nel 1978 esce il primo di tre volumi del Galateo del bosco (gli altri due, Fosfeni e Idioma, vengono pubblicati rispettivamente nel 1983 e nel 1986). Da ricordare ancora le raccolte Meteo (1996) e Sovrimpressioni (2001). Nel 1999 esce nella collana dei “Meridiani” Mondadori il volume Le poesie e prose scelte. Andrea Zanzotto muore nel 2011 all’età di novant’anni. Un poeta tra mondo arcaico contadino e “postmoderno” Andrea Zanzotto è un poeta singolare nel panorama italiano, perché coniuga una visione della vita “arcaica” – ispirata alla nostalgia per i valori in via di estinzione della civiltà contadina – con una cultura moderna, o meglio postmoderna, fondata sulla psicoanalisi (in particolare di Jacques Lacan) e su aggiornati studi di linguistica e di filosofia. Il linguaggio poetico di Zanzotto riflette questo spettro culturale, spaziando dal dialetto ai neologismi dell’ambito filosofico, tecnico e scientifico, al lessico infantile e «pregrammaticale» nell’accezione che Contini applica a Pascoli (➜ VOL 3A C10).

Paolo Steffan, Ritratto di Andrea Zanzotto, 2009.

Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà e con il linguaggio 3 975


Una poesia densa di interrogativi filosofici Sebbene fondata più su interrogativi che su certezze, quella di Zanzotto è una poesia “filosofica”, incentrata su problemi quali la consistenza dell’io, il rapporto fra l’uomo e la realtà, la frattura esistente tra il linguaggio e le cose. In questo orizzonte problematico il linguaggio assume un’importanza centrale, come unica possibilità di risalire a un rapporto autentico con le cose. Nel linguaggio Zanzotto individua, infatti, un duplice versante: da una parte, nel mondo odierno, esso è sempre più veicolo di inautenticità e alienazione, dall’altra però – poiché nella lingua è storicamente depositata una stratificazione di significati, a partire da una matrice primitiva e arcaica – se si risale alle origini delle parole si può tentare di ristabilire un rapporto più autentico con le cose. L’accumularsi dei “detriti” della modernità La stratificazione dei “detriti” della modernità su un originario strato di naturale armonia fra l’uomo e il mondo, caratterizza per Zanzotto non soltanto il linguaggio, ma tutti gli aspetti dell’esistenza odierna. Nella sua poesia egli esplora gli aspetti di questa situazione, che ha il suo fondamento già in una costituzione alienata del soggetto (in questo Zanzotto concorda con gli autori della Neoavanguardia, da cui però dissente per la volontà di recuperare, per quanto possibile, il passato). L’altro aspetto della disarmonia affrontato è quello del rapporto fra uomo e natura. Zanzotto, cresciuto nello splendido scenario di Pieve di Soligo, tra le colline e le Prealpi venete, a partire dalla sua prima raccolta, Dietro il paesaggio (1951), e ancor più nelle successive, vi constata l’avanzare minaccioso dei segni della modernità, «tra cavi, gru, antenne, segnali deformi del consumismo» (Lorenzini). Il tema della degradazione dell’ambiente naturale viene sviluppato anche nelle IX Ecloghe (1962), che mostrano l’odierna impossibilità dell’armonia tra uomo e natura della tradizione bucolica anche attraverso il linguaggio, con il lessico bucolico sommerso e contaminato dall’inserzione del parlato quotidiano e della terminologia tecnica della modernità. Il rapporto fra il paesaggio e la storia del Novecento è al centro anche della raccolta Galateo in bosco (1978), in cui all’ambiente naturale idillico di Montello, boscosa zona collinare presso il Piave, si sovrappongono le tracce della storia: che può essere da una parte cultura e civiltà (in quei luoghi monsignor Giovanni Della Casa scrisse il Galateo), dall’altra violenza distruttiva, che ha raggiunto l’apice nella carneficina della Prima guerra mondiale, che ha disseminato quei boschi e quei prati di migliaia di corpi di soldati morti (Zanzotto scrive che su quelle colline si trova «la più varia mostra dei sangui»), riempiendone le trincee e gli ossari, «gremiti di bravura e di paura».

976 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


Il tema filosofico del linguaggio Il linguaggio e il suo rapporto con la realtà è al centro di diverse raccolte poetiche di Zanzotto. È il caso di Vocativo (1957), il cui titolo allude al tentativo di ristabilire un rapporto con le cose, invocandole; e di Idioma (1986), raccolta caratterizzata da una pluralità di linguaggi (fra cui il dialetto). Anche La beltà, del 1968, è contrassegnata da uno sperimentalismo linguistico che può essere accostato a quello della Neoavanguardia, pur con le differenze cui si è accennato. Il rischio del linguaggio “alienato” è, infatti, la online tendenza a «ostruire la comunicazione piuttosto che a realizT14 L’armonia tra uomo e natura nel vecchio mondo zarla» (Curi); perciò il poeta si avvale di una duplice strategia: T14a Andrea Zanzotto da un lato, esplora la possibilità di risalire a una parola autenNino negli anni Ottanta tica, dall’altro tende a proiettare la ricerca della verità al di là Idioma di essa, basandosi sulla convinzione, comune anche a filosofi T14b Andrea Zanzotto Andar a cucire del Novecento, che le verità più profonde siano quelle poste Idioma oltre i confini del linguaggio.

online

Per approfondire La psicoanalisi di Lacan e la creatività del linguaggio

L’influsso della psicoanalisi di Lacan Nella ricerca di una lingua non alienata è fondamentale per Zanzotto l’influsso della psicoanalisi di Jacques Lacan (19011981), che assegna centralità alla parola per accedere a una piena dimensione umana, che nasce nella relazione con gli altri, mediata appunto dal linguaggio. Zanzotto si rifarà alla nozione lacaniana, aspirando a raggiungere lo strato primitivo del linguaggio attraverso un gioco libero e creativo esercitato sul significante, governato dall’inconscio, e attraverso l’utilizzo del petèl, l’eloquio con cui le madri si rivolgono agli infanti.

Le opere di Andrea Zanzotto TITOLO

GENERE

DATA

TEMI / CONTENUTO

Dietro il paesaggio

raccolta di versi

1951

critica all’avanzare minaccioso della modernità

Vocativo

raccolta di versi

1957

rapporto tra linguaggio e realtà

IX Ecloghe

raccolta di versi

1962

impossibile armonia tra uomo e natura

La beltà

raccolta di versi

1968

rapporto tra linguaggio e realtà (affrontato mediante lo sperimentalismo linguistico)

1978

analisi degli effetti positivi della civiltà e della cultura sull’ambiente naturale e di quelli negativi apportati dalla seconda guerra mondiale

1986

rapporto tra linguaggio e realtà (affrontato mediante una pluralità di linguaggi tra i quali il dialetto)

Galateo in bosco

Idioma

raccolta di versi

raccolta di versi

Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà e con il linguaggio 3 977


Andrea Zanzotto

T15

Al mondo La beltà

A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a c. di S. Dal Bianco e G. Villalta, Mondadori, Milano 1999

online

Audio

Il testo affronta un eterno problema filosofico: la possibilità dell’uomo di conoscere la verità e il senso del mondo. Come altri autori del Novecento, Zanzotto assume una posizione pessimistica e scettica ma, in modo ironico e originale, presenta un personaggio che, arrovellandosi sulla questione, si rivolge direttamente al mondo, invitandolo a essere come egli vorrebbe.

Mondo, sii, e buono; esisti buonamente1, fa’ che, cerca di, tendi a2, dimmi tutto3, ed ecco che io ribaltavo eludevo4 5 e ogni inclusione era fattiva non meno che ogni esclusione5; su bravo, esisti, non accartocciarti in te stesso in me stesso6 Io pensavo che il mondo così concepito con questo super-cadere super-morire7 il mondo così fatturato8 fosse soltanto un io male sbozzolato9 fossi io indigesto10 male fantasticante male fantasticato mal pagato 15 e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»11 un po’ più in là, da lato, da lato12 Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere13

10

La metrica Tre strofe irregolari di versi liberi.

1 Mondo... buonamente: Mondo, esisti, e sii buono; esisti da buono, in modo benefico. È ironico sia il fatto che il soggetto si rivolga al mondo esortandolo ad esistere nella propria essenza, sia il linguaggio familiare e colloquiale adottato. Buonamente è un neologismo zanzottiano, creato per dare una sfumatura benevolmente ironica. 2 fa’ che... tendi a: le tre frasi esprimono il desiderio che il mondo sia retto da un ordine finalistico. Questa idea può rinviare alla Critica del giudizio di Kant, in cui il filosofo osserva come si provi piacere a considerare la natura in chiave teleologica, sebbene nulla possa provare che tale ordine sussista realmente. 3 dimmi tutto: il poeta esprime il desiderio che l’universo riveli i suoi misteri, ma il linguaggio colloquiale rivela l’ingenuità del proposito. 4 ribaltavo eludevo: rovesciavo il punto di vista, ne cancellavo elementi: operazioni mentali del soggetto per cercare il senso del mondo.

5 ogni inclusione... esclusione: ogni inclusione, come ogni esclusione, era ugualmente produttrice di senso (sebbene tali operazioni fossero opposte). Le operazioni mentali conducono dunque a un’antinomia, a un’opposizione, e la verità risulta un traguardo impossibile. 6 non accartocciarti in te stesso in me stesso: non rinchiuderti (senza perciò poter essere compreso) in te stesso (o) in me stesso. L’invito al mondo è quello di non restarsene inespresso nel suo “sé” o di manifestarsi solo come soggetto conoscente. Si introduce l’ipotesi filosofica che il mondo sia un’illusione dell’io, annullando così la distinzione fra mondo esterno e mondo interiore. È evidente la forza evocativa del verbo denominale accartocciarsi. 7 super-cadere super-morire: neologismi che vogliono connotare col suffisso super- la tendenza generale del mondo a degradarsi, a negarsi (cadere morire) per effetto dell’entropia. 8 fatturato: fatto, costituito. La parola ha però anche la connotazione negativa di una fattura, di una stregoneria (“affatturato”). 9 un io male sbozzolato: un io non ben uscito dal bozzolo, malformato. Il signifi-

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cato è che un mondo con un ordine negativo potrebbe essere la proiezione di un io imperfetto. 10 indigesto: confuso. 11 tu «santo» e «santificato»: allude all’ipotesi filosofica (in particolare di Hegel) che il mondo nel suo insieme sia positivo, rappresentando il progressivo dispiegarsi di una razionalità capace di riscattare anche ciò che a prima vista apparirebbe negativo. 12 da lato, da lato: la razionalità del mondo apparirebbe guardandola da un punto di vista staccato dall’immediatezza. L’immagine fa pensare a un obiettivo fotografico che si sposta (o che fa spostare il mondo) per inquadrarlo meglio. 13 Fa’ di... -sistere: il gioco lessicale si rifà all’etimologia della parola esistere, dal latino sisto, “stare in piedi, star saldo”. Al verbo vengono aggiunte varie preposizioni latine (note e ignote, v. 18), che ne modificano il significato: ex, che indica il distacco da sé per aprirsi alla comprensione del mondo; de che indica discesa, distacco, ob contrapposizione, contrasto.


e oltre tutte le preposizioni note e ignote, abbi qualche chance14, 20 fa’ buonamente un po’15; il congegno abbia gioco16. Su, bello, su. Su Münchhausen17. 14 chance: probabilità. Nella rassegna di

16 il congegno abbia gioco: nel linguag-

posizioni filosofiche possibili per interpretare il significato dell’Essere, è inserita da ultima l’ipotesi probabilistica: se non si può averne la certezza, si vuole almeno pensare che ci sia una probabilità che il mondo abbia uno scopo e un senso. 15 fa’... un po’: fai qualcosa di buono.

gio tecnico aver gioco significa che i pezzi di un meccanismo dispongano dello spazio giusto per ingranare e funzionare, trasmettendo il movimento. L’espressione si riferisce perciò all’ipotesi meccanicistica, diffusa nel Settecento, per cui si immaginava il mondo come un congegno simile a una macchina.

17 Su... Münchhausen: il poeta conclude con un’immagine paradossale tratta dal romanzo Le avventure del barone di Münchhausen, dello scrittore tedesco Rudolph Erick Raspe (1737-1794), il cui protagonista si traeva fuori da una palude afferrandosi da solo per i capelli. L’immagine simboleggia il tentativo di giungere a una verità senza avere dei punti d’appoggio.

Analisi del testo Un ironico compendio filosofico Il testo è incentrato su uno dei temi chiave della filosofia: la possibilità di conoscere l’universo in modo oggettivo, di accedere a ciò che Kant chiama il noumeno, contrapposto al fenomeno, l’unico accessibile alla conoscenza per il filosofo tedesco. L’originalità della poesia di Zanzotto è nella sua ironia paradossale: il discorso filosofico è infatti propriamente un’argomentazione, mentre l’io poetico del testo rivolge al mondo un’esortazione. Lo tratta infatti come se fosse un bambino capriccioso, chiedendogli di fare il proprio dovere: esistere, essere bravo, dire la verità. Ma proprio attraverso questo paradosso l’autore fa riflettere sul fatto che la filosofia (come rivela la sua stessa radice etimologica, “amore per la sapienza”) consiste più in un desiderio di conoscere che nell’effettiva possibilità di realizzarlo. Il punto di vista pessimistico sulla possibilità di attingere la verità è sottolineato dal riferimento finale al personaggio di Münchhausen che, senza punti d’appoggio, si toglie da una palude tirandosi per i capelli; così l’uomo non ha “punti d’appoggio” per conoscere quale sia il senso dell’universo. Nonostante ciò, tuttavia, si ha bisogno di credere che il mondo abbia un senso e perciò il protagonista della poesia continua a produrre le sue elucubrazioni, senza peraltro approdare a nessuna conclusione. Nelle tre strofe il poeta passa perciò in rassegna le varie risposte della filosofia alla questione metafisica, proponendo un ironico compendio filosofico.

Ma il mondo esiste realmente o è solo una proiezione dell’io? Al centro della prima strofa è la tensione conoscitiva del soggetto, sottolineata dalla forzatura del linguaggio oltre i suoi limiti codificati, con l’uso di neologismi ed espressioni ellittiche e paradossali. Il personaggio che dice “io” vorrebbe poter dimostrare che il mondo esiste oggettivamente e non è una sua proiezione; che esista buonamente, che cioè abbia un senso positivo; che abbia uno scopo («fa’ che, cerca di, tendi a»); e inoltre che sia possibile conoscerlo (dimmi tutto). Ma il tentativo di conoscenza si risolve in uno scacco, perché due operazioni opposte («ogni inclusione [...] ogni esclusione») danno lo stesso risultato. Comincia allora ad emergere il dubbio che il mondo sia soltanto una proiezione dell’io e quindi privo di un’esistenza reale: il dubbio sull’effettiva consistenza della realtà è ironicamente reso con un’immagine prosaica, quella del suo accartocciarsi, simile a una foglia secca. Nella seconda strofa il personaggio muove dalla posizione dell’idealismo filosofico, auspicando che gli aspetti negativi del mondo, la sua degradazione («super-cadere super-morire») siano solo proiezioni di un io «male sbozzolato», imperfetto e infelice, e che in realtà il mondo sia «santificato», cioè che, visto nella giusta prospettiva («un po’ più in là»), appaia razionale e tendente verso il bene. Nella terza e ultima strofa la speranza di trovare un senso del mondo è affidata a una concezione probabilistica («abbi qualche chance»), priva di qualsiasi garanzia. Nonostante lo scacco della sua volontà di conoscenza, il protagonista della poesia non si arrende, come sottolinea ironicamente il paragone con il personaggio di Münchhausen.

Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà e con il linguaggio 3 979


L’originalità del linguaggio Il valore della poesia è nella tensione conoscitiva che la pervade e insieme nell’ironia, che si traducono in un linguaggio caratterizzato da continue escursioni tra il livello “sublime”, colto e filosofico (l’elenco dei diversi prefissi del latino sistere) e le ricadute in un lessico concreto e prosaico, sottolineato dalle rime interne (fatturato : sbozzolato : male fantasticato : mal pagato). In una compagine linguistica così composita, il poeta inserisce con particolare ironia anche il neologismo buonamente, più ingenuo che raffinato, a indicare come l’uomo sia, in una misura insieme sublime e ridicola, sempre in bilico tra la sua presunzione di conoscere i massimi sistemi dell’universo e l’effettiva limitatezza dei suoi orizzonti conoscitivi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nella poesia è rappresentato un personaggio: che cosa fa? A chi si rivolge e perché? ANALISI 2. In quali passaggi si avverte l’ironia? A quali effetti è finalizzata? STILE 3. Individua gli elementi che caratterizzano la ricerca linguistica di Zanzotto, soffermandoti su: presenza di termini di varie lingue; uso di neologismi; presenza di termini polisemici.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il testo con la poesia di Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro (➜C4 T5 ), evidenziandone le analogie tematiche. ESPOSIZIONE ORALE 5. La lingua poetica di Zanzotto è contraddistinta da un «atteggiamento trasgressivo» (Mengaldo) nei confronti della norma linguistica. Con esempi tratti dai testi letti, evidenzia gli aspetti più originali e presentali in un intervento orale di max 3 minuti.

T16

L’insufficienza del linguaggio

online T16a Andrea Zanzotto «Tato» padovano Idioma

Andrea Zanzotto

T16b

Così siamo IX Ecloghe

A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a c. di S. Dal Bianco e G. Villalta, Mondadori, Milano 1999

Scritta nel 1960, dopo la scomparsa improvvisa del padre del poeta, anche questa composizione è una riflessione sui limiti del linguaggio di fronte alla morte, ma anche sulla possibilità, pur in assenza di una fede religiosa, di sentirsi vicino a chi scompare.

Dicevano, a Padova, «anch’io» gli amici «l’ho conosciuto». E c’era il romorio1 d’un’acqua sporca prossima, e d’una sporca fabbrica: 5 stupende nel silenzio. Perché era notte. «Anch’io l’ho conosciuto.» Vitalmente ho pensato

10

La metrica Due strofe di versi liberi.

980 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica

a te che ora non sei né soggetto né oggetto né lingua usuale né gergo né quiete né movimento neppure il né che negava e che per quanto s’affondino

1 romorio: rumorìo.


15

gli occhi miei dentro la sua cruna2 mai ti nega abbastanza.

E così sia: ma io credo con altrettanta forza in tutto il mio nulla3, 20 perciò non ti ho perduto o, più ti perdo e più ti perdi, più mi sei simile, più m’avvicini.

2 dentro la sua cruna: nelle più profonde negazioni (la sottigliezza della negazione è resa con l’immagine della cruna d’un ago in cui si affonda lo sguardo). 3 credo... nulla: come vitalmente (v. 8) si sente vicino al padre, anche se non può dirlo con il linguaggio della logica, con altrettanta forza si sente vicino a lui nella percezione del suo essere anch’egli destinato al nulla.

Analisi del testo L’insufficienza del linguaggio Anche in questa poesia si riflette sull’insufficienza del linguaggio di fronte alla morte. La poesia è divisa in due strofe; nella prima, gli amici parlano del padre del poeta, morto improvvisamente. Nelle frasi stereotipate si avverte l’insufficienza e la banalità del linguaggio («anch’io l’ho conosciuto»). Anche l’ambiente in cui si svolge la conversazione è significativo: è un luogo degradato della città, nei pressi di una «sporca fabbrica», dove scorre «un’acqua sporca» (l’insistenza sull’aggettivo sporco ne ribadisce la desolazione), ma lo squallore è coperto dalla notte e dal silenzio, così che le cose che non si vedono riescono ad apparire stupende. La contrapposizione fra il visibile e l’invisibile corrisponde a quella fra la banalità delle cose che si possono dire e il silenzio, che si apre al mistero dell’immensità cosmica. Pensando alle parole ordinarie dette su una persona morta, il poeta si accorge che non possono avere alcun senso, perché si riferiscono a qualcuno che non può essere più né soggetto né oggetto, perché non è più nulla: ma quanto più il pensiero si addentra nelle negazioni, tanto più realizza che la lingua non può arrivare a esprimere il non-esistere, anche perché chi pensa lo fa vitalmente, stando dentro la vita, e non può quindi guardare fuori di essa. Ma proprio questo scavo nell’insufficienza del linguaggio apre la soglia all’intuizione di un mistero che, al di là delle parole, fa sentire il poeta vicino a chi non c’è più. Avvertendo che anche la sua vita è immersa nel nulla, egli si sente ancora vicino al padre, anche se non può esprimerlo con le parole. Così il linguaggio, nella sua insufficienza, conduce alle soglie del nulla e del mistero. Il testo di Zanzotto potrebbe essere accostato, per il suo significato, alla famosa conclusione del Tractatus logico-philosophicus del filosofo Ludwig Wittgenstein (1889-1951), dedicato al rapporto tra pensiero e linguaggio: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rapporto può legare i vivi e i morti, secondo la poesia di Zanzotto? ANALISI 2. Perché Zanzotto utilizza una sequenza di negazioni? Le negazioni veicolano un’assenza o una presenza? STILE 3. Individua le ripetizioni. Quale effetto ti sembra producano?

Interpretare

SCRITTURA 4. Secondo il critico Enrico Testa, Zanzotto esprime «sfiducia nei valori della realtà normalmente verbalizzata». Spiega, in un testo di max 10 righe, come questo tema appare nel testo proposto.

Fissare i concetti Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica 1. Quali rapporti ebbe Luzi con l’Ermetismo? 2. Quali sono le caratteristiche della poesia di Luzi? 3. Quali sono le caratteristiche della poesia di Caproni? In che cosa essa si distanzia dall’Ermetismo? 4. Quali temi tratta Il seme del piangere? 5. Quali peculiarità contraddistinguono la poesia di Zanzotto? 6. Per quanto riguarda la sua ricerca sul linguaggio, in che cosa si discosta Zanzotto dalla Neoavanguardia?

Zanzotto: l’io si interroga sul suo rapporto con la realtà e con il linguaggio 3 981


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Mario Luzi

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni Primizie del deserto M. Luzu, L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Milano 1998

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni fa parte della raccolta Primizie del deserto, pubblicata nel 1952. La poesia è concepita come una lettera indirizzata a una donna un tempo amata, Giuseppina Mella, che a distanza di anni riaffiora nella mente del poeta.

Che speri, che ti riprometti, amica, se torni per così cupo viaggio1 fin qua dove nel sole le burrasche hanno una voce altissima abbrunata2, 5 di gelsomino odorano e di frane? Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine3 sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, 10 entri nei miei pensieri e n’esci illesa. Tutto l’altro che deve essere è ancora4, il fiume scorre, la campagna varia, grandina, spiove, qualche cane latra esce la luna, niente si riscuote, 15 niente dal lungo sonno avventuroso.

1 per così cupo viaggio: attraverso un viaggio così scuro, cioè attraverso anni così tragici come quelli della Seconda guerra mondiale.

Comprensione e analisi

Interpretazione

2 abbrunata: in senso letterale sta per “oscurata”; il verbo abbrunare viene usato, tuttavia, anche con il significato di “parare a lutto”.

3 vicissitudine: il succedersi degli eventi. 4 Tutto …ancora: tutto procede come sempre.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Presenta il contenuto della poesia e descrivine sinteticamente la struttura metrica. 2. Quale effetto produce nel poeta il ricordo della donna un tempo amata? 3. Che cosa si intende con vicissitudine sospesa al v. 8? 4. A quale sonno fa riferimento il poeta al v. 15? Per quale motivo viene definito lungo e avventuroso? 5. Il critico Giorgio Bárberi Squarotti ha detto che il tema al centro di questa poesia è quello dell’«estraneità dell’uomo alle cose e ai sentimenti». Cosa significa, secondo te, quest’affermazione? Nel componimento dominano, accanto al ricordo della figura femminile, un senso di attesa e sospensione. Facendo riferimento alla produzione poetica di Luzi e/o di altri autori o forme d’arte a te noti, elabora una tua riflessione sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti affrontano questi temi.

982 Il Novecento (Seconda parte) 19 Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica


Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da S. Mecatti (a cura di), Petrarca e l’“aura” della poesia. Conversazione con Giovanni Giudici, Mario Luzi, Giovanni Raboni, in Petrarca latino e le origini dell’umanesimo, Atti del Convegno internazionale, Firenze, 19-22 maggio 1991, in «Quaderni petrarcheschi», IX-X (1992-93), pp. 717-722

Lo studioso Stefano Mecatti, in occasione della conclusione di un Convegno petrarchesco nel 1991, ha intervistato alcune figure significative della poesia italiana contemporanea. Presentiamo alcuni passaggi della conversazione con 5 i poeti Giovanni Giudici (1924-2011) e Giovanni Raboni (1932-2004) che, a proposito della poesia, hanno detto: Giovanni Giudici «[…] la poesia si fa quando c’è una insufficienza da colmare, una oscurità da perforare, un oggetto mancante da conquistare […] ». 10 Giovanni Raboni: «[…] D’altra parte è anche un po’ ripugnante pensare che la poesia nasca come surrogato a qualcosa, come bisogno di colmare un vuoto. Probabilmente, invece, la poesia nasce dal bisogno di ricucire sé stessi. In fondo la vita è fatta di una continua fratturazione, il tempo ci frattura continuamente […]».

A partire dalle parole di Giovanni Giudici e di Giovanni Raboni e traendo spunto dalle tue conoscenze, letture ed esperienze, rifletti sul senso del “fare poesia” e sul valore che essa ricopre nella società contemporanea.

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Il Novecento (Seconda parte) Luzi, Caproni, Zanzotto: la poesia metafisica

Sintesi con audiolettura la poesia come tramite 1 Luzi: tra il mondo terreno e l’Eterno Mario Luzi (1914-2005) è il maggior rappresentante dell’Ermetismo italiano. Lo contraddistingue una produzione poetica rivolta ad indagare non solo il mondo contingente, ma il suo rapporto con il trascendente: un’idea radicata in una profonda e sentita fede religiosa. Esordiente nel 1935, con la raccolta La barca, e inizialmente poeta dallo stile oscuro e dal lessico elevato, successivamente egli abbraccia un linguaggio più quotidiano ma sempre profondamente e metafisicamente simbolico. La svolta avviene con Nel magma, del 1963: nell’opera sono anche introdotte ambientazioni realistiche, una struttura narrativa e dialoghi con personaggi che si confrontano con l’autore a proposito della sua inesausta ricerca spirituale; l’autore, dunque, abbandona la centralità dell’io poetico. Nelle raccolte successive, la poesia di Luzi sviluppa anche un pathos drammatico, influenzato dalla sua vocazione teatrale, e si focalizza sul contrasto tra il mondo visibile e i suoi “fondamenti invisibili”, denunciando le imperfezioni del mondo storico in contrasto con il messaggio evangelico; sempre, comunque, mantenendo un atteggiamento da “cristiano critico”, che non smette di interrogare e cercare di comprendere un Dio che mai completamente capisce.

2 Caproni e il tema dell’assenza di Dio

La poesia di Giorgio Caproni (1912-1990) si distingue fin dalle prime raccolte per chiarezza, comunicatività e apparente realismo; per questo è inizialmente accostata alla corrente dell’Antinovecentismo. Tuttavia, tale etichetta diventa riduttiva considerando il percorso unico del poeta che, pur riprendendo influenze da Saba (nella musicalità dei versi), Ungaretti (nell’essenzialità della produzione tarda) e Montale (in alcune immagini ricorrenti e nell’attrazione verso l’elemento metafisico), sviluppa uno stile profondamente originale. Distaccandosi dall’Ermetismo, infatti, il laico e razionalista Caproni crea sì immagini determinate, ma decontestualizzate in atmosfere oniriche e spazi metafisici. Il viaggio, un tema fondamentale, si svolge in luoghi irreali, confini tra essere e non essere, difficilmente comprensibili per la ragione umana. Sin dall’esordio nel 1936, ma soprattutto con Il seme del piangere (1959), ogni opera mostra unità tematica e strutturale. Tale dato si presenta al massimo grado negli ultimi lavori, che costituiscono quasi una trilogia filosofica, composta da Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982), e Il conte di Kevenhüller (1986): vi si affrontano temi quali il limite della conoscenza, la ricerca metafisica di un Dio forse inesistente e la caccia al male. L’ultima raccolta, Res amissa (1991), affronta la perdita del bene.

19 Luzi, Caproni, Caproni, Zanzotto: Zanzotto: la poesia la poesia metafisica metafisica 984 Il Novecento (Seconda parte) Luzi,


l’io si interroga sul suo rapporto 3 Zanzotto: con la realtà e con il linguaggio Andrea Zanzotto (1921-2011) si distingue nello scenario italiano in quanto poeta nostalgico della vita e dei valori contadini “arcaici”, ma allo stesso tempo in possesso di grande cultura postmoderna, in particolare negli ambiti della psicoanalisi (specialmente lacaniana), della linguistica e della filosofia. La sua produzione, di conseguenza, è propriamente “filosofica”, in quanto si concentra su questioni come la consistenza dell’io, il rapporto tra l’uomo e la realtà e la frattura tra linguaggio e cose. Coerentemente, il suo lessico spazia dal dialetto ai neologismi; e proprio nel linguaggio – e in particolare nella ricerca dell’origine dei singoli termini – l’autore vede la possibilità di risalire a un rapporto vero con il mondo, alterato dalla nefasta modernità. Infatti, il rischio di un linguaggio alienato (cioè di un codice che renda difficile la comunicazione) lo porta a ricercare una lingua autentica secondo le teorie psicoanalitiche di Lacan: Zanzotto utilizza strategie come il gioco creativo sul significante e l’utilizzo del petèl per raggiungere uno strato primitivo, e quindi più in accordo con il reale, della lingua, insieme stratificato di significati. Questa sopravvenuta disarmonia si riscontra anche nella relazione con la natura, sempre più degradata dalla storia e da un rapace progresso.

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo di max 15 righe illustra le diverse manifestazioni della lirica metafisica di Luzi rispetto a quella del laico Caproni.

Scrittura argomentativa

2. Scrivi un testo argomentativo in cui si dimostri come, attraverso il linguaggio, Zanzotto cerchi di riportare alla luce le radici profonde dell’essere, compiendo con la propria poesia una ricerca di natura filosofica.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 985


Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

20 Italo Calvino LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Calvino visto da Natalia Ginzburg... La scrittrice Natalia Ginzburg (1916-1991), collega di Calvino presso la casa editrice Einaudi, ne traccia questo ricordo postumo.

Aveva, in giovinezza, la persona asciutta, prosciugata, svelta, diritta: e così rimase. Benché fosse diritto nella persona, usava però, anche in giovinezza, ogni tanto incurvare le spalle, come se volesse raggomitolarsi in se stesso, e difendersi da interrogazioni importune. In giovinezza, spesso balbettava; e balbettava un poco, è vero, anche dopo; da ragazzo, di più. Molte volte sembrava tirar fuori le parole da una sacca segreta, o strapparle a fatica da qualche suo segreto gomitolo: e nel pronunciarle incespicava, aggrottava la fronte e abbassava gli occhi sulle proprie dita intrecciate, con una perplessità ironica e testarda, e come rifacendo il verso a se stesso. Anche se così tante volte tirava fuori le parole con fatica e lentezza, non parevano fatica e lentezza per nulla presenti nel suo pensiero, né in ciò che faceva. N. Ginzburg, Il sole e la luna, in «Riga», 9, Italo Calvino Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, a c. di M. Belpoliti, Marcos y Marcos, Milano 1995

... e da sé medesimo Forse il miglior ritratto di Italo Calvino è quello che egli propose di sé rispondendo alla domanda di un giornalista americano, che nel 1984 gli chiese quale personaggio della letteratura avrebbe voluto essere e perché.

Vorrei essere Mercuzio [amico di Romeo nella tragedia shakespeariana]. Delle sue qualità, ammiro soprattutto la leggerezza, in un mondo pieno di brutalità, l’immaginazione trasognata – come poeta della regina Mab [la regina delle fate] – e al tempo stesso la saggezza, come voce della ragione nel mezzo dei fanatici rancori tra Capuleti e Montecchi. Fa suo il vecchio codice della cavalleria a prezzo della vita forse proprio per ragioni di stile, ma resta un uomo moderno, scettico e ironico: un Don Chisciotte che sa benissimo che cosa è sogno e cosa realtà, e li vive entrambi ad occhi aperti. I. Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Mondadori, Milano 2009

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Italo Calvino è uno degli autori italiani più noti a livello internazionale ed è considerato unanimemente un “classico”. Nella sua vasta produzione narrativa e saggistica ha attraversato e interpretato le correnti letterarie e di pensiero del secondo Novecento: dal neorealismo allo strutturalismo al postmoderno, mantenendo una prospettiva sempre autonoma e originale. Intellettuale critico e dotato di una cultura profonda, aperta ad accogliere suggestioni anche dall’ambito filosofico e scientifico, Calvino si è confrontato nella sua opera con i grandi temi sociali e culturali del suo tempo in uno stile inconfondibile, sempre limpidamente razionale. Costante è in lui la difesa illuministica della razionalità, sebbene nel tempo cresca lo scetticismo dello scrittore sulla possibilità di modificare, e anche solo di comprendere, una realtà complessa e labirintica.

1 Ritratto d'autore Il sentiero dei nidi di ragno i racconti della stagione 2 eneorealista 3 e la narrativa “sociale” Un nuovo Calvino: 4 Le cosmicomiche combinatoria 5 Lae ilnarrativa metaromanzo 6 Lo sguardo di Palomar La trilogia degli antenati

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1 Ritratto d’autore 1 La vita VIDEOLEZIONE

La formazione Italo Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas, presso L’Avana, nell’isola di Cuba, dove il padre, agronomo di origine sanremese, accompagnato dalla moglie, botanica (ed entrambi professori universitari), dirige una stazione sperimentale di agricoltura; trascorre però l’infanzia e l’adolescenza a Sanremo, dove la famiglia aveva fatto ritorno due anni dopo, nel 1925. I genitori, entrambi intellettuali, liberi pensatori, coltivano ideali progressisti e democratici e abituano i figli a sostenere il peso di un anticonformismo a volte scomodo; in una testimonianza giovanile, lo scrittore ricorda la scelta dei genitori di farlo esentare dalle lezioni di religione come non cattolico, cosa a quei tempi abbastanza rara, e osserva:

«Insomma, mi trovavo spesso in situazioni diverse dagli altri, guardato come una bestia rara. Non credo che questo mi abbia nuociuto. Ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne de­ riva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più.» Dati gli interessi scientifici prevalenti nella famiglia, Calvino mette in secondo piano la sua passione per la letteratura e la filosofia e si iscrive alla facoltà di agraria, pur frequentandola con scarsa convinzione, come risulta da una lettera a CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1945 Fine della Seconda guerra mondiale. 1943 Armistizio dell’Italia con gli Alleati e inizio della Resistenza.

1925 Inizio della dittatura fascista in Italia.

1900

1910

1939 Scoppio della Seconda guerra mondiale.

1920

1930

1940

1923

Nasce il 15 ottobre a Santiago de Las Vegas, presso l’Avana, nell’isola di Cuba, dove il padre dirige una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria. 1925

La famiglia torna a Sanremo, città di origine del padre. 1944-1945

Partecipa alla Resistenza nella brigata comunista “Garibaldi” sulle Prealpi liguri.

988 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Eugenio Scalfari (futuro giornalista e fondatore del quotidiano «la Repubblica», suo ex compagno di classe):

«E all’università devo sentir parlare di botanica cristallografia clorofilla matematica zoo­ logia logaritmi fotosintesi cellulare. La cosa che però capisco di meno è il perché mi sono messo a fare agraria […]. È inutile che ti dica che di attività letteraria non c’è nemmeno da parlarne. Quell’Italo Calvino che intendeva diventare celebre scrittore, se non è morto, è certo profondamente addormentato». La partecipazione alla Resistenza Nel 1944, Calvino si unisce ai partigiani comunisti della brigata “Garibaldi”, sulle Prealpi liguri. La partecipazione alla Resistenza è decisiva per il futuro scrittore. In una lettera all’amico Scalfari, immediatamente successiva alla fine della guerra, Calvino descrive con orgoglio la sua esperienza partigiana e la trasformazione che ha operato in lui:

«La mia vita in quest’ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezie: sono stato parti­ giano per tutto questo tempo, sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accu­ mulato, anzi avrei voluto fare di più».

online

Video e Audio Intervista a Calvino, “un uomo invisibile”

L’esordio con un romanzo di successo Finita la guerra, Calvino passa alla facoltà di Lettere, dove si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. Dopo aver realizzato alcuni racconti, esordisce come scrittore appena ventitreenne, nel 1947, con Il sentiero dei nidi di ragno, un romanzo sulla Resistenza, iscrivibile nel clima del neorealismo, che ottiene un incoraggiante successo. Si impiega come redattore presso la casa editrice torinese Einaudi, un ambiente culturalmente assai stimolante, in cui entra in rapporto con scrittori e intellettuali di spicco, quali Cesare Pavese, Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio. Nella casa editrice Einaudi sarà in seguito dirigente e quindi consulente.

1956 Intervento armato dell’Urss in Ungheria. 1961 Viene eretto il muro di Berlino.

1950

1960

1949

1958

Esce Ultimo viene il corvo.

Pubblica Il sentiero dei nidi di ragno. 1952-59

Escono i romanzi della trilogia I nostri antenati. 1957

1970

Esce La nuvola di smog 1963

1947

1968 Maggio francese e inizio contestazione giovanile in Europa.

Escono Marcovaldo e La giornata di uno scrutatore.

Esce dal Pci per esprimere il suo dissenso per i fatti d’Ungheria. Esce La speculazione edilizia.

1965

Escono le Cosmicomiche.

1990 1988

1969

Esce Il castello dei destini incrociati.

Esce Se una notte d’inverno un viaggiatore. Escono Le città invisibili.

Nel medesimo anno esce Ti con zero. 1967

Escono postume Le lezioni americane.

1979

1972

1964

Si sposa a L’Avana con la traduttrice argentina Esther Judith Singer.

1980

Si trasferisce a Parigi dove rimane fino al 1980.

1986

Escono postumi i racconti Sotto il sole il giaguaro. 1985

1980

Torna in Italia e si stabilisce a Roma.

Nel mese di settembre è colpito da ictus nella sua casa di Castiglione della Pescaia, e muore in ospedale a Siena pochi giorni dopo il ricovero. 1983

Esce Palomar.

Ritratto d’autore 1 989


La produzione letteraria fino alla crisi della Giornata di uno scrutatore In questi anni Calvino, attivamente impegnato nella politica, milita nel Partito comunista; ma nel 1957, dopo l’intervento delle forze armate sovietiche in Ungheria, restituisce la tessera, pur rimanendo vicino all’area ideologica della sinistra. Nel 1952 pubblica con successo il suo secondo romanzo, Il visconte dimezzato, che inaugura il filone fantastico della sua narrativa. Il libro costituisce il primo volume di una trilogia, poi completata con Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). In questo stesso anno inizia a collaborare con Vittorini alla rivista «Il Menabò». Al contempo si dedica a una produzione letteraria d’impianto realistico: tra le prove maggiori La speculazione edilizia (1957) e La giornata di uno scrutatore (1963). Quest’ultimo romanzo segna una svolta per lo scrittore, che mostra di aver abbandonato molte delle certezze che lo avevano prima sostenuto e in particolare la fiducia nell’azione politica. La svolta ideologica e letteraria degli anni Sessanta Gli anni Sessanta, periodo di profondo rinnovamento della società e della cultura italiane, aprono una fase nuova per l’autore, che abbandona il diretto impegno politico e civile mutando anche la propria poetica: si allontana dal romanzo tradizionalmente inteso per dedicarsi a una produzione letteraria che ospita tematiche filosofiche e scientifiche, che gli venivano suggerite dalla sua vastissima cultura. Il nuovo corso della produzione di Calvino è inaugurato dalle Cosmicomiche, del 1965, originali racconti fantascientifici sulle origini dell’universo ispirati a teorie scientifiche, soprattutto cosmologiche. Di analoga ispirazione Ti con zero del 1967. Il periodo parigino e gli ultimi anni in Italia Nel 1967 Calvino si allontana dall’Italia, trasferendosi a Parigi, dove abiterà fino al 1980 con la moglie Esther Judith Singer, traduttrice argentina sposata nel 1964, e con la figlia Giovanna, nata nel 1965. A Parigi intreccia rapporti con vari intellettuali e frequenta in particolare il gruppo di letterati e matematici dell’Oulipo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, cioè “Laboratorio di letteratura potenziale”) diventando amico di Queneau, Perec, Barthes. Dagli interessi per lo strutturalismo e la semiotica deriverà la fase “combinatoria” della sua produzione letteraria, con Il castello dei destini incrociati (1969) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), romanzi molto sofisticati, iperintellettualistici, che però, data la notorietà dell’autore, conoscono anche un successo di pubblico. Nel 1972 pubblica Le città invisibili. Rientra in Italia nel 1980 e si stabilisce a Roma. Nel 1983 esce Palomar. Nel settembre del 1985, nella sua casa di vacanza a Castiglione della Pescaia, mentre prepara il testo delle Lezioni americane che avrebbe dovuto tenere l’anno successivo negli Stati Uniti, è colpito improvvisamente da una emorragia cerebrale; ricoverato all’ospedale di Siena, muore dopo qualche giorno. Lascia incompiute le Lezioni americane, pubblicate postume nel 1988, e i racconti di Sotto il sole giaguaro (pubblicati nel 1986).

2 La visione del mondo e il ruolo della letteratura Una cultura enciclopedica, con alcune predilezioni Chi legge anche soltanto le Lezioni americane, ultima fatica di una ampia produzione saggistica, si rende conto facilmente della straordinaria ricchezza e complessità della cultura di Calvino, che abbraccia campi disparati: anche solo rimanendo nell’ambito delle scienze umane, egli evidenzia il possesso di nozioni filosofiche, linguistiche, socio-antropologiche, psicoanalitiche, frutto di autentica curiosità intellettuale e di incessanti letture, sempre aggiornate in rapporto ai tempi e alle tendenze emergenti: in particolare,

990 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


dagli anni Sessanta Calvino resta profondamente affascinato dallo strutturalismo e dalla semiologia, dalle nuove teorie narratologiche che influenzeranno profondamente la sua ultima produzione. Ma Calvino, anche per le ascendenze familiari, coltiva inoltre interessi scientifici, in particolare nell’ambito fisico e astronomico, come dimostrano i racconti delle Cosmicomiche. D’altra parte si mostra anche fortemente ancorato all’eredità della cultura classica (come il De rerum natura di Lucrezio o le Metamorfosi di Ovidio) e dei grandi classici della letteratura italiana: in particolare Leopardi, soprattutto il prosatore delle Operette morali, di cui eredita la lucida lettura della condizione umana, priva di illusioni consolatrici, e l’ironica demistificazione della visione antropocentrica (presente nelle Cosmicomiche); ma anche Ariosto, l’autore più amato e a lui vicino, per l’associazione di limpida razionalità e fantasia, per la costante presenza dell’ironia ma anche per la straordinaria padronanza dei meccanismi narrativi dimostrata dal grande poeta nell’Orlando furioso. Rilevante è anche l’influenza esercitata sulla sua opera dagli illuministi francesi (si è parlato spesso di Calvino come di un neo-illuminista), ai quali lo avvicinava il culto della ragione, il senso profondo delle responsabilità dell’intellettuale e la visione della letteratura, non certo come evasione ma come strumento educativo, capace di ‘leggere’ criticamente la contemporaneità. Non a caso come scrittore Calvino fa suo in più testi il modello del conte philosophique (“racconto filosofico”), utilizzato dagli illuministi francesi per illustrare le loro idee sul mondo e sulla società, per ospitare in forma non canonica i temi scottanti del dibattito ideologico (come avviene nel Candido di Voltaire). E ‘racconti filosofici’ sono certamente i tre romanzi della “trilogia degli antenati”. Dalla letteratura come “impegno” alla presa di coscienza della complessità Accanto ai testi narrativi, Calvino si dedica lungo tutto l’arco della sua produzione letteraria a una intensa attività saggistica, in cui propone illuminanti riflessioni sul valore e sulla funzione della letteratura: gli scritti, di diverse epoche, che Calvino considerava più importanti sono da lui stesso raggruppati in ordine cronologico nel volume Una pietra sopra del 1980, con un titolo che ha il significato di un bilancio, di un consuntivo. Negli interventi a cui più direttamente Calvino affida l’espressione della sua poetica si possono individuare due fasi. In un primo tempo (come afferma nel saggio Il midollo del leone, pubblicato nel 1955) Calvino crede in una letteratura «che sia presenza attiva nella storia»; che insegni a contrapporre al negativo «una progettazione positiva del mondo», che aiuti gli uomini a essere «più intelligenti, sensibili, moralmente forti». In un secondo tempo, pur mantenendo costante la fiducia nel valore della razionalità e nel ruolo centrale della letteratura, si accentua in lui il senso della complessità del mondo e la consapevolezza dell’impossibilità di ridurlo a schemi interpretativi tradizionali. Una concezione che risente delle rapide trasformazioni che si stavano verificando anche solo nella società italiana, dall’industrializzazione allo sviluppo tecnologico. Proprio perché la società presenta aspetti sfaccettati, che è impossibile ricondurre a un tutto unitario, la letteratura deve cercare nuove direzioni, che rispecchino la problematicità del mondo nuovo che si stava profilando. Una volta presa coscienza della complessità come dimensione caratterizzante il mondo moderno, Calvino si allontana dalla tematica dell’impegno e dalla tendenza neorealista. Nella Presentazione della raccolta saggistica Una pietra sopra, sopra nominata, così delinea la propria parabola evolutiva:

Per un certo numero d’anni c’è uno che crede di lavorare alla costruzione d’una società attraverso il lavoro di costruzione d’una letteratura. Col passare degli anni s’accorge che Ritratto d’autore 1 991


la società intorno a lui (la società italiana, ma sempre vista in relazione con le trasforma­ zioni in atto nel mondo) è qualcosa che risponde sempre meno a progetti o previsioni, qualcosa che è sempre meno padroneggiabile, che rifiuta ogni schema e ogni forma. E la letteratura è anch’essa refrattaria a ogni progettazione, non si lascia contenere in nessun discorso. Per un po’ il protagonista del libro cerca di tener dietro alla complessità crescente architettando formule sempre più dettagliate e spostando i fronti d’attacco; poi a poco a poco capisce che è il suo atteggiamento di fondo che non regge più. Comincia a vedere il mondo umano come qualcosa in cui ciò che conta si sviluppa attraverso processi millenari oppure consiste in avvenimenti minutissimi e quasi microscopici. E anche la letteratura va vista su questa doppia scala. I. Calvino, Presentazione, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995

La «sfida al labirinto» contro la «resa al labirinto» Calvino però non rinuncia al ruolo critico della ragione, ritenendo la letteratura «uno degli strumenti di autoconsapevolezza d’una società» e di fatto sostituisce all’impegno politico-sociale un impegno conoscitivo in senso lato. Nel saggio Il mare dell’oggettività (1960) auspica che la scrittura letteraria non si arrenda al «flusso ininterrotto di ciò che esiste», ma vi opponga la forza razionalizzatrice e critica dell’intelletto; un concetto ribadito nel saggio, divenuto proverbiale, La sfida al labirinto (1962), pubblicato sulla rivista «Il Menabò», in cui sono contrapposti due possibili atteggiamenti nei confronti della complessa e sfuggente realtà contemporanea: la «sfida al labirinto» di chi tenta comunque di comprendere il mondo, di trovare una mappa che aiuti a orientarsi nel «labirinto […] contemporaneo» (atteggiamento in cui lo scrittore si riconosce) e la «resa al labirinto» di chi pessimisticamente definisce «l’assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo».

PER APPROFONDIRE

La consapevolezza dei limiti della conoscenza umana e della scrittura letteraria D’altra parte, nel corso del tempo, diventerà sempre più chiara in Calvino la consapevolezza dell’impossibilità per lo scrittore non solo di guidare il processo storico, ma anche di interpretarlo: «..non tento più sintesi che si pretendano esaustive» scrive nell’Appendice alla raccolta Una pietra sopra, che di fatto testimonia la

Il labirinto come immagine del mondo contemporaneo Da sempre nella cultura occidentale il labirinto è stato emblema della complessità che genera disorientamento, ma anche banco di prova per la ragione: già Arianna, nella mitologia, offre a Teseo, rimasto confinato nel labirinto dopo l’uccisione del Minotauro, il filo per uscirne. Nel Medioevo il labirinto è per lo più simbolo dello smarrimento nel peccato, tanto da essere spesso raffigurato sui pavimenti delle chiese. Nel Rinascimento lo scacco della ragione causato dall’abbandonarsi a desideri irrealizzabili è ancora una volta rappresentato da questo simbolo nell’invenzione ariostesca del palazzo di Atlante, da cui si evade solo grazie all’anello di Angelica (simbolo appunto della razionalità), mentre nella Gerusalemme liberata è il mago di Ascalona, aiutante cristiano, a fornire ai crociati Carlo e Ubaldo un libro come guida per orientarsi nello spazio labirintico pec-

992 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino

caminoso del giardino di Armida. Ma l’epoca più di ogni altra definita dal simbolo del labirinto, come bene coglie Calvino nel suo saggio, è quella contemporanea, in cui non a caso l’immagine è onnipresente, dai racconti di Borges (1899-1986 ➜ C7) come La biblioteca di Babele, al Nome della rosa di Umberto Eco (1932-2016). Nel celebre romanzo di Eco, Guglielmo da Baskerville, guidato dalla ragione a contrastare il fanatismo religioso del monaco Jorge, ricorre alla logica per orientarsi nel labirinto della biblioteca e ritrovare il libro di Aristotele perduto (➜ C3.3). La scelta dell’immagine del labirinto come simbolo della complessità sociale e culturale del Novecento ricorre anche nello scrittore più noto della neoavanguardia, Edoardo Sanguineti (➜ C7.2): già nel 1956, in un’opera intitolata proprio Laborintus, egli mette in scena l’alienazione contemporanea, riprodotta attraverso un linguaggio disgregato e caotico. Un’alienazione a cui Calvino invece contrappone il “filo d’Arianna” della sua scrittura sempre cristallina e razionale.


sconfitta della “sfida al labirinto”. E nella Prefazione alla stessa raccolta definisce «attitudine di perplessità sistematica» la conseguenza prodotta in lui dal senso del complicato, del molteplice, del relativo che la moderna società incarna. Non a caso allora l’immagine-personaggio in cui più si rispecchia l’ultimo Calvino è quella di Palomar, del “distaccato osservatore”, e non tanto dell’intera realtà (una volta assodata l’impossibilità di una conoscenza globale), ma di aspetti minimali, frammenti del reale, forma residuale di conoscenza concessa all’uomo nel naufragio di ogni certezza. In uno sguardo lucido e totalmente disincantato, quasi “fuori dal mondo”, consiste per l’ultimo Calvino l’unico ruolo possibile ormai per l’intellettuale, che non lo preserva comunque dallo scacco conoscitivo. Dalle Lezioni americane, l’ultima sua opera saggistica, che ha il valore di un testamento umano e letterario, si intuisce però che Calvino avrebbe continuato a esplorare nuove strade per la narrazione, oltre e “fuori dal labirinto”: «Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo» (La leggerezza).

Italo Calvino

La sfida della complessità

D1

Una pietra sopra, Il mare dell’oggettività

I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995

Quelli che seguono sono alcuni stralci da un saggio di Calvino, Il mare dell’oggettività, originariamente pubblicato nel 1960 sulla rivista «Il Menabò». Lo scrittore riconosce di vivere in un mondo più complesso e contraddittorio di quello degli anni della Resistenza, ma esprime anche la volontà di accettarne la sfida.

La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non per­ ché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede che le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica 5 e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo. […] Dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza: […] oggi, il senso della complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto o dello screziato o del 10 labirintico o dello stratificato, è diventato necessariamente complementare alla visio­ ne del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice, schematizzatrice del reale. Ma il momento che vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di intendere la realtà, è pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni.

Concetti chiave Un insieme complesso

Calvino si rende conto che il periodo del dopoguerra è caratterizzato dalla resa dell’oggettività ovvero dalla consapevolezza che si può solo cercare di comprendere il mondo e non di incidere su di esso con la propria volontà, perché certe cose vanno avanti anche da sole. Di fronte a questa presa di coscienza Calvino non si accontenta di accettare passivamente la realtà, ma propone una volontà di contrasto senza illusioni.

Ritratto d’autore 1 993


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in tre righe la tesi sostenuta da Calvino. COMPRENSIONE 2. Che cosa è la «letteratura della coscienza»? Quale approccio critico manifesta lo scrittore nei confronti della letteratura? LESSICO 3. Individua gli aggettivi con cui Calvino definisce la complessità del mondo contemporaneo e prova a spiegarne i significati.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Spiega, in un intervento di massimo tre minuti, in che modo, secondo Calvino, è possibile contrastare la «resa all’oggettività». Condividi questa scelta? Ritieni sia davvero eroica, o addirittura rivoluzionaria?

3 Quale letteratura per il nuovo millennio? Le Lezioni americane Un’idea di letteratura La visione della letteratura di Calvino trova la sua espressione più articolata nella sua ultima e fondamentale opera saggistica, le Lezioni americane, pubblicate postume nel 1988 e che hanno il valore di un testamento morale e letterario. Calvino era stato invitato nel 1984 dalla università americana di Harvard a tenere sei conferenze di argomento letterario durante il successivo anno accademico (ma la sua morte impedì la realizzazione del progetto): un incarico molto prestigioso, in passato assegnato a intellettuali come Eliot e Borges, per la prima volta affidato a un italiano. Calvino aveva scelto di parlare dei valori letterari da salvare per il successivo millennio (il titolo che aveva appuntato era Six Memos for the Next Millenium), valori che costituissero un baluardo contro il rischio di decadimento culturale e intellettuale proprio della società tecnologica. Le qualità dello stile individuate da Calvino – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità (nelle cinque lezioni completate) –, che caratterizzano il suo stesso modo di scrivere, sono per lui un riflesso delle qualità dell’intelligenza necessarie ad affrontare un mondo in rapido mutamento. Le qualità: la leggerezza La leggerezza è, per Calvino, la capacità di sottrarsi all’“opacità” dell’esistente grazie alla fantasia e all’astrazione; il suo emblema è riconosciuto, in una nota novella di Boccaccio, nel salto leggero del poeta Cavalcanti «che si solleva sulla pesantezza del mondo», rappresentata dalla brigata di giovani arroganti che lo provocano, innalzandosi «alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell’intelletto». Calvino ritiene la leggerezza una qualità specifica del suo modo di scrivere, sostiene di aver sempre voluto che la sua scrittura fosse animata da «agilità scattante e tagliente», di aver sempre cercato di «togliere peso». La rapidità La rapidità è il dominio del tempo da parte di uno scrittore, la capacità di imprimere un ritmo alla narrazione e di trattare in modo efficace e stringente gli argomenti e le vicende. Calvino si rendeva conto della necessità che la letteratura rispondesse, con i mezzi che le erano propri, ai bisogni e alle prerogative di un tempo in cui la rapidità dominava nei media, che rischia-

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vano di oscurare ogni altra forma di comunicazione. «La rapidità dello stile e del pensiero» scrive «vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura...» e «ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile». L’esattezza L’esattezza è teorizzata da Calvino come contrappeso alla degenerazione del linguaggio contemporaneo, «usato in modo approssimativo, casuale, sbadato». La “peste del linguaggio” che sembra aver colpito l’umanità può essere combattuta attraverso una letteratura capace di sviluppare degli “anticorpi”, in grado di sconfiggere l’”epidemia pestilenziale”. La visibilità Anche la visibilità è vista come valore in opposizione all’epoca contemporanea, come capacità del soggetto di “pensare visivamente”, messa a rischio dall’inondazione di immagini accolte in modo passivo dall’esterno, che Calvino descrive come «strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo». L’autore sottolinea il ruolo primario esercitato nella sua scrittura narrativa, soprattutto nelle prime opere, dall’immagine: «...all’origine di ogni mio racconto c’era un’immagine visuale… sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità esplicite, il racconto che esse portano dentro di sé». La molteplicità La molteplicità infine è la possibilità di far fronte con il pensiero e con il linguaggio alla disarticolata complessità della realtà odierna, proponendo multiformi visioni del mondo. Già i grandi romanzi del XX secolo avevano cercato di rappresentare la totalità, ospitando diversi modi di pensare, impiegando diversi metodi interpretativi e mescolando diversi generi e stili espressivi. E la letteratura moderna prosegue nell’esplorare la molteplicità potenziale del narrabile: di questa prospettiva, insieme conoscitiva e narratologica, Calvino considera esempi i suoi stessi romanzi Se una notte d’inverno un viaggiatore e Il castello dei destini incrociati. La struttura delle lezioni Una delle qualità delle Lezioni americane è l’ampiezza di orizzonti, che non si limitano alla letteratura, ma si estendono al contesto sociale, alla civiltà, alla cultura nei suoi molteplici ambiti. Ogni lezione si articola in una triplice prospettiva: in base a ciascuno dei valori considerati, lo scrittore presenta un catalogo ragionato delle opere della letteratura mondiale dall’antichità ai nostri giorni, analizza la propria produzione letteraria e propone prospettive per il futuro. Nonostante la complessità del quadro culturale, lo stile dell’ultima opera di Calvino si snoda con nitore cristallino ed esemplare chiarezza comunicativa.

Lezioni americane GENERE

saggio

STRUTTURA

5 lezioni completate

DATAZIONE

uscita postuma nel 1988

CONTENUTI

il ruolo del linguaggio e le qualità necessarie per affrontare un mondo in rapido mutamento

STILE

chiaro e comunicativo

Ritratto d’autore 1 995


Italo Calvino

T1 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1989

Il valore dell’esattezza Lezioni americane, 3. Esattezza Presentiamo qui un brano dalle Lezioni americane, tratto dalla lezione dedicata all’Esattezza, per lo scrittore un valore da salvaguardare con la massima cura in un mondo come quello attuale, troppo spesso approssimativo.

Cercherò prima di tutto di definire il mio tema. Esattezza vuol dire per me so­ prattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo 5 un aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco εỉκαστικóς; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvii? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: 10 mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo senten­ do parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è ne­ 15 cessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere. Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella fa­ 20 coltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. 25 Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio. 30 Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni 35 immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di disagio. Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel 40 mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende

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tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.

Analisi del testo Lo stile e l’intelligenza

Il testo, che esemplifica le caratteristiche delle Lezioni americane, si apre con la definizione, articolata in tre punti principali, di ciò che l’autore intende per “esattezza”: un disegno complessivo dell’opera articolato e coerente; immagini evidenti, nitide e pregnanti (in questo senso l’esattezza si collega a un altro dei valori sostenuti da Calvino, la visibilità); precisione del linguaggio. Perché per Calvino al mondo contemporaneo è necessaria l’esattezza? Si è detto che le qualità dello stile riflettono le qualità dell’intelligenza: a suo avviso, il mondo attuale è colpito da una «peste del linguaggio», che consiste in una sempre più accentuata standardizzazione e banalizzazione. Questo si traduce in minore conoscenza e sensibilità per le sfumature: il linguaggio massificato, nella sua piatta uniformità, non può più cogliere gli elementi di novità del mondo, né porsi criticamente verso la realtà. Come lo scrittore acutamente osserva, venendo meno «ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze», si spegne anche la creatività. Un analogo processo riguarda le immagini, onnipresenti nel mondo odierno, ma spesso prive di una reale motivazione e di un significato profondo. Come si vede, l’autore allarga la sua riflessione dal piano delle parole a quello delle cose, evidenziando i molteplici legami fra linguaggio e mondo; inoltre, come è proprio del suo atteggiamento intellettuale, non si limita a constatare il negativo, ma ricerca le possibilità di contrastarlo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in uno schema le argomentazioni del testo. COMPRENSIONE 2. Perché lo scrittore afferma di preferire la parola scritta al discorso parlato? ANALISI 3. Secondo Calvino, quali tre aspetti dell’esattezza sono da ricercare nelle opere letterarie? STILE 4. Lo scrittore utilizza più volte nel passo la metafora della peste. A che cosa la applica?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Dal passo emerge l’ideale di scrittura di Calvino. Dopo aver riflettuto sulla tesi dell’autore, spiega, in un testo di max 15 righe, se la condividi o no, argomentando le tue opinioni in proposito. LETTERATURA E NOI 6. In un suo saggio, la critica letteraria Carla Benedetti contesta radicalmente le tesi esposte da Calvino nelle Lezioni americane, argomentando che a una letteratura dell’esattezza, capace di descrivere il mondo, ma incapace di cambiarlo, preferirebbe una letteratura dell’efficacia, in grado di incidere sulla realtà. Se tu, a tua volta, dovessi indicare il valore più importante che la letteratura possa offrire al mondo d’oggi, quale sceglieresti e perché? Cerca di rispondere costruendo il tuo testo in modo che sia riconoscibile il modello di riferimento (cioè Calvino).

Ritratto d’autore 1 997


2

Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista Il felice esordio narrativo di Calvino Il sentiero dei nidi di ragno, il primo romanzo di Calvino, scritto in meno di un mese, è pubblicato nel 1947 nella collana “I coralli” di Einaudi, quando in Italia domina la corrente neorealista, nella quale anche l’opera di Calvino si iscrive, pur con prerogative originali. Il breve romanzo nasce dall’esperienza dell’autore che, ancora giovanissimo, partecipa alla guerra partigiana nelle brigate Garibaldi sui monti dell’entroterra di Sanremo. Per narrare la Resistenza lo scrittore sceglie un punto di vista insolito e originale, quello di un bambino, Pin. Orfano di madre e abbandonato dal padre, Pin cresce nel clima di violenza e degradazione della guerra. Per caso si unisce a una banda di partigiani e vive la Resistenza come un’avventura fantastica, di cui ignora le ragioni politiche e ideologiche. Come Calvino stesso precisa nella importante prefazione annessa al romanzo nel 1964, nell’«inferiorità di Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi» si rispecchia l’inferiorità vissuta allora dallo stesso scrittore come borghese a contatto con il mondo “diverso” dei partigiani.

online

Video e Audio Marco Belpoliti sul Calvino del Sentiero e dei racconti resistenziali

Il sentiero dei nidi di ragno Pin, un bambino orfano, vive con sua sorella, la Nera, che si prostituisce con i soldati tedeschi. Cresciuto per strada, frequenta l’osteria, che diventa il centro del suo mondo; emarginato dai coetanei, assume un atteggiamento aggressivo con gli adulti, da cui in realtà desidera protezione e affetto. Nel tentativo di essere accettato dal mondo degli adulti e degli amici antifascisti che frequentano l’osteria, ruba una pistola P38 a un marinaio tedesco, amante della sorella. Per il furto dell’arma è catturato dai tedeschi e di lì inizia la sua avventura partigiana: interrogato e picchiato, incontra in prigione Lupo Rosso, un giovane militante comunista che lo prende con sé nella fuga, ma poi lo abbandona nel bosco, dove Pin incontra un altro partigiano, Cugino, che lo conduce sulle montagne, nel distaccamento del Dritto, un comandante della Resistenza alquanto inaffidabile. Dapprima Pin vive la lotta partigiana come una meravigliosa avventura, come un gioco straordinario, ma alla fine, deluso dal Dritto e sempre più ostile verso l’incomprensibile mondo dei grandi, si trova nuovamente solo. Pensa allora prima di tutto a recuperare la P38, che aveva nascosto in un luogo per lui magico, il “sentiero dei nidi di ragno”, scoprendo che era stata rubata da Pelle, un partigiano fanatico delle armi, che dalla brigata del Dritto è passato alla milizia fascista; ritrova infine la pistola a casa della sorella, a cui Pelle l’aveva donata. Con quella stessa arma, in un tragico gesto di purificazione e di vendetta, Cugino ucciderà la Nera, spia dei nazisti. Lo straniamento come scelta di “leggerezza” La particolare scelta narrativa permette all’autore di raccontare i diversi aspetti della Resistenza (l’organizzazione delle bande, le imprese dei partigiani) in un modo “leggero” (secondo quanto Calvino teorizzerà nella più celebre delle Lezioni americane), mettendo in risalto gli aspetti vitali e avventurosi, “picareschi”, di quell’esperienza, più dei crudi eventi che la caratterizzavano. Celebre e molto acuta è la definizione di Calvino e della sua

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scrittura data dall’amico Cesare Pavese nella sua recensione al Sentiero (che considera «il più bel racconto... sull’esperienza partigiana»): «scoiattolo della penna», per il dinamismo della sua scrittura e la sua particolare scelta di «osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, “diversa”». Una rappresentazione antieroica della Resistenza Lo scrittore immagina che il bambino Pin entri a far parte di un’anomala brigata di partigiani, composta da individui emarginati e sbandati, politicamente inconsapevoli, pronti a commettere sciocchezze, compiere azioni azzardate, a tradire, ma animati da una istintiva volontà di riscatto. Il modo con cui Calvino ritrae i partigiani, che non indulge mai all’idealizzazione, ma anzi ne mette in luce le debolezze, le miserie, le contraddizioni, evidenzia la volontà dell’autore di contrapporsi sia alla mitizzazione della Resistenza assai diffusa nella narrativa del dopoguerra sia ai suoi detrattori. Al contempo Calvino era allora convinto che dalla Resistenza sarebbe nata una società più giusta in cui sarebbero stati riscattati i diritti e la dignità dei poveri e degli emarginati che compaiono come “attori” nel suo romanzo e che sceglie per incarnare la Resistenza. Il commissario Kim, portavoce dell’autore Questo intento ideologico, riconducibile alla poetica neorealista, è messo in risalto in un capitolo del libro che fa quasi parte a sé, perché estraneo all’atmosfera fiabesca del racconto e perché vi compare un personaggio che per il resto non partecipa alla vicenda narrata: il commissario Kim, portavoce dell’autore, a cui è affidato, in un dialogo con il compagno Ferriera, il giudizio sulla Resistenza. Secondo Kim il vero senso della lotta partigiana sta proprio nell’offrire agli individui più emarginati uno sbocco alla rabbia e al desiderio di riscatto, trasformando il loro furore istintivo in una forza costruttiva. Kim concepisce la storia come un percorso verso una maggiore giustizia: perciò contrappone i partigiani – che con più o meno consapevolezza seguono la direzione progressiva della storia – ai fascisti, «la parte dei gesti perduti, degli inutili furori» in quanto tendenti a perpetuare il vecchio ordine sociale (➜ T2b ). La Resistenza come fiaba Nel Sentiero dei nidi di ragno, la Resistenza è raccontata come una fiaba e un’avventura affascinante, guardata da occhi infantili. Alla dimensione fiabesca rimandano più situazioni ed elementi del romanzo: ad esempio quando Pin – come il bambino sperduto nel bosco delle fiabe – pensa di gettare a terra una scia di noccioli di ciliegia per far ritrovare le sue tracce a Lupo Rosso. Un motivo tipico delle fiabe è poi l’oggetto magico: nel caso di Pin la pistola, che per il bambino è come un lasciapassare per il “mondo dei grandi” (Pin non la userà mai per sparare) e che ricompare in tutti gli snodi della narrazione, dall’ingresso nel mondo partigiano al tragico epilogo. Un romanzo di formazione? Per alcuni aspetti, il Sentiero dei nidi di ragno può essere considerato un romanzo di formazione: il protagonista, cresciuto in un ambiente squallido e privo di ideali, matura entrando in contatto con un evento storico come la Resistenza, che rappresenta il riscatto stesso della nazione. D’altra parte, però, tale processo di formazione è incompiuto e nel romanzo resta incolmabile la distanza fra le aspirazioni ideali del bambino e la «vita incomprensibile, infida, ambigua, sfuggente, indegna dei “grandi”» (Garboli). Tale formazione mancata è evidenziata dalla struttura circolare della narrazione, per cui Pin, rimasto alla fine nuovamente solo e desolato nel bosco, per la seconda volta è soccorso da Cugino. Ma è proprio Cugino, partigiano idealista e rigoroso, a insegnare al bambino il Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 2 999


online

Per approfondire Il partigiano Calvino “padre” dei cantautori italiani

modo per affrontare la vita, invitandolo a guardare le cose da una certa distanza, per non farsi travolgere dal loro insostenibile peso: nell’ultima pagina del romanzo gli insegna infatti a guardare le lucciole che, se da vicino appaiono come «bestie schifose», da una certa distanza si rivelano belle e luminose. La conclusione mette in evidenza già nel primo romanzo quello che, con un’espressione ripresa dal filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900), Cesare Cases definisce il «pathos della distanza», cioè la capacità di guardare le cose con il distacco necessario a non farsene travolgere, per poterle dominare intellettualmente e moralmente. Un atteggiamento basilare per Calvino anche nelle opere successive. Ultimo viene il corvo Iscrivibili almeno in parte nel clima neorealistico sono alcuni dei racconti (scritti tra il 1945 e il 1948) confluiti nella raccolta Ultimo viene il corvo (1949), che prende il titolo da uno di essi. L’opera ospita vari temi (dalla guerra e la Resistenza al tema dell’infanzia e adolescenza, fino a vicende realistiche legate alla vita del dopoguerra). Nei racconti ispirati alla guerra e alla Resistenza (Ultimo viene il corvo, Campo di mine, Andato al comando), viene meno il clima “magico” del Sentiero e dominano una visione amara e disincantata e un registro teso e asciutto.

LA STAGIONE NEOREALISTA - Il sentiero dei nidi di ragno GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

T2

1947

CONTENUTI

la Resistenza e la lotta partigiana visti attraverso gli occhi di un bambino

STILE

tono fiabesco e narrazione priva di ogni esaltazione retorica

La guerra partigiana Si riportano due brani con al centro la guerra partigiana: nel primo la guerra viene filtrata attraverso un punto di vista infantile, quello di Pin; nel secondo il personaggio Kim esprime una riflessione più matura sul significato della guerra, interrogandosi sul senso di tal evento.

Italo Calvino

T2a I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

L’avventurosa fuga di Pin dal carcere tedesco Il sentiero dei nidi di ragno, cap. IV Pin, incarcerato dai nazisti per il furto della pistola, incontra il giovane partigiano Lupo Rosso, con cui riesce a fuggire dal carcere. E si chiede se possa essere lui l’Amico sperato…

Lupo Rosso e Pin hanno già scavalcato la balaustra. – Là, – dice Lupo Rosso a Pin. – Attaccati là e non mollare, – e gli indica il tubo di scarico d’una grondaia. Pin ha paura, ma Lupo Rosso quasi lo butta nel vuoto e lui è obbligato ad attaccarsi al tubo. Però le mani e i ginocchi insaponati scivo­

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lano, è un po’ come scendere sulla ringhiera di una scala, solo fa molto più paura e non bisogna guardare sotto né staccarsi dal tubo. Lupo Rosso invece ha fatto un balzo nel vuoto, si vuole ammazzare? No, vuole raggiungere i rami di un’araucaria1 poco distante ed aggrapparsi. Ma i rami gli si spezzano in mano e lui precipita tra uno schianto di legni e una pioggia di piccole 10 foglie aghiformi, Pin sente che la terra s’avvicina sotto di lui, e non sa se ha più paura per sé o per Lupo Rosso che forse s’è ammazzato. Tocca terra rischiando di spezzarsi le gambe e subito, ai piedi dell’araucaria, vede Lupo Rosso steso al suolo su un’ecatombe2 di piccoli rami. – Lupo! Ti sei fatto male? – dice. 15 Lupo Rosso alza la faccia, e non si capisce più quali siano le scorticature dell’inter­ rogatorio e quali quelle della caduta. Dà un’occhiata attorno. Si sentono degli spari. – Gambe! – dice Lupo Rosso. S’alza un po’ zoppicante, pure corre. – Gambe! – continua a ripetere – Di qua! 20 Lupo Rosso conosce tutti i posti e ora guida Pin per il parco abbandonato, invaso da rampicanti selvatici e da erbe spinose. Dalla torretta sparano fucilate contro di loro, ma il parco è tutto siepi ed alberi di conifere e si può procedere al coperto, pure Pin non è mai sicuro di non essere stato colpito, sa che subito non si sente la ferita, finché tutto a un tratto non si stramazza al suolo. Lupo Rosso l’ha gui­ 25 dato per una porticina, per una vecchia serra, gli ha fatto scavalcare un muro. A un tratto le penombre del parco si diradano ed ecco aprirsi ai loro occhi uno scenario luminoso, colori vivissimi, come quando si scopre una decalcomania3. Hanno un movimento di paura, subito si gettano a terra: davanti a loro s’allarga il brullo della collina, e tutto intorno, grandissimo e calmo, il mare. 30 Sono entrati in un campo di garofani, strisciando per non farsi vedere dalle donne col cappellone di paglia che sono in mezzo alla distesa geometrica degli steli grigi e annaffiano. Dietro un grande serbatoio d’acqua in cemento c’è un’anfrattuosità con vicino delle stuoie ripiegate che d’inverno servono a coprire i garofani perché non gelino. 35 – Qua, – dice Lupo Rosso. S’appiattano dietro il serbatoio e tirano le stuoie in modo da non esser visti. – Qui bisogna aspettare la notte, – dice Lupo Rosso. Pin pensa tutto a un tratto a sé stesso appeso alla grondaia, o agli spari delle sen­ tinelle, e suda freddo. Sono cose quasi più spaventose a ricordarsi che a viverle; 40 ma vicino a Lupo Rosso non si può avere paura. È una cosa bellissima stare seduti insieme con Lupo Rosso dietro al serbatoio: sembra di giocare a nascondersi. Solo che non c’è differenza tra il gioco e la vita, e si è obbligati a giocare sul serio, come piace a Pin. 5

1 araucaria: nome di varie specie arboree, originarie dell’emisfero meridionale; importate in Italia come piante ornamentali; sono ad alto fusto e hanno foglie di un

verde lucido, acuminate e spinose all’apice (piccole foglie aghiformi). 2 un’ecatombe: una strage.

3 una decalcomania: l’immagine generata da un procedimento che consente di trasportare immagini colorate da un foglio di carta a altro supporto.

Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 2 1001


– Ti sei fatto male, Lupo Rosso? – Non molto, – dice Lupo Rosso, passandosi il dito insalivato sulle sbucciature, – i rami spezzandosi hanno frenato la caduta. Avevo tutto calcolato. A te come è an­ data, col sapone? – Mondoboia, Lupo Rosso, lo sai che sei un fenomeno? Come fai a sapere tutte queste cose? 50 – Un comunista deve sapere di tutto, – risponde l’altro; – un comunista deve sapersi arrangiare in tutte le difficoltà. «È un fenomeno, – pensa Pin. – Peccato che non possa fare a meno di darsi delle arie». – Una sola cosa mi dispiace, – dice Lupo Rosso, – che sono disarmato. Non so cosa pagherei per uno sten4. 5 55 Sten: ecco un’altra parola misteriosa. Sten, gap, sim , come si fa a ricordarsele tutte? Ma quest’osservazione ha riempito di gioia Pin; adesso potrà darsi delle arie anche lui. – Io invece non ci penso, – dice. – La mia pistola ce l’ho e nessuno me la tocca. Lupo Rosso lo smiccia6, cercando di non dare a vedere troppo interesse: – Tu hai 60 una pistola? – Hm, hm, – fa Pin. – Che calibro? Che marca? – Una pistola vera. Da marinaio tedesco. Gliel’ho portata via io. Per quello ero dentro. – Dimmi com’è fatta. 65 Pin cerca di spiegarglielo, e Lupo Rosso descrive tutti i tipi di pistola che esistono e decide che quella di Pin è una P. 38. Pin s’entusiasma: pi-trentotto, che bel nome, pi-trentotto! – Dove la tieni? – dice. – In un posto, – fa Pin. 70 Adesso Pin deve decidersi se dire o non dire a Lupo Rosso dei nidi di ragno. Certo Lupo Rosso è un ragazzo fenomeno che può fare tutte le cose immaginabili; ma il posto dei nidi di ragno è un grande segreto e bisogna essere dei veri amici in tutto e per tutto. Forse, malgrado tutto, Lupo Rosso non è simpatico a Pin: è troppo diverso da tutti gli altri, grandi e ragazzi: dice sempre cose serie e non si interessa 75 di sua sorella. Se si interessasse dei nidi di ragno, sarebbe molto simpatico, anche se non s’interessa di sua sorella: in fondo Pin non capisce perché tutti gli uomini si interessino tanto di sua sorella, ha dei denti da cavalla e le ascelle nere di peli, ma i grandi parlando con lui finiscono sempre per tirare in ballo sua sorella, e Pin s’è convinto che è la cosa più importante del mondo e che lui è una persona 80 importante perché è fratello della Nera di Carrugio Lungo. Però è convinto che i nidi di ragno siano più interessanti di sua sorella e di tutte le questioni di maschi e di femmine, solo non trova nessuno che capisca queste cose; se lo trovasse saprebbe perdonargli anche quel disinteressarsi della Nera. Dice a Lupo Rosso: – Io so7 un posto dove fanno il nido i ragni. 45

4 sten: tipo di mitra a canna corta; durante la Seconda guerra mondiale fu utilizzato dagli inglesi, che ne rifornirono anche le formazioni partigiane. 5 gap, sim: gap è abbreviazione di Gruppi d’azione patriottica; si riferisce a for-

mazioni armate della Resistenza italiana, di ispirazione comunista, composte da piccoli gruppi di uomini, dediti ad atti di sabotaggio e ad azioni clandestine armate; sim, abbreviazione di Servizio informazioni militari, un servizio di si-

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curezza nato in epoca fascista, che dopo l’8 settembre passò alla Resistenza. 6 smiccia: guarda, scruta. 7 so: conosco.


Lupo Rosso risponde: – Io voglio sapere dove hai la P. 38. Pin dice: – Ben: è lì. – Spiegamelo. – Vuoi sapere come son fatti i nidi dei ragni? – Voglio che tu mi dia quella pistola. 90 – Perché? È mia. – Tu sei un bambino che s’interessa ai nidi di ragno, che te ne fai della pistola? – È mia, mondoboia, e se voglio la butto nel fossato. – Sei un capitalista, – dice Lupo Rosso. – Sono i capitalisti che ragionano così. – Tu morissi, – dice Pin. – Un... che t’anneghi. 95 – Sei matto a parlar così forte? Se ci sentono siamo rovinati. Pin si scosta da Lupo Rosso e stanno zitti per parecchio tempo. Non sarà più amico con lui, Lupo Rosso lo ha portato in salvo fuori dalla prigione, ma è inutile, non riu­ sciranno a fare amicizia. Però Pin ha paura d’essere lasciato solo, e quella faccenda della pistola lo lega a filo doppio con Lupo Rosso, perciò non bisogna tagliare i ponti. 100 Vede Lupo Rosso che ha trovato un pezzo di carbone e ha cominciato a scrivere qualcosa sul cemento del serbatoio. Prende un pezzo di carbone anche lui e comin­ cia a fare dei disegni sporchi: un giorno ha riempito tutti i muri del carrugio8 di di­ segni così sporchi che il parroco di San Giuseppe ha protestato al Comune e ha fatto ridare l’intonaco. Ma Lupo Rosso è tutto intento alla sua scrittura e non gli bada. 105 – Cosa scrivi? – chiede Pin. – Morte ai nazi-fascisti, – dice Lupo Rosso. – Non possiamo perdere così il nostro tempo. Qui si può fare un po’ di propaganda. Prendi un carbone e scrivi anche tu. – Io ho scritto, – dice Pin e indica i segni osceni. Lupo Rosso va su tutte le furie e si mette a cancellarli. 110 – Sei matto? Bella propaganda ci facciamo! – Ma che propaganda vuoi fare, chi vuoi che venga a leggere in questo nido di ramarri? – Sta’ zitto: ho pensato di fare una serie di frecce sul serbatoio, e poi sul muro, fin alla strada. Uno segue le frecce, arriva qui e legge. 115 Ecco un altro dei giochi che sa fare solo Lupo Rosso: giochi complicatissimi, che appassionano ma non fanno ridere. – E cosa bisogna scrivere: Viva Lenin? Anni fa nel carrugio c’era una scritta che compariva sempre: Viva Lenin. Venivano i fascisti a cancellarla e il giorno dopo compariva ancora. Un giorno poi arrestarono 120 Fransè il falegname e la scritta non si vide più. Fransè dicono che è morto in un’isola. – Scrivi: Viva l’Italia, Viva le Nazioni Unite, – dice Lupo Rosso. A Pin non piace scrivere. A scuola lo picchiavano sulle dita e la maestra vista da sotto il banco aveva le gambe storte. Poi il W è una lettera che si sbaglia sempre. Meglio cercare qualche parola più facile. Pin ci pensa un po’ su, poi comincia: un 125 ci, un u, un elle... 85

8 carrugio: carruggio, vicolo stretto e buio del centro storico di molte cittadine liguri.

Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 2 1003


Analisi del testo La guerra da un punto di vista infantile Il testo ben esemplifica l’originalità del romanzo di Calvino, per il suo duplice carattere: realistico (l’episodio narrato si ispira a quanto avvenne all’autore, che durante la Resistenza, come Pin, fu incarcerato e riuscì fortunosamente a evadere) e insieme avventuroso e fantastico. La prospettiva di Pin alleggerisce la narrazione di situazioni oggettivamente drammatiche: l’interrogatorio, la tortura, l’evasione dal carcere nazista. Il bambino vive la realtà dura della guerra come se fosse uno dei giochi a cui è abituato (scendere attaccato alla grondaia del carcere è un po’ come scivolare lungo la ringhiera di una scala; sfuggire ai nazisti è come giocare a nascondino), senza rendersi davvero conto, se non retrospettivamente, dei rischi in cui è incorso. Il punto di vista infantile conferisce al racconto un’aura favolosa e incantata; lo sguardo fresco e curioso del bambino si rivela ad esempio nella similitudine in cui l’aprirsi improvviso dello scenario luminoso del paesaggio, dai colori vivissimi per il contrasto fra il verde del bosco, il rosso dei garofani, l’azzurro del mare, è paragonato a una decalcomania: una similitudine che suggerisce appunto un’ottica giocosa. Il senso di libertà e di avventura del racconto è inoltre sottolineato dal dinamismo dei dialoghi, rapidi e incalzanti, che ricordano quelli del romanziere americano Ernest Hemingway (1899-1961).

La critica all’ideologia Il personaggio di Lupo Rosso (ispirato a una figura reale della Resistenza in Liguria), che affronta con temeraria noncuranza la tortura e il pericolo di morte per difendere i suoi ideali, è un eroe, uno degli eroi semplici di un momento storico irripetibile della storia italiana. Calvino lo presenta con evidente simpatia e ammirazione, ma anche con una certa ironia, attraverso la focalizzazione di Pin, piuttosto critico nei suoi confronti. Lupo Rosso è il prototipo del militante comunista intransigente e votato alla causa; non ammette paure né debolezze (quando cade dall’araucaria a cui si era afferrato millanta di aver calcolato tutto). Nel suo eroismo c’è un limite, che l’autore mette in luce attraverso le perplessità di Pin nell’accettarlo come amico: sacrifica il suo lato umano all’ideologia, da cui è interamente condizionato; fanaticamente dedito alla propaganda, non gli interessano le donne, ma neppure i giochi dell’infanzia (non gli importa scoprire il luogo, per Pin mitico, dove si trovano i nidi di ragno) e perciò il bambino non può vederlo come amico. La diffidenza di Pin rispecchia quella dell’autore, critico verso il conformismo ideologico dei militanti politici.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi è Lupo Rosso? Come è giudicato da Pin? 2. Quali sono i sentimenti e gli stati d’animo di Pin durante la fuga? TECNICA NARRATIVA 3. Quale tipologia di narratore è presente? Qual è il punto di vista adottato? ANALISI 4. Quali aspetti del carattere e della vita di Lupo Rosso emergono dal brano? Rintracciali. 5. Individua nel testo gli elementi descrittivi che connotano il paesaggio delle colline liguri. STILE 6. Individua nel brano gli elementi dello stile colloquiale.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. In un testo di max 15 righe spiega in che cosa questo romanzo di Calvino differisce da altre opere narrative (➜ C10) riconducibili al filone della letteratura resistenziale.

1004 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Italo Calvino

T2b

Le riflessioni del commissario Kim sul significato della Resistenza

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Il sentiero dei nidi di ragno, cap. IX I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

Durante la notte due capi partigiani, Kim e Ferriera, si recano al distaccamento del Dritto dopo che il partigiano Pelle, passato ai fascisti, aveva denunciato i compagni e che il Dritto aveva causato per negligenza un incendio di una baracca. Mentre si allontanano dall’accampamento, Kim e il suo compagno discutono sul senso della lotta armata.

Ora il commissario Kim e il comandante Ferriera camminano soli per la montagna buia, diretti ad un altro accampamento. – Ti sei convinto che è uno sbaglio, Kim? – dice Ferriera. Kim scuote il capo: – Non è uno sbaglio, – dice. 5 – Ma sì, – fa il comandante. – È stata un’idea sbagliata la tua, di fare un distacca­ mento tutto di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora. Vedi quello che rendono. Se li dividevamo un po’ qua un po’ là in mezzo ai buoni era più facile che rigassero dritti. Kim continua a mordersi i baffi: – Per me, – dice, – questo è il distaccamento di 10 cui sono più contento. Ci manca poco che Ferriera perda la sua calma: alza gli occhi freddi e si gratta la fronte: – Ma Kim, quando la capirai che questa è una brigata d’assalto, non un laboratorio d’esperimenti? Capisco che avrai le tue soddisfazioni scientifiche a controllare le reazioni di questi uomini, tutti in ordine come li hai voluti mettere, 15 proletariato da una parte, contadini dall’altra, poi sottoproletari come li chiami tu... Il lavoro politico che dovresti fare, mi sembra, sarebbe di metterli tutti mischiati e dare coscienza di classe1 a chi non l’ha e raggiungere questa benedetta unità... Senza contare il rendimento militare, poi... Kim ha difficoltà a esprimersi, scuote il capo: – Storie, – dice, – storie. Gli uomini 20 combattono tutti, c’è lo stesso furore in loro, cioè non lo stesso, ognuno ha il suo furore, ma ora combattono tutti insieme, tutti ugualmente, uniti. Poi c’è il Dritto, c’è Pelle... Tu non capisci quanto loro costi... Ebbene anche loro, lo stesso furore... Basta un nulla per salvarli o per perderli... Questo è il lavoro politico… Dare loro un senso... […] Perché c’è qualcos’altro, comune a tutti, un furore. Il distaccamento del 25 Dritto: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi2, girovaghi. Gente che s’accomoda nelle piaghe della società e s’arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente da difendere e niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati, o fanatici. Un’idea rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppure nascerà storta, figlia della rabbia, dell’umiliazione, come negli sproloqui del 30 cuoco estremista3. Perché combattono, allora? Non hanno nessuna patria, né vera né inventata. Eppure tu sai che c’è coraggio, che c’è furore anche in loro. È l’offesa della 1 coscienza di classe: l’espressione si ri-

2 borsaneristi: chi vende clandestina-

ferisce alla concezione marxista e indica la consapevolezza negli appartenenti al proletariato di essere sfruttati dalla borghesia e, di conseguenza, la volontà di rivendicare i propri diritti.

mente (borsanera) generi di prima necessità (pane, pasta, riso, zucchero, olio, sapone), razionati in tempo di guerra. 3 negli sproloqui del cuoco estremista: il cuoco della brigata, Mancino, è un trotzkista, cioè un sostenitore delle po-

sizioni del politico russo (sovietico) Lev Trotzkij (1879-1940), che propugnava l’espansione della rivoluzione socialista in tutto il mondo, in dissenso con Stalin e la sua idea di uno stato burocratico e nazionalista; sproloquio è un discorso inconcludente e incoerente.

Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 2 1005


loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impen­ namento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare 35 con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso. Ferriera mugola nella barba: – Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?... – La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa... – Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; – la stessa cosa ma tutto il contrario. 40 Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, 45 siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare 50 ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umilia­ 55 zioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria4 dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro sé stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo. 4 il paria: nel sistema religioso e sociale induista il termine indica chi è al di fuori delle caste, all’ultimo gradino della società; in occidente il termine si riferisce a chi è all’infimo grado sociale, in una condizione di emarginazione ed esclusione.

Analisi del testo Il personaggio di Kim, portavoce dell’autore La focalizzazione sul protagonista bambino, Pin, serve a Calvino a trasmettere in modo vivo e immediato il clima della Resistenza, ma esclude la possibilità di una riflessione più matura sul significato di tale evento. Perciò, anche stimolato dal dibattito politico che aveva accompagnato la fine della guerra, l’autore introduce in un capitolo del romanzo un altro alter ego, Kim, che, come portavoce dell’autore, si pone domande importanti sulla guerra partigiana: a che cosa era servita? come si poteva dimostrare che quella dei partigiani era “la parte giusta”? Come avrebbe inciso la lotta partigiana sul futuro dell’Italia? Nel primo testo (➜ T2a ) Pin è posto a confronto con il militante comunista Lupo Rosso; qui Kim si contrappone al comandante Ferriera, anch’egli, come Lupo Rosso, fortemente condizionato dall’ideologia di partito. Kim, giovane intellettuale di carattere riflessivo, è uno studente di medicina che aspira a diventare psichiatra; curioso dei caratteri degli uomini, la sua apertura mentale è contrapposta allo schematismo ideologico del comandante Ferriera, operaio disciplinato e metodico, ligio alle direttive del Partito comunista, poco incline a porsi dubbi e domande. La differenza fra i due è sottolineata fin dalla caratterizzazione fisiognomica: «gli occhi freddi» di Ferriera si oppongono al gesto inquieto e ansioso di Kim di mordersi i baffi, che ne sottolinea la perplessità esistenziale.

1006 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


I due personaggi hanno naturalmente concezioni diverse della lotta partigiana: a Ferriera interessa creare reparti efficienti e suscitare nei resistenti una coscienza di classe con la propaganda politica, mentre Kim ripone fiducia in una spinta dal basso, quasi istintiva, alla ribellione.

Il “prospettivismo” del romanzo Parola chiave del suo discorso è “furore”, che esprime la rabbia degli emarginati, considerata come spinta decisiva per condurli al riscatto e alla purificazione, quando il loro impeto anarchico, libertario si tramuti in azione costruttiva, come avviene nella Resistenza. Questo il ragionamento di Kim: un mondo ingiusto produce infelicità e cattiveria, di cui la guerra è conseguenza; l’ingiustizia spinge chi la soffre a ribellarsi, ma non sempre seguendo la strada giusta. Il confuso periodo della guerra civile ne è la dimostrazione: individui come quelli della brigata del Dritto avrebbero potuto indifferentemente scegliere la parte dei partigiani e quella dei repubblichini. Ma Kim (sicuramente in questo portavoce di Calvino) ritiene che le conseguenze della scelta dell’una o dell’altra parte non sarebbero state le medesime. Egli considera quella dei repubblichini «la parte dei gesti perduti» perché il fascismo tendeva a perpetuare il medesimo ordine sociale che aveva portato alla catastrofe della guerra. I partigiani si proponevano invece un cambiamento e intendevano costruire un mondo più giusto che, secondo le speranze allora coltivate dall’autore, non sarebbe ricaduto nuovamente nella barbarie e nella guerra. Questo ragionamento si basa su un’idea della storia come cammino verso il progresso: un ottimismo fiducioso che Calvino avrebbe presto abbandonato.

UMR73999888 MANCA

Partigiani sulle montagne piemontesi, 1943.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi sono Kim e Ferriera? Perché rappresentano due personaggi antitetici? 2. Perché Calvino dedica il romanzo a Kim? Per quali aspetti questo personaggio diventa portavoce delle opinioni dell’autore? ANALISI 3. Secondo Kim, uno dei valori della Resistenza è il cambiamento che produce in chi vi partecipa: qual è? 4. Che cosa sono i «gesti perduti»? LESSICO 5. Rintraccia nel testo le occorrenze della parola furore e spiegane il significato in relazione alla tematica trattata e alle idee di Calvino.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 6. Le riflessioni di Kim lo portano a constatare come un mondo ingiusto produca infelicità e cattiveria, di cui la guerra è conseguenza. Secondo te esiste una guerra giusta? Esprimi le tue considerazioni in un testo di max 15 righe. Puoi fare riferimento a letture personali, ad autori affrontati durante il tuo percorso scolastico e anche a conflitti bellici, purtroppo ancora in corso.

Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 2 1007


3

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” Una nuova produzione All’inizio degli anni Cinquanta, Calvino si allontana dalla via della narrativa di impianto neorealistico, anche in relazione al rapido mutare del clima politico e culturale e alla fine di una stagione della storia italiana certo terribile e sanguinosa, ma a suo modo epica. Anche Calvino, come altri scrittori, avverte la privazione di una forte “energia fisica e morale” e il bisogno di recuperarla nella attività di scrittore. Due sono le direttive evidenziabili nella produzione degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta. Da un lato Calvino scrive racconti di ambientazione contemporanea, che affrontano temi anche sociali, in una prospettiva critica: dalla Formica argentina (1952) a La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958) fino a La giornata di uno scrutatore (1963) che documenta una crisi ideologica nell’autore e testimonia la fine di questa seconda fase della sua produzione. Dall’altro lato lo scrittore si mette alla prova in una serie di racconti lunghi (o romanzi brevi) di carattere fantastico, fiabesco, ambientati in epoche lontane: nella “trilogia degli antenati”, che avrà anche un grande successo presso il pubblico, sicuramente la sua particolare vena di scrittore si esprime al meglio. Calvino stesso osserva con chiarezza: «Mi è venuto naturale di trasferire questa carica (cioè la dimensione epica e avventurosa che caratterizzava la narrativa resistenziale e che era andata perduta) in avventure fantastiche, fuori dal nostro tempo, fuori dalla realtà». È significativo che, nello stesso periodo, Calvino studi con sguardo da antropologo il grande patrimonio delle fiabe italiane: un lavoro assai impegnativo che conflu­ isce nell’importante edizione delle Fiabe italiane (1956). Certamente, nell’immaginario calviniano e nelle sue stesse tecniche narrative, la frequentazione delle fiabe giocherà un ruolo rilevante: «Mi interessa della fiaba» precisa lo scrittore «il disegno lineare della narrazione, il ritmo, l’essenzialità». Importanti, in questa fase dell’itinerario calviniano, sono infine i racconti (realizzati nel 1958 e nel 1963) legati al personaggio di Marcovaldo che rappresentano le disavventure del contadino inurbato Marcovaldo con un registro comico-surreale, sullo sfondo delle trasformazioni sociali prodotte dall’industrializzazione e dal boom economico.

Trilogia degli antenati: 1 La tre parabole “fantastico-allegoriche” Tre collegamenti tra passato e presente Dando spazio alla componente immaginativa e fiabesca già presente, accanto a quella realistica, nel Sentiero dei nidi di ragno, Calvino scrive in poche settimane Il visconte dimezzato, pubblicato nel 1952 quasi concedendosi, dice, una «vacanza fantastica», che gli assicura però l’apprezzamento del pubblico e una certa fama. Come lo stesso Calvino riconobbe più tardi, la narrazione fantastica ben si adattava al periodo successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la «carica d’energia, d’azione, d’ot-

1008 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


timismo» della Resistenza era esaurita e soltanto la dimensione dell’immaginario sembrava permettere in qualche modo di ravvivarla. D’altra parte, questo racconto lungo, come le successive opere della “trilogia fantastica” – Il barone rampante del 1957 e Il cavaliere inesistente del 1959 –, non era ispirato a un desiderio di evasione dall’attualità, ma, come l’autore sottolinea intitolando nel 1960 la trilogia I nostri antenati, a costituire «un albero genealogico di antenati dell’uomo contemporaneo». Calvino istituisce quindi un legame tra temi e comportamenti del passato e la società del suo tempo. Il modello a cui guarda Calvino è il conte philosophique, il “racconto filosofico” caro agli illuministi francesi e da essi impiegato per divulgare le loro idee; ma altre suggestioni derivano dall’amato Ariosto e, più in generale, dalla narrativa cavalleresca.

Il visconte dimezzato La trama Il primo romanzo della Trilogia degli antenati è ambientato verso la fine del Seicento. La narrazione è delegata a un ragazzo, nipote del visconte Medardo di Terralba che, partito molto giovane per combattere contro i Turchi, è colpito da una palla di cannone che lo divide in due. La ferita è suturata e Medardo, dimezzato, torna al suo castello; ma ben presto la comunità del paese si accorge che è tornata la metà malvagia (detta “il Gramo”), capace di inconcepibili crudeltà: taglia in due tutto ciò che incontra (fiori, piante, animali) e si accanisce contro i sudditi con sanguinarie sentenze, senza risparmiare nemmeno la sua amorevole balia, finita confinata tra i lebbrosi. Qualche tempo dopo, però, torna anche la parte buona del visconte (“il Buono”), che cerca in tutti i modi, pur senza molto successo, di rimediare ai misfatti del Gramo. Nell’ultimo capitolo il Gramo e il Buono, innamorati entrambi della pastorella Pamela, si sfidano in un duello in cui si riapre la ferita che aveva diviso il visconte; il medico del paese, il dottor Trelawney, ricuce le due parti, ricomponendo l’unità originaria. Il tema del “doppio” La divisione del visconte in due metà, come spiega lo stesso autore, allude alla condizione dell’uomo contemporaneo (e in particolare dell’intellettuale) «dimezzato, cioè incompleto, “alienato”». Non è escluso che Calvino possa anche aver alluso alla recente lacerazione del paese durante la guerra civile. Ma la divisione in due richiama soprattutto il tema, tradizionale nella letteratura fantastica, del “doppio” e allude alla presenza in ogni uomo di componenti opposte e complementari, che – come è messo in luce nella psicoanalisi, specie in quella di Gustav Jung – possono essere una in luce, l’altra in ombra, e che non è possibile (oltre che negativo e rischioso) dissociare del tutto. L’alienazione dell’uomo contemporaneo consiste spesso proprio nella tendenza a sviluppare solo una parte di sé: la ragione contro l’irrazionale, la mente contro il corpo, l’autocontrollo contro l’istinto. La saggezza invece consiste per l’autore nel realizzare un’armonica compresenza degli opposti, come avviene alla fine del racconto, quando le due parti separate si ricompongono in unità: «Così mio zio Medardo» scrive il nipote, narratore della vicenda «ritornò uomo intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di esser dimezzato. Ma aveva l’esperienza dell’una e l’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio». La struttura speculare della narrazione e il sistema dei personaggi Il breve romanzo ha una struttura tutta imperniata sul tema della duplicità dell’essere umano. I due personaggi femminili – la balia e la pastorella Pamela – incarnano due tipi La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1009


diversi d’amore che in diverso modo ricompongono l’unità della figura del visconte: la balia perché lo ha allevato e, conoscendolo fin da bambino, ne accetta sia i lati buoni sia quelli cattivi; la pastorella Pamela perché è amata da entrambe le parti. Completano il sistema dei personaggi due comunità, altrettanto significative nell’opposizione speculare dei propri eccessi: i lebbrosi che, per dimenticare la malattia, conducono una vita consacrata al principio del piacere, e gli ugonotti, dissidenti religiosi emigrati dalla Francia, fanaticamente devoti a una sorta di religione del dovere. Così, in entrambi i gruppi, viene a mancare l’equilibrio necessario alla vita dell’uomo. Ma la scissione del visconte richiama anche un tema d’attualità nel periodo in cui il romanzo fu scritto: la divisione del mondo in due blocchi a causa della guerra fredda e la conseguente minaccia di un conflitto atomico. Il tema si incarna in un personaggio, l’artigiano Mastro Pietrochiodo, disposto a costruire perfette macchine di tortura e di morte per soddisfare il crudele dispotismo del visconte: rappresenta la tecnica incurante dei fini a cui è applicata e raffigura allegoricamente gli scienziati dell’età moderna, disposti a offrire al potere armi sempre più micidiali.

Il visconte dimezzato GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1952

TEMI

tema del doppio e dell’alienazione dell’uomo moderno alla ricerca della propria identità

PROTAGONISTA

Medardo di Terralba

SFONDO STORICO

fine XVII secolo

La Porta di Brandeburgo, uno dei confini tra Berlino Ovest e Berlino Est durante la guerra fredda.

1010 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Italo Calvino

T3

Nel clima della guerra fredda: responsabilità (e irresponsabilità) degli scienziati Il visconte dimezzato, cap. IV

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

Solo una metà del visconte è tornata nel paese di Terralba e – come racconta il narratore della storia, il nipote bambino del Visconte – ben presto ci si accorge che è la parte cattiva. Mastro Pietrochiodo, artigiano del paese, si ingegna a costruirgli gli strumenti per esercitare la sua malvagità.

– Ciao, zio! – gridai: era la prima volta che riuscivo a dirglielo. Lui sembrò molto contento di vedermi. – Vado per funghi, – mi spiegò. – E ne hai presi? – Guarda, – disse mio zio e ci sedemmo in riva a quello stagno. Lui andava sce­ 5 gliendo i funghi e alcuni li buttava in acqua, altri li lasciava nel cestino. – Te’, – disse dandomi il cestino con i funghi scelti da lui. – Fatteli fritti. Io avrei voluto chiedergli perché nel suo cesto c’era solo metà d’ogni fungo; ma capii che la domanda sarebbe stata poco riguardosa, e corsi via dopo aver detto grazie. Stavo andando a farmeli fritti quando incontrai la squadra dei famigli1, e seppi che 10 erano tutti velenosi. La balia Sebastiana, quando le raccontarono la storia, disse: – Di Medardo è ritor­ nata la metà cattiva. Chissà oggi il processo. Quel giorno doveva esserci un processo contro una banda di briganti arrestati il gior­ no prima dagli sbirri del castello. I briganti erano gente del nostro territorio e quindi 15 era il visconte che doveva giudicarli. Si fece il giudizio e Medardo sedeva nel seggio tutto per storto e si mordeva un’unghia. Vennero i briganti incatenati: il capo della banda era quel giovane chiamato Fiorfiero che era stato il primo ad avvistare la lettiga mentre pigiava l’uva. Venne la parte lesa ed erano una compagnia di cavalieri toscani che, diretti in Provenza, passavano attraverso i nostri boschi quando Fiorfiero e la sua 20 banda li avevano assaliti e derubati. Fiorfiero si difese dicendo che quei cavalieri erano venuti bracconando2 nelle nostre terre, e lui li aveva fermati e disarmati credendoli appunto bracconieri, visto che non ci pensavano gli sbirri. Va detto che in quegli anni gli assalti briganteschi erano un’attività molto diffusa, per cui la legge era clemente. Poi i nostri posti erano particolarmente adatti al brigantaggio, cosicché pure qualche 25 membro della nostra famiglia, specie nei tempi torbidi, s’univa alle bande dei briganti. Del bracconaggio non dico, era il delitto più lieve che si potesse immaginare. Ma le apprensioni della balia Sebastiana erano fondate. Medardo condannò Fiorfiero e tutta la sua banda a morire impiccati, come rei3 di rapina. Ma siccome i derubati a loro volta erano rei di bracconaggio, condannò anch’essi a morire sulla forca. E 30 per punire gli sbirri, che erano intervenuti troppo tardi, e non avevano saputo pre­ venire né le malefatte dei bracconieri né quelle dei briganti, decretò la morte per impiccagione anche per loro. In tutto erano una ventina di persone. Questa crudele sentenza produsse costerna­ zione e dolore in tutti noi, non tanto per i gentiluomini toscani che nessuno aveva 1 famigli: servi, domestici. Nel libro Calvino usa spesso voci let-

2 bracconando: cacciando abusivamente; più sotto, bracconieri,

terarie, arcaiche o desuete per conferire al racconto l’atmosfera di un’antica storia.

3 rei: colpevoli.

“cacciatori di frodo”

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1011


visto prima d’allora, quanto per i briganti e per gli sbirri che erano generalmente benvoluti. Mastro Pietrochiodo, bastaio4 e carpentiere5, ebbe l’incarico di costruir la forca: era un lavoratore serio e d’intelletto, che si metteva d’impegno a ogni sua opera. Con gran dolore, perché due dei condannati erano suoi parenti, costruì una forca ramificata come un albero, le cui funi salivano tutte insieme manovrate da un 40 solo argano6; era una macchina così grande e ingegnosa che ci si poteva impiccare in una sola volta anche più persone di quelle condannate, tanto che il visconte ne approfittò per appender dieci gatti alternati ogni due rei. I cadaveri stecchiti e le carogne di gatto penzolarono tre giorni e dapprima a nessuno reggeva il cuore di guardarli. Ma presto ci si accorse della vista imponente che davano, e anche il nostro 45 giudizio si smembrava in disparati sentimenti, così che dispiacque persino decidersi a staccarli e a disfare la gran macchina. 35

4 bastaio: artigiano fabbricante di basti; il basto è una grossa sella

5 carpentiere: artigiano che costruisce strutture portanti di legno

di legno che si pone sul dorso delle bestie da soma per collocarvi o appendervi il carico.

6 argano: macchina per la trazione di cavi o catene.

o metallo per carri o navi.

Analisi del testo La scienza contro l’umanità Il visconte dimezzato è un racconto fantastico, ma presenta molti riferimenti alla storia e all’attualità: pur in forma allegorica, allude infatti alla condizione contemporanea. L’uomo di oggi si sente spesso non realizzato e alienato: «Tutti» osserva Calvino «ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra». Nel libro tale condizione si estende anche a personaggi secondari, come Mastro Pietrochiodo, efficientissimo artigiano al servizio delle efferatezze del visconte, e il dottor Trelawney, un medico a cui interessa la ricerca scientifica, ma non i malati. I due personaggi esemplificano «la scienza e la tecnica staccate dall’umanità» e impersonano perciò una questione molto dibattuta negli anni Cinquanta, quando era ancora vivo il ricordo della bomba atomica di Hiroshima e quando gli scienziati stavano approntando arsenali nucleari per i due blocchi della Guerra Fredda. Il comportamento di Mastro Pietrochiodo, che si compiace della perfezione dei suoi strumenti senza porsi il problema di come sarebbero stati impiegati, ricorda quello degli scienziati atomici, coinvolti nella progettazione di ordigni potenzialmente in grado di distruggere ogni forma di vita sulla terra. Il tema della responsabilità degli scienziati accomuna Calvino ad altri intellettuali: negli anni Cinquanta-Sessanta è trattato in diversi romanzi e film (ad esempio Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick) e opere teatrali (la Vita di Galileo di Bertolt Brecht). Il visconte dimezzato mostra dunque come lo sviluppo unilaterale delle facoltà umane nella modernità si estenda dall’individuo all’intera società, producendo fenomeni dalle conseguenze devastanti come quelle di una scienza scissa dall’etica. Appare dunque chiaro come il libro di Calvino, presenti un duplice piano di lettura: un divertente racconto per ragazzi e, al contempo, una riflessione più seria su fondamentali temi contemporanei.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali ragioni avrebbero dovuto indurre Mastro Pietrochiodo a non realizzare la macchina richiesta? ANALISI 2. Quale episodio rivela che del visconte è tornata la «metà cattiva»? 3. Quali elementi accentuano l’insensata gravità della sentenza del visconte?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Calvino stesso spiega che nella figura del carpentiere si possono riconoscere la scienza e la tecnica staccate dall’umanità. In un testo di max 15 righe, rifletti sull’attualità di questo tema. Puoi fare riferimento a letture personali, ad autori affrontati durante il tuo percorso scolastico e infine, se hai avuto occasione di vederlo, al film Oppenheimer (uscito nell’agosto 2023) e incentrato sulla figura del padre della bomba atomica.

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Il barone rampante Un romanzo di formazione Al precedente romanzo della trilogia, prevalentemente improntato a uno sguardo critico sulla società, si contrappone Il barone rampante (1957), una delle opere più rappresentative e fortunate di Calvino, in cui prevale un intento propositivo: fornire un modello di uomo e di intellettuale per il mondo d’oggi. Il barone rampante segue il protagonista nel corso di tutta la sua vita e può essere considerato un moderno romanzo di formazione, poiché, attraverso le varie vicende narrate, si sviluppa l’itinerario esistenziale del protagonista verso una più ricca e completa umanità. Come gli altri due libri della trilogia, anche Il barone rampante offre due livelli di lettura: da una parte può essere apprezzato come un fantasioso libro per ragazzi, dall’altra propone a un lettore più colto una rivisitazione dell’Illuminismo e dei suoi valori in una prospettiva contemporanea. La trama In pieno Settecento, nell’immaginario paese ligure di Ombrosa, il dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò si ribella alle rigide imposizioni della sua nobile famiglia (rifiutandosi di mangiare un piatto di lumache cucinato dall’odiosa sorella Battista) e per protesta sale su un albero, giurando solennemente di non scendere mai più: manterrà la promessa. Da allora Cosimo trascorre il tempo sugli alberi: studia, assistito da un vecchio abate, legge, si innamora, “viaggia” di albero in albero. Una vita piena di scoperte, attiva, nient’affatto solitaria, anzi ricca di contatti, persino con intellettuali illuministi e con personaggi storici dell’epoca, come Napoleone. Fino all’ultimo Cosimo mantiene fede alla promessa di non scendere mai a terra, e, quando è vecchio e malato, si sottrae alla vista di tutti aggrappandosi alla fune di una mongolfiera di passaggio nel cielo di Ombrosa. A narrare in prima persona questa storia è Biagio, un altro rampollo dei Piovasco che, rimasto in famiglia, osserva e descrive ammirato (e un po’ invidioso) le straordinarie avventure di suo fratello Cosimo. Il significato allegorico del romanzo: un modello per l’intellettuale Tema centrale del romanzo è l’identità e il ruolo dell’intellettuale, rappresentati allegoricamente. Staccarsi da terra per salire sugli alberi, come sceglie di fare Cosimo, significa acquisire un punto di vista sulle cose meno immediato, più critico, ma anche capace di scorgere nuovi orizzonti: «Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria», dice lo stesso Cosimo. Le vicende del romanzo ne sono una dimostrazione: appena salito a vivere sugli alberi, il protagonista fa subito importanti scoperte. Entra per la prima volta nel giardino dei vicini D’Ondariva (prima a lui inaccessibile a causa di dissidi tra le due famiglie nobili); conosce la loro affascinante figlia Viola, di cui s’innamora; fa amicizia con i ragazzi poveri del paese ed entra in contatto con personaggi di ogni classe sociale; ma scopre anche i segreti delle persone più vicine a lui, come il fratello naturale del padre, esperto idraulico e apicoltore, ma anche infido traditore del suo paese, in complotto con i Turchi. La visione più obiettiva e onnicomprensiva della realtà che Cosimo acquisisce si traduce poi nella capacità di agire su di essa in modo più efficace. Salendo sulle piante, Cosimo infatti non si isola ma, al contrario, partecipa attivamente alla vita sociale e mette le proprie conoscenze a disposizione di tutti per migliorare il mondo in cui vive. A differenza dei protagonisti degli altri due romanzi fantastici di Calvino, Cosimo è dunque un personaggio del tutto positivo e costituisce un

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modello per l’intellettuale, per la sua capacità di svincolarsi dai condizionamenti e dai pregiudizi e di assumere un punto di vista razionale, libero e indipendente, ma anche volto a migliorare la società in cui vive (➜ T4 ). Il valore esemplare della figura di Cosimo è sottolineato dallo stesso Calvino, che in una lettera del 1958 scrive: «Ho voluto proporre una figura di uomo (di “intellettuale” se vogliamo) impegnato, che partecipa profondamente alla storia e al progresso della società, ma che sa di dover battere vie diverse dagli altri, com’è destino dei non conformisti. Ho voluto esprimere anche un imperativo morale di volontà, di fedeltà a sé stessi, alla legge che ci si è imposta, anche quando essa costa la separazione dal resto degli uomini». Lo sfondo storico-culturale del romanzo La vicenda del romanzo, per quanto fantastica, è inserita in un ben preciso sfondo storico, tanto che il libro può essere considerato per certi aspetti un romanzo storico: inizia infatti in una data precisa, nell’anno 1767, e intreccia la vicenda del protagonista con gli eventi storici e culturali del tempo (dall’illuminismo, alle rivoluzioni, alle guerre napoleoniche); inoltre, secondo i canoni del romanzo storico, i personaggi di fantasia si mescolano con figure storiche dell’epoca (dagli illuministi Voltaire, Rousseau e Diderot a Napoleone). Cosimo “illuminista” Lo stesso protagonista appare come una proiezione fantastica dell’intellettuale illuminista: si ribella alla famiglia aristocratica e al padre, fautore dell’ancien régime; mantiene rapporti su un piano egualitario con tutte le classi sociali; ha un’illimitata sete di sapere e la volontà di condividerlo; legge l’Encyclopédie; tiene una fitta corrispondenza con gli intellettuali dell’epoca; stampa giornali; si affilia alla massoneria; progetta costituzioni; immagina utopistiche città ideali. Cosimo e Calvino Nella sua ostinata difesa della ragione e nel suo ideale di una vita attiva e utile alla società, Il barone rampante rispecchia indubbiamente i valori dello scrittore stesso, che nella cultura del Novecento, dominata dall’irrazionalismo, si professa erede degli illuministi e fautore della ragione (seppur con i limiti e le distinzioni di cui si è parlato). Inoltre, non si deve dimenticare che, nel 1956, dopo la repressione dei moti d’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica, Calvino restituisce la tessera del Partito comunista, decidendo di fiancheggiarne le iniziative senza obbedire a una disciplina di partito. In una lettera alla Segreteria del Pci dichiara: «Come scrittore indipendente potrò in determinate circostanze prendere posizione al vostro fianco senza riserve interiori, come potrò lealmente […] rivolgervi delle critiche ed entrare in discussione». Tale scelta si rispecchia allegoricamente nel romanzo, il cui protagonista incarna la figura di un intellettuale critico e indipendente, come appunto Calvino stesso, ma non per questo meno sollecito del bene comune. Il mondo arboreo di Cosimo e il tema dell’ambiente Un altro elemento tematico significativo del romanzo è l’habitat arboreo di Cosimo, descritto con precisione da naturalista da Calvino (i suoi genitori, esperti botanici, curavano una stazione sperimentale di floricoltura). La distesa continua di alberi, percorsa dal barone rampante in ogni direzione, introduce il tema della natura come universo ancora integro e vitale. Il narratore ricorda però con malinconica nostalgia come tale «universo di linfa» fosse stato in seguito distrutto da uomini «presi dalla furia della scure». Questo tema – che nello stesso periodo è affrontato dallo scrittore in un racconto lungo di tipo realistico, La speculazione edilizia (➜ T5 ) – è un altro dei molti riferimenti all’attualità di questo straordinario romanzo fantastico di Calvino.

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Il barone rampante GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1957

TEMI

• allegoria del ruolo dell’intellettuale • ricerca di un nuovo punto di vista sul mondo per osservare le cose con razionalità e lucidità

PROTAGONISTA

Cosimo Piovasco di Rondò

SFONDO STORICO

XVIII secolo

Italo Calvino

T4

I nuovi valori del barone rampante e il confronto con il padre

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Il barone rampante, cap. XIV I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

Cosimo subisce un attentato: all’albero su cui dorme è appiccato il fuoco. Egli mostra però la forza del suo carattere e la prontezza della sua intelligenza, perché non solo riesce a spegnere le fiamme grazie all’aiuto degli amici carbonai, ma organizza squadre di pronto intervento per salvare il bosco dagli incendi. Il ragazzo ribelle è divenuto uomo. In questo momento della narrazione si colloca un colloquio da pari a pari con il padre, in cui il giovane barone rivendica il suo punto di vista indipendente contro il tradizionalismo paterno.

Questo primo tentativo d’incendio doloso e d’attentato alla sua vita avrebbe dovuto ammonire Cosimo a tenersi lontano dal bosco. Invece cominciò a preoccuparsi di come ci si poteva tutelare dagli incendi. Era l’estate d’un’annata di siccità e calura. Nei boschi della costa, dalla parte della Provenza, ardeva da una settimana un in­ 5 cendio smisurato. Alla notte se ne scorgevano i bagliori alti sulla montagna come un rimasuglio di tramonto. L’aria era asciutta, piante e sterpi nell’arsura erano una sola grande esca. Pareva che i venti propagassero le fiamme verso le nostre parti, se pur mai prima non fosse scoppiato qui qualche incendio casuale o doloso, ri­ congiungendosi con quello in un unico rogo lungo tutta la costa. Ombrosa viveva 10 attonita sotto il pericolo, come una fortezza dal tetto di paglia assalita da nemici incendiari. Il cielo pareva non immune da questa carica di fuoco: ogni notte stelle cadenti trascorrevano fitte in mezzo al firmamento e ci s’aspettava di vederle piom­ bare su di noi. La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1015


In quei giorni di sbigottimento generale, Cosimo fece incetta di barilotti e li issò pieni d’acqua in cima alle piante più alte e situate in luoghi dominanti. «A poco, ma a qualcosa s’è visto che possono servire». Non contento, studiava il regime dei torrenti che attraversavano il bosco, mezzo secchi com’erano, e delle sorgenti che mandavano solo un filo d’acqua. […] Ma non bastava, bisognava organizzare una guardia di spegnitori, squadre che in 20 caso d’allarme sapessero subito disporsi a catena per passarsi di mano in mano secchi d’acqua e frenare l’incendio prima che si fosse propagato. Ne venne fuori una specie di milizia che faceva turni di guardia e ispezioni notturne. Gli uomini erano reclutati da Cosimo tra i contadini e gli artigiani d’Ombrosa. Subito, come succede in ogni associazione, nacque uno spirito di corpo, un’emulazione tra le squadre, 25 e si sentivano pronti a fare grandi cose. Anche Cosimo si sentì una nuova forza e contentezza: aveva scoperto una sua attitudine ad associare la gente e a mettersi alla loro testa; attitudine di cui, per sua fortuna, non fu mai portato ad abusare, e la mise in opera soltanto pochissime volte in vita sua, sempre in vista d’importanti risultati da conseguire, e sempre riportando dei successi. 30 Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e dànno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la 35 mano alla guardia1 della spada). Dunque, questa degli incendi fu una buona estate: c’era un problema comune che stava a cuore a tutti di risolvere, e ciascuno lo metteva avanti agli altri suoi interessi personali, e di tutto lo ripagava la soddisfazione di trovarsi in concordia e stima con tante altre ottime persone. 40 Più tardi, Cosimo dovrà capire che quando quel problema comune non c’è più, le associazioni non sono più buone come prima, e val meglio essere un uomo solo e non un capo. Ma per intanto, essendo un capo, passava le notti tutto solo nel bosco di sentinella, su un albero come era sempre vissuto. Se mai vedeva fiammeggiare un focolaio d’incendio, aveva predisposto sulla cima 45 dell’albero una campanella, che poteva esser sentita di lontano e dar l’allarme. Con questo sistema, tre o quattro volte che scoppiarono incendi, riuscirono a domarli in tempo ed a salvare i boschi. E poiché v’entrava il dolo, scoprirono i colpevoli in quei due briganti di Ugasso e Bel-Loré, e li fecero bandire dal territorio del Comune. A fine d’agosto cominciarono gli acquazzoni; il pericolo degli incendi era passato. 15

In quel tempo non si sentiva che dir bene di mio fratello2, a Ombrosa. Anche a casa nostra giungevano queste voci favorevoli, questi: «Però, è così bravo», «Però, certe cose le fa bene», col tono di chi vuol fare apprezzamenti obiettivi su persona di diversa religione, o di partito contrario, e vuol mostrarsi di mente così aperta da comprendere anche le idee più lontane dalle proprie. 3 55 Le reazioni della Generalessa a queste notizie erano brusche e sommarie. – Hanno armi? – chiedeva, quando le parlavano della guardia contro gli incendi messa insie­ 50

1 guardia: guardamano (arco metallico sull’impugnatura dell’arma con lo scopo di proteggere la mano).

2 mio fratello: il narratore, Biagio, è il fratello minore di Cosimo. 3 Generalessa: è la madre di Cosimo, così

1016 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino

chiamata perché allevata dal padre generale e abituata a vivere vicino ai campi di battaglia.


me da Cosimo, – fanno gli esercizi? – perché lei già pensava alla costituzione d’una milizia armata che potesse, nel caso d’una guerra, prender parte a operazioni militari. Nostro padre invece stava a sentire in silenzio, scuotendo la testa che non si capiva se ogni notizia su quel figlio gli giungesse dolorosa o se invece annuisse, toccato 60 da un fondo di lusinga, non aspettando altro che di poter tornare a sperare in lui. Doveva essere così, a quest’ultimo modo, perché dopo qualche giorno montò a cavallo e andò a cercarlo. Fu un luogo aperto, dove s’incontrarono, con una fila d’alberelli intorno. Il Barone girò il cavallo in su e in giù due o tre volte, senza guardare il figlio, ma l’aveva 65 visto. Il ragazzo dall’ultima pianta, salto a salto, venne su piante sempre più vicine. Quando fu davanti al padre si cavò il cappello di paglia (che d’estate sostituiva al berretto di gatto selvatico) e disse: – Buongiorno, signor padre. – Buongiorno, figlio. – Sta ella bene? 70 – Compatibilmente agli anni e ai dispiaceri. – Godo di vederla valente. – Così voglio dire di te, Cosimo. Ho sentito che ti adoperi pel vantaggio comune. – Ho a cuore la salvaguardia delle foreste dove vivo, signor padre. – Sai che un tratto del bosco è di nostra proprietà, ereditato dalla tua povera nonna 75 Elisabetta buonanima? – Sì, signor padre. In località Belrìo. Vi crescono trenta castagni, ventidue faggi, otto pini e un acero. Ho copia di tutte le mappe catastali4. È appunto come membro di fa­ miglia proprietaria di boschi che ho voluto consociare tutti gli interessati a conservarli. – Già, – disse il Barone, accogliendo favorevolmente la risposta. Ma aggiunse: – Mi 80 dicono sia un’associazione di fornai, ortolani e maniscalchi. – Anche, signor padre. Di tutte le professioni, purché oneste. – Tu sai che potresti comandare alla nobil­ tà vassalla col titolo di duca? – So che quando ho più idee degli altri, 85 do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare. «E per comandare, oggigiorno, s’usa star sugli alberi?» aveva sulla punta della lin­ gua il Barone. Ma a che valeva tirar ancora 90 in ballo quella storia? Sospirò, assorto nei suoi pensieri. Poi si sciolse la cinta cui era appesa la sua spada. – Hai diciott’anni... È tempo che ti si consideri un adulto... Io non avrò più molto da vivere... – e reggeva 95 la spada piatta con le due mani. – Ricordi d’essere Barone di Rondò? – Sì, signor padre, ricordo il mio nome. – Vorrai essere degno del nome e del titolo che porti? 4 mappe catastali: documenti che rappresentano in planimetria l’ubicazione e l’estensione di beni immobili, utili per valutarne la relativa imposta di proprietà.

Elena Mannini, bozzetto per costume utilizzato nel film Il barone rampante (1971), tratto dall’opera di Calvino.

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1017


– Cercherò d’esser più degno che posso del nome d’uomo, e lo sarò così d’ogni suo attributo. – Tieni questa spada, la mia spada –. S’alzò sulle staffe, Cosimo s’abbassò sul ramo e il Barone arrivò a cingergliela. – Grazie, signor padre... Le prometto che ne farò buon uso. 105 – Addio, figlio mio –. Il Barone voltò il cavallo, diede un breve tratto di redini, cavalcò via lentamente. Cosimo stette un momento a pensare se non doveva fargli il saluto con la spada, poi rifletté che il padre glie l’aveva data perché gli servisse da difesa, non per fare delle mosse da parata, e la tenne nel fodero. 100

Analisi del testo Cosimo intellettuale illuminista

L’episodio mostra lo stretto rapporto fra la figura del giovane barone e quella dell’intellettuale illuminista, come si può cogliere da vari aspetti. • Studia per acquisire conoscenze rigorose e precise (si documenta sul regime dei torrenti, conosce perfettamente la tipologia e la nomenclatura delle piante del bosco), che sono però sempre finalizzate a uno scopo pratico e a un miglioramento della vita collettiva. • Considera uguali tutti gli uomini, senza differenze di ceto. Al genitore, rappresentante dell’ancien régime, scontento perché il figlio si è legato con persone di ceto sociale inferiore, come «fornai, ortolani e maniscalchi», Cosimo ribatte che possono essere accettate «tutte le professioni, purché oneste». • Crede nella diffusione delle idee utili e razionali («So che quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano»). Attraverso il dialogo, riesce a far comprendere al padre tale nuovo principio d’autorità, basato sulla competenza e non sulla superiorità sociale. • Rifiuta l’idea gerarchica della società dell’ancien régime; come spiega al padre, gli interessa di esser degno non del titolo di barone, ma solo di quello di uomo. • Contribuisce attivamente al progresso della società.

Le allusioni alla realtà contemporanea

Il dialogo mostra come Cosimo riesca a sostenere validamente idee nuove contro il padre, fautore dell’ancien régime: la ribellione del personaggio al principio di autorità è anche allegoria del distacco di Calvino dal Partito comunista, avvenuto nell’anno in cui scrive il romanzo. Ma anche altri elementi rivelano in filigrana la storia del Novecento dietro a quella immaginaria settecentesca, come l’osservazione sull’importanza di associarsi per conseguire obiettivi comuni (allusione alla Resistenza) e la difficoltà di far durare queste alleanze quando l’obiettivo comune venga meno (allusione al dopoguerra).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale nuova attitudine scopre di possedere Cosimo? Perché è molto importante? 2. Perché il padre dona a Cosimo la sua spada? Quale significato assume per i due protagonisti? ANALISI 3. Individua le battute del padre di Cosimo riconducibili all’ideologia dell’ancien régime. 4. Quali opinioni esprime il narratore in merito al valore delle associazioni?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 5. Spiega perché Cosimo possa essere considerato una rappresentazione allegorica dell’intellettuale illuminista ed evidenzia i valori propri dell’Illuminismo da lui rappresentati in una breve trattazione (max 15-20 righe). LETTERATURA E NOI 6. Dopo aver messo a confronto la figura di Cosimo con quella del padre, spiega quale ottica ciascuno dei due rappresenti. Tu come ti rapporti con la figura paterna? Quale distanza c’è tra la tua generazione e quella di tuo padre?

1018 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Il cavaliere inesistente Il cavaliere che non esiste Accomunato al Visconte dimezzato dallo sguardo critico sulla società moderna è Il cavaliere inesistente, terza opera della trilogia fantastica di Calvino, pubblicata nel 1959, che riprende il tema dell’alienazione dell’uomo moderno già centrale nel Visconte dimezzato. Il romanzo è ambientato questa volta nel Medioevo, al tempo della guerra tra cristiani e saraceni: un contesto che rimanda alla tradizione cavalleresca, ma soprattutto all’Orlando furioso di Ariosto, autore prediletto, come già si è detto, da Calvino (che al poema ariostesco avrebbe dedicato nel 1970 il libro L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, tratto da una serie di trasmissioni radiofoniche).

online

Video e Audio Calvino parla de Il cavaliere inesistente (1969) e del film animato che ne è stato tratto

La trama Vi si racconta la storia (riportata da una narratrice di cui solo alla fine sarà svelata la vera identità) di uno dei paladini più ardimentosi di Carlo Magno, Agilulfo, un cavaliere che non esiste: la sua armatura vuota è mossa solo dal senso del dovere e dalla forza di volontà. Dopo essersi coperto di gloria nell’assedio di Parigi, decide di andare alla ricerca della fanciulla amata, Sofronia, accompagnato dal fido scudiero Gurdulù; ma quando l’integerrimo paladino è accusato, a torto, di aver usurpato il titolo di cavaliere, per aver salvato da una violenza una fanciulla indegna del suo servizio, l’indomito senso del dovere non gli basta più. Perduta con l’onore la sua ragione di vita, Agilulfo cessa di esistere e decide di annullarsi, lasciando la propria armatura vuota in eredità al giovane Rambaldo. Come spiega Calvino, il personaggio (con la sua armatura che, una volta sollevata la celata dell’elmo, risulta vuota) è emblema «della più astratta civiltà di massa, in cui la persona umana tanto spesso appare cancellata dietro lo schermo delle funzioni, delle attribuzioni e dei comportamenti prestabiliti» (➜ VOL 1A C1). Nella surreale vicenda del cavaliere costituito dalla sola armatura, Calvino rappresenta in modo allegorico la tendenza dell’uomo contemporaneo a identificarsi, in modo alienante, con il proprio ruolo sociale, dimenticando i propri desideri più profondi per agire come la società gli richiede; così, però, espropriato della parte più autentica di sé, è come se egli non esistesse veramente. Il sistema dei personaggi Come accade per Il visconte dimezzato, il significato del Cavaliere inesistente si riflette nel sistema dei personaggi. Ciascuno di essi è infatti posto in rapporto con la pienezza dell’esistere e con «le vie di raggiungimento di un’umanità totale», tema del libro, secondo la definizione di Calvino. All’incapacità di esistere di Agilulfo, nuova incarnazione dell’intellettuale, la cui astratta razionalità è slegata dalla realtà concreta, fa da elemento compensatore un personaggio che rappresenta un’opposta incompletezza dell’essere: lo scudiero Gurdulù, tutto corpo e istinto, incapace di ragione e di volontà. Mentre Agilulfo è completamente estraneo alla dimensione materiale dell’esistenza (non può dormire né mangiare, né godere di qualunque cosa attinente al corpo), Gurdulù si immerge totalmente nella materia, perdendo la coscienza di sé, tanto da dimenticare il proprio nome per confondersi con ciò con cui è a contatto. E, come nel Visconte dimezzato, anche qui si contrappongono due comunità, i cavalieri del Graal e il popolo dei Curvaldi. Per il loro irrazionalismo misticheggiante, i cavalieri del Graal vengono meno a ogni responsabilità, che deriverebbe da una scelta razionale e cosciente. Esempio positivo è, invece, il popolo dei Curvaldi, che acquisisce la consapevolezza di esistere nella lotta contro l’oppressione dei cavalieri del Graal (una trasparente allusione alla Resistenza). La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1019


Il tema della conquista di un’umanità piena e completa è poi simboleggiato nel romanzo dal personaggio di Rambaldo, un giovane passionale e inesperto, che costruisce la propria identità ispirandosi al modello disincarnato ma perfetto di Agilulfo, da lui tanto ammirato, che lo farà suo erede, lasciandogli la propria armatura; indossandola, Rambaldo conquisterà l’amata Bradamante che, scambiandolo per Agilulfo, di cui è innamorata, consuma con lui il rapporto amoroso precluso al cavaliere inesistente. Il messaggio del romanzo Rambaldo rappresenta la necessità di compiere un cammino di maturazione che giunga a contemperare in modo equilibrato l’ideale e il reale, la passione e la razionalità: un messaggio caro all’autore, per cui, come spiega (rispondendo nel 1956 a un questionario sulla letteratura), tutto «ciò che porta a rinunciare a una parte di noi stessi è negativo» e le storie più interessanti da raccontare sono quelle «di ricerca d’una completezza umana, d’una integrazione, da raggiungere attraverso prove pratiche e morali insieme, al di là delle alienazioni e dei dimidiamenti [dimezzamenti] che vengono imposti all’uomo contemporaneo».

Il cavaliere inesistente GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1959

TEMI

• alienazione dell’uomo moderno nella società di massa • identificazione della persona con il proprio ruolo sociale

PROTAGONISTA

Agilulfo, paladino di Carlo Magno

SFONDO STORICO

Medioevo, al tempo della guerra tra cristiani e saraceni

narrativa “sociale” e il confronto critico 2 La con la società del boom economico Una produzione più “realistica” Come si è visto, anche nei romanzi propriamente fantastici di Calvino è ben presente l’attualità. Negli anni in cui lo scrittore completa la sua trilogia fantastica si dedica anche a racconti e brevi romanzi di taglio più realistico, ma soprattutto più direttamente legati alla rappresentazione della società, nei quali Calvino denuncia i problemi dell’Italia negli anni del boom economico rivelando una grande capacità di prevedere la centralità che molti anni dopo avrebbe assunto nel dibattito culturale e politico il degrado ambientale e più in generale il tema ecologico.

1020 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Anche in queste opere assume rilievo un tema fondamentale per Calvino: quello dell’identità dell’intellettuale, rappresentato in questi testi come smarrito e a disagio nell’Italia industrializzata e consumistica, tanto diversa da quella povera e rurale, ma ricca di valori civici, della Resistenza. La nuvola di smog Un tema già adombrato nel Barone rampante, il degrado dell’ambiente, è al centro del racconto La nuvola di smog (1958) ambientato in una grande città industriale del Nord. Il protagonista del racconto, che è anche il narratore, è un giovane provinciale, che trova lavoro come redattore di un periodico, intitolato «La Purificazione», per l’impegno contro l’inquinamento. Il giovane è colpito ben presto dalla cappa di smog che grava sulla città, infiltrandosi addirittura all’interno delle case. Ma dovrà scoprire che il finanziatore della rivista per la quale lavora è anche il principale responsabile dell’inquinamento, in quanto amministratore delegato di una delle maggiori industrie della città. La situazione comporterà in lui una nuova consapevolezza e il desiderio di far qualcosa per contribuire a risolverla. Ma intorno troverà solo indifferenza e rassegnazione, anche quando al problema dell’inquinamento industriale si sovrapporrà la possibilità, a cui il romanzo allude larvatamente, che l’aria sia contaminata da radiazioni di natura ben più pericolosa. La speculazione edilizia Sul tema ecologico è incentrato anche il racconto lungo La speculazione edilizia (che lo scrittore giudicava una delle sue cose migliori), edito nel 1957 sulla rivista «Botteghe oscure» e in volume nel 1963. Il racconto denuncia il degrado etico, sociale ed estetico dell’Italia del boom economico, all’inseguimento di un benessere materiale disgiunto da quelle solide basi civili e morali che la Resistenza aveva fatto auspicare. La vicenda si svolge in una città imprecisata, ma riconoscibile come Sanremo, il cui paesaggio è devastato dal sorgere di sempre nuovi, squallidi condomini (tra gli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia era realmente trasformata da una selvaggia speculazione edilizia): «...La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera: là vedevi il palazzo già abitato, con le cassette dei gerani tutti uguali ai balconi, qua il caseggiato appena finito, coi vetri segnati da serpenti di gesso, che attendeva le famigliole lombarde smaniose dei bagni; più in là ancora un castello d’impalcature e, sotto, la betoniera che gira e il cartello dell’agenzia per l’acquisto dei locali». Il protagonista è un intellettuale, Quinto Anfossi, con un passato da partigiano, ma di famiglia borghese, che vive a Milano ma torna spesso a visitare la vecchia madre al paese natale. Decide di adeguarsi allo spirito dei tempi nuovi, tentando la “speculazione edilizia”.

La nuvola di smog GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1958

TEMI

• degrado dell’ambiente • attenzione al tema ecologico • conseguenze del boom economico

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1021


Vende così una parte del terreno della propria villa, entrando in società con lo spregiudicato costruttore Caisotti per ampliare l’area edificabile, in modo da divenire proprietario di alcuni appartamenti. Il progetto si rivela però fallimentare: è raggirato dall’astuto costruttore truffaldino, fino a rovinarsi economicamente e a dover ipotecare gli appartamenti. Anche in questo libro è centrale la figura autobiografica dell’intellettuale, presentata con uno sguardo autocritico; il protagonista, un letterato, infatti, non soltanto è vittima di un sordido speculatore, ma ne appare oscuramente affascinato, tanto da volerne divenire socio, nell’illusione di adeguarsi al modo di agire intraprendente e disinvolto della emergente borghesia degli affari (➜ T4 ). Ma, incapace di raggiungere la spregiudicatezza e l’indifferenza morale che i tempi avrebbero richiesto per conseguire il successo economico, resta alla fine disilluso e sconfitto.

La speculazione edilizia GENERE

racconto lungo

DATA DI PUBBLICAZIONE

edito in rivista 1957, in volume 1963

TEMI

• degrado etico, sociale ed estetico dell’Italia del boom economico • miracolo economico visto da un intellettuale • denuncia della nuova società dei consumi

Italo Calvino

T5

L’ambiguo costruttore Caisotti La speculazione edilizia, cap. III

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 7

Nel racconto La speculazione edilizia il giovane intellettuale Quinto Anfossi si trova ad avere rapporti d’affari con il costruttore Caisotti, a cui deve vendere un terreno edificabile. Il disagio dell’intellettuale nei confronti di chi incarna princìpi etici ed estetici del tutto distanti dai suoi traspare nell’inquietante ritratto del personaggio, rappresentato attraverso lo sguardo di Quinto.

Caisotti era tornato alla villa per definire le trattative, presente Quinto. Era entrato a labbra arricciate, compunto come in chiesa, s’era tolto con un certo ritardo il berrettino cachi a visiera, all’americana. Era un uomo sui quarantacinque anni, di statura piut­ tosto bassa, ma spesso e largo di spalle, di quelli che in dialetto si dicono «tagliati col 5 piccozzino» intendendo dire con l’accetta. Aveva una camicia a quadri, da cow-boy, che prendeva spicco sul ventre un po’ pronunciato. Parlava adagio, con la cadenza piangente, come in un acuto lamento interrogativo, dei paesi delle prealpi liguri. – E così, come le ho detto già a sua signora mamma, se un passo lo fate voi un passo lo faccio anch’io e ci incontriamo a mezza strada. La mia offerta è quella. 10 – È troppo bassa, – disse Quinto sebbene già avesse deciso d’accettarla. La faccia dell’uomo, larga e carnosa, era come fatta di una materia troppo informe per conservare i lineamenti e le espressioni, e questi erano subito portati a sfarsi, a franare, quasi risucchiati non tanto dalle grinze che erano marcate con una certa pro­

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fondità solo agli angoli degli occhi e della bocca, ma dalla porosità sabbiosa di tutta la superficie del viso. Il naso era corto, quasi camuso1, e l’eccessivo spazio lasciato scoperto tra le narici e il labbro superiore dava al viso una accentuazione ora stupida ora brutale, a seconda ch’egli tenesse la bocca aperta o chiusa. Le labbra erano alte intorno al cuore della bocca, e come alonate d’arsura, ma scomparivano del tutto sugli angoli come la bocca si prolungasse in un taglio fino a metà guancia; ne veniva un 20 aspetto di squalo, aiutato dal poco rilievo del mento, sopra la larga gola. Ma i movi­ menti più innaturali e faticosi erano quelli che spettavano alle sopracciglia: al sentire per esempio la secca risposta di Quinto: «È troppo bassa», Caisotti fece per raccogliere le chiare e rade sopracciglia nel mezzo della fronte, ma non riuscì che a sollevare d’un mezzo centimetro la pelle sopra l’apice del naso rincalzandola in un’instabile 25 ruga circonflessa e quasi ombelicale; tirate su da questa, le corte sopracciglia canine da spioventi che erano diventarono quasi verticali, tutte tremanti nello sforzo di star tese, e propagando il loro increspio alle palpebre che s’arricciavano in una frangia di rughine minutissime e vibranti quasi volessero nascondere l’inesistenza delle ciglia. Così rimase, a occhi semiciechi, con quell’aria da cane bastonato, e disse lamento­ 30 samente: – E allora mi direte voi cosa devo fare: io vi faccio vedere i preventivi, vi faccio vedere i prezzi che vanno i locali d’una casa come ci può venire lì, allo stretto e senza sole, vi faccio vedere tutto, e mi direte voi quanto ci posso guadagnare o se devo pure lavorare in perdita: io mi rimetto a quello che direte voi... Questa parte di vittima remissiva aveva già messo Quinto in soggezione. – Però, – egli 35 disse, conciliante, disposto all’equità, – il posto è centrale... – Sì, centrale è centrale… convenne Caisotti, e Quinto fu contento che avessero ri­ trovato un punto d’accordo e che la ruga sulla fronte dell’impresario2 si spianasse, ammainando le sopracciglia dalla loro posizione innaturale. Ma Caisotti continuava sullo stesso tono: – Certo, non sarà un palazzo tanto bello, – disse, e fece quella che 40 la madre di Quinto avrebbe poi chiamato «la sua brutta risata», – loro capiscono che una costruzione la posso fare solo girata in questo senso, – e faceva gesti con le sue braccia tozze, – certo non sarà un palazzo tanto bello, ma lei mi dice: è centrale, e io le do ragione... Quella frase del palazzo non tanto bello aveva rimesso in allarme la madre. – Però 45 noi vorremmo vedere prima il suo progetto, – disse, – riservarci d’approvarlo. Sa, è una casa che dovremo avere sempre sotto gli occhi... Quinto aveva avuto un’espressione insieme di fatalismo e di sufficienza, come l’uomo che sa bene che tutto si poteva chiedere a quella futura costruzione tranne d’essere bella, anzi ci si doveva augurare che fosse anonima, squallida, che si confondesse 50 con i più anonimi edifici intorno e marcasse la sua totale estraneità dalla loro villa. 15

1 camuso: schiacciato.

2 impresario: imprenditore.

Analisi del testo Il rapporto fra l’intellettuale e l’affarista In questo brano domina il personaggio chiave della storia, il costruttore Caisotti: rappresentante della nuova borghesia che si è fatta da sé, emergente nell’Italia del boom economico, appare come l’emblema di un tempo storico nuovo, di progresso materiale, ma anche di una decadenza etica ed estetica, di cui la speculazione edilizia è una delle manifestazioni più vistose. Il carattere ambiguo del personaggio è evidenziato dal diverso modo in cui a esso si rapportano Quinto e sua madre. Questa, il personaggio più positivo del libro (per molti tratti simile

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale” 3 1023


alla madre dello scrittore), ha un sistema di valori stabile e consolidato, alla luce di cui coglie gli aspetti negativi dell’uomo, che definisce falso e infido. Il figlio è invece come affascinato dal disonesto affarista, che gli pare incarnare tempi nuovi, di concretezza e progresso (nella conclusione del capitolo Calvino farà dire a Quinto che «a lui quel Caisotti lì, gli piaceva»). Tale fascinazione rivela il disagio dell’intellettuale nei confronti della nuova realtà storica, la società del benessere, in cui si vanifica la sua funzione, fondamentale nel momento di presa di coscienza politica collettiva della Resistenza, quando si sperava di rifondare il paese su solide basi civili e morali. Diffidente di sé, insicuro, Quinto vorrebbe assomigliare allo spregiudicato costruttore, tanto più adatto di lui allo spirito dei tempi.

Il ritratto del personaggio I temi del romanzo sono condensati nel ritratto di Caisotti, dal valore fortemente emblematico. La descrizione del costruttore, minuziosa e analitica, contrasta con lo stile rapido di Calvino: lo scrittore indugia su ogni tratto, conferendo al volto caratteri quasi surreali ed evidentemente simbolici, che ne fanno «l’immagine del marasma animale, di un caos primordiale che ha ragione di ogni cosa» (F. Serra). L’intellettuale non può misurarsi con un personaggio che sfugge alle regole della logica, e che, animato da una viscida ambiguità metamorfica, non è mai uguale a sé stesso. Le fattezze via via assunte dal costruttore, più animalesche che umane, svarianti dal cane allo squalo (Caisotti, forse con un ricordo dell’infernale mostro dantesco Gerione, emblema della frode, composto da membra di diversi animali, verrà in seguito anche paragonato a un toro, immagine di forza, e a un «enorme crostaceo», simbolo di insidia e impermeabile durezza), prefigurano l’evolversi del rapporto fra il costruttore e il protagonista, prima ingannato dall’apparente mansuetudine canina e poi divorato dal personaggio-squalo. Nella descrizione ricorrono termini come sfarsi, franare, risucchiati, che alludono al vecchio mondo in disfacimento, ma anche espressioni chiave che fanno dell’infido costruttore un emblema dei tempi nuovi: informe, e porosità sabbiosa rimandano alla sabbia e al cemento con cui sono costruiti i condomini che in pochi anni distruggono la straordinaria bellezza naturale della Riviera.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il brano proposto in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa rivela, a tuo giudizio, il modo di parlare di Caisotti? ANALISI 3. A quali animali è paragonato Caisotti? Che aspetti mettono in luce della sua personalità? LESSICO 4. Individua i termini che sottolineano la natura ambigua e insidiosa del costruttore. Quali aspetti del suo carattere emergono dal testo?

Interpretare

SCRITTURA 5. Interpreta questo racconto in relazione al clima dell’Italia nel secondo dopoguerra e al senso di disorientamento che accomuna molti intellettuali che, come il protagonista del racconto – e lo stesso Calvino –, seppure affascinati, mal sopportano la spregiudicatezza e l’indifferenza morale degli speculatori intenti a conseguire il successo economico a ogni costo. SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Quale idea del rapporto fra intellettuale e affarista emerge nel testo? Argomenta in merito. SCRITTURA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 7

7. Dopo aver letto il passo di Calvino, commenta le parole di Settis.

«L’Italia è fra i pochi Paesi che abbiano la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nella propria Costituzione; ha, in merito, un complesso di leggi organiche che sono fra le migliori, se non le migliori, del mondo; eppure, continua ogni giorno la selvaggia aggressione al paesaggio, di­ sprezzando le norme o “interpretandole” per piegarle alla speculazione edilizia. Dovremo dunque dire, come già Dante (Purgatorio XVI, 97): “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”». Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010

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Marcovaldo, uno sguardo straniato sulla città industriale

online

Video e Audio Marcovaldo è stato portato sul piccolo schermo nel 1970. Lo sceneggiato Rai, in sei puntate, è ambientato a Torino. L’interesse sociologico sotteso al racconto è sviluppato in una parte introduttiva del film attraverso servizi giornalistici con interviste a operai inurbati, ad accentuare il senso di realtà. Su YouTube alcune puntate.

Il contesto della civiltà industriale La nuova realtà italiana del boom industriale – che, a partire dagli anni Cinquanta, con rapidità impressionante, trasforma il tessuto sociale ed economico del paese portandolo a un benessere diffuso, ma anche determinando squilibri, cancellando culture tradizionali e contadine, come a partire dagli anni Sessanta denunciato da molti scrittori – è rappresentata da Calvino, oltre che nei racconti di taglio realistico, in quelli fantasiosi della raccolta intitolata Marcovaldo, dal nome del suo protagonista. Pubblicata nel 1963, essa è costituita da venti racconti (sedici, scritti a partire dal 1952, già editi su riviste e, di questi, dieci usciti fra i Racconti nel 1958). Sono “favole moderne”, «divagazioni comico-poetiche», per dirla con le parole dell’autore stesso, sospese in un’atmosfera tra comico e fiabesco. Indirizzate a un pubblico giovanile, si prestano però anche a una lettura più in profondità, come rappresentazione critica dell’Italia dell’epoca e, più in generale, della società dei consumi. Il punto di vista straniato di Marcovaldo sulla città Come è frequente nella narrativa di Calvino, l’efficacia dei racconti deriva dall’adozione di un punto di vista inusuale e straniato: in questo caso quello del protagonista Marcovaldo, un povero manovale che, pur abitando in una città (probabilmente ispirata a Torino, ma con i tratti caratteristici di ogni città industriale), continua a guardare il mondo con gli occhi di un campagnolo, come probabilmente egli era in origine, cercando i segni di un mondo naturale ormai definitivamente perduto nella vita urbana. L’effetto di straniamento è spesso ricercato come espediente narrativo originale: dal punto di vista inedito di un bambino nel Sentiero dei nidi di ragno, alla visione di Cosimo, che osserva il mondo dall’alto degli alberi nel Barone rampante, alla prospettiva cosmica con cui nelle Cosmicomiche saranno guardate situazioni comuni. Lo scrittore considerava la messa in crisi delle abitudini percettive come un aspetto caratterizzante la letteratura e la filosofia del Novecento. Il punto di vista straniato di Marcovaldo appare già nel primo racconto della serie, Funghi in città: «Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza». Lo schema dei racconti Il modo con cui il protagonista guarda alla realtà della metropoli, e con cui di conseguenza agisce, lo destina alla sconfitta: nei racconti Marcovaldo cerca costantemente di sfuggire alla morsa della vita cittadina, ma questa ogni volta lo riafferra più strettamente, evidenziando l’impossibilità di evaderne. Le avventure di Marcovaldo hanno esiti tragicomici, che apparentano l’ingenuo protagonista agli «eroi poveri-diavoli» interpretati da Charlie Chaplin, come Calvino stesso dichiara. In città, Marcovaldo tenta di compiere attività del tutto normali in campagna, scoprendo che sono irrealizzabili nel contesto urbano, come dormire tranquillamente all’aria aperta, ammirare le stelle, raccogliere

La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale”

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online

Per approfondire Calvino e la narrativa dello straniamento

funghi commestibili, dare la caccia agli uccelli, catturare pesci non inquinati; altrettanto fallimentari sono i suoi tentativi di cure naturali, quali punture di vespe contro i dolori reumatici e sabbiature su una chiatta adibita al trasporto di sabbia sul fiume, che lo lascia in balia della corrente quando si sciolgono gli ormeggi. Lo schema dei racconti tende a ripetersi ogni volta ed è così riassunto dall’autore stesso: «Marcovaldo 1) scruta il riaffiorare delle stagioni nelle vicende atmosferiche e nei minimi segni d’una vita animale e vegetale; 2) sogna il ritorno a uno stato di natura; 3) va incontro a un’immancabile delusione». Lo stile dei racconti Caratteristica stilistica dei racconti è il contrappunto fra il tono poetico della visione sognante e rivolta alla natura di Marcovaldo e quello prosastico del punto di vista oggettivo sulla realtà metropolitana. Riflette tale contrasto anche la struttura della raccolta, il cui sottotitolo è Le stagioni in città: infatti le venti storie si susseguono, associate ognuna in cinque cicli stagionali, seguendo i ritmi della vita che, basilari in campagna, sono ininfluenti in città. Ma non per Marcovaldo, sempre pronto a cogliere i segni della natura alla fermata del tram, ai bordi dell’autostrada, nei cortili di cemento.

Marcovaldo GENERE

raccolta di venti racconti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1963

CONTENUTI

rappresentazione del boom economico in chiave fiabesca

STILE

contrappunto tra tono poetico e straniante di Marcovaldo e quello prosastico del punto di vista oggettivo sulla realtà metropolitana

Emilio Tadini, Città italiana, 1988.

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Analisi passo dopo passo

T6

Italo Calvino

La metropoli cancella la volta stellata Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Luna e Gnac

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. I, Mondadori, Milano 1991

AUDIOLETTURA

Il racconto, tratto da Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (sezione Estate), si incentra sul contrasto tra la natura, rappresentata dalla volta stellata che il protagonista vorrebbe contemplare, e l’orizzonte cittadino, punteggiato dalle onnipresenti scritte pubblicitarie.

La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC. Per venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della luna crescen­ te dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e 5 poi stelle che più le si guardava più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo visto in fretta in fretta, ogni particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva, perché i venti secondi 10 finivano subito e cominciava il GNAC. Il GNAC era una parte della scritta pubblicitaria SPAAK-COGNAC sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. La luna improvvisamente 15 sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gat­ te che da dieci secondi lanciavano gnaulii1 d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col GNAC, s’acquattavano 20 sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon. Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina, che ormai era 25 una ragazza grande, si sentiva trasportata per il chiar di luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d’una serenata; c’era il GNAC e quella radio pareva pigliare un altro 30 ritmo, un ritmo jazz, e Isolina pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola. Pietruccio e Michelino sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da una calda e soffice paura d’esser circondati di foreste piene di briganti; poi, il 35 GNAC! e scattavano coi pollici dritti e gli indici tesi, l’uno contro l’altro: – Alto le mani! Sono Nembo

La sequenza è incentrata sull’alternanza tra lo scenario naturale notturno, descritto nel suo incanto attraverso lo sguardo di Marcovaldo, e quello artificiale della gigantesca scritta pubblicitaria, le cui luci fosforescenti oscurano ogni altra parvenza. La durata delle due fasi del tempo meccanizzato della scritta pubblicitaria, ciascuna di venti secondi, è sottolineata dalle iterazioni: individuale ed evidenziale. Quali espressioni rivelano la visione della volta stellata da parte del protagonista? Come lo scenario naturale si trasforma per l’illuminazione della scritta pubblicitaria?

I componenti della famiglia di Marcovaldo sono attratti da due opposte sfere, la natura e la città: le invadenti scritte pubblicitarie non piacciono a Marcovaldo e al figlio Fiordaligi, che attende ansiosamente la luce lunare per immergersi nella contemplazione romantica di una bella fanciulla alla finestra. La figlia Isolina è invece dibattuta, attirata a fasi alterne dalla natura e dalla modernità: la luna le fa sognare dolci serenate, le luci della città le rammentano balli scatenati a ritmi di jazz. Anche i due figli bambini sono combattuti tra la suggestione della notte e l’elettrizzante energia delle scritte luminose.

1 gnaulii: miagolii prolungati e insistenti.

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Kid! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: «Ora i ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far male. E Isolina affacciata a quest’ora è una cosa che non 40 va!» Ma tutto poi era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva come in visita in una casa di riguardo. Fiordaligi, invece, giovinotto melanconico, vedeva ogni volta che si spegneva il GNAC apparire dentro la voluta del 45 gi la finestrina appena illuminata d’un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di luna, color di neon, color di luce nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt’un tratto 50 dal buio risaettava fuori quello spietato gi del GNAC e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una fioca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo sorriso. In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cer­ 55 cava d’insegnare ai figlioli la posizione dei corpi celesti. – Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord. – E quell’altra, cosa segna? – Quella segna ci. Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima 60 lettera della parola COGNAC. Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest. La luna ha la gobba a ovest. Gobba a ponente, luna crescente. Gobba a levante, luna calante. – Papà, allora il COGNAC è calante? La ci ha la gobba a 65 levante! – Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla ditta Spaak. – E la luna che ditta l’ha messa? – La luna non l’ha messa una ditta. È un satellite, e c’è 70 sempre. – Se c’è sempre, perché cambia di gobba? – Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo. – Anche di COGNAC se ne vede solo un pezzo. – Perché c’è il tetto del palazzo Pierbernardi che è più alto. 75 – Più alto della luna? E così, ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marco­ valdo andavano a confondersi coi commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell’ansimare d’un mambo canticchiato, e la ragazza dell’abbaino scompariva in 80 quell’anello abbagliante e freddo, nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di mandarle sulla punta delle dita, e Filippetto e Michelino coi pugni davanti al viso giocavano al mitraglia­

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Il dialogo evidenzia lo scarto culturale tra le generazioni: Marcovaldo, nato in campagna, non può insegnare nulla ai figli cresciuti in un contesto del tutto diverso. Di qui una serie di comici fraintendimenti da parte dei figli che non distinguono tra il mondo naturale e quello artificiale.


mento aereo, – Ta-ta-ta-tà... – contro la scritta luminosa, che dopo i venti secondi si spegneva. – Ta-ta-tà... Hai visto, papà, che l’ho spenta con una sola raffica? – disse Filippetto, ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si riempivano di sonno. 90 – Magari! – scappò detto al padre, – andasse in pezzi! Vi farei vedere il Leone, i Gemelli... – Il Leone! – Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspet­ ta! – Gli era venuta un’idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una 95 sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il GNAC. Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tet­ to di fronte, sulle lamiere della gronda, il tintinnio dei vetri d’una finestra colpita, il gong d’un sassolino picchiato giù sulla scodella d’un fanale, una voce in strada: – Piovono 100 pietre! Ehi lassù! Mascalzone! – Ma la scritta luminosa pro­ prio sul momento del tiro s’era spenta per la fine dei suoi venti secondi. E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono 105 ventuno ventidue nel timore d’aver contato troppo in fret­ ta, ma no, nulla, il GNAC non si riaccendeva, restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la vite alla pergola. – Aaah! – gridarono tutti e la cappa del cielo s’alzò infini­ 110 tamente stellata su di loro. Marcovaldo, interrotto a mano alzata nello scapaccione che voleva dare a Michelino, si sentì come proiettato nello spa­ zio. Il buio che ora regnava all’altezza dei tetti faceva come una barriera oscura che escludeva laggiù il mondo dove 115 continuavano a vorticare geroglifici gialli e verdi e rossi, e ammiccanti occhi di semafori, e il luminoso navigare dei tram vuoti, e le auto invisibili che spingono davanti a sé il cono di luce dei fanali. Da questo mondo non saliva lassù che una diffusa fosforescenza, vaga come un fumo. E ad 120 alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospet­ tiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove, sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittire della sua trama, come una breccia, apriva verso Venere, per farla 125 risaltare sola sopra la cornice della terra, con la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto. Sospesa in questo cielo, la luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di mezzaluna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un 130 sole perduto dalla terra, ma che pur conserva – come può 85

È il punto di svolta del racconto: il gesto di Michelino, il più deciso dei figli di Marcovaldo, curioso di vedere la costellazione del Leone promessa dal padre, interrompe l’alternanza fra il tempo naturale e quello artificiale della pubblicità.

La pausa descrittiva fa percepire la mansarda come uno spazio del tutto isolato dal sottostante mondo cittadino, immersa in un incanto che sembra riportarla ai tempi remoti in cui la natura era il solo sfondo della vita dell’uomo. Il narratore adotta qui il punto di vista dell’estasiato e quasi rapito Marcovaldo: quali espressioni lo rivelano?

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vedersi solo in certe notti di prima estate – il suo caldo colore. E Marcovaldo a guardare quella stretta riva di luna tagliata là tra ombra e luce, provava una nostalgia come di raggiungere una spiaggia rimasta miracolosamente so­ 135 leggiata nella notte. Così restavano affacciati alla mansarda, i bambini spaven­ tati dalle smisurate conseguenze del loro gesto, Isolina rapita come in estasi, Fiordaligi che unico tra tutti scorgeva il fioco abbaino illuminato e finalmente il sorriso lunare 140 della ragazza. La mamma si riscosse: – Su, su, è notte, cosa fate affacciati? Vi prenderete un malanno, sotto questo chiaro di luna! Michelino puntò la fionda in alto. – E io spengo la luna! – Fu acciuffato e messo a letto. 145 Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo SPAAK-CO e dalla mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. Fiordaligi e la ragazza lunare si mandavano baci sulle dita, e forse parlandosi alla muta sarebbero riusciti a fissare un 150 appuntamento. Ma la mattina del secondo giorno, sul tetto, tra i castelli della scritta luminosa si stagliavano esili esili le figure di due elettricisti in tuta, che verificavano i tubi e i fili. Con l’aria dei vecchi che prevedono il tempo che farà, Marco­ 155 valdo mise il naso fuori e disse: – Stanotte sarà di nuovo una notte di GNAC. Qualcuno bussava alla mansarda. Aprirono. Era un signore con gli occhiali. – Scusino, potrei dare un’occhiata dalla loro finestra? Grazie, – e si presentò: – Dottor Godifredo, 160 agente di pubblicità luminosa. «Siamo rovinati! Ci vogliono far pagare i danni! – pensò Marcovaldo e già si mangiava i figli con gli occhi, dimen­ tico dei suoi rapimenti astronomici. – Ora guarda alla fine­ stra e capisce che i sassi non posson essere stati tirati che 165 di qua». Tentò di mettere le mani avanti: – Sa, son ragazzi, tirano così, ai passeri, pietruzze, non so come mai è andata a guastarsi quella scritta della Spaak. Ma li ho castigati, eh, se li ho castigati! E può star sicuro che non si ripeterà più. Il dottor Godifredo fece una faccia attenta. – Veramente, io 170 lavoro per la «COGNAC Tomawak», non per la «Spaak». Ero venuto per studiare la possibilità di una réclame luminosa su questo tetto. Ma mi dica, mi dica lo stesso, m’interessa. Fu così che Marcovaldo, mezz’ora dopo, concludeva un contratto con la «COGNAC Tomawak», la principale con­ 175 corrente della «Spaak». I bambini dovevano tirare con la fionda contro il GNAC ogni volta che la scritta veniva riattivata.

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Nei racconti di Marcovaldo l’incanto della natura non dura mai a lungo: anche qui è ben presto spezzato dall’affacciarsi di situazioni e personaggi della vita urbana, come gli elettricisti e, poi, l’agente pubblicitario.

È un momento di suspense: Marcovaldo, cronicamente senza denaro, teme di dover rifondere i danni; ma inaspettatamente riporta un’apparente vittoria: un contratto perché i bambini rinnovino l’attacco alla scritta luminosa.


– Dovrebb’essere la goccia che fa traboccare il vaso, – disse il dottor Godifredo. Non si sbagliava: già sull’orlo 180 della bancarotta per le forti spese di pubblicità sostenute, la «Spaak» vide i continui guasti alla sua più bella réclame luminosa come un cattivo auspicio. La scritta che ora dice­ va COGAC ora CONAC ora CONC diffondeva tra i creditori l’idea d’un dissesto; a un certo punto l’agenzia pubblici­ 185 taria si rifiutò di fare altre riparazioni se non le venivano pagati gli arretrati; la scritta spenta fece crescere l’allarme tra i creditori; la «Spaak» fallì. Nel cielo di Marcovaldo la luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore. 190 Era l’ultimo quarto, quando gli elettricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte, a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva COGNAC TOMAWAK, e non c’erano più luna né firma­ mento né cielo né notte, soltanto COGNAC TOMAWAK, 195 COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK che s’accen­ deva e si spegneva ogni due secondi. Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l’abbaino della ragazza lu­ nare era sparito dietro a un’enorme, impenetrabile vu doppia.

Con ironia, lo scrittore stigmatizza il clima competitivo e cinico della società del boom economico, in cui la concorrenza è senza esclusione di colpi.

La conclusione mostra come il mondo tecnologico-pubblicitario cancelli progressivamente quello naturale: a una fase in cui era ancora presente l’alternanza tra la natura (il cielo stellato), e l’industria pubblicizzata, subentra la predominanza incontrastata della seconda, poiché il ritmo dieci volte più rapido dell’intermittenza luminosa impedisce del tutto di scorgere il cielo. Con la luna resa invisibile si vanifica anche ogni possibilità di romantico idillio, come prova la sparizione della sconosciuta ragazza dell’abbaino, coperta dall’enorme W della nuova mastodontica scritta pubblicitaria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Individua e assegna un titolo alle sequenze del racconto. COMPRENSIONE 2. Chi, nella conclusione, è più colpito dalla nuova scritta pubblicitaria e perché? ANALISI 3. A che cosa è finalizzata la ripetizione della scritta cognac tomawak? LESSICO 4. Nel racconto si alternano due campi semantici: quello della bellezza naturale del cielo e quello della dimensione cittadina tecnologica. Individuane i termini più significativi.

Interpretare

SCRITTURA 5. In un testo di max 10 righe, spiega in che senso nel racconto si contrappongono il tempo naturale e quello meccanizzato e chiarisci gli effetti di questa contrapposizione sulla contemplazione della volta stellata.

La giornata di uno scrutatore e la crisi del rapporto tra ideologia e letteratura Uno spartiacque Il romanzo breve La giornata di uno scrutatore, pubblicato nel 1963, segna uno spartiacque nella produzione letteraria di Calvino. L’importanza del libro sta nelle riflessioni, che andando oltre la trama romanzesca, affrontano domande di natura esistenziale, politica, filosofica, religiosa. La trama Durante le elezioni del 1953, un intellettuale, Amerigo Ormea, aderente al Partito comunista, si fa designare come scrutatore presso il Cottolengo di

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Torino (istituto religioso di carità per malati con gravissimi handicap) per controllare la correttezza delle operazioni di voto; lo “scrutatore” Amerigo svolge il suo compito politico, ma l’”intellettuale” Amerigo esce dall’esperienza profondamente cambiato. L’occasione compositiva Il racconto nasce da una situazione autobiografica: nel 1953 Calvino, candidato alle elezioni per il Partito comunista, aveva ispezionato i seggi torinesi, recandosi anche al Cottolengo. Le elezioni si erano svolte in un clima particolarmente teso perché la Democrazia cristiana, partito allora di governo, aveva fatto passare una legge elettorale maggioritaria, molto contestata e nota come “legge truffa” (per cui la coalizione che avesse superato il 50% dei voti avrebbe ottenuto un cospicuo premio di maggioranza). Il clima conflittuale si era avvertito nello stesso Cottolengo, dove Calvino aveva assistito a una discussione tra scrutatori democristiani e comunisti sulla legittimità di ammettere al voto i malati più gravi, non in grado di esercitare una scelta elettorale consapevole. Molto colpito, lo scrittore aveva pensato di trarne un racconto, decidendo però di rimandarne la scrittura fino a quando avesse davvero fatto lo scrutatore nell’istituto torinese, il che avvenne nel 1961. Quelle giornate lasciarono un segno profondo su Calvino, che ricorda: «Dirò soltanto che lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare». La crisi dell’intellettuale storicista Il senso di tale percorso interiore traspare già nel nome scelto per il protagonista del racconto: Amerigo, come Vespucci, il navigatore che aveva compreso come l’America fosse un nuovo continente; cioè, l’altra faccia di Italo, la parte di sé fino allora ignota. Ma anche il termine scrutatore nasconde una complessità di significati: termine tecnico della pratica politica elettorale, nel racconto di Calvino estende il suo ambito semantico al campo dell’indagine sull’uomo e sull’universo, sul cui scopo e senso il protagonista prende a speculare, a indagare. L’esperienza del protagonista – che si fa viaggio interiore, quasi una discesa agli inferi per il contatto con un’umanità così degradata e dolente – ne mette in discussione la visione del mondo, fondata sulla fiducia nell’azione umana sulla storia. Il riconoscimento dei limiti della ragione In La giornata di uno scrutatore la ragione esplora i propri limiti, scoprendosi impari rispetto alla natura, incapace di guarirne l’imperfezione. Messo alla prova dal contatto con handicap e sofferenze, il protagonista giunge a porre in discussione la sua stessa idea di uomo, nata dall’Umanesimo e dall’Illuminismo, un uomo razionale e artefice del proprio destino, ma tale definizione non può reggere di fronte alle creature del Cottolengo. Che cosa definisce allora l’uomo? La giornata di uno scrutatore Non la ragione, come Amerigo avrebbe risposto prima, ma forse (come GENERE romanzo breve all’Istituto gli ha insegnato la vista di un padre contadino venuto per fare compagnia al proprio figlio minorato DATA DI 1963 a cui schiaccia amorevolmente il guPUBBLICAZIONE scio delle mandorle per porgergliele) è l’amore, con cui il padre accoglie il crisi dell’intellettuale di fronte ai figlio come persona umana, con ciò TEMI limiti della ragione rendendolo tale.

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Collabora all’analisi

T7

Italo Calvino

La crisi dell’intellettuale progressista La giornata di uno scrutatore, cap. IX

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1992

Come scrutatore, designato a verificare la regolarità delle operazioni elettorali, Amerigo contesta il voto di un malato manifestamente incapace di intendere e di volere, accompagnato alla cabina elettorale da un prete per guadagnare un voto in più per la Democrazia cristiana. La risposta del prete è spiazzante: con il voto l’invalido avrebbe espresso la propria gratitudine per l’Istituto e per Dio. Il protagonista, con il pretesto di fumare, esce dal seggio e si lascia andare a tormentose riflessioni.

«Gratitudine a Dio». Gratitudine per le sventure? Amerigo cercava di farsi passare il nervoso riflettendo (la teologia gli era poco familiare) a Voltaire1, Leopardi (la pole­ mica contro la bontà della natura e della provvidenza), poi – naturalmente – Kier­ kegaard2, Kafka (il riconoscimento d’un dio imperscrutabile agli uomini, terribile). 5 Le elezioni, qui, a non starci attenti, diventavano una specie di atto religioso. Per la massa dei votanti, ma anche per lui: l’attenzione dello scrutatore ai possibili brogli finiva per esser catturata da un broglio metafisico. Visti da qui, dal fondo di questa condizione, la politica, il progresso, la storia, forse non erano nemmeno concepibili (siamo in India), ogni sforzo umano per modificare 10 ciò che è dato, ogni tentativo di non accettare la sorte che tocca nascendo, erano assurdi. (È l’India, è l’India, pensava, con la soddisfazione d’aver trovato la chiave, ma anche il sospetto di star rimuginando dei luoghi comuni). Quest’accolta di gente menomata non poteva esser chiamata in causa, nella politi­ 15 ca, che per testimoniare contro l’ambizione delle forze umane. Questo voleva dire il prete: qui ogni forma del fare (anche il votare alle elezioni) si modellava sulla preghiera, ogni opera che si compiva qui (il lavoro di quella piccola officina, la scuola di quell’aula, le cure di quell’ospedale), aveva solo il significato di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia (Amerigo 20 azzardava definizioni) l’accettare la pochezza umana, il rimettere la propria nega­ tività nel conto d’una totalità in cui tutte le perdite s’annullano, il consentire a un fine sconosciuto che solo potrebbe giustificare le sventure. Certo, una volta ammesso che quando si dice «uomo» s’intende l’uomo del «Cotto­ lengo» e non l’uomo dotato di tutte le sue facoltà (ad Amerigo adesso, suo malgrado, 25 le immagini che venivano in mente erano quelle statuarie, forzute, prometeiche, di certe vecchie tessere di partito), l’atteggiamento più pratico diventava l’atteggiamen­ to religioso, cioè lo stabilire un rapporto tra la propria menomazione e un’universale armonia e completezza (significava questo, riconoscere Dio in un uomo inchiodato a una croce?). 30 Dunque progresso, libertà, giustizia erano soltanto idee dei sani (o di chi potrebbe – in altre condizioni – essere sano) cioè idee di privilegiati, cioè idee non universali? Già il confine tra gli uomini del «Cottolengo» e i sani era incerto: cos’abbiamo noi 1 Voltaire: l’opera dell’illuminista francese legata alla riflessione del protagonista è il Poema sul disastro di Lisbona (1756), in cui lo scrittore prende spunto dal terribile terremoto avvenuto in Portogallo l’anno prima per mettere in discussione l’idea della Prov-

videnza divina ed esaminare il senso della presenza del dolore e del male nel mondo. 2 Kierkegaard: il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) è considerato il precursore dell’esistenzialismo.

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più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capa­ cità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri... poca cosa, rispetto al 35 molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere... poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia... Nel mondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe diventare, o già essere, «Cottolengo») Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali (la morale porta ad agire; ma se l’azione è inutile?) o estetiche (tutte le immagini 40 dell’uomo sono vecchie, pensava camminando tra quelle madonnette di gesso, quei santini; non a caso già i pittori coetanei d’Amerigo a uno a uno s’erano risolti all’a­ strattismo). Costretto per un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa quella che vien detta la miseria della natura («E ancora grazie che non mi han fatto vedere che i più in gamba...») sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità del tutto. 45 Era questa, che chiamano una «crisi religiosa»? «Ecco, uno esce un momento a fumare una sigaretta, – pensò, – e gli prende una crisi religiosa». Però, qualcosa in lui faceva resistenza. Cioè: non in lui, nel suo modo di pensare, ma lì intorno, proprio nelle stesse cose e persone del «Cottolengo». Ragazze con le 50 trecce s’affrettavano con ceste di lenzuola (verso – Amerigo pensò – qualche segreta corsia di paralitici o di mostri); camminavano gli idioti in squadre, comandati da uno che pareva appena meno idiota degli altri (queste famose «famiglie» – si chiese con improvviso interesse sociologico – come sono organizzate?); un angolo del cortile era ingombro di calce e sabbia e impalcature perché sopraelevavano un padiglione 55 (come si amministrano i lasciti? quanta parte va alle spese, agli ampliamenti, agli aumenti del capitale?). Della inutilità del fare, il «Cottolengo» era la prova e insieme la smentita. Lo storicista, in Amerigo, riprendeva fiato: tutto è storia, il «Cottolengo», queste monache che vanno a cambiare le lenzuola. (Storia magari rimasta ferma in un 60 punto del suo corso, incagliata, stravolta contro se stessa). Anche questo mondo dei minorati poteva diventare diverso, e lo sarebbe certo diven­ tato, in una società diversa. (Amerigo aveva in mente solo immagini vaghe: istituti di cura luminosi, ultramoderni, sistemi pedagogici modello, ricordi di fotografie su giornali, un’aria fin troppo pulita, vagamente svizzera...). 65 La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, 70 – anche se il mondo è il “Cottolengo”, è nel giusto». E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco».

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il passo ha dei risvolti autobiografici: Calvino ammise che la crisi del protagonista era anche la sua. La pretesa del prete di considerare il voto per la Democrazia cristiana come un atto di gratitudine a Dio si scontra con l’ottica di Amerigo, intellettuale laico e progressista, per cui la scelta elettorale è un fondamentale strumento di partecipazione democratica del cittadino consapevole. Ma ora Amerigo non riesce più a scacciare dalla sua mente l’immagine dell’umanità del Cottolengo, abissalmente lontana dalla coscienza ed estranea alla vita civile.

1034 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Come intellettuale laico e materialista, non può condividere la visione religiosa del prete, ma ne riconosce la coerenza: agli esseri deformi e malati psichici, reclusi a vita nel Cottolengo, non servono a nulla i diritti del patto sociale illuministico; per loro ha più senso riconoscere la propria misera condizione e affidarsi a Dio, fiduciosi che le proprie sofferenze facciano parte di un piano divino provvidenziale. Se la fede, come si è detto, resta sempre estranea ad Amerigo (come a Calvino), il riconoscimento della fragilità umana, che il Cottolengo gli ha impietosamente mostrato (ma che riguarda anche i “normali”), mette in crisi il protagonista, inducendolo al pessimismo: egli comincia a dubitare della possibilità per l’uomo di correggere le imperfezioni della natura, di progredire, di farsi artefice del proprio destino; ideali in cui fino allora aveva fermamente creduto. 1. Schematizza i passaggi del ragionamento di Amerigo. 2. Inizialmente come reagisce il protagonista all’idea di un Dio buono e giusto, a cui essere grati? 3. Perché i ricoverati del Cottolengo mettono in crisi la fiducia di Amerigo nella politica? 4. Perché l’idea di Dio, secondo Amerigo, è l’unica che potrebbe confortare gli infelici del Cottolengo? 5. Che cosa significa che progresso, libertà, giustizia, come Amerigo scopre con costernazione, non sarebbero idee universali? 6. La ripetizione della parola chiave broglio rivela come la riflessione di Amerigo si sia spostata dall’ambito politico a quello metafisico. Quale diverso significato può essere attribuito alla parola nelle due occorrenze nella frase? Quale duplice significato assume la parola scrutatore? Lo stato d’animo di Amerigo è rivelato da alcune immagini, che mettono in luce come le sue certezze si vadano sgretolando. Quando pensa all’uomo artefice del proprio destino gli vengono in mente, con un effetto grottesco, le raffigurazioni stereotipate dei forzuti eroi del lavoro delle tessere del Partito comunista; quando sogna istituti di cura razionali e moderni, le immagini sono vaghe e, nel lindore eccessivo, comunicano un senso di freddezza. 7. Che cosa significa il termine prometeiche riferito alle immagini dell’uomo? Chi era Prometeo? Il testo rende l’idea di una meditazione che non approda a punti fermi, ma mette in forse le passate certezze. Il rovello interiore è evidenziato dalla forma non lineare del discorso, continuamente spezzata da interrogativi, parentesi, puntini di sospensione. Più volte il protagonista mette in dubbio le sue stesse affermazioni e dà l’impressione di inoltrarsi in un terreno per lui ostico e sconosciuto. Le parentesi segnalano idee che improvvisamente si affacciano alla sua mente: ad esempio, l’accostamento del mondo fuori dalla storia del Cottolengo all’India, con le sue caste immutabili e il nirvana del buddhismo, ossia la negazione della visione del mondo illuministica. 8. Individua gli interrogativi. Quali, secondo te, restano senza risposta? 9. Osserva le molte parentesi del testo e prova a spiegare in quali occasioni ricorra tale stilema.

Interpretare

Nel testo sono numerosi i riferimenti filosofici e letterari. Ad esempio, quando Amerigo prende in considerazione l’idea di Dio, la visione degli esseri malati del Cottolengo gli ricorda gli autori che avevano contestato l’ipotesi di un Dio buono e provvidenziale: Voltaire e Leopardi. A Leopardi (di cui Amerigo, con l’espressione «la vanità del tutto», riecheggia la conclusione di A sé stesso: «e l’infinita vanità del tutto»), sembra soprattutto accostarsi la visione di Calvino in questo testo, che sottolinea l’imperfezione della natura e l’insufficienza della ragione e dell’azione umana in una sorta di “pessimismo cosmico”, di cui si vedranno le tracce anche nella produzione successiva dello scrittore. Calvino si differenzia, però, da Leopardi nel valore che nonostante tutto egli attribuisce all’azione, come sottolinea con una sorta di ossimoro («La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile»): un contrasto tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà che da questo momento caratterizzerà tutta l’opera calviniana. 10. Quale idea del rapporto fra natura e storia emerge nel testo? 11. Amerigo mette in relazione lo sviluppo dell’arte astratta con la difficoltà di raffigurare l’uomo moderno. Ti sembra un’ipotesi persuasiva? 12. Nel brano sono messe a confronto una concezione laica e una religiosa: individuane le differenze.

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4

Un nuovo Calvino: Le Cosmicomiche La svolta narrativa delle Cosmicomiche In sintonia con il clima culturale italiano di profondo rinnovamento degli anni Sessanta, Calvino inaugura una fase nuova della sua produzione, pubblicando nel 1965 le Cosmicomiche, che segnano il netto distacco dell’autore da una narrativa di carattere realistico. È un’opera decisamente originale, che sorprende e spiazza i lettori: prima di tutto per lo stretto rapporto con la scienza, dato che i dodici racconti che la compongono sono ispirati ad altrettante teorie cosmogoniche, cioè relative all’origine del cosmo. Le conoscenze scientifiche, precise e circostanziate, danno impulso alla fantasia, secondo l’idea, propria di Calvino, di un’immaginazione nutrita di razionalità e di suggestioni culturali. Nella fattispecie Calvino affronta la sfida di ricavare da un arido enunciato scientifico, quasi per germinazione spontanea, uno spunto fantastico paragonabile a quello degli antichi miti sull’origine dell’universo. Un singolare narratore Ogni racconto è aperto dall’enunciazione della teoria che lo ispira: in seguito prende la parola il narratore e si tratta di un narratore assolutamente anomalo, Qfwfq: un essere immaginario, capace di assumere varie forme, presente fin dall’origine dell’universo e testimone della sua evoluzione; il nome Qfwfq (perfettamente speculare se si divide in due il vi doppio) ne suggerisce il carattere di osservatore (come se fosse specchio degli eventi cosmici). Questo singolare narratore conferma l’esattezza delle teorie scientifiche con racconti ironici e buffi: di qui il titolo del libro, che allude al carattere appunto ironico (comico) dei racconti, in contrasto con la materia “sublime” (cosmica). L’effetto comico scaturisce dal contrasto tra il linguaggio astronomico e più in generale scientifico e le situazioni banali della vita quotidiana evocate nella narrazione. Quali le ragioni dell’accostamento di Calvino alla scienza? Calvino non si rivolge alla scienza per trovare certezze e verità oggettive, come dimostra il fatto che le invenzioni fantastiche delle Cosmicomiche possono anche essere derivate da teorie scientifiche concorrenti, come quelle cosmologiche del Big Bang e dello stato stazionario dell’universo, fonti di due racconti diversi. Inoltre, nonostante lo spunto per i racconti provenga dall’ambito scientifico, egli continua a rivolgere la sua attenzione al piano umano. Ne sono un esempio vari racconti “cosmicomici”: Tutto in un punto (➜ T8 ), ispirato al momento iniziale del cosmo, in cui l’autore immagina che la spinta alla grande esplosione, e quindi all’origine dell’universo, sia stato lo slancio d’amore generoso di un amabile personaggio femminile; Gli anni-luce, in cui la principale preoccupazione del protagonista Qfwfq – trasmettere agli altri una positiva immagine di sé – assume una valenza comica e straniata per il fatto che i giudizi provengono da stelle distanti diversi anni-luce: egli, perciò, può venirne a conoscenza solo dopo un immenso lasso di tempo, appunto calcolabile in anni (➜ T9 OL). Ciò che Calvino cerca soprattutto nella scienza è uno sguardo nuovo sulla realtà, «una carica propulsiva per uscire dalle abitudini dell’immaginazione». Gli immensi orizzonti spaziali e temporali dei racconti cosmicomici relativizzano, e quasi vanificano, il tempo umano della storia: come scrive C. Milanini, «Calvino intendeva

1036 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


realizzare una fantascienza alla rovescia, in cui guardare da lontano quel che viviamo, per abituarci a pensare che siamo soltanto una parte dell’universo». Le Cosmicomiche appaiono, così, lo sviluppo della crisi descritta nella Giornata di uno scrutatore, in cui l’autore aveva messo in discussione l’ottica antropocentrica e la fiducia nel progresso e nell’azione umana; ed è proprio per l’ottica antiantropocentrica che le Cosmicomiche, più che alla fantascienza, rimandano a modelli colti cari a Calvino: come, in particolare, le leopardiane Operette morali. Alle Cosmicomiche seguirà, nel 1967, la raccolta Ti con zero, sempre ispirata a teorie scientifiche, in cui compare nuovamente il personaggio di Qfwfq; nel 1984 entrambe, con qualche testo aggiunto e qualche esclusione, confluiranno nelle Cosmicomiche vecchie e nuove, in cui il materiale narrativo è distribuito in tre sezioni titolate.

Le cosmicomiche

T8

GENERE

raccolta di dodici racconti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1965

TEMI

interesse verso la scienza, grazie alla quale cercare un nuovo sguardo sul reale

Italo Calvino

EDUCAZIONE CIVICA

Tutto in un punto

nucleo Costituzione competenza 2 nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

Le Cosmicomiche, Tutto in un punto I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1992

Tutto in un punto, come gli altri racconti delle Cosmicomiche, si apre con l’enunciazione della teoria che lo ispira. Prende poi la parola il vecchio Qfwfq, per narrare una singolare storia sull’origine dell’universo.

Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble1 sulla velocità di allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell’universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio […] Si capisce che si stava tutti lì, – fece il vecchio Qfwfq, – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto «pigiati come acciughe» tanto per usare una immagine letteraria: in realtà 5 non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l’aspetto del carattere, perché quando non c’è spazio, aver sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante. 10 Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimati­ 1 Edwin P. Hubble: astrofisico statunitense (1889-1953).

Un nuovo Calvino: Le Cosmicomiche 4 1037


vamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall’altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva 15 neppure buongiorno o buonasera. Ognuno finiva per aver rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti. Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)Nko, il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z’zu, e il signor Pbert Pberd che ho già nominato. C’era anche una donna delle pulizie – «addetta alla manutenzione», veniva chiamata – una sola per 20 tutto l’universo, dato l’ambiente così piccolo. A dire il vero, non aveva niente da fare tutto il giorno, nemmeno spolverare – dentro un punto non può entrarci neanche un granello di polvere –, e si sfogava in continui pettegolezzi e piagnistei. Già con questi che vi ho detto si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammucchiata: tutto il materiale che sarebbe poi servito a 25 formare l’universo, smontato e concentrato in maniera che non riuscivi a riconoscere quel che in seguito sarebbe andato a far parte dell’astronomia (come la nebulosa d’Andromeda2) da quel che era destinato alla geografia (per esempio i Vosgi3) o alla chimica (come certi isotopi4 del berillio5). In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z’zu, brande, materassi, ceste; questi Z’zu, se non si stava attenti, con 30 la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria. Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z’zu, a cominciare da quella defi­ nizione di «immigrati», basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, 35 loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare, ma c’era chi sosteneva che il concetto di «immigrato» poteva esser inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa 40 dell’ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s’incontrano – alla fermata d’un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti –, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo – alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno –, e subito prendiamo a domandarci 45 dell’uno e dell’altro (anche se ognuno ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con le beghe6 di un tempo, le malignità, le denigrazioni. Finché non si nomina la signora Ph(i)Nko – tutti i discorsi vanno sempre a finir lì –, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la sola che nessuno di 50 noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nko, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro. Sia ben chiaro, a me la teoria che l’universo, dopo aver raggiunto un estremo di rare­ 2 nebulosa di Andromeda: grande galassia a spirale. 3 Vosgi: catena montuosa della Francia orientale.

4 isotopi: atomi che hanno numero atomico uguale e occupano dunque il medesimo posto nel sistema periodico degli elementi, ma massa atomica differente.

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5 berillio: elemento chimico che appartiene al gruppo dei metalli leggeri. 6 beghe: liti.


fazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffè qui all’angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd. – Che fa di bello? Come mai da queste parti? – Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal quale, col suo dente d’argento, e le bretelle a fiori. Quando si 60 tornerà là, – mi dice, sottovoce, – la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori... Ci siamo capiti: quegli Z’zu... Avrei voluto rispondergli che questo discorso l’ho sentito già fare a più d’uno di noi, che aggiungeva: «ci siamo capiti... il signor Pbert Pberd...» Per non lasciarmi portare su questa china, m’affrettai a dire: – E la signora Ph(i)Nko, 65 crede che la ritroveremo? – Ah, sì... Lei sì – fece lui, imporporandosi. Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci an­ cora insieme alla signora Ph(i)Nko. (È così anche per me che non ci credo). E in quel caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche 70 l’antipatia del signor Pbert Pberd sbiadiva, davanti a quel ricordo. Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto col suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c’è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di con­ 75 seguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un’altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. La donna delle puli­ zie era sempre lei a dare la stura7 alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z’zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. 80 Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più? E tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri. E 85 per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente. Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: – Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo 90 allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e in­ dietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il 95 grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener 100 sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del 55

7 dare la stura: dare l’avvio.

Un nuovo Calvino: Le Cosmicomiche 4 1039


8 gravitazione universale: legge fisica formulata da Newton nel 1687.

pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: – ...le tagliatelle, ve’, ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggera di distanze d’anni–luce e secoli–luce e miliardi di millenni–luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo 105 (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d’uno slancio generoso, il primo, «Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!», un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione 110 universale8, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko, sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel mo­ mento perduta, e noi a rimpiangerla.

Analisi del testo Un’originale cosmogonia Dopo aver enunciato la teoria scientifica alla quale è ispirato il racconto, Calvino, in chiave buffa, presenta la teoria del big bang, facendo risalire l’origine dell’universo al gesto generoso d’amore della signora Ph(i)Nko. Grazie al procedimento dell’ironia e dello straniamento, l’autore crea un contrasto tra il linguaggio scientifico e la banalità delle situazioni della quotidianità, generando un effetto comico che diventa dirompente nel finale.

La signora Ph(i)Nko

Originale appare la figura femminile della signora Ph(i)Nko, una donna florida, materna e generosa che, quando l’universo si concentra tutto in un punto, offre bontà e amore contro ogni pregiudizio ed è in grado di farsi amare senza far nascere invidie o pettegolezzi. Ed è proprio grazie a un suo desiderio disinteressato, fare le tagliatelle per tutti, che saranno generati spazio e tempo.

Lo stile Lo stile con il quale viene presentata la paradossale vicenda è lineare e scorrevole, nonostante la presenza di numerosi tecnicismi appartenenti al lessico matematico e astrofisico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del racconto in massimo 5 righe. COMPRENSIONE 2. Come può essere interpretata l’uscita di scena della signora Ph(i)Nko? 3. Come è avvenuta la creazione dell’universo, secondo il vecchio Qfwfq? ANALISI 4. Quale teoria non condivide il signor Qfwfq?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2 nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

STILE 5. La sintassi di questo racconto è complessa o lineare? Rispondi facendo puntuali riferimenti al testo. ESPOSIZIONE ORALE 6. Nel racconto, Calvino fa un riferimento al pregiudizio contro gli immigrati. In quale chiave viene presentato? Sono passati quasi sessant’anni dall’uscita delle Cosmicomiche: ti sembra che l’atteggiamento verso lo “straniero”, oggi, sia improntato all’accoglienza o al rifiuto?

online T9 Italo Calvino

La preoccupazione di dare una buona immagine di sé nell’universo Le cosmicomiche, Gli anni-luce

1040 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


5

La narrativa combinatoria e il metaromanzo Oltre il romanzo e oltre la storia A partire dalle Cosmicomiche, l’opera di Calvino è caratterizzata da un progressivo abbandono dell’interesse per la storia e per la società, ma anche da una attenuazione della tensione conoscitiva (certo in rapporto a un accentuarsi del pessimismo dell’autore), a favore di una narrativa finalizzata a rappresentare la natura e i meccanismi del narrare. Certamente questa nuova prospettiva è frutto dei nuovi interessi di Calvino dopo il suo trasferimento a Parigi, avvenuto nel 1967. Fondamentale è l’incontro con discipline come lo strutturalismo, la semiotica e la narratologia, che avevano grande successo nella capitale francese, e la frequentazione del gruppo dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle) che faceva capo a Raymond Queneau (del quale Calvino traduce Fiori blu) e che rifiutava l’idea che la letteratura potesse essere creazione libera, senza vincoli. In sintonia con il gruppo, ma per certi aspetti anticipandolo, Calvino matura l’idea di una narrativa nuova, ultrarazionalistica, che si fondi sulla logica combinatoria, secondo cui gli elementi dati possono essere combinati in modo pressoché illimitato in un esercizio a suo modo virtuosistico. La rinuncia al romanzo tradizionale La svolta narrativa di Calvino, a partire dalla metà degli anni Sessanta, comporta di fatto una rinuncia al romanzo tradizionale, sia a livello strutturale sia per il modo di trattare personaggi e situazioni. Non si tratta di una sua scelta esclusiva, ma di una più generale tendenza della letteratura italiana del periodo, quando molti autori – e in particolare quelli legati alla Neoavanguardia – giudicano il romanzo un genere superato nella società di massa. Un’altra caratteristica dell’ultimo Calvino è la dimensione metanarrativa, cioè lo spazio e la rilevanza riservati nei suoi scritti alla riflessione sulle modalità della scrittura e sulle scelte narrative, un aspetto presente in particolare in Se una notte d’inverno un viaggiatore.

René Magritte, I valori personali, 1952.

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

5 1041


Il castello dei destini incrociati online

Per approfondire Calvino e l’Oulipo

online

Video e Audio Calvino e il suo legame con Parigi e la cultura francese

Un’opera sperimentale Il castello dei destini incrociati, pubblicato in una prima edizione nel 1969, è il primo, ardito, esperimento di una narrativa combinatoria. Un esperimento che risente delle teorie dell’etnologo russo Vladimir Propp (1895-1970) che, nella Morfologia della fiaba (pubblicata in Italia nel 1966), aveva mostrato come dietro alla multiforme varietà delle fiabe fosse possibile individuare alcune ricorrenti funzioni narrative, dalla cui combinazione potevano essere ricavate molteplici storie. Calvino era anche rimasto colpito da un seminario sulle strutture del racconto tenuto a Urbino nel 1968 dal semiologo Paolo Fabbri. La cornice del romanzo ha uno sfondo fiabesco: rappresenta un castello, i cui ospiti per magia diventano muti, cosicché ciascuno di essi può narrare la propria storia solo disponendo sul tavolo intorno a cui sono seduti le carte dei tarocchi (carte da gioco) che i castellani hanno messo a loro disposizione. Le carte, come in una sorta di cruciverba, vengono disposte in serie verticali e orizzontali che si intersecano. Alcune di esse possono appartenere a più serie e peraltro ogni immagine può essere interpretata in più modi. Il “sistema” dei tarocchi diventa quindi emblema dei “possibili” narrativi che in questa fase a Calvino interessa esplorare e che mette in primo piano non l’autore ma il lettore, a cui è delegato il compito di decifrare i significati e i percorsi narrativi. Il Castello si chiude su due narrazioni che rimandano all’amato Ariosto, seppur rivisitato: Storia di Orlando pazzo per amore e Storia di Astolfo sulla Luna. Il castello dei destini incrociati è ispirato dagli splendidi tarocchi miniati nel Quattrocento per i Visconti, le cui immagini costituiscono la fonte della narrazione, che dunque germina da esse. La prima edizione del libro, a tiratura limitata, opera di un raffinato editore, Franco Maria Ricci, è del 1969 ed è corredata dalle riproduzioni in piccolo dei tarocchi viscontei collegati alla narrazione. In seguito, Calvino compose un altro testo, La taverna dei destini incrociati, utilizzando le più popolari carte dei tarocchi di Marsiglia realizzate nel Settecento. Entrambe le narrazioni furono poi raccolte in un unico volume nel 1973.

Il castello dei destini incrociati GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1969

TEMI

• bisogno di raccontare attraverso la narrativa combinatoria • centralità del lettore rispetto al narratore • sistema dei tarocchi come ossatura della narrazione

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Italo Calvino

T10

Storia di Astolfo sulla Luna Il castello dei destini incrociati

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1991

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Gli ospiti del castello, diventati per magia muti, trovano un sistema di comunicazione alternativo: per narrare le proprie storie, dispongono le carte dei tarocchi sul tavolo- in orizzontale e in verticale- dando vita a innumerevoli combinazioni. Nel passo proposto, viene ripreso il personaggio ariostesco di Astolfo, il paladino di Carlo Magno incaricato di recarsi sulla luna a recuperare il senno di Orlando.

Sul senno di Orlando1 mi sarebbe piaciuto raccogliere altre testimonianze, soprattut­ to da colui che del recupero s’era fatto un dovere, una prova per il suo ardire inge­ gnoso. Avrei voluto che fosse lì con noi, Astolfo. Tra i commensali che ancora non avevano raccontato nulla c’era un tipo leggero come un fantino o un folletto, che 5 ogni tanto saltava su in guizzi e in trilli come se il mutismo suo e nostro fosse per lui un’occasione di divertimento senza pari. Osservandolo m’accorsi che poteva ben essere lui, il cavaliere inglese, e lo invitai esplicitamente a raccontare porgendogli la figura del mazzo che più mi pareva somigliargli: l’ilare impennata del Cavaliere di Bastoni. Quel tipetto sorridente avanzò una mano, ma invece di prendere la carta 10 la fece volare con uno scatto dell’indice sul pollice. Ondeggiò come una foglia al vento e si posò sul tavolo verso la base del quadrato. Ora non c’erano più finestre aperte nel centro del mosaico; e poche carte restavano fuori dal gioco. Il cavaliere inglese prese un Asso di Spade, (riconobbi la Durlindana2 d’Orlando ri­ masta inoperosa appesa a un albero…), l’avvicinò al punto in cui era L’Imperatore 15 (raffigurato con la barba bianca e la fiorita saggezza di Carlo Magno in trono…), come accingendosi a risalire con la sua storia una colonna verticale: Asso di Spade, Imperatore, Nove di Coppe… (Prolungandosi l’assenza d’Orlando dal Campo Franco, Astolfo fu chiamato da Re Carlo e invitato a sedere a banchetto con lui…) Poi veni­ vano Il Matto mezzo straccione e mezzo ignudo con le penne sul capo, e L’Amore 20 dio alato che dal piedestallo tortile3 dardeggia4 gli spasimanti. («Tu certo, Astolfo, sai che il principe dei nostri paladini, Orlando nostro nipote, ha perso il lume che distingue l’uomo e le bestie savie dalle bestie e dagli uomini matti, e adesso corre ossesso5 i boschi, e cosparso di penne d’uccelli risponde solo al pigolìo dei volatili come se altro linguaggio non intendesse. E manco male6 se 25 a ridurlo in questo stato fosse un malinteso zelo nelle penitenze cristiane, nella umiliazione di sé, macerazione del corpo e castigo all’orgoglio della mente, perché in tal caso il danno potrebbe in qualche modo essere bilanciato da un vantaggio spirituale, o comunque sarebbe un fatto di cui potremmo non dico vantarcene ma parlarne in giro senza vergogna, magari scrollando solo un po’ il capo, ma il guaio 30 è che alla pazzia lo ha spinto Eros, dio pagano, che più è represso più devasta…») La colonna continuava con Il Mondo, dove si vede una città fortificata con un cer­ chio intorno, – Parigi nella cerchia dei suoi baluardi, stretta da mesi nell’assedio 1 senno di Orlando: il passo si apre con un riferimento all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e in particolare al canto XXXIV, nel quale il paladino Astolfo compie un viaggio sulla luna per recuperare il senno del cugino Orlando.

2 Durlindana: spada di Orlando, da lui abbandonata dopo essere impazzito, a causa della delusione d’amore per Angelica. 3 tortile: avvolto a spirale. 4 dardeggia: scaglia frecce.

5 corre ossesso: corre come un ossesso attraverso i boschi. Chi parla è Carlo Magno. 6 manco male: sarebbe ancora accettabile.

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

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saraceno, – e con La Torre, che rappresenta con verisimiglianza il precipitare dei cadaveri giù dagli spalti tra getti d’olio rovente e macchine d’assedio all’opera; e 35 così descriveva la situazione militare (forse con le stesse parole di Carlo Magno: «Il nemico preme ai piedi delle alture di Monte Martire e di Mon Parnasso7, apre brecce a Menilmontante e a Monteroglio, appicca incendi alla Porta Delfina e alla Porta dei Lillà…») cui non mancava che un’ultima carta, il Nove di Spade, per chiudersi su una nota di speranza, (così come il discorso dell’Imperatore non poteva avere altra 40 conclusione che questa: «Solo nostro nipote potrebbe guidarci in una sortita che tagli il cerchio di ferro e di fuoco… Va’, Astolfo, rintraccia il senno d’Orlando, dovunque si sia perduto, e riportalo: è la sola nostra salvezza! Corri! Vola!») Cosa doveva fare Astolfo? Aveva in mano ancora una buona carta: l’arcano detto L’Eremita, qui rappresentato come un vecchio gobbo con la clessidra in mano, un 45 indovino che rovescia il tempo irreversibile e prima del prima vede il dopo. È dunque a questo sapiente o magomerlino che Astolfo si rivolge per sapere dove ritrovare la ragione di Orlando. L’eremita leggeva lo scorrere dei grani di sabbia nella clessidra, e così noi ci accingevamo a leggere la seconda colonna della storia, che era quella im­ mediatamente a sinistra, dall’alto in basso: Il Giudizio, Dieci di Coppe, Carro, Luna… 50 «È in cielo che tu devi salire, Astolfo,» (l’arcano8 angelico del Giudizio indicava un’ascensione sovrumana), «su nei campi pallidi della Luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila,» (come nella carta di Coppe), «le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle 55 combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva9…» Per salire sulla Luna, (l’arcano Il Carro ce ne dava superflua ma poetica notizia), è convenzione ricorrere alle ibride razze dei cavalli alati o Pegasi o Ippogrifi10; le Fate li allevano nelle loro stalle dorate per aggiogarli a bighe e a trighe. Astolfo il suo Ippogrifo l’aveva e montò in sella. Prese il largo nel cielo. La Luna crescente 60 gli venne incontro. Planò. (Nel tarocco, La Luna era dipinta con più dolcezza di come le notti di mezza estate rustici attori la rappresentino nel dramma di Piramo e Tisbe11, ma con mezzi altret­ tanto semplici dall’allegoria…) Poi veniva La Ruota della Fortuna, giusto al punto in cui ci aspettavamo una descrizione più particolareggiata del mondo della Luna, 65 che ci lasciasse sbizzarrire nelle vecchie fantasie d’un mondo all’incontrario, dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre. Astolfo era salito a cercare la Ragione nel mondo del gratuito, Cavaliere del Gratuito 70 egli stesso. Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine 7 Monte Martire… Parnasso: Montmartre e Montparnasse, a Parigi. 8 arcano: ciascuna delle carte dei tarocchi. 9 le storie… si arriva: il passo di Calvino è mutuato su quello ariostesco nel quale, tuttavia, a essere sulla luna erano tutte le cose che gli uomini perdono sulla terra.

10 Pegasi o Ippogrifi: Pegaso, nella mitologia classica, è un cavallo alato; gli ippogrifi sono anch’essi cavalli alati, ma presentano la testa di uccello (dal greco ìppos, cavallo”, e gryps, “grifone”). 11 Piramo e Tisbe: secondo il mito (narrato da Ovidio nelle Metamorfosi), erano due fanciulli assiri innamorati l’uno

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dell’altra, ma divisi dall’odio delle loro famiglie. La loro storia si concluse tragicamente: Piramo, credendo che l’amata fosse stata aggredita da una leonessa, si uccise; quando Tisbe lo trovò morto decise, a sua volta di togliersi la vita.


di significato controverso ma che qui pure può intendersi – dal calamo che tiene in mano come se scrivesse – un poeta. 75 Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare12 nel suo ordito le rime delle ottave, le fila degli intrecci, le ragioni e sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, – o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, – ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata. 80 «No, la Luna è un deserto,» questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, «da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie 12 interpolare: intesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.» tercalare.

Analisi del testo Il modello ariostesco Calvino, nella sua inesauribile ricerca di nuovi modi per esplorare il mondo della scrittura, nel Castello dei destini incrociati ricorre all’arte combinatoria. In questo brano, la “combinazione” dei tarocchi porta a “riscrivere” il passo di Ariosto, nel quale Astolfo viene incaricato di compiere un viaggio sulla luna, per recuperare il senno di Orlando e farlo partecipare alla guerra, le cui sorti, senza di lui, sono sempre più incerte. A differenza del poema ariostesco, nel quale era l’apostolo Giovanni a indicare il percorso ad Astolfo, nell’opera di Calvino è l’Eremita, rappresentato come un vecchio gobbo con la clessidra in mano, a fungere da guida.

Un mondo all’incontrario La luna descritta da Calvino è presentata come un mondo all’incontrario, nel quale il filtro dell’immaginazione porta a credere che possa esistere un regno “dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre”.

Il Bagatto Il primo personaggio che incontra Astolfo è il Bagatto, un poeta intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave, le fila degli intrecci, le ragioni e sragioni. A quest’ultimo il paladino, a conclusione del passo, domanda se la luna sia un mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata. Il poeta, vero signore della luna, risponde in modo inequivocabile che la luna è un deserto, una sfera arida dalla quale partono e poi ritornano ogni discorso e ogni poema. Se nel poema ariostesco la luna era il luogo dove si riunivano tutte le cose perdute e dimenticate dagli uomini, in Calvino è il luogo dove coesistono le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni e il mondo del gratuito.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del passo. COMPRENSIONE 2. Spiega il motivo per cui la luna può essere interpretata come un mondo all’incontrario. ANALISI 3. Chi è il primo abitante che Astolfo incontra sulla luna? Qual è la sua risposta alle domande del paladino? 4. Perché la follia di Orlando è una vera e propria umiliazione? In quale caso avrebbe potuto essere accettabile?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 5. La passione d’amore induce Orlando a perdere il controllo di sé stesso, fino a perdere la ragione. Ti è mai capitato di soffrire per una delusione amorosa? Credi che l’amore offuschi sempre la razionalità?

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

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Se una notte d’inverno un viaggiatore: un romanzo sui romanzi

PER APPROFONDIRE

L’esperienza metanarrativa Al filone metanarrativo di Calvino appartiene Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), definito dall’autore «un romanzo sul piacere di leggere romanzi». Il titolo incompleto, volutamente lasciato in sospeso, anticipa la struttura narrativa del libro, costituito da un capitolo iniziale, uno conclusivo e da dieci inizi di altrettanti romanzi, nessuno dei quali, per le più varie ragioni, viene terminato. Gli spezzoni narrativi rimandano a diverse tipologie per genere e per ambientazione (dal giallo al romanzo d’avventura, ecc.), accomunati dal tema di una “trappola” tesa da misteriosi nemici. Nel loro insieme i dieci incipit vogliono rappresentare un campione dell’intera letteratura romanzesca, così come la loro interruzione simboleggia l’impossibilità di scrivere romanzi di senso compiuto nella società moderna. Un tema attuale in anni in cui la critica dibatteva sulla presunta “morte del romanzo”, in quanto genere inadeguato al presente. Nella “cornice” compaiono un Lettore e una Lettrice (di nome Ludmilla) che si trovano sempre alle prese con volumi incompleti e difettosi di cui invano cercano il seguito, incorrendo in svariate avventure che, per un motivo o per un altro, li conducono in ambienti attinenti al mondo dei libri: librerie, università, ecc. Di qui nascono riflessioni sulla lettura, i lettori, i diversi luoghi e modi in cui si può leggere. Il fatto che il lettore divenga addirittura protagonista del romanzo e che esso si apra con le parole e i consigli che l’autore rivolge a chi si appresta a leggere la sua opera ha a che fare con la valorizzazione del ruolo del lettore che in quegli anni veniva fatta dagli studi narratologici: un lettore visto come co-produttore di senso nel testo letterario (si pensi, ad esempio, ai lavori di Jauss o Iser; ma significativo è anche un saggio di Umberto Eco dello stesso 1979, dall’evocativo titolo di Lector in fabula). Mentre i romanzi iniziati di Se una notte di inverno un viaggiatore non trovano una conclusione, sarà la cornice a trovarla, ed è volutamente la più ingenua e banale e la meno plausibile che si possa immaginare, volta solo a soddisfare il piacere del lettore: il lieto fine con il matrimonio fra il Lettore e la Lettrice. Nell’ultimo brevissimo capitolo, con un gioco a scatole cinesi, il narratore può così presentare il Lettore sposato con la Lettrice, mentre conclude la lettura del romanzo di Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore. E la fine si ricongiunge con l’inizio del libro.

Calvino “postmoderno”? Di postmoderno si comincia a parlare in Nord America dagli anni Settanta, ma il decennio in cui tale tendenza ha maggiore fortuna in Italia è il successivo, gli anni Ottanta. Alla luce delle caratteristiche del postmoderno, si constata come Calvino fin dagli anni Sessanta si sia dimostrato sensibile nel cogliere precocemente il nuovo clima culturale. La prima e basilare tendenza del postmoderno è infatti l’«indebolimento delle pretese della ragione che revoca il senso della storia» (P. Rossi): una prospettiva che coincide con la svolta ideologica e letteraria di Calvino a partire dalla Giornata di uno scrutatore e dalle Cosmicomiche. Tra i libri di Calvino che più si avvicinano al nuovo clima culturale vi sono Se una notte d’inverno un viaggiatore, con un gusto della mescolanza di generi tipicamente postmoderno, e le Lezioni americane, definite da Ceserani «forse la migliore mappa descrittiva della società e della cultura postmoderne» perché

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all’approccio storico alla letteratura sostituiscono una visione fondata su legami reticolari di testi indifferentemente colti in tutto l’arco cronologico della civiltà occidentale. D’altra parte, Calvino si mantiene nel tempo fedele a una concezione razionalistica e illuministica della vita umana e del pensiero, in contrasto con il relativismo irrazionalistico postmoderno. Inoltre, se si passa a considerare l’aspetto stilistico caratterizzante il postmoderno, cioè la scelta ricorrente del pastiche e della mescolanza, si constata che Calvino, «scrittore dallo stile limpido, trasparente, concreto, sistematicamente alieno da slanci e tormenti espressionistici, sembra molto lontano da gran parte di quelle esperienze» (R. Ceserani). Testi di riferimento: P. Rossi, Storia della letteratura italiana, a c. di E. Malato, Salerno, Roma 2000, vol. IX; R. Ceserani, Il caso Calvino. Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997.


Se una notte di inverno un viaggiatore GENERE

Calvino stesso definisce l’opera come «romanzo sul piacere di leggere romanzi»

DATA DI PUBBLICAZIONE

1979

TITOLO

il titolo incompleto anticipa la struttura narrativa del libro, costituito da un capitolo iniziale e da dieci inizi di altrettanti romanzi

TEMI

• impossibilità di rendere la complessità del reale • valorizzazione del ruolo del lettore • interesse per la narrativa combinatoria e la metanarrazione

Le città invisibili: l’opera-mondo di Calvino Un libro fondamentale del Novecento In un suo celebre saggio del 1994 (Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine), Franco Moretti definisce «opere mondo» quelle caratterizzate dall’enciclopedismo, dall’allegoria polisemica (cioè non leggibile secondo un’unica chiave, ma aperta a più interpretazioni), dalla polifonia, per rappresentare il mondo nella sua complessità, nelle diverse articolazioni sociali, culturali, filosofiche che lo contraddistinguono. Le città invisibili (pubblicate nel 1972) sono un’“opera mondo” che aggrega «intorno a un simbolo-chiave (il simbolo «città») un gran numero di esperienze, pensieri, congetture» (Milanini). Così scrive lo stesso Calvino nelle Lezioni americane: «Il mio libro in cui credo d’aver detto più cose resta Le città invisibili, perché ho potuto concentrare

I Sette Palazzi Celesti, installazione di Anselm Kiefer, 2004 (Pirelli Hangar Bicocca, Milano)

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

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su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate». Da molti considerato il capolavoro di Calvino, Le città invisibili appaiono come una delle opere più importanti del Novecento per la ricchezza tematica, l’originalità della forma narrativa, il fascino surreale e visionario, il carattere di summa della cultura contemporanea, estesa ai più diversi ambiti disciplinari: dall’architettura all’urbanistica, alla sociologia contemporanea. Le immagini delle città come pagine di un diario culturale La ricchezza di temi delle Città invisibili deriva anche dal fatto che esse nascono come una sorta di diario culturale dell’autore. Calvino spiega infatti di averle scritte un pezzo per volta, seguendo l’ispirazione e gli interessi del momento: «Era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli amici». Il titolo Il titolo, polisemico, offre chiavi di lettura per il libro: le città sono invisibili perché immaginate dall’autore, che trasfigura la realtà in modo fantasioso. Non solo: anche le città realmente esistenti hanno una forma invisibile, fatta di relazioni, storia, conflitti di potere, timori e desideri, che ha conferito loro quell’aspetto e non un altro; cosicché senza conoscere la forma invisibile non si riesce a leggere quella visibile. Ma l’aggettivo sottolinea anche il rapporto delle Città invisibili con l’utopia (significativamente la capitale dello stato di Utopia immaginato da Tommaso Moro si chiamava Amauroto, ossia “impossibile da scorgere”). La struttura del libro Le città invisibili, come è tipico di Calvino, uniscono ricchezza fantastica e razionalità. Coniugano infatti la varietà immaginosa delle descrizioni delle città (che assumono connotazioni esotiche dai loro nomi di fantasia, tutti femminili), con la razionalità e il rigore della costruzione del libro, fondato su un preciso ordine numerico: le città sono in tutto 55, divise in 9 sezioni, la prima e l’ultima di 10, le altre sette di 5. La partizione delle sezioni è tuttavia a sua volta travalicata da un principio d’ordine diverso, poiché le città sono anche distinte dall’autore in 11 raggruppamenti tematici – Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, Le città sottili, Le città e gli scambi, Le città e gli occhi, Le città e il nome, Le città e i morti, Le città e il cielo, Le città continue, Le città nascoste – che si intrecciano nelle diverse sezioni secondo un calcolo combinatorio. La cornice Ogni sezione è poi incorniciata da due dialoghi fra Marco Polo e Kublai Khan che, evocando un’atmosfera medievale ed esotica ispirata al Milione, conferiscono unità alla narrazione e offrono una chiave di lettura complessiva. Lo scrittore immagina che l’esploratore veneziano presenti le sue relazioni di viaggio all’imperatore dei tartari, che non può conoscere l’impero in tutta la sua estensione; e che i due personaggi, come in un dialogo filosofico, discutano di cosa nei racconti di Marco sia verità e cosa invenzione, quanto sia oggettivo e quanto soggettivo, quanto sia realmente visibile nelle città visitate e quanto sia proiezione dei ricordi di Marco della città conosciuta prima di tutte le altre, Venezia. Le considerazioni si estendono poi alla natura delle città, delle società umane, del mondo in cui viviamo.

1048 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


I due personaggi sono complementari, e, pur scambiandosi spesso le parti, rappresentano due aspetti della personalità dell’autore: il “pessimismo della ragione” nell’imperatore Kublai Khan, che vede malinconicamente il suo impero in sfacelo, e l’“ottimismo della volontà” nel giovane viaggiatore Marco Polo, deciso a reagire al crollo delle speranze e delle illusioni, a distinguere nell’inferno dei viventi «chi e cosa […] non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». I temi dell’opera I temi delle Città invisibili coinvolgono i più importanti nodi del pensiero novecentesco, dalla filosofia, alla linguistica, alla semiotica, all’urbanistica, alla sociologia. Le città immaginate possono essere positive (e al limite utopiche), negative o ambivalenti; alcune celano all’interno, nascosta, una città opposta a quella che appare all’esterno; alcune sono proiezioni fantastiche; altre raffigurano aspetti e tendenze del mondo reale contemporaneo; tra queste ultime sono gli emblemi del consumismo, come Leonia, che «rifà se stessa tutti i giorni» ed è circondata, quasi assediata, dalle cose buttate via, e Anastasia che realizza tutti i desideri, ma ne rende schiavi gli abitanti; emblemi della massificazione contemporanea sono invece Trude, che cancella ogni aspetto distintivo e individuale, e Procopia, sovrappopolata in misura crescente ed esponenziale. Alcune città sono da vedere come sistema di relazioni sociali, psicologiche e culturali; altre servono a presentare temi filosofici e culturali del dibattito contemporaneo, come quello del linguaggio (nella descrizione di molte città si sottolinea come il codice linguistico non possa mai arrivare a descrivere l’essenza delle cose), della semiotica (numerose città sono organizzate come un sistema di segni, veri o ingannevoli), anche della realtà cosmica (in particolare nella serie Le città e il cielo). Come ricorda lo stesso Calvino nella Presentazione del libro, le città invisibili «sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici». Tale molteplicità tematica – e il fatto che ciascuna città, pur inserita in una struttura, possa essere considerata parte a sé – fa sì che il libro possa essere letto secondo una logica ipertestuale, cioè secondo molteplici e ramificate linee tematiche, offrendo al lettore un’inesauribile varietà di percorsi possibili.

Le città invisibili GENERE

raccolta di racconti

DATA DI PUBBLICAZIONE

1972

TEMI

• temi sociali, culturali ed esistenziali • nodi essenziali del pensiero del Novecento • presentati in una cornice allegorica

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

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T11

Tra realtà, utopia e antiutopia Proponiamo alcuni passi tratti dalle Città invisibili. In ➜ T11a OL Trude e Cloe sono raffigurate come emblemi degli aspetti negativi della metropoli moderna, specchio del volto anonimo della società di massa e della fugacità dei rapporti umani in essa presenti. In ➜ T11b OL Perinzia si rivela essere, dietro l’apparente perfezione, una città di mostri; Andria offre, invece, un modello positivo, mentre in Raissa convivono aspetti positivi e negativi. In ➜ T11c , a conclusione dell’opera, Calvino invita gli uomini all’esercizio critico e all’abbandono dell’utopia.

online T11a Italo Calvino

La metropoli del mondo moderno globalizzato: Trude e Cloe Le città invisibili

online T11b Italo Calvino

Città invisibili utopiche e distopiche: Perinzia, Andria e Raissa Le città invisibili

Italo Calvino

T11c

La conclusione delle Città invisibili: quale utopia? Le città invisibili

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1992

Il testo conclusivo delle Città invisibili, come tutti quelli della cornice costituito da un dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan, mette in luce il senso profondo del libro di Calvino e il suo messaggio etico.

L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria. Chiese a Marco Kublai: – Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso 5 quale di questi futuri ci spingono i venti propizi. – Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, 10 fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto. 15 Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è 20 già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

1050 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


Analisi del testo La morale del libro Dall’explicit emerge la morale del libro, l’invito a non chiudere gli occhi di fronte agli aspetti negativi del mondo in cui viviamo, ma a esercitare una costante attività critica, per discriminare giorno per giorno quanto nel nostro mondo è da rifiutare e quanto invece da accogliere e da favorire con il nostro impegno: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Queste parole possono essere considerate il testamento di Calvino e la migliore sintesi del suo messaggio di uomo e di scrittore.

L’impossibilità dell’utopia L’invito a discriminare il bene e il male, che nella vita coesistono inestricabilmente connessi, può essere messo in rapporto con la concezione di Calvino dell’utopia e dell’antiutopia. Dopo le drammatiche esperienze dei totalitarismi, non è più possibile pensare a uno stato ideale in cui «la storia si sarebbe fermata, stabilizzata dall’equilibrio della perfetta equità» (Jean Starobinski). Quando Kublai Khan elenca una serie di famose città utopiche, chiedendosi quale avrebbe potuto realizzarsi nel futuro, Marco Polo non può dare una risposta: per lui la città felice è frammentaria e «discontinua nello spazio», esiste soltanto per pochi istanti privilegiati: bisogna dunque saperla riconoscere in ogni concreta situazione.

L’utopia pulviscolare In un saggio sull’utopia Calvino scrive: «Il meglio che m’aspetto […] va cercato nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero d’effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la sua verità. Oggi l’utopia che cerco non è più solida di quanto non sia gassosa: è un’utopia polverizzata, pulviscolare, sospesa». La speranza non scompare, ma diviene occasionale, discontinua, soggetta a un’imprevedibile concatenazione di rapporti causa-effetto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come Kublai Khan immagina l’impero nel futuro? 2. In che cosa Marco Polo lo corregge? A che cosa lo invita? ANALISI 3. Attraverso le parole di Marco Polo, lo scrittore indica alcune possibilità di momenti positivi della vita. Individuale, analizzando le immagini che le rappresentano. 4. Individua le differenze tra i personaggi di Marco Polo e di Kublai Khan, facendo riferimento ai passi in cui emergono. STILE 5. Nel passo ricorre la metafora della navigazione, a indicare il percorso della vita verso il futuro, immaginato ora come positivo, ora come spaventoso. Indica attraverso quali variazioni della metafora si alluda a questi due opposti significati.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Individua i punti di contatto fra il passo e gli altri proposti delle Città invisibili.

Sguardo sull’arte Un’eredità di Calvino: le città invisibili divengono visibili Le città invisibili non sono soltanto un classico della letteratura, ma offrono importanti spunti anche ad altri ambiti: sociologico, urbanistico, architettonico e figurativo. Proprio la loro indeterminatezza ed evanescenza, il loro disegno sottile e ingegnoso, sembrano paradossalmente invitare alla scommessa di tradurle in una forma visibile. Una ricerca in rete mostra diversi esempi di artisti che, in modo anche molto suggestivo, si sono misurati nel dare

forma alle città immaginate da Calvino, ma le potenzialità delle Città invisibili nel favorire il gioco dell’immaginazione sono state messe in luce, alcuni anni dopo la sua morte, da una memorabile mostra alla Triennale di Milano nel 20022003, in cui artisti legati ad ambiti espressivi diversi sono stati invitati a dare una forma, per lo più tridimensionale, a undici delle città di Calvino, a ciascuna delle quali era dedicato uno spazio espositivo, in genere costituito da una sala.

La narrativa combinatoria e il metaromanzo

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6 Lo sguardo di Palomar La descrizione come “problema da risolvere” Nel 1983 Calvino pubblica la raccolta Palomar, in cui lo scrittore propone, rielaborandole e organizzandole, ventisette prose giornalistiche, divise in tre gruppi (Le vacanze di Palomar; Palomar in città; I silenzi di Palomar) comparse sui quotidiani (prima il «Corriere della Sera» e poi «la Repubblica»), il cui protagonista è un personaggio chiamato Palomar, dal nome di un famoso osservatorio astronomico in California. La scelta, oltremodo suggestiva, del nome fa riferimento al tema, caro a Calvino, dello “sguardo”. Palomar, ultimo alter ego di Calvino e ultima riproposizione della figura dell’intellettuale, vive in un certo senso ai margini della vita, non si appassiona a tutto quanto agita il mondo, è “puro sguardo”, si identifica esclusivamente nel ruolo di chi osserva. Ma, a differenza dell’osservatorio astronomico, Palomar si limita a osservare fenomeni e oggetti limitati, circoscritti, di cui cerca di cogliere i minimi dettagli, nella speranza che questa osservazione minimale raggiunga un obiettivo conoscitivo, per quanto limitato. Il suo sforzo fallisce sempre perché la realtà, complessa e inafferrabile, sfugge a ogni tentativo di razionalizzarla e di farla propria attraverso il linguaggio. Ogni descrizione è per il protagonista un «problema da risolvere», ma questi problemi, per la concatenazione di tutto ciò che costituisce l’esistente, si ampliano all’infinito, facendo scaturire da occasioni minime riflessioni che si estendono alla vastità dell’universo. Così, ad esempio, quando Palomar tenta di delineare un modello di un’onda marina, si accorge che ogni onda è per qualche aspetto diversa dalla precedente; e quando tenta di descrivere un prato, non riesce a circoscriverne nessuna caratteristica, finché il prato diviene un’immagine dell’universo illimitato e caotico. La ricerca conoscitiva di Calvino approda dunque a uno scacco, a cui il linguaggio dà una veste come e più di sempre lucida e disincantata.

Palomar GENERE

raccolta di prose giornalistiche

DATA DI PUBBLICAZIONE

1983

TITOLO

Palomar riprende il nome di un celebre osservatorio astronomico

TEMI

• riflessione sulla figura dell’intellettuale che, ormai, vive ai margini della vita • scacco della ricerca conoscitiva • impossibilità di rendere la complessità del reale

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Italo Calvino

T12

Dal prato all’universo: il compito impossibile della conoscenza Palomar, 1. 2. 3 Il prato infinito

I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1992

Il testo trae spunto dal tentativo del protagonista Palomar di descrivere con esattezza che cos’è un prato: un compito che si rivela tutt’altro che semplice.

Intorno alla casa del signor Palomar c’è un prato. Non è quello un posto dove natural­ mente ci dovrebbe essere un prato: dunque il prato è un oggetto artificiale, composto di oggetti naturali, cioè erbe. Il prato ha come fine di rappresentare la natura, e que­ sta rappresentazione avviene sostituendo alla natura propria del luogo una natura in 5 sé naturale ma artificiale in rapporto a quel luogo. Insomma: costa; il prato richiede spesa e fatica senza fine: per seminarlo, innaffiarlo, concimarlo, disinfestarlo, falciarlo. Il prato è costituito di dicondra1, loglietto2 e trifoglio. Questa la mescolanza in parti uguali che fu sparsa sul terreno al momento della semina. La dicondra, nana e stri­ sciante, ha presto avuto il sopravvento: il suo tappeto di foglioline tonde e morbide 10 dilaga, gradevole al piede e allo sguardo. Ma lo spessore del prato lo dànno le lance affilate del loglietto, se non sono troppo rade e se non le si lascia crescere troppo senza dargli una tagliata. Il trifoglio spunta irregolarmente, qua due ciuffi, là niente, laggiù un mare; cresce rigoglioso finché non s’affloscia, perché l’elica della foglia pesa in cima al tenero gambo e lo inarca. La macchina tagliaprato procede con tre­ 15 mito assordante alla tonsura3; un soffice odore di fieno fresco inebria l’aria; l’erba livellata ritrova una sua ispida infanzia; ma il morso delle lame svela discontinuità, radure spelacchiate, macchie gialle. Il prato per fare la sua figura dev’essere una distesa verde uniforme: risultato innatu­ rale che naturalmente raggiungono i prati voluti dalla natura. Qui, osservando punto 20 per punto, si scopre dove lo zampillo a mulinello dell’irrigatore non arriva, dove invece l’acqua batte a getto continuo e fa marcire le radici, e dove dell’adeguato innaffiamento approfittano le erbacce. Il signor Palomar sta strappando le erbacce, accoccolato sul prato. Un dente-di-leone4 aderisce al terreno con un basamento di foglie dentate fittamente sovrapposte; se 25 si tira il gambo, questo ti resta in mano mentre le radici permangono confitte nel terreno. Occorre con un movimento ondeggiante della mano impossessarsi di tutta la pianta e sfilare delicatamente le barbe5 dalla terra, magari tirando su pezzi di zolla e sparuti fili d’erba del prato, mezzo soffocati dal vicino invadente. Poi gettare l’intruso in luogo dove non possa rifare radici o sparger seme. Quando si comincia 30 con lo sradicare una gramigna6, subito se ne vede spuntare un’altra un po’ più in là, e un’altra, e un’altra ancora. In breve, quel lembo di tappeto erboso che sembrava richiedere solo pochi ritocchi, si rivela una giungla senza legge. Non restano che erbacce? Peggio ancora: le male erbe sono così fittamente infram­ mezzate alle buone che non si può cacciare le mani in mezzo e tirare. Sembra che 35 una intesa complice si sia creata fra le erbe di semina e quelle selvatiche, un allen­

1 dicondra: specie erbacea di tipo perenne, spesso coltivata nei giardini perché forma sul terreno un tappeto verde persistente. 2 loglietto: loietto, pianta graminacea che

compatta il manto erboso.

3 tonsura: tosatura, taglio del prato. 4 dente di leone: taràssaco, volgarmente conosciuto come “soffione”. Pianta co-

mune nei prati e nei luoghi erbosi di pianura e di montagna. 5 barbe: radici. 6 gramigna: pianta erbacea infestante.

Lo sguardo di Palomar

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tamento delle barriere imposte dalle disparità di nascita, una tolleranza rassegnata alla degradazione. Alcune erbe spontanee, in sé e per sé, non hanno affatto un’aria malefica o insidiosa. Perché non ammetterle nel numero delle appartenenti al prato a pieno diritto, integrandole alla comunità delle coltivate? È questa la strada che porta 40 a lasciar perdere il «prato inglese7» e a ripiegare sul «prato rustico», abbandonato a sé stesso. «Prima o poi bisognerà decidersi a questa scelta», pensa il signor Palomar, ma gli parrebbe di venir meno a un punto d’onore. Una cicoria, una borragine balzano nel suo campo visivo. Lui le sradica. Certo, strappare un’erbaccia qua e una là non risolve nulla. Bisognerebbe procedere 45 così, – egli pensa, – prendere un quadrato di prato, un metro per un metro, e ri­ pulirlo fin della più minuta presenza che non sia trifoglio, loglietto o dicondra. Poi passare a un altro quadrato. Oppure, no, fermarsi su un quadrato campione. Contare quanti fili d’erba ci sono, di quali specie, quanto fitti e come distribuiti. In base a questo calcolo si arriverà a una conoscenza statistica del prato, stabilita la quale... 50 Ma contare i fili d’erba è inutile, non s’arriverà mai a saperne il numero. Un prato non ha confini netti, c’è un orlo dove l’erba cessa di crescere ma ancora qualche filo sparso ne spunta più in là, poi una zolla verde fitta, poi una striscia più rada: fanno ancora parte del prato o no? Altrove il sottobosco entra nel prato: non si può dire cos’è prato e cos’è cespuglio. Ma pure là dove non c’è che erba, non si sa mai a che 55 punto si può smettere di contare: tra pianticella e pianticella c’è sempre un germoglio di fogliolina che affiora appena dalla terra e ha per radice un pelo bianco che quasi non si vede; un minuto fa si poteva trascurarla ma tra poco dovremo contare anche lei. Intanto altri due fili che poco fa sembravano appena un po’ giallini ecco che ora sono definitivamente appassiti e sarebbero da cancellare dal conto. Poi ci sono le 60 frazioni di fili d’erba, troncati a metà, o rasi al suolo, o lacerati lungo le nervature, le foglioline che hanno perso un lobo... I decimali sommati non fanno un numero intero, restano una minuta devastazione erbacea, in parte ancora vivente, in parte già poltiglia, alimento d’altre piante, humus... Il prato è un insieme d’erbe, – così va impostato il problema, – che include un sottoin­ 65 sieme d’erbe coltivate e un sottoinsieme d’erbe spontanee dette erbacce; un’intersezio­ ne dei due sottoinsiemi è costituita dalle erbe nate spontaneamente ma appartenenti alle specie coltivate e quindi indistinguibili da queste. I due sottoinsiemi a loro volta includono le varie specie, ognuna delle quali è un sottoinsieme, o per meglio dire è un insieme che include il sottoinsieme dei propri appartenenti che appartengono pure al 70 prato e il sottoinsieme degli esterni al prato. Soffia il vento, volano i semi e i pollini, le relazioni tra gli insiemi si sconvolgono... Palomar è già passato a un altro corso di pensieri: è «il prato» ciò che noi vediamo oppure vediamo un’erba più un’erba più un’erba...? Quello che noi diciamo «vedere il prato» è solo un effetto dei nostri sensi approssimativi e grossolani; un insieme 75 esiste solo in quanto formato da elementi distinti. Non è il caso di contarli, il numero non importa; quel che importa è afferrare in un solo colpo d’occhio le singole pian­ ticelle una per una, nelle loro particolarità e differenze. E non solamente vederle: pensarle. Invece di pensare «prato», pensare quel gambo con due foglie di trifoglio, quella foglia lanceolata8 un po’ ingobbita, quel corimbo9 sottile... 7 prato inglese: prato ornamentale, particolarmente curato.

8 lanceolata: appuntita.

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9 corimbo: infiorescenza.


Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provano ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo regolare e ordinato o come proliferazione caotica. L’universo forse finito ma innumerabile, instabile nei suoi confini, che apre entro di sé altri universi. L’universo, insieme di corpi celesti, nebulose, pulviscolo, campi di 85 forze, intersezioni di campi, insiemi di insiemi... 80

Analisi del testo La difficoltà della conoscenza Il testo rappresenta uno degli esercizi di osservazione del signor Palomar, che dagli oggetti più semplici e banali (un prato all’inglese) estende le sue considerazioni all’infinito. Il tema è la difficoltà, e forse l’impossibilità, della conoscenza: ogni oggetto si rivela infinitamente complesso e in definitiva inconoscibile.

La tendenza al caos Ogni oggetto può essere punto di partenza per affrontare i più complessi problemi conoscitivi riguardanti il rapporto fra l’uomo e il mondo. Ad esempio, Palomar affronta il rapporto tra natura e cultura, scoprendo che non si possono nettamente distinguere e separare: il prato è infatti natura, ma anche creazione artificiale, perché renderlo uniforme richiede un lavoro continuo. In secondo luogo, riflette sul rapporto ordine-caos: il prato, come l’universo, tende verso l’entropia e la proliferazione caotica: se, quando è stato seminato, i semi erano ordinatamente divisi in tre parti uguali, ora le tre specie di erbe sono cresciute in modo difforme e irregolare. È un particolare che svela l’eco del passo manzoniano della vigna di Renzo (➜ VOL 2B C8 T14d2 ), in abbandono e coperta di erbacce, rappresentazione allegorica del proliferare del male se non intervengono a frenarlo la ragione e l’impegno dell’uomo.

L’insieme e gli individui Palomar riflette inoltre sul rapporto fra l’insieme e le sue parti: all’inizio vede il prato come una realtà unica, ma poi si rende conto che, per descriverlo adeguatamente, dovrebbe prendere in considerazione una miriade di individui, i fili d’erba, l’uno differente dall’altro e il cui numero non si può determinare.

Dal prato all’universo Compiuto, così, il percorso dal semplice all’inestricabilmente complesso, risultano evidenti i limiti della conoscenza umana e il prato diviene modello dell’universo infinito. Il percorso conoscitivo del signor Palomar appare infatti analogo a quello nei secoli della scienza, che, dall’immagine iniziale di un cosmo ordinato, grazie al cammino della ricerca, ha rivelato la «proliferazione caotica» e l’infinita complessità dell’universo.

Lo stile: dal certo all’indeterminato Lo stile stesso riflette il contrasto chiave del testo fra ordine e caos, tema fondamentale nella descrizione: ogni paragrafo inizia con un’affermazione, che in seguito, divenuta oggetto di indagine più minuziosa, è messa in discussione, vanificando le certezze iniziali; inoltre l’esattezza meticolosa del lessico descrittivo contrasta con l’indeterminatezza a cui perviene la ricerca: non a caso, dei dieci paragrafi che compongono il testo, i primi cinque terminano con il punto, gli ultimi cinque, compreso quello finale, si concludono con i puntini di sospensione, lasciando intendere che il ragionamento non può trovare una conclusione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché il prato può essere considerato un oggetto sia naturale sia artificiale? ANALISI 2. Individua in ogni paragrafo il rapporto fra l’affermazione iniziale e il seguito dell’argomentazione. 3. Quali aspetti dell’universo possono essere paragonati a quanto Palomar scopre nel prato?

Interpretare

SCRITTURA 4. In un testo di max 15 righe, spiega quali limiti della conoscenza vengono messi in luce nel testo.

Lo sguardo di Palomar

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Alessandro Giarrettino1 I classici tra i banchi Intervento tenuto giovedì 28 settembre 2023 presso la Biblioteca Tullio De Mauro a Roma. Testo pubblicato su doppiozero.com

1 Andrea Giarrettino: insegna lettere in una Scuola superiore di Roma ed è membro della redazione del «Bollettino di Italianistica».

Definizioni Nel suo celebre catalogo di definizioni ragionate sul Perché leggere i classici (in Italo Cal­ vino, Saggi 1945-1985, t. II, a cura di M. Barenghi, Mondadori, 1995. Tutte le citazioni indicate da S sono tratte da questa raccolta) Calvino si interroga, oltre che sulla natura di un libro “classico”, sulla complessità dei rapporti che ciascun lettore può stabilire 5 con esso ricavandone conoscenze fondamentali su sé stesso e sul mondo circostante. Sin dal primo tentativo di definizione, sui quattordici complessivi, Calvino rileva l’importanza dei classici come «letture di “formazione” d’un individuo» e, pur evi­ denziando che «leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario», sottolinea il fatto che la «gioventù comunica alla lettura come a ogni 10 altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza» (S 1816-7). Subito dopo, però, nella seconda definizione della serie, innescando uno dei tipici movimenti del suo modo di ragionare fitto di antitesi e contrapposizioni, Calvino suggerisce che «si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la 15 fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli» (S 1817). È una formulazione che apre riflessioni interessanti sul rapporto che si stabilisce tra lettori e libri classici durante le diverse età della vita. In gioventù, infatti, la lettura di un classico può dimostrarsi anche poco produttiva «per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita», oppure, al contempo, 20 molto formativa nel senso letterale di dare «una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza», che, osserva acutamente Calvino, agiscono anche, o forse soprattutto, al di sotto del livello della coscienza, continuando «a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla» (S 1817-8). 25 È proprio allorché si rilegge un libro in età matura che «accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine», così che la «particolare forza» di un classico è quella «di farsi dimenticare in quanto tale» e, allo stesso tempo, di riuscire a depositare dentro il lettore «il suo seme» (S 1817-8). 30 A partire da qui Calvino ricava la sua terza definizione, molto rilevante per una pos­ sibile pedagogia dei classici: se è vero che essi sono «libri che esercitano un’influenza particolare» nel momento in cui diventano «indimenticabili», è altrettanto vero che funzionano come modelli di pensiero e di azione anche quando «si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale» 35 (S 1818). In questa prospettiva intergenerazionale, la lettura dei classici a scuola assume un doppio valore: da un lato, svolge la funzione di fornire ai giovani un modello per imprimere una forma al loro futuro, tanto più essenziale in un mondo destrutturato e indeterminato come quello attuale, contribuendo a definirne radici e orizzonti, dall’altro mette a disposizione di chi insegna la possibilità di rileggere i 40 classici, riscoprendone forza e valori. Infatti, nel caso di un classico, «ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima» (S 1818), soprattutto se fatta in rapporto a generazioni nuove e diverse, che dal classico ricavano inevitabilmente (e per fortu­

1056 Il Novecento (Seconda parte) 20 Italo Calvino


na) insegnamenti nuovi e diversi rispetto a quelli dei lettori più maturi. Il classico letto a scuola è quindi non soltanto un ponte che collega epoche storiche 45 molto differenti e a volte lontanissime tra loro, ma anche uno spazio di confronto potenzialmente proficuo tra vecchie e nuove generazioni di lettori. E, in un orizzonte extrascolastico, che è quello a cui sempre la scuola dovrebbe guardare, la lettura dei classici è utile per ristabilire un rapporto autentico tra le diverse età della vita, tra la gioventù e la maturità e la vecchiaia, per rilevare i momenti di rottura e le linee di con­ 50 tinuità tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati. Un’altra funzione del classico è, quindi, quella di mettere in contatto le nostre diverse identità, individuali e collettive, nel corso del tempo, tracciando una linea di continuità culturale tra antico e moderno. Tuttavia, Calvino è ben consapevole del fatto che il rapporto tra la scuola e i classici non è affatto lineare. Intanto «la lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa, in 55 rapporto all’immagine che ne avevamo» (S 1819), per cui sarebbe importante invitare alla lettura diretta di un classico, per quanto ardua essa possa essere, più che ai testi critici che proliferano su di esso […]. Invece «la scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione» (S 1819), e l’osservazione di Calvino sembra tanto più valida nella scuola di oggi, dove 60 gli studenti si nutrono degli innumerevoli “bignami”2 digitali che la Rete mette loro a disposizione […]. In effetti, leggere i classici tra i banchi è prima di tutto un dovere perché «la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici» (S 1820) a partire dai quali ognuno potrà costruirsi una personale biblioteca di autori. […] Imparare a stabilire un rapporto critico con i classici è quindi un’acquisizione indispen­ 65 sabile che passa inevitabilmente per le aule scolastiche, dove studenti di qualsiasi pro­ venienza sociale e geografica si scontrano con il dato di fatto che i classici esprimono «oggettivamente un modo d’essere della cultura occidentale» che è il prodotto di una parte; infatti, «i classici dell’umanesimo sono i classici di una “parte”, per giunta molto ristretta, dell’umanità: solo “a posteriori”, e come per effetto di una ricaduta, possono 70 diventarlo di tutta» (A. Asor Rosa, Il canone delle opere, in Id., Genus italicum, Einau­ di, 1997), e non senza inevitabili contrasti e contrapposizioni talvolta laceranti). [...]

Daniela Santacroce3 Una pedagogia implicita. Insegnare Calvino nelle scuole Spunti di riflessione per l’insegnamento di Italo Calvino. Intervento tenuto il 3 ottobre 2023 presso la Biblioteca Guglielmo Marconi a Roma

Quando si vuole presentare a scuola Italo Calvino, si impongono tre osservazioni preliminari: lo scrittore non ha avuto con la scuola un rapporto sistematico né idilli­ co; la sua produzione offre innegabili potenzialità didattiche; la varietà e l’ampiezza dei suoi interessi e della sua scrittura intimoriscono e sembrano poco compatibili 5 con gli imperativi scolastici della selezione e della circoscrizione dei temi. In altre parole, a Calvino è difficile rinunciare ma bisogna gestire una produzione che, oltre ad essere poco legata all’universo scolastico, appare multiforme e inafferrabile. […] Di contro, la riflessione e la scrittura calviniane hanno potenzialità didattiche di innegabile efficacia. Calvino è autore di racconti brevi; usa una lingua chiara e 10 comprensibile; favorisce un insegnamento interdisciplinare; è attento lettore di clas­

2 “bignami”: nato nell’era del cartaceo, è un manualetto che raccoglie le nozioni di base di una materia scolastica. Oggi è ancora in uso, ma è stato prevalente-

mente soppiantato da sintesi e semplificazioni che si trovano sul web. 3 Daniela Santacroce: è docente di Lettere in un liceo romano. Si è laurea-

ta con una tesi su Calvino dal titolo Le figure femminili in Italo Calvino: caratteri e funzioni.

Lo sguardo di Palomar

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

sici di cui sa illuminare il significato profondo; è scrittore ‘visivo’ che si presta a differenti tipi di apprendimento e forme di restituzione delle conoscenze; è capace di quell’approccio ‘leggero’ alle cose che lui stesso spiega nelle Lezioni americane che è prezioso nello studio. 15 Il problema sorge allora quando si avverta l’esigenza di “chiudere” e “sintetizzare” Calvino: a quel punto, poiché egli sfugge a qualsiasi presa, si procede attraverso strategie (come etichettarlo, ridurlo, piegarlo), se non si cade addirittura nella ten­ tazione di “forzarlo”. La prima strategia fa sì che Calvino sia definito in innumerevoli modi. Scorrendo i 20 titoli degli studi critici, si rileva l’assoluta centralità del tema – precocemente acqui­ sito – del doppio: termini che vi alludono (dimezzato, binario, diviso) o lo ricreano per opposizione (fiabesco/realistico, visibile/invisibile, discreto/continuo); immagini (labirinto, universo, metamorfosi) o espressioni (modello, sistema, dialettica) che tengono insieme i contrari o li traducono in ossimori ( La profonda superficie di 25 Calvino, The Utopian Reality of Italo Calvino, Il peso dell’imponderabile). […] La seconda strategia riduce Calvino, trasversale a tutte le età e a svariati generi, procedendo a una rigorosa operazione di selezione: si isolano le fiabe e Marcovaldo per i bambini mentre i racconti cosmicomici sono rivolti agli appassionati di scien­ za; automatico è il riferimento agli architetti per Le città invisibili! Poco attraversa­ 30 te invece le produzioni realistica, combinatoria e saggistica, con l’eccezione delle fortunatissime Lezioni americane. Tra i contenuti sono senza dubbio ricorrenti la riflessione sulle opposizioni tra natura e città o storia e tra fantasia e realtà; così come viene giustamente declinato nelle più varie forme il tema del punto di vista, sempre mobile e parziale. Infine, soprattutto a scuola, Calvino è modello di una 35 lingua piana ed efficace e non è raro che la lettura di un suo testo ispiri svariati esercizi di scrittura. L’ultima strategia di approccio è quella potenzialmente più pericolosa: poiché di molto ha riflettuto e scritto, Calvino è piegato a dire di tutto. A tale proposito può essere utile una rapida panoramica delle iniziative legate al centenario della sua nascita. Se 40 si considerano le proposte alle scuole, si passa dallo studio topografico della propria città alla sfida di enigmi, da spettacoli teatrali a passeggiate botaniche, da contest di disegno a concerti ispirati ai suoi libri. Se poi lo sguardo si allarga al pubblico più ampio, Calvino è oggetto di omaggi con una rassegna cinematografica di film di fantascienza, uno spettacolo itinerante di circo e una escape room4, trasformato in 45 ecologista e precursore dei games designer5, della graphic novel6 e di ChatGPT7. La sfida da affrontare sembra allora quella di lasciar parlare Calvino per cogliere – nella sua visione del mondo, dell’uomo e della scrittura – alcune implicite istanze pedagogiche di straordinaria attualità. […] La lezione di Calvino non semplifica né conforta e può apparire controcorrente 50 nell’epoca in cui ci si illude di poter volgere lo sguardo al futuro rinnegando il pas­ 4 escape room: un tipo di attrazione a tema in cui i concorrenti devono risolvere una serie di indovinelli o rompicapo per poter uscire da un luogo chiuso. 5 games designer: autori di giochi o videogiochi.

6 graphic novel: storia illustrata a cavallo tra il giornalismo, la narrativa e il fumetto, indirizzata generalmente a un pubblico adulto. 7 ChatGPT: è l’ultima impresa dell’Intelligenza artificiale (IA). Si tratta di un

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sistema che è in grado di dialogare in linguaggio naturale su molti argomenti e di generare immagini, a partire da semplici descrizioni di testo.


sato, trovare soluzioni facili, privilegiare comunicazioni rapide e confuse. Spesso, purtroppo, anche a scuola. Calvino però individua un’arma di contrasto efficace che, fortunatamente, occupa ancora uno spazio nella formazione dei giovani: la letteratura. «[...] educazione, di grado e di qualità insostituibile», capace di rivol­ 55 gersi agli uomini «attivi della storia [...] aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti» (Il midollo del leone, 1955). […] Pur passando dai toni ambiziosi della militanza intellettuale a quelli pacati di una posizione più cauta ma mai scoraggiata, Calvino è fedele nel tempo alla insosti­ tuibile funzione della letteratura. Invita all’impegno, all’umiltà, all’apertura alla 60 globalità dell’esperienza e del sapere: questi, sì, imperativi categorici (anche) nella scuola del terzo millennio.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Quali commenti fa Giarrettino, in merito alla seconda “definizione” di “classico” data da Calvino? Come cambia il rapporto tra lettori e classici durante le diverse età della vita? 2. Perché, secondo Giarrettino, la terza “definizione” di “classico” è particolarmente rilevante “per una possibile pedagogia dei classici”? 3. Perché, secondo Santacroce, «la riflessione e la scrittura calviniane hanno potenzialità didattiche di innegabile efficacia»? 4. Quale approccio alla produzione di Calvino, secondo Santacroce, risulta essere il più pericoloso? Nel testo di Giarrettino si fa riferimento al fatto che i “classici” sono sempre di parte. Esponi le tue riflessioni in merito a questa considerazione, argomentando la tua opinione. Che ruolo credi abbia la scuola nel consolidare in ogni lettore un canone di autori, imprescindibili nella sua formazione? Ritieni che Calvino possa essere definito un “classico”?

Fissare i concetti Italo Calvino Ritratto d’autore 1. In quale ambiente si è formato Calvino? 2. Quale influenza ebbe, nella produzione letteraria di Calvino, il soggiorno a Parigi? 3. Che cosa intende Calvino nelle Lezioni americane con il termine “esattezza”? Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti della stagione neorealista 4. Perché Il sentiero dei nidi di ragno può essere considerato un romanzo di formazione? 5. Attraverso quale punto di vista Calvino decide di raccontare la Resistenza? Perché? La trilogia degli antenati e la narrativa sociale 6. Per quali aspetti la figura del barone rampante rappresenta in chiave fantastica l’intellettuale illuminista? 7. Riassumi quello che ritieni essere il “messaggio” contenuto nel Cavaliere inesistente. 8. Riassumi il messaggio contenuto nel Visconte dimezzato. 9. Che cosa vuole sottolineare Calvino intitolando la “trilogia fantastica” I nostri antenati? 10. Elenca le principali caratteristiche tematiche e stilistiche della raccolta Marcovaldo. 11. Come viene delineato il tema del degrado ambientale nella Nuvola di smog e nella Speculazione edilizia? 12. Perché nella Giornata di uno scrutatore viene messa in crisi l’idea di uomo artefice del proprio destino? Un nuovo Calvino: Le cosmicomiche 13. Che cosa è Le cosmicomiche? Perché rappresenta una svolta narrativa in Calvino? La narrativa combinatoria e il metaromanzo 14. Quali opere di Calvino appartengono al filone metanarrativo? 15. Perché la raccolta Le città invisibili può essere considerata un’“opera mondo”? Lo sguardo di Palomar 16. Quale messaggio è contenuto in Palomar?

Lo sguardo di Palomar

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Il Novecento (Seconda parte) Italo Calvino

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La vita Italo Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas, presso L’Avana, a Cuba. Nel 1944 il futuro scrittore si unisce ai partigiani comunisti della brigata “Garibaldi”, sulle Prealpi liguri. La partecipazione alla Resistenza è decisiva per il chiarirsi delle idee su politica e letteratura. Finita la guerra, Calvino si laurea in Lettere nel 1947. Dopo aver realizzato alcuni racconti, nello stesso anno esordisce come scrittore con Il sentiero dei nidi di ragno, un romanzo sull’esperienza resistenziale iscrivibile nel clima del neorealismo, che ottiene un incoraggiante successo. Lavora contemporaneamente come redattore presso la casa editrice torinese Einaudi, un ambiente culturalmente assai stimolante. Da sempre vicino al Partito comunista, nel 1956, dopo l’intervento delle forze armate sovietiche in Ungheria, restituisce la tessera, pur rimanendo vicino all’area ideologica della sinistra. Nel 1952 pubblica con successo il suo secondo romanzo, Il visconte dimezzato, primo volume di una trilogia, completata con Il barone rampante (1957), e Il cavaliere inesistente (1959). Si dedica anche a una produzione letteraria d’impianto realistico: escono La speculazione edilizia (1957) e La giornata di uno scrutatore (1963). Gli anni Sessanta aprono una fase nuova per l’autore: egli inizia una produzione letteraria centrata su tematiche filosofiche e scientifiche. È del 1965 Le cosmicomiche e del 1967 Ti con zero. Nel 1967 Calvino si allontana dall’Italia, trasferendosi a Parigi, dove abiterà fino al 1980; nella capitale francese frequenta il gruppo di letterati e matematici dell’Oulipo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, cioè “Laboratorio di letteratura potenziale”) interessandosi allo strutturalismo e alla semiotica: da queste passioni deriva la fase “combinatoria” della sua produzione letteraria, con Il castello dei destini incrociati (1969) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Rientra in Italia nel 1980 e si stabilisce a Roma. Muore nel settembre del 1985 mentre prepara il testo delle Lezioni americane. La visione del mondo e il ruolo della letteratura L’amplissima cultura di Calvino abbraccia campi disparati, dalle scienze umane a quelle esatte, con una particolare attenzione verso la cultura classica, la letteratura italiana (Ariosto e Leopardi in primis) e le idee illuministe francesi; nella pratica ciò si sostanzia in una intensa attività saggistica, focalizzata sul valore e sulla funzione della letteratura, raccolta nell’opera Una pietra sopra del 1980. Dapprima l’autore pensa l’attività letteraria come «progettazione positiva del mondo»; egli vede accentuarsi, però, la consapevolezza della complessità del reale e dell’impossibilità di ridurlo a schemi interpretativi. Le lettere devono dunque cercare nuove direzioni: a questo punto Calvino si allontana dalla tematica dell’impegno e dalla tendenza neorealista, pur non rinunciando all’auspicio che la ragione continui ad agire sulla realtà per mezzo dell’elemento letterario. Nel corso del tempo, nondimeno, diventerà sempre più chiara in Calvino la consapevolezza dell’impossibilità per lo scrittore non solo di guidare il processo storico, ma anche di interpretarlo. Il personaggio in cui più si rispecchia l’ultimo Calvino è quello di Palomar, osservatore di aspetti minimali, forma residuale di conoscenza concessa a uomini senza certezze. Lo sguardo lucido e totalmente disincantato è l’unico possibile ormai per l’intellettuale, preda comunque dello scacco conoscitivo.

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Dalle Lezioni americane, l’ultima sua opera saggistica, tuttavia, si intuisce però il desiderio dell’autore di continuare a esplorare nuove strade per la narrazione. Quale letteratura per il nuovo millennio? Le Lezioni americane La concezione calviniana della letteratura trova la sua espressione più articolata nella sua ultima e fondamentale opera saggistica, Lezioni americane, pubblicata postuma nel 1988 e dal valore di testamento morale e letterario. Calvino, invitato a tenere un ciclo di conferenze ad Harvard, sceglie di parlare dei valori letterari da salvare per il successivo millennio contro il rischio di decadimento culturale e intellettuale proprio della società tecnologica. Le qualità dello stile individuate da Calvino – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità nelle cinque lezioni completate – che caratterizzano il suo stesso modo di scrivere, chiaro e cristallino, sono per lui un riflesso delle qualità dell’intelligenza necessarie ad affrontare un mondo in rapido mutamento.

dei nidi di ragno 2 Ile isentiero racconti della stagione neorealista Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947, è il primo romanzo di Calvino. Di ispirazione neorealista, seppur in modo originale, nasce dall’esperienza dell’autore nella Resistenza. L’opera presenta già una caratteristica tipica dello scrittore, cioè la scelta di un punto di vista inconsueto: in questo caso quello di un bambino, Pin, che si unisce ai partigiani, vivendo il periodo della guerra come un’avventura, in un’ottica favolosa e picaresca pur nell’incomprensione del difficile mondo degli adulti. La scelta narrativa permette di raccontare un tema complesso in modo “leggero”: tutta la storia è attraversata da atmosfere e richiami fiabeschi che, tuttavia, delineano un romanzo di formazione solo parzialmente compiuto e in cui mai l’autore idealizza la materia o i protagonisti, pur credendo nella lotta partigiana quale strumento creatore di una società più giusta. Al clima neorealistico sono parzialmente riconducibili anche alcuni racconti della raccolta Ultimo viene il corvo (1949), dominata però da una visione della realtà amara e disincantata.

3 La Trilogia degli antenati e la narrativa “sociale”

Negli anni Cinquanta, Calvino si allontana dalla narrativa di impianto neorealistico per imboccare due diverse strade. Da un lato i racconti di ambientazione contemporanea, di argomento sociale: La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957), La nuvola di smog (1958) e La giornata di uno scrutatore (1963). Dall’altro lato i racconti lunghi di carattere fantastico, ambientati in epoche lontane, come quelli della Trilogia degli antenati. L’autore si cimenta anche con i racconti di Marcovaldo, contadino inurbato che fa i conti con le trasformazioni causate dal boom economico. La Trilogia degli antenati: tre parabole “fantastico-allegoriche” Il visconte dimezzato (1952), opera dal sapore fantastico e allegorico, è il primo romanzo della Trilogia: opere, che sono quasi dei “racconti filosofici” illuministi, scritte con il proposito di ritrovare nell’immaginario l’energia e l’ottimismo degli anni resistenziali, ma anche di delineare ideali antenati dell’uomo contemporaneo per denunciarne l’alienazione. Il visconte Medardo di Terralba, il protagonista, è diviso in due da una palla di cannone. La metà malvagia e quella buona, tornate dalla guerra, si contrappongono ma, dopo un duello per amore, vengono ricucite e l’individuo si ricompone: una metafora potente che richiama la condizione dell’uomo nella modernità, incapace di compiere un armonico percorso di sviluppo della propria interiorità, che rimane dunque scissa, duplice. Ma anche un riferimento alla politica internazionale coeva, dominata dalla divisione in due blocchi e dal loro uso irresponsabile della tecnica.

Sintesi

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Nel Barone rampante (1957), un romanzo di formazione, Calvino propone invece il proprio ideale umano, un modello per il mondo di oggi: la figura di Cosimo, dodicenne di nobile famiglia che si ribella alle imposizioni genitoriali e per protesta sale su un albero, giurando di non scendere mai più, cosa che in effetti farà, vivendo però una vita coerente attiva e ricca di incontri. L’opera può essere letta come un romanzo per ragazzi; vi si ritrova, però, anche una celebrazione dei valori illuministici in senso contemporaneo oltre che un’allegoria della figura dell’intellettuale, invitato a condividere la libertà, il coraggio e la razionalità del giovane protagonista, che incarna i valori che anche Calvino condivide. Come Il visconte dimezzato, così anche Il cavaliere inesistente (1959) tratta il tema dell’alienazione dell’uomo moderno. Agilulfo, paladino carolingio, è un cavaliere che non esiste: la sua armatura vuota è mossa solo dal senso del dovere e dalla forza di volontà. Dopo un’accusa e la conseguente perdita dell’onore, sua ragione di vita, Agilulfo cessa di esistere e decide di annullarsi, lasciando l’armatura vuota in eredità a un giovane compagno di avventure. La surreale vicenda è il chiaro emblema della dinamica della civiltà di massa, in cui l’individuo si identifica con il proprio ruolo sociale dimenticando i propri desideri più profondi e, quindi, annullandosi; a ciò fa da contrasto il significato veicolato dal personaggio di Rambaldo, simbolo della necessità di compiere un cammino di maturazione che contemperi passione e razionalità. La narrativa “sociale” e il confronto critico con la società del boom economico Oltre alle opere della trilogia fantastica, Calvino scrive anche racconti e brevi romanzi più realistici, nei quali denuncia i problemi dell’Italia del Dopoguerra e lo smarrimento dell’intellettuale, perso in un mondo che gli appare indecifrabile e dove ormai si sono persi i valori civili e morali resistenziali. Il degrado della natura è al centro del racconto La nuvola di smog (1958), ambientato in una grande città del Nord dove la lotta contro l’inquinamento portata avanti da pochi è vissuta dalla popolazione generale con indifferenza e rassegnazione. La speculazione edilizia (1957) denuncia il decadimento etico, sociale ed estetico dell’Italia del boom economico attraverso la figura di un intellettuale, oscuramente affascinato dalla figura di uno spregiudicato palazzinaro ma incapace di imitarne la sfrontatezza e l’amoralità; un protagonista destinato, quindi, a uscire sconfitto dalla lotta senza regole per il successo economico. La nuova realtà italiana è rappresentata anche nei racconti fantasiosi della raccolta intitolata Marcovaldo (1963) dal nome del suo protagonista, del quale il lettore condivide il punto di vista di contadino trasferito in città e da essa regolarmente vinto. Il romanzo breve La giornata di uno scrutatore (1963) segna uno spartiacque nella produzione calviniana, considerate le domande di natura esistenziale, politica, filosofica e religiosa che innervano la trama; interrogativi che sorgono nel protagonista, membro del Partito comunista, durante un’esperienza da scrutatore nel Cottolengo di Torino in occasione delle elezioni del 1953 e come conseguenza del contatto con un’umanità degradata e sofferente, capace di metterne in discussione la visione del mondo fondata sulla fiducia nell’azione umana sulla storia.

4 Un nuovo Calvino: Le cosmicomiche

Una fase nuova dell’attività dello scrittore ligure inizia con Le cosmicomiche (1965), che ne segna il distacco dalla narrativa di carattere realistico. Si tratta di un’opera fantascientifica che realizza l’idea di un’immaginazione nutrita di razionalità e di suggestioni culturali: i contenuti sono ispirati a teorie cosmogoniche elaborate secondo precise conoscenze scientifiche e introdotte al lettore mediante racconti ironici, i cui contenuti contrastano decisamente con la materia “sublime”. La scienza qui non serve, però, per trovare certezze, quanto per avere uno sguardo nuovo sulla realtà, una messa in discussione dell’ottica antropocentrica già iniziata nel 1963.

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5 La narrativa combinatoria e il metaromanzo

Dalle Cosmicomiche, in Calvino scema l’interesse per la storia e per la società a favore di una riflessione focalizzata sulla natura e i meccanismi del narrare stesso. Dopo il trasferimento a Parigi (1967), lo scrittore approfondisce lo strutturalismo, la semiotica e la narratologia e inizia a frequentare il gruppo dell’Oulipo. Qui sviluppa l’idea dell’abbandono del romanzo tradizionale a favore di una narrativa nuova, ultrarazionalistica, fondata sulla logica combinatoria e su contenuti metanarrativi. Il castello dei destini incrociati (1969) è il primo esperimento in tal senso. In un castello, gli ospiti per magia diventano muti e possono raccontare la propria storia solo utilizzando le carte dei tarocchi che, nelle varie configurazioni attuabili, diventano emblemi delle possibilità narrative; al lettore è lasciato il compito di decifrare i diversi significati e i percorsi narrativi. Allo stesso filone metanarrativo appartiene anche Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), «un romanzo sul piacere di leggere romanzi». Il libro, a trama circolare, è costituito da un capitolo iniziale, uno conclusivo e da dieci inizi di altrettanti romanzi di diverse tipologie, nessuno dei quali terminato (a simboleggiare l’impossibilità di scrivere romanzi di senso compiuto nella società moderna); il tutto inserito in una cornice con due protagonisti, le cui riflessioni sulla lettura mettono al centro dell’attenzione anche il lettore. Un’opera che tratta, dunque, le tematiche della «morte del romanzo» e della valorizzazione del ruolo del lector, elaborate proprio in quegli anni. Le città invisibili (1972) – libro originale, surreale e visionario – rappresenta un lavoro fondamentale del Novecento italiano e il capolavoro di Calvino. L’autore aggrega attorno al concetto di “città” una messe di riflessioni personali riguardanti i più importanti nodi del pensiero novecentesco: questi ultimi sono esposti in descrizioni urbane organizzate in rete secondo un preciso ordine tematico e sono quindi fruibili dal lettore attraverso molteplici percorsi, in una logica ipertestuale. Ogni sezione è poi incorniciata da due dialoghi fra Marco Polo e Kublai Khan, aspetti complementari della personalità dell’autore: rispettivamente l’“ottimismo della volontà” e il “pessimismo della ragione”.

6 Lo sguardo di Palomar

Nella raccolta Palomar (1983), Calvino riorganizza e presenta ventisette prose giornalistiche; protagonista è il personaggio omonimo, ultimo alter ego dell’autore e ultimo suo esempio di intellettuale. Instancabile osservatore di fenomeni e oggetti limitati, animato dalla speranza che ciò conduca alla conoscenza certa, egli fallisce sempre, sconfitto dalla complessità della realtà, in grado di allungare all’infinito la ricerca conoscitiva portando all’attenzione sempre nuovi aspetti da approfondire.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Il 2023 è stato l’anno del centenario della nascita di Calvino: realizza un volantino da distribuire nella tua scuola per invitare gli studenti alla lettura dell’opera del grande scrittore.

Competenza digitale

2. Fai una ricerca sul web e individua le principali iniziative realizzate nella tua zona in occasione del centenario della nascita di Calvino. Costruisci poi una mappa interattiva che contenga le più significative, le loro peculiarità e i luoghi dove esse si sono svolte.

Scrittura argomentativa

3. Scrivi un testo di circa 15 righe per dimostrare la grande attualità dell’opera di Calvino nell’ambito della sensibilizzazione sull’etica ambientalista.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 1063


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Italo Calvino

La speculazione edilizia I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. dir. da C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano 1992

La speculazione edilizia, cap. XIV Troppo chiuso in sé e indifferente d’altro e aspro era il carattere della vecchia gente di ***1. Alla pressione delle pullulanti intorno genti italiane non resse, e presto imbastardì2. La città s’era arricchita ma non seppe più il piacere che dava ai vecchi il parco guadagno3 sul frantoio o sul negozio, o i fieri svaghi 5 della caccia ai cacciatori, quali tutti loro erano un tempo, gente di campagna, piccoli proprietari, anche quei pochi che avevano da fare con il mare e il porto. Adesso invece li premeva il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia4 stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipen­ 10 denti dell’“industria alberghiera”. Ma sotto mutate forme, l’operaia e avara tradizione rurale durava ancora dalle dinastie tenaci dei floricoltori, che in anni di fatiche familiari accumulavano lente fortune; e l’alacrità mercantile nel ceto mattiniero dei fioristi. […] Pochi guizzi negli ultimi cent’anni aveva avuto, la gente rivierasca, passate 15 le generazioni mazziniane che credettero nel Risorgimento, forse mosse dalla nostalgia delle estinte autonomie repubblicane. Non le riebbero; l’Italia unita non piacque loro […] Sulle riviere s’attestarono gli inglesi, nei loro giardini, gente posata e individuale, tacita amica di persone e natura così scabre. […] Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della Costa prosperò, mentre 20 l’entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde5 […]. Ma in tutto questo si poteva ancora riconoscere un’estrema difesa dell’atavico nerbo morale6, fatto di sobrietà e ruvidezza ed understatement7, una difesa che era soprattutto uno scrollar di spalle, un ne­ garsi. […] 25 Ora dopo la seconda guerra mondiale, era venuta la democrazia, ossia l’anda­ re ai bagni l’estate di intere cittadinanze. Una parte d’Italia, dopo un incerto quinquennio o giù di lì, ora aveva il benessere, un benessere sacrosantamente basato sulla produzione industriale, ma pur sempre difforme e disorganico data l’economia nazionale squilibrata e contraddittoria nella distribuzione geografica

1 ***: il nome della città nella quale è ambientata la vicenda è omesso da Calvino. Si tratta di un comune espediente letterario. Illustre esempio si trova nei Promessi sposi di Manzoni. Dietro i tre asterischi si nasconde la città di Sanremo, dove l’autore trascorse la giovinezza. 2 imbastardì: la città ligure perse

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la sua identità quando fu invasa dal turismo di massa. 3 parco guadagno: modesto guadagno. 4 Aurelia: strada statale che attraversa la Liguria. 5 cadenze infingarde: la cadenza del dialetto ligure diventa meno aspra. 6 nerbo morale: nonostante

l’avanzare di una nuova realtà cosmopolita, la gente ligure conserva il suo carattere dotato di energia morale e sobrietà. 7 understatement: attenuazione della realtà nella presentazione di un fatto. Il popolo ligure mostra un basso profilo, un atteggiamento volutamente alieno da enfasi e retorica.


30 del reddito e sperperatrice nelle spese generali e nei consumi; però, insomma,

sempre era benessere, e chi ce l’aveva poteva dirsi contento. […] Ormai a *** i ricchissimi venivano solo di passata, in corsa tra un Casinò e l’altro, e nello stesso modo veloce ci venivano gli operai delle grandi industrie, in “lambretta”, a ferragosto, con le mogli in pantaloni cariche dello zaino sul 35 sedile posteriore, a fare il bagno stipati nelle esigue strisce di spiaggia, ripar­ tendo poi per pernottare nelle pensioni più economiche d’altre località della costa. […] Ma questo era solo per lo stretto tempo delle ferie: la colonia stabile di *** era costituita da quel ceto medio-borghese che s’è detto, abitatori di agiati apparta­ 40 menti nelle proprie città e che qui tale e quale riproduceva (un po’ più piccolo, si sa, si è al mare) gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana. In questi appartamenti ai mesi freddi venivano a svernare i vecchi: genitori, nonni, suoceri che prendevano il sole di mezzogiorno sulle passeggiate a mare come già quarant’anni prima i granduchi 45 russi tisici e i milord. E alla stagione in cui un tempo i milord e le granduches­ se lasciavano la Riviera e si spostavano nelle ombrose Karlsbad e Spa per la cura delle acque, ora negli appartamenti balneari ai vecchi davano il cambio le signore coi bambini e per i mariti occupatissimi cominciava la corvée delle gite tra sabato e domenica.

Comprensione e analisi

Interpretazione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del brano. 2. Quali erano le caratteristiche della «vecchia gente di ***», prima dell’avvento del turismo? (rr. 1-12) 3. Quali cambiamenti ha comportato il turismo di massa sul paesaggio della Liguria? 4. Che cosa intende Calvino, quando parla di vita automobilistico-urbana? (rr. 36-40) 5. Nelle prime righe del testo, Calvino fa uso della figura retorica dell’anastrofe. Individuane le occorrenze e chiariscine la funzione espressiva. Calvino nella Speculazione edilizia tocca il tema, molto attuale, del deturpamento del paesaggio italiano per far spazio a nuove unità abitative che cancellano il profilo ecologico della nostra penisola. Commenta il brano proposto, elaborando una tua riflessione sulla rappresentazione del rapporto tra urbanizzazione e paesaggio naturale nella produzione letteraria di Calvino e/o di altri autori o forme d’arte a te noti.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Mario Barenghi, Risposta ai trentenni/ Calvino, un bilancio generazionale, 11 aprile 2016

Idea ottima, quella di Doppiozero1 di ricordare il trentesimo anniversario della scomparsa di Calvino raccogliendo interventi di giovani critici. L’inesorabile scor­ rere del calendario produce infatti, riguardo alla ricezione dell’opera calviniana, una situazione di particolare interesse. Attualmente ci sono ancora almeno quattro 5 generazioni di lettori (e di interpreti) che hanno avuto con Calvino rapporti di età diversificati. La prima, ormai anziana, è quella dei coetanei o quasi, dei fratelli minori: coloro che, condividendo buona parte della sua esperienza storica, hanno avuto modo di seguire il suo tragitto, se proprio non dagli inizi, almeno dagli anni Cinquanta. La seconda – la generazione alla quale appartengo anch’io – ha 10 conosciuto Calvino quando aveva già scritto la maggior parte delle sue opere, ma non era ancora considerato uno dei vertici della letteratura italiana del nostro Novecento. Di conseguenza ha potuto assistere a una radicale metamorfosi della sua immagine critica: da «minore» intelligente, di pregio, ma certo non rappresen­ tativo di quello che ancora non si chiamava mainstream2 letterario, ad autore di 15 prima grandezza e a volte perfino a paradigma di quarant’anni della nostra storia letteraria […]. Tanto per essere meno generico: nella mia carriera scolastica – io sono nato nel 1956 – m’è capitato di incontrare Calvino nell’antologia della scuola media (l’inizio del Barone, forse una novella di Marcovaldo), ma non al liceo; né il suo nome figurava ancora nei programmi universitari, almeno dove io ho studiato. 20 Quand’ero matricola, mi pareva che i maggiori narratori italiani del dopoguerra fossero Pavese, Vittorini e Moravia. La generazione successiva è quella di coloro ai quali Calvino è apparso da subito nelle vesti di scrittore già celebre e che – in linea di massima – lo hanno identificato soprattutto con le sue opere più recenti e più rarefatte, inclini ai giochi formali e 25 alle costruzioni meta-letterarie. Ai loro occhi Calvino è stato un monumento fin dall’inizio, con tutte le implicazioni negative che questo può comportare. […] Qui vorrei fare una considerazione generale. Anche nelle nostre esperienze di lettu­ ra c’è una specie di imprinting; e l’imprinting si può replicare nel rapporto con ogni singolo autore. Nella fattispecie, non è la stessa cosa leggere Calvino cominciando 30 da Se una notte d’inverno un viaggiatore e dalle Città invisibili (come mi pare sia accaduto a molti più giovani di me di quindici o vent’anni) ovvero, come a me è capitato, dalle due trilogie e dalle Cosmicomiche. Per inciso, la seconda trilogia è quella «realistica» – La speculazione edilizia, La nuvola di smog, La giornata d’uno scrutatore –, per la quale nel ’63 l’autore rivelò un possibile titolo che a me 35 piace molto, A metà del secolo (Sono nato in America… - Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Mondadori 2012, p. 93). E ovviamente è tutta un’altra cosa fare conoscenza di un autore esordiente o quasi – come è avvenuto a coloro che hanno letto come primo libro il Sentiero dei nidi di ragno o Ultimo viene il corvo – e cominciare a leggerlo da un’opera postuma, ad esempio le Lezioni americane. 40 L’ultima delle generazioni di lettori di cui dicevo è appunto quella che è arrivata 1 Doppiozero: rivista culturale e casa editrice digitale.

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2 mainstream: corrente principale.


dopo la scomparsa di Calvino, e per la quale Calvino non è quindi mai stato uno scrittore in attività. Gli approcci possono essere stati diversi; ma – come ha scritto Giacomo Raccis – Calvino è stato un minimo comune denominatore generazionale («Tutti sanno chi sia, tutti ne hanno letto almeno un libro, tutti ne portano un 45 ricordo, seppur vago, nella memoria»). Calvino si era nel frattempo insediato sta­ bilmente nei programmi delle superiori e nei corsi universitari, ed era ormai quasi del tutto privo del fascino della novità e della scoperta. La fama letteraria, si sa, è logorante; l’uso (e l’abuso) scolastico, così come gli eccessi di celebrazione critica, può provocare effetti di saturazione e di deteriora­ 50 mento, simili a quelli descritti da Lorenzo Alunni. Da questo punto di vista non ha tutti i torti Roberto Gerace quando sostiene che, scuola a parte, «l’opera di Calvino sta lentamente passando di moda». Tutto questo mi pare però abbastanza fisiolo­ gico: inclusi i più o meno gravi casi di travisamenti o distorsioni che seguono alle canonizzazioni (esemplare la vicenda del tema di maturità dell’anno passato, sul 55 quale mi è capitato di intervenire su queste pagine). D’altro canto, Calvino conti­ nua ad essere uno scrittore letto anche dai non appassionati di letteratura, come ricorda Elio Baldi; e continua ad avere convinti estimatori (Chiara Benetollo, Anna Mario, Lorenzo Marchese, Domenico Calcaterra). I più tendono a isolare alcuni aspetti salienti dell’opera calviniana. Il maggiore sforzo di sintesi mi pare sia com­ 60 piuto da Francesca Ditadi, sulla base dei temi del crollo e del caos: «Il confronto agonistico che Calvino instaura con la realtà sempre più informe si riflette in una scrittura che è caratterizzata da un lato da una tensione non risolta tra contrasti (incanto versus ironia; fantasia versus razionalità, immaginazione versus controllo critico), dall’altro da una assunzione di punti di vista stranianti che ancora oggi 65 restituiscono il senso di quella narrazione. Questi due aspetti, che tornano più volte nell’opera di Calvino, fanno affiorare la complessità di una riflessione letteraria solo in apparenza igienica, razionale e scientifica ma che invece, oltre al velo di Maia, si rivela magmatica e caotica: sono soprattutto le forme, dal tentativo realistico, alla favola fino alla combinatoria, a diventare spia di una convivenza di opposti 70 che, prima ancora di manifestarsi nel mondo, abitano l’autore stesso». Osservazio­ ni condivisibili, che si potrebbero correlare sia a un illuminante saggio di Vittorio Spinazzola del 1987 (L’io diviso di Italo Calvino, poi in L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento, Morano 1990) sia a un’acuta intuizione di Denis Ferraris sulla paura di Calvino di impazzire (Italo Calvino: l’Ordre et la Chair, in 75 “Revue des Études Italiennes”, t. 47, 3-4, 2001).

Comprensione e analisi

Produzione

1. Come classifica Mario Barenghi i lettori e gli interpreti della produzione letteraria di Calvino? 2. Che cosa intende Barenghi quando parla di «costruzioni meta-letterarie» (r. 25), in Calvino? 3. Che cosa significa la frase «Anche nelle nostre esperienze di lettura c’è una specie di imprinting; e l’imprinting si può replicare nel rapporto con ogni singolo autore»? (rr. 27-29) 4. Quali considerazioni vengono espresse da Barenghi in merito alla fama letteraria? 5. Spiega il significato delle osservazioni critiche di Francesca Ditadi esposte nel testo proposto. Dopo avere esposto le tue considerazioni sul rapporto tra fantasia e razionalità nell’opera di Calvino, sulla base delle tue conoscenze ed esperienze, elabora un testo nel quale sviluppi il tuo ragionamento sul potere che fantasia e razionalità esercitano sugli esseri umani.

Verso l’esame di Stato 1067


Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da E. Ferrero, Italo, Einaudi, Torino 2023, p. 5.

«[…] È stato ed è anche lui1 vittima di una delle tante semplificazioni di un’e­ poca che procede per etichette e luoghi comuni. Da anni il marchio Calvino è diventato sinonimo di leggerezza, e quando di leggerezza si parla è d’obbligo citarlo, ma sin dal 1998 Alberto Arbasino2 ci ha avvisato che si tratta di un 5 “pesante equivoco”: “Italo Calvino non era affatto leggero. Era molto serio, laborioso, parsimonioso, industrioso, assorto, concentrato, moderato, indaf­ farato, calcolatore, misuratore, come tutti i migliori liguri: Sbarbaro, Montale, Biamonti, nonché Caproni3”. […] Cesare Garboli4, recensendo le Lezioni americane nel 1988, ha scritto 10 che Calvino non era uno scrittore felice, perché “per conoscere la felicità, in letteratura, bisogna essere trasandati, approssimativi, involontari, casuali, tutto ciò che Calvino, al contrario, finì col detestare”; ma la scrittura non garantisce niente, tanto meno promesse di felicità». 1 lui: Ferrero si riferisce a Italo Calvino. 2 Alberto Arbasino: scrittore, giornalista e critico italiano (1930-2020).

3 Sbarbaro … Caproni: si tratta di grandi letterati liguri del Novecento. 4 Cesare Garboli: saggista e critico letterario italiano (1928-2004).

Sviluppa una tua riflessione sull’osservazione di Ernesto Ferrero relativa alla presunta “semplificazione” dell’opera di Calvino. Basandoti sulle tue conoscenze intorno all’autore, ritieni che il marchio Calvino sia sinonimo di leggerezza?

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Il Novecento (Seconda parte) CAPITOLO

21 Il teatro del Novecento

Nei primi decenni del Novecento il teatro non viene più impiegato per una rappresentazione mimetico-naturalistica, ma assume nuove forme e significati: nel teatro “epico” di Brecht la rappresentazione teatrale si propone di stimolare una presa di coscienza politica nello spettatore attraverso il valore didascalico dei drammi. Il “teatro dell’assurdo” di Beckett e Ionesco, negli anni Cinquanta, mette in scena, attraverso situazioni volutamente paradossali, il non senso che segna i rapporti sociali e l’esistenza stessa dell’uomo moderno. Nell’Italia del dopoguerra, dopo la grande lezione pirandelliana, unica figura rilevante è quella di Eduardo De Filippo, che riforma il teatro dialettale napoletano, superando la dimensione farsesca in favore di un ritratto amaro della società e della famiglia. Negli anni Sessanta e Settanta, anche in relazione al clima politico, in America e in Europa si rifiuta il tradizionale rapporto con il pubblico e vengono avviate sperimentazioni radicali. Negli stessi anni, in Italia, si affermano il teatro politico di Dario Fo, che nelle sue commedie sviluppa una dura critica del potere e realizza una rivisitazione della tradizione popolare giullaresca, e l’esperienza “religiosa” di Giovanni Testori.

1 Ladi unsperimentazione nuovo teatro 2 Il panorama del teatro italiano 1069


1

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 Il teatro del Novecento: linee di tendenza Il teatro e il contesto storico Nel Novecento il teatro è caratterizzato da un profondo rinnovamento: come avviene per le altre forme letterarie e artistiche, su di esso lasciano un segno evidente gli eventi e i cambiamenti dell’epoca, dalle vicende politiche alle trasformazioni sociali, alle ideologie, alle teorie filosofiche e artistiche fino alle nuove tecnologie; ne deriva una trasformazione dei temi e delle modalità della rappresentazione, ma anche uno stimolo a riflettere sulla funzione stessa dell’attività teatrale. Una dimensione “globale” Per i rapporti sempre più frequenti e intensi tra le diverse aree del mondo, anche nell’attività teatrale si crea una rete di scambi tra le concezioni e forme dello spettacolo sviluppate dalle differenti culture e civiltà. Se la produzione europea viene esportata in altri continenti, soprattutto nell’America del Sud e negli Stati Uniti, il teatro europeo trae elementi da altre tradizioni culturali. Questo processo di integrazione, continua nella seconda metà del secolo, contribuendo ad arricchire le forme e i contenuti della rappresentazione. Lo sperimentalismo come cifra dominante Il teatro del Novecento sviluppa e porta alle estreme conseguenze le tendenze innovatrici della fine Ottocento e dell’inizio del secolo (➜ PER APPROFONDIRE Il rinnovamento del teatro): a partire dalla messa in discussione dell’idea che il teatro debba rispecchiare la realtà, si afferma la ricerca di nuove formule espressive, che in alcuni casi arrivano a rivoluzionare gli elementi considerati fino ad allora canonici dello spettacolo teatrale, dai luoghi della rappresentazione (non più solo i teatri, ma anche le piazze, le fabbriche ecc.) alla concezione scenica, al ruolo stesso del regista e dell’attore. Linee di tendenza del teatro del Novecento

• influenza del clima politico-sociale e culturale • trasformazione delle modalità di rappresentazione online

Approfondire Il teatro delle avanguardie e lo sperimentalismo del primo Novecento

• scambio di esperienze fra l’Europa e gli scenari internazionali • sperimentazione nella ricerca espressiva e nei luoghi della rappresentazione

1070 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


PER APPROFONDIRE

Il rinnovamento del teatro Questi sono i principali ambiti entro cui si realizza il processo di rinnovamento del teatro del Novecento e le linee che lo caratterizzano e che restano il modello di riferimento per il nuovo millennio. • I luoghi della messa in scena A partire dall’inizio del Novecento, i teatri tradizionali sono spesso rifiutati dai registi e dai gruppi teatrali per il pubblico elitario a cui normalmente si rivolgevano, mentre la scelta di spazi alternativi (dalle fabbriche ai locali di intrattenimento come le birrerie, dagli ospedali psichiatrici a locali di fortuna come cantine e garage, fino alle piazze e vie delle città) è conseguente alla diversa funzione attribuita al teatro: lo spettacolo teatrale non è più solo occasione di divertimento o di stimolo alla riflessione, ma è concepito come “documento” e, nelle teorizzazioni più radicali, come intervento sociale e politico. • La contaminazione dei generi e le nuove tipologie di spettacolo I generi codificati dalla tradizione teatrale, come la commedia o il dramma borghese, sono oggetto di un profondo rinnovamento (e talora di commistione degli elementi che li contraddistinguevano) fino ad annullarne le caratteristiche originarie. In particolare, la commedia, tradizionalmente destinata a veicolare contenuti comici o a proporre un lieto fine, diventa rappresentazione delle problematiche psicologiche e della crisi dell’identità individuale, con situazioni e toni che nel teatro ottocentesco erano propri del dramma (esemplari in questo senso le commedie di Luigi Pirandello ➜ VOL 3A C17, ma anche di Eduardo De Filippo). In alcuni casi è il genere stesso a essere oggetto di parodia, per esprimere la critica nei confronti del mondo borghese (avviene nel teatro dell’assurdo di Ionesco) o utilizzato per la denuncia in chiave satirica dei conflitti sociali (è il caso di Dario Fo). Nell’arco del secolo si affermano, inoltre, nuovi tipi di spettacolo: alcuni, come accade per il cabaret, nato a fine Ottocento, alla funzione originaria di intrattenimento fanno seguire, attraverso anche la parodia e l’esagerazione, la rappresentazione critica della società; altri – è il caso del teatro epico di Brecht o delle diverse forme del teatro di “impegno” – si propongono come testimonianza di realtà sociali o di vicende storiche per stimolare la riflessione dello spettatore nei confronti del mondo in cui vive. • La rivoluzione della concezione scenica Il carattere di finzione della rappresentazione teatrale è evidenziato attraverso varie tecniche: gli attori scendono tra il pubblico o, viceversa, gli spettatori sono chiamati sulla scena a partecipare allo spettacolo che viene rappresentato, in entrambi i casi facendo cadere l’illusione della cosiddetta “quarta parete”, che nel teatro tradizionale separava il palcoscenico dal pubblico. Nel teatro di Brecht, la finzione scenica è messa in evidenza anche mediante il supporto di cartelli o di filmati e dalla stessa recitazione degli attori. • La critica alla centralità del testo scritto Nel corso del Novecento, il testo scritto non è un assoluto e la costruzione dello spettacolo avviene attraverso la collaborazione fra regista e attori o addirittura, nelle sperimentazioni più radicali (ad esempio nelle esperienze del «teatro laboratorio» e del «teatro collettivo»), di tutti gli operatori teatrali e anche degli spettatori. Cambia la struttura stessa dello spettacolo, in cui viene meno la storia come elemento conduttore e la rappresentazione può risultare frammentata e senza un vero e proprio

finale, in corrispondenza con la visione di una realtà senza un significato certo (come avviene nel «teatro dell’assurdo»). • La figura del regista e dell’attore Centrale del teatro del Novecento è la figura del regista, non più solo esecutore dell’opera del drammaturgo ma suo interprete attraverso allestimenti contrassegnati da una propria cifra stilistica. Il ruolo dell’attore è oggetto della riflessione di diverse teorie, dalle posizioni radicali di chi già all’inizio del Novecento ne sostiene la sostituzione con manichini e marionette o, all’opposto, alle indagini sulle potenzialità espressive del corpo umano che, attraverso un tirocinio particolare, si affiancano o addirittura si sostituiscono alla parola. La forma estrema dell’importanza assegnata al corpo è rappresentata dal «teatro danza», di cui il maggior esempio è rappresentato da Pina Bausch (1940-2009). Ci sono poi casi particolari (Carmelo Bene), che sono stati sia registi sia attori di testi classici reinterpretati secondo una visione personale. • La scenografia Un ruolo importante assume la scenografia, che si avvale di nuove tecnologie per le luci e per i suoni, ma anche dell’apporto di altre forme artistiche, in particolare del cinema e della danza. In alcune sperimentazioni è importante il ruolo delle arti visive (fino alla teorizzazione del «teatro immagine», sviluppato dalle avanguardie degli anni Settanta). All’opposto, il «teatro povero», teorizzato da Grotowski, rinuncia ai supporti scenografici e privilegia il rapporto diretto tra attore e spettatore. • Il ruolo della parola Al ruolo prioritario assegnato nel teatro ottocentesco alla parola si affianca la nuova importanza assunta dalla gestualità; ma non mancano sperimentazioni opposte (come avviene nell’ultima produzione di Giovanni Testori ➜ T6 OL) che incentrano lo spettacolo sulla capacità espressiva della parola, in cui si risolve lo spettacolo, con l’eliminazione dell’azione scenica e della scenografia per esaltare la forza e la potenza comunicativa della pura recitazione.

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1071


2 Il teatro didattico ed epico di Brecht La biografia Bertolt Brecht nasce nel 1898 ad Augusta, in Baviera, da una famiglia borghese. Nel 1918 partecipa nella sua città ai moti rivoluzionari che contribuirono alla fine dell’impero tedesco e all’avvento della repubblica. Nel 1920 si trasferisce a Monaco, dove fa rappresentare con successo il dramma Tamburi nella notte (1919), ambientato sullo sfondo contemporaneo della rivolta spartachista berlinese. Nel 1924 si avvicina al marxismo e si trasferisce a Berlino, dove l’attività culturale e teatrale negli anni del dopoguerra era particolarmente intensa: qui lavora con registi famosi (in particolare Erwin Piscator), ha rapporti d’amicizia con musicisti importanti, con scrittori e con il pittore espressionista Georg Grosz. Acquista una notorietà europea con L’opera da tre soldi (1928), in cui vengono rappresentati il cinismo e la crudeltà della borghesia che antepone il denaro e il profitto a ogni altro interesse o sentimento. Anche in Ascesa e caduta della città di Mahagonny (192829), L’eccezione e la regola (1930), Santa Giovanna dei macelli (1929-30) Brecht affronta le problematiche sociali e politiche connesse al capitalismo. All’ascesa al potere del nazismo nel 1933 lascia la Germania; vive in Danimarca, in Svezia e Finlandia, da cui nel 1941, poco prima dell’arrivo dell’esercito nazista, fugge a Mosca e da qui riesce a raggiungere gli Stati Uniti, dove lavora per l’industria cinematografica hollywoodiana. Nel periodo dell’esilio scrive i suoi drammi più importanti: Vita di Galileo (1938-39), Madre Courage e i suoi figli (1939), Il cerchio di gesso dal Caucaso (1944). Dopo l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima scrive una seconda edizione profondamente rinnovata di Vita di Galileo (1945-46), emblema dello scienziato del XX secolo i cui risultati servono alla guerra, alla morte, mentre la scienza deve porsi come unico scopo quello di alleviare la fatica dell’umanità. Nel 1947, inquisito dalla commissione per le attività antiamericane, torna in Europa e quindi nella Germania occidentale (ma non ottiene il visto di soggiorno). Si stabilisce, infine, a Berlino Est, dove fonda la compagnia teatrale “Berliner Ensemble”, che dirigerà fino al 1956, anno della morte. In Italia L’opera da tre soldi viene messa in scena nel 1930 in versione ridotta ma, dopo l’esilio di Brecht dalla Germania, alleata del regime fascista, il suo teatro non viene più rappresentato. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, a partire dal 1950, i testi brechtiani ricompaiono sui palcoscenici italiani; dal 1956 iniziano gli allestimenti del Piccolo Teatro di Milano ad opera di Giorgio Strehler (1921-1997) che porteranno entro gli anni Settanta alla rappresentazione di quasi tutta la sua drammaturgia. Il teatro epico Fin dagli anni Trenta, Brecht delinea una nuova concezione di teatro, che egli definisce «epico». Questa formula riguarda in particolare le opere che Brecht scrive verso la fine degli anni Trenta, quando già da alcuni anni aveva lasciato la Germania e alle quali corrisponde la sua maturità artistica: tra esse la celebre Vita di Galileo, che ha al centro il dramma del grande scienziato, ma soprattutto i rapporti fra scienza e potere (➜ VOL 2A C3) e Madre Courage e i suoi figli (1939), da molti considerata il suo capolavoro (➜ T1 ). In seguito alla sua adesione al marxismo, Brecht matura la convinzione che il teatro debba diventare uno strumento didattico, capace di attivare negli spettatori la formazione di una coscienza politica, un evento “collettivo”, come nel teatro greco. A differenza, però, della tragedia greca – che si propone di realizzare negli spettatori la catarsi (dal greco katharsis, “purificazione”) facendo leva sulle passioni ed emozioni – il teatro di Brecht vuole indurre nello spettatore un giudizio critico su ciò che

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vede rappresentato (le vicende storiche e i contesti sociali, di cui sono parte i drammi individuali) così che impari a confrontarlo con la realtà in cui vive. Perché il processo di maturazione politica dello spettatore si realizzi, la rappresentazione teatrale deve essere, appunto, «epica», cioè deve mettere in scena non una vicenda nel suo accadere, ma la narrazione problematica di quella vicenda. Di fronte a essa lo spettatore dovrà assumere l’atteggiamento dell’osservatore, senza mai essere coinvolto emotivamente: mantenere il controllo razionale e il distacco critico rispetto alla vicenda rappresentata è infatti necessario perché lo spettatore possa giudicare e imparare. Lo «straniamento» Per ottenere questo risultato, Brecht ricerca la rottura dell’illusione scenica, così che lo spettatore sia consapevole che lo spettacolo è una finzione e non una riproduzione della realtà. Nella definizione stessa di Brecht, «straniamento» è tutto ciò che impedisce l’immedesimazione del pubblico; nei momenti cruciali della rappresentazione il drammaturgo inserisce degli elementi che costituiscono una sorta di segnale in grado di attivare la riflessione dello spettatore: ad esempio, cartelli che spiegano la situazione, canzoni cantate in scena a commento dei fatti (come nel teatro d’opera o di varietà: famosa la Ballata di Mackie Messer nell’Opera da tre soldi), cambiamenti di scena realizzati a scena aperta e con gli elementi meccanici in vista. Anche l’attore, nella concezione brechtiana non deve mai immedesimarsi nel personaggio, come nel teatro realistico di Stanislavskij (➜ VOL 3A C8), ma anzi deve accentuare la distanza fra il proprio ruolo di attore e la figura del personaggio rappresentato. Il teatro didattico ed epico di Brecht

• È uno strumento didattico • Si configura come un evento collettivo • La rappresentazione è «epica»: mette in scena non un accadimento, ma la narrazione problematica di esso • Lo spettatore diventa osservatore senza coinvolgimento emotivo né processo di immedesimazione («straniamento»)

Madre Courage: la storia di un’“anti-eroina” Madre Courage Il dramma Madre Courage e i suoi figli è composto da Brecht nel 1939, in coincidenza con l’inizio della seconda guerra mondiale, contesto a cui il tema dell’opera è volutamente collegato. La vicenda si svolge durante la guerra dei Trent’anni (1618-1648) tra gli stati cattolici e protestanti d’Europa. La protagonista Anna Fierling, detta Madre Courage (“coraggio”), è una vivandiera degli eserciti che segue con il suo carro, cercando di guadagnarsi la vita con la guerra, nella convinzione di poter sfruttare a proprio vantaggio il conflitto. Il soprannome allude alla caparbietà con cui la protagonista sfida i cannoni pur di vendere la sua povera merce. Il dramma Madre Courage e i suoi figli si propone di rendere lo spettatore consapevole della logica economica sottesa alle guerre decise dai potenti, in cui i popoli però si fanno coinvolgere nell’illusione di poter trarre a loro volta dei vantaggi. La struttura e la vicenda L’opera è divisa in 12 scene di varia lunghezza, corrispondenti a momenti diversi del conflitto, alcune ambientate anche a distanza di anni rispetto alla precedente; ogni scena è introdotta da una didascalia che riassume gli avvenimenti e ne indica il tempo e il luogo. Nella recitazione si inseriscono La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1073


canzoni interpretate da Madre Courage o da altri personaggi (le strofe in alcuni casi sono intercalate da commenti in prosa) che offrono una pausa su quanto lo spettatore vede rappresentato, per produrre l’effetto di straniamento teorizzato da Brecht. La rappresentazione-narrazione ha inizio nel 1624, quando la protagonista inizia a seguire con il suo carro un reggimento dell’esercito svedese in Polonia; insieme a lei ci sono i tre figli, avuti da padri diversi durante i suoi viaggi: Eilif e Schweizerkas, che l’aiutano a tirare il carro, e Kattrin, che è muta. Nonostante l’opposizione della madre, i due maschi si fanno convincere ad arruolarsi, lasciandola sola nel suo commercio con Kattrin. Nel corso della guerra Madre Courage antepone sempre l’interesse economico a ogni altro valore o sentimento: vive della guerra e spera che continui, nonostante i suoi due figli siano giustiziati. Il finale è giocato sulla contrapposizione fra la protagonista, con la sua accettazione pragmatica della logica della guerra, e Kattrin, che si comporta eroicamente: battendo sul suo tamburo, riesce ad avvertire gli abitanti della città protestante di Halle dell’attacco notturno dei soldati cattolici e per questo è uccisa. Madre Courage si ritrova sola, con il carro malridotto e poche merci; decide tuttavia di proseguire il suo cammino al seguito di un nuovo reggimento, spinta dall’imperativo per lei fondamentale del guadagno: «Devo riprendere il mio commercio».

Brecht durante le prove per una rappresentazione di Madre Courage del 1951.

Madre Courage in un allestimento a Londra nel 2009.

Locandina del film Madre Coraggio e i suoi figli (Repubblica Democratica Tedesca, 1961)

Madre Courage e i suoi figli GENERE

Dramma

STRUTTURA

12 scene

DATA

1939

CONTESTO STORICO

Guerra dei Trent’anni (1618-1648)

STILE

Logica economica che regola le guerre

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Bertolt Brecht

T1

Il “giusto” prezzo per la vita di un figlio Madre Courage e i suoi figli, scena III

B. Brecht, I capolavori, vol. I, a c. di H. Riediger, trad. di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino 1998

Il testo – una parte dalla scena III di Madre Courage – illustra in modo esemplare la concezione di Brecht secondo cui la logica economica, che è all’origine delle guerre, finisce per prevalere sui valori e sui sentimenti, in questo caso addirittura su quello materno. Nell’episodio, la protagonista perde il figlio perché vuole contrattare il prezzo del riscatto richiesto per la sua liberazione.

[L’accampamento del reggimento protestante, di cui è Madre Courage è la vivandiera, è attaccato dall’esercito cattolico. Fatti prigionieri, la donna sporca con la cenere il viso della figlia Kattrin per evitare che le venga fatta violenza e impone al figlio Schweizerkas (che ha indossato la divisa ed è diventato furiere) di disfarsi della cassa del reggimento, rimasta in sua custodia nella confusione del momento; ma lui la nasconde proprio sul suo carro. Mentre la protagonista si adatta a diventare vivandiera dei cattolici, Schweizerkas – che nell’opera rappresenta il valore dell’onestà – cerca di fuggire per consegnare la cassa al proprio superiore. Sorpreso da due soldati nemici e arrestato, riesce però a buttare la cassa nel fiume. Madre Courage viene informata che Schweizerkas sta per essere condannato a morte, ma può ancora essere salvato pagando le guardie: si convince quindi a vendere il suo carro con la mercanzia. La potenziale acquirente è Yvette, una giovane diventata prostituta al seguito dell’esercito per una delusione d’amore.] MADRE COURAGE Impegnarlo voglio, non venderlo, non precipitiamo; un carro simile, non lo si ricompra facilmente in tempo di guerra. YVETTE (delusa) Solo impegnarlo? Pensavo fosse in vendita. In questo caso non so se mi interessa. [...] MADRE COURAGE Lo impegno, e basta. YVETTE Credevo avesse bisogno di soldi. MADRE COURAGE (decisa) Ho bisogno di soldi, ma piuttosto che venderlo mi faccio rientrar le gambe in corpo a forza di cercare un offerente. Mia cara, noi, col carro, ci viviamo. È un’occasione per te, Yvette. [...]. YVETTE [...] E il carro, quando lo vorrebbe ricomprare, se riesce a trovare i quattrini? MADRE COURAGE Posso riscattarlo fra due settimane, forse fra una. YVETTE Non so decidermi. [...] (ritorna dalla Courage) Il mio amico me lo consiglia1. Mi dia una ricevuta e ci scriva su che il carro, dopo due settimane, diventa di mia proprietà, con tutto quel che c’è dentro. Facciamo subito l’inventario, e i duecento fiorini2 glieli porterò dopo. [...] (Yvette sale sul carro) Ma di stivali ce n’è pochi. MADRE COURAGE Yvette, non c’è tempo, ora, di far l’inventario del tuo carro, ammesso che sia tuo. Mi hai promesso di parlare con quel brigadiere per il mio Schweizerkas, non c’è da perdere un minuto, mi han detto che fra un’ora lo portano alla corte marziale. 1 Il mio... consiglia: Yvette avrà i soldi da un anziano colonnello di cui è diventata nel frattempo l’amante; l’accordo è

che, se Madre Courage non restituirà la cifra entro due settimane, il carro diventerà suo.

2 fiorini: moneta svedese.

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1075


YVETTE Vorrei contare almeno le camicie di lino. MADRE COURAGE (tirandola giù per la gonna) Brutta iena, si tratta di Schweizerkas! E non fiatare da dove vengono i soldi3, in nome di Dio, fai come se fosse stato il tuo amato bene a darteli, o è finita per tutti noialtri: perché lo abbiamo favorito. YVETTE A quello là senza un occhio4 gli ho dato appuntamento nel bosco. Sarà già là che mi aspetta, di certo. 5 CAPPELLANO E non c’è bisogno che dia subito tutti e duecento i fiorini, arrivi fino a centocinquanta, basterà. MADRE COURAGE Son suoi i soldi? Mi faccia la cortesia, non s’immischi. Stia tranquillo, la sua zuppa di cipolle non la perderà. Corri, non tirar troppo sul prezzo, si tratta della vita. (Spinge via Yvette). CAPPELLANO Non volevo metter becco: noi, però, come faremo a tirare avanti? Lei ha sulle spalle una figliuola inabile al lavoro. MADRE COURAGE E la cassa del reggimento, intelligentone6? Le spese gliele dovranno conteggiare, no? CAPPELLANO Ma quella là7 saprà far bene la sua parte? MADRE COURAGE È interesse suo che io spenda i suoi duecento fiorini e che il carro resti a lei. Muore dalla voglia di averlo, chissà per quanto tempo ancora avrà in briglia8 il suo colonnello. [...] Penso che me lo libereranno. Grazie al cielo si lasciano ungere9. Non sono lupi, son uomini; e tirano ai soldi. Davanti agli uomini, la corruzione è come la misericordia davanti a Dio. La corruzione è la nostra unica speranza. Finché c’è quella, i giudici sono più miti, e in tribunale perfino un innocente può cavarsela10. YVETTE (arriva ansimando) Ci stanno solo per duecento. Ma dobbiamo sbrigarci: tra poco dovranno consegnarlo. La miglior cosa è che io vada subito dal colonnello insieme con quello senza un occhio. Ha confessato di aver avuto la cassa, l’han tormentato coi ferri ai pollici11. Ma quando s’è accorto che lo inseguivano, l’ha buttata nel fiume, e così, addio cassa. Devo correre a farmi dare i soldi dal mio colonnello? MADRE COURAGE Addio cassa? E io dove li ritrovo i miei duecento fiorini? YVETTE Ah, pensava di pigliarseli dalla cassa, eh? M’avrebbe proprio fregata bene! No no, non si illuda. Deve pagare, se vuol riavere Schweizerkas. O adesso vuole che lasci perdere ogni cosa, perché lei si possa tenere il suo carro? MADRE COURAGE A questo non ci avevo proprio pensato davvero. Non insistere, l’avrai il tuo carro, l’ho già mollato12, erano diciassett’anni che ce l’avevo. Lasciami riflettere un momento, è tutto così all’improvviso... Che faccio? Duecento fiorini non posso pagarli, dovevi tirar sul prezzo. Ho bisogno di avere qualcosa in mano13, altri3 non fiatare... soldi: Madre Courage raccomanda a Yvette di non rivelare il suo legame con il figlio Schweizerkas, temendo che quelli che hanno avuto rapporti con lui possano essere arrestati. 4 senza un occhio: il soldato che Yvette pensa di poter corrompere per far rilasciare Schweizerkas. 5 cappellano: è il pastore protestante del reggimento rimasto con Madre Courage dopo che l’accampamento è stato conquistato dai cattolici.

6 intelligentone: l’appellativo rivolto in forma offensiva al cappellano vuol fargli capire che lei ha già fatto i suoi conti, senza aspettare il suo suggerimento: pensa di riavere i soldi usati per il riscatto del figlio dalla cassa del reggimento svedese che Schweizerkas ha nascosto. 7 quella là: Yvette. 8 in briglia: in suo potere, sotto il suo controllo. 9 ungere: pagare. 10 in tribunale... cavarsela: il parados-

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so (l’innocente in realtà dovrebbe essere sicuro della propria assoluzione) rivela la sfiducia della donna nella possibilità di avere giustizia, se non pagandola. 11 Ha confessato... pollici: Schweizerkas è stato sottoposto a tortura e ha confessato di aver avuto con sé la cassa. 12 l’ho già mollato: Madre Courage sostiene di essersi rassegnata a perdere il carro. 13 qualcosa in mano: una somma per poter vivere.


menti il primo venuto mi può buttare in mezzo alla strada come uno straccio. Vai e di’ che do centoventi fiorini, o nulla: e ci rimetto anche il carro. YVETTE Non ci staranno. Quello senza un occhio ha una gran fretta e si guarda sempre alle spalle, tanto è nervoso14. Non è meglio se do tutti i duecento? MADRE COURAGE (disperata) Non posso! Sono trent’anni che lavoro. Questa qui ne ha già venticinque ed è ancora senza marito, devo pur pensare anche a lei! Non insistere, so che cosa faccio. Di’: centoventi, o nulla. YVETTE Lo sa lei meglio di me. (Se ne va in fretta). Madre Courage non guarda né il cappellano né sua figlia. Si siede, e aiuta Kattrin a pulire i coltelli. [...] Puliscono in silenzio i coltelli. Improvvisamente Kattrin scoppia in singhiozzi e corre dietro il carro. YVETTE (arriva di corsa) Non ci stanno. L’avevo avvertita. Quello senza un occhio ha voluto andarsene subito, ha detto che non valeva la pena. Da un momento all’altro, ha detto, si sentirà suonare il tamburo, che vuol dire che il giudizio è già pronunciato. Ho offerto centocinquanta. Non ha battuto ciglio. Con molta fatica, insistendo, son riuscita a convincerlo d’aspettare, che volevo venire ancora qui, a parlarle. MADRE COURAGE Digli che gliene do duecento. Corri. (Yvette corre via. Siedono in silenzio. Il cappellano ha smesso di pulire i bicchieri). Ho paura che ho discusso troppo. Rullo di tamburo in lontananza15. Il cappellano si alza, va verso il fondo. Madre Courage rimane seduta. Buio. I tamburi cessano. Torna la luce. Madre Courage è seduta come prima. YVETTE (appare, pallidissima) Bel lavoro che ha fatto col suo tirar di prezzo e la smania di non perdere il carro. Undici pallottole si è preso, non una di meno. Non vale la pena che mi occupi più delle sue faccende. Ma, a quanto ho creduto di capire, non sono persuasi che la cassa sia davvero nel fiume. Sospettano che sia qui, che lei fosse d’accordo, e voglion portarlo qui, per vedere se lei si tradisce. Ho pensato che la dovevo avvertire: faccia finta di non conoscerlo, altrimenti ci andate di mezzo tutti. Mi vengono dietro, meglio che glielo dica subito. Devo portar via Kattrin? (Madre Courage scuote la testa) Lo sa? Forse non ha sentito i tamburi o non ha capito. MADRE COURAGE Sa tutto. Vai a prenderla. Yvette va a prendere Kattrin, che si avvicina a sua madre e le resta accanto, in piedi. Madre Courage le prende la mano. Escono dalla radura del bosco due portantini con una barella, su cui c’è qualcosa nascosto da un lenzuolo16. Il brigadiere cammina accanto. Posano la barella. BRIGADIERE Qui c’è uno che non sappiamo chi sia. Ma dev’essere registrato col nome suo, perché tutto sia in ordine. Ha mangiato da te. Guarda se lo riconosci. (Toglie il lenzuolo) Lo riconosci? (Madre Courage scuote la testa). Come? Non l’avevi mai visto prima di quella volta che è venuto a mangiare da te? (Madre Courage scuote la testa). Alzatelo. Portatelo allo scorticatoio17. Non ha nessuno che lo conosce. Lo portano via.

14 si guarda... nervoso: per il timore che la trattativa illecita venga scoperta. 15 Rullo... lontananza: è il segnale che il

giudizio è stato pronunciato.

16 qualcosa... lenzuolo: il corpo di

17 scorticatoio: il luogo dove si scuoiano gli animali macellati.

Schweizerkas.

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1077


Analisi del testo Le contraddizioni di Madre Courage e la logica della guerra Tema principale della scena è il carattere contraddittorio della protagonista, in cui coesistono i sentimenti di madre e quelli di affarista; sono però questi ultimi a dominare, perché attraverso questo personaggio l’autore vuole mostrare la spietatezza della logica economica che, in particolare durante la guerra, rende gli uomini peggiori. L’attaccamento della protagonista al suo carro e alle sue mercanzie diventa, in alcuni momenti dell’opera, superiore a ogni sentimento o valore, come in questo episodio, in cui la paura di perdere ciò che ha accumulato e di finire in miseria arriva a prevalere addirittura sul legame materno. Nella concezione del drammaturgo, la condanna della guerra da parte dello spettatore deve essere un effetto non della compassione suscitata dalle vittime ma della comprensione dei meccanismi sottesi ai conflitti, cioè delle ragioni materiali che riguardano non solo i potenti che le ammantano di princìpi ideali (la libertà, la difesa o l’affermazione della religione), ma anche il popolo, incarnato da Madre Courage.

Il carro: un oggetto simbolico Non è un caso che il carro resti in scena dall’inizio alla fine: la sua presenza traduce in un’immagine oggettiva la concezione del drammaturgo, secondo cui la merce è il fattore dominante nella società capitalistica. Per Madre Courage il carro non rappresenta semplicemente la fonte di guadagno per la sopravvivenza o il capitale su cui fare affidamento: i continui riferimenti indicano che l’oggetto materiale assume un significato simbolico e tende a coincidere con la sua stessa vita. Dal momento che per lei anche la vita ha un metro di valutazione economico, la perdita del carro significa il venir meno di una parte di sé e della propria identità. Il carro ha un valore simbolico anche per Yvette: rappresenta la possibilità di porre fine alla sua condizione di prostituta raggiungendo una certa rispettabilità sociale, e per questo scopo lascia che in lei l’avidità e il desiderio di possesso prevalgano su ogni altro sentimento.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la scena in 5 righe, indicando il contesto storico in cui si inserisce. COMPRENSIONE 2. Nonostante sia muta, Kattrin, la figlia di Madre Courage, riesce a comunicare il proprio stato d’animo. In che modo? Perché, a tuo avviso, il drammaturgo sottolinea la sua reazione emotiva? ANALISI 3. Quali caratteristiche di Madre Courage emergono dalle didascalie? Noti delle costanti o dei contrasti? Individuali e interpretali.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di max 3 minuti, spiega il messaggio che l’autore assegna all’immagine conclusiva della scena, in cui la madre finge di non riconoscere il figlio giustiziato. SCRITTURA 5. Nel passo emerge quanto la logica affaristica – ancor più durante i conflitti bellici – prevalga sul senso di solidarietà umana e sui sentimenti più profondi. La letteratura di tutti i tempi ha rappresentato l’esecrabile attitudine dell’uomo all’interesse personale e all’accumulo di beni materiali. È questo il tratto distintivo del genere umano? Esponi le tue riflessioni in un testo di circa 20 righe.

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3 Il «teatro dell’assurdo» Significato di un’etichetta L’espressione «teatro dell’assurdo» è stata coniata per indicare una serie di opere, composte in prevalenza negli anni Cinquanta, accomunate dal tema della mancanza di senso della vita umana, che viene reso soprattutto attraverso il carattere paradossale delle situazioni rappresentate. L’“assurdità” del mondo moderno, l’impossibilità per l’uomo di trovare un significato alla sua stessa vita, erano stati teorizzati già negli anni Trenta dalla filosofia esistenzialista e rappresentati nei romanzi di Sartre e Camus (➜ SCENARI, PAG. 57). Mentre, però, il problematico rapporto dei protagonisti con la realtà era espresso in articolate argomentazioni, nel “teatro dell’assurdo” il non senso della realtà è messo direttamente in scena senza la possibilità di dare una spiegazione razionale, perché ne è coinvolto il linguaggio stesso. Gli autori più rappresentativi del teatro dell’assurdo sono Eugène Ionesco e Samuel Beckett. Le rispettive opere, pur nella loro diversità, hanno in comune la casualità delle situazioni rappresentate e la strutturazione in quadri scenici senza una logica narrativa; nelle storie che sembrano assurde e nei dialoghi fatti di stereotipi e di frasi illogiche si riflettono l’impossibilità di una vera comunicazione e insieme l’inadeguatezza della cultura a dare risposte alle domande esistenziali.

Eugène Ionesco La biografia Eugène Ionesco nasce a Bucarest nel 1909 da padre rumeno e madre francese. La famiglia si trasferisce quasi subito a Parigi, ma ben presto il padre ritorna in Romania, seguìto poi dalla moglie. La scelta di dedicarsi a studi letterari acuisce il conflitto con la figura paterna: nel 1938 Eugène ritorna definitivamente a Parigi, dove lavora presso una casa editrice e pubblica un volume di versi e alcuni articoli. Nel 1950 Ionesco scrive la sua prima commedia, La cantatrice calva, rappresentata l’anno successivo in un teatro praticamente vuoto; compone poi La lezione (1951) e Le sedie (1951): anche alle prime rappresentazioni di questi testi il pubblico è scarso e abbandona il teatro prima della conclusione. Ma a partire dalla metà degli anni Cinquanta le commedie di Ionesco cominciano a incontrare il gusto del pubblico e sono rappresentate nei teatri a livello internazionale: ora La cantatrice calva è un grandissimo successo, viene recitata per decenni sempre nello stesso teatro parigino; in Italia è rappresentata per la prima volta nel 1956 al Piccolo di Milano. L’opera più importante della produzione successiva è Il rinoceronte (1959). Nel 1970, con la nomina a membro dell’Accademia di Francia, Ionesco riceve il più prestigioso riconoscimento francese. Muore a Parigi nel 1994. Le opere L’opera più nota di Ionesco è La cantatrice calva (La cantatrice chauve, 1950) in cui l’autore sovverte i princìpi tradizionali del testo teatrale: non c’è un intreccio logico di fatti, i personaggi non hanno un’identità psicologica definita e anzi sono dubbiosi di quella che dichiaEugène Ionesco nel 1985.

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online

rano; i dialoghi risultano banali e incoerenti. Mentre gli avvenimenti veri e propri sono scarsi e irrilevanti, al centro dell’opera ci sono i dialoghi che si svolgono fra Ionesco parla del suo teatro e non i personaggi: parlano tra loro in continuazione, seguendo i luoghi comuni delle solo normali conversazioni quotidiane, ma volutamente stravolti e resi paradossali così da costituire a tratti dei veri e propri nonsense . Lo spettatore, inizialmente divertito, poi è sempre più disorientato: scopo del drammaturgo è dimostrare l’assurdità e l’incoerenza della vita contemporanea, dominata da convenzioni sociali in cui i rapporti interpersonali (addirittura quello tra marito e moglie) risultano inconsistenti e regolati da discorsi codificati che non trasmettono né reali informazioni né emozioni ma solo vuoti stereotipi, accumulati per nascondere il vuoto esistenziale. Nell’opera di Ionesco Il rinoceronte (1959), i temi della massificazione del pensiero, dell’inerzia della mente e dei sentimenti, che secondo l’autore caratterizzano la società contemporanea, sono trasposti in una dimensione fantastica, attraverso la trasformazione degli abitanti di una cittadina in rinoceronti, fenomeno che dopo il primo momento di stupore viene accettato come normale online e anzi difeso e sostenuto: nella prospettiva del drammaturgo, T2 Eugène Ionesco Una “normale” conversazione questa è la situazione favorevole all’affermazione delle dittaLa cantatrice calva, scena I ture. Video e Audio

La cantatrice calva GENERE

opera teatrale

DATA

1950

CONTENUTI

situazioni paradossali improntate al nonsense.

Parola chiave

Il rinoceronte GENERE

opera teatrale

DATA

1959

CONTENUTI

massificazione della società

nonsense Il termine indica un’espressione – o una parola o una frase – che risulta priva di significato. Può consistere in un neologismo, risultato dalla deformazione o dalla combinazione di una o più parole o suoni; oppure in un’intera frase, in cui si accumulano parole connesse senza logica o più suoni accostati (come avviene in

alcune parti dell’Ulisse e nel Finnegans Wake di Joyce); oppure in un’espressione frutto del sovvertimento del principio logico di non contraddizione (a un’affermazione si affianca la sua negazione, date entrambe per vere) o traendo conclusioni arbitrarie da una premessa, come avviene nella Cantatrice calva.

1080 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


Samuel Beckett La biografia Nato nel 1906 a Dublino da una famiglia di rigorosa fede protestante, Samuel Beckett frequenta il prestigioso Trinity College, dove si laurea con successo nel 1927 in letteratura. A Parigi (nel 1928 vi ha ottenuto un lettorato di inglese) conosce James Joyce, di cui diventa amico e segretario: lo scrittore irlandese, già famoso, rappresenterà il suo modello di artista. Dopo un periodo di insegnamento in Irlanda, alla fine degli anni Trenta si trasferisce definitivamente a Parigi per sfuggire al problematico rapporto con la madre che, con la sua intransigenza morale, gli aveva provocato un profondo complesso psicologico. Alla pubblicazione di alcuni saggi (in particolare su Proust, Joyce e Dante) segue la produzione narrativa: il primo romanzo, Murphy (1938) è però un insuccesso. È di questi anni l’amicizia con gli artisti Marcel Duchamp e Francis Picabia. Durante la Seconda guerra mondiale entra nelle file della Resistenza francese contro l’occupazione nazista. Nel dopoguerra scrive in francese la trilogia narrativa Molloy, Malone muore e L’innominabile (pubblicata tra il 1951 e il 1953); sempre in francese compone le opere teatrali: Aspettando Godot (1952), Finale di partita (1957), L’ultimo nastro di Krapp (1958), Giorni felici (1961). Nel 1969 riceve il premio Nobel. Muore a Parigi nel 1989. La visione pessimista Anche le commedie di Beckett hanno un carattere provocatorio e infrangono vistosamente gli schemi tradizionali: non c’è vera azione e i personaggi, nei suoi testi principali, sono imprigionati in una situazione stagnante, da cui vorrebbero uscire, ma senza che si produca mai un cambiamento. La visione che ispira il teatro di Beckett è profondamente pessimista; secondo il filosofo tedesco Theodor Adorno (1903-1969), le sue opere esprimono la crisi irreversibile di valori della civiltà occidentale conseguente alle esperienze della seconda guerra mondiale, dei lager, della bomba atomica: l’uomo contemporaneo è alla ricerca di un significato che risulta inaccessibile, mentre i tentativi di dare una risposta, religiosa o filosofica, appaiono insulsi e inutili. A questa radicale negatività corrisponde un teatro scarno, nel quale si muovono personaggi dalla personalità indefinita, con una condizione esistenziale incerta, incapaci non solo di agire ma persino di comunicare veramente tra loro: le battute, ridotte all’essenziale e in alcuni momenti addirittura sconnesse, servono a riprodurre l’assurdo dell’esistenza e l’angoscia che ne deriva. Le opere principali In Aspettando Godot (En attendant Godot, 1952), l’opera più rappresentata e famosa del teatro beckettiano, i protagonisti, Vladimiro ed Estragone, due vagabondi, aspettano un misterioso personaggio, Godot, che non hanno mai visto e da cui sperano di ottenere un aiuto, senza definirne la natura; ma la loro attesa resta vana. I due dialogano continuamente, ma si tratta di una conversazione che non comporta una reale comunicazione (➜ T3 ). In quello che molti considerano il suo capolavoro, Finale di partita (Fin de partie, 1957), è la stessa dimensione fisica dei protagonisti, Hamm e Clov, a risultare degradata e insopportabile: il primo è cieco e paralizzato nelle gambe, l’altro può camminare ma non sedersi; i due sembrano desiderare solo che quel tormento finisca, ma la vita continua secondo gli stessi rituali, generando un senso di noia e di disperazione: l’unica emozione è data dai ricordi del passato, mentre il presente e il futuro risultano privi di interesse e di speranza. La commedia diventa una metafora della condizione esistenziale, dominata dalla fatica del vivere e dal procedere del tempo meccanico e ripetitivo, nell’assenza di un significato. Le opere successive, Giorni felici (Oh les beaux jours, 1961) e Va e vieni (Va-et-vient, 1965) procedono La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1081


verso il dissolvimento della forma teatrale, che diventa sempre più semplificata, immobile, simbolo di un mondo senza eventi, in cui la fatica e la vanità del vivere portano progressivamente al silenzio; questa è la situazione rappresentata nella pièce Atto senza parole (Act sans paroles, 1957-59) e in Film (1965), cortometraggio muto interpretato dal grande comico Buster Keaton (1895-1966). La trama di Aspettando Godot Protagonisti sono due vagabondi, Vladimiro ed Estragone, che si trovano in una strada di campagna completamente deserta: in piedi, a fianco di un albero scheletrico, aspettano Godot, che peraltro non sanno se e quando verrà. Nel primo atto l’azione scenica si articola intorno al loro dialogo: i due in realtà sembrano parlare per far passare il tempo; a interrompere l’attesa, arrivano altri due strani personaggi: Pozzo e il suo servo Lucky, che è tenuto legato a una cinghia e trascina valigie cariche di sabbia; Pozzo vorrebbe venderlo, ma prima gli ordina di ballare davanti a Vladimiro ed Estragone e poi di pensare, cosa che gli è possibile solo quando ha in testa il cappello. Quando Pozzo e Lucky escono di scena, entra un ragazzo e annuncia che Godot verrà a trovarli il giorno dopo. Nel secondo atto, Vladimiro ed Estragone si ritrovano al mattino seguente: come all’inizio del primo atto, Estragone durante la notte è stato percosso da sconosciuti e non ricorda nulla. Di nuovo arrivano Pozzo e Lucky, ma questa volta i ruoli sono invertiti ed è Lucky a tirare Pozzo, diventato cieco e bisognoso di aiuto; poi ripartono senza sapere verso quale meta. Compare il Messaggero di Godot, che non riconosce Vladimiro ed Estragone, ma annuncia di nuovo che Godot arriverà domani. I due amici pensano di impiccarsi all’albero, ma la corda che provano si rompe; dopo un momento di silenzio, si propongono di ritornare il giorno dopo per un altro tentativo, poi pensano di rompere l’amicizia e quindi di aspettare di nuovo Godot. Alla fine decidono di andarsene, ma il sipario cala mentre i due sono ancora in attesa (come indica la didascalia «Non si muovono»), lasciando intuire al pubblico che questa sarà eterna e vana.

Aspettando Godot GENERE

opera teatrale

DATA

1952

TEMI

condizione dell’attesa

1082 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


Samuel Beckett

T3

LEGGERE LE EMOZIONI

Un’inutile attesa Aspettando Godot, atto I

S. Beckett, Teatro completo, trad. di C. Fruttero, EinaudiGallimard, Torino 1994

In una strada solitaria due personaggi, dall’aspetto di vagabondi e impegnati in gesti strani – uno si sforza di togliersi una scarpa, l’altro guarda dentro il suo cappello –, si incontrano e dialogano: le loro battute rivelano la sofferenza e il vuoto dell’esistenza che cercano di colmare con l’attesa di un personaggio misterioso, Godot, senza sapere se e quando verrà e se il luogo dell’appuntamento è veramente quello.

ATTO PRIMO Strada di campagna, con albero. È sera. Estragone, seduto per terra, sta cercando di togliersi una scarpa. Vi si accanisce con ambo le mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, ricomincia daccapo. Entra Vladimiro. ESTRAGONE (dandosi per vinto) Niente da fare1. VLADIMIRO (avvicinandosi a passettini rigidi e gambe divaricate) Comincio a crederlo anch’io. (Si ferma) Ho resistito a lungo a questo pensiero; mi dicevo: Vladimiro, sii ragionevole, non hai ancora tentato tutto. E riprendevo la lotta. (Prende un’aria assorta, pensando alla lotta. A Estragone) Dunque, sei di nuovo qui, tu? ESTRAGONE Credi? VLADIMIRO Sono contento di rivederti. Credevo fossi partito per sempre. ESTRAGONE Anch’io. VLADIMIRO Che si può fare per festeggiare questa riunione? (S’interrompe per riflettere) Alzati che t’abbracci. (Tende la mano a Estragone.) ESTRAGONE (irritato) Dopo, dopo. (Silenzio.) VLADIMIRO (offeso, con freddezza) Si può sapere dove il signore ha passato la notte? ESTRAGONE In un fosso. VLADIMIRO (sbalordito) Un fosso! E dove? ESTRAGONE (senza fare il gesto) Laggiù. VLADIMIRO E non ti hanno picchiato2? ESTRAGONE Sì... Ma non tanto. VLADIMIRO Sempre gli stessi? ESTRAGONE Gli stessi? Non so3. (Silenzio.) VLADIMIRO Quando ci penso... mi domando... come saresti finito... senza di me... in tutto questo tempo... (Recisamente) Non saresti altro che un mucchietto d’ossa, oggi come oggi; ci scommetterei. ESTRAGONE (punto sul vivo) E con questo?

1 Niente da fare: la battuta di Estragone riguarda il tentativo inutile di togliersi la scarpa, che Vladimiro fraintende e collega alla sua riflessione sulla vita, come spiega il seguito.

2 E non ti hanno picchiato: la domanda è motivata dal particolare contesto in cui Estragone ha dichiarato di aver passato la notte.

3 Non so: Estragone sembra indifferente all’identità di coloro che l’hanno picchiato.

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1083


VLADIMIRO (stancamente) È troppo per un uomo solo. (Pausa. Vivacemente) D’altra parte, a che serve scoraggiarsi adesso, dico io. Bisognava pensarci secoli fa, verso il 19004. ESTRAGONE Piantala. Aiutami a togliere questa schifezza. VLADIMIRO Tenendoci per mano, saremmo stati tra i primi a buttarci giù dalla Torre Eiffel. Eravamo in gamba, allora. Adesso è troppo tardi. Non ci lascerebbero nemmeno salire. (Estragone si accanisce sulla scarpa) Ma cosa fai? ESTRAGONE Mi tolgo le scarpe. Non t’è mai capitato, a te? VLADIMIRO Quante volte t’ho detto che bisogna levarsele tutti i giorni! Dovresti darmi retta. ESTRAGONE (debolmente) Aiutami! VLADIMIRO Hai male? ESTRAGONE Male! E viene a chiedermi se ho male! VLADIMIRO (arrabbiandosi) Sei sempre solo tu a soffrire! Io non conto niente. Ma vorrei vederti, al mio posto! Sapresti cosa vuol dire. ESTRAGONE Hai avuto male? VLADIMIRO Se ho avuto male! Mi viene a chiedere se ho avuto male5! ESTRAGONE (con l’indice puntato) Non è una buona ragione per non abbottonarsi6. VLADIMIRO (chinandosi) Già, è vero. (Si riabbottona) Il vero signore si vede dalle piccole cose. ESTRAGONE Che vuoi che ti dica, tu aspetti sempre l’ultimo momento. VLADIMIRO (meditabondo) L’ultimo momento... (Riflettendo) Campa cavallo mio che l’erba cresce. Chi è più che lo diceva7? ESTRAGONE Allora non vuoi aiutarmi? VLADIMIRO Certe volte mi sembra proprio che ci siamo. Allora mi sento tutto strano. (Si toglie il cappello, ci guarda dentro, ci fa scorrer la mano, lo scuote, lo rimette in testa) Come dire? Sollevato, ma al tempo stesso... (cercando la parola)... spaventato. (Con enfasi) Spa-ven-ta-to. (Si toglie di nuovo il cappello e ci guarda dentro) Questa poi! (Batte sulla cupola come se volesse far cadere qualcosa, torna a guardarci dentro, lo rimette in testa) Insomma... (con uno sforzo supremo, Estragone riesce a togliersi la scarpa. Ci guarda dentro, fruga con la mano, la rivolta, la scuote, guarda in terra se per caso non sia caduto qualcosa, fa di nuovo scorrere la mano nell’interno della scarpa, lo sguardo assente) Allora8? ESTRAGONE Niente. VLADIMIRO Fa’ vedere. ESTRAGONE Non c’è niente da vedere. VLADIMIRO Cerca di rimetterla. ESTRAGONE (dopo aver esaminato il piede) Voglio lasciarlo respirare un po’. VLADIMIRO Ecco gli uomini! Se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede. (Per la terza volta, si toglie il cappello, ci guarda dentro, ci fa scorrere la mano, lo scuote, ci picchia sopra, ci soffia dentro e lo rimette in testa) La cosa comincia a preoccuparmi. (Pausa. Estragone agita il piede dimenando le dita per far circolare l’aria.) [...].

4 secoli... 1900: l’indicazione temporale vuol far capire che l’incontro è ambientato in un futuro lontano e indeterminato. 5 Mi viene... male: la risposta è quasi identica a quella fornita prima da Estragone. 6 abbottonarsi: i bottoni dei pantaloni,

come indica il gesto, in contrasto con il tono serio delle battute precedenti. 7 Campa... diceva: il proverbio popolare non è ovviamente attribuibile a un autore; la domanda rappresenta uno stratagemma per divagare dal tema problematico

1084 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento

introdotto dall’ultima battuta (L’ultimo momento…), un’allusione alla morte. 8 Allora: la domanda si riferisce alla ricerca di Estragone all’interno della scarpa.


VLADIMIRO Puah! (Sputa per terra). ESTRAGONE (ritorna al centro della scena e guarda verso il fondo9) Un luogo incantevole. (Si volta, avanza fino alla ribalta10, guarda verso il pubblico) Panorami ridenti. (Si volta verso Vladimiro) Andiamocene. VLADIMIRO Non si può. ESTRAGONE Perché? VLADIMIRO Aspettiamo Godot. ESTRAGONE Già, è vero. (Pausa.) Sei sicuro che sia qui? VLADIMIRO Cosa? ESTRAGONE Che lo dobbiamo aspettare. VLADIMIRO Ha detto davanti all’albero. (Guardano l’albero.) Ne vedi altri? ESTRAGONE Che albero è? VLADIMIRO Un salice, direi. ESTRAGONE E le foglie dove sono? VLADIMIRO Dev’essere morto11. ESTRAGONE Finito di piangere12. VLADIMIRO A meno che non sia la stagione giusta13. ESTRAGONE Ma non sarà poi mica un arboscello? VLADIMIRO Un arbusto. ESTRAGONE Un arboscello. VLADIMIRO Un... (S’interrompe) Cosa vorresti insinuare? Che ci siamo sbagliati di posto? ESTRAGONE Dovrebbe già essere qui14. VLADIMIRO Non ha detto che verrà di sicuro. ESTRAGONE E se non viene? VLADIMIRO Torneremo domani. ESTRAGONE E magari dopodomani. VLADIMIRO Forse. ESTRAGONE E così di seguito. VLADIMIRO Insomma... ESTRAGONE Fino a quando non verrà. VLADIMIRO Sei spietato. ESTRAGONE Siamo già venuti ieri. VLADIMIRO Ah no! Non esagerare, adesso. ESTRAGONE Cosa abbiamo fatto ieri? VLADIMIRO Cosa abbiamo fatto ieri? ESTRAGONE Sì. VLADIMIRO Be’... (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione. ESTRAGONE Io dico che eravamo qui. VLADIMIRO (con un’occhiata circolare) Forse che il posto ti sembra familiare?

9 verso il fondo: dalla parte della scena, dando le spalle al pubblico. 10 ribalta: è la parte anteriore del palcoscenico, prospiciente il pubblico. 11 Dev’essere morto: l’albero risulta privo di foglie, da cui la prima conclusione

è che sia morto. 12 Finito di piangere: è un gioco di parole sul nome dell’albero, un “salice piangente”, con l’intento di far ridere sul tema dell’infelicità.

13 A meno... giusta: cioè l’autunno. La battuta sembra dimostrare la non conoscenza da parte dei due personaggi della stagione. 14 Dovrebbe... qui: la battuta è riferita a Godot e alla sua venuta.

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ESTRAGONE Non dico questo. VLADIMIRO E allora? ESTRAGONE Ma non vuoi dire. VLADIMIRO Però, però... Quell’albero... (voltandosi verso il pubblico)... quella torbiera. ESTRAGONE Sei sicuro che era stasera? VLADIMIRO Cosa? ESTRAGONE Che bisognava aspettarlo? VLADIMIRO Ha detto sabato. (Pausa) Mi pare. ESTRAGONE Dopo il lavoro. VLADIMIRO Devo aver preso nota. (Si fruga in tutte le tasche, strapiene di ogni sorta di cianfrusaglie) ESTRAGONE Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà poi domenica? O lunedì? O venerdì? VLADIMIRO (guardandosi intorno, affannatissimo come se la data fosse scritta sul paesaggio) Non è possibile. ESTRAGONE O giovedì.

Analisi del testo Due personaggi emblematici Vladimiro ed Estragone non hanno un’identità precisa: gli scarni dettagli relativi al loro aspetto, forniti dalle didascalie e i riferimenti alle condizioni di vita (Estragone ha trascorso la notte in un fosso ed è stato picchiato non si sa da chi) tratteggiano una situazione di emarginazione o esclusione, assimilandoli a vagabondi. In realtà i due personaggi non rappresentano una tipologia sociale, bensì una dimensione esistenziale, identificata con la precarietà, la sofferenza e la ricerca di un significato che non approda a un risultato: lo enuncia già la battuta iniziale («Niente da fare») che Estragone riferisce al suo inutile tentativo di togliersi la scarpa, ma che Vladimiro fraintende e interpreta come un giudizio conclusivo sulla possibilità di dare un senso all’esistenza («Comincio a crederlo anch’io»). Al valore simbolico dei due personaggi alludono i loro gesti meccanici e ripetitivi come quelli dei clown: se Estragone è impegnato a togliersi la scarpa come se fosse un problema vitale, per poi cercarvi dentro qualcosa, Vladimiro si toglie ripetutamente il cappello e vi guarda dentro come per trovarvi la soluzione dei problemi. Anche l’indeterminatezza temporale dell’incontro avvalora il carattere atemporale e simbolico della scena.

1086 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


I temi La scena si svolge nell’immobilità quasi totale, senza eventi che facciano evolvere la situazione: elemento centrale è il dialogo tra i due personaggi, che continuano a parlare quasi incessantemente ma non arrivano a nessuna conclusione. Sembrano parlare per ingannare l’attesa e far tacere l’angoscia, il vuoto esistenziale, senza la volontà di una vera comunicazione. Dalle battute che si scambiano, scarne e talora apparentemente sconclusionate, emergono i temi fondamentali dell’esistenza: la solitudine, l’isolamento, la sofferenza, che entrambi rivendicano di aver provato. La drammaticità dei temi è però mascherata attraverso vari procedimenti, ossia dalla gestualità clownesca dei due protagonisti (sono stati collegati dai critici a grandi attori del muto, Charlot e Buster Keaton), che introduce elementi umoristici e dal tono leggero di certe battute e modi di dire.

L’attesa del misterioso Godot Nella seconda parte del testo, Vladimiro ed Estragone enunciano il motivo che dà il titolo al testo: l’attesa di Godot. Chi sia Godot non viene mai precisato nell’opera: lo spettatore che inevitabilmente si interroga sulla sua identità resta senza risposta. Sull’identità del misterioso personaggio sono state formulate varie ipotesi: è stato identificato con Dio, sulla base della analogia del termine Godot con il termine inglese God (appunto Dio) o più genericamente con la salvezza cui l’uomo aspira; oppure con la rivelazione di un significato della vita umana. Il fatto che il testo non ponga la domanda di chi sia Godot può suggerire anche che è tutt’uno con la stessa vita umana, con la sua attesa continuamente riproposta e irrimediabilmente sconfitta: alla fine, i due protagonisti, dopo essersi riproposti di rinunciare all’attesa, restano fermi, come indica la didascalia conclusiva «Non si muovono».

online

Per approfondire Le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta in Europa e negli Stati Uniti

La natura Come tutta la commedia, anche la scena iniziale si svolge in un ambiente desolato: una strada con un unico albero scarno, privo di foglie; la scenografia rivela che la visione pessimistica dell’autore si estende al contesto in cui l’uomo vive e al rapporto che intrattiene con esso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la scena in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quale significato ha la battuta iniziale di Estragone? E come la interpreta Vladimiro? ANALISI 3. Noti delle differenze di personalità tra i due personaggi? Quali? 4. Quale funzione hanno le didascalie? Come contribuiscono a definire i personaggi e i loro gesti? 5. Che tipo di relazione esiste tra il dialogo e le azioni dei personaggi?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 6. Raccogliendo le osservazioni emerse nell’analisi, spiega in un intervento orale di max 3 minuti perché il testo appartiene al “teatro dell’assurdo”. SCRITTURA 7. La critica si è molto interrogata sull’identità del misterioso Godot e molte sono state le ipotesi formulate. Partendo dal testo proposto, dai una tua personale interpretazione del personaggio di Godot. Chi potrebbe essere? Che cosa potrebbe simboleggiare? Sei anche tu in attesa di “qualcosa” o sei legato soltanto al presente? Esponi le tue considerazioni in un testo di circa 20 righe, riflettendo sul significato dell’inutilità/ utilità dell’attesa.

La sperimentazione di un nuovo teatro 1 1087


2 Il panorama del teatro italiano 1 Le tendenze dominanti La lezione di Pirandello Dopo la stagione dell’avanguardia futurista (➜ VOL 3A C12) e del “teatro di poesia” di D’Annunzio (➜ VOL 3A C11), fino agli anni Trenta la maggioranza degli spettacoli messi in scena sono in prevalenza di intrattenimento o ancora di derivazione tardo-ottocentesca nei temi e nel linguaggio scenico. In questo contesto l’opera drammaturgica di Luigi Pirandello si distingue per il rifiuto nei confronti del teatro tradizionale. Dopo le iniziali difficoltà, il teatro pirandelliano trova ampi consensi (in Italia e all’estero) e diventa un modello autorevole: ad esempio Massimo Bontempelli (1878-1960), in Minnie la candida, iniziato nel 1927 ma messo in scena solo nel 1940, proietta la tematica pirandelliana del rapporto tra realtà e apparenza in una dimensione fantascientifica, in cui la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, rappresentato dalla protagonista, esprime le preoccupazioni che comporta la massificazione della società. Il rinnovamento dopo la Seconda guerra mondiale Nel dopoguerra, venuta meno l’autarchia culturale imposta dal regime fascista, il rinnovamento del teatro in Italia si manifesta innanzitutto attraverso la messa in scena di autori che erano stati banditi durante il ventennio: primo fra tutti Brecht, ma anche altri drammaturghi europei e americani. Un ruolo importante in questa fase è svolto da alcuni teatri (in particolare dal Piccolo Teatro, fondato a Milano nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi) e dai registi che danno vita a rappresentazioni rimaste memorabili, in particolare quelle brechtiane di Strehler (1921-1997). La ricerca teatrale, fino all’inizio degli anni Sessanta, si sviluppa più sul piano della regia che non su quello della produzione di testi, in cui comunque si cimentano scrittori e uomini di teatro: fra tutti emerge Eduardo De Filippo, già attivo con successo prima della guerra, mentre nei decenni successivi si affermano come drammaturghi Giovanni Testori e Dario Fo.

La sede storica del Piccolo Teatro di Milano in via Rovello.

1088 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


2 La “commedia umana” nel teatro di De Filippo La biografia Figlio d’arte, Eduardo De Filippo nasce nel 1900 a Napoli dalla relazione tra Eduardo Scarpetta, commediografo e attore di successo del teatro dialettale napoletano, e Luisa De Filippo. Attore a sua volta, esordisce all’inizio degli anni Venti come autore. Nel 1931 fonda con la sorella Titina e il fratello Peppino la «Compagnia del teatro umoristico: I De Filippo». Le commedie Natale in casa Cupiello (1931), Chi è cchiu felice ’e me? (1932) ricevono lusinghiere recensioni critiche, al punto che Eduardo ottiene da Pirandello la versione napoletana di Liolà e successivamente del Berretto a sonagli. Nel decennio successivo i De Filippo sono chiamati nei teatri di tutta Italia. La tragedia della guerra e la rottura nel 1944 con il fratello Peppino segnano una svolta nella produzione di Eduardo che, a partire da Napoli milionaria! (1945), indica la sua produzione come Cantata dei giorni dispari (per la tradizione napoletana i giorni difficili) mentre le opere precedenti sono etichettate come Cantata dei giorni pari. In questi anni nascono le sue commedie più famose: Questi fantasmi! (1946), Filumena Marturano (1946), Le voci di dentro (1948), La grande magia (1949). La produzione di Eduardo continua anche negli anni Cinquanta-Sessanta, e opere di successo come Filumena Marturano sono rappresentate in molti teatri d’Europa e anche in Unione Sovietica. Del 1973 è l’ultima commedia, Gli esami non finiscono mai. Nel 1981 è nominato senatore a vita «per altissimi meriti nel campo artistico e letterario». Muore a Roma nel 1984. Verso la riforma del teatro dialettale Dopo aver esordito come attore del teatro dialettale napoletano, De Filippo già negli anni Venti pensa, in veste di autore, alla riforma del teatro napoletano, di cui avverte i limiti: il prevalere della dimensione farsesca e la recitazione all’“improvvisa” (cioè basata su un canovaccio, come nella commedia dell’arte). Nei suoi primi testi sono ancora rilevanti gli aspetti comico-grotteschi volti a divertire, ma già emergono elementi di analisi e riflessione critica sulla società, in particolare il tema della famiglia. La più significativa delle commedie del primo periodo è Natale in casa Cupiello (del 1931 ma rielaborata e completata fino al 1941).

Eduardo de Filippo.

La denuncia della crisi della famiglia e della società italiana Nel clima neo­ realista del secondo dopoguerra, Eduardo indirizza la sua produzione verso l’impegno civile, mettendo al centro del suo teatro la rappresentazione del degrado morale della famiglia e dell’intera società. Il microcosmo familiare è rappresentato con uno sguardo impietoso: i rapporti al suo interno sono dominati dal prevalere del calcolo economico, anteposto ai sentimenti, mentre le figure genitoriali risultano inadeguate al loro compito; ne è esempio Amalia in Napoli milionaria! (➜ T4 ), che si dedica a far soldi con la borsa nera, abbandonando i figli a sé stessi. La denuncia della crisi, anche se risulta amara, è collegata ancora a situazioni umoristiche, gag, giochi mimici che rilevano il comico presente nella vita anche nei momenti tragici; centrale è sempre il ruolo di attore di Eduardo. Il teatro di Eduardo rappresenta uno spaccato della società italiana, dei suoi problemi e dei suoi vizi: l’arte di arrangiarsi per sopravvivere che degenera nella corruzione, l’avidità che supera ogni scrupolo, l’importanza data al denaro e al possesso di beni materiali (per cui chi non li ha deve vergognarsi ed è considerato Il panorama del teatro italiano 2 1089


“fesso”), la condizione dei disoccupati, condannati a vivere di espedienti o a ricorrere al furto. Il mondo ritratto è in prevalenza popolare e piccolo-borghese ma in qualche caso anche di ceto sociale più elevato: la miseria morale è ugualmente diffusa. Nella visione impietosa di Eduardo non mancano però i personaggi positivi: è il caso di Gennaro Iovine in Napoli milionaria!, che trae dall’esperienza della deportazione la forza di contrapporre i valori dell’onestà e dell’affetto all’importanza dei soldi, consapevole però che «adda passà ’a nuttata», cioè che una società migliore potrà nascere solo quando il denaro avrà cessato di essere il valore guida. Figura positiva è anche Filumena Marturano, protagonista dell’omonima commedia: nonostante il suo passato di prostituta, è l’unica donna nel teatro di Eduardo a incarnare l’amore per i figli. Napoli milionaria! La commedia Napoli milionaria! (1945) inaugura la nuova fase della drammaturgia di Eduardo. La vicenda, ambientata a Napoli negli anni difficili della guerra, ha per protagonista la famiglia Iovine. Dopo l’armistizio del ’43 Gennaro, il capofamiglia, è fatto prigioniero e deportato in Germania; con l’arrivo degli alleati la guerra a Napoli finisce e la moglie Amalia cerca di arricchirsi in modo illecito con la borsa nera. I figli sono abbandonati a sé stessi: la maggiore, Rosaria, ha una relazione con un soldato americano e resta incinta; Amedeo si dedica al furto di automobili. Gennaro, tornato dopo una fuga avventurosa, scopre che la sua famiglia, un tempo onesta, è molto cambiata, ed è sprofondata nella degradazione morale. Così è l’Italia intera, che dovrà, secondo la tesi di Eduardo espressa da Gennaro, capire che «Adda passà ’a nuttata», che quelli che sta vivendo, cioè, sono tempi bui e che da ricostruire non sono solo i beni distrutti ma anche i valori morali.

Napoli milionaria GENERE

commedia

DATA

1945

TEMI

denuncia della crisi della famiglia e della società italiana, dominate dalla logica dell’interesse

Eduardo De Filippo

T4

«Adda passà ’a nuttata»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Napoli milionaria! E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Mondadori, Milano 2005

In queste pagine finali della commedia il colloquio tra Gennaro Iovine e la moglie Amalia mette a nudo la degradazione morale in cui l’uomo ha ritrovato la sua famiglia al ritorno dalla prigionia di guerra. La denuncia riguarda anche i suoi concittadini, indifferenti nei confronti di chi ha vissuto quell’esperienza. Nonostante la gravità dei comportamenti e delle responsabilità, la conclusione della commedia prefigura la possibilità di una riconciliazione familiare nel ritorno alla semplicità e all’onestà di vita antecedente allo sconvolgimento provocato dalla guerra.

[La scena si svolge dopo che il medico ha dato una speranza per Rinuccia, la figlia ancora bambina della famiglia Iovine, colpita da una febbre violenta e pericolosa: la medicina, nella città in cui non solo i viveri ma anche i farmaci sono oggetto di

1090 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


speculazione, è stata fornita gratuitamente dall’uomo che Amalia, con la sua avidità, ha costretto a vendere la casa per pagarle le merci alla borsa nera. Il medico ha sentenziato in napoletano: «Adda passà ’a nuttata»; il risultato della terapia si vedrà solo dopo la notte; l’espressione sarà ripresa dal capofamiglia per indicare la possibilità di cambiamento in positivo della famiglia e della società una volta finita la “notte” prodotta dalla guerra]. [...] Gennaro è rimasto fermo, in piedi, fissando il suo sguardo da giudice su sua moglie. Amalia lo avverte e ne riceve quasi un senso di fastidio. Infine, esasperata, è proprio lei che rompe il silenzio con una reazione quasi aggressiva. AMALIA E pecché me guarde? Aggio fatto chello che hanno fatto ll’ate1. Me so’ difesa, me so’ aiutata... E tu pecché me guarde e nun parle? ’A stammatina tu me guarde e nun parle. Che colpa me puo’ dà? Che t’hanno ditto? GENNARO (che a qualunque costo avrebbe voluto evitare la spiegazione) Aggi’a parlà? Me vuo’ sèntere proprio ’e parlà2? E io parlo. (A ’O Miezo Prèvete3) Miezo Pre’, aggie pacienza4, vatténne, ce vedimmo dimane mmatina. ’O MIEZO PRÈVETE (alzandosi e mettendo a posto la sedia) Buona nottata. (Esce.) GENNARO Ricòrdate ’a mmasciata5. ’O MIEZO PRÈVETE (dall’interno) Va bene. GENNARO (chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera della bimba ammalata e si decide) Ama’6, nun saccio pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penzà ô paese nuosto. Io so’ turnato e me credevo ’e truvà ’a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma pecché?... Pecché io turnavo d’ ’a guerra... Invece, ccà nisciuno ne vò sèntere parlà7. Quann’io turnaie ’a ll’ata guerra8, chi me chiammava ’a ccà, chi me chiammava ’a llà. Pe sapé, pe sèntere ’e fattarielle, gli atti eroici... Tant’è vero ca, quann’io nun tenevo cchiù che dicere, me ricordo ca, pe m’ ’e llevà ’a tuorno9, dicevo buscìe, cuntavo pure cose ca nun erano succiese, o ca erano succiese all’ati surdate10... Pecché era troppa ’a folla, ’a gente ca vuleva sèntere... ’e guagliune11... (Rivivendo le scene di entusiasmo di allora) ’o surdato! ’Àssance sèntere12, conta! Fatelo bere! Il soldato italiano! Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parlà? Primma ’e tutto pecché nun è colpa toia, ’a guerra nun l’hê voluta tu, e po’ pecché ’e ccarte ’e mille lire fanno perdere ’a capa13... (Comprensivo) Tu ll’hê accuminciate a vedé a poco â vota, po’ cchiù assaie14, po’ cientomila, po’ nu milione... E nun hê capito niente cchiù... (Apre un tiretto del comò e prende due, tre pacchi di biglietti da mille di occupazione15. Li mostra ad Amalia) Guarda ccà.

1 Aggio… ll’ate: ho fatto quello che hanno fatto gli altri. 2 Aggi’a parlà… ’e parlà: devo parlare? Mi vuoi proprio sentir parlare. 3 ’O Miezo Prèvete: il mezzo prete, soprannome di un altro personaggio della commedia, vicino di casa della famiglia Jovine e partecipe delle loro vicende. 4 aggie pacienza: abbi pazienza. 5 ’a mmasciata: l’ambasciata, la commissione. Gennaro gli ha chiesto di portargli delle assi per ricostruire la stanzetta che è stata eliminata durante la sua assenza.

6 Ama’: diminutivo di Amalia. 7 ccà nisciuno… parlà: qui nessuno ne vuol sentir parlare.

8 ll’ata guerra: l’altra guerra è la prima guerra mondiale in cui Gennaro aveva combattuto. 9 pe m’ ’e llevà ’a tuorno: per levarmeli di torno. 10 erano… surdate: erano successe agli altri soldati. 11 ’e guagliune: i ragazzi. 12 ’Àssance sèntere: facci sentire. 13 Primma… capa: prima di tutto perché

non è colpa tua, la guerra non l’hai voluta tu, e poi perché i biglietti da mille lire fanno perdere la testa. 14 Tu... assaie: tu hai cominciato a vederne poco alla volta, poi molto di più. 15 biglietti… occupazione: nell’Italia meridionale, dal 1943, le forze militari alleate di occupazione misero in circolazione le “Allied Military Lira”, banconote “speciali” dello stesso valore della moneta locale; cessarono di essere moneta di occupazione dal 1946 ma si usarono fino al 3 giugno 1950.

Il panorama del teatro italiano 2 1091


A te t’hanno fatto impressione pecché ll’hê viste a poco â vota e nun hê avuto ’o tiempo ’e capì chello ca capisco io ca so’ turnato e ll’aggio viste tutte nzieme... A me, vedenno tutta sta quantità ’e carte ’e mille lire me pare nu scherzo, me pare na pazzia... (Ora alla rinfusa fa scivolare i biglietti di banca sul tavolo sotto gli occhi della moglie) Tiene mente, Ama’: io ’e ttocco e nun me sbatte ’o core16... E ’o core adda sbattere quanno se toccano ’e ccarte ’e mille lire... (Pausa.) Che t’aggi’a dì? Si stevo ccà, forse perdevo ’a capa pur’io... A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a sora17, me cunfessaie tutte cose18, che aggi’a fa? ’a piglio pe nu vraccio, ’a metto mmiez’ ’a strada19 e le dico: «Va’ fa’ ’a prostituta»? E quanta pate n’avesser’a caccià ’e ffiglie20? E no sulo a Napule, ma dint’a tutte ’e paise d’ ’o munno21. A te ca nun hê saputo fà ’a mamma22, che faccio, Ama’, t’accido? Faccio ’a tragedia? (Sempre più commosso, saggio) E nun abbasta ’a tragedia ca sta scialanno pe tutt’ ’o munno, nun abbasta ’o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante23... E Amedeo24? Amedeo che va facenno ’o mariuolo25? (Amalia trasale, fissa gli occhi nel vuoto. Le parole di Gennaro si trasformano in immagini che si sovrappongono una dopo l’altra sul volto di lei. Gennaro insiste) Amedeo fa ’o mariuolo. Fìglieto26 arrobba27. E... forse sulo a isso nun ce aggi’a penzà28, pecché ce sta chi ce penza... (Il crollo totale di Amalia non gli sfugge, ne ha pietà) Tu mo hê capito. E io aggio capito che aggi’a stà ccà29. Cchiù ’a famiglia se sta perdenno30 e cchiù ’o pate ’e famiglia adda piglià ’a responsabilità. (Ora il suo pensiero corre verso la piccola inferma) E se ognuno putesse guardà ’a dint’a chella porta... (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passarìa ’a mano p’ ’a cuscienza... Mo avimm’aspettà, Ama’... S’adda aspettà. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare la nottata. (E lentamente si avvia verso il fondo per riaprire il telaio a vetri come per rinnovare l’aria.) AMALIA (vinta, affranta, piangente, come risvegliata da un sogno di incubo) Ch’è succieso... Ch’è succieso... GENNARO (facendo risuonare la voce anche nel vicolo) ’a guerra, Ama’! AMALIA (smarrita) E che nne saccio? Che è succieso! Maria Rosaria, dalla prima a sinistra, recando una ciotolina con un cucchiaio, si avvia verso la «vinella31». GENNARO Mari’32, scàrfeme33 nu poco ’e cafè... Maria Rosaria senza rispondere si avvicina al piccolo tavolo nell’angolo a destra, accende una macchinetta a spirito e dispone una piccola cuccuma34. AMALIA (rievocando a sé stessa un passato felice di vita semplice) ’a matina ascevo a fa ’o ppoco ’e spesa... Amedeo accumpagnava a Rituccia â scòla e ghieva a 16 io ’e... core: io li tocco e non mi batte il cuore. 17 ca aierassera... sora: che ieri sera, vicino al letto della sorella. 18 tutte cose: tutto. La figlia Maria Rosaria gli ha confessato di essere incinta. 19 ’a piglio… ’a strada: la piglio per un braccio, la metto in mezzo alla strada. 20 quanta... ffiglie: quanti padri dovrebbero cacciare le figlie. 21 dint’a… ’o munno: in tutti i paesi del mondo.

22 A te... mamma: a te, che non hai saputo fare la mamma. 23 E nun... quante: e non basta la tragedia che sta dilagando in tutto il mondo, e non basta il lutto che portiamo in faccia tutti. 24 Amedeo: è il figlio della coppia. 25 mariuolo: imbroglione, ladro. 26 Fìglieto: tuo figlio. 27 arrobba: ruba. 28 E... penzà: e forse solo a lui non devo pensare, perché c’è già chi ci pensa. Si riferisce al brigadiere che gli ha rivelato la

1092 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento

sua intenzione di arrestare il figlio. 29 E... ccà: e io ho capito che devo stare qua. 30 Cchiù ’a famiglia se sta perdenno: più la famiglia si va perdendo. 31 vinella: il vicoletto, lo stretto cortile interno su cui si affacciano le case. 32 Mari’: Rosaria, la figlia maggiore. 33 scàrfeme: scaldami. 34 cuccuma: caffettiera alla napoletana.


faticà35... Io turnavo â casa e cucenavo... Ch’è succieso... ’a sera ce assettàvamo tuttu quante attuorno ’a tavula e primma ’e mangià ce facèvamo ’a croce... Ch’è succieso... (E piange in silenzio.) AMEDEO (entra lentamente dal fondo. Guarda un po’ tutti e chiede ansioso) Comme sta Rituccia? GENNARO (che si era seduto accanto al tavolo, alla voce di Amedeo trasale. Il suo volto s’illumina. Vorrebbe piangere, ma si domina) S’è truvata ’a mmedicina. (Si alza e dandosi un contegno, prosegue). ’o duttore ha fatto chello ch’avev’a fà. Mo adda passà ’a nuttata. (Poi chiede con ostentata indifferenza) E tu? Nun si’ ghiuto ’appuntamento36? AMEDEO (timido) No. Aggio pensato ca Rituccia steva accussì e me ne so’ turnato. Pareva brutto. GENNARO (con lieve accento di rimprovero) Era brutto. Damme nu bacio. (Amedeo bacia Gennaro, con effusione.) Va’ te miette nu poco vicino ’o lietto d’ ’a piccerella ca tene ’a freva forte37. AMEDEO Sì, papà. (Si avvia.) GENNARO (fermandolo) E si Rituccia dimane sta meglio, t’accumpagno io stesso â Cumpagnia d’ ’o Ggas, e tuorne a piglià servizio. AMEDEO (convinto) Sì, papà. (Ed esce per la prima a sinistra.) Maria Rosaria ha riscaldato il caffè e ora porge la tazzina al padre. Gennaro la guarda teneramente. Avverte negli occhi della fanciulla il desiderio d’un bacio di perdono, così come per Amedeo. Non esita. L’avvince a sé e le sfiora la fronte. Maria Rosaria si sente come liberata e, commossa, esce per la prima a sinistra. Gennaro fa l’atto di bere il suo caffè, ma l’atteggiamento di Amalia, stanco e avvilito, gli ferma il gesto a metà. Si avvicina alla donna e, con trasporto di solidarietà, affettuoso, sincero, le dice: GENNARO Te’... Pigliate nu surzo ’e cafè... (Le offre la tazzina. Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: «Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?». Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza) S’adda aspettà, Ama’. Adda passà ’a nuttata. (E dicendo questa ultima battuta, riprende posto accanto al tavolo come in attesa, ma fiducioso.) 35 ghieva a faticà: andava lavorare. 36 Nun si’ ghiuto ’appuntamento: non

sei andato all’appuntamento. Gennaro si riferisce al fatto che il figlio Amedeo stava

per mettere a segno un furto. 37 ca... forte: che ha la febbre alta.

Analisi del testo La funzione salvifica della memoria Nel finale della commedia, il capofamiglia Gennaro si riscatta dalla posizione subalterna a cui era stato relegato dalla moglie e dai figli prima della sua prigionia in guerra. Il suo nuovo ruolo è evidenziato dalla didascalia che lo pone nell’atteggiamento di “giudice” nei confronti della situazione famigliare degenerata durante la sua assenza e di cui ritiene responsabile la moglie: «Gennaro è rimasto fermo, in piedi, fissando il suo sguardo da giudice su sua moglie». Nel lungo monologo i primi sentimenti che Gennaro esprime sono il disorientamento e il disagio psicologico per l’accoglienza ricevuta dai suoi concittadini, ben diversa, a suo dire, da quella avuta al ritorno dalla prima guerra mondiale. L’esperienza presente è invece di una città in cui c’è solo il desiderio di dimenticare il recente conflitto: dominano disinteresse e indifferenza nei confronti di chi ha vissuto il dramma della deportazione. Gennaro vuol preservarne il ricordo perché si rende conto che quella esperienza l’ha reso diverso: nelle sue

Il panorama del teatro italiano 2 1093


parole la memoria assume la funzione di testimone e di custode di quello che si è vissuto e dei valori in cui ci si è riconosciuti, mentre per chi è rimasto quello che conta è il denaro; tutte le migliaia di lire procurate grazie ai traffici illeciti a cui la moglie si è prestata (e che Gennaro prende a mazzi, come indicano le didascalie), gli sembrano una pazzia («pecché ’e ccarte ’e mille lire fanno perdere ’a capa»). Anche per Amalia, il personaggio negativo della commedia, il ricordo (della condizione familiare semplice e serena prima della guerra) la stimola a interrogarsi sul cambiamento avvenuto.

Il tema della responsabilità Il ruolo positivo del protagonista è confermato, nella scena, dalle parole e dai gesti conclusivi che evocano un messaggio di speranza. Gennaro sa quali sono le “soluzioni” che l’ambiente sociale e culturale prevederebbe da lui rispetto alla situazione trovata al suo ritorno: cacciare la figlia incinta condannandola a diventare una prostituta e uccidere la moglie colpevole di essere venuta meno al suo ruolo. Il rifiuto di quei rimedi estremi avviene in nome della responsabilità di capofamiglia che egli vuole invece assumere, siglando la sua scelta con le manifestazioni d’amore dell’abbraccio alla figlia e del bacio al figlio. Le battute che alludono al perdono e alla speranza – come già quelle della denuncia e del rimpianto – traggono forza dall’espressività del dialetto napoletano, che con i suoi accenti intensi acuisce la drammaticità della scena.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la scena in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Perché Gennaro assume un atteggiamento giudicante? 3. L’attesa angosciosa si trasforma in un’occasione per riflettere: a quali conclusioni giungono Gennaro e i suoi familiari? ANALISI 4. A quale proposito il protagonista pronuncia l’espressione «Adda passà ’a nuttata» e quale significato più generale assume? 5. Analizza il comportamento di Amalia durante il colloquio: con quale argomento si giustifica? Quale cambiamento avviene in lei nel corso del discorso di Gennaro? 6. Le didascalie d’autore sono particolarmente numerose e circostanziate. Scegline alcune, evidenziando il contributo fondamentale che arrecano alla definizione degli atteggiamenti e dei sentimenti dei personaggi e rintraccia alcuni esempi di espressività del dialetto napoletano. STILE 7. Non tutto il teatro di Eduardo è in dialetto napoletano: motiva la scelta linguistica adottata in questo testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 8. In un intervento orale di max 5 minuti considera gli aspetti, ricavabili anche dal testo in esame, che conferiscono al teatro di Eduardo un carattere universale. LETTERATURA E NOI 9. Spiega quale messaggio potrebbe trasmettere, ancora oggi, la battuta di Gennaro «Adda passà ’a nuttata». SCRITTURA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

10. «Poche settimane dopo la liberazione mi affacciai al balcone della mia casa di Parco Grifeo, e detti uno sguardo al panorama di questa città martoriata: allora mi venne in mente in embrione la commedia e la scrissi tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e le sue deleterie conseguenze». Commenta le parole con cui lo stesso Eduardo De Filippo ha raccontato la genesi della sua famosissima commedia, soffermandoti sui seguenti aspetti: degenerazione morale causata dalla guerra – crisi della famiglia – fiducia nel valore dell’onestà – messaggio di speranza.

1094 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


3 Il teatro trasgressivo di Dario Fo Un interprete delle lotte sociali Grande successo di pubblico e consensi da una parte della critica (fino alla consacrazione con il Nobel nel 1997), ma anche polemiche hanno accompagnato la lunga attività drammaturgica e teatrale di Dario Fo (19262016): le ragioni sono molteplici, da individuare innanzitutto nella sua straordinaria abilità recitativa, ma anche nella capacità di dare voce alle lotte dei ceti subalterni, di mettere in scena le trasformazioni e i problemi connessi ai mutamenti sociali e di costume che hanno contraddistinto la seconda metà del Novecento. La biografia Dario Fo nasce a Sangiano (Varese) nel 1926; nel dopoguerra esordisce come autore e attore alla radio e a teatro, e allestisce vari spettacoli di varietà (Sani da legare, 1954). Nel 1959 fonda insieme alla moglie (attrice anch’essa e figlia d’arte) la «Compagnia Dario Fo-Franca Rame», con cui fino al 1968 porta in scena commedie di satira sociale e politica. Dal 1968, inizio della contestazione studentesca in Europa e in Italia, comincia ad avvalersi di circuiti teatrali alternativi. Tra gli spettacoli di questi anni, di forte impegno e satira politica, c’è anche Mistero buffo (1969). Nel 1970, in seguito a dissensi sulla linea politica e culturale del Partito comunista, Fo crea il «Collettivo teatrale la Comune»; al periodo 1970-73 appartengono testi incentrati su importanti vicende politiche nazionali e internazionali. Nel 1973 nasce il «Collettivo teatrale la Comune diretto da Dario Fo e Franca Rame», che occupa a Milano un edificio abbandonato, la Palazzina Liberty, dove vengono rappresentati spettacoli già messi in scena e opere nuove. Dagli anni Settanta, Dario Fo è l’autore italiano più rappresentato all’estero; inizia una serie di tournée in vari paesi (nel 1986 va per la prima volta negli Stati Uniti, dove per anni gli era stato negato il visto d’ingresso). Nel 1997 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Muore a Milano nel 2016. Dario Fo.

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Un teatro di denuncia attraverso la risata Fin dalle prime prove negli anni Cinquanta (Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959) la sua vastissima produzione drammaturgica è sotto il segno della denuncia – attraverso la comicità e il paradosso – delle ingiustizie e delle violenze del potere: all’inizio Fo colpisce la burocrazia e gli amministratori pubblici (Settimo: ruba un po’ meno, 1964) per rivolgersi poi a obiettivi più alti (La signora è da buttare, del 1967, è un atto d’accusa dell’imperialismo americano). Seguono i testi dedicati alle lotte sociali della fine degli anni Sessanta (L’operaio conosce trecento parole, il padrone mille: per questo lui è il padrone, 1969) e alle vicende politiche nazionali (Morte accidentale di un anarchico è dedicato alla morte dell’anarchico Pinelli negli uffici della polizia di Milano dopo la strage di piazza Fontana nel 1969) e internazionali (Fedayn, sulla causa palestinese; Guerra di popolo in Cile, sull’avvento della dittatura nello stato sudamericano). La forma dominante è la parodia, spesso feroce, che mette a nudo le debolezze, le falsità di cui il potere si serve per raggiungere i suoi scopi: la risata è l’arma di cui Fo, ponendosi come erede della tradizione carnevalesca medievale, si avvale per far riflettere e sollecitare una coscienza critica, facendo del suo teatro un momento di maturazione politica del pubblico. La produzione di ambientazione storica Proprio negli anni in cui l’impegno rispetto all’attualità diventa più esplicito, Fo inizia a sviluppare l’altro filone della sua produzione con il recupero di personaggi e vicende del passato, di carattere storico e anche religioso, per i quali propone un’interpretazione dissacratoria e alternativa a quella della cultura ufficiale: dopo Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), dedicata a Cristoforo Colombo, con Mistero buffo (1969) – incentrato su episodi dei Vangeli (anche apocrifi) e temi medievali, nella tradizione giullaresca – raggiunge forse l’esito più alto nella sua produzione; sempre in questo filone si aggiungono nel tempo Johan Padan a la descoverta de le Americhe (1991), Dario Fo recita Ruzante (1993), Lu santu jullàre Francesço (1999) fino a Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano (2009). Dalla satira politica ai problemi sociali Nell’ultima fase della sua produzione, alla satira politica, rivolta alle vicende nazionali (a partire da Settimo: ruba un po’ meno n. 2, del 1992, su Tangentopoli), si sono alternati testi e spettacoli dedicati ai cambiamenti e problemi emersi nella società italiana: la condizione e l’emancipazione della donna (già trattate in Tutta casa letto e chiesa, 1977, il primo spettacolo firmato con la moglie, l’attrice Franca Rame), i problemi della coppia, la solitudine esistenziale, con la diffusione dell’uso della droga, i miti estetici. La visione di Fo in queste opere mira, attraverso l’ironia e l’esagerazione, a rappresentare i limiti della società contemporanea, protesa al raggiungimento di mete illusorie come il successo e la ricchezza.

Mistero buffo Il titolo L’autore riprende il titolo di un’opera del poeta e drammaturgo russo Vladimir Majakovskij (1893-1930) per riferirsi alle sacre rappresentazioni medievali, che Fo interpreta però in versione “buffa”, cioè in forma dissacratoria come poteva essere quella dei giullari nei confronti del potere politico e religioso. Il termine buffo allude alla risata, che per Fo è lo strumento delle classi subalterne per esprimere il dissenso e che, secondo il critico russo Michail Bachtin, aveva nella società medioevale uno spazio riconosciuto durante la festa del carnevale. Il riferi-

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mento a Majakovskij segnala il valore ideologico che Fo assegna alla propria opera, composta e messa in scena nel 1969, sull’onda della contestazione studentesca del maggio 1968 in Europa, che diede inizio a una nuova fase socio-politica. Come il Mistero buffo di Majakovskij, dopo la rivoluzione bolscevica in Russia, metteva in scena la ribellione del proletariato verso le classi dominanti, il Mistero buffo di Fo vuole contribuire a mettere in discussione il potere, sia esso politico o religioso, proponendo uno sguardo alternativo e dissacratore. Un moderno giullare L’opera è costituita da una serie di episodi dedicati a personaggi emblematici del medioevo (La fame dello Zanni, La nascita del giullare) o ispirati al Vangelo (La strage degli innocenti, Il miracolo delle nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro ➜ T4 , Maria alla croce) e alla storia della chiesa (ad esempio il pontificato di Bonifacio VIII): tutti sono raccontati secondo un’ottica rovesciata e alternativa rispetto a quella ufficiale, come già avveniva nella cultura popolare medievale che Fo assume a modello (utilizzando anche alcuni testi di quell’epoca come fonte), presentandosi come moderno giullare.

online

Video e Audio La resurrezione di Lazzaro in un Mistero buffo del 1991

La lingua Il testo è scritto in una lingua inventata, su imitazione dei dialetti padani arcaici (l’autore stesso ha definito Mistero buffo «una giullarata in lingua padana del Quattrocento»), e comprensibile allo spettatore grazie al supporto della mimica e al valore evocativo dei suoni; inoltre, rifacendosi alla commedia dell’arte, Fo usa anche il grammelot, una specie di lingua composta da suoni, onomatopee e parole senza senso, che riesce a ottenere un effetto di realtà e un’efficacia comunicativa grazie ad alcuni stratagemmi (la collocazione di termini dotati di significato in posizioni chiave) e soprattutto alla gestualità. Ai vari episodi sono alternati intermezzi esplicativi in italiano per fornire le informazioni storiche (con riferimento a fatti e lotte dimenticati dalla storiografia ufficiale), quelle filologiche sulle fonti, ma anche per attualizzare il racconto con riferimenti alla situazione politica del momento. La recitazione è affidata a un unico attore, lo stesso Fo, che interpreta le diverse parti, come facevano i giullari. Mancano in questo, come in molti spettacoli di Fo, gli apparati scenici: la rappresentazione è interamente fondata sulla straordinaria espressività vocale e mimica dell’attore. Anche in Mistero buffo, Fo attua un procedimento costante del suo teatro, che è la ricerca dell’interazione con il pubblico: lo spettatore è parte integrante dell’evento teatrale, contribuisce al suo sviluppo e il suo coinvolgimento avviene attraverso ripetute allusioni alla vita quotidiana e alle problematiche sociali.

Mistero buffo GENERE

opera teatrale

DATA

1969

TEMI

messa in discussione dei sistemi di potere

Il panorama del teatro italiano 2 1097


Dario Fo

La resurrezione di Lazzaro

T5

Mistero buffo D. Fo, Mistero buffo, trad. F. Rame, Einaudi, Torino 1997

L’episodio antologizzato prende spunto dalla resurrezione di Lazzaro, uno dei miracoli più popolari del Nuovo Testamento; nella parodia del racconto evangelico attuata da Fo, il sacro diventa uno spettacolo e addirittura un’occasione di guadagno per coloro che assistono all’evento. Le didascalie indicano i diversi personaggi messi in scena da un unico attore.

Inizia il dialogo tra il primo visitatore e il guardiano del camposanto.

Inizia il dialogo tra il primo visitatore e il guardiano del camposanto.

(Nel ruolo del visitatore) Ch’ai scusa... o l’è quésto ol simitéri, campusànto, due che vai a fa’ ol ’suscitaménto d’ul Làsaro? Quèlo che l’hano sepelìto da quàter ziórni, che dòpo ’riva un santón, un stregonàsso, Jesus... me pare che se ciàmi... Fiól de Deo de sovranóme... salta föra el morto co’ i ögi spiritàt e tüti che vusa: «L’è vivo! L’è vivo!»... e po’ ’dèm tüti a béver che s’enciuchémo ’me Dio! L’è chi-lòga? (Nel ruolo del guardiano del camposanto) Sì, dòi bajòchi se vói véder ol miracolo! (Torna a interpretare il personaggio del visitatore) Dòi bajòchi mi a ti? Parchè? (Torna nel ruolo del guardiano del camposanto) Parchè mi a sont ol guardiàn d’ol camposanto e déa esser recompensà per tüti i impiastri e burdeléri che viàltri m’impiantì... che a vegnìt chi... andì sü i sépi... pesté i tombi... andé süi crósi... ve senté süi crósi... me storté tüti i brasi de le crósi e me rubìt tüti i lumìni! (Prende fiato) Dòj baiòcchi, se no andé in un óltro simitiéro! Vòj véder se lì truvé un óltro santo bravo ’me ol nòster che con do’ segni a tira föra i morti ’me fungi! Andé, andé! Anca ti dòna, dòi baiòcchi! Ol bambìn mèso baiòcco! No’ me importa se noi capìsse negòtta, quando serà grande te ghe dirà: «Pecàto che te s’éri cusì inscimìt... incrugnìt de crapa, che no’ t’è capì negòta e sül plü bèlo del miracolo te me gh’ha pisà anca adòso!»

(Nel ruolo del visitatore) Scusi... è questo il cimitero, camposanto, dove vanno a fare il resuscitamento [la resurrezione] del Lazzaro? Quello che hanno seppellito da quattro giorni, che dopo arriva un santone, uno stregone, Jesus... mi pare che si chiami... Figlio di Dio di soprannome.... salta fuori il morto con gli occhi spiritati e tutti che gridano: «È vivo! È vivo! »... e poi andiamo a bere e ci ubriachiamo come Dio! è qui? (Nel ruolo del guardiano del camposanto) Sì, due baiocchi se vuoi vedere il miracolo! (Torna a interpretare il personaggio del visitatore) Due baiocchi io a te? Perché? (Torna nel ruolo del guardiano del camposanto) Perché io sono il guardiano del camposanto e devo essere ricompensato per tutti gli impiastri e bordelli che voialtri mi combinate... che venite qui... mi schiacciate le siepi... calpestate le tombe... vi sedete sulle croci... mi stortate tutte le braccia delle croci... e mi rubate pure i lumini! (Prende fiato) Due baiocchi, sennò andate in un altro cimitero! Voglio vedere se trovate un altro santo bravo come il nostro che con due segni tira fuori i morti come funghi! Andate, andate! Anche tu donna, due baiocchi! Il bambino mezzo baiocco! Non m’importa se non capisce niente, quando sarà grande gli diranno: «Peccato che eri così tonto... imbesuito di testa, che non hai capito niente e oltretutto, sul più bello del miracolo, mi hai spisciacquato anche addosso!»

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(Si rivolge a un immaginario ragazzino che cerca di entrare nel cimitero scavalcando il muro di cinta) Föra! Föra dal müro! Desgrasió, canàja! Furbàsso... al vœ vegnì deréntro a vedérse ol miracolo a gratis! (Nel ruolo del primo visitatore) Bòja quante tombe che gh’è! Che simitiéro grande! Varda quante cróse! (Si rivolge direttamente al pubblico) Mi son vegnü apòsta a la matìna presto a tegnì ol pósto parchè me piàse esser davanti bén ciàro a la tomba avèrta... a gh’è dei santoni stregonàssi che fa’ dei trüchi tremendi: i prepara un morto de soravìa, un vivo de sóta, fa i segni... tracchete!, se revòlta ol mesté: «L’è vivo! L’è vivo!» Mi vòi vedérghe ciàro! L’altra volta son ’rivà chi la matìna presto; dòpo mésa ziornàda che stévo chi a ’speciare... ol miracolaménto l’han fàito là in fonda e mi son restà chi ’me un barlòcco ciolà! Ma stavolta me son interessà, l’è chi-lòga ol Làsaro... [...]

(Si rivolge a un immaginario ragazzino che cerca di entrare nel cimitero scavalcando il muro di cinta) Fuori! Fuori dal muro! Disgraziato, canaglia! Furbastro... vuole venire dentro a vedersi il miracolo gratis! (Nel ruolo del primo visitatore) Bestia, quante tombe che ci sono! Che cimitero grande! Guarda quante croci! (Si rivolge direttamente al pubblico) Io sono venuto qua apposta la mattina di buon’ora a prendermi un bel posto, perché mi piace esser davanti... mi piace vedere ben chiaro dentro la tomba aperta... ci sono dei santoni-stregoni che fanno dei trucchi tremendi: sistemano dentro un morto sopra, un vivo sotto, fanno gesti da santoni... tracchete!, si rivolta il marchingegno: «È vivo! È vivo!» Io voglio vederci chiaro! L’altra volta sono arrivato la mattina presto; dopo mezza giornata che stavo qui ad aspettare... il miracolo l’han fatto là in fondo e io sono restato qui come un imbesuito fottuto! Ma stavolta mi sono interessato, è qui il Lazzaro... [...]

[Mima l’affollarsi di molta gente, che spinge e gli fa perdere l’equilibrio, poi l’arrivo di un affitta-sedie che offre la sua merce per assistere comodi allo spettacolo; protesta perché il santo non arriva: c’è il rischio che, diventando scuro, sbagli tomba e resusciti un altro morto. Dà poi voce a un immaginario venditore di sardine.] (Nel ruolo del primo visitatore) Arìva la gént... tüti, tüti, i apostoli, varda, varda! Tüti in fila col santo... Quèl con tüti i risulìn e la barba lònga l’è Pietro... quèl’altro con la crapa pelàda e con la barba tüta rìsula, quèlo là, l’è Paolo... quèl’altro... (portando festoso la voce) Maarcooo!... (Cambio tono: pavoneggiandosi, al pubblico intorno) Cognósso! Sta ’tacà de casa mia! (Leva le mani agitandole vistosamente in segno di saluto, quindi, a gesti, avverte l’apostolo che lo attenderà, a miracolo avvenuto, per invitarlo a una grande bevuta) Ah, varda, quèlo l’è Jesus... quèlo pìcolo...

Arriva la gente... tutti, tutti, gli apostoli... guarda, guarda! Tutti in fila con il santo... quell’apostolo lì... è Pietro, con tutti i ricciolini, la barba lunga... quell’altro con la testa pelata e con la barba tutta riccia, quello è Paolo... quell’altro... (portando festoso la voce) Maarcooo!... (Cambio tono: pavoneggiandosi, al pubblico intorno) Conosco! Sta appresso a casa mia... (Leva le mani agitandole vistosamente in segno di saluto, quindi, a gesti, avverte il santo che lo attenderà a miracolo avvenuto per invitarlo a una grande bevuta) Ah, guarda, quello è Gesù... quello piccolo... Il panorama del teatro italiano 2 1099


Com a l’è zióvin... varda, no’ gh’ha gniànca la barba... ’me l’è delicàt... ol pare un bagài. Mi me l’immazinàva plü tosto, con ’una gran crapa de cavèi, cunt dei paletóni (indica le orecchie), cunt un crestón tremendo, cunt dei dénci, de le manàsse, che quand faséva i benedisiùn paa!... faséva in quattro i fedeli! Che zóvine che o l’è! (Una voce fra la folla) Jeesuuus! Faghe ’n’altra volta ol miracolo de la moltiplicasióne dei pani e dei pessìt che éran sì bòni... Dio, la magnàda che gh’ho fàito! (Altro personaggio) Ohi, ma ti no’ ti pensi che a magnare!? (Risponde chi ha parlato prima) E per fòrsa! L’è par via che sémo chi-lò, in del simitério... a mi la tensiön dei miracoli me svòda ol stòmego in üna manéra che me vègne ’na fame de magnarmi anco Deo! (Uno dei visitatori) Cito, cito che ol Jesus l’ha dàito l’órden de ingiunugiàs! Tüti i santi s’è metü in ginögio a pregare... e anco i altri... anca noàltri dovémo andare in ginögio, se no il miracolaménto no’ riésse! (Altro visitatore) Mi no’ ghe vago. Mi no’ ghe vago! No’ me importa! No’ ghe credo e no’ ghe vago in ginögio! (Altro visitatore) Te catàsse un fülmine che te storpiasse i giàmbi! (Mima di camminare da storpio) Pœ va da Jesus: «Jesus, fame ol miracolo de...» Niènte! Un altér fülmine... track!, anca le brasse! (Mima braccia da paralitico). (Altro personaggio) Cito, cito... gh’ha da’ l’órden de valsà la piéra de la tomba. (Uno dei presenti, urlando, ordina e dirige il sollevamento della pietra) Vàie insèma! Valzé ’sto lastrón! Aténti ai pie! (Uno spettatore tappandosi il naso) Bòja che spüssa che végn föra! Che tanfo! Ma còssa gh’han bütà deréntro... un gato màrscio? (Altro visitatore) No, no, l’è lü... l’è Làsaro... Varda ’me l’è cunscià! (Altro visitatore) Ohia, l’è descomponìo... tüti i vèrmini che ghe végn föra dai ögi...

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Com’è giovane... guarda, non ha neanche la barba... com’è delicato... pare un ragazzino. Io me lo immaginavo più tosto, con una gran testa di capelli... con delle pallettone (indica le orecchie), una crestona tremenda, con dei denti, delle manone, che quando cominciava a benedire: paa! ... troncava in quattro i fedeli! Che giovane che è!... (Una voce fra la folla) Jeesuuus! Facci un’altra volta il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che eran così buoni... Dio, la mangiata che ho fatto! (Altro personaggio) Ohi, ma tu non pensi che a mangiare!? (Risponde chi ha parlato prima) E per forza! Siamo qua, al cimitero... a me la tensione dei miracoli mi svuota lo stomaco in un modo che mi viene una fame che mi mangerei anche Dio! (Uno dei visitatori) Zitto, zitto che Jesus ha dato l’ordine di inginocchiarsi! Tutti i santi si sono messi in ginocchio a pregare... e anche gli altri... anche noi dobbiamo inginocchiarci, sennò il miracolo non riesce! (Altro visitatore) Io non ci vado. Io non ci vado! Non mi importa! Non ci credo e non ci vado in ginocchio! (Altro visitatore) Ti prendesse [colpisse] un fulmine che ti storpia le gambe! (Mima di camminare da storpio) Poi vai da Gesù: «Gesù, fammi il miracolo di...» Niente! Un altro fulmine... track!, anche le braccia! (Mima braccia da paralitico). (Altro personaggio) Zitto, zitto... ha dato l’ordine di sollevare la pietra della tomba. (Uno dei presenti, urlando, ordina e dirige il sollevamento della pietra) Forza! Insieme! Alzate ’sto lastrone! Attenti ai piedi! (Uno spettatore tappandosi il naso) Boia che puzza che viene fuori! Che tanfo! Ma cosa ci hanno buttato dentro... un gatto marcio? (Altro visitatore) No, no, è lui, è Lazzaro, guarda come è ridotto! (Altro visitatore) Ohia, quasi putrefatto... tutti i vermi che gli sortono dagli occhi...


Ah, che schìvio! (Altro visitatore) Che schèrso che gh’han fato! (Altro visitatore) A chi? (Altro visitatore) Al Jesus! Gh’avéan dito che l’éra quatro ziórni che l’avéan interà... Sarà almanco un mese che l’è sóto tèra! No’ ghe pòl riussìre ’sto miracolaménto... (Altro spettatore) Parchè? (In risposta) Parchè l’è tròpo infrolàto ’sto morto! (Altro visitatore) Ghe riésse uguale, parchè quèl lì a l’è un santón tale, che anco se in de la tomba gh’è deréntro quatro òsi marscìdi e tüti sbirulàt, basta che lü ghe rivolta i ögi al ziélo... dòi parole al so’ Padre, e ’ste òsa de colpo se reémpe de carne, de muscoli e vuuummm!, ol va via ’me ’na légura a saltelón! (Altro personaggio) No’ di’ strunsàde! (Altro visitatore) ’Me strunsàde?! Fémo scomèsa? Sìnquo contro quatro che ghe riésse! (Altro visitatore) Sète contro diése che no’ ghe riésse! Tégno banco mi! (Rivolto agli immaginari spettatori con tono da bookmaker che raccoglie scommesse) Tri, quatro, dòi... oto che riése... séte che no’ ghe la fa... (Altro visitatore, disgustato) Basta! Vergogna! Col santo ancora li ch’ol prega, e lori a far scomèsa! Blasfémio! Vergogna!... (All’improvviso) Zìnque baiòcchi per mi che ghe riésse! (Altra voce) Cito! Ol santo el punta ol morto e ghe ordina: «Végne fora Làsaro!» (Altro personaggio) Ah, ah, vegniràn fora i vèrmini che l’è impiegnìdo! (Altro spettatore indignato) Cito blasfémio! (Altro personaggio, allibito) Ol s’è mœve! Deo gràsia, ol s’è mœve! Ol l’è vivo! (Mima il movimento di Lazzaro che risorge, barcollando) Ol Làsaro ol mónta, mónta, mónta... végn sü, végn sü, végn sü... ol bòrla, ol bòrla, ol bòrla... va giò, va giò, végn sü! Se scròda ’me un cagn che vègne föra da l’acqua... tüti i vèrmeni spantegà!

Ah, che schifo! (Altro visitatore) Che scherzo che gli hanno fatto! (Altro visitatore) A chi? (Altro visitatore) A lui, a Gesù! Gli avevano raccontato che era seppellito da soli quattro giorni... Sarà almeno un mese che è sotto terra! Non gli può riuscire ’sto miracolo... (Altro spettatore) Perché? (In risposta) Perché è troppo frollo ’sto morto! (Altro visitatore) Io son sicuro che ce la fa eguale, perché quello è un santone tale, che anche se nella tomba ci stanno quattro ossa marce fradice, basta che lui rivolga gli occhi al cielo... due parole a suo Padre, e ’ste ossa di colpo si riempiono di carne, di muscoli, e vuuummm!, va via a saltelloni come una lepre! (Altro personaggio) Non dire stronzate! (Altro visitatore) Come stronzate?! Facciamo scommessa? Cinque contro quattro che ci riesce! (Altro visitatore) Sette contro dieci che non ci riesce! Tengo banco io! (Rivolto agli immaginari! spettatori con tono da bookmaker che raccoglie scommesse) Tre, quattro, due... otto che riesce... sette che non ce la fa... (Altro visitatore, disgustato) Basta! Vergogna! Col santo ancora lì, che prega e loro che fanno scommesse! Blasfemi! Vergogna!... (All’improvviso) Cinque baiocchi per me che ci riesce! (Altra voce) Zitti! Il santo punta il morto e gli ordina: «Vieni fuori Lazzaro!» (Altro personaggio) Ah, ah, verran fuori i vermi che lo riempiono. (Altro spettatore indignato) Stai zitto, blasfemo! (Altro personaggio, allibito) Si muove! Deo grazia, si muove! È vivo! (Mima il movimento di Lazzaro che risorge, barcollando) Il Lazzaro si rizza, monta, è in piedi... casca, casca, casca... va giù, va giù, viene su! Si scrolla come un cane che sorte dall’acqua... tutti i vermi si spargono intorno! Il panorama del teatro italiano 2 1101


(Mima di ripulirsi, schifato, faccia e corpo dei vermi che gli sono arrivati addosso) Oh! Desgrasiò! Va’ pian co’ ’sti vèrmeni! (Altro visitatore cadendo in ginocchio) Miracolo! Ol l’è vivo! Ol l’ha resuscitàt! Bòja, varda: ol ride, ol piagne.

(Mima di ripulirsi, schifato, faccia e corpo dei vermi che gli sono arrivati addosso) Oh disgraziato! Va’ piano con ’sti vermi! (Altro visitatore cadendo in ginocchio) Miracolo! È vivo! L’ha resuscitato! Boia, guarda: ride, piange.

A turno i personaggi si esaltano per il miracolo.

A turno i personaggi si esaltano per il miracolo.

(Altro visitatore, a sua volta in ginocchio) Meravegióso Fiól de Deo!, mi no’ credevo miga che ti te fudèsse cossì miracolànte! (Quindi, veloce verso il bookmaker) Gh’ho vinciü mi! Sète bajòchi cóntra sìnque! (A Gesù) Maravegióso! Bravo Jesus, bravo!... (All’istante si palpa sul ventre e sul fianco) La méa borsa!?... Ladro! Bravo Jesus! (Volto verso l’esterno) Ladro! Ladro! Jesus, bravo!... (Esce correndo, volgendo ripetutamente il capo sia verso Gesù che verso l’estemo) Ladroooo! ... Jesus! Bravo Jesus! Ladroooo! Bravo Jesus! Ladroooo! Bravoo Jesus!

(Altro visitatore, a sua volta in ginocchio) Meraviglioso Figlio di Dio, io non credevo che tu fossi così miracoloso! (Quindi, veloce verso il bookmaker) Ho vinto io! Sette baiocchi contro cinque! (A Gesù) Meraviglioso! Bravo Jesus, bravo!... (All’istante si palpa sul ventre e sul fianco) La mia borsa!?... Ladro! Bravo Jesus! (Volto verso l’esterno) Ladro! Ladro! Gesù, bravo!... (Esce correndo, volgendo ripetutamente il capo sia verso Gesù che verso l’esterno) La-droooo!... Jesus! Bravo Jesus! Ladroooo! Bravo Jesus! Ladroooo! Bravooo Jesus!

Analisi del testo La parodia del miracolo In Mistero buffo, i miracoli della vita di Cristo narrati nei Vangeli sono proposti secondo l’ottica dissacratoria dei racconti dei giullari medievali e delle feste del carnevale, che volgevano in parodia gli eventi soprannaturali: all’immagine sublimata e celebrativa della tradizione religiosa era così contrapposta un’interpretazione umana e quotidiana, espressione del punto di vista del popolo. Nella Resurrezione di Lazzaro l’abbassamento ironico, rivolto in Mistero buffo alla cultura dominante e alla religione come istituzione, esprime la visione critica del giullare Fo nei confronti di una società (con evidente allusione a quella contemporanea) che trasforma il miracolo in spettacolo o addirittura in occasione di guadagno, rivelando la propria incapacità di vivere autenticamente la dimensione del sacro. Nel testo, la figura di Cristo resta sullo sfondo: in primo piano c’è il pubblico che prima aspetta l’evento con curiosità e poi vi assiste. Nell’attesa si notano i comportamenti tipici di un contesto popolare (la discussione sui prezzi esorbitanti per il posto chiesti dal guardiano del cimitero e, nella parte non antologizzata, l’impazienza di chi vuole che venga rispettata l’ora e si lamenta di dover aspettare; gli spintoni di chi è arrivato per ultimo e vuole passare davanti; la vendita di cibi e di sedie ecc.): insomma, il contrasto degli elementi prosaici e quotidiani con l’eccezionalità di ciò che è atteso genera un effetto di comicità. Attraverso la varietà delle voci (indicate di volta in volta dalle didascalie) emergono anche gli opposti punti di vista nei confronti del miracolo: dallo scetticismo di chi dubita che l’evento prodigioso possa avvenire (espressione dell’atteggiamento critico di una parte del popolo nei confronti del soprannaturale) alla fede semplice di chi, all’opposto, parteggia perché ciò avvenga ed è disposto a scommettere sulla sua riuscita. La parodia e l’ottica dissacratoria si proiettano anche sul miracolo: quasi a mettere alla

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prova le capacità soprannaturali di Cristo, il morto da resuscitare è nella tomba non da tre giorni (come nel racconto evangelico), ma da un mese; il cadavere già in decomposizione è descritto con abbondanza di particolari, quasi con macabro compiacimento. Alla fine, l’evento prodigioso accade, generando stupore e turbamento, ma subito dopo torna a prevalere la normalità che non risparmia il sacro: c’è chi approfitta della ressa per rubare, ma il sacro e il profano coesistono nelle battute del personaggio che è stato derubato e intanto continua a invocare il nome di Gesù («Ladroooo! Jesus! Bravo Jesus!»).

L’umanizzazione della figura di Cristo La figura di Cristo nell’episodio è filtrata attraverso il punto di vista degli spettatori che ne commentano l’immagine con la semplicità e immediatezza di un pubblico popolare: il suo aspetto (piccolo, giovane, delicato) è in contrasto con le aspettative. Nello stupore che accompagna i commenti si sente la sorpresa di scoprire la divinità vicina alla propria fragilità, nonostante l’abitudine di pensarla potente e minacciosa.

La tecnica teatrale e la lingua La resurrezione di Lazzaro, come altri testi di Mistero buffo, si basa sulla performance di un solo attore che interpreta i vari personaggi avvalendosi della voce e della gestualità per differenziarli e in modo che il pubblico immagini il luogo dell’azione (la rappresentazione è priva di elementi – costumi, scene, musiche – che sostengano la finzione). La complessità dell’operazione è stata segnalata dallo stesso Fo: «Questo testo è un cavallo di battaglia da virtuosi, perché il giullare si trova a dover eseguire qualcosa come quindicisedici personaggi di seguito, senza indicarne gli spostamenti se non con il corpo: nemmeno variando la voce, con gli atteggiamenti soltanto. Quindi è uno di questi testi che costringe chi lo esegue ad andare un po’ a soggetto, regolandosi sul ritmo delle risate, dei tempi e dei silenzi del pubblico. È, in pratica, un canovaccio sul quale dovrò improvvisare di volta in volta». Dal punto di vista linguistico, l’elemento più evidente è l’uso del grammelot e la lingua inventata, modellata sui dialetti dell’Italia settentrionale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in max 10 righe. TECNICA NARRATIVA 2. Chi racconta lo svolgersi dell’evento? COMPRENSIONE 3. Come si conclude l’episodio? ANALISI 4. Analizza i commenti degli spettatori sulla figura di Cristo: da che cosa è generato lo stupore che esprimono? Una volta aperta la tomba, il cadavere di Lazzaro risulta decomposto: come viene interpretato il fatto dagli spettatori? Quale timore suscita? Quale valore assume il successo del miracolo?

Interpretare

SCRITTURA 5. Nel testo è presente un giudizio critico nei confronti della religiosità degradata a spettacolo. Ritieni che la denuncia di Fo sia ancora attuale? Pensi che anche oggi ci sia il rischio di strumentalizzare i “miracoli” e altri aspetti della nostra vita, riducendoli a intrattenimento e fonte di lucro? Argomenta le tue opinioni in un testo di circa 20 righe.

Il panorama del teatro italiano 2 1103


4 Il teatro di Giovanni Testori L’influenza della tradizione lombarda Giovanni Testori (1923-1993), complessa personalità di poeta e narratore oltre che drammaturgo, è riconosciuto dalla critica come erede di una tradizione lombarda che ha in Manzoni e Gadda i maggiori maestri; in particolare, la sua produzione teatrale è considerata tra le più significative del secondo Novecento, nonostante le polemiche suscitate sia dai contenuti fortemente trasgressivi sia dal cattolicesimo intransigente che caratterizza l’ultima fase di essa. La prima produzione Testori esordisce, appena ventenne, con il testo teatrale La morte. Un quadro (1943). I temi sono già quelli che contraddistingueranno la sua opera: il corpo, la figura della madre, il senso della morte e del peccato, la possibilità di una pacificazione dei conflitti esistenziali nella fede (una prospettiva che si verificò realmente in seguito, nella vita di Testori, attraverso una sorta di folgorante “conversione”). I drammi di ambientazione popolare Nel 1960, nell’ambito di una più vasta produzione cui l’autore ha dato il titolo complessivo I segreti di Milano, compone due commedie, La Maria Brasca e L’Arialda: quest’ultima, definita dall’autore «il tentativo di una riscoperta in chiave popolare dei contenuti tragici dell’esistenza», è portata in scena la prima volta dal regista Luchino Visconti, ma provoca l’intervento della censura con l’accusa di immoralità. La sperimentazione sui capolavori del passato Al teatro Testori ritorna negli anni Settanta: è il momento della Trilogia degli scarrozzanti (L’Ambleto, 1972; Macbetto, 1974; Edipus, 1977). Pur rimanendo sostanzialmente fedele ai grandi capolavori del passato da cui prende le mosse, Testori li traspone nella realtà degradata del nostro tempo, ambientandoli nella terra padana e ricreandoli con un linguaggio sperimentale, in cui a elementi del dialetto lombardo si mescolano apporti dal francese e dall’inglese. L’espressionismo linguistico utilizzato dall’autore enfatizza la carnalità, la disperazione religiosa, il senso drammatico della morte. In questi testi la forma del monologo risulta funzionale a esprimere la violenza dei temi: la parola, esaltata nella sua forza espressiva, risulta preponderante e concentra in sé stessa l’intera dimensione scenica (come Testori stesso aveva teorizzato nel saggio del 1969, dal titolo significativo: Nel ventre del teatro). I testi “religiosi” Dopo il 1977, comincia una terza fase: Testori si è ormai accostato alla fede (la “conversione” verrà evocata nel dramma Confiteor del 1985), e la testimonia nei suoi scritti con toni accesi ed espressionistici che rimandano al misticismo medievale.

Giovanni Testori.

1104 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


La nuova fase è aperta dal testo teatrale Conversazione con la morte (1978), scritto in seguito alla morte della madre (➜ T6 OL), cui seguono gli intensi oratori (forme musicali drammatiche, d’argomento religioso, eseguite da solisti, coro e orchestra, senza messinscena teatrale): Interrogatorio a Maria (1979) e Factum est (1981), nei quali Testori, attraverso una parola di sconcertante intensità, riflette sulla vita e sulla morte. Factum est consiste in un drammatico monologo, in cui la voce recitante è quella di un feto che esalta la natura divina della vita: un testo “scomodo”, tenuto conto che è recitato in chiese e piazze nel momento in cui l’Italia si divideva sulla legge sull’aborto. Si tratta di testi religiosi in un senso tutto particolare, arditamente sperimentale, quasi “scandaloso”, come “scandalosi” erano del resto i testi dei mistici: Testori «prende Dio come interlocutore. [...] Il Dio incarnato, Cristo presente fisicamente [...]. Con il Testori di questi testi il teatro tornava a essere luogo sacro», in cui gli spettatori erano resi, in modo nuovo e insieme antico, “comunità”, che l’autore trascina con sé «verso il palco infinito del mistero» (Rondoni). A detta dello stesso autore, questa trilogia teatrale costituisce una sorta di “rovesciamento” della precedente trilogia degli anni 1972-77, in cui aveva scandagliato «nel fondo del pantano della vita». Il tema rimane il medesimo ed è il problema del significato della vita e della nascita, ma viste ora da un punto di vista opposto al dissacrante e blasfemo orizzonte ideologico della prima trilogia, espressione di un disperato “maledettismo”: Testori ha ormai scoperto il «senso di tutto ciò che da sempre cercavo, l’amore, la luce, la coscienza, la ragione, la passione dell’esistere». Non a caso questi testi sono stati recitati prevalentemente nelle chiese: il suo teatro tendeva a ridiventare, come nelle sacre rappresentazioni medievali, rito, evento liturgico. In seguito, Testori si misura nuovamente con il capolavoro manzoniano (aveva già scritto per il teatro La monaca di Monza, 1967), mettendo in scena I promessi sposi alla prova (1985), dove Renzo e Lucia rivendicano la loro tragica verità, contro le interpretazioni sbagliate del romanzo. La via della conversione è evocata nel dramma Confiteor (1985), mentre nel dramma Verbò (1989) si immagina un incontro a Milano, dopo la loro morte, di Verlaine e di Rimbaud: contrazione dei cognomi dei due poeti, il titolo evoca anche l’ossessione di Testori per il mondo della parola. Conversazione con la morte Scritta da Testori dopo la perdita della madre, Conversazione con la morte ha un contenuto autobiografico: l’autore si cala, con una quasi totale identificazione, nella voce monologante di un vecchio autore-attore quasi cieco, provato dalla morte della madre e da quella dell’amico discepolo. Il testo è pensato come il suo ultimo monologo, pronunciato dal sottoscala del teatro. La domanda sul significato dell’esistenza espressa da Testori in forma drammatica fino a quest’opera trova ora una formulazione positiva grazie a una visione rinnovata, non più tragica ma religiosa. L’esperienza della morte fa vedere la vita passata con una prospettiva nuova, mette a nudo le pose, la magniloquenza degli eroi del teatro, che ora gli sembrano «povere carcasse, burattini, frammenti di costumi»; viene meno l’orgoglio per la propria arte, capace di conquistare lo spettatore. Da quell’incontro è messa in discussione anche online l’invenzione di un linguaggio complesso a cui contrappone T6 Giovanni Testori ora la parola “nuda”, esprimendo il bisogno di riappropriarsi Colloquio con la madre morta Conversazione con la morte di questa, «resa vuota e inerte / come la spoglia di una cicala».

Il panorama del teatro italiano 2 1105


Conversazione con la morte GENERE

monologo autobiografico

DATA

1978

TEMI

• riflessione autobiografica scritta dopo la morte della madre • visione non più tragica ma religiosa dell’esistenza.

5 Dagli ultimi decenni del Novecento a oggi Verso un nuovo teatro Negli anni Sessanta, in polemica con il teatro di prosa tradizionale, nascono molte esperienze sperimentali ad opera di gruppi spontanei che scelgono spazi alternativi ai circuiti ufficiali. L’avanguardia teatrale italiana condivide la volontà di rinnovamento con le sperimentazioni contemporanee a livello europeo e statunitense (come il famoso gruppo del Living Theatre). Le sperimentazioni degli anni Sessanta in Italia si collegano a una visione e a un programma comuni, definiti nel “Convegno per un nuovo teatro” svoltosi a Ivrea nel 1967 col sostegno della Fondazione Adriano Olivetti (➜ C13). In quell’occasione sono elaborati nuovi modelli teatrali alternativi a quelli tradizionali: il «teatro laboratorio» e il «teatro collettivo». All’idea dello spettacolo come messa in scena di un copione d’autore da parte degli attori con la supervisione di un regista è contrapposta la concezione del «testo spettacolare», come sintesi di parole, azione, movimenti, effetti a cui partecipano una pluralità di soggetti (scenografi, registi, attori, tecnici): il testo scritto è solo una componente, mentre lo spettacolo risulta opera a responsabilità collettiva. Si sostiene inoltre la necessità di un nuovo ruolo sociale del teatro, presente nelle diverse realtà della vita (del lavoro, della salute, dei luoghi dove le persone vivono), con uno scambio proficuo di esperienze. Lo spirito di ricerca e

Una scena da Orlando furioso di Luca Ronconi (1969).

1106 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


innovazione di quel periodo ha un esempio significativo nello spettacolo Orlando furioso del 1969 (➜ VOL 1B C5) scritto dal regista Luca Ronconi (1932-2015) con la collaborazione di Edoardo Sanguineti, inizio di una lunga e multiforme attività che ha dato un contributo importante alla storia della regia e del teatro. La rappresentazione del poema ariostesco, con la simultaneità delle scene – corrispondenti ai diversi nuclei narrativi dell’opera – in luoghi distinti tra cui il pubblico poteva scegliere e con gli attori in molti momenti dello spettacolo tra la gente, realizzava la messa in discussione della tradizionale divisione tra palcoscenico e pubblico. Al laboratorio di idee che il convegno di Ivrea documenta si collegano le sperimentazioni più significative degli anni Sessanta e le figure più importanti, da Leo De Berardinis (1940-2008) a Giuliano Scabia (n. 1935), a Mario Ricci (1932-2010) a Carmelo Bene (1937-2002), uno degli esponenti più importanti del teatro sperimentale italiano della seconda metà del Novecento. Elemento centrale della sua concezione e pratica teatrale è il rifiuto del “teatro di testo”, basato sulla recitazione di un testo precostituito, a cui Bene contrappone la “scrittura di scena”: è l’attore, la sua voce e la sua gestualità a fare lo spettacolo, mentre il testo è destituito della sua condizione privilegiata per assumere lo stesso valore di altri elementi come le luci, le musiche, ecc. Per quanto riguarda il ruolo dell’attore, Bene mette in discussione la recitazione fondata sulla tradizionale immedesimazione nel ruolo da interpretare. Bene utilizza per lo più testi autorevoli della tradizione teatrale e letteraria, che rivisita in modo personale, talvolta parodico, ma sempre comunque provocatorio. Tra di essi Amleto e Macbeth, Pinocchio, Don Chisciotte o ancora Salomè di Wilde. online

Per approfondire Innovatori della scena italiana

Il «teatro di narrazione» Negli anni Novanta del Novecento si sviluppa il cosiddetto «teatro di narrazione»: il modello sono il Mistero buffo di Dario Fo e le esperienze di Giuliano Scabia, ma anche di drammaturghi europei. La formula «teatro di narrazione» definisce forme di spettacolo in cui l’elemento centrale è il racconto di una storia: gli autori-attori (in genere uno solo) si presentano sulla scena in veste non di personaggio ma di voce narrante, in uno spazio scenico generalmente privo di supporti scenografici. Alla forza della parola è affidata la rievocazione dei fatti, tratti dalla contemporaneità, con una finalità di impegno civile che stabilisce un rapporto intenso tra chi agisce sul palcoscenico e il pubblico. È il caso dell’esperienza teatrale di Marco Paolini (n. 1956), tra i primi a praticare il teatro di narrazione: Il racconto del Vajont (1994, dedicato alla catastrofe della diga nel 1963 ➜ T7 OL) e I-TIGI Canto per Ustica (2000, sul disastro aereo del 1980) e i più recenti Il sergente (ispirato da Il sergente nella neve di Rigoni Stern, sulla ritirata dei soldati italiani dalla Russia nella seconda guerra mondiale) e Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute del 2011 (vicende legate alle teorie dell’eugenetica nazista, che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone disabili o di malati psichici, al fine di evitare la trasmissione di malformazioni o handicap alle generazioni a seguire). La seconda generazione del teatro di narrazione ha come esponente principale Ascanio Celestini (n. 1972): dopo la trilogia Milleuno, ispirata all’opera di Pasolini, che racconta la vita degli emarginati delle borgate di Roma, acquista più vasta notorietà con Radio clandestina (2000), racconto dell’eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944; in Scemo di guerra (2004) la Seconda guerra mondiale è rivissuta attraverso la figura del padre nel giorno della liberazione di Roma; in La pecora nera (2005, trasposto in chiave cinematografica nel 2010) le storie di persone vissute in manicomio si coniugano con l’elemento fantastico che distingue la narrazione di Celestini rispetto alle altre forme del teatro di narrazione.

Il panorama del teatro italiano 2 1107


Ultime tendenze Dall’inizio del nuovo millennio la drammaturgia italiana ha vissuto una stagione particolarmente fertile, con un’ampia produzione di testi in prevalenza di giovani autori. Tra i drammaturghi dell’ultima generazione si è distinto Stefano Massini (n. 1975), la cui ampia produzione spazia dalle storie di artisti e scrittori (Van Gogh e Kafka) alla Shoah (Processo a Dio) all’attualità politica e civile: da Donna rieducabile (2007), un memorandum dedicato alla giornalista russa Anna Politkovskaja, assassinata a causa dei suoi servizi sulla guerra in Cecenia, a 7 minuti (2013), una riflessione sul mondo del lavoro. Mentre nel teatro di narrazione prevale la forma del racconto diretto con il pubblico, l’obiettivo di Massini non è raccontare la cronaca, ma indagarne le ragioni profonde, farne la “storia”. Lehman Trilogy (2014), rappresentata in alcuni importanti teatri europei e al Piccolo di Milano con la regia di Luca Ronconi, ricostruisce la storia del capitalismo americano (dalle coltivazioni di cotone alla costruzione delle ferrovie, dal petrolio alle industrie più recenti e alla finanza) attraverso la saga faonline miliare dei fratelli Lehman, fondatori dell’omonima banca. Il testo T7 Marco Paolini e Gabriele Vacis Una tragedia annunciata non è strutturato nella forma tradizionale della sceneggiatura Il racconto del Vajont teatrale: prevale il racconto, spesso in versi, con pochi dialoghi.

Stefano Massini.

Fissare i concetti Il teatro del Novecento Il teatro del Novecento: linee di tendenza 1. Quali sono le principali sperimentazioni teatrali a partire dagli anni Sessanta? Brecht 2. In quale contesto storico nasce e si sviluppa la produzione teatrale di Bertolt Brecht? 3. Che cosa intende Brecht per teatro epico? 4. In cosa consiste, per Brecht, la tecnica dello straniamento? Ionesco 5. Quali elementi fanno della Cantatrice calva di Ionesco un’”anticommedia”? 6. In che cosa consiste il nonsense? In quale tipo di teatro era presente? Beckett 7. Quale concezione di vita contraddistingue il teatro di Beckett? 8. Come rappresenta Beckett la crisi dei valori della civiltà occidentale? De Filippo 9. In che cosa consiste la riforma della commedia napoletana attuata da Eduardo De Filippo? Fo 10. Quali aspetti della tradizione teatrale italiana sono ripresi nel teatro di Dario Fo? 11. Spiega il significato del titolo Mistero buffo e indicane i riferimenti storici e letterari. Testori 12. Quali sono le caratteristiche del teatro di Testori?

1108 Il Novecento (Seconda parte) 21 Il teatro del Novecento


Il Novecento Duecento e Trecento (Seconda parte) Lateatro Il letteratura del Novecento cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 La sperimentazione di un nuovo teatro

Il teatro del Novecento: linee di tendenza Nel corso del Novecento il teatro, influenzato da cambiamenti della realtà circostante, subisce un profondo rinnovamento. Si assiste a una trasformazione nei temi e nelle modalità della rappresentazione teatrale e a riflessioni sulla stessa funzione dell’attività teatrale. Mentre la produzione europea si diffonde nel mondo, essa incorpora elementi da altre tradizioni culturali e porta all’estremo le tendenze innovative del tardo Ottocento. Dunque, si mette in discussione l’idea che il teatro debba semplicemente riflettere la realtà e si ricercano nuove formule espressive, includendo luoghi alternativi di rappresentazione (come piazze e fabbriche), una concezione scenica rinnovata e una ridefinizione dei generi e dei ruoli del regista e dell’attore, oltre che della centralità della parola e del testo scritto. Il teatro delle avanguardie e lo sperimentalismo del primo Novecento Dalla fine dell’Ottocento arrivano in scena contenuti provocatori e dissacratori, critici verso la vita borghese dell’epoca e realizzati sotto forma di spettacoli di danza e musica con contaminazioni interculturali; oppure, in una fase più avanzata, di vere e proprie rappresentazioni teatrali dominate dal gusto dell’eccesso e da un ruolo attivo del pubblico. Il teatro didattico ed epico di Brecht Il teatro di Bertolt Brecht (1898-1956) condivide con le avanguardie il rifiuto della verosimiglianza ma respinge il coinvolgimento emotivo dello spettatore. Nella sua concezione, la rappresentazione teatrale deve essere “didascalica” ed “epica”, cioè mettere in scena non una vicenda nel suo accadere ma la narrazione problematica di essa, per suscitare la presa di coscienza politica da parte del pubblico; pubblico che, come detto, è chiamato a mantenere sempre un distacco critico dagli eventi narrati, lo “straniamento”, cioè la mancanza di immedesimazione, sostenuto in ciò da mezzi letterari e scenici opportunamente utilizzati dal drammaturgo. Tra i lavori più importanti si ricorda Madre Courage e i suoi figli (1939).

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 1109


Il «teatro dell’assurdo» L’espressione «teatro dell’assurdo» indica una serie di opere, composte in prevalenza negli anni Cinquanta, accomunate dal tema della mancanza di senso della vita umana, reso attraverso la paradossalità delle situazioni rappresentate. L’“assurdità” del mondo moderno, già oggetto della filosofia esistenzialista, è messa in scena senza una logica narrativa, in storie assurde popolate di dialoghi stereotipati e illogici che vogliono trasmettere l’impossibilità di una vera comunicazione nel mondo moderno. Gli esponenti più significativi sono Eugène Ionesco (1909-1994) e Samuel Beckett (1906-1989). La cantatrice calva di Ionesco, definita dall’autore un’“anticommedia”, mette in scena un modo di vivere basato su rituali ripetitivi e conformistici: i personaggi sono privi di identità psicologica (le loro battute sono intercambiabili); i dialoghi, stereotipati e inverosimili, che inducono al riso, riflettono il non senso della comunicazione e dei rapporti umani. Il teatro di Beckett, scarno ed espressione di una visione radicalmente pessimistica della contemporaneità, rappresenta un mondo interiore frantumato, alla ricerca vana di un significato. Aspettando Godot è la storia di un’attesa indefinita, senza che accada nulla; gli elementi comici (la gestualità meccanica, le battute prive di significato logico) evidenziano l’assurdità della vita. Le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta in Europa e negli Stati Uniti I numerosi gruppi teatrali nati in questo periodo hanno all’inizio una finalità politica ma si evolvono in seguito verso esperienze di un rinnovamento anche interiore.

2 Il panorama del teatro italiano

Le tendenze dominanti Nei primi decenni del Novecento il teatro italiano partecipa al rinnovamento europeo attraverso le sperimentazioni dell’avanguardia futurista e di Pirandello. Dopo il secondo conflitto mondiale, alcuni teatri e registi promuovono la messa in scena delle opere dei drammaturghi europei e americani censurati dal regime fascista (emblematico il caso di Brecht, rappresentato al Piccolo Teatro di Milano). Oltre che nel campo della regia, però, la ricerca teatrale si sviluppa anche nell’ambito della produzione di testi da parte di nuove e promettenti leve.

1110 Il Novecento (Seconda parte) Il teatro del Novecento


La “commedia umana” nel teatro di De Filippo Tra gli autori del periodo, Eduardo De Filippo (1900-1984) riforma il teatro napoletano, limandone il carattere farsesco e introducendo elementi di riflessione critica sulla società, con attenzione specialmente verso il tema della famiglia. Nella sua drammaturgia (si veda specialmente Napoli milionaria!, del 1945) convergono, dunque, la ricca tradizione dialettale partenopea ottocentesca e la lezione pirandelliana, con oggetto il mondo popolare e piccolo-borghese nella sua miseria morale; ma senza dimenticare, anche, personaggi positivi e sprazzi di ottimismo verso il futuro. Il teatro trasgressivo di Dario Fo Presenza importante del teatro “politico” è Dario Fo (19262016), premio Nobel nel 1997, che nelle sue commedie, eredi della tradizione carnevalesca medievale, realizza, con grande capacità recitativa, un’efficace parodia della violenza del potere, in grado di stimolare la coscienza critica del pubblico. Tali coordinate si ritrovano, ad esempio, nel suo più celebre lavoro, Mistero Buffo (1969) dove, per fornire una lettura alternativa di selezionati eventi storici, alla tradizione dei giullari medievali si uniscono un’espressiva mimica scenica e l’inventiva linguistica del grammelot. Il teatro di Giovanni Testori Nel teatro dello scrittore, storico dell’arte e critico letterario Giovanni Testori (1923-1293), sono centrali, lungo tutta la carriera, temi quali la ricerca del significato della vita, della nascita e della sofferenza raccontati, soprattutto negli anni Settanta, attraverso la forma del monologo e servendosi di un marcato sperimentalismo linguistico. Dopo il suo avvicinamento alla fede, alla fine del decennio, l’autore recupera una religiosità quasi medievale, più marcata e intransigente, e la sua produzione assume la forma drammaturgica del rito liturgico basato sulla parola: capace, però, di trovare finalmente un significato positivo all’esistenza. Dagli ultimi decenni del Novecento a oggi Nella multiforme produzione e sperimentazione degli ultimi decenni del Novecento e dell’inizio del nuovo millennio (si vedano il «teatro laboratorio», il «teatro collettivo» e il «testo spettacolare») il filone che esprime gli esiti più convincenti è il “teatro di narrazione”, i cui interpreti più significativi sono Marco Paolini e Ascanio Celestini: centrale è il racconto di fatti contemporanei in un contesto scenico spoglio e con finalità di impegno civile. Stefano Massini, invece, nel nuovo Millennio si è occupato di attualità politica e civile non raccontando la cronaca, ma indagandone le ragioni profonde attraverso lo strumento del racconto, spesso in versi, con pochi dialoghi.

Zona Competenze Esposizione orale

1. In un intervento orale di circa 5 minuti presenta oralmente gli elementi di affinità e le differenze che si possono riscontrare nella produzione di due grandi esponenti del teatro politico del Novecento: Brecht e Fo. 2. Illustra oralmente (circa 5 minuti) le tematiche e le modalità rappresentative che accomunano le opere di Ionesco e di Beckett.

Scrittura

3. La cifra del teatro novecentesco è la sperimentazione: illustra in un testo espositivo di max 20 righe gli elementi che l’hanno contraddistinta dall’inizio alla fine del secolo.

Sintesi

Il Novecento (Seconda parte) 1111



Nuova narrativa e nuova poesia (1980-2023)

narrativa 1 La1. Unnuova revival inaspettato e i successivi sviluppi 2. I caratteri generali di una nuova letteratura 3. Lo sperimentalismo degli ultimi decenni 4. Nuovi pubblici per una letteratura migliore

nuova poesia 2 La1. Considerazioni preliminari 2. Un nuovo tipo di poesia 3. I nuovi poeti 4. Conclusioni

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La nuova narrativa

1 La nuova narrativa 1 Un revival inaspettato e i successivi sviluppi Le novità degli anni Ottanta Nel 1980, dopo un decennio di quasi silenzio dovuto a vari fattori – tra cui il primato dell’impegno politico e di una lettura orientata solo sulla saggistica (conseguenza della teorizzazione avversa alla narrativa da parte della neoavanguardia del Gruppo 63) – torna in Italia il romanzo, e con esso la voglia di narrare e il bisogno di leggere libri di fiction e non solo saggi da cui ricavare un utile immediato. La nuova narrativa è sollecitata da Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Calvino e da Il nome della rosa di Eco (1980), due opere di intellettuali di grande notorietà che inaugurano il postmoderno italiano (inteso come gusto del rifacimento, eclettismo degli stili, citazione, parodia dei generi, ars combinatoria); ed è simboleggiata da due libri che più di altri danno il segnale di un nuovo inizio: Altri online libertini di Pier Vittorio Tondelli (1980) e Treno di panna di T1 Andrea De Carlo Andrea De Carlo (1981), quest’ultimo sponsorizzato in quarta Uno sguardo asettico di copertina dallo stesso Calvino. Treno di panna T2 Pier Vittorio Tondelli Avventure nell’estate del settantaquattro Altri libertini, Il viaggio

PER APPROFONDIRE

I precedenti: gli anni Settanta In realtà negli anni Settanta erano apparsi i cosiddetti “Franchi Narratori”, un’innovativa collana della Feltrinelli che presentava libri di scrittori “non professionali”: dal pastore sardo Gavino Ledda (autore del fortunato Padre padrone) al detenuto Sante Notarnicola e all’operaio Tommaso Di Ciaula. Inoltre, lo stesso decennio si caratterizza per due clamorosi casi editoriali e per il relativo successo di vendite: La Storia (1975) di Elsa Morante (➜C14), grande romanzo civile che letterariamente rilegge in termini moderni il feuilleton ottocentesco, e lo “scandaloso” Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti (1976) di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, crudo documento generazionale di interesse, però, soltanto sociologico. Oltre ad Horcynus orca (1975) di Stefano D’Arrigo, romanzo sperimentale di oltre 1200 pagine e di impervia lettura, paragonato a Moby Dick e all’Ulisse joyciano, scritto in una lingua stravolta e raffinatissima, spesso indecifrabile. Ma solo con De Carlo e Tondelli nasce un nuovo sguardo sulle cose, una nuova scrittura più agile, più visiva, più svincolata dalla tradizione, che ha come fine quello di raccontare una nuova esperienza del mondo, dopo il decennio della maggiore conflittualità sociale nella storia del nostro paese.

Beat Bisogna distinguere tra movimento beat e letteratura beat, benché tra loro intrecciati. Il primo è stato un movimento giovanile americano anticonformista degli anni Cinquanta, caratterizzato da spirito di ribellione e rifiuto dei valori tradizionali (conteneva i primi fermenti pacifisti e femministi). La seconda ne ha rappresentato la proiezione artistico-letteraria: suoi esponenti di spicco Allen Ginsberg, William Borroughs e soprattutto Jack Kerouac, il cui romanzo Sulla strada (1952) ne fu il manifesto riconosciuto. La radicalità di quel movimento, la voglia di andare contro la tradizione, di esprimere un anelito

di libertà e di espandere i confini della coscienza portarono in alcuni casi all’uso di droghe e all’alcolismo, in altri alla pratica di tecniche meditative orientali. Trattandosi di una protesta in gran parte pre-politica, individualista, si manifestava attraverso il viaggio, la fuga, il nomadismo. Diversa la musica beat, successiva di un decennio e maturata in Inghilterra, contraddistinta da una strumentazione di tipo nuovo (chitarra e basso elettrici, ecc.), da un abbigliamento e look “trasgressivi” dei musicisti e da un sound che proveniva dal blues e dal rock and roll. Si pensi a gruppi come i Beatles, i Rolling Stones, gli Animals…

1114 IL NOVECENTO (SECONDA PARTE) Nuova narrativa e nuova poesia (1980-2023)


Pier Vittorio Tondelli e Andrea De Carlo Il giovanilistico e beat (PER APPROFONDIRE, Beat) Tondelli viene dopo la fine delle ideologie, o “grandi narrazioni”: egli non intende riparare il mondo come voleva fare la generazione precedente e all’impegno in tal senso preferisce un approccio vitalistico alla realtà e l’espressione di emozioni elementari attraverso una sapiente riproduzione del parlato; egli mescola, dunque, colloquialità gergale, riferimenti colti, scurrilità e ironia, trasgressione e musica rock. Con De Carlo, invece, si afferma uno stile algido e ipervisivo, che si sofferma minuziosamente sulle superfici della realtà, convinto che l’unico modo per parlare di interiorità sia descrivere in modo accurato l’esteriorità. Gli altri protagonisti degli anni Ottanta Poi, nel corso del decennio, si susseguono Daniele Del Giudice con Atlante occidentale, Aldo Busi con Seminario sulla gioventù, Marco Lodoli con Diario di un millennio che fugge, l’esordio di Sandro Veronesi con Per dove parte questo treno allegro, insieme ai libri di qualche “fratello maggiore” come Antonio Tabucchi, Vincenzo Cerami, Antonio Debenedetti, Giorgio Montefoschi, Nico Orengo, Renzo Paris e Sebastiano Vassalli; da ricordare anche l’affermazione di online una narratrice autentica, di ascendenza moT3 Daniele Del Giudice Dialogo sul tempo rantiana, come la napoletana Fabrizia RaAtlante occidentale mondino. Gli anni Novanta Negli anni Novanta emergono i cosiddetti “cannibali” o pulp, proposti in una fortunata antologia, che reinventano la realtà rielaborando i linguaggi dei media, della pubblicità, del cinema di serie B (➜ SGUARDO SUL CINEMA, Il cinema di serie B): soprattutto Niccolò Ammaniti, il più dotato come narratore; poi Tiziano Scarpa, Silvia Ballestra, Simona Vinci, Aldo Nove.

Sguardo sul cinema Il cinema di serie B Il film di serie B, o B-movie, che in prima battuta significa semplicemente una pellicola di scarsa qualità realizzata con pochi mezzi e in tempi ridotti (e perlopiù “di genere”, ovvero thriller, azione, porno, western, horror…), ha conosciuto negli anni Novanta del secolo scorso una sorprendente rivalutazione. Soprattutto attraverso il cinema di Quentin Tarantino – il cui capolavoro è Pulp fiction del 1994 – i generi e sottogeneri del cinema di serie B sono stati riusati entro una contaminazione geniale che ha segnato un’intera epoca. In Italia il recupero

dei B-movies verrà sancito dalla trasmissione tv Stracult di Marco Giusti, e dal libro di quest’ultimo Stracult (1999), enciclopedia “della cinematografia italiana dell’eccesso e dell’improbabile” dagli anni Sessanta agli anni Ottanta: l’etichetta stracult comprende i film trash, bis, gore, splatter, cult, tra “l’horror all’amatriciana”, “fantascientifici girati all’Eur”, “pornonazi”, “buzzancamovies”, “spaghetti kung fu”, “sottozorri alla Lo Cascio”, “sottotarzan alla Fidani”, “noir di Tano Cimarosa”, “alien alla Ciro Ippolito”, “franco&ciccio movies”.

Una scena del film Pulp fiction di Quentin Tarantino.

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A proposito dell’ascendenza dei “cannibali” è stato fatto il nome di Tommaso Landolfi, un grande minore del Novecento che di orrori e splatter e poi fumettistico e letterario, caratterizzato da scene truculente, se ne intendeva (basti pensare al suo Mar delle blatte, 1939, divenuto di violenza sanguinosa, un fumetto negli anni Ottanta, disegnato da Filippo Scòzzari). Ma qui rappresentate in maniera molto esplicita e spesso iperbolica, tanto prevalgono l’artificio, la parodia, la recita. Gli scrittori “cannibali” affronda sfociare talora nel cattivo tano temi alla Tod Browning – regista di un film maledetto del 1931, gusto. Il termine si è diffuso quando uscì nelle sale il film Freaks, sui “mostri” di un circo – con lo sguardo però divertito o cinico Zombi (1978) di Cesar Romero, a seguito di una sua dichiarazione. di Dino Risi: insomma, l’ennesimo travestimento dell’eterna commedia Ma probabile capostipite fu il all’italiana. Altri critici hanno parlato di una «Arcadia dell’horror» (Mario film Intolerance di D.W. Griffith (1916), che presentava scene di Barenghi), come le canzoncine per bambini che parlano di zombies e decapitazione e schizzi di sangue. i cartoni animati con protagonisti scheletri. Forse l’inveramento della poetica dei “cannibali” si avrà solo vent’anni dopo, con i romanzi claustrofobici di Gilda Policastro, spericolate catabasi (come gli antichi greci chiamavano le discese nell’oltretomba: celebri quelle di Ercole, Orfeo, Teseo…) in un non arcadico inferno di ossessioni reali, e con le “storie nere” di Antonella Lattanzi, raccontate con una lingua anticonvenzionale. Ma anche con i romanzi di Francesco Permunian, una fenomenologia narrativa del mostruoso e dell’insano, e con quello di esordio di Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi (2002), dove sulla scia di Bernhard e Beckett l’autore mette in scena l’ossessività del protagonista, che conta metodicamente i passi dei suoi percorsi per riempire illusoriamente il vuoto che ha dentro di sé. Sul versante opposto, il romanzo epistolare Va' dove ti porta il cuore, di Susanna Tamaro, dal successo perfino planetario, appartiene solo apparentemente a una letteratura rosa: è invece una meditazione sulla vita e sulla morte, in forma diaristica, che conferma una domanda di saggezza a cui forse istituzioni come la famiglia e la scuola sembrano non rispondere più.

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Lessico splatter Genere cinematografico,

Dopo il 2000 Negli anni Zero si osserva la moltiplicazione dei libri cosiddetti ibridi, al confine di generi letterari diversi, tra fiction pura, saggio, reportage, memoir; ma anche la tendenza alla forma breve, così congeniale alla nostra tradizione: tra gli autori recenti di racconti vanno segnalati Giulio Mozzi, Guido Conti e Antonio Tabucchi (fanno eccezione il fluviale La scuola cattolica di Edoardo Albinati, 1300 pagine, vincitore del Premio Strega nel 2016 o l’imponente trilogia di Antonio Moresco) e il trionfo del giallo/noir italiano. Gli anni Dieci conoscono soprattutto il boom della autofiction: si ricordino Walter Siti con Troppi paradisi (2006) e Michele Mari con Leggenda privata (2007); e poi Giulio Mozzi, Emanuele Trevi, Antonio Scurati, Paolo Di Paolo e Mauro Covacich: autori in grado di dar vita a quel genere romanzesco che mette in scena l’autore stesso e la sua biografia, romanzata in modi stranianti. Da non dimenticare è il caso letterario ed editoriale di Elena Ferrante, divenuto serie TV e grande successo negli Stati Uniti: la sua quadrilogia dell’Amica geniale (20112014) ha saputo rileggere alcuni cliché della napoletanità con una lingua densa e una sapiente drammaturgia.

2 I caratteri generali di una nuova letteratura La letteratura italiana del nuovo millennio In generale, nel terzo millennio, e dopo il trauma dell’11 settembre 2001, si registra un brusco ritorno alla realtà e al realismo letterario, un bisogno di storie vere, create anche mescolando liberamente fiction e non-fiction, invenzione e resoconto documentario: «La ruota della storia

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tornò a girare sospinta proprio da un evento spettacolare» (Nicola Lagioia in Occidente per principianti). La stagione del Postmodernismo, con la sua mania dei rifacimenti e delle parodie, con le sue riscritture e i suoi manierismi, con la sua giocosa indistinzione di realtà e simulazione, con il suo insostenibile assioma della fine della Storia, sembra esaurita. Di quella stagione è stato un interprete partecipe e autoironico Tommaso Pincio, che già nel nome d’arte intendeva rifarsi allo scrittore americano Thomas Pynchon. Adesso, accanto a una letteratura impegnata di nuovo a dire la “verità” – sia pure con tutta la problematicità di tale concetto – si manifestano negli stessi anni, parallelamente, nuove forme di impegno civile e democrazia partecipativa, dalle lotte sull’ambiente a quelle per la pace e per l’ampliamento dei diritti. Qualsiasi tentativo di mappatura critica relativo a questo periodo non potrà che essere parziale e largamente provvisorio. A titolo di suggestione potremmo indicare solo alcune tendenze o alcuni filoni principali, dal punto di vista tematico e stilistico, ma tutte da verificare caso per caso: neocalviniani (i già Lessico citati De Carlo e Del Giudice), giovanilisti (i primi Tondelli ed Enrico arbereshe Palandri, Giuseppe Culicchia, Enrico Brizzi), espressionisti (Busi), Il termine Arber significa “albanese” nella lingua di quel paese. Sono romanzieri puri (Veronesi, Piersanti), comico-satirici (Stefano Ben- gli albanesi d’Italia (circa 100.000 ni, Gene Gnocchi), postmoderni (Alessandro Baricco), anche un fi- distribuiti in 50 comunità), la minoranza etnico-linguistica lone migrante (di cui parliamo tra poco) e un filone “etnico-regio- proveniente dall’Albania fin dal secolo, all’epoca dell’invasione nale” (dalla Accabadora di Michela Murgia e La leggenda di Redenta XV ottomana del loro paese, e stanziata Tiria di Salvatore Niffoi, sardi, alla Moto di Scanderberg del calabrese nell’Italia meridionale e insulare (specialmente in Calabria). La loro di etnia arbereshe Carmine Abate a Mille anni che sto qui della luca- cultura si conserva nella lingua, na Mariolina Venezia). Riflessione a parte meriterebbero i libri fortu- nel rito religioso (bizantino), nei costumi, nelle tradizioni, negli usi, nati di Federico Moccia e Fabio Volo, nei quali convivono una evi- nell’arte e nella gastronomia, ancora gelosamente conservati, con dente assenza di stile, di lingua personale e l’indubbia abilità nell’in- oggi la consapevolezza di appartenere a uno specifico gruppo etnico. tercettare umori e sentimenti diffusi. La cesura con il passato La narrativa che si afferma negli anni Ottanta esibisce il senso di una forte cesura con modelli e stili del passato. Anche se per alcuni autori ci sono filiazioni esplicite (De Carlo e Del Giudice vengono presentati da Calvino), la maggior parte dei giovani narratori sembrano nascere da sé stessi. I loro modelli, per la prima volta nella nostra storia letteraria, non sono più soltanto letterari ma musicali, cinematografici o fumettistici. Un cantante rock come Joe Jackson per Tondelli o un regista come Quentin Tarantino per i “cannibali” sono più importanti di Pavese e Vittorini, e una serie televisiva può contare più dell’intera opera di Bassani. Infatti, in Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta (2016), il critico Giorgio Ficara dichiara la fine della nostra letteratura: impoverimento della lingua e suo appiattimento sui gerghi della comunicazione, assenza di un rapporto con la tradizione; mentre La letteratura circostante (2018) di Gianluigi Simonetti registra una mutazione epocale della letteratura contemporanea: costretta a confrontarsi con linguaggi estetici basati sulla velocità e votati al divertimento, orientata sull’autore come personaggio spettacolare (meglio se giovane, telegenico e outsider). Anche qui si sottolinea il distacco netto dalla tradizione del Novecento, anzitutto sul piano stilistico e linguistico, dove si contrappone alla letteratura di una volta (“conoscitiva”) quella di oggi (“emotiva”). Si tratta di una tesi radicale non priva di fondamento, e capace di descrivere alcuni processi in atto: crescente dominio del mercato, letteratura ridotta a un consumo tra gli altri, assenza di ogni vera sperimentazione, confezionamento di prodotti soprattutto “leggibili”, linguaggio monocorde e ipersemplificato, sintassi elementare e trame lineari. La nuova narrativa 1 1117


PER APPROFONDIRE

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Una rinnovata pluralità… Ma l’impressione generale è, invece, di una letteratura plurale, assai differenziata al suo interno, con molteplici livelli e registri stilistici, capace di soddisfare bisogni anche molto diversi del proprio pubblico. C’è la letteratura dichiaratamente di genere: si pensi all’esplosione del neo-noir italiano, che rivela un alto artigianato in autori come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Raul Montanari e Massimo Carlotto (oltre a qualche presenza femminile più atipica, come Piera Carlomagno); o anche alla fantascienza cyberpunk (➜ PER APPROFONDIRE, Cyberpunk) riletta da Valerio Evangelisti in modo originale; o al rosa autoironico di Stefania Bertola. C’è poi il cosiddetto “nobile intrattenimento”, insieme di opere che tentano di veicolare temi “esistenziali”, ma dentro un involucro popolare, ad alta temperatura emotiva (da Margaret Mazzantini e Cristina Comencini a Paolo Giordano); e c’è la letteratura colta, che invece cerca una “forma” più personale, anche dissonante, contro l’eccessiva facilità della cultura di massa, ma senza rinunciare del tutto a una affabilità comunicativa che consiste in un patto con i lettori. Se pensiamo ai romanzi di Sandro Veronesi, Domenico Starnone, Edoardo Albinati, Antonio Moresco, Claudio Piersanti, Luca Doninelli, Walter Siti, Giuseppe Montesano, è innegabile che ci troviamo davanti a una prosa elaborata stilisticamente, letterariamente consapevole, in dialogo costante con la tradizione e i suoi modelli. Romanzieri capaci di creare, attraverso una lingua personalissima, personaggi robusti e di inventare storie appassionanti rielaborando archetipi dell’immaginario collettivo. Insomma, tra la letteratura come mero intrattenimento e la letteratura come forma privilegiata di conoscenza si distende un’ampia varietà di proposte.

Cyberpunk Corrente letteraria e artistica della prima metà degli anni Ottanta del XX secolo, sottogenere del filone più cupo della fantascienza. Il nome si fa derivare da cibernetica e punk e fu originariamente coniato da Bruce Bethke come titolo per il suo racconto Cyberpunk, pubblicato nel 1983. Modelli di riferimento: Orwell, Huxley, Ballard, Ph. K. Dick. Il cyberpunk tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate a un certo grado di ribellione verso la società. Suoi esponenti: William Gibson, Bruce Sterling, John Shirley, Rudy Rucker, Michael Swanwick, Pat Cadigan, Lewis Shiner, Richard Kadrey e altri. Questi scrittori in realtà avevano deciso di chiamarsi Mirrorshades Movement (“movimento degli occhiali a specchio”). Di questi, Sterling divenne il principale ideologo, ma Gibson, con Neuromante (1984), è stato il più celebre autore connesso al termine cyberpunk, e il suo romanzo è considerato «l’archetipo dell’opera cyberpunk». Secondo lo stesso Gibson il cyberpunk non fu mai un vero e proprio movimento, quanto piuttosto una sensibilità comune ad alcuni autori, identificabili in quelli raccolti nella prima antologia del cyberpunk intitolata Mirrorshades (1986).

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… nel solco della tradizione La letteratura attuale sembra comunque riproporre alcuni schemi familiari alle patrie lettere: ad esempio, l’eterno contrasto tra gli “stilisti” – eleganti prosatori, virtuosi della scrittura (Michele Mari, con la sua lingua ricercata fitta di allusioni culturali) – e gli “affabulatori”, storyteller e crea­tori di mondi (Niccolò Ammaniti), come ieri accadeva tra Gadda e Moravia, tra i prosatori d’arte e Pirandello, spesso abusivamente accusato di scrivere “male”. Probabilmente la distillata prosa d’arte dei primi decenni del Novecento, con il suo culto della bella pagina destinata a fini degustatori, è refrattaria alle ampie distese del romanzo, genere popolare e inclusivo. Bisogna infine citare, parlando di geografie letterarie, la cosiddetta “linea padana”, inaugurata da Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, ma non immemore di Luigi Malerba, che punta a un comico stralunato, a una ricerca del fantastico nell’ordinario, e soprattutto a una prosa antiletteraria, semplice e trasparente («Il Semplice» si intitolava la rivista fondata dai due scrittori). Una simulazione di naturalezza, una semplicità vicina al parlato ma conquistata attraverso un intenso lavorio stilistico. Tra i molti scrittori usciti da quella esperienza segnaliamo Daniele Benati, Ugo Cornia, Paolo Nori e Paolo Morelli, nel quale, però, la linea padana si travasa in una versione romanesca, impregnata di stoicismo e perfino di sapienza taoista. Appena più in disparte rispetto alla “scuola padana”, Luigi Anania (Il signor Ma, 2000) racconta di vagabondi con leggerezza di tocco e piglio antropologico.

3 Lo sperimentalismo degli ultimi decenni I generi ibridi: il reportage narrativo Entro una tradizione letteraria piuttosto conservatrice come quella italiana ci si interroga sempre più spesso su cosa voglia dire “sperimentare”. Quello che nel Novecento sono stati la destrutturazione della sintassi, lo stravolgimento del lessico, la trasgressione dell’ortografia, tende oggi a diventare “maniera”. L’avanguardia è finita nel museo e nell’accademia. Ma la sperimentazione letteraria più interessante è quella che si muove nell’area di confine tra generi letterari diversi, tra fiction e non-fiction: da Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni nel 2022, che dopo lo splendido esordio con Ferito a morte, premio Strega nel 1961, ci ha regalato negli ultimi decenni alcuni libri “anfibi”, al confine tra saggistica autobiografica e micronarrazione; ma vanno segnalati anche quelli di Davide Orecchio e Giuseppe Samonà, che condensa l’autobiografia nel dizionario, e di un grande scrittore della generazione precedente come Giuseppe Pontiggia, di cui ricordiamo almeno Nati due volte (2000). Tra i migliori libri dell’ultima stagione vanno poi annoverati dei veri e propri reportage narrativi, un genere italianissimo, a partire dall’ottocentesca Matilde Serao fino a Gomorra di Roberto Saviano, passando per Soldati, Alvaro, Piovene, Moravia e Pasolini. Oltre al già citato Saviano, il cui Gomorra è un personalissimo innesto della fiction sull’inchiesta, capace di generare una mitologia potente (anche cinematografica), occorre segnalare i lavori di Angelo Ferracuti, Pino Corrias, Giorgio Falco, Sandro Onofri, Eraldo Affinati, Silvio Perrella, Gianfranco Bettin e Francesco Longo, nei quali si incrociano resoconto obiettivo e sguardo soggettivo, dovere (giornalistico) di informazione e qualità (letteraria) dello stile. L’autore di reportage non può inventare nulla, si limita a riferire; ma per farlo bene ha bisogno di immaginazione: deve documentare una realtà precisa e nello stesso tempo “metterla in scena” per poterla snidare attraverso strategie e tecniche letterarie. La nuova narrativa 1 1119


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La scrittura femminile Quando Charles Dickens lesse l’esordio di Scene di vita clericale (1869) di George Eliot, nonostante il nome maschile dell’autore, si accorse che era stato scritto da una donna. Riconobbe in quel romanzo una prospettiva di genere, un modo di leggere il mondo, una poetica? Esiste una scrittura femminile, o “al femminile”? La scrittrice Melania Mazzucco ha osservato che le opere letterarie non hanno sesso, mentre ce l’hanno i loro autori, che però sono solo i genitori delle loro creature. Uno scrittore capace di identificarsi con l’animo femminile come Flaubert diceva che quando scriveva si sentiva uomo e donna al tempo stesso; e negli ultimi decenni è saltata qualsiasi corrispondenza tra generi letterari e generi sessuali. Se una volta la letteratura femminile era convenzionalmente sentimentale, intimistica, elegiaca, e propendeva per i generi della memorialistica, del diario, dell’autobiografia, del romanzo rosa, la narrativa recente ha terremotato queste suddivisioni, basate su cliché e pregiudizi, e non solo in Italia. Già nel 1951 Marguerite Yourcenar con le Memorie di Adriano ci raccontava storie di potere nell’antichità; Insciallah (1990) di Oriana Fallaci si ispira a un modello epicosapienziale; i personaggi eroici del Gioco dei Regni (1992) di Clara Sereni attraversano i drammi storici del Novecento; nel cinema la regista americana visionaria Kathryn Bigelow gira film di azione e di guerra (➜ SGUARDO SUL CINEMA, Donne registe). Piuttosto la specificità della scrittura femminile andrebbe definita non tanto come formulazione di poetica o coincidenza con generi letterari, quanto come sguardo diverso sulla realtà. Come ha fatto Dickens ad accorgersi che quel romanzo di Eliot era stato scritto da una donna? Non possiamo dare nessuna risposta certa, e forte è il rischio di riproporre alcuni stereotipi di genere, ma probabilmente nella scrittura femminile troviamo una maggiore empatia e concretezza, una capacità di aderire alle cose senza volerle dominare (anche solo cognitivamente), un’intelligenza emotiva e, in ultimo, una consapevolezza tragica che però non diventa mai cedimento alla disperazione.

Sguardo sul cinema Donne registe Kathryn Bigelow è stata la prima, nel cinema, a sovvertire schemi e modelli convenzionali che associavano alle donne una produzione autocoscienziale e intimistica. Dopo quasi un secolo di Academy, il premio Oscar è finalmente andato a tre donne registe: nel 2010 l’americana Bigelow, nel 2021 la cinese Chloé Zhao e nel 2022 la neozelandese Jane Campion. La prima con il cult bellico The hurt locker, la seconda con Nomadland, viaggio epico di una sessantenne che fugge dal Nevada dopo aver perso lavoro e marito, la terza con un dramma western, Il potere del cane. Il cinema femminile, oggi in espansione, mostra una notevole vitalità. Limitiamoci a segnalare, per l’Italia, Alice Rohrwacher, che in Meraviglie (2014) narra di un bambino inviato da un riformatorio tedesco presso un’azienda di apicoltura toscana: lo scontro psicologico tra le generazioni incontra una sensibilità di tipo civile verso i problemi della società. Alice Rohrwacher.

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Per risalire a due grandi scrittrici del Novecento italiano, è stato detto che Elsa Morante e Anna Maria Ortese «hanno saputo interpretare e cogliere perfettamente il carattere distruttivo della crisi ma hanno anche trovato in se stesse energie sufficienti per indicare le porte strette per ricominciare» (Giancarlo Gaeta). Una disposizione che incontriamo nelle pagine migliori di Sandra Petrignani, Marisa Volpi, Laura Pariani, Rossana Campo, Romana Petri, Lidia Ravera, Elisabetta Rasy, Chiara Valerio, Camilla Baresani, Elena Stancanelli, Ludovica Muratori, Veronica Raimo, Valeria Parrella e di quella scrittrice più appartata, di una generazione precedente, Luce D’Eramo, che nel 1993 ci ha dato un grande romanzo sulla vecchiaia, di alta e pungente moralità: L’ultima luna. La letteratura migrante Se il canone letterario è il complesso delle opere al quale una comunità riconosce un valore esemplare, c’è bisogno di tempo perché la comunità sappia riconoscere quel valore. Ogni volta bisogna scontare l’impossibilità di definire un canone della contemporaneità, perché manca la necessaria distanza critica e per l’ipertrofia dei titoli che si stampano nel nostro paese, pure tristemente avaro di “lettori forti”. La novità più rilevante del presente è la dispersione del canone in una miriade di microcanoni, ciascuno corrispondente a un pubblico diverso, a una diversa microcomunità: il canone dei social, il canone del mercato, il canone delle classifiche dei quotidiani, il canone dei festival, il canone di Radio3 (le trasmissioni culturali), il canone delle carceri (dove è in aumento la domanda di cultura e di libri), il canone dell’accademia… fino al canone dei migrant writers, gli scrittori migranti, e dunque del multiculturalismo e della multietnicità nell’epoca della Grande Migrazione. Leggendo ad esempio i racconti di scrittrici migranti in Pecore nere (2005), a cura di Flavia Capitani ed Emanuele Coen, si scopre un mondo più vario, multicolore, allegramente scompigliato. Si tratta della prima generazione di figlie di immigrati, nata o cresciuta in Italia, che racconta la propria identità multipla. Ma la nascita di una letteratura migrante o italofona risale al 1990, anno in cui uscirono due romanzi: Immigrato, scritto dal tunisino Salah Methnani in collaborazione con Mario Fortunato; e Io venditore di elefanti, del senegalese Pap Khouma, scritto insieme a Oreste Pivetta. Da allora il fenomeno si è ampliato e consolidato. Non si tratta più di una letteratura confinata alla testimonianza e alla denuncia. Le storie sono raccontate attraverso una lingua personale e fortemente ibridata. Si pensi al noir multietnico con sapore di commedia Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2011) di Amara Lakhous, algerino, e poi alle narrazioni di Cristina Ali Farah, Ingy Mubiayi, Gabriella Ghermandi, Jadelin Mabiala Gangbo, Yousef Wakkas e Tahar Lamr, ma soprattutto a un romanzo come Il paese dove non si muore mai, di Ornela Vorpsi, nata a Tirana nel 1968. La sua scrittura ha un respiro classico, ma di una classicità alterata. Si preferisce infatti dire che la protagonista ha un amore «aguzzo» per la madre, e non «acuto». In questo piccolo scarto, spaesante e apparentemente sgraziato, ritroviamo non solo le montagne appuntite del Paese delle Aquile, ma anche l’ancestrale spigolosità di relazioni affettive pre-moderne. E se in un’altra pagina leggiamo che la pioggia «diroccava» le case di Tirana, al passaggio di qualche bella ragazza i sospiri si fanno «nebbiosi». In La mia casa è dove sono (2010), un diario interculturale, Igiaba Scego, nata a Roma da un ex ministro degli Esteri somalo in esilio, dice di sentirsi un «crocevia» e scrive in La nuova narrativa 1 1121


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epigrafe «alla Somalia, dovunque essa sia»: le radici non hanno a che fare con il sangue e il suolo ma sono il risultato di una scelta culturale, una consapevole costruzione dell’immaginario. A una condizione oggi pervasiva di sradicamento, di «dispatrio», come la definì Luigi Meneghello, ma anche di arricchimento e pluralità linguistica, corrisponde per ciascuno l’esperienza di una patria ideale, fatta di tante appartenenze, che ogni giorno dobbiamo ricreare, «dovunque essa sia». Rappresentazioni anticonvenzionali del Sud Se davvero «Tutte le famiglie felici sono uguali, e ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», come recita il celebre incipit di Anna Karenina di Tolstoj, ne consegue che dove c’è più infelicità, conflitto, sofferenza sociale, c’è anche più diversificazione e dunque, almeno potenzialmente, più possibilità di racconto. Negli ultimi tempi il nostro Sud, che dall’Unità in poi si porta appresso le stigmate di una “arretratezza” endemica, ha prodotto una straordinaria stagione narrativa: si pensi a Erri De Luca, Francesco Piccolo, Valeria Parrella, Maurizio De Giovanni, Elena Ferrante, Gianrico Carofiglio, Giancarlo De Cataldo, Mario Desiati, Nicola Lagioia, Matteo Collura, Claudia Durastanti, Salvatore Mannuzzu, Vito Bruno, Sergio Atzeni, Marcello Fois, Michela Murgia. Nella loro opera, questi autori hanno tentato di rappresentare la coesistenza, nel nostro Meridione, di modernità convulsa e passato arcaico, di innovazione tecnologica e tradizione, di grandi centri commerciali alla periferia delle città e processioni religiose. Ci limitiamo a sottolineare un nome per tutti: Antonio Pascale, casertano, che unisce lingua brillante e ricca di umori, spietato sguardo antropologico sugli stereotipi maschilisti, attenta ricognizione sui sentimenti al tempo della società “liquida” (secondo la felice definizione del sociologo Zygmunt Bauman), e una demolizione di qualsiasi mitologia del Meridione. Oggi il Sud sembra finalmente uscito dalla sua condizione “straordinaria”, di eterna emergenza. Si è omologato al resto del mondo, conservando però una propria alterità segreta di tipo antropologico, che è poi una forma di resistenza al progresso, o almeno a questo progresso. Il Sud non è solo una categoria geografica ma culturale: per Ignazio Silone e Carlo Levi rappresentava un’utopia, fatta di accoglienza e convivialità, senso del meticciato, gusto del dolce far niente, critica spontanea del cosiddetto homo oeconomicus, di stili di vita fondati sul consumo febbrile e sul principio di prestazione. Oggi, la narrativa meridionale è impegnata a reinterpretare quella preziosa alterità, oltre gli stereotipi e oltre qualsiasi immagine oleografica di un Sud congelato, eternamente fuori dalla Storia. Agli autori citati bisognerebbe aggiungere l’abruzzese Donatella Di Pietrantonio, fedele ai suoi luoghi, che specie nella Arminuta (“la ritornata”, in dialetto), del 2017, ha saputo rappresentare la coesistenza – conflittuale, a volte drammatica – di universo ancestrale e modernità, di città e borgo paesano, di lingua italiana e asperità del dialetto. Letteratura postindustriale e non luoghi La letteratura, oltre a consistere in un uso espressivo del linguaggio, può diventare sismografo preciso di mutamenti sociali, ambientali e di mentalità. Prendiamo due temi: il lavoro e il paesaggio dentro la recente modernizzazione del paese. Lo scrittore Tullio Avoledo (autore dell’Elenco telefonico di Atlantide, 2003) ha dichiarato in un incontro pubblico: «Mio nonno faceva il contadino, mio padre il falegname; io non so, letteralmente, che lavoro faccio, cosa produco!».

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E così accade nel suo romanzo, in autobiografico, dove il consulente giuridico di una piccola banca si trascina di riunione in riunione, sempre sul punto di essere trasferito o di essere considerato “in esubero”, sullo sfondo di complotti esoterici. Dunque, al centro della nostra società, o almeno della nostra vita professionale, proprio come al centro della Terra per Jules Verne, troviamo un vuoto. Un vuoto che si riflette minacciosamente su tutta l’esistenza, sui nostri affetti, sui nostri comportamenti. In realtà il lavoro continua a sostenere l’economia: soltanto che ha cambiato radicalmente volto, diventando irriconoscibile, non ben identificabile. Sappiamo che si è esaurita la “civiltà industriale”: nelle aree dismesse fioriscono centri sociali, università e discoteche. La fabbrica si è decentra- Lessico ta su tutto il globo. Poiché i mercati sono quasi saturi di briefing Breve riunione di generalmente all’interno beni, al lavoro materiale si sostituisce quello immateriale: lavoro, di un’azienda o della gerarchia le principali forze produttive diventano l’informazione e militare, nel corso della quale vengono impartiti sintetici ordini l’intelligenza; alla dipendenza dalla macchina si sostitui- operativi. I briefing aziendali sce la dipendenza ancora più insidiosa da altre persone (la risultano più mirati rispetto alle riunioni generali. In particolare centralità delle “relazioni interpersonali”, delle interminabili serie degli incontri tra cliente riunioni e dei briefing , dove al posto fisso subentrano la- ed agenzia che servono a individuare una strategia vori a termine, collaborazioni, consulenze...). pubblicitaria per promuovere un Il termine “Brief” indica Come apprendiamo da uno dei racconti di Oliviero La prodotto. i documenti che l’azienda fa Stella (Lo spiaggiatore, 2002), il requisito principale non è avere ai dipendenti, contenenti informazioni e istruzioni. più la professionalità ma la “disponibilità”, una flessibilità lavorativa che diventa flessibilità morale: un’umanità più agile, illimitatamente disponibile e opportunistica, pronta a riadattarsi sempre. Così come i protagonisti dei romanzi di Sebastiano Nata: a differenza dei piccoli imprenditori delle storie di Edoardo Nesi, che falliscono a causa della globalizzazione, i top manager di Nata, liquidi e privi di vincoli, pronti a tradire tutti, compresi loro stessi, si arricchiscono oltremisura. Mentre in La classe avversa di Alberto Albertini (2020), in parte autobiografico, si racconta il declino di un modello industriale a gestione famigliare, che era l’anima del “miracolo” italiano, e che segna il declino di un intera civiltà. In fondo quella flessibilità è un’attitudine vicina al nostro carattere nazionale, come è stato descritto da innumerevoli libri a partire, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani di Leopardi. Infine, al centro di Acciaio (2010) di Silvia Avallone campeggia l’altoforno dell’acciaieria di Piombino, a ricordarci che la metallurgia, benché ridimensionata, persiste nell’epoca dei briefing. Cambia anche la rappresentazione del paesaggio in letteratura. Il paesaggio italiano, tradizionalmente fondato sulla varietà, è ovunque riempito dalle cosiddette “conurbazioni”, immense e spalmate su un territorio sem- Lessico pre più omogeneo. Ad esempio la wasteland emiliana di wasteland terra incolta, Dei bambini non si sa niente (1997) di Simona Vinci ospita Letteralmente abbandonata. Ma l’espressione un palazzo arancione tra la periferia e la campagna – non rinvia a The waste land (1922), celebre poemetto di T.S. Eliot, più tra loro rigidamente separate – con i campi di girasole, in cui a essere “desolata” è la civiltà moderna, giunta dopo la dove in una baracca avvengono turpi delitti. Grande Guerra al suo collasso. La città, invece, è segnata dai cosiddetti non luoghi, privi di identità e memoria, uguali dappertutto: supermercati, stazioni, sale d’attesa, veicoli, bancomat, rampe autostradali; nel noir bergamasco di Piero Degli Antoni La verità è un’altra (2002) le vicende principali avvengono non a Bergamo, assente dal romanzo, ma dentro qualche automobile!

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4 Nuovi pubblici per una letteratura migliore Un mercato enorme e vario La nuova narrativa italiana è un arcipelago frastagliato dove l’abnorme moltiplicazione dei titoli – circa 80.000 opere librarie all’anno, e paradossalmente in uno dei paesi europei in cui si legge meno – disorienta un lettore oggi già ampiamente distratto da altri linguaggi e altre forme di intrattenimento. Tuttavia, almeno dal punto di vista letterario, siamo finalmente diventati “moderni”. La narrativa italiana assomiglia oggi a un supermercato dove si trova qualsiasi tipo di merce: noir ben confezionati, corredati di dettagli splatter, e racconti elegiaci, best-seller di qualità ed esordi trasgressivi, thriller a sfondo storico e saghe famigliari, affabulazioni molto convenzionali e ardite sperimentazioni, il New Italian Epic (➜ PER APPROFONDIRE, New Italian Epic) e il saggio intimistico autobiografico, romanzi storici e romanzi eruditi (che ci fanno sentire più colti), reportage d’autore e prove di autofiction, opere votate all’impegno civile e opere comico-grottesche, commedie leggere e narrazioni filosofeggianti. La letteratura che cambia ancora Letteratura classica, o di ricerca, e letteratura leggera, di puro intrattenimento, occupano legittimamente settori di mercato diversi, con qualche contaminazione reciproca, all’interno però di un generale ridimensionamento della cultura alta, sempre più incalzata dall’industria dello svago. La letteratura sembra aver perso la centralità che ha avuto nel passato come autocoscienza della nazione, come strumento privilegiato di formazione e pedagogia culturale, come interrogazione morale che preme sulle coscienze. E, d’altra parte, considerata come mero distraente, ha concorrenti troppo agguerriti, anche se guarda continuamente ad altri linguaggi e all’universo pop: molti romanzi somigliano a sceneggiature già pronte per una serie TV. Probabilmente l’anima del romanzo consiste ancora nell’epigrafe che Stendhal volle mettere nel Rosso e il nero: «la verità, l’aspra verità». I romanzi più significativi dei nostri anni sono quelli che mostrano di cercare una verità aspra su di noi, sull’epoca presente, sulla società, sulla condizione umana. Si tratti della scrittura nitida, quasi prosciugata di Piersanti, erede della grande lezione di un classico della contemporaneità come Romano Bilenchi; o della prosa lirica e insieme risentita di Doninelli, con il suo ruvido cattolicesimo che proviene da Bernanos e Testori. Di altri scrittori abbiamo già parlato ma, pensando a quella ricerca ostinata, a volte drammatica, della verità, si aggiungano almeno i nomi di Alessandro Piperno, Francesco Pecoraro, Andrea Bajani, Aurelio Picca e Andrea Carraro, che nel Branco (1994) ha saputo riprodurre la “sintassi” di giovani marginali criminaloidi, osservati con lucido disincanto e pietas. Un nuovo lettore Nel nostro paese è indubbiamente aumentata l’offerta di consumi culturali: si moltiplicano festival dell’editoria, rassegne, presentazioni di libri, premi letterari, mostre ecc. Un dato certamente di modernità e “progresso”. Anche se andrebbe ricordato che la cultura non consiste tanto e solo nel consumo veloce di eventi quanto – come una volta scrisse Goffredo Parise – nel «lavorare a capire». Una attitudine critica di questo genere si forma lentamente in esperienze individuali e di gruppo entro cui possa maturare un lettore più attento e soprattutto più esigente, unica condizione di una narrativa di qualità. Si pensi ai gruppi spontanei di lettura che si riuniscono periodicamente in biblioteche, librerie, scuole e circoli; ma anche agli innumerevoli blog letterari in Rete e a quella felice dispersione dei canoni letterari cui abbiamo accennato, sintomo di una rinnovata vitalità della società civile.

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online T4 Andrea De Carlo

Uccelli da gabbia e da voliera

T5 Fabrizia Ramondino Althénopis T6 Claudio Piersanti Luisa e il silenzio T7 Sergio Atzeni Il quinto passo è l’addio T8 Niccolò Ammaniti Io non ho paura

PER APPROFONDIRE

T9 Valeria Parrella Mosca più balena

Fermo restando che ogni singolo lettore, dentro la sua personale, solitaria esperienza di lettura potrà sempre ritrovare, impegnandosi nel “lavorare a capire”, quella attitudine critica. Come una democrazia funziona solo se ci sono cittadini responsabili, consapevoli, capaci di autogoverno, così un sistema letterario davvero maturo ha bisogno di lettori preparati, sensibili, capaci di giudizio. Solo da loro dipende la possibilità di rivitalizzare il nucleo di verità depositato dentro la letteratura, solo attraverso di loro ogni libro può diventare, come auspicò Kafka, un’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi.

New Italian Epic New Italian Epic (Nuova epica italiana) è una denominazione proposta dallo scrittore Wu Ming 1 – con il saggio New Italian Epic. Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro – per definire un insieme di opere letterarie scritte in Italia da diversi autori – tra cui lo stesso collettivo Wu Ming – nel periodo che va dal 1993 al 2008. Alcune caratteristiche comuni a queste narrazioni definite “epiche” sono: rinuncia all’ironia, sguardo inconsueto sulla realtà, complessità della narrazione declinata però nei termini del pop (quindi senza mai respingere il lettore) e conseguentemente sperimentazione controllata.

I romanzi inclusi nell’etichetta sono assai diversi tra loro – gialli, fantascienza, avventura, ecc. – ma lo spirito comune è quello di una sensibilità “politica”, di forte critica della società italiana, di voglia di esplorarne i lati più oscuri, ma sempre riagganciandosi a una tradizione di narrativa popolare. Il memorandum ha esplicitamente influenzato, tra gli altri, lo scrittore Alberto Prunetti, teorizzatore delle nuove “Scritture Working Class” – importate dalla sua esperienza inglese –, direttore della collana “Working Class” delle Edizioni Alegre, panoramica indispensabile sulla rappresentazione delle nuove forme del lavoro.

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2 La nuova poesia 1 Considerazioni preliminari Alcune domande e alcune riflessioni Per affrontare lo studio della poesia degli ultimi anni bisognerebbe anzitutto chiedersi: qual è lo stato di salute della poesia nell’Italia contemporanea? E ancora: la poesia, socialmente sempre più marginale, priva di un vero mercato, distante dai modi attuali della ricezione di massa, può esercitare una funzione di viatico dell’esistenza come è stato per molti secoli? Può avere ancora uno spazio pubblico? Lessico Prima di affrontare una qualsiasi periodizzazione riguardante questo revival Il termine genere in Italia, occorre pure fare alcune considerazioni preliminari, inglese è traducibile con “rinascita”, indica che anche di tipo sociologico. La tecnica del verso, che negli anni Trenta qualcosa vive di nuovo. un critico americano, Edmund Wilson, giudicava in via di estinzione, Può significare che stili, modelli, correnti ha conosciuto un sorprendente revival , anche se non privo di condi pensiero del passato traddizioni. Limitiamoci all’Italia. tornino di attualità. Si tratta di un’arte praticata – con l’illusione che sia “facile” – ma non frequentata. Abbiamo, da una parte, un esercito sterminato di poeti: secondo un censimento approssimativo ammonterebbero a oltre un milione, almeno considerando i poeti in Rete. Dall’altra, una situazione anomala per cui i libri di poesia vendono in genere pochissime copie, salvo rare eccezioni (ad esempio quelli di Alda Merini o di Franco Arminio). Alla smania narcisistica di esprimersi, al «voler essere poeti», non corrispondono quella pazienza e quell’attenzione dell’ascolto che sono indispensabili per poter fruire la poesia. Il mito vaporoso della poesia prevale sulla poesia come esperienza autentica. Un’arte non facile In poesia, assai più che in prosa, una volta caduti tutti i canoni di riferimento dopo la dissoluzione della metrica tradizionale e la scoperta del verso libero (in Italia almeno a partire dal Futurismo), in assenza, oltretutto, di una critica riconosciuta come autorevole, si rischia l’arbitrio. Proprio in Rete, dove «uno vale uno», secondo il mantra ingannevolmente egualitario della nostra epoca, chiunque può pubblicare versi e dichiararsi un grande poeta. Chi potrebbe smentirlo? Eppure la poesia, in quanto arte, è tecnica, organizzazione formale, regole. Per scrivere poesie non basta l’ispirazione: occorrono studio, dedizione, acquisizione di un’abilità artigianale, consapevolezza della lingua attraverso l’uso di lessici e dizionari. Come ha detto il poeta Giorgio Caproni, citando un altro poeta, Paul Valéry, «il primo verso me lo dà Dio, al resto penso io». Lo stesso Leopardi perseguiva una poetica del vago e dell’indefinito, sapendo però che la “vaghezza” ha bisogno di una sapiente descrizione dei dettagli. Per riconoscere poi la poesia autentica, per distinguerla dallo sfogo estemporaneo, c’è un unico modo: leggere tante poesie, riservare loro attenzione e amore, e così educare il proprio gusto. Il pubblico assente Il fatto di non disporre di un vero e proprio pubblico potrebbe condannare la poesia all’estinzione. La stessa preoccupazione che, per le arti figurative, ebbe il pittore Paul Klee, negli anni Venti del secolo scorso. Tanto che per qualcuno è la canzone a rappresentare la poesia di massa del nostro tempo, con il

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suo pubblico sterminato, con la sua capacità di ricollegarsi alle origini della poesia, incrociata con la musica e la performance. Si pensi alle poetry slam, le competizioni pubbliche tra poeti, ai molti reading e letture pubbliche e, soprattutto, a quella prosa rimata e ritmica che coincide con il genere musicale del rap. Nella modernità la separazione tra poesia scritta e poesia parlata si è accentuata. La poesia sembra sempre più orientata verso la pura “scrittura”, verso la fruizione individuale fatta di solitudine e silenzio, rinunciando all’aspetto performativo. Tuttavia, il premio Nobel per la letteratura dato a un cantautore come Bob Dylan costringe a una riflessione. Musica e poesia sono due codici sensibilmente diversi. Quando Fabrizio De André ha voluto mettere in musica la raccolta poetica Antologia di Spoon River ha dovuto riscriverla e probabilmente toglierle un po’ della sua musicalità verbale, non funzionale alla musica vera e propria. Dylan, pur inesauribile inventore di eccellenti rime nella sua lingua, si pone dentro e fuori la letteratura: erede dei bardi, dei cantori vagabondi della civiltà celtica, e però artista della parola orale, dunque solo in minima parte implicato nella parola scritta. Forse sarebbe stato più appropriato assegnargli un Nobel per la performance o per la voce. Però tutto ciò ci ricorda che l’origine della lirica è orfica (➜ PER APPROFONDIRE, Orfismo), legata al canto, e che la canzone svolge una funzione di “supplenza” rispetto a una poesia contemporanea spesso chiusa nel proprio gergo autoreferenziale e incapace di rappresentare le emozioni del quotidiano.

PER APPROFONDIRE

La specificità della lingua poetica La poesia ha un aspetto bifronte: lingua del passato, inattuale, connessa con un’attitudine alla concentrazione oggi anacronistica, ma al tempo stesso lingua proiettata nel futuro, tra informatica e neuroscienze. Da una parte, cioè, modalità espressiva arcaica, non interamente razionalizzabile, con la sua sovrana libertà da nessi logico-grammaticali, la prossimità al canto e al ritmo (dunque al corpo), la polisemia (le parole vi si caricano di molteplici significati). Bisognerebbe accettare il fatto che una poesia non va completamente capita: «La poesia autentica può comunicare prima di farsi capire» (Paul Celan); essa nasce nella foresta quando qualcuno si è messo a scandire i colpi sul tamburo in intervalli fissi, come ha detto il grande Lessico poeta Thomas Eliot. Nel ritmo, nel continuo tornare del ipertesto Un testo non lineare, nel quale le informazioni non sono date sequenzialmente, verso su sé stesso, si cela qualcosa di primordiale e di ma vengono collegate fra loro attraverso una magico: in un componimento poetico il suono conduce serie di legami: il lettore può così passare da un’informazione all’altra seguendo un proprio misteriosamente il significato verso regioni inesplorate. percorso di studi. Se le pagine di un sito Web Dall’altra la poesia si può concepire come ipertesto in sono dei classici ipertesti (testi organizzati secondo moduli in modo che il lettore possa ragione della sua simultaneità, dei suoi blocchi costituti- seguire vari percorsi, attraverso i link) anche libro di poesia si può considerare un vi, della sua non-linearità e non-sequenzialità: in un libro un ipertesto, dove alla linearità si sostituisce l’associazione di immagini e idee. di poesia si può entrare e uscire da qualsiasi parte.

Orfismo Bisogna distinguere tra movimento orfico e poesia orfica. L’orfismo è un movimento religioso misterico-iniziatico a carattere escatologico: parla di destini ultimi e di possibile salvezza, rivolgendosi prevalentemente alle persone sofferenti, umili, che cercano una liberazione dal male e dall’impurità del corpo. Fiorì nell’antica Grecia tra i secoli VI e V a.C. Si intitola al personaggio di Orfeo, mitico cantore e sciamano della Tracia, capace di incantare gli animali e

di scendere agli inferi per liberare Euridice. Nella lirica del Novecento, il termine “orfico” indica il valore magico, evocativo e allusivo, della parola. Canti orfici si intitolava una raccolta di versi e prose (prosimetro) di Dino Campana, che richiamandosi nel titolo ai “canti” leopardiani si inseriva in un filone decadente e simbolista: poesia assoluta, poesia come parola rivelatrice, mistica (ma tracce di poesia orfica si trovavano già nel D’Annunzio delle Laudi).

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Inoltre è espressione di un “pensiero emotivo”, qual è quello delineato dalle neuroscienze come unico pensiero umano, insieme intuitivo e concettuale. Insomma, essa confligge con la comunicazione contemporanea, basata sulla fruizione distratta e sulla ricerca di un’efficacia immediata. La poesia come bisogno originario Andando ancora più in profondità, si può dire che la poesia risponde a un bisogno originario degli esseri umani. Di che bisogno si tratta? Un bisogno di gioco – con le parole, con i suoni – e di senso. È un’infiltrazione della musica nella letteratura. Dunque: poetare significa giocare liberamente con la lingua, oltre la rigidità della comunicazione quotidiana, ideando metafore e inventando rime, assonanze, allitterazioni e ogni tipo di artificio fonico (come fanno i bambini, che infatti già provano il piacere di raddoppiare i suoni: ma-mma, pa-pà...) o anche creando unità ritmiche come facevano gli antichi, che non usavano la rima ma una metrica di sillabe lunghe e brevi. Un’intensificazione della lingua quotidiana allo scopo di produrre senso e trasmettere emozioni, per dire cioè qualcosa che non si potrebbe dire in altro modo: sembra che Homo sapiens abbia prevalso nell’evoluzione sul più robusto e abile Uomo di Neanderthal proprio per questa capacità di fondare il senso, di pensare per immagini e analogie.

2 Un nuovo tipo di poesia Gli inizi della “nuova poesia” Per approssimarci alla fine del “secolo breve” della poesia occorre risalire al 1971. In quell’anno escono Satura di Montale e Trasumanar e organizzar di Pasolini, due libri eccentrici che segnano non solo un qualche esaurimento della vena poetica degli autori, ma anche – sia pure in modi diversi e convergenti – la crisi della poesia stessa, e il suo avvicinamento alla prosa, quasi per recuperare le proprie ragioni. Una svolta antilirica che sembra testimoniare il declino di una tradizione, lo svuotamento della modernità poetica. Eppure si tratta di una crisi solo apparente: un grado zero della poesia indispensabile per la sua clamorosa riscoperta da parte delle nuove generazioni, quasi uno svuotamento dall’interno della poesia, una sua secca riduzione alla prosa (il linguaggio quotidiano e ironico, privo di qualsiasi veste aulica, usato da Montale in Satura). Insomma la conclusione di una fase storica, un azzeramento forse indispensabile per la clamorosa riscoperta della poesia da parte delle nuove generazioni. In quegli stessi anni si moltiplicano (inizialmente in una forma semisommersa) letture, happening, festival di poesia. Nel 1975 si pubblica un’antologia – Il pubblico della poesia, curata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, con 64 nuovi poeti antologizzati – che registra questo fenomeno, provando a documentarlo e ad analizzarlo. Evento culmine di quella rinascita, e dei suoi molti equivoci, è, nel giugno del 1979, il Festival di poesia di Castel Porziano, vicino a Roma, cui partecipano 30.000 persone. Sul palco si esibiscono poeti italiani e stranieri noti, ma sale chiunque voglia leggere i propri versi, reclamando imperiosamente la parola in un’atmosfera caotica che culmina con il crollo simbolico del palco stesso. Lì avviene l’incontro della poesia con il cosiddetto postmoderno (➜ C15): ossia azzeramento della tradizione, cancellazione del passato (anche passato prossimo), sensazione eccitante di venire “dopo” tutto, e soprattutto illusione di una creativi-

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tà generalizzata. Già il poeta ottocentesco Lautréamont aveva annunciato che la poesia è “di tutti”, ma non immaginava la realizzazione beffarda del suo utopico auspicio: la poesia fatta da tutti, la poesia pop, democratizzata e trasformata in “diritto sindacale”, coincide con la fine della poesia, con la constatazione della sua irrilevanza sociale. D’altra parte oggi quel bisogno umano di giocare con le parole creando senso può rivolgersi sia alla nicchia della poesia che, più frequentemente, alle canzoni, alla pubblicità, agli slogan politici, e insomma all’universo pop, lì dove nella lingua prevale la funzione chiamata tecnicamente “poetica”, che consiste in artifici ritmici che ne accentuano l’espressività. Un po’ di periodizzazione: fino al 1980 Per la nuova poesia si può definire un termine di inizio convenzionale, che coincide con quello della prosa, il 1980. Essa viene in un certo senso “preparata” da Milo De Angelis, che esordisce con Somiglianze del 1976, rottura decisiva con lo sperimentalismo fino ad allora dominante della neoavanguardia, e poi con la sua influente rivista «Niebo» (edita insieme a Roberto Mussapi, Giuseppe Conte e Giancarlo Pontiggia). Nel 1980 esordisce, a soli ventitré anni, Valerio Magrelli con Ora serrata retinae, una poesia autoriflessiva, concettualistica e capace di ricominciare da capo. Per una singolare coincidenza, sia Magrelli che il romanziere Andrea De Carlo – insomma la nuova poesia e la nuova prosa, così attente alle modalità della percezione – risultano debitori nei confronti dell’insegnamento calviniano: interpretano cioè, sia pure in modi diversi, le parole-chiave delle Lezioni americane di Calvino: leggerezza, rapidità, molteplicità, esattezza, visibilità. In entrambi la scrittura è lo schermo/specchio di Perseo per affrontare la Medusa, che altrimenti ci pietrificherebbe, per tradurre la possibile catastrofe – che sempre incombe sulla condizione umana – in una parola letteraria veloce e comunicativa, con le ali ai piedi di Mercurio. Entrambi impegnati a difendersi dal male dell’esistenza, ma alla fine un po’ anche dall’esperienza stessa, sempre conflittuale e rischiosa.

PER APPROFONDIRE

Un po’ di periodizzazione: dopo il 1980 Due anni dopo esordisce Patrizia Valduga, mentre è del 1983 la seconda raccolta di De Angelis, Millimetri, con una poesia allora definita “oracolare” o “neo-orfica”, una poesia analogica (➜ PER APPROFONDIRE, Orfismo), intessuta di criptica visionarietà e però densa di figure concretissime. Via via, inoltre, si formano dei raggruppamenti intorno a cenacoli e riviste: abbiamo citato «Niebo», con la sua idea romantica di poesia come assoluto (l’Esistenzialismo, il recupero del mito e della fiaba; poi a Roma «Braci» e «Prato pagano», a Padova «Scarto minimo» (di Dal Bianco, Benedetti e Marchiori), a Bologna «clanDestino» (di Rondoni, Gibellini, Lauretano, Galaverni e Santoni, con le collaborazioni di Luzi, Caproni e Loi). Nel 1988 inizia a pubblicare anche «Poesia» di Crocetti, forse la più divulgata e longeva, mentre nel 1989, in una libreria milanese, viene fondato il Gruppo 93 (di Cepollaro, Voce, Baino).

Gruppo 93 Il Gruppo 93 nasce a Milano nel 1989, in parte ispirandosi al Gruppo ’63 (che volle sponsorizzarlo), e si conclude nel 1993. Tra i suoi maggiori esponenti Mariano Baino, Lello Voce, Biagio Cepollaro (fondatori della rivista «Baldus» portavoce del gruppo), oltre a Tommaso Ottonieri, Rossana Campo, Marcello Frixione, Marco Berisso e altri. Il movimento elaborò un’idea di “letteratura della lateralità”, evitando così l’atteggiamento di opposizione frontale al sistema – tipico delle avanguardie – e

aprendosi a una sperimentazione originale, fatta di contaminazione e dialogo con la tradizione (maestri di Cepollaro erano Jacopone da Todi e Dante!). Dentro il programma del Gruppo, formulato in modi spesso criptici, iperculturali, si coglie comunque un’attitudine non tanto nichilista quanto “costruttiva” e ironica, in sintonia con il postmodernismo di quel periodo: di qui la ripresa di forme poetiche chiuse (dal sonetto all’endecasillabo) e il privilegiare il collage e il citazionismo.

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In generale, però, non è più tempo di manifesti programmatici, di avanguardie organizzate, di poetiche impugnate come bandiere: tendono ad affermarsi le singole individualità. Una differenza con la prosa narrativa coeva è che i nuovi poeti – nonostante un evidente stacco – esibiscono in modo trasparente la loro genealogia: alcuni di loro si richiamano a maestri su cui scrivono saggi. Insomma: nonostante quel grado zero della scrittura poetica, si riannodano i legami con la tradizione. La cesura con il passato prossimo appare meno radicale: la lezione di Sereni, Fortini, Giudici, Caproni, Penna, Cristina Campo è presente in riviste ed esperienze singole.

3 I nuovi poeti I poeti È arduo ipotizzare un qualsiasi canone poetico della contemporaneità. Possiamo indicare alcuni nomi di poeti emersi nell’ultimo periodo, concentrandoci in un secondo momento su alcune individualità poetiche di maggior rilievo e rappresentatività. Molti altri nomi resteranno fuori, ma si tratta almeno di un primo elenco, anche se soltanto orientativo. Un elenco che comincia indietro nel tempo, con autori nati negli anni Trenta, come Elio Pecora, Valentino Zeichen, Franco Loi (dialettale, scomparso nel 2016); che poi prosegue con quelli dei due decenni successivi: Umberto Piersanti, Biancamaria Frabotta, Eugenio De Signoribus, Nino De Vita, Daniela Attanasio, Giorgio Manacorda, Maurizio Cucchi, Anna Cascella, Gianni D’Elia, Franco Buffoni, Gabriella Sica, Mario Benedetti, Silvia Bre, Alberto Bertoni, Annelisa Alleva, Alessandro Fo, Gian Mario Villalta, Claudio Damiani, Fernando Acitelli; per arrivare agli anni Sessanta-Settanta di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Fabio Pusterla, Andrea Inglese, Davide Rondoni, Edoardo Zucconi, Alba Donati, Gabriele Frasca, Roberto Deidier, Pierluigi Cappello, Nicola Bultrini, Gilda Policastro, Maria Grazia Calandrone, Massimo Gezzi, Laura Pugno, Paolo Febbraro, e infine Matteo Marchesini ed Elisa Donzelli, nati nel 1979. Proviamo ora a soffermarci su un gruppo più ristretto di autori, scelti per la qualità formale e originalità della propria produzione, e perché particolarmente significativi all’interno di un preciso orizzonte culturale.

Umberto Fiori Umberto Fiori, ex cantante e paroliere del gruppo rock degli Stormy Six, ci ricorda, con la lingua comune di cui è fatta la sua poesia – certamente memore di Camillo Sbarbaro – che nel Novecento, accanto al cosiddetto mainstream ovvero accanto al filone postsimbolista, con la sua oscurità programmatica e la vocazione anticomunicativa del suo ideale di poesia pura (da Ungaretti agli ermetici), esiste un filone che si potrebbe definire antinovecentista, e cioè una poesia colloquiale, diaristica, narrativa, discorsiva, che va da Gozzano e Saba a Penna, Caproni, Giudici e infine a Bertolucci e Sereni. Un filone che si ricollega a una disposizione propria della tradizione poetica italiana, in cui, come ricordava Vincenzo Cardarelli, «ragionare è sinonimo di “poetare”». Nella sua opera – da Case del 1986 a Chiarimenti del 1995, a Voi del 2009 e al volume che nel 2014 la ricomprende tutta – rappresenta una realtà familiare, fatta di autobus, litigi per strada, motociclette, bricchi e telefoni, ma straniata attraverso

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l’assurdo e il comico: nello stesso componimento riesce a parlare di vigili urbani e dell’eternità che sfiora i santi. Un’immagine raccolta dal quotidiano più feriale, un pensierino messo in versi che ci parla di fratellanza, di un sentimento primigenio di comunità. Fiori ci mostra come la poesia non è un gergo speciale né esoterico ma può coincidere con la lingua comune, però intensificata, fissata in una sua abbagliante evidenza.

Se all’angolo una signora – o magari un vigile – si volta con la faccia scavata dalla luce 5 della bella giornata e parla – proprio a me, a me, qui – del rispetto che si è perso o del caldo che fa, io mi sento mancare, come un santo 10 quando lo sfiora l’eternità. Sento le piante crescere, sento la terra girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto deve ancora succedere. (Per strada, da Chiarimenti, Marcos y Marcos, 1995)

Antonella Anedda Una poesia che si nutre di pensiero e di racconto è quella di Antonella Anedda, che esordì nel 1992 con Residenze invernali e che da allora ha pubblicato varie raccolte fino a Catalogo della gioia del 2003, Historiae del 2008 e un saggio originale come Le piante di Darwin e i topi di Leopardi, del 2022; una rappresentazione della concretezza quotidiana, di umili oggetti, che si muove nel solco del lirico-tragico alla De Angelis, rileggendo la lezione di Marina Cvetaeva, Paul Celan, Ingeborg Bachmann e Amelia Rosselli. La misura e compostezza formale della sua poesia non diventano mai algida difesa dall’esperienza, l’esattezza non evita il confronto con una materia viscerale: «Sogno un linguaggio capace di dire l’io senza l’invadenza dell’io». Una liricità antilirica, che non elimina il soggetto e si apre alla dimensione dell’altro. Dal punto di vista metrico, la poesia che qui si presenta è un componimento in versi liberi diviso in 7 strofe di diversa misura; la terza è la più lunga (16 versi), mentre l’ultima è composta da un solo verso; alcuni versi si allungano avvicinandosi alla prosa. Il componimento, dalla sezione eponima del libro di esordio, assume come residenza un ospedale, dove i malati dormono gli uni accanto agli altri, «su letti uguali». Il richiamo più immediato è a Serie ospedaliera (1969) di Amelia Rosselli. La prima strofa indica subito un destino comune, «le nostre anime», e parla di orecchie «capaci di ascoltare». Tutta la poesia di Antonella Anedda, nata a Roma nel 1955 e di origini sarde, è in ascolto di cose e persone, ben oltre l’autoreferenzialità e il solipsismo di tanta lirica novecentesca. L’io non si mette mai di traverso a impedirci di guardare la realtà, né l’esattezza geometrica della descrizione diventa referto algido e compiaciuto di sé. La nuova poesia 2 1131


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L’intensificazione della realtà, raggiunta attraverso un linguaggio poetico disadorno, di questa rivela l’estrema pluralità di voci, oltre qualsiasi monologismo lirico. Nella seconda strofa, in una terza persona più oggettivante, sono i malati i protagonisti della scena: dopo la fine delle visite le loro fronti «si voltano verso le pareti», dentro la «pace d’acquario» dei corridoi ora vuoti. Tra i malati e i sani, benché questi ultimi li abbiano visitati pieni di sollecitudine, si apre un abisso: la luce della vita, di fuori, non coincide con le «luci azzurre» dell’ospedale. Nell’identica, omologata postura del sonno ogni malato ritrova però la propria individualità, unica e irripetibile: «diverso è il modo di piegare le ginocchia» sotto le lenzuola, disegnando onde diverse delle coperte. Poi torna tre volte a inizio del verso l’immagine delle luci (notturne, di Natale, d’inverno) nella corsia dove si incontrano tra loro i «pensieri dei morti», a noi inaccessibili. La figura retorica dell’anafora – ripetizione di una parola a inizio del verso o della frase – dà un ritmo percussivo al componimento. Eppure dentro l’«inverno» – un tema caro ad Anedda – che penetra ovunque i vivi, al di qua del diaframma, potrebbero decifrare i «misteriosi cenni» dei lampioni ai moribondi e intravedere le ombre che sempre i corpi lasciano dietro di sé. Ed è forse il linguaggio della poesia il luogo entro cui la «solenne miseria» della residenza si allarga a un destino finalmente condiviso e i «vetri appannati» sono rischiarati da una tremante e infrangibile pietas. Quando uscì, nel 1992, Residenze invernali ebbe subito una accoglienza positiva da parte della critica, rivelando una voce poetica originale e autentica, nella quale confluivano autori diversi: citiamo solo Cvetaeva, Mandel’stam, Achmatova, Celan e la già citata Amelia Rosselli, cui è dedicata una poesia nella raccolta Notti di pace occidentale, del 1999. Accostata inizialmente alla ispirazione neo-orfica e tragica di Milo De Angelis e della rivista «Niebo», Anedda se ne differenzia per un’acuita sensibilità verso la Storia, verso i sommersi e le sue vittime, nei quali si rispecchia l’orrore della condizione umana, cui pure si contrappone una possibile utopia di solidarietà. Da allora, Anedda ha pubblicato vari libri di poesie, di prose narrative e saggistiche e di traduzioni (Nomi distanti, 2009). La sua poesia, lavoro di un’autrice appartata e lontana dalla ribalta, sembra coincidere con l’identificazione italianissima di “ragionare” e “poetare”, incrociando anche le sue traduzioni di un poeta intensamente autoriflessivo come Philippe Jacottet:

Se ho scritto è per pensiero perché ero in pensiero per la vita (In una stessa terra, da Notti di pace occidentale, 1999) Un pensiero vicino a una dimensione etica – la pietas verso gli umiliati e offesi – e capace di generare una propria musica spesso iterativa. Poesia colloquiale, fino a sfiorare un “orfismo domestico” tutt’altro che oscuro, e insieme desolata, intima e civile, diario personale e attenta cronaca della realtà più umile, ma soprattutto creazione di uno spazio in cui si incontrano i sani e i malati, i vivi e i morti, gli oggetti e le persone, l’io e gli altri. Anedda ama citare la sua poetessa prediletta, Elizabeth Bishop: la poesia è «panico controllato». Cioè a dire: è fatta della materia incandescente delle emozioni che governano la nostra vita, tra le quali la paura; essa a queste emozioni tenta però di dare un ordine razionale, una misura nel verso.

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Le nostre anime dovrebbero dormire come dormono i corpi sottili stare tra le lenzuola come un foglio i capelli dietro le orecchie 5 le orecchie aperte capaci di ascoltare. Carne appuntita e fragile, cava nel buio della stanza. Osso lieve. Cosí la membrana stringe 10 la piuma alla spalla dell’angelo. Trasparenti sono le orecchie dei malati dello stesso colore dei vetri eppure ugualmente sentono il rullio dei letti 15 spostati dalle braccia dei vivi. Alle quattro, nei giorni di festa hanno fine le visite. Lente le fronti si voltano verso le pareti. Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario. 20 Luci azzurre in alto e in basso sulla cima delle porte sul bordo degli scalini. Luci notturne. I malati dormono gli uni 25 vicini agli altri posati su letti uguali. Solo diverso è il modo di piegare le ginocchia se le ginocchia 30 possono piegare, diversa l’onda delle loro coperte. Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena come nelle malattie di casa e ogni letto ha grandi ruote di metallo dentato 35 molle che di scatto serrano il materasso o di colpo lo innalzano. Il letto stride, si placa. Luci di Natale. 40 La corsia è una pianura con impercettibili tumuli. Con quali silenziosi inchini s’incontrano i pensieri dei morti. Luci d’inverno. Nella sala degli infermieri luccicano carte di stagnola l’odore del vino sale nell’aria. 45 Se i vivi accostassero il viso ai vetri appannati se allungassero appena le lingue il vapore saprebbe di vino. La nuova poesia 2 1133


La nuova poesia

C’è un attimo prima della morte la notte gira come una chiave. 50 Quali misteriosi cenni fanno i lampioni ai moribondi, quante ombre lasciano i corpi. Le dieci. Sulla tovaglia un coniglio rovesciato di fianco patate bollite, asparagi passati in casseruola. Nella stanza regna una solenne miseria. 55 I vivi chiamano come da barche lontane. (da Residenze invernali, Crocetti Editore, 1992)

Una outsider: Alida Airaghi Nata a Verona nel 1953, Airaghi è un’autrice appartata e inclassificabile, poco incline all’autopromozione (di sé ha scritto: «Io amo i margini mi piace/stare scomoda», in L’appartamento). Buona parte del suo canzoniere è dedicata alla memoria di una persona scomparsa prematuramente. Accanto al lutto sentiamo la purezza assoluta di un sentimento che sopravvive a qualsiasi corrosione del tempo. Leggiamo da Lago (1995):

Non sono onde. Ne avrebbero forse l’intenzione; increspature leggere, rughe dell’acqua, e basta. Non sarà mai tempesta, 5 questo lago, scarso coraggio di farsi mare: se accoglie un fiume, lo placa, lo annulla in una quiete casta […]. Il lago di Garda diventa qui un’allegoria dell’universo: «forte e tranquillo/nei suoi limiti di roccia», sempre uguale a sé stesso, azzurro o di colore dell’oro, confuso con il cielo, eterno e sicuro («non potrà mai franare»), imperturbabile e inviolabile (il graffio della vela che lo solca subito sparisce), serio e riservato (appena offeso dagli inquinanti motoscafi). La sua pace nebbiosa ha qualcosa di primordiale.

Carlo Bordini: una parola che dice La poesia di Carlo Bordini (1938-2020) non ha orrore della “parola che dice”, come invece molta lirica contemporanea, secondo un’osservazione di Giuseppe Pontiggia, anzi si ostina a “dire”, sia pure con delicato pudore, a raccontare, a comunicare, senza confondersi con il gergo standardizzato della comunicazione. Il suo canzoniere (I costruttori di vulcani, del 2010) si muove in una felice dialettica di opposti: la Storia come utopia possibile e come mattatoio («vivevo nella parte di dietro della storia»), la Vita come meccanismo feroce, come un mangia-mangia cosmico, e anche come irruzione della grazia nelle cose («non mangiano / sono come Dio / le cose sono femmine»). Amava molto Apollinaire e Amelia Rosselli ed era attratto dai marginali. A volte l’ironia si stempera in un sorriso lieve e beffardo, come di un personaggio beckettiano:

Sono le undici meno due del sedici agosto millenovecentonovantacinque. In tutta l’eternità non saranno mai più le undici meno due

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5 del sedici agosto millenovecentonovantacinque.

Peccato che non ho dello Champagne. (Una poesia, da I ghigni) Rileggiamo Suicidio:

Nulla di ciò che è vivo mi interesserà Sarà come non essere mai nato Che è il mio sogno di sempre Non ricorderò nulla. 5 Non ricorderò nemmeno di essere morto Non saprò mai di essere stato vivo E non saprò Di averti amata Gli altri si meraviglieranno 10 Si chiederanno perché. Non capiranno. Se sarò bravo non mi accorgerò nemmeno del passaggio Non ricorderò nemmeno di aver scritto questa poesia. (da Mare di latta) Immaginare un punto fuori del tempo e dello spazio, dove non sapremo più neanche se siamo vissuti. Il componimento si intitola Suicidio, ma si apre su una immagine di felicità minerale, smemorata.

4 Conclusioni Musica e soprattutto pensiero La poesia è strettamente imparentata con la musica, e alcuni componimenti di Andrea Zanzotto sembrano nascere da accostamenti fonici («il congegno abbia gioco»); ma anche in questo apparente trionfo del significante, in questa vibrazione della pura sonorità si percepisce una vibrazione del senso, la ricerca di una verità che «geme a sé stessa» (come scrive sempre Zanzotto in Vocativo). Per Eliot in poesia non si dà musica senza significato e, d’altra parte, se la poesia si gioca tutta nella lingua, anche la semantica fa legittimamente parte della lingua. In Baudelaire la poesia non è solo incanto e musica ineffabile ma “scienza” delle analogie, delle relazioni invisibili tra le cose. Anche per Milo De Angelis la poesia è lingua dell’esattezza. Ogni pensiero comincia con una poesia poiché comincia trovando una correlazione non ovvia tra due cose. Probabilmente il criterio per distinguere, nella pletorica produzione poetica contemporanea, l’autentica qualità espressiva – il bosco dal sottobosco – consiste nel trovare in essa tracce di un pensiero poetante, la poesia di pensiero di Leopardi, capace di ragionare in versi, dunque abbandonandosi alla magia dei suoni, intorno all’inesauribile complessità della nostra esperienza. Una dimensione narrativa e ragionante, teatrale e diaristica, della poesia, che non ne esaurisce tutte le modalità ma che coincide in buona parte, come si è visto, con la tradizione italiana. La nuova poesia 2 1135


Indice dei nomi A Accorsi, Stefano, 520 Adorno, Theodor, 537, 555, 615, 1081 Affinati, Eraldo, 625, 626, 1119 Agostino, sant’, 70 Alighieri, Dante, 157, 195, 217, 249, 306, 419, 440, 557, 771, 951, 962 Almansi, Guido, 784 Alvaro, Corrado, 71, 290, 291, 463, 637, 1119 Ammaniti, Niccolò, 1115, 1119 Anceschi, Luciano, 70, 659, 869 Angela, Piero, 613 Antonelli, Giuseppe, 638, 639, 640 Antonielli, Sergio, 268 Antonioni, Michelangelo, 59, 696 Apollinaire, Guillaume (pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicki), 87, 96, 377, 920, 1134 Apuleio, 851 Aragon, Louis, 377 Arbasino, Alberto, 418, 614, 658, 660, 662-666, 785 Archiloco, 519 Arendt, Hannah, 537, 544, 545 Ariosto, Ludovico, 306, 370, 385, 724, 851, 991,1099, 1019, 1042 Aristotele, 70, 792, 992 Asor Rosa, Alberto, 614, 856, 1057 Aubert, Nicole, 604 Auden, Wystan Hugh, 224 Auerbach, Erich, 790 Augé, Marc, 603, 604 Averroè, 424

B Bacchelli, Riccardo, 62, 71, 613 Bach, Johann Sebastian, 784, 854 Bachtin, Michail, 1096 Balanescu, Alexander, 506 Baldini, Gabriele, 759 Balestrini, Nanni, 658, 695, 868 Ballestra, Silvia, 1115 Balzac, Honoré de, 783 Banfi, Antonio, 70, 869 Banti, Anna, 725, 776-778 Barbato, Andrea, 404 Bárberi Squarotti, Giorgio, 192, 856 Baricco, Alessandro, 786, 1117 Barilli, Renato, 659 Bassani, Giorgio, 574-575, 580, 612, 657, 817, 868, 915, 1117 Baudelaire, Charles, 87, 224, 376, 790, 799, 802, 812, 920, 942, 1135 Bauman, Zigmunt, 271, 571, 594, 604, 631, 1122 Bazlen, Bobi (Roberto), 215 Beauvoir, Simone de, 51, 623 Beccaria, Gian Luigi, 309 Beckett, Samuel, 756, 1069, 1079, 1081, 1116 Bellow, Saul, 535 Benda, Julien, 49 Bene, Carmelo, 1071, 1107 Benigni, Roberto, 555

1136

Indice dei nomi

Benjamin, Walter, 541, 789, 790 Berardinelli, Alfonso, 829, 870, 897, 913, 915, 953, 1128 Bergson, Henri, 87, 121, 219, 249, 915 Berlusconi, Silvio, 587, 597 Bernardo Morliacense, 794 Bertman, Stephen, 604 Bertolucci, Attilio, 691, 817, 870, 914, 915, 916 Bertolucci, Bernardo, 916 Bertolucci, Giuseppe, 915 Bettarini, Rosanna, 217, 272, 273 Betti, Laura, 817 Bevilacqua, Alberto, 523 Bianciardi, Luciano, 689, 691, 695, 722 Bigongiari, Piero, 140, 216 Bilenchi, Romano, 48, 1124 Bioy Casares, Adolfo, 386 Bo, Carlo, 140, 142, 463, 817, 856 Bobbio, Norberto, 989 Böll, Heinrich, 656 Bongiorno, Mike, 597, 638, 642 Bonifacio VIII, papa, 1097 Bontempelli, Massimo, 73, 369, 770, 1088 Borges, Jorge Luis, 367, 368, 369, 370, 385, 386, 414, 539, 660, 782, 783, 793, 802, 992, 994 Bottai, Giuseppe, 63 Boutroux, Emile, 219 Brandeis, Irma, 216, 220, 249, 250 Brecht, Bertolt, 49, 492, 558, 871, 1012, 1069, 1071, 1072-1078, 1088 Breton, André, 87, 377 Brevini, Franco, 829, 835 Brizzi, Enrico, 1117 Broglie, Louis de, 408 Bruck, Edith, 556 Brugnolo, Furio, 165 Bufalino, Gesualdo, 781, 785, 786, 787, 799-801 Bulgakov, Michail, 367, 389, 390 Buonarroti, Michelangelo, 77, 88 Burri, Alberto, 128 Busi, Aldo, 613, 1115, 1117 Buson, Yosa, 118 Butor, Michel, 659 Buzzati, Dino, 71, 367, 368, 369, 370375, 536, 612

C Cagliostro, 809 Cain, James, 338 Callas, Maria, 776, 855 Calvino, Italo, 74, 329, 368, 370, 385, 461, 462, 463, 495, 515, 516, 517, 532, 536, 538, 540, 591, 612, 639, 641, 692, 693, 694, 734, 756, 759, 782, 783, 784, 785, 786, 901, 986-1068, 1114, 1117, 1129 Camilleri, Andrea, 641, 643, 1118 Campana, Dino, 140, 1127 Camus, Albert, 59, 542, 1079 Carpitella, Diego, 941 Capra, Frank, 809 Capriolo, Paola, 786

Caproni, Giorgio, 821, 867, 870, 915, 926, 951, 954, 960-974, 1126, 1129, 1130 Cardarelli, Vincenzo, 62, 89, 905, 906, 1130 Carducci, Giosue, 216, 224, 419, 539 Carnap, Rudolf, 55 Carocci, Alberto, 63 Carpentier, Alejo, 397 Carrieri, Giuseppe, 556 Cases, Cesare, 1000 Cassola, Carlo, 518, 657, 868 Cataldi, Pietro, 62, 141 Cattafi, Bartolo, 920 Cattaneo, Carlo, 64 Cavalcanti, Guido, 994 Cavalli, Patrizia, 905, 912, 913 Cavestro, Giordano (Mirko), 515 Cecchi, Emilio, 48, 328 Cecchi, Ottavio, 156 Celan, Paul, 540, 656, 1127, 1131 Celati, Gianni, 658, 1119 Celestini, Ascanio, 1107 Céline, Louis-Ferdinand (pseudonimo di Louis Ferdinand Auguste Destouches), 421, 960 Cervantes Miguel de, 397, 808 Ceserani, Remo, 787, 1046 Chamisso, Adelbert von, 803 Chaplin, Charlie, 556, 1025 Chartier, Roger, 645 Chiesa, Guido, 506 Chiodi, Pietro, 499 Cima, Annalisa, 273 Citati, Pietro, 769 Citti, Sergio, 817, 844 Cohen, Rachele, 158 Colangelo, Stefano, 936 Colasanti, Arnaldo, 626 Coletti, Vittorio, 962 Colombo, Cristoforo, 1096 Colussi, Susanna, 814, 854 Conrad, Joseph, 540, 559, 802, 989 Consolo, Vincenzo, 641, 678, 679, 787 Contini, Gianfranco, 97, 98, 163, 194, 216, 217, 248, 257, 272, 376, 420, 421, 424, 435, 815, 835, 935 Cortázar, Julio, 369 Cortellessa, Andrea, 90, 118 Corti, Maria, 462, 465, 476, 694, 910 Croce, Benedetto, 49, 69, 70, 194, 195, 215, 221, 290 Cromwell, Oliver, 492, 493, 499 Cronin, Archibald Joseph, 613 Cucchi, Maurizio, 867, 915, 923, 1130 Culicchia, Giuseppe, 1117 Curi, Fausto, 857, 875, 920, 977

D D’Annunzio, Gabriele, 40, 165, 166, 230, 231, 419, 1088, 1127 Davoli, Ninetto, 817, 854 De André, Fabrizio, 1127 De Angelis, Milo, 869, 915, 928, 1129, 1131, 1132, 1135 De Berardinis, Leo, 1107 De Carlo, Andrea, 1114, 1115, 1117


De Castris, Arcangelo Leone, 48 de Chirico, Giorgio, 369, 377 De Filippo, Eduardo, 1069, 1071, 1088, 1089 De Filippo, Peppino, 1089 De Filippo, Titina, 1089 De Lillo, Don, 782 De Luca, Erri, 885, 1122 de Martino, Ernesto, 339 de Moraes, Vinícius, 89 De Robertis, Domenico, 856 De Roberto, Federico, 482 De Sica, Vittorio, 308, 462, 463, 469, 580, 710 Debenedetti, Giacomo, 161, 215, 463, 572, 731, 757 Defoe, Daniel, 791 Del Giudice, Daniele, 1115, 1117 Delfini, Antonio, 71, 378 Della Casa, Giovanni, 976 Dessì, Giuseppe, 290, 296 Di Mauro, Enzo, 869 Dickinson, Emily, 224, 775 Disney, Walt, 809 Dombroski, Robert S., 440 Dos Passos, John, 329, 338 Dostoevskij, Fëdor, 306 Dowling, Constance, 339, 342 Doyle, Arthur Conan, 792, 793, 808 Dreyfus, Alfred, 51, 498, 672, 773 Duchamp, Marcel, 76, 646, 784, 1081 Dupoix, Jeanne, 88

E Eco, Umberto, 597, 619, 638, 641, 643, 659, 756, 781, 782, 784, 786, 788, 791798, 808, 992, 1114 Eichmann, Adolf, 544, 545 Einaudi, Giulio, 74, 217, 338 Einaudi, Luigi, 49, 74 Einstein, Albert, 49, 408 Eliade, Mircea, 339 Eliot, Thomas Stearns, 225, 249, 493, 540, 656, 868, 888, 994, 1120, 1127, 1135 Eluard, Paul, 377 Ernst, Max, 377, 556 Eschilo, 833

F Faenza, Roberto, 802 Farolfi, Franco, 812 Faulkner, William, 329, 338 Federico Barbarossa, imperatore, 791 Fellini, Federico, 691, 975 Fenoglio, Giuseppe (Beppe), 74, 490-517, 520, 524, 694, 697, 698 Ferrante, Elena, 643, 773, 1116, 1122 Ferrero, Ernesto, 420, 426, 430, 557 Ferretti, Gian Carlo, 423 Ferroni, Giulio, 182, 497, 614, 659, 660 Flaubert, Gustave, 1120 Fleming, Ian, 792 Flora, Francesco, 140 Fo, Dario, 1069, 1071, 1088, 1095, 1096, 1097, 1107, 1130 Fofi, Goffredo, 726 Folengo, Teofilo, 420, 421, 422 Fontana, Giorgio, 524

Fontana, Lucio, 646 Fortini, Franco, 539, 612, 657, 659, 691, 871, 975, 1130 Foscolo, Ugo, 159, 195, 419, 905 Francesco, papa, 591, 624 Franco, Francisco, 77, 470 Frank, Anna, 556 Frazer, James, 341 Freud, Sigmund, 43, 49, 161, 194, 195, 341, 418, 731, 732 Fromm, Erich, 615

G Gadamer, Hans Georg, 619 Gadda, Carlo Emilio, 63, 69, 248, 405460, 463, 465, 536, 559, 612, 636, 658, 663, 817, 844, 1104, 1119 Galilei, Galileo, 492 Garboli, Cesare, 724, 732, 775, 908, 916, 999 García Márquez, Gabriel, 369, 397, 398 Garrone, Matteo, 679 Gatto, Alfonso, 140, 141, 462, 475 Gennari, Alessandro, 523 Gentile, Giovanni, 47, 49, 50, 90, 534 George, Terry, 556 Gesù Cristo, 79, 258, 290, 301, 302, 389, 464, 499, 773, 820, 835, 855, 858, 868, 1105 Gianini Belotti, Elena, 644 Ginsberg, Allen, 89, 1114 Ginzburg, Leone, 49, 74, 338, 499, 760 Ginzburg, Natalia, 574, 641, 725, 759764, 766, 986, 989 Gioanola, Elio, 451 Giordano, Paolo, 640, 1118 Giotto, 854 Giovannetti, Paolo, 870 Giovanni XXII, papa, 792 Giovanni XXIII, papa, 824, 854 Girolimoni, Gino, 430 Giudici, Giovanni, 612, 867, 887, 896, 897, 901, 923, 939, 1130 Giuliani, Alfredo, 659, 868, 880, 881 Gobetti, Piero, 48, 49, 215, 227, 229 Godard, Jean-Luc, 824 Goethe, Johann Wolfgang von, 249 Gogol’, Nikolaj, 376 Goldoni, Carlo, 306 Golino, Enzo, 821, 835 Góngora, Luis de, 89 Gozzano, Guido, 637, 937, 963, 1130 Gramsci, Antonio, 37,49, 51, 74, 409, 464, 817, 819, 834, 836, 937, 842, 856, 857 Grass, Gunther, 656 Grassi, Paolo, 1088 Grasso, Aldo, 597 Gregoretti, Ugo, 824 Guarracino, Vincenzo, 894 Guccini, Francesco, 556 Guerrero, Margarita, 386 Guevara, Ernesto “Che”, 495, 621 Guglielmi, Angelo, 465, 613, 614, 659, 663, 857, 868 Guglielmo da Occam, 793 Guittone d’Arezzo, 129

H Hann, Hans, 55

Harris, Ed, 396 Hawthorne, Nathaniel, 385 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 636, 727, 757, 868, 896 Heidegger, Martin, 57 Heine, Heinrich, 170, 871 Hemingway, Ernest, 329, 461, 643, 470474, 643 Hillesum, Etty, 571 Hitchcock, Alfred, 802, 809 Hitler, Adolf, 41, 884 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 368, 376 Hopkins, G.M., 224,493 Horkheimer, Max, 615 Hugo, Victor, 613 Husserl, Edmund, 659

I Ionesco, Eugène, 1069, 1071, 1079, 1080 Isella, Dante, 273,425

J Jannacci, Enzo, 710 Jarry, Alfred, 1109 Jaspers, Karl, 57 Jovine, Francesco, 71, 463 Joyce, James, 63, 328, 385, 421, 422, 429, 470, 483, 941, 1081 Jung, Carl Gustav, 339, 341, 456, 1009

K Kafka, Franz, 63, 64, 306, 328, 368, 371, 397, 535, 1108, 1125 Kant, Immanuel, 408 Keaton, Buster, 1082 Keats, John, 216 Kerényi, Károly, 339 Kerouac, Jack, 1114 Khouma, Pap, 1121 Kierkegaard, Søren, 952 King, Stephen, 538, 809 Kipling, Rudyard, 385, 802 Klüger, Ruth, 545, 571 Kodama, María, 386

L Lacan, Jacques, 975, 977 Laforgue, Jules, 224 Lakhous, Amara, 1121 Lamarque, Vivian, 925, 926, 927 Landolfi, Tommaso, 71, 369, 375, 376, 377, 536 Lanzmann, Claude, 556 Lasch, Christopher, 448 Lauretano, Gianfranco, 499, 1129 Lavagetto, Mario, 199, 208 Le Bon, Gustave, 42 Léger, Fernand, 87 Lehr, Adele, 406 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 407, 408 Leonardo da Vinci, 140, 141 Leonetti, Francesco, 659 Leopardi, Giacomo, 62, 87, 89, 92, 94, 121, 129, 157, 159, 164, 166, 182, 213, 216, 219, 223, 228, 231, 268, 349, 377, 418, 419, 435, 539, 576, 735, 771, 772,

Indice dei nomi

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801, 820, 822, 905, 991, 1123, 1126, 1131, 1135 Lévi-Strauss, Claude, 276, 535, 537, 618 Levi, Carlo, 49, 74, 216, 290, 301, 302 Levi, Giuseppe, 760 Levi, Primo, 463, 524, 532-570, 696 Levin, Ira, 809 Liala (pseudonimo di Amalia Cambiasi Negretti), 71, 657 Lodoli, Marco, 626, 1115 Lombardo Radice, Marco, 1114 Longhi, Roberto, 776, 814, 915, 916 Lorenzini, Niva, 870, 976 Lovecraft, Howard Phillips, 809 Lowen, Alexander, 448 Löwenthal, Elena, 555 Loy, Rosetta, 787 Lubitsch, Ernst, 556 Luchetti, Daniele, 626 Luciano di Samosata, 349 Lucrezio, 416, 772, 991 Ludovico il Bavaro, imperatore, 792 Lukács, György, 734 Luzi, Mario, 140, 141, 216, 866, 915, 951, 952-959, 1129 Luzzatto, Sergio, 526, 558 Lyotard, Jean-François, 620

M Machiavelli, Niccolò, 419, 435 Magrelli, Valerio, 887, 901, 902, 1129 Magritte, René, 808 Majakovskij, Vladimir, 888, 1096, 1097 Majorana, Ettore, 672 Malerba, Luigi (pseudonimo di Luigi Bonardi), 658, 660, 666, 667, 786, 787, 1119 Mallarmé, Stéphane, 87, 92, 94, 99, 140, 576 Malpighi, Marcello, 419 Manacorda, Giorgio, 267, 1130 Manganelli, Giorgio, 567, 658, 660, 770, 784, 785, 786 Mann, Thomas, 49, 63, 66, 637, 397, 483, 540, 799 Mantegna, Andrea, 369, 854 Manzi, Alberto, 597, 613 Manzoni, Alessandro, 71, 159, 168, 306, 369, 405, 419, 435, 458, 557, 851, 1104 Manzotti, Emilio, 436, 437 Maraini, Dacia, 637, 725, 773, 774, 775, 776, 787 Marangoni, Matteo, 216 Marchesani, Pietro, 883 Marchese, Angelo, 273 Marchesini, Matteo, 732, 1130 Marcuse, Herbert, 615, 616, 644 Mari, Michele, 786, 788, 789, 1119 Marinetti, Filippo Tommaso, 73, 75, 87, 93 Marone, Gherardo, 118 Martinelli, Renzo, 524 Marx, Groucho, 808 Marx, Karl, 76, 615, 772, 819, 820, 868, 896 Masaccio, 369, 854 Massini, Stefano, 1108 Mastrocola, Paola, 625 Mastronardi, Lucio, 689, 692, 695, 707

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Matheson, Richard, 808 Matisse, Henri, 908 Mattei, Enrico, 851 Matteotti, Giacomo, 40, 475 Mauri, Silvana, 816 May Alcott, Louisa, 613 Mazzucco, Melania, 611, 1120 Melville, Herman, 338, 385, 491, 493 Mendeleev, Dmitrij Ivanovič, 559, 565 Meneghello, Luigi, 495, 519, 520, 521, 638 Mengaldo, Pier Vincenzo, 98, 174, 536, 869, 870, 906, 936, 940, 941, 960 Merini, Alda, 905, 910, 911, 1126 Methnani, Salah, 1121 Milani, don Lorenzo, 624, 625 Milanini, Claudio, 1036, 1047 Miller, Henry, 496 Milton, John, 491, 493 Minzoni, don Giovanni, 49 Modigliani, Amedeo, 87 Molière (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin), 306 Mondadori, Alberto, 643 Monicelli, Mario, 710 Montale, Eugenio, 59, 63, 140, 162, 212288, 376, 408, 612, 765, 857, 867, 960, 961, 962, 963, 975, 1128 Monti, Augusto, 338 Morante, Elsa, 306, 317, 637, 724-758, 772, 773, 774, 817, 818, 1114, 1121 Moravia, Alberto (pseudonimo di Alberto Pincherle), 59, 63, 71, 195, 212, 289, 306-326, 438, 453, 456, 462, 463, 612, 613, 637, 641, 731, 774, 776, 817, 818, 1119 Moretti, Franco, 317 Morin, Edgar, 56, 590 Moro, Aldo, 586, 671, 672 Moro, Tommaso, 1048 Musil, Robert, 317, 439, 637 Mussolini, Benito, 40, 41, 43, 44, 90, 195, 259, 410, 418, 429, 462, 844

N Naldini, Nico, 812, 817, 820, 844, 908 Nascimbeni, Giulio, 217 Nemes, Lázló, 556 Neurath, Otto, 55 Nietzsche, Friedrich, 94, 166, 170, 194, 195, 215, 219, 928, 938, 1000 Nigro, Raffaele, 787 Nono, Luigi, 128 Nove, Aldo, 1115

O Olivetti, Adriano, 689, 692, 696, 1106 Omero, 70, 385, 808 Onofri, Sandro, 626, 1119 Oppenheimer, Joshua, 556 Orazio, 70, 519 Ortega y Gasset, José, 42 Ortese, Anna Maria, 725, 769-773, 1121 Orwell, George (pseudonimo di Eric Arthur Blair), 367, 391, 392, 396, 495, 496, 589, 1118 Ottieri, Ottiero, 612, 691, 693, 694, 696, 697

Ottonieri, Tommaso, 1129 Ovidio, 991

P Packard, Vance, 590 Pagliarani, Elio, 659, 693, 868, 887, 888, 893, 894, 901, 915 Palandri, Enrico, 1117 Pampaloni, Geno, 496 Pansa, Giampaolo, 523 Paolini, Marco, 520, 855, 1107 Papini, Giovanni, 87, 160 Parini, Giuseppe, 159, 419 Parise, Goffredo, 612, 695, 1124 Parronchi, Alessandro, 140, 216 Pascal, Blaise, 88, 122, 801 Pascoli, Giovanni, 216, 224, 225, 231, 500, 576, 611, 835, 867, 888, 905, 975 Pasolini, Pier Paolo, 270, 307, 440, 498, 540, 612, 613, 637, 638, 639, 656, 657, 659, 683, 684, 734, 746, 772. 776, 812859, 867, 870, 916, 938, 939, 942, 943, 951, 975, 1107, 1119, 1128 Pasternàk, Boris, 643, 482 Pavese, Cesare, 48, 49, 74, 327, 329, 338362, 462, 463, 499, 516, 518, 520, 534, 539, 559, 759, 760, 914, 915, 989, 1117 Pea, Enrico, 84, 87 Pecoraro, Francesco, 1124 Pedullà, Gabriele, 490, 493, 494, 499, 501 Penna, Sandro, Pennac, Daniel (pseudonimo di Daniel Pennacchioni), 626 Perec, Georges, 783, 990 Pertini, Sandro, 217 Pessoa, Fernando, 786. 802 Petrarca, Francesco, 121, 129, 157, 159, 166, 170, 174, 195, 419 Petri, Elio, 710 Petrucci, Armando, 645 Picasso, Pablo, 75, 76, 77, 78, 79, 87, 377 Picchi, Anna, 960, 962 Piccini, Daniele, 881, 926 Piccioni, Leone, 84 Piccolo, Francesco, 603, 605 Pietropolli Charmet, Gustavo, 448 Pilato, Ponzio, 389, 390 Pinelli, Giuseppe, 1096 Pintor, Giaime, 518 Piovene, Guido, 457, 516, 637, 1119 Pirandello, Luigi, 48, 73, 369, 439, 465, 745, 785, 802, 905, 913, 1071, 1088, 1089, 1119 Piscator, Erwin, 1072 Pischedda, Bruno, 793, 794 Platone, 69 Poe, Edgar Allan, 368, 370, 376, 385, 809 Polato, Lorenzo, 165 Politkovskaja, Anna, 1108 Polo, Marco, 540, 1048, 1049 Pontiggia, Giuseppe, 1119, 1134 Popper, Karl, 55, 56 Porta, Antonio, 659, 868, 880, 881, 915, 942 Pound, Ezra, 224, 470, 656, 858, 888, 893 Pratolini, Vasco, 48, 140, 461, 464, 465, 475-481, 745, 868 Praz, Mario, 216, 225 Prezzolini, Giuseppe, 87, 160, 306 Propp Vladimir, 399, 1042


Proust, Marcel, 63, 87, 195, 219, 249, 306, 328, 483, 637, 799, 871, 915, 916, 920, 960, 1081 Puglisi, don Pino, 953 Pynchon, Thomas, 782, 1117

Q Quasimodo, Salvatore, 90, 140, 141, 147, 462, 539, 866, 871, 875, 975 Queneau, Raymond, 783, 784, 990, 1041

R Rabelais, François, 421, 422, 540 Raboni, Giovanni, 111, 747, 867, 920, 973 Racine, Jean, 94, 920 Ragone, Giovanni, 643 Rame, Franca, 1095, 1096 Ravera, Lidia, 1114, 1121 Recalcati, Massimo, 625, 626, 629 Resnais, Alain, 556, 659 Ricci, Mario, 556, 659 Ricoeur, Paul, 619 Rigoni Stern, Mario, 495, 1107 Rimbaud, Arthur, 92, 165, 224, 306, 1105 Ritzer, George, 589, 590, 604 Robbe-Grillet, Alain, 659 Robespierre, Maximilien de, 426 Romano, Lalla (Graziella), 725, 765-769 Ronconi, Luca, 893, 1107, 1108 Rondoni, Davide, 1105, 1129, 1130 Rosa, Giovanna, 757 Roscioni, Gian Carlo, 407, 435 Rosini, Luca, 556 Rosselli, Amelia, 500, 936-948, 1131, 1132, 1134 Rosselli, 49, Carlo, 940 Rosselli, Nello, 49 Rossellini, Roberto, 462, 463, 469, 824 Rousseau, Jean-Jauques, 1014 Rovatti, Pier Aldo, 620 Roversi, Roberto, 659

S Saba, Linuccia, 156, 160 Saba, Umberto (pseudonimo di Umberto Poli), 156-210, 216, 448, 539, 870, 875, 876, 878, 908, 926, 960, 961, 1130 Sabatini, Giuseppe, 638 Sade, Donatien-Alphonse-François conte, detto marchese de, 855 Salazar, António de Oliveira, 802 Salinari, Carlo, 291, 817, 841, 856 Salvatorelli, Luigi, 49 Salvemini, Gaetano, 48 Sanguineti, Edoardo, 98, 658, 659, 867, 868, 881, 887, 893, 894, 901, 906, 992, 1107 Sarraute, Nathalie, 659 Sartre, Jean-Paul, 51, 57, 58, 59, 308, 841, 1079 Satie, Erik, 87 Saussure, Ferdinand de, 618 Saviano, Roberto, 637, 643, 679, 1119 Savinio, Alberto (pseudonimo di Andrea de Chirico), 369, 377, 378, 379 Sbarbaro, Camillo, 215, 224, 1130 Scabia, Giuliano, 1107

Scalfari, Eugenio, 988, 989 Scarpa, Tiziano, 1115 Scarpetta, Eduardo, 1089 Sceab, Mohammed, 87 Schönberg, Arnold, 941 Schopenhauer, Arthur, 215, 219, 820 Sciascia, Leonardo, 74, 612, 636, 655, 671, 672, 673, 678, 679 Sclavi, Tiziano, 808, 809 Scott, Walter, 560 Scurati, Antonio, 626, 637, 1116 Segre, Cesare, 268, 398, 440, 559, 765, 766 Serandrei, Mario, 462 Serao, Matilde, 49, 637, 1119 Sereni, Vittorio, 462, 612, 691, 694, 697, 698, 867, 869, 875, 876, 920, 938, 1183 Serra, Ettore, 88 Šestov, Lev, 219 Sgarbi, Vittorio, 613 Shakespeare, William, 89, 159, 216, 225, 306, 493, 673 Shelley, Mary Wollstonecraft Godwin, 808 Shelley, Percy Bysshe, 216, 836 Sicari, Giovanna, 928 Siciliano, Enzo, 307, 844 Silone, Ignazio (pseudonimo di Secondo Tranquilli), 71, 290, 294, 295, 463, 1122 Singer, Esther Judith, 990 Singleton, Charles S., 216 Sinisgalli, Leonardo, 140, 536, 612, 691 Siti, Walter, 887, 1116, 1118 Sivori, Ernesto, 215 Soffici, Ardengo, 87 Solmi, Sergio, 536 Sordi, Alberto, 707, 710 Spallanzani, Lazzaro, 419 Spaziani, Maria Luisa, 220, 257, 258 Spinoza, Baruch, 408, 542 Stalin (soprannome di Iosif Vissarionovič Džugašvili), 465 Stanislavskij, Konstantin Sergeevič, 1073 Starnone, Domenico, 626, 1118 Steinbeck, John, 329, 338 Stella, Gian Antonio, 611, 641 Stendhal (pseudonimo di Marie-Henri Beyle), 636, 801, 1124 Stevenson, Robert Louis, 385, 802, 808 Strehler, Giorgio, 1072, 1088 Stuparich, Giani, 161 Sturzo, don Luigi, 48 Svevo, Italo (pseudonimo di Aron Hector [Ettore] Schmitz), 63, 161, 164, 195, 215, 438, 439, 448, 453, 465, 745, 757, 905 Szymborska, Wisława, 883

T Tabucchi, Antonio, 781, 785, 786, 802807, 1115, 1116 Tadini, Emilio, 786 Tanovič, Danis, 556 Tanzi, Drusilla, 216, 220, 257, 271, 272 Tarantino, Quentin, 1115 Tasso, Torquato, 129, 159 Teilhard de Chardin, Pierre, 952 Testa, Enrico, 275, 875, 901, 923, 928, 952, 953, 960, 963 Testori, Giovanni, 1069, 1071, 1088, 1104-1105, 1124 Dylan, Thomas, 808

Tiossi, Gina, 217 Togliatti, Palmiro, 64, 65, 329, 498, 854 Tognazzi, Ugo, 638 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 643, 464, 483, 787 Tondelli, Pier Vittorio, 641, 786, 787, 1114, 1115, 1117 Totò (pseudonimo di Antonio de Curtis), 854 Tozzi, Federigo, 63, 73, 317, 438 Treccani, Giovanni, 47 Turati, Filippo, 760

U Ungaretti, Antonietto, 89, 127 Ungaretti, Costantino, 89 Ungaretti, Giuseppe, 48, 84-138, 140, 225, 817, 960, 961, 975, 1130 Ungaretti, Ninon, 88

V Valduga, Patrizia, 905, 915, 930, 1129 Valéry, Paul, 99, 140, 1126 Van Gogh, Vincent, 751, 1108 Vassalli, Sebastiano, 787, 1115 Vattimo, Gianni, 620 Verga, Giovanni, 71, 290, 291, 456, 465, 482 Verlaine, Paul, 224, 232, 1105 Vianello, Raimondo, 638 Vico, Giambattista, 341 Viganò, Renata, 463, 495, 516 Vignanelli, Francesco, 88 Villon, François, 871 Vinci, Simona, 1115, 1123 Viola, Beppe, 710 Virgilio, Publio Marone, 491 Visconti, Luchino, 462, 463, 482, 484, 710, 1104 Vittorini, Elio, 48, 63, 64, 65, 74, 216, 248, 317, 318, 327, 328-337, 462, 463, 465, 475, 482, 484, 494, 498, 510, 516, 692, 693, 694, 818, 887, 889, 890, 1117 Viviani, Cesare, 915 Volponi, Paolo, 612, 658, 689, 691, 694, 696, 697, 698 Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet), 51, 76, 672, 991, 1014

W Warhol, Andy, 646, 647, 697, 781 Weber, Carl Maria von, 963 Weil, Simone, 497, 498, 727, 732, 752 Weir, Peter, 396 Weiss, Edoardo, 161, 163 Weiss, Peter, 556 Wells, Herbert George, 808 Whitman, Walt, 329, 338, 342 Wittgenstein, Ludwig, 55, 793 Wölfler, Carolina, 160 Wood, Sam, 471 Woolf, Virginia, 397, 483

Z Zamponi, Ersilia, 784 Zanzotto, Andrea, 867, 951, 975-981, 1135 Ždanov, Andrej A., 465 Zola, Émile, 51, 498, 672, 773

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Glossario A Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine. Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”) La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri). Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”. Agnizione Riconoscimento (specialmente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio. Alessandrino Verso della tradizione poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese). Allegoria Figura retorica tramite la quale il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII). Allocuzione ➜ Apostrofe Anacoluto Costrutto in cui la seconda parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI). Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi). Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o

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di una sua parte, eccedente la normale misura metrica. Anadiplòsi Figura retorica che consiste nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66). Anàfora Ripetizione di una o più parole all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3). Analessi (anche ➜ flashback) In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi. Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura retorica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11). Anfibologìa Espressione che può prestarsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola). Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia intendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra). Antonimìa Figura retorica che consiste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134). Antonomàsia Sostituzione del nome proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dan-

te, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne. Antropomorfismo Tendenza ad assegnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie. Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”. Apografo Manoscritto che è copia diretta di un testo originale. Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi direttamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76). Asindeto Forma di coordinazione realizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso). Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco. Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica) Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.

B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedute da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari. Bestiario Trattato medievale in cui venivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.


Bildungsroman ➜ Romanzo di formazione Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappresenta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana. Bucolica ➜ Egloga

C Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base. Canone L’insieme degli autori e delle opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via. Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV. Canzone Forma metrica caratterizzata dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comicosatirici. Catarsi Secondo Aristotele, la liberazione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni. Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.

Chiasmo Figura retorica che consiste nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134). Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico. Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo. Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva. Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente. Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione. Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono. Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato secondario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo. Consonanza Sorta di rima in cui si ripetono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono

le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa. Contaminazione Nella critica testuale l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria. Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva. Coppia sinonimica (o dittologia sinonimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo. Corpus L’insieme delle opere di un singolo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema. Correlativo oggettivo Concetto poetico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta. Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto. Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).

D Dedicatoria Lettera o epigrafe anteposta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata. Deittico Elemento linguistico che indica la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani). Denotazione Indica il significato primario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma

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e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione. Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”. Diacronia Indica la valutazione dei fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia). Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74). Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi). Dieresi In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13). Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica

E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa. Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale. Elegia Nella letteratura classica componimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico. Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo).

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Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura. Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami. Endecasillabo È il verso di undici sillabe, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati. Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77). Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito). Entrelacement È la tecnica di costruzione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enumerazione Figura retorica che consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141). Epanadiplòsi Figura retorica che consiste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria). Epanalèssi (o geminatio) Figura retorica che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10). Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143). Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti

di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale. Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce. Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico. Esegesi Interpretazione critica di un testo. Etimologia Disciplina che studia l’origine e la storia delle parole. Eufemismo Figura retorica che consiste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”. Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale. Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.

F Fabula La successione logico-temporale degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio. Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della parola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale. Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa caratteristica del romanzo del No-


vecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore. Fonema La più piccola unità di suono che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”. Fonetica Indica sia la branca della linguistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua. Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera. Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.

G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi Glossa Annotazione esplicativa o interpretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe. Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.

H Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore. Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta

e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).

I Iato Fenomeno per cui due vocali contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: paese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe. Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri. Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua. Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro. Inquadramento ➜ Epanadiplosi Intreccio La successione degli eventi così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logico-temporale (come la ➜ fabula). Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro). Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero eccessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro. Ipòmetro ➜ Ipermetro Ipostasi ➜ Personificazione Ipotassi Costruzione del periodo fondata sulla subordinazione di una o

più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi. Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66). Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.

K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.

L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo. Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera. Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia. Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni. Lezione (lat. lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile. Litote Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”. Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.

M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino

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Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”. Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa. Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa. Metaromanzo Romanzo che riflette sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo. Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”. Metàtesi Spostamento di fonemi all’interno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”. Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”. Mimesi Secondo la concezione estetica classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica,

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volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi. Monologo interiore Rappresentazione dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.

N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente. Nominale (stile nominale) Particolare organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.

O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti. Onomatopea Figura d’imitazione volta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera). Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.

P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza. Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc.

Paratassi Costruzione del periodo fondata sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi. Parodia Imitazione di un autore, di un testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico. Paronomàsia (o bisticcio o annominazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata). Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia. Perifrasi Figura retorica che consiste nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte. Personificazione (o prosopopea) Figura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata). Piede Nella metrica classica la più piccola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone. Pleonasmo Elemento linguistico superfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi). Plurilinguismo L’uso in un testo letterario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda. Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile. Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o


numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25). Polisemia La compresenza di due o più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.). Polisindeto forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso). Prolessi Anticipazione di un elemento del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze). Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in cui l’autore espone l’argomento dell’opera.

Q Quartina È la strofa composta di quattro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.

R Rapportatio Tecnica compositiva artificiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali. Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere, il livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere. Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica

quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio). Ritornello o refrain Verso o gruppo di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa. Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.

S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fittizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca. Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il significante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno. Sillogismo Tipo di ragionamento, codificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione). Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole

come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia. Similitudine Figura retorica che consiste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”, “tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie). Sinalèfe In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca). Sincope Caduta di una vocale all’interno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”. Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia). Sinèddoche Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”. Sinèresi In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46). Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera). Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc. Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa.

Glossario

1145


Sonetto Forma poetica (forse “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Spannung (ted. “tensione”) termine che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione. Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa. Strofa (o strofe o stanza) All’interno di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine. Summa Termine con cui nel medioevo si indicavano le trattazioni sistema-

1146

tiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).

T Tenzone Termine derivante dal provenzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso. Terza rima ➜ Terzina a rime incatenate. Terzina a rime incatenate È il metro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”. Testimone In filologia ogni libro antico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale. Tmesi Divisione di una parola composta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio). Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica. Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ovvero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricor-

rente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature). Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc. Tropo ➜ Traslato

V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc. Variatio (o variazione) Artificio retorico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi. Variazione ➜ Variatio

Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.


PER APPROFONDIRE

PAROLA CHIAVE

LESSICO

Indice delle rubriche arbereshe 1117 briefing 1123 elzeviri 268 gnostici 751 ipertesto 1127 metaletterario 786 mitopoietico 341 Movimento 556 picaresco 740

revival 1126 sefarditi 532 Shoah 533 solipsismo 140 splatter 1116 strutturalismo 71 wasteland 1123 yiddish 535

alienazione 615 analogia 93 autoritarismo 622 best seller 643 cafone 294 globalizzazione 589 etnomusicologia 941

musica atonale (o dodecafonica) 941 narcisismo 439 nonsense 1080 populismo 464 uomo-massa 42 virtuale 603

Sartre, prototipo dell’intellettuale impegnato 51 I maestri di Ungaretti: Leopardi e Mallarmé 94 Una suggestione dall’Estremo Oriente? 118 Lo Zibaldone giovanile di Montale: il Quaderno genovese 216 L’annuncio del premio Nobel in casa Montale 217 La nozione di correlativo oggettivo in Eliot e la poetica montaliana degli oggetti 225 Xenia: un affettuoso omaggio alla moglie scomparsa 271 Il Diario postumo: un giallo filologico 273 Letteratura e mondo rurale: un filo rosso nella tradizione letteraria italiana 291 Il tema dell’identità giovanile 317 Il mito della letteratura americana 329 Cesare Pavese ed Ernesto de Martino 339 Il Grande Fratello televisivo 396 Le componenti del pastiche 420 La società del narcisismo 448 Il male oscuro di Giuseppe Berto 453 Un’immagine-simbolo: la casa 456 online Un rebus filologico della letteratura contemporanea

online Il tema dell’amicizia nell’opera di Primo Levi online I Giusti tra le Nazioni

Un problema aperto: come ricordare oggi la Shoah? 553 La tregua: un grande romanzo epico 558 La nascita e l’affermazione della civiltà dei consumi in Italia 589 Da Carosello alla dittatura degli spot 598 Professori-scrittori 626 Il premio Strega 637 La nuova antilingua: aziendalese e neopolitichese 641 Tappe e pietre miliari della Neoavanguardia 659 Un modello di riferimento: il Nouveau roman e l’école du regard 659 «Officina» 659 online Paolo Volponi online Lucio Mastronardi online Luciano Bianciardi Ottiero Ottieri 696 online Gente di Vigevano Centuria 784 I romanzi neostorici 787 online Giorgio Manganelli

Indice delle rubriche

1147


EDUCAZIONE CIVICA

La pianificazione di vari livelli di lettura e il successo del romanzo 794 Dylan Dog, un eroe postmoderno 808 Il mito della figura materna 815 Una vocazione pedagogica 816 Un libro “scottante” 844 online Il cinema e la famiglia borghese online Pasolini e il Decameron Dal montaggio cinematografico al montaggio letterario 868 online Un’arte per i bambini di ieri: il teatrino Il libro di poesia 963 online La psicoanalisi di Lacan e la creatività del linguaggio Il labirinto come immagine del mondo contemporaneo 992

online Il partigiano Calvino “padre” dei cantautori

italiani

online Calvino e la narrativa dello straniamento online Calvino e l’Oulipo

Calvino “postmoderno”?

1046

online Il teatro delle avanguardie e lo sperimentalismo

del primo Novecento Il rinnovamento del teatro 1071 online Le sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta in Europa e negli Stati Uniti online Innovatori della scena italiana Beat 1114 Cyberpunk 1118 New Italian Epic 1125 Orfismo 1127 Gruppo 93 1129

nucleo concettuale Costituzione D10a Elio Vittorini, “Per una cultura che combatta le sofferenze” 65 T5a Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici 151 PARITÀ DI GENERE T1 Umberto Saba, A mia moglie 176 T2 Umberto Saba, La capra 180 T13 Umberto Saba, La confessione di Ernesto 200 T2a Ignazio Silone, I “cafoni” e lo Stato: due universi incommensurabili 297 T7a Alberto Moravia, L’adolescenza, “un’età di difficoltà e miserie” 318 T1 Carlo Emilio Gadda, Un ritratto corrosivo del fascismo e una testimonianza del pastiche 411 equilibri

#PROGETTOPARITÀ

T1

Ernest Hemingway, Un modello per il realismo italiano

PARITÀ DI GENERE equilibri

471

506 524 543

#PROGETTOPARITÀ

secondo le NUOVE Linee guida

T5 Beppe Fenoglio, L’accettazione del proprio destino T10 Giorgio Fontana, La “congiura della brava gente”

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

La “banalità del male” e il tema dei “giusti”

T2 Primo Levi, La cattura T3 Primo Levi, Il “campo di annientamento” T14 Primo Levi, Affinare i nostri sensi

544 547 566 611

L’immagine dell’“altro” Dalla rivendicazione della parità alla “liberazione” della donna” D15a Scuola di Barbiana, “Nati diversi?” T1b Ottiero Ottieri, Manodopera femminile nel Sud T1d Paolo Volponi, Tra attrazione e paura Zona competenze T7 Elsa Morante, Un lungo discorso in osteria

PARITÀ DI GENERE equilibri

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

#PROGETTOPARITÀ

DI GENERE Il coraggio di Artemisia ripercorso dalla scrittrice Anna Banti T3b Vittorio Sereni, Saba T5 Antonio Porta, Airone T8 Erri De Luca, Naufragi T2b Italo Calvino, Le riflessioni del commissario Kim sul significato della Resistenza T8 Italo Calvino, Tutto in un punto T4 Eduardo De Filippo, “Adda passà ‘a nuttata” PARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

1148

Indice delle rubriche

623 627 698 702 723 747 776 878 881 886 1005 1037 1090


nucleo concettuale Sviluppo economico e sostenibilità T1

Giuseppe Ungaretti, In memoria Zona competenze T5 Carlo Emilio Gadda, L’ambientazione del Maradagàl-Italia: le ville in Brianza, emblema di uno snobistico cattivo gusto T6b Carlo Emilio Gadda, L’esibizione narcisistica dei borghesi nei ristoranti di lusso D1a Gunther Anders, Produzione-distruzione: un nesso obbligato L’immagine dell’“altro” T4 Leonardo Sciascia, La mafia, “… una voce nell’aria…” T5b Roberto Saviano, “Mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini” D3d Pier Paolo Pasolini, L’articolo delle lucciole T8 Erri De Luca, Naufragi T5 Italo Calvino, L’ambiguo costruttore Caisotti T8 Italo Calvino, Tutto in un punto

100 326 441 443 592 611 674 683 830 886 1022 1037

nucleo concettuale Cittadinanza digitale

LEGGERE LE EMOZIONI

T18 Eugenio Montale, Il raschino T8 George Orwell, Il grande fratello vi guarda T6 Paolo Volponi, Dialogo tra un computer e la luna

D1 Giuseppe Ungaretti, Silenzio T15 Giuseppe Ungaretti, L’isola T2 Mario Luzi, L’immensità dell’attimo T3 Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera D1 Umberto Saba, Una poesia alla balia D2b Umberto Saba, Poesia vs “letteratura” T3 Umberto Saba, Trieste T4 Eugenio Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato T18 Eugenio Montale, Il raschino T20 Eugenio Montale, Ho sceso, dandoti il braccio,

277 392 715

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

almeno un milione di scale

91 125 145 148 163 168 183 241 277 278

T1b Elio Vittorini, “Uno che soffre per il dolore del mondo offeso” Jorge Luis Borges, Un racconto-parabola Gabriel Garcia Marquez, La solitudine di Macondo Carlo Emilio Gadda, Il male oscuro Beppe Fenoglio, Dir di no fino in fondo

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

T7 Beppe Fenoglio, La ricerca della verità T9 Primo Levi, Amare il proprio lavoro D15d Massimo Recalcati, Un incontro salvifico T5a Vincenzo Consolo, “Ho conosciuto un giudice,

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

T1 Elsa Morante, L’ignavia di Elisa T8 Elsa Morante, Alla ricerca delle proprie radici T10 Natalia Ginzburg, Un’educazione “all’antica” T12 Lalla Romano, Un figlio “infelice” D2a Pier Paolo Pasolini, “Io sono propenso…

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

T5 T9 T7b T3

procuratore aggiunto…”

a una contemplazione mistica del mondo” T10b Edoardo Sanguineti, Piangi piangi

332 387 399 452 502 510 561 629 680 735 752 761 767 823 895

Indice delle rubriche

1149


SGUARDO

T11c Giovanni Giudici, Piazza Saint-Bon T17 Sandro Penna, L’oscillazione degli stati d’animo:

899

EDUCAZIONE dalla tristezza all’intensità vitale ALLE RELAZIONI T21 Giovanni Raboni, Risanamento T1 Amelia Rosselli, Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana T2 Mario Luzi, A che pagina della storia EDUCAZIONE T8 Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso ALLE RELAZIONI T4 Italo Calvino, I nuovi valori del barone rampante EDUCAZIONE e il confronto con il padre ALLE RELAZIONI

908 921 945 956 966 1015

T10 Italo Calvino, Storia di Astolfo sulla Luna T3 Samuel Beckett, Un’inutile attesa

1043 1083

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Sulla storia Ungaretti e il fascismo

90

Sull’arte Enigma 236 La Pop Art 697 Un’eredità di Calvino: le città invisibili divengono visibili 1051

Sul cinema The Truman Show Neorealismo: un nuovo modo di fare cinema Il partigiano Johnny, il film I piccoli maestri, il film Il giardino dei Finzi-Contini, il film

396 469 506 520 578

online Il cinema dell’impegno civile dagli anni Settanta a oggi

Il boom industriale al cinema Il boom economico e la commedia La ricotta Il cinema di serie B Donne registe

1150

Indice delle rubriche

710 710 824 1115 1120


ORIENTARE E ORIENTARSI

D1 Giuseppe Ungaretti, Silenzio T15 Giuseppe Ungaretti, L’isola T2 Mario Luzi, L’immensità dell’attimo T3 Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera D1 Umberto Saba, Una poesia alla balia D2b Umberto Saba, Poesia vs “letteratura” T3 Umberto Saba, Trieste D1 Eugenio Montale, Montale ritrae sé stesso T4 Eugenio Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato T20 Eugenio Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale T1b Elio Vittorini, “Uno che soffre per il dolore del mondo offeso” T5 Jorge Luis Borges, Un racconto-parabola T9 Gabriel Garcia Marquez, La solitudine di Macondo T3 Beppe Fenoglio, Dir di no fino in fondo T7 Beppe Fenoglio, La ricerca della verità T9 Primo Levi, Amare il proprio lavoro D15d Massimo Recalcati, Un incontro salvifico T5a Vincenzo Consolo, “Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto…” T1 Elsa Morante, L’ignavia di Elisa T8 Elsa Morante, Alla ricerca delle proprie radici T10 Natalia Ginzburg, Un’educazione “all’antica” T12 Lalla Romano, Un figlio “infelice” D2a Pier Paolo Pasolini, “Io sono propenso… a una contemplazione mistica del mondo” T10b Edoardo Sanguineti, Piangi piangi T11c Giovanni Giudici, Piazza Saint-Bon T17 Sandro Penna, L’oscillazione degli stati d’animo: dalla tristezza all’intensità vitale T1 Amelia Rosselli, Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana T2 Mario Luzi, A che pagina della storia T8 Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso T4 Italo Calvino, I nuovi valori del barone rampante e il confronto con il padre T10 Italo Calvino, Storia di Astolfo sulla Luna T3 Samuel Beckett, Un’inutile attesa

91 125 145 148 163 168 183 218 241 278 332 387 399 502 510 561 629 680 735 752 761 767 823 895 899 908 945 956 966 1015 1043 1083

Indice delle rubriche

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secondo le NUOVE Linee guida

L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills

Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.

equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere

La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI

attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;

IMMAGINI

valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;

LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.


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