sezione 2 FONTI STORICHE AGGIUNTIVE (disponibili sul sito della casa editrice)
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1. LE FONTI SCRITTE NELL’INSEGNAMENTO DELLA STORIA E LA PROPOSTA DIDATTICA DI PRIMO PIANO SULLA STORIA Il discorso storico è sempre orientato e soggettivo Scriveva M. Bloch in Apologia della storia: «Non esiste un documento oggettivo, innocuo, primario […]. Esso è sempre e comunque il risultato dello sforzo compiuto dalle società antiche per imporre al futuro – consapevolmente o inconsapevolmente – quella data immagine di se stessa». Riflettere almeno in embrione sul come e, se possibile, sul perché una certa fonte «costruisca» una determinata «immagine» di sé, costituisce indubbiamente un avvio importante verso la conquista di una consapevolezza storica. Ogni discorso sul passato – non potrebbe accadere diversamente – è orientato e soggettivo: oggi questa consapevolezza è entrata nella coscienza comune.
né opportuno che studenti di biennio, con lo scarso bagaglio culturale in loro possesso, si misurino con qualsiasi fonte storica; che le sappiano leggere e interpretare con facilità; o, peggio, che sappiano svolgere un lavoro autonomo di ricerca per reperire particolari fonti o interpretazioni storiografiche. Traduciamo questa osservazione in termini più chiari: è giusto che un manuale scolastico attribuisca alle fonti tutto lo spazio e il rilievo che esse meritano e proprio questo avviene in Primo piano sulla storia; ma è bene sapere che la lettura delle fonti richiede sempre un lavoro didattico preventivo, a carico del docente. È l’insegnante che deve guidare la scelta dei testi del passato, la lettura più opportuna e l’interpretazione che ne va data, le proposte di attività richieste agli studenti.
Il contributo delle fonti all’intelligenza critica del passato Ma superare l’antica visione «neutrale» od «oggettiva» della storia non è ancora sufficiente: un simile superamento va motivato e consolidato agli occhi dei giovani allievi del biennio, i quali sono invece, per loro natura, portati a dare assoluta fiducia alle ricostruzioni dei docenti, dei libri e ovviamente di internet. Tale acquisizione di consapevolezza si potrà ottenere anche utilizzando in modo appropriato le fonti. La «critica delle fonti», lo sappiamo bene, è un tipo di attività da cui nessun discorso storico che voglia essere serio e credibile può permettersi il lusso di prescindere. Cogliere i punti di vista, le ottiche particolari, le polemiche sottintese, le interpretazioni del passato alla luce delle esigenze presenti: tutto ciò costituisce un esercizio critico di grande utilità, per i nostri studenti. In fondo, questa è una delle ragioni primarie per cui la storia merita, oggi come non mai, di essere insegnata – e insegnata bene – a scuola.
La proposta didattica di Primo piano sulla storia I colleghi che utilizzeranno Primo piano sulla storia noteranno che nel libro esiste una sezione specificamente dedicata alle fonti. Abbiamo preferito non «annegarle» dentro al normale fluire del racconto storico, tra testo, immagini, didascalie, schede, ecc. e optato perché, alla fine di ogni percorso più significativo, si aprisse una zona dedicata alle fonti: una zona facilmente riconoscibile anche a colpo d’occhio. In questo modo le fonti sono più visibili, più «presenti»; si possono cercare, trovare e usare immediatamente. Questa scelta, è ovvio, risponde a un intento didattico e metodologico: riteniamo che, almeno per i capitoli-chiave del manuale, sia giusto e opportuno che i giovani allievi del biennio superiore s’imbattano di regola in un’area in cui le fonti ottengano un loro rilievo autonomo e sistematico. Potranno così assimilare più direttamente l’idea che ogni argomento saliente nello studio del passato non può non accompagnarsi a (e «appoggiarsi» su) determinate fonti scritte. In un certo senso, il racconto storico del manuale nasce da lì, certo con tutte le cautele e le parzialità del caso; e a lì, alle fonti, il discorso storico deve necessariamente rinviare. Altrimenti, senza questo tipo di «prove», esso annegherebbe nella banalità (o nell’ideologia) e perderebbe di dignità e di valore, non riuscendo più a giustificare le proprie asserzioni.
Le fonti servono... ma non qualsiasi fonte in qualsiasi modo! Anche su questo versante, peraltro, è bene non coltivare eccessive illusioni. Certo, alcuni manuali e alcune proposte didattiche stanno dilatando all’eccesso il corpus delle possibili fonti; ma chi insegna, in concreto, nelle aule scolastiche sa bene che non è né possibile
Sezione 2 Il massimo possibile, e il minimo indispensabile Ma le fonti, in Primo piano sulla storia, non sono semplicemente presenti. Sono proposte, con un lavoro didattico che certo risalterà agli occhi dei colleghi. Infatti noi non abbiamo mai lasciato inerti le nostre fonti; non ci siamo limitati a raccogliere documentazioni più o meno peregrine, ma di volta in volta abbiamo “lavorato” le nostre fonti. Abbiamo voluto che i testi degli storici antichi e i documenti di altro tipo (repertori giuridici, testimonianze epistolari, ecc.) fossero sempre accompagnati da un apparato didattico: il massimo possibile per le capacità di studio e di concentrazione dei nostri ragazzi, ma anche il minimo indispensabile perché il lavoro sulle fonti assumesse una sua valenza e una sua dignità. Potremmo dire che il nostro manuale attribuisca alle fonti scritte tutto, e soltanto, il rilievo e il ruolo che spettano loro. Abbiamo privilegiato la chiave di accessibilità e di effettiva possibilità d’uso, l’unica che sensatamente appare opportuna in un libro di storia per il primo biennio della scuola secondaria superiore. «Analizzare la fonte» per contestualizzarla e capirla Primo piano sulla storia, dunque, non lascia soli docenti e allievi, non li abbandona alle prese con fonti spesso difficili e ben poco utilizzabili, così come sono. Oltre al cappello introduttivo, sempre presente, esiste un accompagnamento di note, che, dove necessario, semplificano la lettura e la rendono più accessibile. Inoltre, alla fine del testo d’epoca, si apre regolarmente la rubrica Analizziamo il testo. Per punti, essa offre la chiave per leggere e capire la fonte, collocandola nel suo contesto ideologico, storico, letterario. Analizziamo il testo e lo facciamo insieme, come aiuto a comprendere e a focalizzare rapidamente ciò che l’autore antico voleva dire (e qualche volta non dire), e il perché lo ha detto così, nel quadro culturale della sua epoca, del suo particolare punto di vista, delle motivazioni che lo guidarono a scrivere. Come sappiamo, è normale imbatterci in documenti scritti (anche non falsificati e quindi autentici) che però non erano degni di fede, nel senso che contenevano menzogne, lacune, imprecisioni. È quanto può accadere a qualsiasi affermazione prodotta da esseri umani, di ieri come di oggi. Sono tutti elementi che una corretta interpretazione della fonte può e deve mettere in luce.
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La domanda sul perché: interpretare le fonti La rubrica Analizziamo il testo vuole, in ultima analisi, costituire un aiuto per «interpretare» la fonte, ovvero attribuirle un significato e un valore. Questa operazione non è per nulla secondaria in un corretto quadro di didattica storica. Ci sembra infatti di grande importanza il fatto che il discorso storico giunga, alla fin fine, a misurarsi con una spiegazione del perché le cose sono accadute così. Ciò vale, è chiaro, anche per il livello delle fonti scritte. Perché l’autore di una qualche fonte si è espresso così? Di un certo evento egli non potrà che aver dato la propria (soggettiva) versione: le fonti scaturiscono direttamente dalle domande e dalle inquietudini del proprio tempo, proprio come avviene agli eventi, che sempre si ricollegano alla loro epoca. Appunto ciò ci sembra importante e opportuno che sia chiarito ed esplicitato. Un punto di vista merita di per sé di essere accostato, anche se si rivelerà soggettivo e parziale. L’attivazione delle fonti: Rifletti e rispondi La proposta didattica sulle fonti offerta da Primo piano sulla storia coinvolge anche l’«attivazione» delle fonti stesse. La rubrica Rifletti e rispondi vuole infatti suggerire un duplice lavoro sul testo: riflessione e produzione (orale o scritta). Si tratta in primo luogo di pervenire a una comprensione esatta dei contenuti; essa diviene, subito, riflessione su di essi e stimolo a proseguire l’indagine. Però non si può realisticamente chiedere ai giovani allievi ciò che essi non possono dare. Perciò le richieste di Rifletti e rispondi rispondono sempre a un criterio di ragionevolezza e di accessibilità. Una fornitura supplementare: le fonti online In virtù di queste considerazioni sull’utilità didattica del lavoro sulle fonti, proponiamo come parte integrante del corso una fornitura online supplementare di ben 36 fonti storiche. Le elenchiamo già negli indici che aprono i due volumi di Primo piano della storia; le rendiamo scaricabili gratuitamente per gli studenti, all’interno del sito della casa editrice nella sezione dedicata alla STORIA e le ristampiamo in questa Guida per l’insegnante, per maggiore utilità dei colleghi.
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2. FONTI STORICHE AGGIUNTIVE PER IL VOLUME I DI PRIMO PIANO SULLA STORIA 1 Siate fedeli al faraone, dio in terra Stele di Sehetep-ib-Ra (XIX secolo a.C.) Leggiamo il testo inciso sulla stele egizia di Sehetep-ib-Ra: quest’ultimo era il capo tesoriere di Ni-mat-Ra, ovvero Ammenemes III, faraone regnante tra 1840 e 1790 circa a.C. Siamo dunque nel periodo storico del Medio Regno, in uno dei momenti di massimo splendore della civiltà egizia: una fase dominata dai sacerdoti di Tebe e dalla loro celebrazione di Amon-Ra, il dio Sole, «Re di tutti gli dèi». La stele di Sehetep-ib-Ra è oggi conservata al Museo del Cairo ed è un testo assai interessante per documentare il culto del faraone, considerato un essere sacro e onnipotente.
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Dico una cosa importante, pretendo che mi prestiate ascolto. Pretendo che conosciate un consiglio di eternità, un corretto stile di vita, perché in pace possiate trascorrere il tempo della vita. Adorate nel vostro cuore il re Ni-mat-Ra1 che vive in eterno; e nei vostri cuori unitevi alla sua maestà. Egli è Sia2 che gli uomini hanno nel cuore, nessuna creatura sfugge al suo sguardo. Egli è Ra3, i cui raggi ci donano la vista, colui che illumina le Due Terre4 più del disco del sole. Egli più del grande Nilo rende verde la terra, perché egli ha ricolmato le Due Terre di forza e di vita. Le narici gelano5 quando egli inclina all’ira, ma quando egli è clemente, esse respireranno l’aria. Egli dà il cibo a chi lo serve, sostenta chi percorre il suo sentiero. Il re è un ka6 e la sua bocca è ricchezza. Egli mantiene in essere le sue creature poiché egli è Khnum7 di tutte le creature, il padre creatore di tutte le genti. Egli è Bastet8, che protegge le Due Terre, colui che l’adora sarà protetto dal suo braccio. Egli è Sekhmet9 per chi trasgredisce i suoi comandi, colui che egli odia patirà pena e dolore. Combatti in favore del suo nome, e sii scrupoloso quando giuri sul suo nome, così che siate liberi da ogni ombra di slealtà. Chi è amato dal re sarà persona rispettata, ma non c’è tomba per un ribelle contro la sua maestà e il suo cadavere è gettato nell’acqua. Se mettete in pratica tutto questo, sarete irreprensibili e così sia per sempre.
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1. Ni-Mat-Ra: il faraone Ammenemes III. 2. Sia: la personificazione, divinizzata, della facoltà della percezione. 3. Ra: il dio-Sole. 4. le Due Terre: l’Alto e il Basso Egitto. 5. gelano: per la paura. 6. un ka: cioè uno spirito vitale. 7. Khnum: il dio-ariete, signore delle sorgenti del Nilo e costruttore dell’universo. 8. Bastet: la gatta sacra che proteggeva i raccolti. 9. Sekhmet: la dea-leonessa, protettrice dei medici e signora della guerra.
Analizziamo il testo • Il testo offre una delle più solenni affermazioni di sacralità del faraone che ci provengano dall’antico Egitto. Il re viene successivamente identificato in molte figure: - in Sia, la percezione; - in Ra, il dio-sole; - in Khnum, il dio del Nilo e fabbro dell’universo; - in Bastet, la dea felina che protegge i raccolti; - in Sekhmet, la dea leonessa della guerra. Il sovrano s’incarna dunque in una pluralità di manifestazioni divine, come a riassumere in sé gli attributi stessi delle divinità. • Di fronte a un sovrano così soprannaturale, al fedele suddito viene ingiunto di: - «adorare» il sovrano; - combattere per lui; - onorarlo con giuramenti onesti. In caso contrario, neppure la morte potrà sottrarre il colpevole all’ira del faraone.
Rifletti e rispondi 1. La religione egizia era politeista e naturalistica. Individua nel testo gli elementi che documentano tale affermazione. 2. Quali atteggiamenti deve assumere il suddito davanti al faraone, secondo la fonte che hai letto? Rispondi con qualche riferimento al testo. 3. Quale ricompensa il suddito ottiene in cambio della propria fedeltà? 4. E quale pena ottiene, invece, in caso di disobbedienza? 5. Secondo te è giusto parlare, a proposito dell’autorità del faraone, di «teocrazia»? Definisci il termine e poi rispondi con qualche riferimento al testo.
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2 La severità delle leggi assire Tavolette di Assur, A e B (XI secolo a.C.) Le rovine dell’antica Ashur o Assur, prima capitale del regno assiro, ci hanno restituito numerose tavolette, scritte nei tipici caratteri cuneiformi della Mesopotamia. Dall’archivio dei sovrani assiri leggiamo queste leggi, risalenti all’epoca del re Tiglatpileser (1112-1074 a.C.): siamo nel momento iniziale della grande espansione assira. Questi estratti documentano la severità delle leggi assire e la loro arretratezza rispetto alla precedente legislazione del grande re babilonese Hammurabi (vissuto, vale la pena ricordarlo, sette secoli prima). 1. Se, in caso di malattia o morte di un uomo libero, sua moglie ruba qualcosa dalla sua casa e consegna ciò che ha rubato a un uomo libero o a una donna libera o a qualcun altro, si metterà a morte la moglie dell’uomo libero assieme a coloro che hanno ricevuto gli oggetti rubati. 2. Se uno schiavo o una schiava riceve qualche cosa di rubato dalla mano della moglie di un uomo libero, si taglieranno il naso e le orecchie dello schiavo o della schiava, quale riparazione per i beni rubati, mentre l’uomo libero taglierà le orecchie a sua moglie. 7. Se una donna leva le mani contro un uomo libero, la si porrà sotto processo; ella pagherà 30 mine1 di piombo, quindi la si fustigherà con 20 colpi di verga. 37. Se un uomo libero desidera divorziare da sua moglie, se lo desidera potrà darle qualche cosa; se non lo desidera, non sarà tenuto a darle nulla, e la donna se ne andrà a mani vuote. 1. 30 mine: circa 13 kg; la mina è la sessantesima parte del talento.
Analizziamo il testo • Le leggi di cui abbiamo letto qualche stralcio sono interessanti soprattutto se messe a confronto con altre legislazioni, come il codice di Hammurabi e le leggi ittite. Le leggi di Hammurabi affermavano esplicitamente di voler proteggere i deboli della società; le leggi ittite invece prevedevano solo in casi rari la pena di morte, preferendo sanzioni diverse (multe e risarcimenti). • L’ordinamento assiro appare, rispetto a questi precedenti, decisamente severo e più arretrato: la posizione sociale e giuridica della donna è molto svantaggiata rispetto a quella dell’uomo; anche gli schiavi sono considerati in posizione del tutto subordinata. • Da notare la durezza esemplare delle pene: il taglio del naso o delle orecchie, con la permanente mutilazione che produce e vuole incutere terrore. Appunto con questo criterio gli assiri governavano i popoli da loro militarmente assoggettati.
Rifletti e rispondi 1. In quale fase si situano, cronologicamente, queste leggi, rispetto alla storia assira?
2. Esponi in un breve testo le caratteristiche della società assira che emergono dalle leggi lette.
3. Riassumi la posizione sociale della donna, come si evince da queste leggi.
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3 Tersite l’anti-eroe Omero, Iliade, II, 211-224 Questo passo dell’Iliade, il primo poema di Omero, raffigura Tersite, un soldato vile e deforme. Durante un’assemblea di tutti i guerrieri, egli insulta Agamennone e gli altri capi. Alla fine verrà zittito e duramente percosso da Odisseo, cioè Ulisse. Come sappiamo, i poemi omerici rappresentano per noi una fonte storica primaria per esaminare le caratteristiche della società greca nel cosiddetto «periodo buio», che corrisponde ai secoli post-micenei, caratterizzati dalla dominazione dorica. Proprio questo è il motivo d’interesse che questa pagina riveste.
Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti1, ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante2, che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi3; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva la testa a pera, e ci crescevano radi4 i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro, era ad Achille ed Odisseo: perché spesso li svillaneggiava; quel giorno al divino Agamennone5, gracchiando acuto6, diceva improperi7: contro di lui gli Achei terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro. Dunque, strillando a gran voce, ingiuriava Agamennone. 1. ai loro posti: siamo ancora nel contesto di un’assemblea di guerrieri. 2. petulante: fastidioso e insistente. 3. Argivi: provenienti da Argo; l’epiteto si riferisce agli Achei, cioè ai greci. 4. radi: scarsi. 5. Agamennone: re di Micene, è il capo della spedizione militare a Troia, cui partecipano altri re e principi greci. 6. gracchiando acuto: parlando con voce acuta e sgradevole. 7. improperi: ingiurie.
Analizziamo il testo • I poemi omerici riflettono i caratteri del mondo «buio» dell’età dorica, quella che corre dal 1150 a.C. all’800 a.C. circa. Il passo che abbiamo letto è molto utile per comprendere la visione aristocratica del mondo omerico e quindi della società dorica. Tersite è descritto dal poeta come un personaggio brutto e deforme: infatti appartiene alla moltitudine anonima dei soldati privi di nobili origini. Non corrisponde affatto all’ideale dell’eroe omerico; al contrario, è una caricatura dei valorosi protagonisti del poema. • Omero non si sofferma mai a descrivere l’aspetto degli eroi come Achille, Agamennone, Ulisse: gli basta dire che sono belli, nobili e valorosi, indicazioni sufficienti per i suoi ascoltatori. Di Tersite, invece, il poeta descrive con accuratezza la deformità: lo ritrae come un soldato di origini vili e per questo, secondo la concezione aristocratica, non può che essere brutto, meschino e ignobile. • La società raffigurata nell’Iliade vede al centro la figura del basiléus: un capo, appartenente a quel ceto di nobili che stava al vertice della piramide sociale, che svolgeva il ruolo di guida dentro la comunità, esercitava i poteri militari (guidava l’esercito) e giudiziari (emetteva sentenze). Il basiléus veniva assistito, nelle sue decisioni, da un consiglio di anziani, la gherusía, che in certi casi poteva mettere in discussione l’autorità del capo, chiedendo conto delle sue decisioni. Vi era anche un’assemblea del popolo (il démos, composto da contadini e qualche artigiano), la cui voce appare soverchiata dalla prepotenza degli aristocratici, gli áristoi.
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Proprio a questo proposito è significativo l’episodio di Tersite, il gobbo e zoppo soldato che insulta il re ed esorta i compagni a togliere l’assedio a Troia; alla fine viene colpito da Ulisse e ridotto al silenzio, tra le risa dell’esercito. Per il popolo non c’è spazio né dignità: è l’insegnamento che ci proviene dai versi letti.
Rifletti e rispondi 1. Che cosa s’intende per «etica aristocratica»? Quali erano i suoi valori?
2. Tersite raffigura tale etica aristocratica, oppure no? Perché?
3. Come si conclude l’episodio? Quale insegnamento voleva impartire ai lettori tale epilogo?
4. Che cosa rende spregevole Tersite? Rispondi distinguendo: a) le sue parole lo rendono spregevole perché b) il suo aspetto esteriore lo rende spregevole perché c) i suoi atti lo rendono spregevole perché 5. Il giudizio del narratore su Tersite è implicito? Oppure affiora esplicitamente in qualche momento del testo? In questo caso, citalo.
6. Chiarisci in un tuo breve scritto: a) quando furono scritti i due poemi omerici;
b) perché essi si possono considerare delle fonti storiche sui secoli «oscuri» della storia greca.
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4 La società dorica: il potere del re e il lavoro dei campi Omero: Iliade, IX, 94-101; Odissea, XXIV, 203-217 Leggiamo queste due brevi sequenze poetiche, tratte dai poemi omerici (la prima dall’Iliade, la seconda dall’Odissea), utili per documentare le condizioni politiche, sociali ed economiche vigenti al tempo della società dorica. Va infatti ricordato che la società degli achei, a cui Omero si riferisce, non è la società micenea: in realtà riflette una fase successiva, ovvero il lungo periodo della Grecia arcaica conosciuto come «età buia» e dominato dai dori. Di questa fase proprio l’Iliade e l’Odissea costituiscono, per noi, i migliori testimoni.
A. IL POTERE DEL RE (Iliade IX, vv. 94-101) Il vecchio Nestore [...] parlò con saggezza e disse: «Gloriosissimo Agamennone1, signore degli uomini, tu sei signore di molti popoli. Zeus ti ha dato lo scettro, ti ha dato le norme del diritto divino, affinché tu decida. Tocca a te parlare, a te ascoltare e anche seguire il consiglio di un altro, quando il suo cuore l’abbia spinto a parlare per il bene. A te spetta decidere quello che è meglio; farai tuo ciò che un altro ha iniziato». B. LA PROPRIETÀ DELLA TERRA E IL LAVORO DEI CAMPI (Odissea XXIV, vv. 203-217) Usciti dalla città, rapidamente giunsero al campo di Laerte2, bello e ben coltivato, che un tempo egli stesso aveva acquistato e lavorato con grande fatica. Qui era la sua dimora e tutt’intorno correva una tettoia dove mangiavano e dormivano i pochi servi necessari al lavoro. Vi era anche una vecchia donna della Sicilia che di lui si prendeva cura in campagna, lontano dalla città. Disse allora Odisseo3 ai servi e a suo figlio: «Voi ora entrate nella dimora ben costruita e per il pranzo uccidete il maiale più grasso; io intanto andrò a vedere se mio padre mi riconosce, guardandomi». 1. Agamennone: re di Micene, è il capo della spedizione militare a Troia, cui partecipano altri re e principi greci. 2. Laerte: padre di Ulisse ed ex sovrano dell’isola d’Itaca; aveva poi abdicato a favore del figlio Ulisse. 3. Odisseo: Ulisse.
Analizziamo il testo • La figura del re greco, diversamente da quelle del faraone e dei sovrani dei regni mesopotamici, non è ammantata da un’aura divina, né possiede le prerogative di un’autorità assoluta e indiscutibile. Il re, è vero, è legittimato dal volere di Zeus, come leggiamo nel primo passo, e anche le «norme del diritto», come afferma il vecchio Nestore, possiedono un’origine «divina». Tuttavia il basiléus, il sovrano, appare di solito agire nel contesto più vasto dell’assemblea di nobili; gli appartengono il potere e la responsabilità del governo, come sempre Nestore sottolinea («A te spetta decidere quello che è meglio»); ma egli non fa che «proseguire» ciò che altri hanno «iniziato»: il re, insomma, dà compimento dunque a iniziative che sono comuni. • Dal secondo passo ricaviamo invece uno squarcio interessante sulle caratteristiche anche economiche della società dorica. Essa è fondata sulla coltivazione dei campi e sull’allevamento (come si evince dal riferimento al maiale più grasso). Il re non è un signore assoluto di tutte le terre e gli uomini che le abitano (come accadeva nell’antico Egitto); infatti qui si dice che Laerte, l’ex sovrano di Itaca, «aveva acquistato» la sua casa e che coltivava «con grande fatica» il suo podere, con l’ausilio di pochi servitori e una sola schiava domestica. Va ricordato che i «servi», a quell’epoca, erano di solito prigionieri di guerra oppure contadini indebitatisi e ridotti, quindi, in schiavitù dal creditore.
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Rifletti e rispondi 1. Da che cosa è legittimata l’autorità regia? Individua la risposta nel testo.
2. Ma da che cosa è temperato l’assolutismo del sovrano?
3. Su quali elementi si basa la ricchezza, nel mondo dorico?
4. Quale concezione della sovranità, in sostanza, si respira nel mondo greco?
5. Quali classi sociali puoi scoprire in azione, nei due brevi testi citati?
6. Quando furono scritti l’Iliade e l’Odissea? In che senso i due poemi possono essere considerati delle fonti storiche? Rileggi, per rispondere, il testo alle pp. 105-106.
7. Quali differenze sussistevano tra il mondo miceneo e il mondo dorico? Rispondi in modo articolato, ma senza superare le dieci-quindici righe di quaderno.
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5 L’EROICA BATTAGLIA DELLE TERMOPILI Erodoto, Storie, libro VII Il racconto della battaglia delle Termopili tramandato da Erodoto è una delle pagine più note e ammirate dell’intera storiografia greca. Dei due passi che riportiamo, il primo si riferisce al secondo giorno dei combattimenti: l’autore descrive la superiore tattica oplitica rispetto ai caotici assalti dei «barbari». Il secondo brano narra invece i momenti conclusivi dello scontro: qui risalta la differenza tra i persiani, spinti avanti solo dalla frusta dei loro capi, e l’eroicità degli spartani, che decidono liberamente di sacrificare le proprie vite per un ideale superiore: l’indipendenza di tutta l’Ellade.
Allora, così duramente malconci, i medi1 si ritirarono; ma presero il loro posto i persiani, quelli che il re chiamava immortali2: l’idea era che avrebbero chiuso la faccenda agevolmente. Quando anche questi si scontrarono coi greci, non ottennero miglior risultato dei medi, ma proprio lo stesso. Gli spartani lottarono in modo memorabile, dimostrando in varie maniere di essere combattenti esperti fra gente che combattere non sapeva: tutte le volte che voltavano le spalle e accennavano a fuggire mantenevano serrate le file3; i barbari4, vedendoli ritirarsi, si lanciavano all’attacco con urla e frastuono; ma gli spartani, appena raggiunti, si voltavano e li affrontavano, e con questa tattica abbatterono un numero incalcolabile di persiani. I persiani, non riuscendo a forzare in nessun punto il passo5, per quanto ci provassero attaccando a frotte e in ogni altra maniera, si ritirarono». […] «Allora i greci6 tennero consiglio e i pareri erano divergenti: c’era chi proibiva che si abbandonasse la posizione e chi premeva per il contrario. Quindi si divisero: alcuni di loro si allontanarono, e, sbandatisi, rientrarono nelle rispettive città, altri erano pronti a restare lì assieme a Leonida7. Ma si racconta anche che fu Leonida a congedarli: si preoccupava, pare, di sottrarli alla morte, mentre a lui e agli spartiati presenti non si addiceva abbandonare la postazione che erano venuti espressamente a presidiare. Io sono pienamente d’accordo con questa versione; di più: sono convinto che Leonida, quando si accorse che gli alleati erano scoraggiati e poco disposti a condividere i pericoli, abbia ordinato loro di andarsene, pensando però che a lui la ritirata non conveniva: restando lì lasciava di sé un glorioso ricordo, senza intaccare la prosperità di Sparta. 1. i medi: uno dei popoli che componevano lo sterminato impero persiano. 2. immortali: il reparto dei cosiddetti immortali costituiva il corpo scelto dell’esercito persiano. 3. mantenevano serrate le file: mantenevano l’assetto tipico della falange, che rendeva impenetrabile lo schieramento oplitico. 4. barbari: così i greci chiamavano indistintamente tutti i popoli che non erano di stirpe ellenica, cioè tutti coloro che non parlavano la lingua greca (bárbaros significava in origine “balbuziente”) e che, quindi, non vivevano secondo le regole della civiltà. 5. il passo: il passo delle Termopili, dove avvenne l’epico scontro. Fiancheggiato da un lato da montagne scoscese, dall’altro dal mare, il passo era un luogo assai adatto alla difesa contro l’invasione, costituendo un passaggio obbligato per le truppe persiane dirette a sud-ovest, verso l’Attica o il Peloponneso. 6. i greci: il contingente che presidiava il passo era costituito da 300 opliti spartani (appartenenti all’élite militare degli Spartiati) con i loro scudieri; a essi si aggiungevano circa 5000 volontari provenienti dalle zone vicine della Grecia: la Focide, la Locride e la Beozia. 7. Leonida: uno dei due re (comandanti militari) di Sparta; tenne la carica dal 490 al 480 a.C.
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Serse quindi ordinò l’assalto. Molti dei barbari cadevano a frotte; dietro di loro infatti, i comandanti degli squadroni, armati di frusta, tempestavano di colpi ogni soldato, spingendoli avanti continuamente. Molti finirono in mare e annegarono, molti di più ancora morivano nella calca calpestandosi a vicenda: nemmeno uno sguardo per chi cadeva. I greci, sapendo che sarebbero morti per mano di quanti avevano aggirato la montagna8, mostravano ai barbari tutta la propria forza, con disprezzo della propria vita, con rabbioso furore. Alla maggior parte di loro, intanto, s’erano ormai spezzate le lance, ma massacravano i persiani a colpi di spada. E Leonida, dopo essersi comportato veramente da valoroso, cadde in questo combattimento e con lui altri spartani famosi, dei quali io chiesi i nomi, trattandosi di uomini degni di essere ricordati; e chiesi anche i nomi di tutti i trecento. Il più valoroso si narra sia stato lo spartano Dienece, che prima dello scontro coi medi avrebbe pronunciato la seguente battuta. Sentendo dire da uno di Trachis9: “Quando i barbari scaglieranno le frecce, copriranno il sole con la moltitudine dei dardi10” (tante erano le frecce), Dienece non rimase per nulla scosso da questa osservazione e rispose che l’ospite di Trachis stava dando notizie magnifiche: visto che i medi oscuravano il sole, la battaglia si sarebbe svolta all’ombra». 8. aggirato la montagna: era stato un traditore, Efialte, un greco che abitava la zona, a rivelare ai persiani il modo con cui aggirare il passo e sorprendere i greci alle spalle. 9. Trachis: città greca della Tessaglia. 10. dardi: frecce. L’esercito persiano era famoso per i suoi arcieri.
Analizziamo il testo • Il racconto che abbiamo letto è un tipico esempio di quella storia narrativa, colma di vivaci particolari di colore e finalizzata all’insegnamento per i lettori, che è cara allo storico greco Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel V secolo a.C. La sua finalità primaria, com’egli stesso afferma, era di raccontare «gesta degli eroi»: ne ha un’occasione perfetta narrando l’eroica resistenza di Leonida e dei suoi 300 spartiati al passo delle Termopili. • Il primo dei due passi citati ci offre la rappresentazione della superiorità greca rispetto alla barbarie persiana: gli spartani e i loro alleati combattono in file serrate, aiutandosi l’un l’altro, come prevedeva lo schieramento della falange; invece i persiani «si lanciavano all’attacco con urla e frastuono», in modo disordinato e improduttivo. Questa idea della superiorità greca su tutti i «barbari» era stata elaborata dalla cultura greca del V secolo proprio come chiave interpretativa della grande vittoria ottenuta dalla «grecità» sul nemico persiano nel corso delle due guerre persiane, combattute e vinte pochi decenni prima. • Nel secondo passo spicca la ferma determinazione degli spartani di non arretrare di un solo passo e di preferire la morte alla resa. Essi vengono vinti a opera del tradimento di un abitante della zona, Efialte (il passo qui non è riportato); ma neppure quando diventano certi della sconfitta, rinunciano a compiere il loro dovere. Leonida dà l’esempio e con lui si muovono compatti tutti i suoi valorosi «Trecento». Erodoto dice di essersi accertato dei loro nomi e ne cita uno (Dienece) a titolo d’esempio: nella visione erodotea, la fama da lasciare ai posteri è la migliore ricompensa per questi eroi.
Rifletti e rispondi 1. Quale tattica di combattimento usavano gli spartani? Da cosa era caratterizzata? Quali particolari emergono da questa pagina di Erodoto?
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2. Sottolinea in rosso nel testo le espressioni che descrivono l’eroismo degli spartani, in blu l’inferiorità, sia militare sia morale, dei persiani. 3. Ora rifletti: secondo te, la descrizione che fa Erodoto è obiettiva o ti sembra che prevalgano in essa intenti di carattere celebrativo?
4. Non tutti i greci sono concordi sulla tattica da seguire. Quali diversi atteggiamenti manifestano i comandanti dello schieramento greco? Sottolineali sul testo. 5. Perché, secondo Erodoto, Leonida decide di restare al suo posto? Anche qui rispondi sulla base del testo. E perché egli allontana gli alleati?
6. Chi era Efialte? Quale ruolo ebbe nello scontro?
7. L’autore riferisce diverse versioni dell’episodio che vede protagonista Leonida. Secondo te, questo procedimento è corretto dal punto di vista storiografico? In che modo Erodoto giustifica la propria preferenza per la versione giudicata più verosimile?
8. Quale schieramento, alla fine, vince la battaglia delle Termopili? Ma secondo te, è possibile distinguere – sulla base di quanto dice Erodoto – tra vittoria militare e vittoria morale? Spiega la tua risposta.
9. Hai visto il film Trecento (2007) del regista Zack Snyder, dedicato a questo celebre episodio? Ti sembra che sia fedele allo spirito con il quale Erodoto lo ha narrato nelle sue Storie? Motiva la risposta.
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Sezione 2
6 La battaglia di Salamina narrata dal messaggero del re Serse Eschilo, Persiani, 353-428 Il poeta greco Eschilo, un ateniese vissuto tra VI e V secolo a.C., ebbe un’esperienza personale del clima politico che preparò e poi accompagnò il conflitto contro la Persia. Secondo alcune fonti, egli stesso si trovava tra gli opliti ateniesi che nel 490 a.C. respinsero la prima invasione persiana a Maratona, e dieci anni più tardi visse, ancora da protagonista, il decisivo scontro navale di Salamina. A quest’ultimo evento Eschilo dedicò una delle sue tragedie, I Persiani. Si trattava di una grande novità: mentre le altre tragedie greche trattavano argomenti legati al mito, e avevano quindi per protagonisti personaggi immaginari, nei Persiani – la più antica tragedia giunta sino a noi – Eschilo rappresenta un evento reale, agìto da personaggi storici: la spedizione del re Serse contro la Grecia, che per noi costituisce la seconda guerra persiana. Leggiamo il resoconto della battaglia di Salamina, così come lo offre un messaggero che ha assistito all’evento; il messaggero si rivolge alla regina Atossa, vedova del vecchio re Dario, e madre di Serse, il Gran Re che ha condotto le sue truppe alla rovina. La scena è ambientata a Susa, capitale dell’impero persiano.
[MESSAGGERO] Signora, un genio vendicatore o un cattivo demone diede inizio all’intera sciagura. Venne un greco dell’armata ateniese e disse così a tuo figlio Serse, che, non appena fosse calato il buio della nera notte, i greci non sarebbero rimasti lì ma balzando sui banchi dei rematori avrebbero tentato di mettersi in salvo, chi qua chi là, con una fuga furtiva. Udito questo, tuo figlio, senza rendersi conto dell’inganno ordito dal greco e nemmeno dell’invidia degli dèi, impartisce quest’ordine a tutti i navarchi1: quando il sole cesserà di infiammare coi suoi raggi la terra e il buio occuperà il sacro recinto del cielo, disporre la massa delle navi in tre file, per sorvegliare le uscite e i passaggi del mare rumoreggiante, e altre ancora tutte attorno all’isola di Aiace2; se i greci si fossero sottratti alla morte, trovando con le navi una via di fuga nascosta, c’era pronta per tutti la decapitazione. Così dispose con animo fiducioso, perché non sapeva cosa preparavano gli dèi. I nostri senza disordine, ligi ai comandi, apprestarono la cena, e già il vogatore legava il remo allo scalmo3. Quando si spense la luce del sole e sopravvenne la notte, ogni maestro della voga si avviava alla sua nave, così ogni capo di armati. Sulle lunghe navi una fila esortava l’altra. Navigavano, ognuno al posto assegnato, e per tutta la notte i comandanti delle navi pattugliavano il mare con l’intera flotta. La notte procedeva, e l’armata greca non tentava affatto una fuga furtiva. Quando il giorno coi suoi bianchi puledri si diffuse per la terra tutta, splendido a vedersi, subito da parte dei Greci si levò fragoroso un canto, come un inno, e insieme alta lo ripercosse l’eco delle rupi dell’isola. Paura prese tutti i barbari, delusi nelle loro speranze: quel solenne peana4 i greci non lo innalzavano certo con l’intenzione di fuggire, ma per muovere a battaglia con fiducioso ardimento. E la tromba col suo squillo accese tutti i luoghi lì intorno. Subito col battito simultaneo del risonante remo colpiscono il profondo mare agli ordini del capovoga, e presto furono tutti bene in vista. Prima l’ala destra, bene schierata, avanzava con ordine, e poi procedeva l’intera flotta, e si udiva a una voce un alto grido: “Avanti, figli dei Greci, liberate la patria, liberate i figli, le donne, le sedi degli dèi del paese, le tombe degli antenati. Ora per tutto questo si combatte”. Allora, ecco, da parte nostra rispondeva uno strepito di lingua persiana; e non era più tempo di esitare. 1. navarchi: comandanti militari della flotta. 2. isola di Aiace: Salamina fu la patria dell’eroe omerico Aiace Telamonio. 3. scalmo: il sostegno, in ferro o in legno, nel quale lavora il remo. 4. peana: qui, un canto di battaglia.
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fu una nave greca a cominciare l’assalto, spezzando tutti gli aplustri5 di una nave fenicia6. Poi fu un’enorme mischia, legno contro legno. Sul principio la piena della flotta persiana resisteva al nemico. Ma quando la massa delle navi si addensò nello stretto e non fu più possibile soccorrersi l’un con l’altro e cominciarono a colpirsi fra di loro e con i rostri dalle bocche di bronzo, finivano con lo spezzare tutte le file dei remi. Le navi greche ci colpivano, disponendosi accortamente tutto all’intorno, e gli scafi si rovesciavano, e il mare non si vedeva più, pieno di rottami e di strage umana; e le rive e le scogliere erano coperte di cadaveri, e ogni nave si spingeva in fuga disordinata, sì tutte quelle della flotta dei barbari. I greci con remi spezzati e con frammenti di tavole battevano e picchiavano: una mattanza7. Lamenti e gemiti coprivano la distesa marina, finché l’occhio dell’oscura notte pose fine allo scempio. (Trad. di G. Monaco) 5. aplustri: struttura ornamentale, posta a poppa delle navi. 6. fenicia: nella flotta persiana combattevano molte navi fenicie; la Fenicia (attuale Libano) era allora compresa nell’impero persiano e i fenici erano, a quell’epoca, i navigatori più abili del Mediterraneo. 7. mattanza: è la fase finale della pesca dei tonni, che, spinti nella tonnara, vengono brutalmente massacrati dai pescatori. L’immagine traduce il testo greco che dice alla lettera: “come tonni o una retata di pesci”.
Analizziamo il testo • La battaglia di Salamina viene qui descritta da Eschilo dal punto di vista dei persiani: potrebbe trattarsi di una preziosa integrazione, per noi, dato che tutti i resoconti che abbiamo provengono invece da parte greca e sono orientati a celebrare la vittoria sui «barbari» giunti da Oriente. In realtà però il punto di vista del messaggero tradisce – non potrebbe essere diversamente – l’interpretazione greca degli eventi, come si evince da alcuni particolari: • nell’appellativo di «barbari» attribuito ai persiani («Paura prese tutti i barbari, delusi nelle loro speranze») poiché un vero persiano non avrebbe mai parlato così; • nell’immagine del canto di vittoria che si leva da parte greca e al quale risponde «uno strepito di lingua persiana», dunque un grido selvaggio e irrazionale, tipico di genti non civilizzate; • il contenuto del peana greco, che inneggia alla libertà della propria terra: un motivo caro all’ideologia ellenica e antipersiana. Solo all’inizio del brano Eschilo pare prestare effettivamente voce al punto di vista persiano, allorché parla dell’«inganno» ordito dagli astuti greci e dell’«invidia degli dèi» verso la potente armata di Serse: ma si tratta di echi letterari, quasi di citazioni tratte da Omero e dall’Iliade. Anche là infatti i greci ordiscono inganni a danno dei troiani (si pensi al cavallo di Troia); anche là vi sono divinità che combattono a fianco dei troiani, per «invidia» degli achei vincitori. • La sconfitta di Salamina viene evocata come una rotta disastrosa e una tragica carneficina. La drammaticità della disfatta, del tutto inattesa, visto che i barbari erano molto superiori di numero, amplifica la gloria dei greci vincitori, che sembrano capovolgere prodigiosamente la trama di un copione già scritto. Nel cuore di una notte carica di attesa, i persiani si erano appostati furtivi, ligi agli ordini dei loro comandanti: costoro, come i loro soldati, altro non sono che servi del Gran Re, pronto a uccidere chi fallisca o esiti a obbedire. Ma quando sorge l’alba, i disegni persiani sono travolti dalla superiore compattezza dei greci: questi avanzano compatti e combattono come un sol uomo, non per timore dei loro capi, ma per il bene prezioso della libertà. • Precisamente questo valore fondava, agli occhi dei greci, l’hellenikón, cioè l’orgoglioso sentimento nazionalistico che stringeva tutta la «grecità» – malgrado le mille rivalità tra città e città – in un’identità comune e che li rendeva tanto diversi dai persiani, popolo di sudditi e non di cittadini. Questi motivi, elaborati dalla cultura greca del V secolo a.C., trovano nei versi di Eschilo un’importante affermazione letteraria. Nella tragedia I Persiani le guerre persiane hanno già assunto la dimensione di una nuova epopea, il cui vero eroe è l’anonimo cittadino della pólis, che difende la libertà della patria e della propria famiglia contro l’empia tracotanza del dispotico nemico.
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Sezione 2
Rifletti e rispondi 1. Ricostruisci le varie sequenze in cui si articola la narrazione. Chiarisci il punto d’inizio di ognuna e attribuisci a ciascuna un titolo.
2. Chi o che cosa inganna Serse, all’inizio del testo?
3. Che cosa prevedeva il piano di battaglia persiano? 4. In una prima fase le mosse persiane rispondono a criteri di ordine e di razionalità: cerca conferme nel testo. 5. Quali concetti sono affermati dal peana greco che risuona sul mare?
6. Eschilo spiega la sconfitta persiana anche fornendo una notazione tattica: all’inizio la flotta di Serse resiste all’assalto greco, ma cosa avviene in seguito?
7. Come viene descritta la rotta persiana nell’ultima, potente immagine del testo?
8. Cerca di spiegare il perché di questa immagine poetica riferita all’aurora: «Quando il giorno coi suoi bianchi puledri si diffuse per la terra tutta…»: come mai Eschilo parla di puledri?
9. Che cos’è l’hellenikón? Rileggi, per rispondere, l’analisi del testo.
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7 Il valore della democrazia Erodoto, Storie, III, 80 La democrazia ateniese si fondava sul principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini (isonomía) e sull’altro principio, che tutti potessero governare la propria città, mediante il sorteggio e la rotazione delle cariche pubbliche. Il valore e la novità della democrazia ateniese era ben chiaro già agli antichi greci. Ne parla tra gli altri lo storico Erodoto, vissuto tra 484 e 430 circa a.C. Nel libro terzo delle sue Storie egli dedica alcune pagine a un immaginario dibattito politico tra nobili persiani sui pregi e i difetti dei tre tipi tradizionali di costituzione greca (monarchia, oligarchia, democrazia). A intervenire, qui, è il personaggio di Otane, che espone agli altri le sue idee democratiche.
Otane invitava a porre il potere nelle mani di tutti i persiani dicendo questo: “A me sembra opportuno che nessuno divenga più1 nostro monarca, perché non è cosa né opportuna né conveniente [...]. Come potrebbe essere cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far quel che vuole senza renderne conto? Perché anche il migliore degli uomini, una volta salito a tale autorità, sarebbe allontanato dal suo solito modo di pensare dal possesso del potere monarchico. Dai beni presenti gli viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è innata in lui l’invidia. E quando ha questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte scelleratezze le compie perché pieno di arroganza, altre per invidia. Eppure un sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal momento che possiede tutti i beni. Invece egli si comporta verso i cittadini in modo ben differente, è invidioso che i migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini peggiori ed è prontissimo ad accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di tutte è questa: se qualcuno lo onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato abbastanza; se invece uno lo onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa più grave vengo ora a dirla: egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a morte senza giudizio. Invece il potere popolare ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge2, in secondo luogo non fa nulla di quello che fa il monarca, perché a sorte esercita le magistrature e ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti all’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di elevare il popolo al potere, perché nella maggioranza sta tutto”. 1. divenga più: Erodoto mette in scena il colloquio tra i saggi persiani subito dopo che era fallita una congiura ai danni del re Cambise. Dopo aver ucciso i due cospiratori, i sapienti stanno discutendo tra loro su quali basi rifondare lo Stato persiano. 2. l’uguaglianza… legge: in greco isonomía.
Analizziamo il testo • Otane, uno degli interlocutori del dialogo, ritiene che il potere debba essere posto nelle mani di tutti i persiani, e non più soltanto in quelle di un re o di pochi. È un punto di vista che suscita scalpore anche perché i persiani, proverbialmente, costituivano l’esempio di un popolo sottomesso a un sovrano assoluto. • Nel breve testo l’autore, per bocca del suo personaggio: a) prima evidenzia i rischi connessi alla monarchia (neppure «il migliore degli uomini» dà garanzie assolute); b) quindi elogia l’isonomía per più motivi: • per la «bellezza» del nome stesso; • per il sorteggio delle cariche, garanzia d’imparzialità; • per il controllo cui sono soggetti i magistrati da parte dell’assemblea popolare.
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• La democrazia ateniese potrà però spingersi ancora più avanti rispetto al quadro tracciato qui da Erodoto per bocca di Otane. Sarà Pericle a far cadere tutte le norme censitarie che, in precedenza, restringevano ai soli ricchi l’accesso alle cariche più prestigiose. Sarà sempre Pericle ad introdurre leggi per retribuire l’attività politica dei cittadini, una volta sorteggiati come magistrati: fu introdotto il salario giornaliero (misthós) che compensava il tempo sottratto al lavoro nei campi. Grazie a questi provvedimenti l’isonomía, l’uguaglianza dei diritti politici, divenne davvero uguaglianza effettiva nell’esercizio del potere.
Rifletti e rispondi 1. A parere di Otane, è molto rischioso che uno solo gestisca il potere. Elenca in breve, con le tue parole, tutti i difetti che egli attribuisce alla monarchia:
– – 2. Secondo Otane, invece, la democrazia è «perfetta»?
3. Ora esprimi il tuo punto di vista: sei d’accordo con il nobile persiano?
4. Che cos’è l’isonomía? In quale punto del testo viene citata?
5. Quali novità introdurrà Pericle per rendere effettivo l’esercizio della democrazia?
6. Nel seguito del dialogo erodoteo, Megabizo sostiene invece l’oligarchia sulla base del fatto che «le masse sono una forma inconcludente: da nessuna parte troverete più ignoranza o violenza irresponsabile; un re almeno agisce consapevolmente e deliberatamente, ma la folla non lo fa... Le masse non hanno un pensiero nelle proprie teste; tutto ciò che possono fare è irrompere ciecamente in un’arena politica come un fiume in piena». Commenta sul quaderno queste parole: sei d’accordo?
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8 L’EGEMONIA DI ATENE SUGLI ALLEATI Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 97 e 99 Siamo nella fase storica caratterizzata dall’egemonia ateniese sulla Lega di Delo: lo storico greco Tucidide analizza lucidamente i rapporti che correvano tra Atene e le città alleate. Si trattava di rapporti che gli storici moderni definiscono «imperialistici»: una potenza (Atene) impone il proprio volere agli stati satelliti (le altre città) utilizzando la propria potenza economica e militare.
Gli alleati su cui gli ateniesi esercitavano l’egemonia in un primo tempo erano indipendenti e le decisioni venivano prese in riunioni comuni. In seguito, nel periodo che intercorse fra le guerre persiane e quella del Peloponneso, gli ateniesi, con la guerra e l’azione politica, si imposero a tal punto che non solo perseguirono il barbaro1, ma anche gli alleati che recalcitravano, nonché quei peloponnesiaci che di volta in volta li intralciavano. Ho descritto queste imprese aprendo una digressione nell’esporre la mia storia, in quanto tutti coloro che prima di me si sono occupati di opere storiche hanno trascurato questo spazio di tempo [...]. C’erano altre cause, e numerose, per le rivolte [degli alleati]; le più gravi [nascevano dal fatto] che si versavano tributi e si consegnavano navi in misura inferiore [a quanto si era concordato], oppure, quando si verificava, dal fatto che [gli alleati] disertavano2. Gli ateniesi non facevano complimenti e apparivano odiosi agli alleati non avvezzi e non disposti a faticare3 e li costringevano con la forza. C’era dell’altro perché gli ateniesi non risultassero più graditi: le spedizioni4 non si facevano più in condizioni di parità ed era facile per loro ridurre alla ragione chi cercava di sottrarsi. Di ciò erano responsabili anche gli alleati: la maggior parte di loro, per non allontanarsi da casa, rifuggiva dalle imprese militari e pertanto veniva costretta a versare somme corrispondenti alle navi5. In questo modo, grazie al denaro da quelli versato, gli ateniesi potenziavano la propria flotta e gli alleati, quando si ribellavano, entravano in guerra senza esperienza e senza armamenti. (trad. di G. Gentili) 1. il barbaro: i nemici persiani. 2. disertavano: abbandonavano cioè la Lega di Delo. 3. a faticare: cioè a lavorare per produrre le ricchezze necessarie a confluire nel tesoro della lega, custodito non più nell’isola di Delo, ma direttamente ad Atene. 4. spedizioni: spedizioni militari contro altre città; nel cap. 98, da noi omesso, Tucidide ha citato le spedizioni contro Eione, Sciro, la regione della Caria, ecc. 5. alle navi: che ciascuna città alleata avrebbe dovuto allestire.
Analizziamo il testo • Tucidide coglie con lucidità la situazione politica che si è venuta a determinare nel corso del V secolo a.C. All’inizio la lega delio-attica è un’alleanza che opera in condizioni paritarie: gli alleati partecipano alle decisioni e alle iniziative comuni. Poi però la Lega si trasforma: da alleanza sorta con lo scopo di difendere la Grecia dai persiani, essa si trasforma in uno strumento «imperialistico», come lo chiamano gli storici moderni, utile ad affermare il predominio tanto economico quanto politico e militare di Atene. • Atene punisce con severità le altre città, allorché queste ultime entrano in conflitto con la capitale dell’Attica: e ciò produce una crescente ostilità nei suoi confronti. Riposano in questa situazione, secondo Tucidide, le cause remote della guerra del Peloponneso: l’«imperialismo» ateniese aveva bisogno, per alimentarsi, di sempre nuove espansioni; ciò alla lunga causò i forti timori di Sparta e quindi produsse il contesto in cui maturò il conflitto diretto tra le città-guida del mondo greco.
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Sezione 2
Rifletti e rispondi 1. Il testo scandisce due precisi momenti: • all’inizio, i rapporti tra Atene e le città alleate erano
• in seguito questi rapporti mutarono, perché
2. In quale fase storica si produce, secondo Tucidide, questo mutamento? Consulta il manuale per datare gli eventi.
3. Da che cosa sono originati i contrasti tra Atene e le altre città?
4. Atene, dice l’autore, converte in tributi supplementari ogni mancata fornitura da parte degli alleati. Ritrova questo spunto nel testo.
5. La supremazia di Atene è anche militare: in che modo essa matura?
6. L’accuratezza dell’analisi tucididea risalta anche dall’accenno che egli fa alla novità della sua analisi rispetto ad altri storici. Dove incontri questo particolare?
7. Cerca sul vocabolario il significato della parola “imperialismo” e cerca di applicarlo a quanto hai letto. In che senso la politica ateniese si può definire imperialistica?
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9 L’arretramento della Grecia nella delusione di Platone verso la politica Platone, Lettere, VII Il grande filosofo ateniese Platone (427 a.C. – 347 a.C.) illustra in questo testo la sua delusione nei confronti della politica di Atene, la sua città. Il passo è tratto da una lettera che l’autore scrisse ai familiari e agli amici del suo amico e discepolo Dione di Siracusa. È un testo interessante perché documenta la fase di stanchezza e di ripiegamento che il mondo greco conobbe nel IV secolo, ovvero tra la fine della Guerra del Peloponneso (404 a.C.) e l’egemonia macedone sul mondo greco (338 a.C., sconfitta dei greci a Cheronea). Molto significativo il riferimento al processo e alla condanna di Socrate (399 a.C.): il maestro di Platone era stato condannato semplicemente perché esponeva le idee in cui credeva; la sua morte segnò, in qualche modo, la fine di una grande stagione di libertà e di confronto critico: la stagione, in sostanza, della democrazia ateniese.
Da giovane ho avuto anch’io un’esperienza che molti hanno condiviso. Pensavo, non appena diventato padrone del mio destino, di dedicarmi alla politica. In quell’epoca, avvennero alcuni bruschi mutamenti nella situazione politica della città, e il governo finì nelle mani di cinquantun uomini, trenta1 dei quali dotati di pieni poteri. Data la mia giovane età, ero convinto che essi avrebbero portato lo Stato da una condizione di illegalità a una di giustizia. E così prestai la massima attenzione al loro operato. Ma in breve tempo, questi individui riuscirono a far sembrare il periodo del governo precedente l’età dell’oro. Fra le tante malefatte di cui si resero responsabili, ordinarono a Socrate, l’uomo più giusto di Atene, di arrestare un certo cittadino, al fine di metterlo a morte. Ma Socrate si guardò bene dall’obbedire2, pronto a esporsi a ogni rischio pur di non farsi complice dei loro crimini. Poco dopo il potere dei Trenta crollò, e con esso tutto il loro sistema di governo. Coloro che in quella circostanza assunsero il governo si comportarono con mitezza, ma alcuni potentati coinvolsero in un processo3 Socrate, accusandolo del reato più grave e, tra l’altro, il più lontano da un uomo come lui. Lo accusarono infatti di empietà, e per questo lo processarono, lo giudicarono colpevole e lo misero a morte. Di fronte a simili episodi, di fronte al fatto che uomini simili si occupavano di politica, di fronte a simili leggi e a simili costumi, quanto più riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. Le leggi e i costumi andavano corrompendosi a un ritmo impressionante, al punto che fui preso da un senso di vertigine. Le città erano tutte mal governate, le loro leggi si trovavano in condizioni pressoché disperate. Così fui costretto a concludere che il criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto, sia nel settore pubblico che in quello privato, viene solo dalla filosofia. Pensavo che l’umanità non si sarebbe mai liberata dai mali, fino al momento in cui una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante degli Stati non fosse essa stessa votata alla filosofia. 1. Trenta: i cosiddetti «Trenta Tiranni», imposti da Sparta e saliti al potere nel 404 a.C. Platone aveva allora 23 anni. 2. Ma Socrate… dall’obbedire: i Trenta Tiranni cercarono di coinvolgere il massimo numero di cittadini ateniesi come complici negli arresti indiscriminati da loro operati. Socrate però rifiutò di obbedire ai loro ordini. 3. processo: il processo e la successiva condanna di Socrate avvennero nel 400-399 a.C.
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Sezione 2
Analizziamo il testo • La Lettera VII di Platone, scritta intorno al 353 a.C., costituisce la sintesi della sua storia di pensatore politico. Fu indirizzata agli amici di Dione di Siracusa: questi aveva in precedenza ospitato Platone in Sicilia, e aveva cercato, ma senza successo, di convertire il tiranno Dionigi di Siracusa a una migliore prassi di governo. • Si respira nel testo una profonda delusione nei confronti della normale prassi politica. Platone ricorda di essersi acceso d’entusiasmo, da giovane, verso la vita politica e verso la democrazia ateniese; ma ricorda anche l’amara scoperta che sia il governo oligarchico, sia quello democratico si macchiarono di errori e di delitti. Il caso emblematico qui ricordato è quello dell’ingiusta condanna inflitta a Socrate, maestro di Platone e protagonista di molti suoi Dialoghi. • Questa consapevolezza apre la porta, in Platone, a un’esigenza nuova: il proposito di fondare la politica su basi nuove e ideali (cioè più lontane dall’esperienza concreta di quell’Atene storica). Egli darà corpo a tale proposito nei suoi due grandi trattati politici: la Repubblica e Le leggi, scritti sulla base del presupposto già qui enunciato: un buon governo è possibile solo se i filosofi diventeranno re (oppure, ma è la stessa cosa, se i re diventeranno filosofi). Infatti, secondo Platone, solo la conoscenza dell’idea del bene può rendere legittima l’attribuzione del potere politico. Viene così cancellato il grande principio della democrazia ateniese, ovvero l’isonomía (l’uguaglianza dei diritti).
Rifletti e rispondi 1. In quale fase, o in quali fasi, della vita politica ateniese si svolse la vita di Platone? Ricordale brevemente, a partire dalla sua data di nascita e di morte.
2. Quale sogno l’autore aveva coltivato da giovane? Identifica la risposta nel testo.
3. Platone ricorda due eventi accaduti a Socrate, quali?
4. Quale rimedio l’autore escogita per migliorare la situazione del governo cittadino?
5. Secondo te questa soluzione trovata da Platone si può definire democratica? Perché?
6. Documentati sui rapporti che corsero tra Platone e Socrate e scrivi sul quaderno una breve relazione. 7. La delusione verso la democrazia ateniese ispirò a Platone una teoria politica molto differente:
• Cita le opere in cui essa viene esposta: • Riassumi sul quaderno tale teoria.
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10 Demostene contro Filippo di Macedonia Demostene, Filippica III L’oratore ateniese Demostene (384-322 a.C.) fu il più acceso oppositore di Filippo di Macedonia, da lui giudicato un gravissimo pericolo per la libertà di tutta la Grecia. Contro il sovrano macedone (e contro coloro che, in Grecia, lo appoggiavano) Demostene si scagliò nelle sue quattro celebri orazioni dette Filippiche. Riportiamo un passaggio della terza Filippica (del 341 a.C.), dedicata ad attaccare le póleis che sono rimaste indifferenti all’avanzata delle forze macedoni.
È inutile ripetere che all’inizio Filippo era un nanerottolo e ora è un gigante; che i greci lottano tra loro e si guardano con sospetto; che allora nessuno avrebbe creduto possibile un tale cambiamento, mentre ora — con le posizioni che ha conseguito — è più facile pensare che sottometta anche gli altri. Piuttosto: vedo che tutti, a cominciare da voi, hanno concesso a lui quel privilegio che è stato sempre, in passato, l’origine di tutti i conflitti della Grecia. Quale? Fare quello che vuole, depredare i greci ad uno ad uno, aggredire le città ed asservirle. Tutti i misfatti commessi dagli spartani nei trent’anni della loro egemonia e dai nostri avi in settanta sono di meno, o ateniesi, di quelli che Filippo ha commesso in neppure tredici anni, anzi non sono nemmeno la quinta parte! Tralascio Olinto, Metone, Apollonia e trentadue città in Tracia, che tutte annientò con tale efferatezza, che ormai un visitatore difficilmente potrebbe dire se furono mai abitate; tralascio la distruzione dei focesi, un popolo così grande. Così, non solo ogni città, ma ogni regione è asservita. E noi greci con indifferenza lo vediamo ingrandirsi. Filippo non è un greco, con i greci non ha niente in comune, non è nemmeno un barbaro di un paese dove è bello dire di essere nati, è uno straccione macedone, di quella regione dove a suo tempo non si comprava nemmeno uno schiavo buono a qualche cosa. Eppure la sua insolenza non ha limiti. […] Non basta difendersi da lui sul piano militare, bisogna anche odiare con chiara convinzione quelli che presso di voi parlano per lui. Ricordatevi che non è possibile vincere il nemico esterno prima di aver schiacciato quelli che all’interno delle città fanno il suo gioco. (trad. di L. Canfora) Analizziamo il testo • Le qualità migliori dell’oratoria di Demostene sono la forza stringente dei concetti, la sintesi espressiva, la veemente energia con cui l’ascoltatore viene apostrofato e quasi costretto a prendere posizione. Osserviamo queste qualità: - nell’immagine del «nanerottolo» diventato «gigante» e nella successiva immagine dello «straccione macedone»; - nell’appello diretto agli ascoltatori («vedo che tutti, a cominciare da voi,…»); - nella frammentazione della sintassi («Piuttosto, …»; «Quale?»). • Sul piano dei contenuti, Demostene vuole smascherare l’inganno di Filippo: si sforza di dipingerlo come un individuo meschino e arrivista, un «nanerottolo» che fa leva sulla corruzione per portare i nemici dalla sua parte «ad uno ad uno». Interessante anche il disprezzo manifestato verso lo «straccione macedone»: Filippo non è neppure un «barbaro», per esempio un persiano o un egizio, proveniente da un paese esotico; no, egli proviene da una regione semigreca e semibarbara, la Macedonia, che al tempo di Demostene doveva ancora sembrare un’arretrata appendice del mondo ellenico. Ebbene, proprio il fatto che con una provenienza del genere qualcuno presumesse di dominare il mondo greco, proprio questo appariva intollerabile all’oratore delle Filippiche. • Quanto ai greci, l’oratore riteneva ancora possibile la vittoria (in questo, in realtà, Demostene si sbagliava). Bisogna però, egli dice, che città elleniche si uniscano e facciano finalmente fronte comune contro il nemico di tutte. Ma proprio questa gli appariva l’impresa più difficile, perché all’interno di ogni città Filippo – dice Demostene – ha saputo procurarsi degli amici che «fanno il suo gioco».
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Rifletti e rispondi 1. Si può affermare, secondo te, che tutto il brano citato sia finalizzato a un’operazione di smascheramento della verità? Rispondi con qualche utile citazione.
2. Demostene dice che Filippo «all’inizio era un nanerottolo e ora è un gigante»: in che senso? Ha un fondamento questa affermazione?
3. Il testo ricorda a un certo punto: - l’egemonia spartana; - e, più indietro nel tempo, quella dei «nostri avi», cioè l’egemonia ateniese. Spiega questi spunti con gli opportuni riferimenti storici: a quali periodi si riferisce l’oratore?
4. Nell’analisi del brano si sono evidenziate alcune qualità formali dell’oratoria di Demostene. Cerca sul testo altri esempi per documentarle.
5. Che cosa, secondo l’oratore ateniese, è pericoloso per la Grecia, forse più dello stesso sovrano macedone?
6. Perché, diversamente da Demostene, una parte dei greci era favorevole al re macedone?
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11 Due diverse tesi sull’origine degli Etruschi Erodoto, Storie, I, 94, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I, 25 Da dove provenivano gli etruschi? Già nell’antichità l’origine di questo popolo, che si affaccia in modo così improvviso sulla scena della storia, ha attirato la curiosità degli storici ed è stata oggetto di diverse ipotesi. Leggiamo le due tesi più note: secondo lo storico greco Erodoto, vissuto nel V secolo a.C., gli etruschi provenivano dalla Lidia, una zona occidentale dell’Asia Minore (oggi Turchia); secondo un altro storico greco, Dionigi di Alicarnasso, vissuto a Roma nel I secolo a.C., essi sarebbero invece autòctoni o indigeni.
La tesi di Erodoto Sotto il regno di Atys, figlio di Manes, una terribile carestia infuriò nella Lidia1 intera. I lidi per qualche tempo sopportarono la sciagura, ma poiché questa non cessava, cercarono di rimediarvi con l’uno o l’altro espediente. […] La pestilenza però non passava, e anzi infieriva sempre di più. Il re prese allora la decisione di dividere in due parti i lidi, sorteggiando quella che doveva restare nel luogo e l’altra che invece doveva trasmigrare: mentre egli sarebbe rimasto, il figlio Tyrrhenos se ne sarebbe andato. I lidi a cui toccò la sorte di partire si portarono a Smirne, dove costruirono delle navi e, dopo averle caricate dell’occorrente, salparono per procurarsi altrove cibo e nuove sedi. Così, dopo un lungo viaggiare, approdarono al territorio degli umbri2, tra i quali costruirono città e vi abitarono fino ai nostri giorni; assumendo però un nuovo nome, derivandolo da quello del figlio del re che era stato la guida nel viaggio di trasferimento: da lui si chiamarono tyrrenoi. La tesi di Dionigi di Alicarnasso Proprio in base a questo criterio3, io non credo affatto che i tirreni4 siano coloni dei lidi, perché non parlano la stessa lingua; e non si può nemmeno dire che, pur parlando ormai una lingua diversa, conservino almeno qualche altro carattere rivelatore della loro presunta terra d’origine. Infatti venerano dèi differenti da quelli dei Lidi, e non hanno leggi simili, né lo stesso modo di vivere […]. È probabile dunque che siano più vicini al vero coloro i quali sostengono che essi non sono venuti da nessun altro paese, e che sono indigeni5, poiché si può constatare che essi sono un popolo antichissimo, e si distinguono da ogni altro popolo sia per la lingua sia per il modo di vivere. 1. Lidia: regione dell’Asia Minore (oggi Turchia), subito alle spalle della Ionia, area costiera abitata da coloni greci. 2. umbri: popolo italico, che anticamente era stanziato in una vasta zona dell’Italia centrale. 3. questo criterio: l’autore sta parlando del criterio di affinità linguistica. 4. tirreni: nome greco degli Etruschi. 5. indigeni: originari cioè dell’Italia centrale.
Analizziamo il testo • Erodoto accoglie la tradizione secondo cui gli etruschi provenivano dall’Asia minore, precisamente dalla Lidia. Da tale regione buona parte della popolazione sarebbe migrata in occasione di una terribile carestia. Il sovrano che guidava gli esuli si chiamava Tirreno: ecco spiegato, continua Erodoto, il nome di tirreni con il quale i greci indicavano gli etruschi. • A favore invece dell’ipotesi indigena si dichiara Dionigi di Alicarnasso, storico greco del I secolo a.C.: egli rifiuta l’ipotesi della migrazione degli etruschi dall’Asia Minore, sulla base di osservazioni di carattere linguistico ed etnologico. Gli etruschi sarebbero quindi un popolo italico. La tesi di Dionigi di Alicarnasso ha preso largamente il sopravvento presso gli storici moderni. • La questione è stata riaperta da studi recenti sul Dna (l’acido desossiribonucleico, che porta le informazioni
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genetiche che dirigono lo sviluppo di ciascun organismo: le somiglianze e le differenze tra gruppi umani sono quindi contenute nei rispettivi Dna). Un’équipe di genetisti delle università di Ferrara e Stanford (Usa) ha prelevato del Dna da alcuni scheletri rinvenuti in tombe etrusche, concludendo (2006) che questo materiale genetico è simile a quello ritrovato in alcune zone costiere dell’Asia Minore. Nel 2007 il ricercatore Alberto Piazza ha comunicato i risultati di un altro studio, secondo cui il materiale genetico della popolazione di Murlo e Volterra, cittadine dell’area etrusca i cui abitanti nei secoli si sono mescolati pochissimo con quelli delle zone vicine, è molto diverso da quello degli altri toscani e degli italiani in genere, e presenta invece somiglianze con quello delle popolazioni di alcune regioni del Mediterraneo orientale, in particolare con il Dna degli abitanti dell’isola greca di Lemno: qui fu trovata una stele funeraria del VI secolo a.C. con un’iscrizione in una lingua non greca e che presenta forti somiglianze con l’etrusco. E così, l’ipotesi di una provenienza degli etruschi dall’Egeo trova un’inattesa conferma proprio negli studi condotti con i metodi più avanzati.
Rifletti e rispondi 1. Riassumi la tesi di Erodoto rispondendo a queste domande: • Da dove partirono i «tirreni», secondo Erodoto?
• Dove giunsero?
• E quando si sarebbe svolta la loro migrazione?
2. Dionigi di Alicarnasso fornisce una spiegazione completamente diversa da quella di Erodoto: riassumila con le tue parole, mettendo in evidenza le diverse ragioni che l’autore greco adduce.
3. Quali studi recenti hanno riaperto la questione sull’origine degli Etruschi? E in che modo?
4. Quale delle due tesi (di Erodoto e di Dionigi di Alicarnasso) sembra venire confermata dagli studi sul Dna?
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12 L’APÒLOGO DI MENENIO AGRIPPA PLACA LA PLEBE IN RIVOLTA Tito Livio, Storie di Roma dalla sua fondazione, II, 24, 32-33 Lo storico romano Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.) descrive in questa celebre pagina delle Storie gli eventi che portarono all’istituzione del tribunato della plebe. Punto di partenza di quell’istituzione fu la rivolta («secessione») della plebe verificatasi nel 494 a.C. Quella separazione della moltitudine plebea dallo Stato patrizio portò a una grave crisi interna, che venne brillantemente risolta, dice Livio, dal senatore patrizio Menenio Agrippa. Egli si recò come ambasciatore dai plebei e pronunciò il famoso “apologo” (un racconto in forma di parabola, dal significato simbolico) che leggiamo:
Incombeva la guerra contro i volsci e intanto la città era drammaticamente lacerata al suo interno a causa dell’odio profondo che divideva patrizi e plebei per via della schiavitù per debiti. I plebei erano in rivolta, sostenendo che mentre oltre confine essi combattevano per la libertà e l’espansione dello Stato, nella loro patria erano invece oppressi e ridotti in schiavitù; accadeva perciò che essi fossero più liberi in guerra, faccia a faccia con il nemico, che non in pace, al cospetto dei loro concittadini. L’odio serpeggiava dunque spontaneo, quando intervenne a farlo divampare incontrollabile la sventura toccata ad un cittadino. Costui, uomo di nobile origine, [...] raccontò che durante la campagna da lui combattuta contro i sabini, il suo campo era stato devastato e reso praticamente improduttivo, incendiata la villa, rubato il bestiame; nonostante tutto questo, si era visto imporre dal fisco il pagamento di un tributo, a causa del quale era stato costretto a chiedere un prestito a un usuraio. Il debito, gravato da un oneroso interesse, si era portato via [...] tutte le sue superstiti sostanze e infine il creditore l’aveva ridotto non solo alla schiavitù, ma alla prigionia e alla tortura. [...] Alla fine i plebei che facevano parte dell’esercito decisero per la secessione, e si trasferirono in massa sul Monte Sacro, che si trova sulla riva destra del fiume Aniene, a tre miglia1 da Roma. Questa tradizione è più diffusa dell’altra, sostenuta da Pisone2, secondo la quale invece la secessione avrebbe avuto luogo sull’Aventino. [...] La plebe rimasta in città temeva le violenze dei patrizi vedendosi abbandonata dai compagni in armi; e proprio di questa plebe rimasta a Roma avevano al contempo timore i patrizi, i quali non sapevano se augurarsi che essa rimanesse in città, oppure che la abbandonasse. I patrizi finirono così per rendersi conto che non rimaneva speranza alcuna al di fuori di una riconciliazione; essi decisero pertanto di inviare come intermediario alla plebe secessionista Menenio Agrippa, abile parlatore e uomo a essa gradito per le sue origini appunto plebee. Costui, fatto entrare nel campo plebeo, pare non abbia detto altro all’infuori del celebre apologo: raccontò che le varie membra dell’uomo, indignate perché tutte le loro cure, fatiche e attività andavano a vantaggio dello stomaco, il quale dal canto suo se ne stava tranquillo nel mezzo del corpo, ordirono alla fine un complotto, per cui le mani non dovevano più offrire il cibo alla bocca, né la bocca accogliere quello offerto, né i denti masticare quello accolto. Così le membra finirono per ridursi in uno stato di deperimento estremo. Apparve allora evidente che anche il ventre rivestiva una funzione tutt’altro che inutile, giacché, se da un lato era nutrito, dall’altro nutriva a sua volta. Operando quindi un confronto tra la secessione interna al corpo e l’ira della plebe nei confronti dei patrizi, egli sarebbe riuscito infine ad ammorbidire gli animi. Furono così avviate delle trattative per la riconciliazione generale, e tra le varie condizioni si stabilì in particolare che la plebe avesse dei propri magistrati inviolabili, forniti del diritto di intercessione contro le decisioni dei consoli, e che a tale magistratura non fosse consentito accedere da parte dei patrizi.
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Analizziamo il testo • L’autore Livio articola il suo racconto intorno ad alcuni momenti chiave: a) le premesse della rivolta; b) la decisione della plebe di ritirarsi in secessione sull’Aventino/Monte Sacro; c) la missione e l’«apologo» di Menenio Agrippa; d) l’istituzione del tribunato della plebe. • Il testo ci offre informazioni importanti sulle condizioni della plebe nel V secolo a.C. e sulle ragioni della sua protesta. Si può notare quanto stretto fosse il legame fra aspetti economici e rivendicazioni politiche. Finanzieri e speculatori erano pronti ad approfittare delle ripetute occasioni di guerra per strappare, con il tacito assenso dell’oligarchia senatoria, le terre ai legittimi proprietari: questi ultimi, chiamati a partecipare in prima persona alla guerra, spesso finivano rovinati in patria e si trovavano non di rado ridotti schiavi, a causa dei debiti contratti (la norma relativa alla schiavitù per debiti verrà abolita solo alla fine del IV secolo). Su tutto ciò fecero leva i leaders popolari per spingere il malcontento della plebe sulla via della secessione, cioè della rivolta aperta allo stato patrizio. • L’apologo di Menenio Agrippa, divenuto proverbiale, ci mostra anche quale concezione dello Stato dominasse nella mentalità romana: lo Stato è “cosa di tutti” (questo è il significato del termine res publica): in quanto tale, esso è paragonabile al corpo umano, ovvero a un organismo in cui tutte le parti cooperano e hanno una funzione essenziale. Questa visione politica e sociale (che possiamo definire interclassista) giudica che ogni società deve essere armonica ed equilibrata; ogni conflitto che la turbi è considerato una fonte di anormalità. La politica, in questa chiave, è precisamente la capacità di conservare la pace sociale, mediando i conflitti. • A questa visione se ne oppone un’altra, che obietta alla precedente l’idea che, invece, è proprio il conflitto (in questo caso, la decisa lotta della plebe) a far progredire la società. Questa concezione troverà poi espressione nella teoria marxista. Essa sosterrà che il conflitto è condizione normale, perlomeno in società ove esistano differenze tra le classi. La lotta delle classi oppresse è destinata ad abolire tali differenze e a preparare una società migliore, una società appunto «senza classi», in cui nuovi valori di eguaglianza e di solidarietà avranno la forza di cambiare l’uomo ed eliminare per sempre le ragioni dei conflitti.
Rifletti e rispondi 1. L’episodio narrato da Tito Livio si svolge in un anno ben preciso: quale? Quanti anni erano passati dalla cacciata dei re?
2. Qual è la causa scatenante della rivolta, secondo il racconto di Livio?
3. L’episodio di Menenio Agrippa si conclude con l’istituzione del tribunato della plebe, un organismo che per il suo notevole potere fu sempre molto avversato dai patrizi. Illustra le caratteristiche di questa magistratura.
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13 La religione romana secondo Polibio: uno strumento di governo Polibio, Storie, VI, 56 Lo storiografo greco Polibio (205-118 a.C.), vissuto in età ellenistica, dedicò il libro VI delle sue Storie, che abbracciano il periodo compreso fra il 264 e il 146 a.C., all’analisi delle istituzioni politiche romane, nel quadro di una più generale teoria delle costituzioni. L’autore sottolinea i vantaggi della società romana rispetto alla sua principale nemica del II secolo a.C., Cartagine: tra i termini di confronto, Polibio esamina anche la differente concezione religiosa.
I Romani hanno, inoltre, concezioni di gran lunga preferibili1 nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c’è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull’Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. Inoltre, a prescindere da tutto il resto, coloro che amministrano in Grecia i pubblici interessi, se viene loro affidato un talento2, nonostante il controllo di dieci sorveglianti, di altrettanti suggelli e del doppio dei testimoni, non sanno conservarsi onesti; i romani invece, pur maneggiando, nelle pubbliche cariche e nelle ambascerie, quantità di denaro di molto maggiori, si conservano onesti solo per rispetto al vincolo del giuramento; mentre presso gli altri popoli raramente si trova chi non tocchi il pubblico denaro, presso i romani è raro trovare che qualcuno si macchi di tale colpa. (Trad. di C. Schick) 1. preferibili: rispetto ai cartaginesi. 2. un talento: antica unità di misura; se si utilizzava come moneta, s’intendeva un talento d’oro (equivalente al peso di una persona).
Analizziamo il testo • Polibio ha una visione pragmatica della storia; volge pertanto la sua attenzione agli aspetti politico-militari e rifiuta l’idea, semplicistica, che siano gli dèi a guidare le vicende dell’umanità. In questo quadro prende corpo l’analisi della religione romana, fatta oggetto di attenzione critica, alla stregua degli altri meccanismi che reggono la vita di una società. • La superiorità della religione romana rispetto alle forme di culto delle altre popolazioni risiede, secondo Polibio, nella sua capacità di divenire strumento di coesione sociale e di dominio delle pulsioni delle masse: essa è insomma un efficace instrumentum regni (“mezzo per governare”). • A Roma, dice l’autore, si è sempre dedicata grande attenzione alle pratiche rituali pubbliche e private, definite da Polibio con l’espressione «superstizione religiosa». Tali pratiche, però, non vanno considerate segni di un’«ingenuità» del popolo romano, ma, semmai, per Polibio, indice di acume politico da parte dei fondatori dello Stato. Essi, infatti, hanno saputo individuare e sfruttare a pieno tutti gli strumenti disponibili al fine del mantenimento dell’ordine sociale: tra questi strumenti vi è appunto la credulità religiosa del popolo. • Alle spalle di questo ragionamento vi è la convinzione, da parte di Polibio, che una nazione non può essere formata da soli sapienti, ma è costituita da una moltitudine che, per sua natura, è volubile, dedita a passioni di
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ogni genere, a sfrenata avidità, a ire violente. Nasce da qui la necessità di una pratica religiosa, gestita o quanto meno autorizzata dal potere, che contribuisca a controllare e contenere atteggiamenti ritenuti pericolosi per la stabilità dello Stato. • L’ultima annotazione riguarda l’onestà degli amministratori romani rispetto a quelli greci: una conseguenza anch’essa del timore religioso che i Romani hanno nell’infrangere giuramenti e regole pubbliche.
Rifletti e rispondi 1. Chi era Polibio? Compi una breve ricerca sulla sua figura e la sua opera storiografica, che riassumerai in massimo una facciata di foglio protocollo.
2. Individua nel testo la frase o l’espressione che ti sembra riassumere un po’ tutta la concezione di Polibio. Spiega poi in breve la ragione della tua scelta.
3. Qual è la «natura del volgo» secondo Polibio? Cerca la risposta nel testo. 4. In che senso per Polibio la religione è uno strumento di governo?
5. Perché gli amministratori pubblici romani si conservano onesti? Cerca la risposta nel testo. 6. Dal brano si può evincere quali fossero le convinzioni religiose coltivate personalmente dall’autore. Esponile in breve.
7. A Roma le funzioni sacerdotali avevano anche valenza politica, tanto da essere riservate prevalentemente ai ceti più in vista della società romana. Documentati su questo aspetto con una breve ricerca storica.
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14 La vergogna delle forche caudine Tito Livio, Ab urbe condita, Storie di Roma, IX, 4-6 Le cosiddette «guerre sannitiche» costituirono forse la prova più difficile che la Repubblica romana dovette superare nella sua espansione in territorio italico. In questo passo lo storico latino Tito Livio narra un celebre episodio, ovvero lo smacco patito dai Romani a opera dei Sanniti nel 321 a.C. Gli incauti consoli di quell’anno si fecero sorprendere dai nemici in una gola stretta, chiusa da alti monti e senza via d’uscita. Vistisi in trappola, chiesero la resa ai sanniti, e la ottennero, ma al prezzo di una scottante umiliazione. Del resto, qualche anno prima i sanniti, sconfitti da Roma, avevano dovuto a propria volta subire umilianti condizioni di resa: adesso, per loro, era venuto il momento della rivincita.
Il ritorno dei consoli1 riportò un’atmosfera di lutto nell’accampamento, sì che a stento i soldati si trattennero dal metter le mani addosso a coloro2 che con la loro avventatezza li avevano tratti in quel luogo e con la loro inettitudine li avrebbero costretti a uscire di lì coperti di maggior disonore rispetto a quando erano entrati; li accusavano di averli mandati allo sbaraglio senza una guida, senza esploratori e di averli fatti cadere in una fossa senza vie d’uscita, come bestie. Si guardavano l’un l’altro, contemplavano le armi che presto avrebbero dovuto consegnare, fissavano le loro mani che presto sarebbero rimaste disarmate e i loro corpi sottomessi al nemico; si prospettava davanti ai loro occhi il giogo3 e lo scherno dei vincitori, i loro sguardi superbi, e la sfilata senz’armi in mezzo agli armati e quindi la triste marcia di un esercito disonorato attraverso le città degli alleati, e il ritorno in patria, dai genitori, là dove più volte essi stessi o i loro antenati erano giunti in trionfo; pensavano che erano i soli a essere stati vinti senza ferite, senza armi, senza battaglia; a loro non fu offerta la possibilità di impugnare la spada, non di ingaggiare un combattimento col nemico; a loro fu dato invano il coraggio. Mentre erano in preda a questi sentimenti, giunse l’ora fatale della vergogna che, alla prova dei fatti, avrebbe reso tutto più doloroso di quanto avevano presagito nell’animo. Per prima cosa ricevettero l’ordine di uscire dalla trincea disarmati e con un solo vestito; furono quindi consegnati gli ostaggi che vennero condotti in un campo di prigionia. […] Per primi furono fatti passare sotto il giogo i consoli seminudi, poi furono sottoposti all’infamia gli ufficiali in ordine gerarchico e infine, una dopo l’altra, le legioni. Intorno, in armi, stavano i nemici e mandavano insulti e sberleffi. Molti furono anche minacciati con la spada e alcuni pure feriti e uccisi, se i loro volti risentiti per quella umiliazione avevano offeso i vincitori. Così furono fatti passare sotto il giogo e, cosa ancor più grave, davanti a tutti i nemici. Usciti che furono dalla gola, come tratti fuori dal regno dei morti, parve loro di vedere per la prima volta la luce, però quella stessa luce, che offrì loro lo spettacolo di un esercito così mal ridotto, fu più triste di ogni genere di morte. 1. consoli: gli inetti consoli di quell’anno erano Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino (poi soprannominato Caudino). 2. coloro: i consoli. 3. il giogo: formato dalle lance incrociate; i soldati romani avrebbero dovuto abbassarsi fino a terra per poterci passare sotto.
Analizziamo il testo • La disfatta romana si verificò non lontano dall’odierna Benevento, forse nella valle di Sant’Agata dei Goti, percorsa dal torrente Isclero. Quella sconfitta provocò la temporanea rinuncia romana ad espandere il loro dominio in Campania. • Da come lo interpreta Tito Livio, che è un autore sempre attento ai risvolti morali della storiografia, il fatto storico assume essenzialmente un valore simbolico: serve a dimostrare gli infelici risultati prodotti da superficialità e dall’eccessiva fiducia in sé stessi. Questi due limiti sono gravi in generale, ma risultano per nulla scusa-
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bili in chi, come i due consoli, ha la responsabilità di condurre l’esercito. • Livio si dimostra un sapiente narratore. La sua narrazione, infatti, utilizza una vasta gamma di motivi psicologici: a) il sentimento di vendetta contro i capi responsabili; b) l’angoscia di non aver potuto corrispondere alle speranze della patria e dei genitori; c) l’umiliazione di essere vinti senza combattimento; d) il disprezzo da parte del nemico vincitore.
Rifletti e rispondi 1. Ambienta l’episodio nel contesto delle guerre sannitiche: ricorda quando si svolsero, le loro fasi principali e come si conclusero. A quale fase risale l’episodio delle Forche caudine?
2. Quali accuse muovono i soldati ai loro comandanti?
3. Quale pensiero risulta più spiacevole ai romani sconfitti? Motiva la risposta.
4. Solo i soldati semplici provano l’umiliazione del giogo, o anche ufficiali e comandanti? Cerca la risposta nel testo.
5. Da quali immagini o concetti emerge meglio la visione morale della storiografia liviana? Evidenziali sul testo.
6. Come puoi definire l’atmosfera che circonda l’episodio? Proponi uno o due aggettivi e spiega poi la tua scelta.
7. Nel passo, Tito Livio utilizza una vasta gamma di motivi letterari: - l’umiliazione di essere vinti senza combattimento - il sentimento di vendetta contro i capi responsabili - il disprezzo da parte del nemico vincitore - il triste viaggio di ritorno. Documenta ciascuno di questi aspetti con una o due citazioni riprese dal testo.
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15 Le cause della II guerra punica sotto la lente di Polibio Polibio, Storie III. 6, 9, 10 Lo storico greco Polibio ebbe una diretta conoscenza della società romana, perché soggiornò nella capitale italica per ben sette anni. Fu infatti deportato a Roma nel 168 a.C., dopo la III guerra macedonica, da Lucio Emilio Paolo, assieme ad altri mille ostaggi greci. La permanenza a Roma segnò profondamente la vita di Polibio e la sua esperienza di studioso. Egli fu autore di una vastissima opera storica, Le Storie, in ben quaranta libri, dei quali però restano solo i primi cinque (oltre a estratti di qualche libro successivo, risalenti a un’epoca successiva): abbastanza per fare di Polibio un acuto osservatore della realtà politica di Roma, nel suo tempo e nel suo mondo, che è ormai il vasto contesto ellenistico. Leggiamo un passo tratto dal III libro delle Storie.
Alcuni storici delle imprese di Annibale, volendo esporre le cause per le quali scoppiò fra romani e cartaginesi la guerra suddetta1, come prima pongono l’assedio di Sagunto da parte dei cartaginesi, come seconda il loro passaggio, contro i patti stabiliti, del fiume chiamato dagli indigeni Ebro. Quanto a me, potrei riconoscere che questi furono i principi della guerra. Ma assolutamente non ammetto che ne siano state le cause. [...] Si deve ritenere che ne sia stata la causa prima l’animosità di Amilcare, soprannominato Barca, padre di Annibale: per nulla domato dopo la guerra in Sicilia, poiché aveva conservato intatte, nelle operazioni da lui dirette, le forze militari con le quali aveva combattuto ed era venuto a patti, cedendo alle circostanze, solo in seguito alla sconfitta subita dai cartaginesi nella battaglia navale. Egli covava intero il suo risentimento contro i romani, e spiava l’occasione propizia a un attacco. Quando i romani dichiararono la loro guerra, i cartaginesi dapprima si mostrarono disposti a negoziare su ogni punto. Poiché i romani rifiutavano di trattare, vinti dalle circostanze, i cartaginesi cedettero la Sardegna e accondiscesero pure a pagare altri 1200 talenti oltre a quelli già pattuiti, pur di non essere costretti ad affrontare una guerra nelle condizioni in cui versavano. Questa dunque è la seconda importantissima causa della guerra scoppiata più tardi. Amilcare, infatti, aggiunta al suo antico risentimento l’ira concepita per questa ragione dai suoi concittadini, subito si accinse con ogni impegno alla conquista della penisola iberica, pensando di servirsene come base per la guerra contro i romani. Il successo dei cartaginesi in Spagna è da ritenere la terza delle cause della guerra annibalica, perché, fiduciosi nelle forze così ottenute, essi coraggiosamente si accinsero alla nuova impresa. Con molte prove si potrebbe dimostrare che Amilcare, benché morto dieci anni prima che essa scoppiasse, ebbe gran parte nella preparazione della seconda guerra punica. (trad. di C. Schick) 1. la guerra suddetta: la seconda guerra punica.
Analizziamo il testo • Nel paragrafo d’apertura Polibio applica alla II guerra punica una distinzione spesso operata dalla storiografia riguardo alle guerre di ogni tempo e luogo. L’autore, infatti, distingue tra cause prossime e cause remote: rifiuta, da studioso acuto qual è, di accontentarsi delle sole cause prossime, e scende ad analizzare quelle remote, le più importanti per determinare il successivo corso degli eventi. • Ricostruendo questa causa remota, Polibio fa riferimento al lungo contrasto tra Roma e Cartagine che seguì alla fine (241 a.C.) della prima guerra punica. La pace siglata tra le due città aveva imposto a Cartagine la perdita della sola Sicilia; la Sardegna, invece, venne perduta da Cartagine poco dopo, nel 238 a.C., perché Roma, con un atto di forza illeggittimo, violò i patti, approfittando di una sollevazione dei mercenari punici stanziati nell’isola. • Questo contesto spiega l’«animosità» di Amilcare Barca, comandante cartaginese. Infatti egli persuase i con-
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cittadini a concentrare gli sforzi in Spagna, al fine di compensare con la penisola iberica la perdita delle due isole tirreniche. Nel giro di otto anni, dal 236 a.C. in avanti, Amilcare assicurò alla madrepatria quella terra ricca di risorse e materie prime minerarie. Polibio sottolinea l’odio del generale cartaginese e lo indica come causa remota della seconda guerra punica, scoppiata però per iniziativa diretta di suo figlio Annibale.
Rifletti e rispondi 1. La seconda guerra punica seguì la prima, che si era conclusa pochi anni prima. Riassumi in poche righe le date e gli eventi principali di quel primo conflitto tra Roma e Cartagine.
2. Quali cause della seconda guerra punica sono comunemente individuate, secondo l’autore?
3. Le cause profonde della seconda guerra punica sono identificate da Polibio in una ragione di natura psicologica: quale?
4. Per illustrare le cause della riapertura del conflitto, lo storico greco concentra la sua attenzione su una delle due potenze in lotta: quale?
5. «Con molte prove si potrebbe dimostrare che Amilcare, benché morto dieci anni prima che essa scoppiasse, ebbe gran parte nella preparazione della seconda guerra punica». Quali sono queste prove addotte da Polibio? Ricostruisci in sintesi il suo ragionamento.
6. Perché, secondo Polibio, Asdrubale pianificò e condusse a termine la conquista della Spagna?
7. C’è un punto del testo dal quale traspare un’eccessiva fiducia dei cartaginesi nelle proprie forze: di quale punto si tratta?
8. Ricostruisci in una tua scheda la cronologia degli eventi qui narrati da Polibio.
Sezione 2
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16 Ritratto di Annibale Tito Livio, Storie, XXI, 4, 5-9 In questa pagina famosa, lo storico latino Tito Livio raffigura Annibale, il più fiero nemico di Roma. Il testo lo ritrae nel momento immediatamente successivo alla morte del padre Asdrubale: fu allora che Annibale venne nominato, a soli 26 anni, comandante in capo dell’esercito cartaginese. Siamo dunque nel 221 a.C. Due anni dopo, nel 219 a.C., il giovane generale deciderà di porre l’assedio di Sagunto, città alleata dei romani, dando così il via, di fatto, alla seconda guerra punica.
Mai uno stesso spirito fu più adatto a comportamenti più opposti, all’obbedienza come al comando. E così non senza fatica avresti capito se era più ben voluto dal comandante o dall’esercito: Asdrubale non preferiva mettere a capo dell’esercito nessun altro quando era necessario compiere un’impresa in modo energico e valoroso, e i soldati, sotto la guida di un altro comandante, non avevano più fiducia né osavano più. Nessuno aveva la sua audacia nell’affrontare i pericoli né maggior sangue freddo in mezzo ai pericoli stessi. Nessuna fatica riusciva a sfinire il suo corpo né a vincere il suo animo. Aveva la stessa resistenza sia al freddo sia al dolore. Regolava il consumo del cibo ed il bere secondo le necessità, non per il piacere. Non esisteva per lui alcuna differenza tra il giorno e la notte, per dormire o vegliare: quando era libero dai suoi doveri ne approfittava per dormire e per quel sonno non aveva bisogno di un morbido giaciglio o del silenzio; molti lo videro spesso coperto solo di un mantello da soldato, disteso per terra tra le sentinelle e nei posti di guardia. Le sue vesti non erano differenti da quelle dei giovani della sua età: quello che attirava gli sguardi erano le sue armi e i suoi cavalli. Tra i cavalieri come tra i fanti era di gran lunga il migliore: era il primo a lanciarsi nel combattimento, e dal combattimento ingaggiato era l’ultimo ad allontanarsi. A queste eccezionali virtù corrispondevano notevoli difetti: in primo luogo la sua crudeltà disumana, e poi la slealtà, superiore persino a quella dei suoi compatrioti: non conosceva infatti che cosa fossero il vero e il sacro, non aveva alcun timor degli dèi, nessun rispetto per i patti giurati, nessuno scrupolo. Con questa base di vizi e di virtù prestò servizio per tre anni sotto il comandante Asdrubale, non trascurando alcuna impresa che doveva essere compiuta e presa in considerazione da un futuro grande comandante. Analizziamo il testo • Il grande condottiero appare un personaggio complesso, che assomma in sé ammirevoli virtù e pericolosi difetti morali. Livio raffigura Annibale come una personalità eccezionale: un uomo grande tanto nella virtù quanto nel vizio. Livio non traccia dunque, di Annibale, un profilo a senso unico. • Del generale cartaginese sono elogiate diverse virtù. Egli è semplice nel modo di vestire, sobrio nel cibo, infaticabile e sempre attivo, calmo ed equilibrato nel pericolo, coraggioso («il primo a lanciarsi nel combattimento, e dal combattimento ingaggiato era l’ultimo ad allontanarsi»), capace di stare fra i soldati e di farsi amare da loro. • Dopo aver sottolineato il valore guerriero e la capacità di resistenza del personaggio, arriva l’elenco di una serie di vizi, che alimentano forti dubbi sul valore personale del grande nemico di Roma. Quello di Livio è dunque, come dicono gli studiosi, un «ritratto paradossale», tracciato attraverso chiaroscuri, tipico della grande storiografia antica. • Tra le accuse mosse ad Annibale, spicca in particolare quella di slealtà. Noi sappiamo che tutti gli storici latini sottolineavano spesso, dei cartaginesi, proprio questo aspetto (vero o presunto): ebbene, neppure Annibale sfugge all’accusa di perfidia. Al contrario, egli viene definito ancora più sleale dei suoi già sleali compatrioti: del resto, aggiunge l’autore, Annibale «non aveva alcun timor degli dèi» e quindi, di conseguenza, «nessun rispetto per i patti giurati». Poiché Tito Livio è uno storico sempre incline al giudizio «morale», questi aspetti bastavano largamente a giustificare la guerra senza quartiere condotta da Roma contro Cartagine per tanti anni.
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Sezione 2
Rifletti e rispondi 1. In che senso quello di Tito Livio si può definire un «ritratto paradossale»?
2. Enumera una dopo l’altra tutte le qualità positive che l’autore attribuisce ad Annibale.
3. Enumera adesso quelle negative.
4. Rifletti: nel testo, a tuo avviso, prevalgono le une o le altre? Motiva la tua risposta.
5. Riassumi a grandi linee le date della seconda guerra punica e gli eventi che videro Annibale come grande protagonista.
6. Da una parte leggiamo, in questo testo, che Annibale non ha timore degli dèi, che è sleale ecc.; dall’altra parte, noi sappiamo che Roma mosse contro di lui una guerra senza quartiere, lunghissima, fino a ottenere la vittoria. Quale conclusione si può trarre da tutto ciò? In che senso qui si dimostra la natura «morale» della storiografia di Tito Livio?
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17 L’orgoglio di Mario: «Io sono un uomo nuovo!» Sallustio, La guerra giugurtina, 85 Mario ottenne il consolato dell’anno 107 a.C. contro il parere dei nobili ma con l’appoggio di soldati e cavalieri. Questa famosa pagina, tratta dalla Guerra giugurtina dello storico latino Sallustio, lo ritrae mentre arringa i soldati, in Africa. Il neo-console si presenta ai suoi soldati, secondo l’elaborazione di Sallustio, come un generale capace e onesto, ben diverso dai politici nominati dalla nobiltà, l’oligarchia al potere.
Mi avete ordinato di condurre la guerra contro Giugurta, cosa che la nobiltà ha sopportato con grande sdegno. Giudicate nella vostra coscienza, vi prego, se sia meglio cambiare decisione, affidando l’incarico a un uomo di antica famiglia, ricco di ritratti d’antenati1, ma privo di esperienza militare sul campo, con il sicuro risultato, quando si troverà al comando di un’impresa così ardua, di vederlo in preda all’incertezza ed allo smarrimento, e di essere costretto ad assumere uno del popolo2 che gli insegni il mestiere. [...] Io, o Quiriti3, conosco di quelli che soltanto dopo essere stati eletti consoli, si sono dedicati a leggere le gesta dei loro avi e i trattati militari greci4. Quella è gente che fa le cose alla rovescia: infatti prima bisogna essere eletti e poi si esercita il potere, ma il mestiere5 lo si deve imparare prima. Ora, Quiriti, paragonate me, uomo nuovo, con la superbia di costoro. Ciò che essi in genere sentono dire o leggono, io l’ho visto con i miei occhi e l’ho fatto di persona. Quello che essi hanno appreso sui libri, io l’ho imparato combattendo. Giudicate voi se valgano di più le azioni o le parole. Essi disprezzano la mia umile origine, io la loro incapacità. A me si può rinfacciare la mia condizione, a loro una condotta disonorevole. Io credo che la natura umana sia unica e comune a tutti, ma sono anche convinto che tanto più si è nobili quanto più si è valorosi. [...] Invidiano la mia carica; ma allora siano invidiosi anche delle mie fatiche, della mia onestà e dei rischi che corro, visto che è grazie a queste cose che ho ottenuto il consolato. Questi nobili, rovinati dalla superbia, vivono quasi disprezzando le cariche che voi assegnate; ma poi le pretendono, mostrandosi onesti. Si sbagliano davvero, se credono di poter raggiungere contemporaneamente due obiettivi incompatibili tra loro: i piaceri dell’ozio e i premi del valore guerriero. 1. ritratti d’antenati: i ritratti dei nobili antenati erano venerati da parte delle famiglie aristocratiche, che potevano menare vanto per il fatto che i loro avi avevano ricoperto una carica pubblica. 2. uno del popolo: uno come lui, insomma. Mario allude qui ai suoi rapporti con il generale Metello, il precedente comandante, che non aveva saputo riportare la vittoria decisiva contro Giugurta. 3. o Quiriti: cittadini di Roma. 4. leggere... militari greci: cioè apprendono sui libri (i libri greci erano i più rinomati) i rudimenti dell’arte della guerra, senza mai averla vissuta prima sul campo. 5. il mestiere: l’arte di governare e di condurre una guerra.
Analizziamo il testo • Mario, nato in una semplice famiglia del municipio di Arpino, di rango equestre e non nobile, era un «uomo nuovo», secondo i principi della politica romana di allora. Aveva però prestato servizio militare a Numanzia con Scipione l’Emiliano nel 134 a.C. e quindi, molti anni dopo, nel 109 a.C., dopo che si era imparentato con la potente famiglia Iulia (la stessa da cui proverrà Giulio Cesare), fu nominato legato del console Q. Cecilio Metello in Africa, nel corso della guerra contro Giugurta. A quel punto poté porre la sua candidatura per il consolato dell’anno 107 a.C., che ottenne, malgrado l’opposizione degli aristocratici. • La propaganda per ottenere il consolato fu impostata da Mario sulla base degli stessi concetti qui sviluppati da Sallustio: i nobili sono corrotti e inefficienti; per vincere la guerra in Africa bisogna attribuire il comando a chi si è dimostrato capace e meritevole.
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Sezione 2
• Mario afferma, nel passo letto, che la «virtù» dell’«uomo nuovo» è una cosa molto diversa, e migliore, rispetto alla vuota superbia dei nobili, i ricchi aristocratici romani. È vero che lui, Mario, non può vantare antenati nobili (è appunto un «uomo nuovo»); ma è anche vero che i suoi avversari mancano di reale esperienza e capacità. La dignità di Mario consiste nei meriti da lui acquisiti sul campo, nella diretta esperienza che egli ha fatto della guerra. • Nel discorso di Mario ai soldati alla fine emerge un concetto importantissimo: la nobiltà vera risiede nella dignità personale, non nell’aver ereditato dagli avi un titolo nobiliare. I consoli nominati dall’oligarchia saranno senz’altro nobili, ma solo a parole: la loro nobiltà è tutta teorica. Solo chi sa condurre la guerra con maggiore efficacia è davvero nobile, nel senso che merita il comando; il resto sono solo chiacchiere, cose apprese dai libri, puramente teoriche. È il messaggio, chiarissimo, del testo.
Rifletti e rispondi 1. Riassumi in una breve scheda quando scoppiò, come proseguì e come e quando si concluse la guerra giugurtina.
2. A chi sta parlando Mario? Con chi egli sta polemizzando?
3. A un certo punto egli dice che gli altri «fanno le cose alla rovescia». Chi sono costoro? E cosa intende Mario con questa espressione?
4. In questo passo emerge la lotta politica tra le due fazioni che si opponevano a Roma. In quali punti del testo si evidenzia? Spiega in breve quali erano tali fazioni e a quale di esse Mario apparteneva.
5. Qual è la vera nobiltà, secondo Mario?
6. Che cosa significa l’espressione “uomo nuovo”? In quale punto del testo emerge? E perché Mario era definito così?
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18 LA GRANDE VITTORIA DI ALESIA C. G. Cesare, La guerra gallica, VII, 84-89 La campagna condotta in Gallia da Giulio Cesare, iniziata nel 58 a.C. e portata a termine quasi otto anni dopo, nel 51 a.C., portò alla sottomissione di tutte le popolazioni che abitavano nell’attuale Francia, nel Belgio e nella Svizzera occidentale. Il racconto della campagna viene svolto da Cesare stesso nell’opera autobiografica dei Commentarii (all’incirca “promemoria”). In questo testo viene descritto l’atto finale della guerra, ovvero la caduta della roccaforte barbara di Alesia, situata nella Francia centrale. Quando il capo dei Galli, Vercingetorige, decise di concentrare uomini e mezzi all’interno della fortezza, Cesare valutò a fondo la situazione, per concludere che non sarebbe stato possibile espugnare Alesia con un attacco frontale: era, invece, necessario un lungo assedio. Cesare lo preparò con pazienza e determinazione, mostrando tutte le sue doti di stratega. Alesia venne circondata da una doppia linea di trincee romane: la città nemica fu circondata da una complessa serie di valli, terrapieni e torri; una seconda linea di fortificazioni era rivolta verso la pianura alle spalle dei Romani, per proteggere l’esercito da attacchi esterni. Siamo ora al momento culminante della battaglia.
Si combatté contemporaneamente in tutti i punti: i galli attaccavano dovunque e, dove sembrava che le nostre posizioni fossero meno salde, ivi accorrevano. I romani dovevano difendere linee tanto estese che non era loro facile far fronte ai simultanei attacchi dei nemici. Più di tutto li impressionavano le grida che si elevavano alle spalle di ciascun gruppo combattente, perché ognuno capiva che la sua sicurezza dipendeva dal valore dei compagni che aveva alle spalle; infatti il pericolo che non è davanti agli occhi è quello che turba maggiormente. Cesare, scelto un luogo adatto dal quale poteva vedere ciò che avveniva in entrambe le parti, mandava rinforzi nei punti che si trovavano in pericolo. [...]. La situazione era più critica alle fortificazioni alte, dove abbiamo detto che l’attacco era diretto da Vercassivellauno1. Grande importanza aveva il terreno per la pendenza in senso sfavorevole ai nostri. I galli attaccavano lanciando dardi, avvicinandosi in formazioni coperte dagli scudi; continuamente forze fresche sostituivano quelle stanche; gran quantità di materiale veniva gettata sulle nostre opere di difesa, permettendo ai galli di tentare la scalata e ricoprendo le difese che i romani avevano nascoste sotto terra. Ormai i nostri non avevano più armi e le forze stavano per abbandonarli. Accortosi di ciò, Cesare mandò in aiuto dei reparti in pericolo Labieno2 con sei coorti[...]. I galli di Vercingetorige, che combattevano nella linea interna, perduta la speranza di poter sfondare il trinceramento romano, fortificato in modo formidabile, tentarono di raggiungere e attaccare le posizioni più alte, e là portarono tutte le macchine da guerra che avevano preparato; paralizzarono i difensori delle torri lanciando una grande quantità di dardi; riempirono con graticci e materiali i fossati, aprirono brecce con le falci nella palizzata e nel parapetto. Cesare mandò prima il giovane Bruto3 con alcune coorti, poi il legato Gaio Fabio4 con altre, infine, mentre si combatteva più accanitamente, andò egli stesso a portare aiuto con forze fresche. 1. Vercassivellauno: era il cugino di Vercingetorige e guidava le truppe che dovevano portare aiuto agli assediati di Alesia. 2. Labieno: era uno dei legati (luogotenenti) di Cesare. 3. il giovane Bruto: figlio adottivo di Cesare, partecipò con lui alla campagna gallica, ma in seguito capeggiò la congiura che stroncò nel 44 a.C. la vita di Cesare. 4. Gaio Fabio: un altro dei legati cesariani.
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Rinnovata la battaglia e respinti i nemici, si diresse dove aveva mandato Labieno: portò con sé quattro coorti prelevandole da un vicino forte e ordinò a una parte della cavalleria di seguirlo, a un’altra parte di procedere lungo le difese esterne e attaccare i nemici alle spalle. [...] Cesare si affrettò per essere presente al combattimento. Quando lo videro arrivare, riconoscendolo dal colore del mantello che solitamente portava in battaglia, e videro le torme dei cavalieri e le coorti da cui si era fatto seguire (dalle alture occupate dai galli, infatti, si vedeva il declivio dal quale egli discendeva), i nemici si lanciarono all’attacco. Entrambi gli eserciti elevarono alte grida e un grande clamore rispose dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri lasciarono i giavellotti e diedero di mano alle spade. All’improvviso apparve, alle spalle dei nemici, la cavalleria; altre coorti si avvicinavano. Inseguiti dai cavalieri, i Galli volsero in fuga. Vi fu grande strage [...]. Cesare ordinò che venissero consegnate le armi e i principi delle città. Egli installò il suo seggio sulle fortificazioni, davanti al campo: là gli furono condotti i capi dei galli, gli fu consegnato Vercingetorige, gli furono portate le armi. Esclusi gli edui e gli arverni, perché sperava di recuperare per mezzo loro l’amicizia delle rispettive genti, distribuì gli altri prigionieri a tutti i soldati, uno per ognuno, a titolo di preda. (trad. di F. Brindesi, Rizzoli, Milano, 1974) Analizziamo il testo • Le operazioni belliche che si svolgono intorno ad Alesia sono descritte secondo una sequenza che si ripete più volte nei Commentarii e che pare studiata per evidenziare il ruolo di Cesare: • la battaglia infuria e per i Romani la situazione è difficile; • Cesare osserva lucidamente la situazione, che si fa critica; • Cesare interviene quasi “chirurgicamente”, dando pochi ordini giusti; • poi, con un vero crescendo, il suo intervento si fa più diretto: avvolto nel mantello rosso purpureo con il quale scendeva in battaglia, il generale romano si mostra ai nemici; • apparente colpo di scena: l’arrivo della cavalleria romana (in realtà questo intervento risponde a un preciso progetto tattico); • vittoria dei Romani: repressioni e punizioni (decine di migliaia di Galli resi schiavi), ma anche ragionata remissione, nel caso in cui il perdono sia politicamente vantaggioso. • L’autore conduce la narrazione dei fatti con tono asciutto e oggettivo, utilizzando sempre la terza persona: registra i fatti con precisione cronachistica e parla di sé stesso come «Cesare». Proprio come abilità strategica e pragmatismo sono i segreti di Cesare politico e generale, così concretezza e lucidità sono le armi di Cesare scrittore; nella sua prosa nulla è lasciato al caso, nulla manca e nulla è di troppo. L’immediatezza è solo apparentemente semplicità: in realtà essa è frutto di un raffinato ed elegante controllo della lingua. • In sostanza Cesare si presenta in una visione «multiprospettiva»: raffigura se stesso come uno stratega che conduce una guerra di conquista, come un generale amato dai suoi soldati, come un abile politico, e come uno scrittore non meno straordinario, capace di usare lo strumento letterario per promuovere la sua immagine personale.
Rifletti e rispondi 1. Quali sono le difficoltà maggiori che i romani devono fronteggiare ad Alesia? Segnala i maggiori momenti di pericolo che emergono lungo il racconto.
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2. Individua nel testo il momento decisivo, quello che segna la sconfitta dei Galli.
3. Che cosa avviene quando la battaglia è terminata? Quali mosse «politiche» compie Cesare?
4. Il resoconto della battaglia si avvale anche di sobrie note di colore e sonore: rintracciale nel testo.
5. Sottolinea nel testo tutti gli interventi di Cesare generale nel corso dell’azione.
6. Ora rifletti: quale impressione vuole comunicare, secondo te, l’autore?
7. Il tono complessivo di sobria oggettività accresce la credibilità del racconto: sei d’accordo? Motiva la risposta.
8. Il generale mantiene costantemente una visione lucida della situazione, senza trascurare alcun dettaglio che possa avere utilità pratica, dal “morale” delle sue truppe allo stato d’animo dei nemici, che intuisce spiandone gli atteggiamenti e le reazioni. Illustra queste affermazioni con qualche opportuno riferimento al testo.
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Sezione 2
19 Cesare passa il Rubicone Plutarco, Vita di Cesare, 32 La guerra civile iniziò nel 49 a.C., nel momento in cui Cesare attraversò con l’esercito il fiume Rubicone, che segnava il confine fra la Gallia Cisalpina e l’Italia propriamente detta. Il breve corso d’acqua, che sfocia nell’Adriatico a nord di Rimini, segnava il termine, stabilito in precedenza da Silla, entro cui un generale era obbligato a lasciare il comando dell’esercito: attraversare il fiume con i soldati in armi, come fece Cesare nel gennaio del 49 a.C., costituiva una dichiarazione di guerra allo Stato romano. In questa pagina lo storico greco Plutarco rivela il movente nascosto e descrive le reazioni di Cesare nel momento in cui decise di compiere quel gesto di rottura.
Come divenne buio, si alzò ed uscì, non senza aver salutato affettuosamente tutti i presenti e averli esortati ad attenderlo, finché fosse tornato. Ma aveva già preavvertito un piccolo gruppetto di amici di seguirlo, non tutti insieme, ma ognuno per una via diversa. Montò su una vettura a due cavalli che aveva noleggiato e prese dapprima un’altra strada; a un certo punto deviò in direzione di Rimini, finché giunse al fiume che segna il confine fra la Gallia Cisalpina e il resto dell’Italia (il suo nome è Rubicone). Quanto più si avvicinava il momento fatale, tanto più si sentiva turbare dalla gravità di ciò che stava osando, e la riflessione sottentrava all’ardimento. Rallentò la corsa dei cavalli, poi ne fermò il passo; e, chiuso in un silenzio profondo, fece passare davanti alla mente le possibilità che gli rimanevano, in un senso come nell’altro. In quei momenti le sue risoluzioni mutarono più volte; fece partecipi dei suoi dubbi anche gli amici presenti, tra cui era Asinio Pollione, valutando con essi le sciagure che il transito avrebbe cagionato al genere umano, ma anche la fama che di esso avrebbe lasciato ai posteri. Alla fine, quasi abbandonando la ragione per lanciarsi con un atto d’audacia verso il futuro, mormorò la frase che dicono comunemente coloro i quali si gettano in qualche impresa disperata ed audace: «Sia tratto il dado» e iniziò il passaggio del fiume. Procedendo di corsa, ormai, per il resto della strada entrò in Rimini prima di giorno e l’occupò. (trad. di C. Carena) Analizziamo il testo • Cesare scrisse un’opera monografica, i Commentari sulla guerra civile, dedicata precisamente allo scontro con Pompeo. Egli però passò sotto rigoroso silenzio l’episodio del passaggio del Rubicone. Altri autori invece, di poco posteriori a lui, lo narrarono, sottolineando il forte valore simbolico di questo guado in armi del fiume. • In un altro testo, qui non riportato, lo storico latino Svetonio (ca 70-140 d.C.) ambienta l’episodio relativo al passaggio del Rubicone di notte, caricandolo di tinte drammatiche: Svetonio dipinge Cesare non così sicuro e determinato a scendere in armi contro Roma, anzi, lo raffigura mentre viene colto da un momento di incertezza proprio quando è ormai tutto pronto. • Nel passo citato, l’autore greco Plutarco (46/50 d.C.-dopo il 125 d.C.), vissuto una generazione dopo Svetonio, mette in luce un concetto analogo: «Quanto più si avvicinava il momento fatale, tanto più si sentiva turbare dalla gravità di ciò che stava osando, e la riflessione sottentrava all’ardimento». • Però Plutarco sottolinea maggiormente la consapevolezza di Cesare di compiere un atto gravido di conseguenze. Per questo motivo egli si sofferma a chiarire l’espressione «il dado è tratto» (in latino: Alea iacta est), che è poi passata alla storia come il momento-chiave dell’evento. Anche Cesare, dice Plutarco, sta per «gettarsi» in un’«impresa disperata ed audace», destinata a cambiare per sempre Roma e la storia del mondo antico.
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Rifletti e rispondi 1. Riassumi brevemente quando scoppiò, come proseguì e come e quando si concluse la guerra civile tra Cesare e Pompeo.
2. Perché oltrepassare in armi il Rubicone costituiva una decisione molto grave? Che cos’era la Gallia Cisalpina?
3. L’autore rappresenta Cesare deciso e indifferente a quanto sta facendo, oppure riflessivo e dubbioso? Cerca nel testo la risposta.
4. «...Quasi abbandonando la ragione per lanciarsi con un atto d’audacia verso il futuro»: spiega con le tue parole questa espressione del testo.
5. Nel brano viene, a un certo punto, nominato Asinio Pollione. Fai una breve ricerca per chiarire la sua importanza di personaggio storico.
6. A un certo punto, nel racconto di Plutarco, sembra che la vera ragione della scelta di Cesare riguardi la «fama» da lasciare ai posteri. Spiega questa espressione e rintraccia nel testo il punto in cui emerge.
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2. FONTI STORICHE AGGIUNTIVE PER IL VOLUME II DI PRIMO PIANO SULLA STORIA 1 Ottaviano Augusto inaugura una nuova età dell’oro Orazio, Odi, IV,15 Augusto amò circondarsi di poeti e scrittori che celebrassero il suo principato. Tuttavia non ci fu un vero obbligo esercitato su di loro: i migliori intellettuali del tempo accolsero con favore l’opera del principe, perché essa restituiva a Roma la pace e la sicurezza, dopo decenni molto difficili. Tra questi poeti «augustei» uno dei più importanti, assieme a Virgilio, fu Orazio Flacco, autore di diverse «odi civili», quasi tutte ispirate dai meriti di Augusto. In questo componimento, Orazio celebra appunto Augusto come colui che ha posto fine alle sanguinose guerre del passato e ha pacificato il mondo. L’ode venne composta probabilmente nel 13 a.C., al ritorno di Augusto dalla Gallia.
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La tua era ha ridato, Cesare1, la fecondità ai nostri campi e restituito al nostro Giove le insegne strappate2 ai templi superbi dei parti; e ormai senza pensieri di guerra, ha chiuso il santuario di Giano Quirino3 e posto freno alla licenza4, che oltrepassava i limiti del consentito; ha rimosso i vizi e rinfrancato le virtù degli antichi, quelle che formarono il nome dei latini, la forza e la gloria dell’Italia ed estesero la maestà dell’impero dal sorgere del sole al suo giaciglio5 in terra spagnola. Con Cesare che regge lo Stato, il furore Civile6, la violenza e l’odio, che martella le spade e rende nemiche infelici le città, non bandiranno7 mai la pace. No, chi si disseta8 alle foci del Danubio 1. Cesare: dopo esser stato adottato da Giulio Cesare, Gaio Ottavio aveva mutato il proprio nome in Gaio Giulio Cesare Ottaviano. 2. strappate: per la verità erano state restituite pacificamente. 3. il santuario di Giano Quirino: il tempio di Giano, aperto in tempo di guerra e chiuso in tempo di pace, era stato chiuso, fino ad allora, solo due volte: al tempo dell’antichissimo re Numa Pompilio e dopo la fine della prima guerra punica, nel 239 a.C. 4. posto fine alla licenza: un grande merito di Augusto, agli occhi di Orazio, è l’aver ridato prestigio alle virtù tradizionali, ponendo fine alle dissolutezze o licenze. 5. suo giaciglio: il «giaciglio del sole» è il punto del suo tramonto; la terra più occidentale allora conosciuta era il lembo ovest della Spagna. 6. furore civile: cioè le inimicizie tra i concittadini. 7. bandiranno: scacceranno. Cioè, la pace l’avrà vinta. 8. chi si disseta: i popoli dei daci, dei vindelici, dei pannoni.
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o i geti9, i seri10, i parti11 infidi o chi è nato in riva al fiume Tanai12 non potranno infrangere le leggi imposte da Cesare. E noi sia nei giorni di lavoro che in quelli di festa tra i doni di Bacco13 scherzoso con i nostri figli e le nostri mogli, dopo aver pregato gli dei, secondo i debiti riti, canteremo seguendo la tradizione dei padri con un canto accompagnato da flauti lidii14, i capi che furono seguaci della virtù, e Troia e Anchise e la progenie dell’alma15 Venere. 9. i geti: popoli nomadi che vivevano nella Tracia (l’area intorno al Mar Nero). 10. i seri: popolazione asiatica, che viveva nel nord-ovest dell’attuale Cina. 11. i parti: bellicosa popolazione dell’area persiana e mediorientale. 12. Tanai: il fiume Don. 13. i doni di Bacco: cioè bicchieri di buon vino. 14. flauti lidii: la Lidia era la regione dell’Asia minore da cui provenivano Enea e i troiani, lontani progenitori dei romani. Le antiche famiglie patrizie abitualmente concludevano il banchetto con carmi in onore degli avi. 15. alma: colei che nutre, che dà vita.
Analizziamo il testo • Il testo rivela alcuni dei motivi tipici dell’ideologia augustea, sviluppati dagli scrittori del circolo di Mecenate. - l’utilità di ritornare alla campagna (vv. 1-2: «la tua era ha ridato, Cesare,/ la fecondità ai nostri campi»), luogo di semplicità e di virtù, opposta ai vizi della vita urbana; - l’inizio di un tempo di pace (vv. 5-6: «ormai senza pensieri di guerra, / ha chiuso il santuario di Giano Quirino») reso possibile appunto da Ottaviano Augusto; - la difesa della famiglia e della religione tradizionale (vv. 24-25: «con i nostri figli e le nostri mogli,/ dopo aver pregato gli dei, secondo i debiti riti,/ canteremo seguendo la tradizione dei padri»), che era un punto càrdine di quel ritorno alle tradizioni antiche, così caro all’ideologia augustea; - il «mito troiano» (vv. 27-28: i «flauti lidii», «e Troia e Anchise»), ovvero la discendenza di Roma da Troia e l’origine troiana della famiglia Iulia (a cui apparteneva lo stesso Ottaviano, figlio adottivo di Cesare): era il mito cantato in quegli stessi anni nell’Eneide di Virgilio; - il ricordo di Venere (v. 29), ritenuta madre della gens Iulia. • Gran parte di questi spunti sono, come si vede, unificati dal canto delle tradizioni e della vita semplice e morigerata di un tempo. Augusto amava presentarsi così, come colui che aveva restituito Roma a se stessa, riportandola alle priscae virtutes (“antiche virtù”) contadine di un tempo. Dunque il principe non voleva apparire come l’iniziatore di una fase storica nuova (il principato), quale egli effettivamente era, ma al contrario, come il restauratore di ciò che aveva fatto grande Roma e si era, temporaneamente, perduto nel gorgo delle guerre civili.
Rifletti e rispondi 1. Chi esorta il poeta all’inizio del testo? A fare che cosa?
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2. Quali sono i meriti principali di Augusto ricordati nel testo? Citali con riferimenti ai versi.
3. L’ode cita popoli lontani: quali? E perché, a tuo avviso?
4. Sottolinea i versi che ti sembrano esprimere meglio il suo spirito «augusteo», in linea con l’ideologia propugnata dal principe. Spiega poi brevemente il perché della tua scelta.
5. Orazio ricorda anche alcune tradizioni: quali?
6. Quali elementi dell’ideologia augustea si possono rintracciare nel testo?
7. Svolgi una breve ricerca sul circolo di Mecenate, di cui Orazio faceva parte: quali altri poeti ne erano partecipi? Perché il «circolo» si chiamava così e quali caratteri presentava?
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2 due opposti giudizi su tiberio Velleio Patercolo, Historia Romana, II, 126 Tacito, Annales, VI, 6 Uno degli imperatori più controversi, nel giudizio degli storici, fu Tiberio. Riportiamo qui due testi molto diversi in proposito: il primo, di Velleio Patercolo, smaccatamente elogiativo; il secondo ben più pensoso e problematico.
Velleio Patercolo L’attività di questi 16 anni chi vorrebbe narrarla nei suoi particolari aspetti, dato che essa è fissata e radicata nel cuore di tutti? Cesare1 consacrò il suo genitore2 non coll’autorità, ma con la venerazione; non lo chiamò dio col nome, ma tale lo rese. La buona fede3 è stata fatta tornare nel Foro; la sedizione ne è stata scacciata […] e la discordia dalle sedute del Senato. Rinascere si son viste in Roma la giustizia, l’equità, l’operosità, che sembravano morte per sempre nello squallore. I magistrati hanno riguadagnato il rispetto a essi dovuto; il Senato l’antica sua maestà; i processi la loro solennità. È stata […] inculcata in tutti la volontà o imposta a tutti la necessità di fare il bene; la virtù è ancora in onore; il vizio è punito; i piccoli rispettano i grandi, ma senza più temerli; il superiore precede l’inferiore, ma senza disprezzarlo. Il costo della vita è moderato come non mai; la pace, piena di un’incomparabile letizia, s’è diffusa da un capo all’altro della Terra […]. Vengono restaurate delle città in Asia; le province sono liberate dal dispotismo dei loro magistrati; vengono tributati gli onori al merito; le pene inflitte ai malvagi sono molto meditate ma efficaci; l’equità ha eliminato il favoritismo; la virtù, ogni briga4; giacché un Ottimo Principe insegna ai cittadini a fare il bene praticandolo, e, benché egli sia superiore a tutti in fatto di autorità, lo è più ancora per l’esempio che egli dà con la propria condotta. (Trad. di B. Riposati) Tacito Parve insolito l’inizio della lettera di Cesare, che appunto così esordiva: “Cosa debba scrivervi, o senatori, o in che modo, oppure cosa, in questo momento, non debba scrivervi, se io lo so, possano gli dèi e le dee farmi perire di morte peggiore di quella di cui mi sento ogni giorno morire”. Tanto i suoi delitti e le sue nefandezze s’erano trasformati in tormento anche per lui. Non a caso il maggiore dei saggi5 soleva affermare che, se si potesse mettere a nudo l’animo dei tiranni, vi si vedrebbero lacerazioni e ferite, perché, come il corpo porta i segni delle percosse, così l’animo è straziato dalla crudeltà, dalle incontrollate passioni, dai propositi malvagi. In verità, né la potenza né il rifugio nella solitudine proteggevano abbastanza Tiberio dal dover confessare i tormenti del suo cuore e le sue pene. (Trad. di M. Stefanoni) 1. Cesare: Tiberio Cesare; tutti gli imperatori romani assumevano il prenome di «Cesare». 2. genitore: cioè Ottaviano Augusto, che lo aveva adottato nel 4 d.C., dopo la morte improvvisa di Gaio, nipote di Augusto. 3. buona fede: bona fides presso i giuristi romani designava la correttezza di chi tiene fede alla parola data e non commette frodi nei rapporti commerciali (quelli che si stipulano appunto «nel foro»); si contrapponeva al dolus malus. 4. ogni briga: per ascendere agli honores, le cariche pubbliche, non servono più le brighe, cioè le manovre politiche nell’ombra, favoritismi, alleanze, ecc.; basta essere virtuosi, e si riceve quanto spetta. 5. il maggiore dei saggi: Socrate.
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Analizziamo il testo • Il primo testo proviene dall’Historia Romana di Velleio Patercolo, opera scritta intorno al 30 d.C. che riflette il punto di vista della burocrazia equestre, cioè del ceto emergente, il più leale e collaborativo verso gli imperatori. Velleio ritiene che dalla parte del giusto siano coloro che si schierano per l’ordine costituito; gli altri, per esempio i difensori della respublica in tempo di principato, sono dalla parte del torto. Non ci stupisce allora l’elogio (quasi un panegirico) intonato a Tiberio come principe illuminato, il migliore che l’impero possa desiderare. • Di segno opposto è il secondo testo, proveniente dagli Annali di Tacito. Nel 31 d.C., da Capri, Tiberio scrisse una lettera al senato, per intercedere verso Cotta Messalino, accusato di lesa maestà. Tacito non si limita a ricordare l’episodio: se ne serve per mettere a nudo le «lacerazioni» segrete dell’animo del principe, non mancando di rilevare le «crudeltà» di Tiberio, «le incontrollate passioni», i «propositi malvagi». È così che gli Annali tacitiani costruiscono, tassello dopo tassello, quei «ritratti dei tiranni» (Tiberio e Nerone in primo luogo) destinati a grande fortuna nei secoli successivi.
Rifletti e rispondi 1. Riassumi in una breve scheda in quali anni Tiberio resse il principato e quali furono gli eventi principali che si collegano a esso.
2. Quali sono le lodi maggiori che Velleio Patercolo tributa a Tacito? Rileggi il testo e costruiscine un catalogo: • virtù nella politica interna • virtù nella politica estera • virtù morali - Che cosa scrive l’imperatore Tiberio al senato? E come commenta Tacito questa lettera?
3. Tacito parte dal caso di Tiberio per costruire una generalizzazione: su quale argomento?
4. Metti a confronto i due testi: • Quale ti sembra più significativo sul piano prettamente storico? • E quale dei due ti pare preferibile sul piano letterario? Motiva le tue risposte con qualche riferimento alle due fonti.
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3 IL NOBILE DISCORSO DELL’IMPERATORE CLAUDIO: APRIAMO LE PORTE AI GALLI! Tacito, Annali XI, 24 Nel 48 d.C. si tenne un acceso dibattito in senato: in discussione era la proposta di ammettere alcuni nobili galli nel senato di Roma. Si levarono numerose voci contrarie alla proposta, perché i galli erano stati, fino a pochi decenni prima, fieri nemici di Roma. Il discorso con cui l’imperatore Claudio chiuse la questione è diventato celebre perché riassume efficacemente il lato migliore della civiltà romana. Tutta la storia di Roma, secondo Claudio, poteva essere interpretata come un progressivo ampliamento della base di consenso e di reclutamento della classe dirigente; tale tradizione di tolleranza e integrazione aveva fatto grande lo Stato romano e andava ora confermata e aggiornata. Leggiamo il testo del discorso così come viene riportato da Tacito negli Annali; ne esiste anche un’altra versione, incisa in una tavola di bronzo nota come Tavola di Lione, città nella quale è stata ritrovata.
I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso1, di origine sabina2, fu accolto contemporaneamente tra i cittadini romani e nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri nel governo dello stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Non ignoro, infatti, che i Giulii3 sono stati chiamati in senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tusculo4 e, se lasciamo da parte i tempi più antichi, dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia. L’Italia stessa ha da ultimo portato i suoi confini alle Alpi, in modo che, non solo i singoli individui, ma le regioni e i popoli si fondessero nel nostro nome. Abbiamo goduto di una solida pace all’interno, sviluppando tutta la nostra forza contro nemici esterni, proprio allora quando, accolti come cittadini i transpadani5, si poté risollevare l’impero stremato, assimilando le forze più valide delle province, dietro il pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo. C’è forse da pentirsi che siano venuti i Balbi6 dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonese? Ci sono qui i loro discendenti, che non ci sono secondi nell’amore verso questa nostra patria. Cos’altro costituì la rovina di spartani e ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini. Stranieri hanno regnato su di noi: e affidare le magistrature a figli di liberti non è, come molti sbagliano a credere, un’improvvisa novità, bensì una pratica normale adottata dal popolo in antico. Ma, voi dite, abbiamo combattuto coi senoni7: come se volsci ed equi8 non si fossero mai scontrati con noi in campo aperto. 1. Clauso: Appio Claudio, trasferitosi a Roma dalla Sabina nel 505 a.C. Fu l’iniziatore della gens Claudia. 2. di origine sabina: i Sabini erano un’antica popolazione del Lazio, una delle prime a essere assimilate da Roma (ne è rimasta traccia nell’episodio del ratto delle sabine). Qui l’imperatore intende sottolineare il fatto che il suo antenato Clauso, pur non essendo nato a Roma, poté divenire cittadino romano e dare, con la sua opera, un notevole contributo alla città. 3. Giulii: i Giulii, i Coruncanii e i Porcii erano tutte famiglie antiche e di nobili origini, che diedero a Roma uomini importanti e potenti. 4. Alba… Tuscolo: Alba Longa, Camerio e Tusculo sono città laziali dalle quali provengono le famiglie citate. 5. transpadani: le popolazioni stanziate oltre (trans-) la pianura padana. Esse avevano ricevuto la cittadinanza romana nel I secolo a.C., precisamente nel 49 a.C., da Cesare. 6. Balbi: importante famiglia iberica trasferitasi a Roma. 7. enoni: una delle tribù di galli stanziate in suolo italico contro cui i romani combatterono. 8. Volsci ... Equi: popolazioni italiche vinte dai romani nelle guerre di conquista della penisola.
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Siamo stati conquistati dai galli: ma non abbiamo dato ostaggi anche agli etruschi e subìto il giogo dei sanniti? Eppure, se passiamo in rassegna tutte le guerre, nessuna s’è conclusa in un tempo più breve che quella contro i galli: da allora la pace è stata continua e sicura. Ormai si sono assimilati a noi per costumi, cultura, parentele: ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, invece di tenerli per sé! O senatori, tutto ciò che crediamo vecchissimo è stato nuovo un tempo: i magistrati plebei dopo quelli patrizi, quelli latini9 dopo i plebei, quelli degli altri popoli d’Italia dopo i latini. Anche questa decisione metterà radici e invecchierà, e ciò per cui oggi ricorriamo ad altri esempi servirà da esempio un giorno. Analizziamo il testo • Parlando in Senato nel 48 d.C., l’imperatore Claudio caldeggia l’ammissione fra i senatori di alcuni nobili cittadini delle Gallie. Claudio sostiene che una delle virtù tipiche dello Stato romano è la disponibilità, sempre manifestata nel corso dei secoli, a integrare nella propria tradizione elementi a essa estranei. Secondo Claudio occorre rinnovare la tradizione traendo esempio dagli antichi romani, i quali non avevano temuto di modificare, per aggiornarla, l’organizzazione dello Stato. Allo stesso modo, dice Claudio, di fronte a esigenze nuove, il Senato deve oggi associare le aristocrazie provinciali al governo dell’impero. Non si tratta di un intollerabile divorzio dalle tradizioni, ma, semmai, di una proposta in linea con il passato di Roma. • Il discorso dell’imperatore Claudio riportato da Tacito ci permette di riflettere su due concetti importanti. La prima riguarda il fatto che, diversamente da ciò che accadeva nel resto del mondo antico, a Roma la cittadinanza, ovvero il diritto di essere considerato cittadino romano, non era fatta dipendere dall’essere nati o meno da madre o padre romano, né dal colore della pelle. Ad Atene, per esempio, era cittadino solo chi fosse nato da madre ateniese; in Grecia vigeva dunque una concezione biologica della cittadinanza. A Roma, invece, la cittadinanza veniva riconosciuta secondo i casi previsti delle leggi e secondo un allargamento progressivo, deciso dalle convenienze politiche del momento. Con l’andare del tempo, la concessione della cittadinanza si allargò molto: perfino lo schiavo liberato dal padrone poteva divenire cittadino romano, da qualunque regione provenisse. In sostanza, a Roma si affermò quella concezione giuridica e non più biologica della cittadinanza, che è la medesima che ancora oggi pratichiamo nella nostra civiltà occidentale. • La seconda conferma concerne la dignità con cui Claudio resse il principato, dal 41 al 54 d.C.: benché proprio Tacito sia il principale responsabile della leggenda negativa che circondò questo principe (lo accusa di goffaggine, d’inettitudine, di eccessiva arrendevolezza verso le donne di corte, ecc.), in realtà egli appare da questo discorso un politico di prim’ordine, capace di coniugare il senso ideale delle tradizioni romane con i concreti vantaggi che l’ammissione dei Galli al Senato poteva recare allo Stato romano: è un’immagine che gli storici odierni hanno ben compreso. Questa dignità risalta nel finale del discorso, così come Tacito lo costruisce: egli fa concludere Claudio con pensose osservazioni che chiamano in causa il passato, il presente e il futuro di Roma e il senso complessivo della storia.
Rifletti e rispondi 1. A chi sta parlando Claudio e in quale occasione?
2. Quale esortazione fondamentale rivolge l’oratore a chi lo ascolta? Riassumila sul quaderno in massimo cinque righe.
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3. A che cosa attribuisce Claudio la debolezza degli spartani e degli ateniesi?
4. Quando e perché viene citato Romolo?
5. Perché, secondo Claudio, i romani non hanno nulla da temere dai galli?
6. Quali famiglie, nel ricordo dell’imperatore, sono giunte a Roma da fuori? Svolgi una breve indagine su una di esse.
7. L’imperatore Claudio esorta i senatori a non avere paura delle novità: perché?
8. Quale idea della storia ti sembra ispiri il testo? Definiresti il finale pessimistico od ottimistico? Spiega in breve perché.
9. Ripensando a ciò che hai studiato a proposito della storia greca: - spiega le ragioni storiche dell’avversione dei greci verso gli stranieri, i “barbari”;
- cerca d’individuare eventuali differenze tra l’atteggiamento dei romani e quello dei greci.
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4 LA NOVITÀ DEL CRISTIANESIMO: IL DISCORSO DELL’APOSTOLO PAOLO ALL’AREOPAGO DI ATENE Atti degli apostoli, 17, 22-34 Un episodio interessante riguardante i rapporti tra la prima cultura cristiana e la cultura classica greco-romana avvenne nel 50 o 51 d.C. Ne fu protagonista l’apostolo Paolo, primo predicatore della fede cristiana ai «gentili» (dal latino gentes, “popoli”), cioè i non ebrei. Paolo si trovava allora ad Atene per predicare il cristianesimo: e appunto lì, nella prestigiosa capitale della cultura pagana di allora, egli tenne un discorso che sembra indicare ai cristiani un approccio amichevole alla sapienza classica. Contemporaneamente, però, l’apostolo non tace la radicale novità della fede cristiana rispetto alla «sapienza» classica. Leggiamo il testo del discorso così come viene riportato negli Atti degli Apostoli.
Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago1, disse: ‘Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara2 con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene3, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo4 che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti’. Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: ‘Ti sentiremo su questo un’altra volta’. Così Paolo uscì da quella riunione. Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionìgi membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro. 1. Areòpago: così si chiamava la collina di Ares (Areios pàgos) che sorgeva nei pressi dell’Acropoli di Atene; essa dava il nome al Consiglio dell’Areopàgo, un’antica istituzione ateniese, che aveva il compito di controllare le leggi e della morale pubblica. Davanti ai saggi dell’Areopàgo Paolo tiene il suo discorso. 2. un’ara: un altare. 3. Il Dio… ciò che contiene: Paolo cita qui i primi versi di un poema greco-ellenistico, i Fenomeni di Arato. Paolo conosceva bene quel testo: Soli e Tarso, la città dove egli era nato, erano molto vicine. 4. un uomo: Gesù Cristo.
Analizziamo il testo • Parlando ai saggi ateniesi dell’Areopago, Paolo prende spunto dall’iscrizione al «Dio ignoto» da lui notata passeggiando per la città. Gli ateniesi, nel timore di dimenticarsi di qualche divinità straniera, avevano innalzato a quel «dio ignoto» un altare. Si sentivano così a posto la coscienza, ma Paolo stravolge il senso dell’altare: dichiara infatti di stare annunciando precisamente quel Dio che gli ateniesi già veneravano, ma senza conoscerlo. • Sollecitata in tal modo l’attenzione dei suoi ascoltatori, Paolo continua. Cita i primi versi («Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene... ») di un poema greco, i Phaenomena del greco Arato di Soli. Riesce così a stabilire un ulteriore punto d’incontro con i suoi interlocutori. Esso non riguarda più il «dio ignoto», ma un
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piano razionale, quel terreno filosofico che era così caro ai greci. • Paolo prosegue ancora: la religione che egli annuncia rifiuta gli idoli (d’oro, d’argento o di pietra). Quest’ultimo motivo (caro alla cultura ebraica) suonava piuttosto polemico verso gli ascoltatori, visto che la religione greca era politeista e piena di idoli. Paolo si spinge ancora più in là: annuncia la necessità della conversione e il giudizio futuro per mezzo di un uomo che Dio ha accreditato di fronte a tutti, resuscitandolo dai morti. • Ricapitoliamo: all’inizio del suo discorso Paolo si era richiamato ai valori perenni, costruendo un ponte con i suoi ascoltatori, imbevuto di cultura classica; ma, proseguendo, l’apostolo non elude la sostanziale novità del messaggio cristiano: non cerca di minimizzare l’evento della risurrezione, di trasformarlo in un fatto simbolico. Parlando di resurrezione (cuore dell’annuncio cristiano) pone i suoi ascoltatori davanti a una scelta, a favore o contro. Perciò alcuni di loro deridono Paolo, altri lo rinviano a un’altra occasione.
Rifletti e rispondi 1. Nell’analisi del testo abbiamo identificato quattro sequenze presenti nel discorso di Paolo. Ritrovale una dopo l’altra, segnandole sul testo. 2. L’oratore fa a un certo punto una citazione poetica: dove? E perché, secondo te?
3. Uno dei grandi temi del testo è quello della ricerca di Dio. Dove emerge, in particolare?
4. Un passaggio del testo parla di arte e di immaginazione umana. Ritrovalo. Secondo te, l’apostolo disprezza queste realtà, oppure no?
5. Quale punto del discorso di Paolo indispettisce gli ascoltatori? E secondo te, per quale motivo?
6. Chi parla è un ebreo, ma il discorso davanti ai saggi dell’Areopago si apre a una dimensione ben più larga dell’ebraismo. Da cosa lo capisci? Sottolinea nel testo il punto, o i punti, e commentali oralmente. 7. Secondo te, il discorso di Paolo può dirsi una mediazione riuscita, oppure no? Motiva la risposta.
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5 I cristiani sono accusati di avere incendiato Roma Tacito, Annales, XV, 44 Nella notte del 19 luglio del 64 d.C. scoppiò un incendio a Roma, nella zona del Circo Massimo: per nove giorni la città venne invasa dalle fiamme, con gravi danni ai monumenti e alle abitazioni e provocando un ingente numero di morti. L’imperatore Nerone si adoperò per soccorrere la popolazione, ma non riuscì a impedire il diffondersi del sospetto che fosse stato proprio lui a far appiccare il fuoco per poter dare inizio alla costruzione di un magnifico palazzo imperiale, la Domus aurea, sul terreno devastato. Per stornare la diceria popolare, l’imperatore decise così di rivolgere l’accusa contro i cristiani, persone già malviste dall’opinione pubblica. È un brano molto importante come fonte storica: documenta infatti la presenza di cristiani a Roma in anni molto precoci.
Ma non si attenuava – né per i rimedi posti in essere dagli uomini, né per le elargizioni del principe, né per i riti di espiazione agli dèi – l’infamante diceria secondo la quale si riteneva che l’incendio fosse stato ordinato [da Nerone]. Perciò, per tagliar corto alle voci dell’opinione pubblica, Nerone accusò di essere colpevoli, e sottopose alle pene più spettacolari, coloro che il popolo chiamava cristiani e che erano odiati per i loro crimini. Quel nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio capitale per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa malefica superstizione [religiosa] proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo d’origine di quel flagello, ma anche a Roma, dove viene a confluire e attecchisce tutto ciò che è vergognoso e abominevole. Per primi furono arrestati coloro che apertamente confessavano. Poi, su denuncia di costoro, fu arrestata una gran moltitudine di cristiani, non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché erano pieni d’odio contro il genere umano. E così, a quelli che andavano a morire, furono aggiunti degli oltraggi, come il perire, dopo esser stati coperti da pelli di bestie selvatiche, dilaniati dai cani, oppure bruciare, appesi alle croci e accesi, dopo il tramonto del sole, a modo di illuminazione notturna. Nerone aveva aperto i suoi giardini per tale spettacolo e allestiva giochi da circo, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. In seguito a questi fatti, benché si trattasse di violenze rivolte a gente colpevole e che si meritava le peggiori punizioni, tuttavia sorgeva un sentimento di compassione, quasi che [i cristiani] venissero sacrificati non per l’utilità dello Stato, ma per la crudeltà di uno solo. Analizziamo il testo • L’opinione pubblica non esita a riconoscere in Nerone il possibile mandante dell’incendio che ha devastato Roma. Per contrastare questa diceria, l’imperatore decide di trovare un capro espiatorio su cui riversare l’accusa di aver bruciato gran parte della città. Egli inizia così a perseguitare i cristiani, persone dedite a un’exitiabilis superstitio (“malefica superstizione [religiosa]”) e che già erano viste con sospetto dalla popolazione. Negli strascichi di questa persecuzione moriranno, di lì a poco, anche gli apostoli Pietro e Paolo, cui peraltro Tacito non fa cenno. • Nonostante l’avversione dell’autore sia per Nerone sia per i cristiani, Tacito, con onestà intellettuale, non sembra credere né ai sospetti che aleggiano sull’imperatore di aver procurato l’incendio né, tanto meno, alla possibilità che i cristiani si siano macchiati di tale atto. Lo esclude anzi decisamente: aggiungendo anzi, nel finale, che proprio perché ritenuti innocenti, i cristiani venivano fatti segno di «un sentimento di compassione» da parte della gente comune. Lo storico latino è per noi l’unica fonte che ci parli di questa prima persecuzione anticristiana a Roma: probabilmente essa non fu una sistematica repressione del cristianesimo da parte dell’impero, come sarebbe avvenuto tre decenni più tardi, al tempo di Domiziano, ma un più passeggero scoppio d’intolleranza, dovuto a una scelta contingente da parte di Nerone, dettata da opportunità politica.
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• La fonte tacitiana è molto interessante anche per altri aspetti. Tacito da un lato attesta l’innocenza dei cristiani a proposito dell’incendio, ma dall’altro, in linea con la mentalità dominante, condivide l’ostilità verso questo culto di origine orientale: i termini infatti che egli attribuisce al cristianesimo non si differenziano da quelli usati da altri autori pagani dell’epoca, come Plinio o Svetonio: dice che i cristiani erano «odiati per i loro crimini»; parla della loro fede come di una «malefica superstizione», li accusa di odiare il genere umano; e ancora nel finale sottolinea che i cristiani erano «gente colpevole e che si meritava le peggiori punizioni». Qui l’autore evidenzia tutto il suo disprezzo, da uomo colto e raffinato, verso una religione che autorizza e istiga ai crimini (in latino flagitia). Dietro a questo termine si possono riconoscere le accuse di infanticidio, immoralità e promiscuità sessuale comunemente formulate, all’inizio del II secolo (epoca in cui Tacito scrisse gli Annali) dall’opinione pubblica pagana, che non riusciva a comprendere né ad accettare la radicale novità del cristianesimo. • Particolarmente rilevante è il brevissimo excursus che Tacito inserisce sulla nascita della «malefica superstizione»: egli infatti afferma che il fondatore di tale pericolosa dottrina era stato un certo «Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio capitale per ordine del procuratore Ponzio Pilato». Si tratta della prima attestazione di parte pagana della storicità dell’esistenza di Gesù.
Rifletti e rispondi 1. Perché Nerone accusa i cristiani di aver incendiato Roma?
2. E quale accusa muove, invece, il popolo al principe?
3. Tacito crede oppure no alle due accuse? Cerca entrambe le risposte nel testo. 4. A quali tipi di supplizi Nerone sottopone i cristiani? Perché l’imperatore ricorre a forme così infamanti?
5. Nel brano vi è un breve cenno a un tema molto caro a Tacito: la corruzione morale della città di Roma, che la rende incapace a opporsi alla penetrazione di elementi stranieri. Dove possiamo riscontrare tale riferimento? Commentalo con le tue parole.
6. Dove e quando visse Gesù, secondo la versione di Tacito? Cerca nel testo la risposta. 7. L’opinione che Tacito manifesta verso i cristiani rende più preziosa, da un punto di vista storico, la sua testimonianza. Perché? Ipotizza una risposta.
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6 Perseguitare i Cristiani? La lettera di Plinio all’imperatore Traiano Plinio il giovane, Epistolario, X, 96 Gaio Plinio Cecilio Secondo (61 o 62-113 d.C.) fu uno dei più brillanti letterati di età domizianea e traianea. Sotto Domiziano compì una discreta carriera politica; poi l’amicizia con il nuovo imperatore Traiano gli permise di ottenere il consolato nel 100 e nel 111-112 il ruolo di governatore della Bitinia, regione settentrionale dell’Asia Minore. Di Plinio ci è arrivato il Panegirico, cioè il discorso di ringraziamento all’imperatore per la carica concessagli, e inoltre un ampio epistolario in dieci libri. Nel decimo e ultimo libro dell’epistolario, sono raccolte le lettere che Plinio inviò dalla Bitinia a Traiano, inerenti problemi vari. Tra tutte, spicca l’epistola 96: in essa Plinio espone la situazione dei cristiani della sua provincia e chiede lumi a Traiano circa l’atteggiamento più opportuno da tenere nei loro confronti.
È mia abitudine, o signore, deferire al tuo giudizio tutti i casi sui quali rimango incerto. [...] Non ho mai preso parte a nessun’istruttoria sul conto dei cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti ed i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo1 dimostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serve a nulla l’avervi rinunciato; se si debba punire il nome in sé stesso2, anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome3. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta ed una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavo che fossero messi a morte. Ero infatti ben convinto che, qualunque fosse l’argomento della loro confessione, almeno la loro caparbietà e la loro inflessibile cocciutaggine dovevano essere punite [...]. Mi parve conveniente rimandare in libertà quelli che negavano di essere cristiani o di esserlo stati, quando invocavano gli dèi ripetendo le frasi che io formulavo per primo e veneravano, con un sacrificio d’incenso e di vino, la tua immagine [...]: sono tutti atteggiamenti ai quali è opinione comune che non si possano indurre quanti sono effettivamente cristiani. Altri, che erano stati denunziati da un delatore, dapprima proclamarono di essere cristiani, ma poco dopo lo negarono [...]. Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito4 prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio ed obbligarsi con giuramento, non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i proprii impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto ed innocente5; avevano 1. d’uopo: necessario. 2. il nome in sé stesso: cioè la semplice appartenenza alla «sètta» dei cristiani. 3. oppure le turpitudini... nome: o soltanto i delitti compiuti a causa dell’appartenenza al gruppo dei cristiani. 4. giorno stabilito: la domenica. 5. ed innocente: Plinio lo sottolinea, perché invece, secondo alcune dicerie popolari, i cristiani si macchiavano di cannibalismo e altri delitti.
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però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata6. Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere. Mi è parsa infatti una questione in cui valesse la pena domandare il tuo punto di vista, soprattutto in considerazione del gran numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo: molti di ogni età, di ogni ceto sociale, persino di entrambi i sessi vengono trascinati, e lo verranno ancora, in una situazione rischiosa. L’epidemia di questa deleteria superstizione è andata diffondendosi non solo negli agglomerati urbani, ma anche nei villaggi e nelle campagne; però sono d’avviso che si possa ancora bloccare e riportare sulla giusta via. (trad. di F. Trisoglio) 6. una superstizione balorda e squilibrata: è il consueto giudizio sui cristiani che leggiamo anche in Tacito (Annales XV, 44, 3) e in Svetonio (Vita di Nerone 16, 2).
Analizziamo il testo • L’epistola di Plinio a Traiano è la più antica testimonianza della letteratura latina pagana sulla vita degli antichi cristiani: venne scritta ad Amastri o ad Amiso, città sulla costa orientale del mar Nero, fra il 18 settembre e il 3 gennaio del secondo anno di governo di Plinio in Bitinia, equivalente a un anno compreso tra il 110 il 113. • Plinio si prende la briga di scrivere a Traiano per chiedergli consigli su come comportarsi nei confronti dei cristiani. Il governatore ammette infatti di non avere alcuna esperienza di simili situazioni. Possiamo da ciò dedurre due cose: a) a quel tempo erano già frequenti i processi contro i cristiani; b) tali processi, peraltro, si svolgevano in mancanza di una legge chiara e univoca. • Descrivendo il proprio comportamento, Plinio mostra di aver seguito una prassi comune al suo tempo: le autorità romane imponevano ai cristiani di sacrificare agli dèi pagani di Roma, di elevare suppliche con incenso e vino all’immagine dell’imperatore e di maledire Cristo, per dar prova di essersi distaccati in tutto dalla fede cristiana. Anche Plinio considera negativamente il cristianesimo, così come facevano, al suo tempo, tutti (o quasi) gli aristocratici romani. Egli però sembra non credere alle dicerie diffuse dall’opinione pubblica: non riconosce i crimini di cannibalismo, di incesto e di promiscuità che generalmente venivano attribuiti ai cristiani. Il governatore della Bitinia constata semplicemente che ci si trova di fronte a una «superstizione balorda e squilibrata». Dunque propende ad agire con cautela e anche con un atteggiamento di clemenza verso i cristiani, a patto che rinneghino le loro posizioni e ritornino al culto degli dèi tradizionali.
Rifletti e rispondi 1. Plinio pone a Traiano tre richieste ben precise, che sono sintetizzate nel primo capoverso: riassumile con le tue parole.
2. Quale procedura ha seguito Plinio a carico di quanti venivano denunciati come cristiani? Quali provvedimenti ha preso contro di loro?
3. A quali mezzi il governatore ha fatto ricorso per saggiare l’appartenenza al culto cristiano degli accusati?
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4. Come si è finora comportato nei confronti dei “delatori” e delle denunce anonime? Spiega, brevemente, cosa significa delatore.
5. Perché Plinio ha deciso di rivolgersi a Traiano, invece di continuare a comportarsi come ha fatto finora?
6. La lettera di Plinio descrive le pratiche di culto della comunità cristiana. Illustrale brevemente con le tue parole in massimo dieci righe.
7. Secondo te, quale giudizio complessivo sulla nuova religione emerge dal testo? Positivo, negativo o neutro? Motiva la risposta.
8. Sulla lettera di Plinio esprimerà questo giudizio Alessandro Manzoni nel cap. VII delle Osservazioni sulla morale cattolica (1845):«Ma, in fatto di barbarie, qual cosa mai poteva essere indegna d’un secolo in cui un magistrato [Plinio], celebre per coltura d’ingegno e per dolcezza di carattere, domanda per sua regola se è il nome solo di cristiano che s’abbia a punire, quantunque senza alcun delitto, o i delitti che porta con sé questo nome?...». Sei d’accordo con Manzoni? Perché?
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7 L’ambigua risposta dell’imperatore Traiano Plinio il giovane, Epistolario, X, 97 La risposta (conosciuta come rescritto) di Traiano a Plinio propone una soluzione di compromesso e piuttosto ambigua. L’imperatore non condanna apertamente i cristiani, ma neppure accetta la libera diffusione del culto.
Caro Plinio, la pista che hai seguita nell’istruire i processi contro quelli che ti sono stati deferiti come cristiani è proprio quella alla quale dovevi attenerti. Non si può infatti stabilire una norma generale che assuma quello che si potrebbe chiamare un carattere rigido. Non si deve prendere l’iniziativa di ricercarli; qualora vengano denunciati e convinti, bisogna punirli, con quest’avvertenza però, che, chi neghi di essere cristiano e lo faccia vedere con i fatti, cioè tributando atti di culto ai nostri dèi, quantunque per il passato abbia suscitato sospetti, ottenga indulgenza in grazia del suo ravvedimento. Riguardo poi alle denunce anonime, non debbono essere prese in considerazione in nessun procedimento giudiziario: testimoniano una prassi abominevole che non s’addice per nulla ai nostri tempi. (Trad. di F. Trisoglio) Analizziamo il testo • La risposta di Traiano rimane volutamente generica sui tre punti sollevati da Plinio all’inizio della sua lettera. L’imperatore si sofferma su questioni più generali: a) i cristiani non devono essere ricercati (e, a maggior ragione, non devono essere perseguitati); b) non si deve dare seguito a denunce anonime; c) però «qualora vengano denunciati... bisogna punirli»; d) ma se mostrano di ravvedersi, vanno perdonati e rimessi in libertà. • Da questa risposta di Traiano non sembra emergere quindi il timore che il cristianesimo possa costituire una reale minaccia per lo Stato romano. Il principe opta per una posizione di equilibrio «strategico» che non scontenti le due posizioni contrapposte: non va contro le richieste di un paganesimo intransigente, che non avrebbe mai accettato un riconoscimento del nuovo culto; ma neppure opta per un attacco frontale al cristianesimo, una fede che all’inizio di quel II secolo si stava rapidamente diffondendo nell’impero. • Questa risposta di Traiano a Plinio non costituiva, di per sé, una disposizione valevole per tutto l’impero, ma solo un suggerimento di azione nel caso specifico della Bitinia. Tuttavia il rescritto traianeo divenne un importante precedente per le azioni successive di governatori e di imperatori. Esso consentì, grazie alla genericità della sua posizione, le interpretazioni più diversificate: qualche governatore se ne servì per legittimare il nuovo culto; altri, i più, si basarono sul rescritto per dar fondo a condanne e persecuzioni dei cristiani. • Gli apologisti (difensori) cristiani, dal canto loro, citeranno spesso e volentieri la risposta di Traiano a Plinio come una base giuridica per chiedere alle autorità romane il riconoscimento ufficiale del culto. Tale riconoscimento, però, sarebbe giunto solo due secoli più tardi, con l’Editto di Milano del 313.
Rifletti e rispondi 1. Ti sembra che la risposta di Traiano contenga tutte le risposte ai dubbi di Plinio? Perché?
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2. Quale giudizio Traiano formula sul comportamento del governatore?
3. E piÚ in generale, quali considerazioni l’imperatore esprime sul conto dei cristiani?
4. Come ritiene opportuno risolvere la questione delle delazioni (spiate, tradimenti) e delle denunce anonime?
5. Confronta il tono della lettera di Plinio con quello della risposta di Traiano: quali differenze rilevi? Cita qualche passaggio significativo dei due testi.
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8 L’EDITTO DEI PREZZI DI DIOCLEZIANO Diocleziano, Edictum De Pretiis Rerum Venalium (301), edito da M. Giacchero, Genova, 1974 Nel 301 Diocleziano e Massimiano (quest’ultimo era allora «augusto», cioè co-imperatore) emanarono il celebre Editto sui prezzi, nella speranza di arginare l’inflazione crescente in molte regioni dell’impero. Si tratta di un documento importante, non solo perché indica a quanto gli imperatori stimassero dovesse ammontare il prezzo massimo di molte merci, ma soprattutto perché mostra il fallimento della pretesa di imbrigliare la realtà, in questo caso del mercato economico, da parte di un potere del resto quasi assoluto come quello degli imperatori romani all’inizio del V secolo.
Abbiamo deciso di fissare non i prezzi delle merci, che potrebbe apparire ingiusto dato che molte province fruiscono di prezzi bassi [...], ma un massimo in maniera che, in caso di aumento, la cupidigia, la quale come campo aperto all’infinito non potrebbe essere contenuta, sia frenata dai limiti imposti dal nostro decreto o con i divieti d’una legge moderatrice. Stabiliamo pertanto che in ogni parte del nostro impero siano rispettati i prezzi elencati nel testo sotto riportato. Si sappia tuttavia che se è tolta la facoltà di superarli, non è vietato di fruire, là dove ci sia abbondanza di merci, di bassi prezzi, dei quali ci si occuperà quando la cupidigia sarà del tutto repressa. Essendo poi noto che, anche in passato, sanzioni rivolte a eliminare gli abusi accompagnano sempre le leggi — è rara infatti nell’uomo l’accettazione spontanea di una regola rivolta a fargli del bene e sempre è il timore a persuaderlo a compiere il proprio dovere — stabiliamo che quanti contravvengano audacemente alle norme del decreto siano condannati a morte. Non si giudichi questo un decreto rigoroso; osservandolo se ne evitano le pene previste. Uguale sanzione colpirà anche chi, indotto dal desiderio di fare acquisti, approfitterà della cupidigia del venditore per violare di comune accordo la legge. Uguale punizione tocca a chi, appena reso noto il decreto, ritirerà dal mercato le scorte di generi alimentari e di beni di prima necessità; gli spetterebbe anzi, rispetto a coloro che mantengono la penuria dei beni aggirando la legge, una punizione ancora maggiore per il fatto di esserne la causa prima. Questa legge è emanata per il bene comune e per questa ragione esortiamo tutti a rispettarla con arrendevolezza benevola e con ogni scrupolo, tanto più che il decreto non riguarda solamente una città, un popolo, una provincia, ma il mondo intero alla cui rovina, lo sappiamo, mirano alcuni uomini che mai sono sazi nell’ammassare ricchezze e la cui avidità mai sa placarsi. [...] Una libbra1 d’oro vale 50000 denari. Un moggio castrense2 di grano: 100 denari. Una libbra di carne suina: 12 denari. Un uovo: 1 denario. Un sestario3 di vino comune: 8 denari. Una giornata di un operaio agricolo: 25 denari. Una giornata di un muratore: 50 denari. Una giornata di un imbianchino: 75 denari. L’arringa di un avvocato: 1000 denari. Il salario di un insegnante: 250 denari al mese (per scolaro). 100 righe di buona trascrizione: 25 denari. 100 righe di scrittura comune: 20 denari. Un leone da anfiteatro: 150 000 denari 1. Libbra: unità di misura del peso corrispondente a circa 300-500 grammi. 2. moggio castrense: unità di misura della capacità corrispondente a circa 17,5 litri. 3. sestario: unità di misura della capacità corrispondente a circa 1/2 litro.
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Analizziamo il testo • L’Editto del 301 poneva un limite sui prezzi per tutti i prodotti commerciabili nell’impero. L’obiettivo di Diocleziano non era quello di «congelare» i prezzi a un solo livello, ma solo di segnarne i maxima, ovvero i massimi prezzi di mercato, oltre i quali determinati beni non avrebbero potuto essere venduti. Tali beni includevano prodotti alimentari (carne, uova, grano, vino, ecc.), abbigliamento, le spese di trasporto per i viaggi in mare, gli stipendi settimanali e molte altre cose ancora. Il prezzo più alto era quello fissato per un leone, equivalente alla stessa cifra (150.000 denari) di una libbra di seta colorata con la porpora. • Peraltro l’Editto dioclezianeo non risolse il problema della crescita dei prezzi. Infatti la massa totale delle monete coniate (vera causa dell’inflazione) continuò ad aumentare; non solo: i prezzi massimi che erano stabiliti dall’Editto risultarono troppo bassi. Esso spinse invece a interrompere gli affari e il commercio: i mercanti smisero di trafficare le merci, oppure le vendevano illegalmente al mercato nero (che in quegli anni si estese molto); in molti casi si ritornò all’antico sistema del baratto. • Per quanto riguarda gli stipendi, coloro che avevano stipendi fissi (in particolare i soldati) trovarono che il loro salario era aumentato, ma aveva perduto parecchio valore, poiché quei prezzi artificiali non riflettevano i costi reali. Si produsse quindi una vera e propria “paralisi” dell’economia nell’impero. Alla fine del regno di Diocleziano, nel 305, l’Editto risultava di fatto ignorato; l’economia cominciò a dare segni di rinascita (e di stabilizzazione dei prezzi) solo un decennio più tardi, sotto Costantino.
Rifletti e rispondi 1. Cosa afferma l’Editto a proposito della cupidigia?
2. Perché Diocleziano dice di aver fissato un prezzo massimo e non un prezzo minimo?
3. Quale pena prevede l’Editto per i trasgressori?
4. L’Editto elenca tre tipi di possibili trasgressori: individuali nel testo. A chi dovrebbe spettare una punizione ancora maggiore di quella fissata per i trasgressori dell’editto?
5. A quale grave pericolo Diocleziano vuole reagire? Chi sono gli uomini che mirano alla rovina dell’impero?
6. Il sovrano pensa di agire per il bene dei cittadini (o quantomeno dell’impero): - sottolinea i passaggi del testo che testimoniano questo concetto; - ora rifletti: quale opinione degli uomini viene espressa? Ti sembra positiva o negativa? 7. Riassumi sul quaderno in una breve scheda: - il periodo di regno di Diocleziano - gli atti di governo più importanti da lui compiuti.
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9 La fede cristiana da libero culto a religione di Stato Editto di Milano (Lattanzio, Le morti dei persecutori, 48) Editto di Tessalonica (Codice Teodosiano, XVI, 1, 2) In meno di un secolo (il IV d.C.) il cristianesimo divenne prima un culto libero al pari di tutti gli altri, e poi la religione ufficiale dello Stato romano. Leggiamo i due documenti che sancirono questo passaggio: a) il primo è l’Editto di Milano, promulgato nel febbraio del 313 da Licinio e Costantino, allora co-imperatori; b) il secondo è l’Editto di Tessalonica, del 380, firmato dagli «Augusti» di allora, cioè da Teodosio per la parte orientale dell’impero e, per la parte occidentale, da Graziano e dal suo giovanissimo fratello Valentiniano II.
Editto di Milano (313) Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, pacificamente ci incontrammo vicino a Milano, abbiamo discusso su come meglio giovare al popolo. Perciò decidemmo di regolare le cose che riguardano la religione e i riti. Perciò concediamo anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione preferita, affinché tutti gli dèi che dimorano in cielo possano essere benevoli e propizi a noi e ai nostri sudditi. […] Ritenemmo pertanto con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ciascuno reputi la più adatta a se stesso. Così che la somma divinità, il cui culto osserviamo in piena libertà, possa darci completamente il suo favore e la sua benevolenza. Perciò è opportuno che si sappia, Costantino, che io, Licinio, sono d’accordo col tuo editto, cosicché, abolite del tutto le precedenti disposizioni imperiali concernenti i cristiani, ora, invece, in assoluta tranquillità, tutti coloro che vogliano osservare la religione cristiana possano farlo senza alcun timore o pericolo di molestie. Editto di Tessalonica (380) Graziano, Valentiniano e Teodosio, imperatori Augusti. Editto per il popolo di Costantinopoli. Vogliamo che tutti i popoli sotto il nostro buon governo aderiscano alla religione predicata dal santo apostolo Pietro ai romani; la religione praticata dal vescovo Damaso e dal vescovo di Alessandria, Pietro, uomo santo. In conformità all’insegnamento degli apostoli e alla dottrina dei Vangeli, si deve credere che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio, di pari potenza e che costituiscono la Trinità divina. Pertanto ordiniamo che tutti quelli che seguono questa fede si chiamino cristiani cattolici, e, poiché crediamo che gli altri siano dementi e insani, vogliamo che essi subiscano l’onta dell’eresia […]. Essi saranno colpiti dapprima dalla vendetta divina e poi anche dalla nostra ira che discende dalla volontà celeste. Dato in Tessalonica, il 3 delle calende di marzo, da Graziano e Teodosio. 1. Damaso: vescovo di Roma, cioè papa, dal 366 al 384. 2. Alessandria: dal 325, con il Concilio di Nicea, la sede vescovile di Alessandria era stata proclamata seconda solo dopo Roma, per autorità sui fedeli. 3. un solo Dio... la Trinità divina: è la formula «cattolica» della fede, in contrasto con l’arianesimo (per il quale il Figlio non è pari al Padre).
Analizziamo il testo • L’Editto di Milano sottolinea le necessità civili del governo («abbiamo discusso su come meglio giovare al popolo»); su questa base i due Augusti hanno deciso di concedere la libertà di culto. Interessanti, e vicine alla nostra sensibilità moderna, le espressioni con le quali l’Editto garantisce la libertà religiosa a tutti: «concedia-
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mo anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione preferita». • Per il momento, nell’Editto di Milano, la fede cristiana non è ancora quella prevalente o privilegiata. Si nota nel testo, anzi, una persistente impostazione pagana, visto che i due príncipi rivolgono un pensiero riverente a «tutti gli dèi che dimorano in cielo», affinché «possano essere benevoli e propizi a noi e ai nostri sudditi». • L’Editto di Tessalonica nasce da una impostazione assai diversa. Non contiene semplicemente una legge civile; s’impegna in una definizione di tipo religioso sulla natura di Dio e sul mistero della Trinità («Si deve credere che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio»). Ciò, ovviamente, voleva colpire gli eretici che in vario modo negavano la divinità di Cristo. • Contro chi non aderisce a tale dottrina, l’Editto di Tessalonica prospetta la punizione di Dio (l’«onta dell’eresia») oltreché quella dello Stato («la nostra ira»). L’ultima sottolineatura riguarda la fonte divina dell’autorità («...nostra ira che discende dalla volontà celeste ») concessa ai tre «Augusti» dell’impero.
Rifletti e rispondi 1. Qual era la condizione della Chiesa prima di Costantino? Riassumi il quadro storico sul quaderno in massimo dieci righe. 2. E qual era invece la condizione della Chiesa al tempo di Teodosio? Anche qui hai a disposizione sul quaderno massimo dieci righe. 3. Spiega adesso brevemente quando vissero e quale ruolo storico ebbero i seguenti due personaggi: - Licinio - Graziano 4. «Abolite del tutto le precedenti disposizioni imperiali concernenti i cristiani», si legge in uno dei due Editti. Ritrova l’espressione e spiegala: a quali disposizioni si fa qui riferimento?
5. È possibile dire, a tuo avviso, che l’Editto di Milano si ispiri a un criterio di tolleranza religiosa? • In primo luogo, cerca di chiarire che cosa significa questa espressione. • Poi motiva la tua risposta: sì o no?
6. L’Editto di Tessalonica contiene una professione di fede religiosa. Quale eresia viene, implicitamente, rifiutata? Perché?
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10 Un popolo «quasi bestiale»: gli Unni nella visione di Ammiano Marcellino Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 2-3 Ammiano Marcellino fu l’ultimo grande storico pagano di Roma. Nella sua vasta opera storica Res Gestae (“Le imprese”, composta intorno al 380-390), Ammiano giunge a occuparsi del popolo degli Unni: il più recente tra i protagonisti appena affacciatisi al palcoscenico della storia europea. Questa pagina di Ammiano è molto significativa per documentare sia lo stupore verso un popolo così diverso, sia il senso di superiorità culturale che la cultura romana avvertiva verso l’«inciviltà» di quei nuovi venuti.
Gli unni: una gente barbara oltre ogni immaginazione vive ai bordi del Mar Glaciale1. Quando nascono, le guance gli vengono incise da profondi tagli perché il pelo si perda nelle cicatrici e invecchino senza barba. Sono tarchiati, robusti, grossi di collo, con qualcosa che incute timore. Ad un aspetto che, seppure deforme, è pur sempre umano, corrispondono abitudini quasi bestiali. Il loro cibo non ha bisogno né di fuoco né di condimento e consiste in radici d’erbe selvatiche e nella carne del primo animale che capiti a tiro, da far frollare un po’, tenendola sotto le cosce mentre cavalcano. Mai che si trovino all’interno di qualche edificio: anzi comunemente, rifiutano le case come se fossero tombe e questo al punto di non avere nemmeno delle capanne di canne. Coperti di indumenti di lino o di pelli cucite insieme, non hanno una veste per quando si trovano in casa e un’altra per quando escono. [...] Poco adatti a combattere a piedi, se ne stanno come inchiodati ai loro cavalli e sulle loro groppe sbrigano ogni faccenda: dal vendere al comprare, dal mangiare al bere e, allungati sul collo della loro bestia, persino al dormire. Ed è sempre a cavallo che si consultano e prendono le decisioni per la loro comunità, senza cerimonie, seguendo la guida dei migliori di loro. Nessuno di loro lavora la terra o tocca un aratro. Tutti viaggiano senza meta, senza tetto, senza leggi, senza sicurezza di cibo, continuamente in fuga su quei carri a due ruote che sono la loro casa, dove la donna mette insieme squallidi vestiti, partorisce e nutre i figli. Nel combattere vanno contro il nemico lanciando cupe grida. Sono pronti e imprevedibili sia nella difesa che nell’attacco: non si schierano mai in ordine fisso e seminano la strage con grandissima velocità. Viene da giudicarli tra i più terribili guerrieri della terra perché, sicuri dei loro colpi da lontano (una pioggia di dardi dall’acuta punta d’osso, anziché di ferro), sono coraggiosissimi nel corpo a corpo e sanno legare gli avversari dentro una cinghia di cuoio in modo da paralizzarne ogni movimento e questo lo fanno mentre scansano i colpi di spada. 1. mar Glaciale: le coste settentrionali della Russia asiatica. La localizzazione è però inesatta: gli unni provenivano dall’Asia centrale.
Analizziamo il testo • La pagina di Ammiano Marcellino è importante anche aldilà della storicità delle notizie che ci fornisce. Essa infatti ci documenta – più che un ritratto attendibile degli unni – l’immagine, o meglio, la fama sinistra che, nel giro di pochi anni, aveva preso a circondarli nell’immaginario collettivo. • L’autore parte da due considerazioni: - l’aspetto degli unni è deforme, le abitudini di vita sono quasi bestiali; - d’altra parte, Ammiano deve ammettere che si tratta di uomini (il loro aspetto, «seppure deforme, è pur sempre umano»). • Su queste basi l’autore propone un ritratto per antitesi. Pur essendo uomini, gli unni sono ai confini dell’umanità, quasi fuori di essa, per più aspetti: - infatti mangiano cibi crudi (come gli animali selvatici) e non cotti;
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- mancano completamente di barba, che presso gli altri popoli era un segno di dignità; - vivono perennemente a cavallo, quasi confondendosi con l’animale stesso; - sono assolutamente nomadi: non conoscono agricoltura, continuano a viaggiare; - ma tutto ciò essi lo fanno « senza meta, senza tetto, senza leggi». • L’unico aspetto positivo, su cui l’autore si sofferma, è l’abilità militare degli unni, guerrieri molto aggressivi e temibili.
Rifletti e rispondi 1. Cerca di ricavare dal testo le informazioni salienti riferibili a questi aspetti: • l’organizzazione sociale degli unni; • l’autorità politica: chi la esercita? • le loro attività e occupazioni; • i valori a cui essi danno importanza. Scrivi un tuo breve testo di sintesi.
2. La pagina di Ammiano è indicativa di uno stereotipo, cioè di un pregiudizio culturale: figlio di una cultura che si presenta come «civile», lo scrittore giudica gli unni alla luce dei suoi criteri. Quali sono gli elementi di maggiore «inciviltà» che colpiscono Ammiano?
3. L’importanza dell’avvento degli unni sulla scena europea è anche dovuta alla reazione a catena che il loro arrivo scatenò. Riassumi gli eventi fondamentali rispondendo a queste domande: • Da dove provenivano gli unni?
• Quando apparvero sulla scena europea?
• Quale conseguenza fu scatenata dal loro arrivo?
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11 LA FIGURA DELL’ABATE NELLA REGOLA DI S. BENEDETTO San Benedetto, Regola, cap. 2 Leggiamo il capitolo II della Regola di san Benedetto. È quello dedicato a descrivere la figura e i compiti dell’abate, il capo del monastero.
L’Abbate che è degno di presiedere al Monastero, sempre deve ricordarsi del nome che porta, e deve corrispondere con i fatti al suo nome di superiore. Pertanto nulla, mai, l’Abate dovrà o insegnare o stabilire e comandare, che sia estraneo al precetto del Signore. [...] Egli fa in monastero le veci di Cristo, chiamato com’é col suo stesso nome: ecco le parole dell’Apostolo1: ‘Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!’. Quando qualcuno assume il titolo di abate, deve esercitare il suo governo sui propri discepoli con duplice insegnamento, mostrando cioè tutto ciò che è buono e santo più con i fatti che con le parole; di conseguenza, ai discepoli in grado di intenderli deve spiegare verbalmente i comandamenti di Dio, mentre a quelli duri di cuore e piuttosto rozzi è con l’esempio del suo agire che deve insegnare i precetti del Signore. [...]. Per lui in monastero le persone siano, senza distinzione, tutte uguali. Non ami uno più di un altro, a eccezione di chi si rivelerà migliore operando bene e obbedendo. A chi entra in monastero da schiavo non preferisca l’uomo libero, a meno che non sussista un motivo ben fondato. […] L’abate deve alternare, secondo le diverse circostanze, il rigore con la dolcezza; mostri ora l’atteggiamento severo del maestro, ora quello amorevole del padre. Deve rimproverare gli indisciplinati e gli irrequieti; quelli, invece, ben disposti all’obbedienza, alla mitezza e alla pazienza, deve scongiurarli a migliorare. [...] Ed egli stesso si fa puro dai vizii nel momento in cui porge a un altro – con i suoi insegnamenti – la correzione. 1. dell’Apostolo: cioè di san Paolo. Le parole che seguono provengono dalla lettera di Paolo ai Romani (cap. 8).
Analizziamo il testo • San Benedetto tratteggia la figura dell’abate di un monastero benedettino sottolineando la dimensione religiosa di tale incarico, come emerge dal richiamo iniziale a Cristo. Tuttavia non mancano le indicazioni pratiche, relative cioè all’esercizio concreto e «terreno» di tale carica. In tale duplice dimensione vibra la natura assieme cristiana e «romana» del monachesimo occidentale: un’isola religiosa dedicata a Dio, ma anche un luogo di socialità e di lavoro. • L’abate, dice la Regola, dovrà essere una figura autorevole, un punto di riferimento per i suoi monaci, ma non una figura autoritaria, tale cioè da esigere obbedienza senza però dare nulla in cambio. Egli dovrà insegnare ai monaci la vita della fede, dandone personalmente l’esempio (secondo capoverso) e alternando severità a dolcezza (quarto capoverso). • Molto interessante, nel terzo capoverso, la sottolineatura del fatto che, in un monastero benedettino, tutti sono «uguali». Si trattava di una riflessione nient’affatto scontata per un mondo, com’era quello del VI secolo, attraversato da mille divisioni (di etnia, di religione, di posizione sociale) e ostilità. Ebbene, in un contesto del genere, Benedetto prefigura una civiltà diversa e pacifica, improntata al criterio dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio.
Rifletti e rispondi 1. Perché l’abate si chiama così? • In che modo la Regola di san Benedetto motiva questo nome?
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• Prova a tradurre «abate» con le tue parole:
2. Il testo raccomanda il buon esempio: in quale punto e perché?
3. Il testo parla di «duplice insegnamento». In cosa consiste?
4. Secondo te, il testo si riferisce a una comunità di monaci perfetti e santi, oppure no? Spiega in breve la tua risposta.
5. Riassumi in 3 aggettivi le qualità dell’abate, secondo il testo. Puoi usare gli aggettivi del testo o altri, a tua scelta. •
perché
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12 Il concetto di «guerra santa» nelle fonti dell’Islam Il Corano, Sura 2, 190-193 Al Farabi, Aforismi, in B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra nell’Islam, Sansoni, Firenze Non si può negare che «il dovere religioso del jihad aveva accompagnato l’impressionante esplosione militare del VII secolo, creando le condizioni per l’espansione dei grandi imperi musulmani»; a questa conclusione giunge lo storico Peter Partner, autore del saggio Il Dio degli eserciti (Einaudi, 1997), dedicato a studiare i rapporti fra religione (cristiana e islamica) e guerra nel Medioevo. Tuttavia la relazione tra fanatismo religioso e guerra santa di conquista va esaminata in modo approfondito, con l’aiuto delle fonti. Leggiamo quindi due testi: il primo è tratto dal Corano, il secondo dagli scritti di un filosofo arabo del IX secolo, Al Farabi. Potremo così capire come, all’interno dell’islam, le posizioni su tale questione fossero più problematiche e complesse di quanto possa apparire a prima vista.
Il Corano Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi perché Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti. Se però cessano, allora Allah è perdonatore e misericordioso. Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia reso solo ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte coloro che prevaricano. Al Farabi Quando il santo guerriero rischia la vita, non lo fa pensando che forse non morirà, perché sarebbe cosa sciocca, e neppure lo fa restando indifferente al fatto se vivrà o morrà, perché questo sarebbe incoscienza. Egli pensa piuttosto che c’è una possibilità di morire e una di sopravvivere: perciò non è né ansioso di morire, né angosciato se il destino fatale lo coglie, però non rischia la vita pensando e supponendo che otterrà ciò che desidera senza pericolo. Rischierà la vita, semmai, sapendo che potrà perdere o non ottenere ciò che desidera se non si espone; penserà cioè che, agendo in un dato modo, otterrà quanto vuole, o che la gente della sua città, lo otterrà senza dubbio come conseguenza della sua azione, sia che egli muoia o viva: nel primo caso egli condividerà quanto auspicato con gli altri, nel caso opposto lo otterranno gli altri, ed egli avrà la felicità per i suoi meriti e per il suo sacrificio. Analizziamo il testo • Il primo testo espone il valore della guerra per la difesa e per l’affermazione dell’islam. Sono presenti in questo passo indicazioni molto crude («Uccideteli ovunque li incontriate»); nel complesso, vi troviamo una giustificazione morale della guerra religiosa. Nello stesso passo leggiamo che «la persecuzione è peggiore dell’omicidio»: ciò significa che il divieto di commettere omicidio (un divieto ben presente nel Corano) cessa, se si tratta di lottare contro la persecuzione dell’islam. • Ma da più particolari risulta chiaro il carattere «difensivo» della guerra descritta qui dal Corano. Essa poggia infatti su elementi di reciprocità: «combattete [...] coloro che vi combattono», «scacciateli da dove vi hanno scacciato». Il testo inoltre tende, come in altre parti del Corano, a limitare gli eccessi: «Se però cessano, allora Allah è perdonatore e misericordioso». • Non ci stupisce che su queste basi si siano sviluppate nel mondo islamico, soprattutto a partire dal IX secolo, letture diverse dalle interpretazioni che privilegiavano gli aspetti di conquista. Frutto di tale ripensamento è il testo, qui riportato, di Al Farabi, insigne matematico e filosofo, morto a Damasco nel 950. Ad animare l’ardore del guerriero islamico, dice l’autore, non è un cieco fanatismo: egli è guidato, invece, dalla consapevolezza dei
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rischi della guerra, ma anche dalla responsabile accettazione di essi. Ciò che deve prevalere, in ogni caso, è il bene della comunità: se anche perde la vita, il guerriero sa che le sue gesta andranno a favore della «gente della sua città».
Rifletti e rispondi 1. Sottolinea nel primo testo la frase o l’espressione che ritieni più significativa per riassumere il senso dell’intero testo. Poi motiva in breve la tua scelta.
2. Ripeti adesso l’operazione con il secondo testo.
3. Qual è «la ricompensa dei miscredenti» secondo il Corano?
4. Individua nella Sura del Corano tutte le cautele e i divieti che devono frenare, in determinate circostanze, il guerriero islamico.
5. Che cosa significa «incoscienza», secondo Al Farabi?
6. Il testo di Al Farabi contempla due casi differenti: quali?
7. Spiega con le tue parole il concetto di fanatismo religioso. Poi rifletti se esso si può applicare o meno ai due testi letti, distinguendo tra il primo e il secondo.
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13 L’INVASIONE DEI LONGOBARDI NEL RACCONTO DI PAOLO DIACONO Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, libro II passim Il brano è tratto dalla Historia Langobardorum (“Storia dei Longobardi”) di Paolo Varnefrido, detto Paolo il Diacono, scritta nel 774, nell’epoca, cioè, in cui i franchi avevano abbattuto il regno longobardo. Si tratta in ogni caso di un documento storico di grande importanza, trattandosi dell’unica fonte storica diretta in nostro possesso che ci parli dell’invasione dei longobardi nella penisola italica e del primo periodo del loro dominio. I longobardi, sotto la guida di Alboino, entrarono in Italia nel 568.
I longobardi, pertanto, abbandonata la Pannonia, con le mogli e con i figli e ogni masserizia avanzano verso l’Italia per impadronirsene. Avevano abitato la Pannonia per 42 anni; ne uscirono in aprile [...], due giorni dopo la Pasqua, [...] quando già erano trascorsi 568 anni dall’Incarnazione di Nostro Signore. Re Alboino dunque con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo, uomini e donne, giunse ai confini dell’Italia [...]. Di qui Alboino, entrato nei territori della Venezia, che è la prima provincia dell’Italia, senza alcun ostacolo s’impadronì di Cividale del Friuli [...]. Alboino conquista intanto Vicenza, Verona e altre città della Venezia [...]. Penetrato in Liguria, [...] il 9 novembre [569], al tempo dell’arcivescovo Onorato, Alboino entrò in Milano. Quindi conquistò tutte le città della Liguria, eccezione fatta per quelle che sono poste sulle rive del mare [...]. Frattanto Alboino, spintosi avanti, dilagò ovunque, fino alla Toscana, esclusa Roma e Ravenna e alcuni castelli che erano posti sulle rive del mare. Non c’era allora valore che i Romani1 potessero mostrare per resistergli, poiché la pestilenza scoppiata sotto Narsete2 [561] aveva fatto strage in Liguria e nella Venezia, e un’eccezionale carestia aveva mietuto gran vittime per tutta l’Italia. Inoltre Alboino aveva condotto con sé una moltitudine di gente presa da popoli diversi, che o gli era stata offerta da altri re o egli stesso aveva sottomesso, onde ancora oggi molti villaggi dai loro abitatori si chiamano gepidi, bulgari, sarmati, pannonici, svevi, norici o con nomi di questo genere [...]. [Dopo la morte di Alboino] i longobardi d’Italia con decisione unanime si diedero a Pavia3 come re Clefi, uomo di nobilissima stirpe. Questi mandò a morte con la spada molti potenti romani, altri li cacciò dall’Italia [...]. In questo periodo molti nobili romani furono uccisi per cupidigia delle loro ricchezze. Gli altri, spartiti fra i conquistatori, furono fatti tributari4 e dovettero pagare ai longobardi la terza parte dei loro raccolti. Per opera di questi duchi, sei anni dopo la venuta di Alboino e della sua gente, spogliate le chiese, uccisi i sacerdoti, rase al suolo le città, sterminate le popolazioni, gran parte dell’Italia [....] fu occupata e posta sotto il giogo dei longobardi. 1. i Romani: intende genericamente gli abitanti dell’Italia. 2. pestilenza... Narsete: nel 561. Narsete era il generale di Giustiniano, che aveva concluso la guerra contro gli Ostrogoti. 3. a Pavia: siamo nel 572. 4. furono fatti tributari: dovevano cioè pagare un tributo, una tassa annua ai dominatori.
Analizziamo il testo • All’inizio del documento Paolo Diacono presenta i longobardi in marcia «con le mogli e con i figli e ogni masserizia»: dunque non si tratta di una invasione ostile, ma del trasferimento di un intero popolo con la finalità di un insediamento duraturo in Italia. • L’autore prende poi in esame la reazione dei bizantini (romani), che, presi di sorpresa, non oppongono resistenza. Questa mancata reazione è il frutto dei vent’anni di guerra greco-gotica (535-553), che avevano completamente dissanguato l’Italia. Le uniche sacche di resistenza («aveva fatto strage in Liguria e nella Venezia»)
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coincidono con le città costiere, che possono contare sull’appoggio della flotta bizantina. • Lo storico longobardo ci fa sapere inoltre che la calata longobardica aveva coinvolto anche altre genti germaniche («una moltitudine di gente presa da popoli diversi»). Questa considerazione è stata valutata dagli storici come il frutto dell’egemonia esercitata dai longobardi, nell’area centro-europea, sulle altre popolazioni germaniche. • L’ultima parte del testo narra delle devastazioni perpetrate dai longobardi, dopo la morte del loro primo condottiero, nell’Italia conquistata. L’accanimento nei confronti dei ceti dominanti romani («molti nobili romani furono uccisi») e della Chiesa («spogliate le chiese, uccisi i sacerdoti») si giustifica non solo per la «cupidigia» citata da Paolo Diacono: in realtà, perché, colpendo le classi dirigenti e la struttura ecclesiastica, gli invasori intendevano decapitare ogni possibile resistenza e costringere il resto della popolazione a una completa sottomissione.
Rifletti e rispondi 1. Ricostruisci su una cartina l’itinerario seguito da Alboino e dal suo popolo. 2. Com’era composto l’esercito invasore? Di soli soldati? E di soli longobardi? Cerca entrambe le risposte nel testo e cita i punti utili. 3. Diversi punti del testo rivelano l’ottica religiosa dell’autore. Individuali. 4. A un certo punto la storia della prima dominazione longobardica denota una frattura, un’involuzione negativa. Quando e perché ciò avviene? Rintraccia il punto o i punti nel testo e commenta.
5. Sottolinea nella fonte il richiamo della precedente guerra greco-gotica.
6. Ora riassumi in poche parole di cosa si trattò, quando si svolse, come si concluse.
7. Paolo Diacono cita i «duchi» longobardi: quale ruolo essi ebbero nella storia successiva del loro popolo?
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14 L’editto di Rotari Monumenta Germaniae Historica: Leges (in Folio), IV L’Editto del re longobardo Rotari (643), scritto in un latino rozzo, è un documento prezioso, perché ci fa conoscere da vicino come si viveva nell’Italia longobardica. A leggerle oggi, queste leggi ci sembrano davvero primitive e strane. Però va considerato che i longobardi, così come gli altri popoli germanici, non avevano leggi scritte: si basavano sulla consuetudine, cioè su norme tramandate di generazione in generazione. Mettendo per iscritto il diritto, Rotari compì dunque una piccola-grande rivoluzione.
Inizia l’Editto che ha rinnovato Rotari [...] re della stirpe longobarda nell’ottavo anno del mio regno col favore di Dio e nel settantesimo dopo l’avvenuta di longobardi in Italia. Redatto a Pavia nel palazzo reale [...] 1. Se qualcuno avrà tramato congiure o ordito disegni contro la vita del re, incomba su di lui la pena di morte e i suoi beni vengano confiscati. [...] 11. Se uomini liberi avranno congiurato, senza la consapevolezza del re, per la morte di un altro [uomo libero] e se in seguito alla congiura la vittima non sarà morta, ciascuno dei congiurati paghi a titolo di composizione 20 soldi. Ma se in seguito alla congiura la vittima sarà morta, allora chi l’avrà uccisa faccia composizione in relazione a quanto sarà stato valutato il morto, cioè secondo il suo guidrigildo. [...] 13. Se qualcuno avrà ucciso il suo padrone, sia ucciso egli stesso. Se qualcuno avrà voluto prendere le difese dell’omicida che abbia ucciso il proprio padrone, sia costretto a versare 90 soldi, metà al re e metà ai parenti del morto [...] 44. Se qualcuno avrà colpito un altro con un pugno, componga con soldi 3, se invece l’avrà colpito con uno schiaffo, componga con soldi 6. [...] 45. Delle ferite o dell’indennizzo delle ferite che accadessero tra uomini liberi, si paghi il risarcimento secondo che qui si dispone, cessando la faida, cioè l’inimicizia. [...] 47. Se qualcuno avrà prodotto a un altro una ferita nel capo in modo da rompergli le ossa, per un osso pagherà dodici soldi; se saranno due, pagherà ventiquattro soldi; se saranno tre, pagherà trenta- sei soldi; se sono di più non si conteranno. [...] 77. Se qualcuno avrà picchiato un aldio altrui o un servo addetto ai mestieri, se avrà provocato lesioni e sangue, per una ferita dia 1 soldo, per due ferite 2 soldi, per tre ferite 3 soldi, per quattro ferite 4 soldi. [...] 387. Se qualcuno, per sbaglio, non volendo, avrà ucciso un uomo libero, ne faccia composizione a misura della sua stima e non vi sia luogo a faida poiché non vi fu dolo. Analizziamo il testo • Nel Prologo il re Rotari precisa solennemente la data e il luogo di stesura dell’Editto. Esso è stato rinnovato, nel senso che attinge a una precedente tradizione giuridica; ma si trattava di una tradizione solo orale. Ora, invece, le leggi del suo popolo vengono fissate per iscritto: si trattava di un atto di grande civiltà, perché forniva la certezza del diritto, cioè delle norme a cui tutti avrebbero poi dovuto obbedire. • L’Editto si sviluppa complessivamente nell’arco di ben 388 capitoli. Affronta numerosi argomenti, regolando molte differenti questioni. Nei capitoli qui riprodotti, si prendono in considerazione: - nei capp. 1 e 2, il delitto di congiura; - nel cap. 13 l’omicidio intenzionale, da parte di un servo che uccide il padrone; - nel cap. 387, il caso di omicidio che oggi diremmo preterintenzionale; - nei capitoli centrali, il risarcimento in caso di ferite, sia tra uomini liberi (capp. 44, 45, 47), sia ai danni di aldii, cioè di semiliberi (cap. 77). • Seguendo l’esempio del diritto romano, le pene, in caso di delitti identici, non erano uguali, ma variavano
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a seconda del rango sociale di chi era parte lesa. La minuziosa elencazione di queste pene diverse costituisce per noi una preziosa documentazione per capire come era suddivisa la società longobarda, che si articolava in uomini liberi (gli arimanni, i più “preziosi”), semiliberi (gli aldii) e i servi o schiavi. • Molto nuovo per il diritto germanico è il superamento della vendetta, la faida, con la quale per tradizione si doveva riparare l’offesa subita. La faida è ora (nella maggior parte dei casi) sostituita dal guidrigildo, citato esplicitamente nel cap. 11. Tutta la definizione di multe e compensi in denaro risponde precisamente a questo criterio.
Rifletti e rispondi 1. In quale caso l’Editto dispone la pena di morte senza altre possibilità?
2. Rileggi con attenzione il testo: quale differenza c’è nel risarcimento fissato per il ferimento di un uomo libero rispetto a quello stabilito per il ferimento di un aldio?
3. Cerca il punto del testo in cui viene esplicitamente citata la faida, e spiega cos’è.
4. Sottolinea nel testo tutte le volte in cui permane l’uso della faida. 5. Evidenzia adesso, invece, le occasioni in cui essa viene sostituita dal guidrigildo; spiega, inoltre, il significato di questa espressione.
6. Nel testo si usa frequentemente il verbo “comporre” o la corrispondente locuzione “fare composizione”. Evidenzia tutte le occorrenze di queste espressioni e poi spiega: quale significato hanno?
7. Cosa può significare l’espressione «fare composizione»? Rintracciala nel testo e poi spiegala con le tue parole, in relazione al contesto.
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15 IL GIURAMENTO DI STRASBURGO Nitardo, Storie (IX secolo) Presso la città di Strasburgo, sul confine franco-tedesco, si svolse il 14 febbraio 842 una scena all’epoca abbastanza frequente: due sovrani s’incontrarono, ciascuno alla testa del rispettivo esercito. Si trattava di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, figli di Ludovico il Pio e quindi nipoti di Carlo Magno; si erano dati convegno per giurarsi reciproca fedeltà contro il fratello maggiore, Lotario, legittimo titolare dell’impero carolingio, ma che essi combattevano assieme, accusandolo di aver tradito i patti. Il testo di quel giuramento (tramandatoci dallo storico Nitardo, vissuto in quella stessa epoca) riveste per noi un’importanza capitale: si tratta infatti del primo documento scritto nelle nuove lingue volgari che sia giunto fino a oggi. Carlo, che parlava correntemente nell’antica lingua francese (romana lingua, com’era chiamata nel latino del tempo), giurò in antico tedesco (teudisca lingua), cioè nella lingua d’uso comune del fratello: ciò allo scopo che il suo giuramento risultasse ben comprensibile alle truppe del fratello. Per lo stesso motivo, Ludovico il Germanico giurò invece, a parti invertite, in antico francese. Infine i rappresentanti dei due eserciti giurarono ciascuno nella propria lingua.
Ludovico il Germanico (in volgare romanzo francese) Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit. Carlo il Calvo (in volgare germanico) In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi, fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got gewizci indi mahd furgibit, so haldih thesan minan bruodher, soso man mit rehtu sinan bruher scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu thing ne gegango, the minan willon, imo ce scadhen werdhen. Traduzione Per amore verso Dio e per il popolo cristiano e per la nostra comune salvezza, da questo giorno in avanti in quanto Dio mi concederà di sapere e potere, io proteggerà mio fratello Carlo/Ludovico con il mio aiuto e in qualsiasi cosa, come secondo giustizia si deve fare con il proprio fratello, purché egli faccia altrettanto con me, e con Lotario non prenderò nessun accordo che possa recare danno a mio fratello Carlo/Ludovico. Esercito di Carlo (in volgare romanzo francese) Si Lodhuvigs sagrament que san fradre Kario jurat conservat et Karius, meos sendra, de suo part non l’ostanit, si io returnar non i’int pois, ne io ne neuis cui eo returnar mt pois, in nulla aiudha contra Lodhuwig nun li iu er. Esercito di Ludovico (in volgare germanico) Oba Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuwige gesuor geieistit, indi Ludhuwig, mm herro, then er lino gesuor forbrihchit, oh ih inan es irwenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es irwenden mag, widhar Karie imo ce follusti ne wirdoohg. Traduzione Se Ludovico (Carlo) rispetta il giuramento, che ha prestato al proprio fratello, e Carlo (Ludovico), mio signore, per parte sua lo infrange, se io non posso farlo recedere, né io, né altri che io possa distogliere da ciò, non gli sarà in nessun modo d’aiuto contro Ludovico (Carlo).
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Analizziamo il testo • I due fratelli Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, alleati contro il terzo fratello Lotario, si giurano fedeltà l’uno nella lingua dell’altro, mentre i rispettivi eserciti ripetono la formula ciascuno nella propria lingua. Ludovico, che regnava sui territori orientali di lingua germanica, giura in volgare franco-romanzo, mentre Carlo il Calvo, sovrano delle regioni occidentali di lingua romanza, ripete la formula in antico tedesco. Scritto in una forma di discorso completo in lingua volgare, il documento mostra con chiarezza come il latino fosse ormai sconosciuto alla massa della popolazione: esigenze di comunicazione pratica (e, in questo caso, di notevole importanza diplomatica) inducevano ad abbandonarlo, per adottare nuove forme linguistiche più diffuse. • Ma l’enorme valore del Giuramento di Strasburgo non si limita a questo aspetto linguistico. Come ha scritto un grande storico francese, Marc Bloch, esso conteneva già (in un certo senso) il futuro regime parlamentare europeo, cioè l’«idea di una convenzione capace di legare i poteri». Il sistema feudale conteneva dunque in sé i germi del suo superamento; esso, continua Bloch, «ha lasciato in retaggio [in eredità, n.d.r.] alle nostre civiltà qualcosa di cui desideriamo ancora vivere». • In effetti dal giuramento traspare che i due sovrani potevano esigere la fedeltà dei sudditi soltanto mantenendo ciascuno il proprio impegno: questo era un principio giuridico-morale davvero essenziale. Garantire il rispetto delle libertà dei singoli e delle comunità, ponendo un freno alla prepotenza del potere più alto, costituisce davvero una delle basi della nascente tradizione politica europea.
Rifletti e rispondi 1. In quale contesto storico si svolse l’incontro di Strasburgo? Rievocalo in breve.
2. Il giuramento impegna solo i due sovrani? O anche altri sono implicati?
3. «Come secondo giustizia si deve fare con il proprio fratello», affermano i due sovrani: e che cosa essi s’impegnano a fare?
4. Come definiresti, sulla base delle formule di giuramento che hai letto, il rapporto che nel mondo carolingio legava l’esercito con il sovrano (che era anche un capo militare)? • un rapporto di totale soggezione • un rapporto caratterizzato da parità • un rapporto in cui l’inferiore aveva comunque un ruolo riconosciuto Motiva in breve la tua risposta sul quaderno. 5. In che modo evolvette, in seguito, la rivalità tra i fratelli figli di Ludovico il Pio? Ricostruisci in breve i fatti.
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16 La politica culturale di Carlo Magno Encyclica de litteris colendis, in Monumenta Germaniae Historica, Leges, I Questa lettera, indirizzata a Baugulfo, abate di Fulda probabilmente nell’anno 787, rappresenta il testo più importante per comprendere la politica culturale di Carlo Magno. Più che una lettera privata, ha il carattere di una lettera circolare, e detta norme che devono essere applicate da tutti i vescovi ed abati del regno. Lo si evince chiaramente dalla conclusione (qui non riportata) dello scritto: «Procura di inviare copia di questa lettera a tutti i vescovi tuoi suffraganei e a tutti i monasteri, se vuoi avere grazia presso di noi».
I vescovadi e i monasteri che, per volere di Dio, sono stati affidati alla nostra guida, oltre all’osservanza della regola e alla pratica della santa religione, devono preoccuparsi che sia insegnato, a coloro che per dono di Dio sono in grado di apprendere, e secondo la capacità di ciascuno, l’esercizio delle lettere; affinché, come la regola dà ordine e ornamento ai costumi, altrettanto l’impegno di insegnare e di apprendere le lettere faccia per la lingua; e coloro che vogliono piacere a Dio vivendo rettamente, non trascurino di piacergli anche rettamente parlando. [...] Poiché, se è vero che tutti gli uomini devono evitare gli errori, quanto più debbono guardarsene, in proporzione alle loro possibilità, coloro che proprio a questo sono stati chiamati, a servire in modo speciale la verità! In questi anni da molti monasteri ci sono state indirizzate a più riprese lettere per comunicarci che coloro che li abitano fanno a gara nell’elevare sante e devote preghiere per noi: ebbene, in più d’uno di questi scritti noi abbiamo trovato espressioni incolte: e questo perché ciò che una pia devozione rettamente dettava all’animo, il linguaggio, non esercitato, non era in grado di esprimere senza errori, a causa dell’abbandono in cui sono stati lasciati gli studi. Di qui l’origine del nostro timore che, insieme con l’abilità nello scrivere, vada diminuendo la capacità di intelligenza delle Sacre Scritture. Sappiamo tutti benissimo, che, per quanto pericolosi possano essere gli errori di parole, molto più pericolosi sono gli errori di senso. Perciò vi esortiamo non solo a non trascurare gli studi, ma al contrario a fare a gara nel coltivarli, s’intende con umiltà e con l’intento di piacere a Dio, in modo che possiate penetrare più facilmente e rettamente i misteri delle Sacre Scritture. [..] Al compito [dell’insegnamento delle lettere] siano scelti uomini che uniscano alla volontà e capacità di imparare il desiderio di istruire gli altri. E ciò sia fatto con l’intenzione pia che ispira questi nostri ordini. Analizziamo il testo • Carlo esorta Baugulfo, abate della prestigiosa abbazia di Fulda, a impegnarsi nell’istruzione dei suoi monaci e a coltivare, nel suo monastero, gli studi letterari. La lettera non contiene provvedimenti particolareggiati riguardo alla scuola, ma illustra bene i motivi ispiratori delle iniziative dell’imperatore franco, e i mezzi di cui intende servirsi per portarle a compimento. • Troviamo in questa pagina anche la descrizione particolareggiata dell’abbassamento del livello culturale del clero. In effetti erano trascorsi circa cinque secoli dalle invasioni barbariche, che avevano lasciato impressionanti macerie anche in campo culturale: distrutte le biblioteche, scomparse le scuole, l’istruzione relegata a pochi angoli ancora vitali. I monasteri benedettini, in questo senso, costituivano delle isole, fortunate ma disperse sul vasto territorio. • Molto significativa è anche l’affermazione dello stretto rapporto che intercorre tra formazione letteraria e formazione morale: è un motivo che ispira gran parte della cultura carolingia e in particolare gli scritti di Alcuino di York. • Può sembrare strano che un uomo, come Carlo, che personalmente era semianalfabeta, si occupi così direttamente di correttezza linguistica e culturale. Ma in realtà ciò che preme a Carlo è l’unificazione dei suoi domini, non solo dal punto di vista politico o economico, ma anche da quello linguistico e culturale. Egli sa bene quale contributo la Chiesa – una Chiesa compatta e preparata – poteva recare al suo disegno; e s’impegna, appunto, affinché questa potenzialità si possa realizzare.
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Rifletti e rispondi 1. Perché la padronanza della lingua appare così importante a Carlo Magno? Cerca la risposta nel testo.
2. L’autore ricorda di aver fatto personalmente l’esperienza dell’ignoranza di molti uomini di Chiesa: in quale circostanza essa gli si è rivelata?
3. Qual è lo scopo ultimo del sapere, secondo quanto traspare dalla lettera a Baugulfo?
4. Carlo ci tiene a precisare, nel testo, che la sua non è una preoccupazione solo formale, ma investe principalmente l’ambito dei contenuti. Dove emerge questo concetto? Individualo e commentalo in breve.
5. Compi una breve ricerca sull’abbazia di Fulda: quando fu fondata, dove si trova, quale importanza ebbe nel Medioevo, se esiste ancora, ecc. Riassumi le notizie sul quaderno in una breve relazione. 6. La lettera a Baugulfo costituisce un significativo documento della «rinascita carolingia». Cosa si intende con questa espressione? E perché questo testo la testimonia bene?
7. Metti a confronto questo testo con i due passi citati a pag. 261: quali elementi di continuità vi riscontri? E noti anche qualche diversità?
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17 I DOVERI DEL COLONO IN UNA CURTIS DEL IX SECOLO Polittico di Saint-Germain-des-Prés (cit. in: Textes et documents d’histoire, 2, Moyen Age, a cura di J. CALMETTE, nuova ed. aumentata a cura di CH. HIGOUNET, Paris, P.U.F., 1953) Tra l’806 e l’829 l’abbazia di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi, realizzò per ordine dell’abate Irminone un inventario di tutte le sue proprietà. Nel paragrafo qui riportato viene descritta nel dettaglio la condizione di Bodo, un contadino che lavorava sui terreni dell’abbazia. È una testimonianza di prima mano sulla vita che si svolgeva nelle grandi proprietà ecclesiastiche di quell’epoca.
Bodo, colono, e sua moglie Ermenetrude, affittuari di Saint-Germain, hanno tre bambini. Egli coltiva un manso con una parte di terra arabile, una parte a vigna e a prato. Egli paga ogni anno due scellini d’argento all’esercito e due barilotti di vino per il diritto di far pascolare i suoi maiali nei boschi. Ogni tre anni deve fornire cento tavole e tre pali per steccati. Ara quattro pertiche di terreno dell’abbazia per la semina invernale e due pertiche per la semina primaverile. Ogni settimana è tenuto a prestare la sua opera due volte e deve fare qualunque lavoro gli venga ordinato. Paga all’abbazia tre poffi e quindici uova all’anno. Egli è proprietario di mezzo mulino a vento per cui paga due scellini d’argento ogni anno. Analizziamo il testo • Il documento è apparentemente arido e burocratico. In realtà la sua lettura è molto interessante, perché fornisce interessanti informazioni su come era organizzato il lavoro nelle curtes del IX secolo, con tutti i suoi corollari: ovvero i rapporti di proprietà, i contratti di conduzione agricola, i tipi di pagamenti e di servizi che venivano richiesti a un colono (contadino) all’interno delle curtes feudali. • Bodo era conduttore di un manso, ovvero di un lotto di terra facente parte della pars massaricia della curtis: essa era una vasta area composta da terreni concessi a uomini liberi, i quali si erano posti, in vario modo, sotto la protezione di un signore (in questo caso, l’Abbazia). Nel manso di Bodo vengono eseguite tutte le coltivazioni principali: cereali e legumi nell’area arabile, la produzione vinicola e il pascolo (il prato) per l’allevamento. • Bodo è debitore all’abbazia di tributi in natura: il testo ne cita diversi, che in realtà risultano simbolici (i polli, le uova) o poco più (le tavole, i pali per steccati). Bodo deve pagare, inoltre, il soldo per la difesa (due scellini all’esercito) e una tassa in natura (due barilotti di vino) per portare gli animali al pascolo: i boschi, infatti, fanno parte della riserva signorile e i contadini, per poterli sfruttare, devono pagarsi un’apposita concessione. • Decisamente più onerose, per lui, sono le prestazioni di lavoro che l’abbazia gli impone. Tali prestazioni riguardano, come per la maggior parte dei coloni, servizi da offrire durante i periodi dell’anno in cui i lavori agricoli sono più pressanti. Dal testo ricaviamo che negli obblighi di Bodo figurano anche delle corvées, e piuttosto pesanti: vanno eseguite per ben due volte alla settimana e, per di più, in ambiti lasciati a discrezione dei proprietari. Evidentemente all’abbazia di Saint-Germain premevano, più che i poveri prodotti dei mansi, i servizi di manodopera che i contadini potevano prestare nella riserva signorile (la pars dominica). • L’ultima annotazione, quella riguardante il mulino, ci fa supporre che Bodo, nonostante le corvées a cui era obbligato, fosse però un contadino fortunato. Possedeva infatti, in comproprietà, uno strumento molto ambito come il mulino a vento; dunque egli era probabilmente un contadino libero, che aveva chiesto e ottenuto protezione nei territori dell’abbazia.
Rifletti e rispondi 1. Elenca nell’ordine: • i lavori stagionali che Bodo deve svolgere;
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• le corvées a cui è tenuto settimanalmente.
2. Perché Bodo era, in sostanza, un contadino fortunato?
3. Quali tipologie di contadini erano le più frequenti all’epoca?
4. Svolgi una ricerca sull’abbazia di Saint-Germain-des-Prés e sul suo celebre Polittico dell’inizio del IX secolo. Poi riassumi i dati salienti in una breve esposizione.
5. Il testo ci porta alla struttura della curtis, con le sue strutturazioni interne: pars massaricia, mansi, ecc. Riassumi in un tuo breve testo queste realtà tipiche del mondo feudale.