I VOLONTARI PONTIFICI A CAVALLO Venuti dalla Francia in difesa di Pio IX
Pubblicazione edita nel novembre 2010 in occasione del “150° Anniversario della battaglia di Castelfidardo” Edizioni Tecnostampa Loreto
Prefazione di don Lamberto Pigini
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en sappiamo che quest’anno ricorre il 150° anniversario della battaglia di Castelfidardo che alcuni storici chiamano Battaglia delle Crocette. Ci sono state diverse celebrazioni sull’evento seguite da molti nostri concittadini. La prima, molto sentita, si è tenuta nel mese di aprile di quest’anno ed ha visto la partecipazione di circa 60 discendenti della nobiltà francese e belga venuti a commemorare la scomparsa dei loro cari accorsi in difesa del Papa contro gli invasori piemontesi ed ivi caduti. La prima tappa è stata Loreto dove hanno ricordato la sera precedente la battaglia quando i loro antenati, nonostante la stanchezza per il lungo tragitto svolto a piedi da Foligno in un’unica tappa, hanno partecipato ad una nottata di preghiere e di preparazione spirituale ricevendo anche l’estrema unzione in previsione dello scontro bellico dell’indomani. A Loreto i discendenti dei volontari hanno pregato a lungo nella Santa Casa e sono stati ricevuti dal Delegato Pontificio, l’Arcivescovo Mons. Giovanni Tonucci, che ha rivolto parole di plauso per l’atto di solidarietà e generosità con i loro Antenati. La mattina successiva si sono recati alla Battuta delle Crocette ove si trova il monumento che conserva i corpi dei caduti. Lì si sono uniti in preghiera e subito dopo un sacerdote del gruppo, anche lui discente dei volontari, ha celebrato la Messa in latino nel rito chiamato “tridentino”. La cerimonia si è conclusa con il famoso canto che gli Zuavi Pontifici hanno intonato 150 anni fa prima dello scontro bellico. È stata una commemorazione molto partecipata e sentita. Ignari della pioggia tutti hanno seguito l’intera cerimonia in ginocchio, assorti nella preghiera e nel ricordo dei loro parenti caduti alle Crocette. Nel pomeriggio hanno visitato il Duomo di Ancona accolti dall’Arcivescovo Mons. Edoardo Menichelli che ha pregato con loro nel ricordo dei loro antenati parenti caduti nella nostra terra. Hanno poi proseguito per Senigallia per visitare la Casa di Papa Pio IX, ora trasformata in museo, accolti dal Vescovo Mons. Giuseppe Orlandoni. Durante la visita al Museo hanno osservato, quasi con devozione, tutti i documenti riguardanti quel Papa per la cui difesa i loro antenati erano venuti a combattere e, molti, a morire. 3
Nel salutarli e ringraziarli per la grande testimonianza fornita, ho detto che, se avessero avuto dei ricordi dei caduti, avremmo avuto tanto piacere di poterli conoscere. Uno di loro, il Conte Jehan de Durat, mi ha inviato, qualche settimana dopo, il diario del suo antenato Philippe Antoine François Comte de Tournon venuto a cavallo da Parigi per partecipare alla battaglia della quale descrive momento per momento ogni particolare. Tra l’altro, dice Durat, il ricordo il più caro al mio cuore, è stato il tempo passato nella Santa Casa dove si sente la Presenza tanto soave della Fanciulla purissima che ha risposto: “Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum.” Fortunati voi, che avete questo tesoro! Ho fatto tradurre il diario in italiano ed ho pensato di darlo quest’anno ai Crocettari come ho fatto negli anni scorsi con i volumi: “Il Castelfidardo” e “I Martiri di Castelfidardo”. Sono certo che questo volume troverà molto interesse perché descrive tanti episodi mai pubblicati e contribuirà a fornire un ulteriore tassello al quadro storico dell’evento. Con vivo piacere ringrazio il Dott. Sandro Scoccianti, Gianluca Calcabrini e Mario Montini per la loro collaborazione nella preparazione del presente volume. CROCETTE, 7 novembre 2010 (Festa dei Crocettari)
16 aprile 2010 - I discendenti degli Zuavi Pontifici a Loreto con al centro il loro presidente Colonnello Eric Du Reau
Chi erano i Volontari Pontifici a cavallo
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ella primavera del 1860 numerosi giovani volontari provenienti da diversi paesi e senza brevetti da ufficiale si recarono a Roma e furono accettati per essere impiegati come personale di disponibilità. Con lo scopo di ordinare i volontari arrivati, il 5 maggio 1860, il Generale Lamoricière ordinò a Gaspard de Bourbon Chalus di organizzare il servizio facendo loro firmare un “contratto” di 7 punti che chiedeva la loro completa sottomissione alla disciplina militare e a tempo indeterminato. Questo contratto non prevedeva alcuna retribuzione e, anzi, contemplava che i volontari pagassero un contributo di 2.200 franchi per il materiale che veniva loro assegnato. Il 20 maggio una prima sezione di venti volontari fu creata ufficialmente. Sedici di loro si trovavano nelle Marche e da qui andarono a Viterbo per una prima formazione, fino alla fine di giugno. Nel frattempo altri volontari arrivarono nel Lazio, per un totale di 41 uomini. Inizialmente si attribuiva un’ordinanza ogni due volontari, con in più un brigadiere ed un soldato di prima classe per custodire la disciplina ed il servizio degli uomini. Verso la fine di luglio i volontari furono di nuovo mandati nelle Marche, a Loreto e ad Ancona, da dove andarono al campo di Terni per raggiungere il Generale Lamoricière. Tornarono poi tutti verso Castelfidardo. Alla vigilia della battaglia, la sera del 17 settembre 1860, il primo morto caduto sul campo d’onore fu un volontario e precisamente Mizaël de Pas, ferito mortalmente da pallottole piemontesi durante un’ispezione dei luoghi dei combattimenti. Il 18 settembre le guide e le loro ordinanze seguirono le altre unità della cavalleria e attraversarono a diverse riprese il fiume Musone senza essere veramente impegnati nei combattimenti. A differenza delle altre unità, però, le guide rimasero nei loro inquadramenti e, una volta rientrati a Loreto, furono mandati, nel pomeriggio, lungo la strada costiera per ritrovare le tracce del comandante e del suo seguito. A Porto Recanati i volontari ricevettero finalmente le indicazioni sul cammino seguito dal Generale Lamoricière e poterono tornare a Loreto. Proprio in questa città il giorno dopo le guide parteciparono alla resa delle forze pontificie. Si trattava in tutto di trentuno uomini tra cui un italiano, un belga e ventinove francesi. Oltre le guide che avevano seguito il Generale verso Ancona, altri volontari si trovavano allora a Roma per essere stati distaccati o per motivi di salute. Essendo tale la situazione, l’unità non fu più ricostituita in seguito e la sua dissoluzione ufficiale risale al 9 novembre 1860. 5
L’uniforme e l’armamento dei Volontari Pontifici a cavallo
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’uniforme era caratterizzata da una pelisse nera bordata di astrakan al colletto, lungo il bordo anteriore e quello inferiore e ai paramani, guarnita da sei alamari a trifoglio e con un nodo ungherese in oro sulle maniche; e da un dolman, cioè da una giacchetta attillata, priva di bottoni, con una larga zagana di seta nera sul petto e schiena, lungo l’orlo inferiore, attorno al collo, ai paramani e alla fenditura delle maniche, chiusa da bottoncini di metallo, tra gomito e polso; ornata di ricami pure neri, due sul petto e uno sulla schiena con nodo ungherese in oro sulle maniche, chiusa da sei cordoni di pelo di capra nero, di lunghezza decrescente dall’alto in basso, fissati da olive pure nere. Completavano l’uniforme: pantaloni rossi con banda nera (per il servizio montato pantaloni da cavallo, pure rossi con banda nera, e “rinforzi” in cuoio nero); bonetto a visiera rosso con fascia nera, filettature dorate e piccolo stemma, pure dorato, con chiavi e triregno; cravatta a farfalla, nera; stivali corti neri, con speroni, portati sotto i pantaloni. L’armamento comprendeva una sciabola diritta con guardia a gabbia in acciaio, con fodero simile, portata da un cinturone di cuoio nero lucido; revolver a spillo Lefauchux; pistola da fonda di modello non conosciuto. Poco si conosce della bardatura del cavallo; è certo che la sella era all’inglese e il morso di tipo diritto, in acciaio lucido. Fonte: L’Esercito pontificio da Castelfidardo a Porta Pia 1860-1870. A cura di Brandani, Cruciani, Fiorentino - Milano 1976
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Papa Pio IX
Philippe Antoine François Comte de Tournon Simiane (Autore del presente diario)
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iglio di Camille de Tournon e Adele Pancemont, Philippe è nato a Bordeaux 3 gennaio 1820, quando suo padre era prefetto della Gironda. Dopo aver studiato al College di Borbone (Condorcet), ha prestato servizio nella Guardia Nazionale nel 1848. Nel 1870, come capitano di Mobile Rodano, ha partecipato attivamente alla difesa di Belfort. Nel 1875 divenne tenente colonnello della 60ma territoriale. È stato poi nomintato cavaliere della Legion d'Onore. Philippe de Tournon sposò la cugina Leonia, da cui ebbe una figlia, Francesca, contessa di Chabannes La Palice. Ha pubblicato vari opuscoli, tra cui: “Les Volontaires pontificaux à cheval”, “Le Livre d'Or du Capitole” e “Notes sur l'Invasion du Lyonnais en 1814”. Acquistò il castello d’Avrilly en Bourbonnais dagli eredi di Etienne des Roys, e ne classificò accuratamente tutti gli archivi. È in questo castello che muore, quasi improvvisamente, sua moglie nel 1899. Il conte Philippe Antoine François de Tournon morì il 21 agosto 1905 a Montmelas, all'età di 85 anni.
Uno dei due castelli avuti in eredità dal conte Jehan de Durat ove tuttora, da solo, vi risiede
Copia anastatica della copertina del volume francese
Il Volontario Pontificio Henri de la Salmonière
I Volontari Pontifici a cavallo (Dal diario autobiografo del conte di Tournon)
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na sera dell'agosto scorso arrivai a Macerata, abbracciai il mio vecchio amico Gaspard de Bourbon-Chalus, comandante del corpo di volontari a cavallo e il giorno successivo, dopo una presentazione al Generale Lamoricière, fui ammesso in questo corpo, di cui ero quasi il più anziano. Appena il Generale Lamoricière ebbe preso il comando delle forze pontificie, il conte di Bourbon-Chalus era accorso, chiedendo l’onore di servire ai suoi ordini la causa più nobile, non importa come, nè a quale titolo. Era stato incaricato di organizzare i volontari che si fossero presentati: si offriva ai giovani di buona volontà il grado di sottotenente, ci si riservava di richiederne tutti i servizi che possono essere richiesti ad uomini d’una devozione assoluta; li si destinava in particolare ad assolvere le funzioni di ufficiali d'ordinanza presso gli ufficiali superiori dell’esercito che l'instancabile attività del Generale stava creando dal nulla. Gli stessi ufficiali superiori dovevano servire, equipaggiarsi, provvedere a tutto a proprie spese, incluso il cavaliere di ordinanza che lo Stato metteva a loro disposizione. Bourbon-Chalus portava con sè il conte Auguste de Gontaut, che aveva servito nell’ Gaspard (detto Guy) esercito francese. I Signori de Bonnay, de De Bourbon Chalus Robiano, de Gassart, si aggregarono presto a loro e formarono il nucleo di volontari a cavallo, nome ufficiale al quale preferivano quello di Guide di Lamoricière con cui erano pressochè esclusivamente chiamati. In qualche mese il corpo prese un certo sviluppo; a settembre contava quarantadue membri. C’erano, oltre ai primi, i Signori de Rotallier, de Sapinaud, de Candé, des Dorides, de France, de la Rochetulon, de Chanay, Legonidec de la 11
Biliais, de la Maronnière, de Fumel, de Cadaran, de Formon, de Terrouenne, de Montgermont, de Terves, de Raineville, de Puységur, de la Péraudière, de Fremur, d’Agoult, de Pas, de Ribiers, Selby, de Legge, de Montmarin, Lebel, de la Béraudière, de Sinety, de Collalto, de Maillé, de Toucheboeuf, de Cossette, de Clinchamps, de Lorges. Augustin de Lorges fu la nostra ultima recluta. Suo padre, il duca de Lorges, ce lo condusse di persona a Spoleto, e volle condividere per qualche giorno la vita frugale e frenetica delle guide. Questo segno di fiducia e di simpatia da parte d’un così bravo giudice in materia di dovere e di devozione era per noi il più lusinghiero degli incoraggiamenti. Lo stato maggiore del corpo era composto dai Signori de Gontaut e de Saintenac, tenenti; Gassard svolgeva le funzioni di furiere. Saintenac, già sottotenente delle guide della guardia, dal portamento davvero militare, dal comando sempre preciso, fermo e sonoro; Gassart, per la costante sua cura dei dettagli dell’amministrazione del corpo, si sono guadagnati diritti non contestati di riconoscenza da parte delle guide. Il nostro piccolo stato maggiore comMizaël le Mesre de Pas prendeva anche un cappellano. Un giorno, ad Ancona, un giovane prete di Angers, dal viso franco e simpatico, si presenta al comandante: “Vi serve un cappellano, disse; mi volete? vi seguirò dappertutto.” Mai un’offerta così cordiale fu accettata con gioia più viva e con gratitudine. Da quel giorno, l’abate Caillaud non ha smesso di condividere le nostre stanchezze, illusioni e angosce. La disciplina era poco severa e l’autorità del comandante più che paterna. Sotto questa autorità, però, trenta o quaranta giovani hanno vissuto per sei mesi una vita ora oziosa ora agitata, in continua intimità, 12
hanno soddisfatto con zelo a tutti i doveri che sono stati loro imposti e si sono lasciati non portando gli uni degli altri che buoni ricordi e sincere amicizie. E ciò perchè l’autorità di Bourbon-Chalus era grande e incontestata. Una parola di disapprovazione o un’espressione di malcontento sul suo nobile e malinconico volto è sempre stata per tutti i volontari la più grave delle pene e la più temuta. Raramente otto giorni di seguito nello stesso posto, percorrendo senza tregua le montagne degli Appennini, dietro il Generale o in colonne, i volontari rallegravano la lunghezza delle interminabili camminate sotto il sole scottante con tutte le battute della giovinezza e facevano risuonare queste gole selvagge dei nostri ritornelli più popolari, ripetuti in coro per non so quanti chilometri, con una costanza degna di miglior sorte; perché la polvere, i quaranta gradi di calore, la stanchezza, spegnevano sempre molto prima dell'alt le voci più intrepide e la tappa si concludeva con il rumore monotono e cadenzato del passo dei nostri ottanta cavalli. Frattanto, intorno al 12 settembre, il quartiere generale assunse una fisionomia più animata. Il Generale aveva ricevuto la singolare intimazione (da parte di Generale Christophe Léon de Lamoricière Cialdini) da cui apprendeva che l’invasione del territorio pontificio era avvenuta da due giorni; “Siete in tanti - aveva detto all’ufficiale piemontese che recava il dispaccio - ma noi francesi non contiamo i nostri nemici e la Francia è con noi.” 13
Ciò che gli avvenimenti offrivano alla nostra fantasia superava le nostre speranze. Infatti non era contro le bande di Garibaldi che avremmo cominciato una guerra di inseguimento e colpi di mano senza gloria. Avremmo misurato le nostre piccole forze contro l’esercito piemontese. Impresa pericolosa; ma la Francia poteva lasciarci schiacciare, soffrire sotto i suoi occhi, a portata dei suoi cannoni, la più orrenda violazione del diritto della gente, l’invasione di uno Stato di cui aveva prima rivendicata la difesa come un diritto glorioso? Resistere bravamente, resistere qualche giorno, poi combattere accanto ai nostri soldati, alzare insieme la bandiera della Chiesa e della patria, e vincere allora, tali erano le nostre illusioni! La partenza di molti di noi per i diversi corpi dell’esercito pontificio, la sorveglianza continua delle linee telegrafiche, infine i nostri preparativi, occuparono gli ultimi momenti del nostro soggiorno a Spoleto. Il Generale ne affidava la rocca alla sorveglianza degli Irlandesi ( 1) e raggruppava le sue truppe, mentre Pimodan, concentrando a Terni i suoi battaglioni dispersi sull’altro versante dell’Appennino, doveva seguirci a ventiquattro ore di intervallo. Raggiungere Ancona e dare una mano al Generale Courten che dai confini della Romagna vi si incamminava combattendo, unirsi a tutte le forze pontificie sotto il cannone della Piazza e difenderla, tale doveva essere lo scopo dei nostri sforzi. Il 12 settembre entriamo in campagna, il 14 Generale Conte Raphaël De Courten lasciamo di buon’ora il bivacco di Serravalle; a Valcimarra, il Generale ci annuncia che i Piemontesi marciano verso Macerata e che bisogna arrivarci prima di loro. Raddoppiamo la Con trecentocinquanta irlandesi appena abili e addestrati e male armati e venti zuavi il comandante O'Reilly difese per dodici ore la Rocca di Spoleto, contro dodicimila uomini e cinque batterie. Capitolò con una perdita insignificante ma dopo che le porte del castello sfondate a colpi di cannone, i suoi edifici incendiati dagli obici, non gli permettevano più alcuna difesa.
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tappa e, dopo una breve fermata a Tolentino, entriamo alle due del mattino a Macerata, dove c’erano solo alcuni gendarmi. Non si sono ancora visti i Piemontesi, ma bisogna restare fino al giorno, briglia al braccio, alla testa dei nostri cavalli, che hanno fatto ottantotto chilometri in 20 ore. Il 16 mattina viene segnalato l’arrivo di Pimodan. Riprendiamo subito la nostra marcia. La colonna, che conta poco più di tremila uomini, occupa in una scorciatoia una lunghezza smisurata. Bagagli, munizioni, non lasciamo niente dietro di noi. I cavalli dei ricchi abitanti di Macerata, con i cocchieri in livrea, requisiti e attaccati ai cassoni, suscitano con il loro meschino aspetto i lazzi della truppa e ne rovesciano parecchi nei fossi. Ma la pazienza del Generale è ammirevole, ha l’occhio dovunque, e dovunque ristabilisce l’ordine. Camminiamo coperti dal Potenza su una catena di alture, una vasta pianura che i nostri sguardi frugano senza tregua ci separa del nemico. La sera vi scendiamo. Siamo all’avanguardia. Sono segnalati sulle colline di Loreto due punti neri impercettibili. Uno si allontana velocemente dall’altro, che rimane immobile. Nessun dubbio è più possibile: sono delle vedette. Corriamo ad avvertire il Generale. Guide, carabinieri, dragoni, cavalleggeri Capitano Albert O’Reilly de La Hoyde superano al trotto il ponte del Potenza. Entriamo in Porto Recanati: è un grande villaggio con una grande piazza al centro; da una parte il mare si rompe mollemente sulla sabbia dove i pescatori tirano le loro barche, dell’altro si erige un castello merlato. Non mi scorderò mai questa scena, che si è allora svolta su questa spiaggia sconosciuta. I nostri trecento cavalli sono in colonna, la testa rivolta verso Loreto, il cui duomo corona maestosamente le sue belle colline. L’abate Caillaud si fa avanti sul fronte del plotone. “Signori, avete l’onore di combattere per 15
la Chiesa, siatene degni e approfittatene. Dio non vi chiede, nel vostro ultimo momento, che un pensiero d’amore e di pentimento. Adesso vi do l’assoluzione.” Poi: “Alzatevi, Signori, e battetevi bene!”. E' dato l'ordine di correre a Loreto e di entrarvi al galoppo. Al segnale di Bourbon-Chalus la colonna si muove. La Santa Casa è venuta a stabilirsi su una collina scoscesa che si affaccia sull’Adriatico. La città è situata sulla cresta dietro questo promontorio, è circondata da mura; rampe ripide e curvilinee formano da tre lati il suo unico accesso. Al piede della collina, dei piemontesi scambiano colpi di revolver e di carabina con i nostri cavalleggeri e fuggono velocemente. Ci lanciamo sulle loro tracce, siamo alle porte di Loreto che attraversiamo al galoppo, arriviamo sulla Piazza del Duomo, capolavoro del Bramante e del Carpi. Nessuno; corriamo verso la strada per Ancona, i cavalieri piemontesi ne stanno scendendo velocemente gli ultimi tornanti, nella semi oscurità del crepuscolo ci sembra di vederne altri nella valle; il conte Palfy, aiutante di campo del Generale, si lancia, seguito da alcune guide e gendarmi ma, all’ultimo tornante due cannoni che essi non hanno Mizaël de Pas colpito visto li colpiscono a bruciapelo. Il cavallo di Palfy è ucciso, de Pas cade sotto il suo. Il braccio e il fianco massacrato dalla mitraglia, trova nonostante tutto la forza di trascinarsi durante la notte fino ai nostri avamposti. 18
L’abbiamo lasciato moribondo nel Santuario di Loreto; primo tra i nostri compagni, egli ha avuto l’onore di dare la sua vita per questa nobile causa. Ed è morto soltanto dopo lunghe sofferenze.
Schieramento delle truppe pontificie e piemontesi nella battaglia
È già qualcosa essere a Loreto, Ancona è molto vicina ma dei fuochi simmetrici brillano tutta la notte sulle alture di Castelfidardo e, quando un giorno radioso viene ad illuminare questo magnifico panorama, piccoli formicai si agitano sulla collina e le fiamme blu dei cavalleggeri piemontesi galleggiano qua e là nella pianura, e ci rivelano l’incertezza del nostro domani. La pianura di Loreto è bagnata dal Musone, che attraversiamo su un ponte di legno al di là del quale la strada per Ancona si biforca, andando a sinistra per Castelfidardo e Osimo, a destra per le Crocette e Camerano. A partire da questa biforcazione il terreno si eleva 19
e forma una cresta ad arco coronata dagli abitati di Castelfidardo e delle Crocette, e che, a partire da questo villaggio, si ricurva verso il Musone dove finisce bruscamente alla borgata delle Cascine. L’ultima sommità, fiancheggiata da una discesa ripida, è coronata da un piccolo bosco ceduo; il ruscello dell’Aspio scorre ai suoi piedi perpendicolarmente al Musone; dall’Aspio al mare si stende una pianura tagliata solo da piantagioni e fossi. E in questa posizione che Cialdini ci aspetta con una forza stimata tra quindicimila e ventimila uomini. Frattanto il 17 sera, il Generale Pimodan, raggiunge la nostra formazione con i suoi cinquemila uomini e porta a otto o novemila uomini, di cui metà sono italiani, il numero di combattenti con i quali intende aprirsi un varco per Ancona. Ci portiamo dietro una dozzina di cattivi cannoni. Pimodan fissa il suo bivacco a metà strada tra Porto Recanati e Loreto; il plotone delle guide deve camminare con la sua colonna che raggiungiamo il 18 alle otto di mattino e che, sistemata sul bordo della strada, noi vediamo sfilare, scambiando con le truppe calorosi saluti. Ma quando appaiono gli Zuavi (tiragliatori franco-belgi), alla vista di questi duecentottanta giovani coperti dalla polvere di otto giorni di
Il momento del sopravvento degli Zuavi sui piemontesi (tavola di H. Thelen) 20
strada, con uniformi disparate, incomplete e lacere, con maschi visi che rimarcano la nobiltà della razza e soprattutto quella del cuore, le grida, gli auguri si incrociano, le file si rompono, le mani si cercano e i due corpi francesi si fondono un istante in una simpatica stretta. Alle nove e mezzo, la colonna di Pimodan e quella ripartita da Loreto raggiungono le rive del Musone, lo attraversano facendo ripiegare in fretta i tiragliatori nemici e si schierano nella pianura. I nostri cacciatori italiani (comandante Ubaldini) hanno avuto l’onore del primo fuoco e l’hanno sopportato bene, circostanza che interpretiamo come un favorevole, ma davvero ingannevole, augurio. Per assicurare l’avanzata del fianco che dobbiamo fare, la presa della sommità delle Cascine è decisiva. Pimodan la tenta con i carabinieri straPrincipe Vittorio Odescalchi nieri, gli svizzeri e il battaglione di cacciatori tedeschi (comandante Wuksman), cacciano dalla borgata il nemico che, già in posizione di forza in quel punto, gli contende ogni casa, ogni pagliaio, che gli spari hanno presto fatto incendiare. Ma il più difficile restava da fare, i Piemontesi si ritiravano sparando sulla ripida discesa che dalla Cascine si alza fino al piccolo bosco. Una batteria venuta dalle Crocette lungo la cresta si stabilisce in cima alla frazione. Pimodan lancia gli Zuavi, niente resiste al loro slancio; qualcuno raggiunge il bosco e iniziano con i Piemontesi un combattimento ravvicinato. In battaglia lungo il fiume, con tutta la cavalleria agli ordini del principe Odescalchi, comandante dei dragoni, con quale batticuore seguivamo con gli occhi gli sforzi di questi eroici fanciulli! Li riconoscevamo dall’energia del loro attacco, dalla loro agilità nel superare quella ascesa fatale. Ma, ahimé niente appare dietro di loro per sostenerli. Un solo cannone che il tenente d’Audier è riuscito a far salire fino alle Cascine e che ha un solo cannoniere risponde al fuoco di otto pezzi da 21
mortaio piemontesi. Pimodan dà al comandante Wuksman l’ordine di salire questo pendio baionetta innestata. Il battaglione tedesco si dispiega sotto il fuoco della mitraglia e risponde con dignità con un fuoco regolare, ma niente può far deciderlo ad avanzare. Gli svizzeri, radunati al riparo di case in fiamme, esitano a lasciare questa posizione; quanto alla fanteria italiana, è già da un pezzo allo sbando. Pimodan, già ferito da tempo, cade massacrato dalle pallottole nelle braccia di Rainneville, il suo ufficiale d’ordinanza che, pur avendo i suoi due cavalli fuori combattimento, non lo ha mai lasciato un istante. I Piemontesi riprendono allora un’offensiva vigorosa e scendono il pendio con furore. Le Cascine vengono riprese, ad eccezione di qualche casa dove degli Zuavi continuano a difendersi fino a quando le fiamme li costringono ad arrendersi. Su ordine reiterato del Generale, il battaglione tedesco si ritira in buon ordine, tutto il resto è in una confusione spaventosa, che i Piemontesi fermandosi alle Cascine, non tentano di aumentare se non con le loro palle di cannone. La nostra artiglieria [trainata da cavalli], Generale Marchese Georges de Pimodan de Rarécourt de la Vallé rimasta immobile nella pianura, si muove allora, ma solo per fuggire, i conducenti italiani rompono le tirelle e fuggono a gambe levate. Noi abbiamo ricevuto l’ordine di passare il fiume. Quale spettacolo Dio mio, si offre ai nostri sguardi quando arriviamo nella pianura: nel rumore degli obici gendarmi, dragoni, i nostri stessi attendenti si sbandano e spariscono. Invano l’abate Caillaud, rimasto sul retro, si getta davanti ai dragoni e prova a richiamarli al dovere con energiche esortazioni. 22
Anselme, il domestico di Gontaut, li carica invano di insulti e colpi. I cavalleggeri, per un momento trascinati dalla confusione, vanno a riunirsi fuori della nostra vista. Di tutta questa cavalleria, restano solo i nostri trentadue cavalli, che presentano ai colpi del nemico una massa compatta e ordinata. “Dove è il Generale, cosa bisogna fare?” grida Bourbon-Chalus a tutti gli ufficiali che passano presso di noi. “Tutto è perduto, coprite la ritirata!” gli risponde il tenente-colonello d'artiglieria Blumenstihl. Il comandante dei franco-belgi, Becdelièvre, è lì, a piedi, circondato da una cinquantina dei suoi Zuavi. Tutti i suoi ufficiali sono fuori combattimento: Guelton, Parceveaux, Montcuit, Goesbriant sono rimasti sul campo di battaglia: stanno riportando Charette colpito da due pallottole e le guide salutano questo sangue eroico con frenetici applausi: “Ecco quello che mi è rimasto! - urla Becdelièvre à Bourbon-Chalus - ritiriamoci insieme: è nel fuoco che si ritrovano i Francesi!”(2) Ci ritiriamo cercando di raggruppare le truppe al riparo degli argini elevati che incassano il Musone e che le preservano abbastanza bene dalle palle di cannone; gli Svizzeri dimostrano buona volontà nel ricompattarsi alla voce dei loro ufficiali. Ma c’è un grido solo in tutte le bocche, un presentimento in tutti i cuori. L’istinto del soldato lo spinge verso Loreto, la rotta è ormai Moncuit, mutilato irreversibile. durante la battaglia Attraversiamo lentamente la pianura continuamente colpita da palle di cannone; perché il nostro plotone, solo e in ordine, fa da bersaglio al nemico. I suoi due pezzi rigati (3) ci accompagnano sino ai piedi delle colline di Loreto, molto tempo dopo che gli altri si sono ridotti al silenzio; ma la Provvidenza ci protegge e nessun proiettile raggiunge il nostro plotone. (2) E' impossibile ricordare tutti gli episodi di coraggio dei nostri Franco-Belgi, giovani di vent'anni, soldati da tre mesi, zuavi da quindici giorni! Io volevo citarne alcuni. "Nominateli tutti o nessuno" mi ha detto il comandante Becdelièvre, "si sono comportati tutti come eroi". (3) La batteria piemontese era composta da sei cannoni dei quali due rigati e da due obici.
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Ci rimaneva un dovere da compire: ritrovare il Generale. Da tutte le parti assicurano che si è imbarcato; senza tornare a Loreto corriamo a Porto Recanati. Là nessuna notizia. Dragoni che tornano dal lungomare dicono di non averlo visto. Altri affermano che si è imbarcato per Sirolo. Impossibile di costatare dove e quando avrebbe lasciato il campo di battaglia, ma mentre lo cercavamo, aveva fatto quello che era rimasto da fare e preso l’unica decisione che si poteva prendere in una situazione cosi disperata, con una prontezza che, nelle situazioni più critiche, è il privile-
Una fase della battaglia di Castelfidardo - dallo “Strafforello”
gio di certe anime provate dalle vicissitudini della fortuna. L’esercito allo sbando, la battaglia persa, (e poteva non esserlo?) non restava per il Generale che un interesse: difendere Ancona; e solo lui poteva resistere qualche giorno dietro le sue mura in rovina, con i suoi ridotti appena abbozzati e armati in maniera pietosa. Ha nobilmente trasformato un’impresa impossibile in un’eroica avventura; sarà eterno rimpianto per noi, così fieri di portare il nome di sue guide, che i casi del campo di battaglia non ci abbiano permesso di seguirlo. 24
Quanto a noi, rimasti senza ordini, ritorniamo a Loreto in mezzo alle voci più contraddittorie e con la disperazione nell’anima. Così, tre ore erano bastate per annientare l’esercito della Santa Sede (4). Non era più che una massa confusa, senza capi, senza anima, in completa dissoluzione e oramai in balìa dei Piemontesi. Al colonnello Goudenhoven spettò il triste incarico di presiedere alla sua agonia. La notte del 19 fu una notte di allarme e di orribile disordine; gli Zuavi,
Passaggio del Generale Lamoricière per il monte di Ancona - dallo “Strafforello”
ridotti da 280 a 88, ai quali ci eravamo aggregati, e il battaglione tedesco da Wuksman facevano la guardia da soli ai posti più importanti. Il santuario di Loreto ci serviva da ospedale. In tutto lo spazio della chiesa abbiamo disposto paglia e materassi; duecento feriti, di cui molti aspettano solo la morte, giacciono in questa calma e silenzio che è adesso il Le nostre perdite sono e saranno forse sempre inesattamente conosciute. Saranno state notevoli se ci basiamo sulle perdite del nemico. Sappiamo dal Generale piemontese Cuggia che la brigata Regina, unica coinvolta nella battaglia, contava cinquecentotrenta uomini fuori combattimento. Altri rapporti indicano le sue perdite in centosessanta morti e settecento feriti.
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loro ultimo dovere, l’ultimo punto d’onore del soldato; per grazia della Provvidenza, si trovano a Loreto alcune Suore della Carità: sono francesi. Circolano tra le funebri file con passo attivo, con una naturalezza che non si smentisce e la dolce serenità dei loro visi porta nell’anima dei nostri feriti la rassegnazione e la speranza. I chirurghi hanno stabilito il loro ambulatorio nell’abside, a ridosso della Santa Casa; vi operano in un
Veduta di Loreto da Villa Musone (fine ottocento)
lago di sangue. Ma lo spazio sacro è rimasto libero; le messe vi si susseguono per tutta la mattina e una folla di soldati ne assedia continuamente le porte. Per chi ha visto, il 19 settembre, questi poveri Irlandesi, questi figli della Bretagna ancora coperti di fango, di sangue, neri di polvere, prosternati sul pavimento del santuario, avvicinarsi umilmente della santa mensa; per chi ha sentito le parole del prete, coperte a volte dal grido di un amputato, mai Loreto, con lo splendori dei suoi tesori, gli sfarzi delle sue cerimonie, l’affluenza dei suoi pellegrini, raggiungerà la Maestà di quel giorno funesto. L’esercito avrebbe forse potuto evitare la vergogna di una capitolazione. 26
La sua ritirata dal litorale verso le montagne di Ascoli era ancora possibile. Ma, l’abbiamo detto, non c’erano più capi, il colonnello Goudenhoven si credeva autorizzato solo alla capitolazione; se qualche uomo energico era rimasto, nessuno era però disposto ad assumersi volontariamente la responsabilità di un tentativo che, senza dubbio, presentava più rischi che possibilità di successo. Un varco anche individuale su Ancona non presentava, anche alle menti più avventurose, alcuna possibilità di successo, tanto le postazioni piemontesi sembravano serrate e di guardia. Ignoravamo ancora la sorte del Generale che, il giorno prima, aveva compiuto in modo cosi audace quello che noi non potevamo più tentare. Non ci restava dunque che capitolare, e senza tardare, perché ad ogni istante Svizzeri e Italiani soprattutto uscivano della città soli o in bande e andavano ad arrendersi ai Piemontesi, nella speranza di ritrovare sul campo di battaglia le sacche che avevano gettato il giorno prima. L’esercito non contava più quattromila uomini. Alle quattro ci annunciavano che tutto era firmato, che avevamo ottenuto quello che, sicuramente per derisione, chiamiamo gli onori di guerra. La triste cerimonia doveva svolgersi a Recanati, dove arriviamo alle dieci. Una divisione piemontese era sul bordo della strada e ci presentava le armi al rumore delle sue musiche e dei suoi tamburi, alla luce sinistra di mille fiaccole piantate nelle canne dei fucili. Alla porta della città, il Generale Leotardi riceveva il nostro saluto e ce lo rendeva. Conservavamo le nostri armi e i nostri cavalli, come tutti gli altri ufficiali; ma i soldati depositavano i loro fucili in un immenso mucchio. Quando i nostri Zuavi buttarono sul cumulo le loro armi con le baionette storte e tinte di sangue lanciarono ai vincitori uno sguardo deve aver fatto arrossire quelli che si trovavano a Palestro. Ci chiusero in un convento dove dovemmo aspettare, per due giorni, che il gabinetto di Torino disponesse della nostra sorte. Finalmente, il 22 settembre, riceviamo l’ordine di partire, ci conducono in Francia dove saremo liberati appena arrivati alla frontiera. Un centinaio di ufficiali, Svizzeri, Tedeschi, Francesi componevano il nostro triste convoglio, procedendo gli uni a cavallo, gli altri in indescrivibili vetture a nolo che gli italiani preferiscono di gran lunga ai servizi regolari, alle diligenze. Riportavamo con noi, sotto la sorveglianza di Rainneville e di de Ligne, il corpo del nostro giovane e brillante Generale. Grazie alla sua morte eroica, grazie a quegli Zuavi caduti insieme con lui, la catastrofe di Castelfidardo non sarà per la Francia né senza lacrime né senza gloria. 27
Il passaggio a Macerata non fu senza pericolo e più di un cuore che non aveva tremato durante il combattimento si turbò alle imprecazioni e alle minacce dell’ignobile plebaglia. Durante la nostra lunghissima ritirata fino a Livorno, abbiamo avuto il tempo di abituarci a ciò e, per quanto mi riguarda, il disprezzo non cessò mai di avere il sopravvento. Tuttavia, a Camerino la dimostrazione prese un carattere più grave: accolti a fucilate da parte delle cosiddette guardie nazionali del luogo, perdemmo un cavallo, colpito da tre pallottole sotto Anselme. I signori ufficiali Piemontesi della nostra scorta si devono proprio vergognare dei loro ausiliari. Non ci risulta però che questo incredibile attentato contro il diritto delle genti fu, da parte loro, l’oggetto della benché minima repressione. Il 30 settembre, tristi e confusi, rientravamo in Francia, non aspettandoci davvero un’accoglienza così calorosa e i ringraziamenti che vi abbiamo trovato. Abbiamo fatto ben poco per meritarli. Non sono, però, meno preziosi; essi ci dimostrano che, in mancanza delle sue armi, il cuore e la coscienza della Francia erano con noi. Mentre lasciavamo in un modo così inaspettato questa terra italiana dove avevamo sperato di combattere più a lungo e con diverso esito, tre dei nostri camerati, de France, de Terves e la Peraudière, erano abbastanza fortunati da prendere parte alla difesa di Ancona; Montmarin che si trovava al seguito de Generale, avendo avuto il proprio cavallo ucciso sotto di sé, non poté arrivarci. Des Dorides, al seguito del maggiore Chevigné, era sulle montagne di Ascoli; infine de Legge e La Guiche, quest’ultimo arrivato troppo tardi per raggiungerci, combattono ancora lungo la frontiera napoletana con il maggiore de Mortillet. Ho detto cosa furono i volontari a cavallo. Mi sarà permesso di dire quello che avrebbero potuto e dovuto essere? Si poteva fare meglio con un gruppo di soldati composto da giovani rappresentanti delle nostre province, di quelle soprattutto della Bretagna e dell’Anjou, che hanno sempre sputato sangue nel prodigarsi al servizio della giustizia e della infelicità. Si poteva loro chiedere tutto, imporre una disciplina più severa, un servizio più regolare, dei lavori seri. Ma bisognava mettere alla loro portata i mezzi d’istruzione che mancavano loro e aprire loro la prospettiva di veri e propri servizi da compiere. È l’unica ricompensa ambita da questi giovani che si donavano totalmente, per queste famiglie che donavano i loro figli e che, dopo tutto, rappresentano nelle nostre province la più rara e la migliore delle aristocrazie. Quella della coscienza e della devozione. Montmelas, 20 ottobre 1860 28
Diploma rilasciato a coloro che avevano partecipato alla battaglia di Castelfidardo
Medaglia conferita ai combattenti pontifici
Bibliografia Attilio Vigevano “La Campagna delle Marche e dell’Umbria” - 1923 Lorenzo Innocenti “Per il Papa Re” - 2004 Tradition Magazine “La Neuvieme Croisade 1860 - 1870” Brandani, Crociani e Fiorentino “L’esercito pontificio da Castelfidardo a Porta Pia - 1860 -1870” - 1976 Marchese de Ségur - traduzione di Paolo Bugiolacchi “I Martiri di Castelfidardo” - 2009 Fondazione Ferretti “Strafforello” - 2010
Traduzione del diario di Philippe Antoine François comte Tournon a cura di Wendy Saccard riveduta da Augusto Andreoli Coordinamento editoriale Gianluca Calcabrini Immagini Mario Montini Progetto grafico Carlo Capomagi
Finito di stampare nel mese di novembre 2010 presso l’industria grafica Tecnostampa di Loreto
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