Cristina
Capellino Antonella Maggini Gesti di generosità
Racconti ispirati a fatti reali al tempo della Shoah
CONVIVENZA CIVILE
Cristina Capellino Antonella Maggini Gesti di generosità
Racconti ispirati a fatti reali al tempo della Shoah
EquiLibri è un percorso intrapreso dal Gruppo Eli, in collaborazione con l’università di Macerata, per promuovere una cultura delle pari opportunità rispettosa delle differenze di genere, della multiculturalità e dell’inclusione.
Si tratta di un progetto complesso e in continuo divenire, per questo ringraziamo anticipatamente il corpo docente e coloro che vorranno contribuire con i loro suggerimenti al fine di rendere i nostri testi liberi da pregiudizi e sempre più adeguati alla realtà.
Cristina Capellino, Antonella Maggini
Gesti di generosità
Responsabile editoriale: Beatrice Loreti
Responsabile di produzione: Francesco Capitano
Impaginazione: Diletta Brutti
Illustrazioni e copertina: Carla Manea
Redazione: Giada Virgili
© 2025 La Spiga Edizioni
Via Brecce, 100 – Loreto tel. 071 750 701 info@elilaspigaedizioni.it www.gruppoeli.it
Stampato in Italia presso
Tecnostampa - Pigini Group Printing Division - Loreto - Trevi 25.83.041.0
ISBN 978-88-468-4525-2
Le fotocopie non autorizzate sono illegali. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo senza previa autorizzazione scritta da parte dell’editore.
PREFAZIONE
Care ragazze e ragazzi, pensando proprio a voi, abbiamo scritto a quattro mani questo libro composto da due racconti: Il segreto di famiglia e L’amicizia, un dono che cambia la vita. La scelta del titolo e dei termini che contiene non sono casuali, pensati in una società che oggi va di fretta e non ci lascia tempo di riflettere e di agire in maniera solidale. La violenza spesso prevarica ogni azione. Noi, al contrario, vogliamo porre l’accento sui sentimenti e sulle emozioni parlando dell’amore, dell’amicizia, della generosità, della solidarietà, della condivisione, del donare e donarsi. Valori senza tempo che hanno il potere di nascere e superare ogni confine, ogni barriera, ogni ostacolo, che possono aiutarci e orientarci in una convivenza civile e democratica.
Entrambi i racconti sono liberamente tratti da fatti realmente accaduti, dove i protagonisti hanno una identità, i luoghi sono reali come i quadri di vita quotidiana che presentiamo, ma sempre nel massimo rispetto di ognuno, per questo tutti i nomi dei personaggi sono inventati e i luoghi esplicitamente sfumati. I fatti narrati potrebbero essere accaduti in un luogo qualsiasi della nostra penisola e potrebbero trovare una generalizzazione in numerose situazioni simili a quelle descritte. Abbiamo bisogno di ricordare per non dimenticare e apprendere dagli errori.
Perché raccontarvi cosa è stata la Shoah, toccando argomenti come la generosità, l’altruismo e l’amicizia? Perché siamo due insegnanti, colleghe e sin dal nostro primo incontro abbiamo trovato valori che ci accomunano; è come se ognuna sentisse l’obbligo morale verso di voi, verso le giovani generazioni. Anche il fatto di aver scritto insieme il libro dimostra quali risultati possano scaturire dalla collaborazione e dalla condivisione.
Per me, Cristina, questa motivazione è nata dal fatto che, verso la fine degli anni ‘90 come giornalista pubblicista mi ritrovai ad accompagnare un gruppo di giovani delle scuole superiori di Torino, che partecipavano a un viaggio studio sulla Shoah.
Questa esperienza ci cambiò totalmente. Fummo accompagnati da tre anziani, ex deportati e sopravvissuti alle torture proprio di quel campo. Dopo qualche ora, all’uscita dal lager di Mauthausen, eravamo tutti molto provati dai loro racconti. Fu proprio davanti al cancello che ci chiesero espressamente di fare una promessa: “Ora che avete visto e avete ascoltato la nostra testimonianza, non potete tacere!”
E così, dovendo onorare quella promessa, ai miei studenti, ormai da diversi anni, cerco sempre di raccontare l’olocausto. Io, Antonella, docente in pensione appassionata di ricerca storica, ho maturato la volontà di scrivere questo libro grazie a un lavoro svolto in classe e in seguito alla visita dell’anziana testimone coinvolta nella prima storia che leggerete.
L’interesse si è poi ampliato svolgendo altre ricerche e trovando testimoni di quegli anni bui, ma anche protagonisti di gesti di amicizia e solidarietà ed è proprio per questo motivo che uno dei protagonisti delle storie ha affermato quanto ricordare sia doloroso, ma anche necessario. Gli spaccati di vita sono ricavati da documenti, foto di archivio e testimonianze orali che vogliono stimolare la curiosità verso le proprie radici e verso un passato non troppo lontano.
- Il segreto di famiglia è la storia di una donna apparentemente semplice, ma che si rivelerà piena di altruismo e coraggio, tanto da riuscire a nascondere a casa sua una famiglia ebrea, che stringerà amicizia con lei e sua figlia, fino al giorno in cui…
- L’amicizia, un dono che cambia la vita narra dell’altruismo e del coraggio di un’intera collettività e di una famiglia, in particolare, che aprirà le porte della propria casa a un’altra famiglia ebrea. Le vite dei relativi giovani figli si intrecceranno con le vicende della guerra.
Cristina e Antonella
NOTE INTRODUTTIVE
Il senso della generosità di mio nonno, Gino Bartali, è stato un sentimento tangibile nel suo modo di operare sia da campione sportivo che da uomo modesto e religioso.
Il sapersi donare agli altri, mettendosi a disposizione del bene, è un aspetto che ancora oggi rappresenta un grande insegnamento per la nostra famiglia.
In corsa ha scambiato tubolari e borracce in aiuto dei compagni, nella vita ha sempre agito con grande benevolenza e altruismo, in modo assolutamente disinteressato, in silenzio e senza chiedere nulla in cambio. Il suo senso di generosità andava di pari passo con la sua grande umiltà e con la sua profonda fede. Gino il Pio, così veniva apostrofato dai giornalisti quando correva, vanta una lunga carriera di successi che lo ha reso famoso in tutto il mondo ma che non ha intaccato la sua etica, il suo saper fare, il suo saper agire, rendendolo ancora oggi un grande esempio di umanità, onestà e rettitudine.
Quando sono stata contatta per questo lavoro editoriale, che racconta ai più giovani del tema della Shoah dal punto di vista della gratuita generosità, non ho potuto che condividerlo, visto ciò che ha compiuto nella vita mio nonno, riconosciuto Giusto fra le Nazioni nel 2013, per aver salvato circa 800 persone tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944.
Fin da bambino, ho ascoltato i racconti di mio padre sulla guerra. Nel suo quartiere, fatto di gente umile, per salvarsi dalle persecuzioni, si nascosero sette persone ebree, colti, benestanti e tutti si unirono per aiutarli. Non si fecero fermare dalle conseguenze che questo gesto di generosità avrebbe potuto portare.
Alla fine della guerra, i componenti di quella famiglia sparirono senza lasciare traccia, e per decenni non si seppe più nulla. Ma cinquantacinque anni dopo, sentivo qualcosa dentro di me e decisi di rintracciarli. Sapevo che il più giovane si era trasferito negli Stati Uniti, così feci una ricerca online, trovai due persone con lo stesso nome. Rintracciare l’uomo fu sorprendentemente semplice, e tra noi nacque una grande amicizia, nonostante l’età. La vicenda divenne di dominio pubblico, gli anziani del paese ricordavano.
Il mio amico è morto alla veneranda età di 99 anni, il paese ha dedicato una targa in sua memoria.
Sono orgoglioso di essere stato suo amico e che la nostra comunità abbia reso omaggio a lui e a tutti coloro che non ce l’hanno fatta.
Valentino Grassetti
Il segreto di famiglia
Capitolo 1
La macchina del tempo
È una fredda giornata di fine gennaio, si avvicinano i giorni della merla. Roberto tornando da scuola lancia lo zaino, come è solito fare, in un angolo del soggiorno. Ha fretta di mettersi a tavola perché il suo stomaco brontola dopo tante ore di lezione. Intorno al tavolo, per il pranzo, siedono con lui i genitori e la nonna Aida. Come ogni giorno la mamma domanda: - Che cosa hai fatto oggi a scuola?
Stranamente, Roberto non chiude il discorso con il solito “niente!” ma, con espressione seria, dice che hanno iniziato a lavorare sulla Giornata della Memoria con un’attività interdisciplinare guidata dalle professoresse di storia, geografia e italiano. A sentire queste parole, la nonna che stava servendo una minestra fumante, rimane con il mestolo sospeso. Cerca d’incrociare lo sguardo della figlia, per capire se fosse giunto il momento di raccontare il segreto.
La mamma di Roberto, con sguardo empatico e rassicurante, aggiunge: - Mamma che ne dici se, una volta mangiato, prima di fare i compiti raccontassi a Roby QUELLA storia?
La nonna continuando a servire la minestra muove il capo annuendo.
Ritrovarsi seduti insieme sul divano, riscaldati da una calda coperta, per Roberto e la nonna, è una coccola, un rito prima di riprendere lo studio pomeridiano.
- Amore di nonna, oggi facciamo un gioco: facciamo finta di essere su una macchina del tempo.
- Ma è come il flashback che ci ha spiegato la prof d’italiano, che bello!
- Prova a chiudere gli occhi e tornare con me indietro nel tempo, a quando un giorno la mia mamma, cioè la tua bisnonna
Anna, mi svelò un segreto che ormai da quattro generazioni si è sempre tramandato nella nostra famiglia e che tu dovrai quindi raccontare non solo ai tuoi figli, ma anche ai tuoi nipoti. Quando ho conosciuto questo segreto avevo anche io circa la tua età, come aveva la tua età mia madre Anna, quando successe la storia che sto per raccontarti.
Anna abitava in un piccolo borgo tra mare e monti, disteso lungo la collina con larghe braccia pronte ad accogliere tutti.
Lei viveva da sola con la mamma nel cuore del centro storico, tra antiche case e palazzi nobiliari che si affacciavano su vicoli stretti e scuri che conducevano a una piazzola: era la zona che tutti conoscevano come “il ghetto”.
Anna era orfana di padre, perché morto in una cava di pietra, mentre lavorava; così la mamma Rosa, filandaia, per meglio accudirla e darle un’istruzione, senza lasciarla da sola tutto il giorno, era riuscita, anche se a malincuore, a trovarle un posto nel collegio della città.
- Fermati, nonna, ma che mestiere era la filandaia? Dove lavorava?
- Il mestiere della filandaia era una delle maggiori occupazioni per le donne fino a circa un secolo fa. Nella filanda si produceva la seta ed era un lavoro molto duro, quasi come “una galera” come recita una canzone popolare che spesso le filandaie cantavano:
“La filanda è ‘na galera, chi la prova nun ce resta tira e molla, molla e tira la filanda è ‘na galera”
Nella filanda, in effetti, le condizioni erano molto dure ma quest’occupazione consentiva l’aggregazione e la condivisione e soprattutto dava alle donne un’indipendenza economica e il riconoscimento di alcuni diritti.
- La seta viene prodotta attraverso i bachi! Come facevano?
- Questo è un mestiere scomparso, che sarebbe interessante
riscoprire. Ti spiego: la bachicoltura e la gelsicoltura già nel Duecento erano diffuse nelle campagne del centro Italia, ma solo nel Settecento queste attività, e la filatura della seta, divennero importanti per l’economia del territorio tanto che lo Stato Pontificio assegnò premi per incoraggiare i contadini a espandere le piantagioni di gelso.
Tutto il processo, che iniziava con la coltivazione del gelso, proseguiva con l’allevamento del baco e terminava con la trattura della seta1, si svolgeva nell’abitazione dei contadini, e a occuparsene erano prevalentemente le donne della famiglia. Tra aprile e giugno predisponevano le bigattiere nelle soffitte o nei magazzini. In questi contenitori venivano allevati i bachi che si nutrivano con le foglie di gelso, una pianta molto diffusa nelle nostre campagne. Le filande erano sparse in tutta la regione e avevano la stessa struttura e organizzazione interna. In particolar modo nella sala principale c’erano le bacinelle con l’acqua bollente.
- A che cosa servivano tutte quelle bacinelle?
- A ognuna di esse era assegnata una o più operaie, ma ascolta bene, purtroppo c’era lavoro anche per le bambine di nove, dieci anni. Il primo passaggio, chiamato scopinatura toccava a loro, che dopo aver soffiato nel bozzolo, con le loro piccole mani, estraevano il capo del filo.
- E il filo a chi lo davano?
- Il filo lo passavano alla sottiera2 che lo avvolgeva nell’aspo, un macchinario rotante che permetteva di raccogliere il filo in modo ordinato e regolare. Altre donne, dette giuntine, saldavano le rotture di filo, altre, le cernitrici, facevano una selezione dei bozzoli in base alla dimensione del futuro filato. A controllare il tutto erano le maestre e le giratore, così chiamate perché andavano su e giù per lo stanzone dove lavoravano. L’ambiente dove si lavorava
1 Trattura della seta: l’operazione che permette di ricavare il filo di seta dallo srotolamento dei bozzoli del baco da seta.
2 Sottiera: dispositivo che funge da supporto per facilitare la raccolta e l’organizzazione del filo.
era chiuso e denso di vapore e spesso le donne si ammalavano, anche in modo grave.
- Quante ore lavoravano?
- La giornata media di lavoro era di dieci ore, la paga consentiva a malapena la sopravvivenza e gli errori e le sviste commessi nel lavoro comportavano decurtazioni del già magro salario.
C’erano però anche momenti di allegria. Il canto era infatti permesso e spesso si poteva sentire fuori dalla filanda cantare per ore quelli che ora sono detti “canti da filanda”: canzoni d’amore, filastrocche e canti giocosi. In molti opifici al raggiungimento delle cento giornate lavorative si facevano feste con vivande offerte dai proprietari, gite e scampagnate in carrozza o pullman organizzate dai capi filandieri.
- Mamma mia, a parte questi piccole occasioni divertenti, che vita difficile dovevano sopportare?
- E non è tutto, durante la Seconda guerra mondiale, molte filande dovettero produrre filati per la realizzazione dei paracaduti, quindi il lavoro si intensificò. Hai capito ora perché Rosa non voleva che sua figlia Anna facesse la sua stessa vita e fece di tutto per inserirla in collegio per darle un’opportunità di vita migliore?
- Eh già! Quando smisero di produrre le filande?
- La produzione, prima diminuì, e poi cessò definitivamente con il sopravvento delle industrie per la produzione di fibre sintetiche a partire dagli anni Sessanta, quando iniziò in Italia il boom economico, padre dell’industria meccanica.
Finita la digressione sulle filande, la nonna Aida riprende le fila del discorso iniziale: - Anna, dicevamo, viveva nel collegio. Lì c’erano tante altre bambine e ragazze che rimanevano fino al compimento dei quattordici anni e che come lei o erano orfane di uno o di entrambi i genitori, oppure avevano una famiglia che non riusciva a provvedere alla loro crescita. Purtroppo nel collegio le bambine erano considerate come numeri e Anna era il numero 5!
Le regole erano molto rigide. Ovunque si sentiva l’acre odore dell’olio di fegato di merluzzo che veniva somministrato a cucchiaiate.
- Nonna, che schifo l’olio di fegato di merluzzo! Io non l’ho mai preso!
- Sei fortunato. Devi sapere che a quei tempi non c’erano le medicine di oggi, non era arrivata in Italia neanche la penicillina e si usava quell’olio puzzolente come ricostituente per le ragazze più gracili! I bagni del collegio non avevano l’acqua calda e le piccole ospiti erano costrette a lavarsi sempre con acqua freddissima, anche in inverno. Questa era la causa dei geloni. Nessuna di loro possedeva una camera, dormivano tutte insieme, in lunghe e fredde camerate.
- Nonna, da quello che mi stai raccontando mi rendo conto che devo sentirmi privilegiato a vivere nel XXI secolo, con l’acqua calda e una camera tutta per me, anche se disordinata. Da adesso in poi farò meno storie! Avevano anche altre regole?
- Certamente, le regole erano molte, tra queste c’era quella di indossare la stessa uniforme, cioè un lungo grembiule grigio di tela pesante. Inoltre dovevano avere tutte lo stesso taglio di capelli cortissimi per evitare il contagio dei pidocchi.
- L’uniforme! Non sarebbe male come idea, visto che spesso a scuola sembra di essere su di una passerella a una sfilata di moda.
- Eh, bello di nonna, bisognava sapersi accontentare, pensa che il regalo più desiderato era la visita domenicale dei parenti, da cui potevano ricevere un pezzo di pane bianco. Per Anna, il tempo, scandito in collegio da una tabella oraria molto rigorosa, non passava mai: giorni, mesi e anni sembravano tutti uguali.
La sera prima di coricarsi cancellava con una matita blu, in un calendario che si era costruita da sola, uno dopo l’altro, i lunghi giorni trascorsi e contava quelli che la separavano dalla tanto sospirata libertà. Finalmente, un inverno, arrivò il giorno tanto atteso, quello del suo quattordicesimo compleanno.
- Mi immagino che avrà fatto una grande festa!
- Non ci furono né feste, né torte, né regali, come siete abituati oggi, ma fu comunque la giornata più bella e attesa della sua vita: fece definitivamente ritorno a casa dove poteva liberamente abbracciare, baciare e accarezzare la sua mamma, tutte cose che
non le erano permesse quando la incontrava in parlatorio.
Quasi la ricordava a stento, quella vecchia casa medioevale di mattoni rossastri, con infissi di legno, una ripida scala in pietra che collegava i due piani, dando accesso alle piccole e basse stanze. Lunghi e poco illuminati i corridoi, realizzati con tavoloni di legno, come i ballatoi che davano accesso al gabinetto che poteva essere in comune a più famiglie. Le umili casupole, costruite una sull’altra, erano collegate da questi stretti e cigolanti corridoi.
- Al solo pensiero di dover condividere il nostro bagno con altre famiglie mi sentirei profondamente a disagio. Oggi, un solo bagno in casa è già un problema al mattino.
- Ad Anna tutto questo non importava, perché dopo tanti anni, finalmente riuscì ad assaporare il calore domestico, che ritrovò nelle carezze della sua mamma, in un pasto cucinato con amore, in un letto confortevole.