Antico e nuovo a Venezia. Due architetture a confronto

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Antico e nuovo a Venezia: due architetture a confronto La Fondazione Querini Stampalia di Carlo Scarpa La Fondazione Pinault a Punta della Dogana di Tadao Ando

Corso di Laurea Magistrale in Architettura e Culture del Progetto; aa. 2016/2017 Esame di Storia dell’Architettura Prof.ssa Maria Bonaiti Stud.ssa Elisa Montagna, 286983



Sommario

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Abstract: appunti e riflessioni

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Carlo Scarpa Hortus conclusus: la Querini Stampalia e il progetto di restauro Il progetto di un microcosmo veneziano Disegni e fotografie

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Tadao Ando Punta della Dogana: il progetto di restauro Dogana da Mar Tadao Ando e Punta della Dogana

pg. 56 pg. 62 pg. 68 pg. 78 pg. 85

La difficoltĂ di progettare a Venezia Ando architetto e Scarpa designer? Antico e nuovo: due modi di interpretare lo spazio Materiali e luci Bibliografia e sitografia


Fondazione Querini Stampalia a Palazzo Querini

Fondazione Pinault a Punta della Dogana

1510 ca. costruzione 1961-1963 restauro

1313 costruzione 2007-2009 restauro

Abstract: appunti e riflessioni

Venezia, una città unica, da conservare e preservare per la sua storia e la sua qualità architettonica che la identifica come ammaliante perchè mutevole e decadente. L’acqua, su cui la città sembra fluttuare, è la fonte primaria di degrado. Un tempo , però, questo elemento materico ha reso Venezia ricca di scambi commerciali e culturali che ne hanno permesso lo sviluppo come potenza marittima e l’arricchimento urbano. Due edifici, uno simile a molti altri, l’altro unico per la sua posizione e la funzione svolta nei secoli. Due ordini di grandezza differenti. Entrambi sono vicini grazie ad un filo sottile, che racchiude negli stessi la volontà dell’ultimo secolo di preservare senza distruggere la memoria del passato. Due nuovi progetti all’interno di un sistema antico, che necessitava e necessita di continui accorgimenti conservativi e di minuziosa premura, un pò come tutta la città lagunare. Palazzo Querini Stampalia, all’interno del fitto tessuto urbano, nelle immediate vicinanze della chiesa di Santa Maria Formosa, un tempo appartenente ad una famiglia e successivamente ceduto al Comune di Venezia. Affacciato su uno stretto rio, esemplifica la 4

casa veneziana in tutti i suoi aspetti: il rapporto con l’acqua, intesa come infrastruttura e come pericolo, la disposizione spaziale e la suddivisione interna, con il portego al piano terra e la corte giardino sul retro, il piano nobile con accesso da una stretta calle. Punta della dogana, un edificio utilizzato come luogo di controllo degli scambi commerciali, così come indica il nome stesso, sulla punta del sestriere di Dorsoduro. Un luogo, facilmente distinguibile anche dal visitatore più distratto, che nel corso dei secoli ha subito numerosi interventi e modifiche all’aspetto esterno ed interno. Nell’ottica del restauro conservativo e della possibilità di utilizzare questi due luoghi come fondazioni per esposizione di mostre d’arte e non solo, vengono riconvertiti da due prestigiosi architetti come Carlo Scarpa per la Querini Stampalia negli anni ‘60 e l’architetto giapponese Tadao Ando nel più recente 2009. Due modi differenti di approcciarsi alla storia, uno più intellettuale, l’altro più diretto, ma entrambi rispettosi della stessa e capaci di suscitare nel visitatore emozioni soprattutto nel far riconoscere l’intervento nuovo una cucitura temporale tra ieri ed oggi.


Antico e nuovo a Venezia: due architetture a confronto La Fondazione Querini Stampalia di Carlo Scarpa La Fondazione Pinault a Punta della Dogana di Tadao Ando

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(Venezia, 2 giugno 1906 Sendai, Giappone, 28 novembre 1978) “Vorrei che vi venisse la pelle d’oca: l’architettura deve sempre smuovere qualcosa dentro.”

Carlo Scarpa

Carlo Scarpa, dopo aver trascorso la sua infanzia a Vicenza, studia nella sua città Natale alla reale Accademia di Belle Arti diplomandosi professore di disegno architettonico nel 1926. Mentre ancora studiava, ottenne il suo primo incarico professionale iniziando a collaborare come progettista, dal 1933 al 1947, con la vetreria Venini di Murano: al suo personale gusto sono dovuti alcuni dei vetri più originali della storia del design, ma anche oggetti d’argento e tessuti. Subito dopo il diploma iniziò la sua attività didattica, dapprima come collaboratore dell’architetto Guido Cirilli, fino al culmine con la nomina a rettore dell’Istituto Universitario di Architettura, dove, qualche mese prima di morire, riceverà la laurea honoris causa. A partire dal 1948 è collaboratore della Biennale di Venezia per cui predispone allestimenti di mostre e interventi permanenti; si dedica inoltre a sistemazioni museografiche e progetti di restauro di edifici già esistenti, fondendo sapientemente il recupero dell’antico con soluzioni originali volte a soddisfare le esigenze di un museo moderno. Tra i suoi principali interventi, oltre alla Fondazione Querini Stampalia (1959-63), ricordiamo 6

le Gallerie dell’Accademia di Venezia (1945-59), la Galleria Regionale della Sicilia in Palazzo Abatellis a Palermo (1953-54), le prime sale e il Gabinetto disegni e stampe della Galleria degli Uffizi a Firenze (1953-56), il Museo Correr a Venezia (1959-60), la Gipsoteca Canoviana a Possagno (1955-57) e il museo di Castelvecchio a Verona (1958-74). La sua attività in questo settore lo porta all’estero a lavorare in Inghilterra, Francia, Spagna, Stati Uniti, Canada. Scarpa progetta e arreda anche abitazioni private, negozi, banche, complessi monumentali: sono da ricordare almeno villa Veritti a Udine (1955-61), il negozio Olivetti a Venezia (1957-58), casa Gallo a Vicenza (1962-63), la tomba Brion a San Vito d’Altivole (1969-78), villa Palazzetto a Monselice (1971-78), la sede della Banca Popolare di Verona (1973-78), villa Ottolenghi a Bardolino (1974-78). Il filo conduttore di tutte queste opere si basa su alcuni temi fondamentali: il progetto basato sulla riflessione visuale e quindi sul disegno; l’interesse per l’allestimento di mostre e musei; il restauro di edifici preesistenti e la realizzazione di nuovi progetti in antichi contesti.


Palazzo Querini Stampalia all’interno del tessuto urbano di Venezia; Campo Santa Maria Formosa, 5252, Venezia

Hortus Conclusus: la Querini Stampalia e il progetto di restauro

Pianta piano terra del Palazzo con il nuovo ponte realizzato da Scarpa il quale permette l’accesso direttamente dalla facciata principale affaciata campiello e non più dalla stretta calle sul lato sud-ovest

Nel cuore di Venezia, a pochi passi da Piazza San Marco, sorge uno dei più interessanti complessi culturali della città lagunare: Palazzo Querini Stampalia, sede dell’omonima Fondazione voluta nel 1868 dal conte Giovanni, che moriva l’anno successivo senza eredi diretti e per questo decise di donare lo stabile alla città di Venezia. Il Palazzo, realizzato nel 1500 ca, si compone di una Biblioteca, del Museo e di un’area per esposizioni temporanee. La biblioteca è di carattere generale e mette a disposizione 340 000 volumi, di cui 32 000 direttamente accessibili nelle sale, aperte secondo la volontà del Fondatore fino a notte tarda anche nei giorni festivi. Una convenzione con il Comune di Venezia la definisce Biblioteca civica del centro storico, riconoscendole il ruolo svolto per la città e ampiamente riconosciuto dai veneziani. Tra le sue raccolte il nucleo più antico è costituito da manoscritti, incunaboli e cinquecentine, che insieme all’archivio privato della famiglia Querini Stampalia forniscono agli studiosi preziose testimonianze storiche. Nel Museo d’ambiente mobili settecenteschi e neoclassici, porcellane, biscuit, sculture, 7


Pianta di Venezia di Jacopo de Barbari, 1500

globi e dipinti dal XIV al XX secolo, per lo più di scuola veneta, tramandano l’atmosfera della dimora patrizia tra specchi e lampadari di Murano e stoffe tessute su antichi disegni. Tra le opere esposte, pitture di Giovanni Bellini, Lorenzo di Credi, Jacopo Palma il Vecchio, Bernardo Strozzi, Marco e Sebastiano Ricci, Giambattista Tiepolo, Pietro Longhi, Gabriel Bella e un bozzetto di Antonio Canova. Con questo patrimonio d’arte e di storia sono chiamati a confrontarsi e a dialogare gli artisti contemporanei, che ne traggono ispirazione per nuove espressioni nel segno di una vitale continuità della produzione culturale. Un intenso programma di attività educative propone a pubblici diversi sempre nuove chiavi di lettura del Museo, della Biblioteca, delle mostre e dell’architettura stessa del Palazzo, attraverso laboratori e percorsi didattici. Nel corpo del palazzo cinquecentesco, risalta al piano terra l’area restaurata nel 1963 da Carlo Scarpa, la cui architettura è stata definita come la più colta e aristocratica del Novecento italiano. Gli anni Ottanta e Novanta vedono svilupparsi gli in8

terventi di Valeriano Pastor e, nel decennio seguente, quelli di Mario Botta a cui viene affidato il compito di definire il profondo rinnovamento della sede che si concluderà nel 2009 con la realizzazione di un auditorium dotato di sofisticate tecnologie. Poco si sa sulla storia della struttura originale. La pianta di Jacopo de Barbari del 1500 mostra l’area per lo più vuota. Il cognome Querini viene menzionato per la prima volta nel 1301 in accordo con il Procuratore per la manutenzione di un ponte. Stampalia fu aggiunta dopo che la famiglia acquistò l’isola di Stampalia nell’Egeo. Il palazzo stesso fu iniziato nel 1510 da Nicola Querini con il lavoro principale che si svolse tra il 1513 e il 1523. Il familiare piano veneziano fu adottato con il portego adiacente al canale che collegava un lungo passaggio - “l’androne” - che si estendeva verso il cortile sul retro. Una scala esterna fu collocata nel cortile, attorno al quale erano raggruppate tutte le stanze abitabili. Il cortile era circondato da mura molto alte, l’intera struttura era progettata per la difesa.


«Possiamo dire che l’architettura che noi vorremmo essere poesia dovrebbe chiamarsi armonia, come un bellissimo viso di donna. Ci sono forme che esprimono qualche cosa. L’architettura è un linguaggio molto difficile da comprendere, è misterioso, a differenza delle altre arti, della musica in particolare, più direttamente comprensibili... Il valore di un’opera consiste nella sua espressione: quando una cosa è espressa bene, il suo valore diviene molto alto.» (Carlo Scarpa, 1976)

Il progetto di un microcosmo veneziano

Dopo la morte dell’ultimo proprietario nel 1868 e la successiva cessione al Comune di Venezia, nel 1949 il Consiglio di Presidenza della Fondazione Querini Stampalia decise di dare inizio al restauro di alcune parti del Palazzo. Questo consisteva in una grande biblioteca al primo piano e una galleria di immagini nella seconda. Il piano terra era in uno stato di abbandono, usato principalmente come magazzini e soggetto a inondazioni che lo rendevano inutilizzabile. L’entrata era attraverso una piccola porta al vicolo adiacente e spesso le assi di legno dovevano essere posate ai piedi della scalinata al momento dell’alta marea. Manlio Dazzi, il direttore, affida a Carlo Scarpa il compito di risistemare una parte del piano terra, la scala d’accesso al piano primo ed il giardino sul retro del palazzo che si trovano in uno stato di estremo abbandono e degrado. L’intervento, realizzato tra il 1961 e il 1963, ha tra i primi obiettivi quello di rendere fruibili gli spazi, realizzare un nuovo accesso adeguato alle mutate esigenze e creare un’area espositiva, sede di convegni ed altre iniziative culturali, in linea con la nuova progettualità dell’istituzione.

L’opera di Carlo Scarpa, inaugurata il 22 giugno 1963 sotto la direzione dell’amico, estimatore e brillante critico Giuseppe Mazzariol, prevede l’eliminazione dell’apparato sovrastrutturale ottocentesco, il risanamento statico e conservativo delle murature, la ripulitura degli elementi architettonici esistenti, articolandosi attraverso quattro temi fondamentali: - il nuovo ponte d’accesso (dal campiello Querini antistante il canale); - l’ingresso e la scala d’accesso alla biblioteca; - l’antico portego (oggi aula espositiva Gino Luzzatto); - il giardino. La figura di Mazzariol è decisiva per la realizzazione del progetto nella biblioteca che vede come direttore Manlio Mazzi, un uomo molto aperto che anche durante gli anni della seconda guerra mondiale ha saputo rendere questo luogo punto d’incontro per intellettuali e uomini liberi. Mazzariol lo affianca a partire dal 1950, anni in cui pubblica un testo su “L’Architettura“ di Zevi su tutta la principale opera di Scarpa fino a quella data. Quest’uomo, impegnato in politica sin dalla resistenza, troverà i finanziamenti per l’inizio del 9


Il ponte d’accesso al Palazzo Querini Stampalia

Reinterpretazione delle grappe metalliche ad unione dei conci di pietra

progetto che Dazzi ancora non era riuscito ad accumulare; inoltre renderà possibile la realizzazione del ponte d’accesso alla Fondazione, inizialmente abusivo, vista la sua carica a Sindaco di Venezia. Il ponte Sin dall’inizio Scarpa e Mazzariol erano convinti della necessità di un nuovo ponte, trasformando una delle finestre in una porta - “una finestra vivente” - come diceva Scarpa. Tuttavia si sono presto imbattuti in problemi con le autorità di pianificazione: Mazziariol tenta di giustificare la nuova costruzione, citando infine la necessità di ulteriori uscite d’emergenza. Il ponte non doveva essere realizzato per motivi estetici e per il conseguente tamponamento della finestra per lasciare lo spazio allo stesso; si racconta che Scarpa sottolineò che alla fine fu il Comune di Venezia stesso a beneficiare della costruzione del ponte, ritirando i soldi. Scarpa spostò quindi l’accesso sul fronte del Palazzo e, attraverso un ponte-passerella ligneo con parapetto in metallo, consentì il passaggio attraverso una finestra ad un nuovo ingresso costituito da un atrio con pavi10

mentazione a tessere marmoree policrome. Le scale, con alzate e pedate dalle misure non canoniche, linguaggio della contemporaneità (molto prima del moderno ponte di Calatrava) in un luogo antico destavano “fastidio”. Nonostante le difficoltà, Scarpa riuscì a convincere la soprintendenza che il progetto del ponte con quelle sembianze fosse il più adatto al luogo: il suo proporre interventi senza rispettare ad hoc le leggi si trova in linea con l’idea dell’esistenza di “una logica superiore che è quella del controllo della forma”1. Alcuni schizzi che sopravvivono descrivono i primi pensieri sulla conformazione del ponte. E’ chiaro il tentativo di esprimere le due condizioni a contorno molto diverse: la superficie orizzontale del “campiello” all’estremità nord che termina nella penetrazione verticale della facciata del palazzo stesso, con quota significativamente inferiore rispetto alla fondamenta. Il linguaggio di Scarpa era inizialmente ortogonale e i primi schizzi mostrano il tentativo di costruire una scala orizzontale diritta. I ponti veneziani, tuttavia, hanno bisogno non solo di estendersi sopra i canali, ma anche


Dettagli dell’attacco strutturale del ponte alla fondamenta

di costituire su entrambi i lati un’altezza sufficiente per il passaggio delle barche. Forse è stata la crescente consapevolezza della necessità di erigere il ponte rapidamente che ha convinto Scarpa ad adottare un arco asimmetrico, appuntato all’apice e alle due estremità dove è tenuto per gravità contro i pilastri in pietra d’Istria. La struttura è costituita da due archi paralleli, ciascuno a sua volta costituito da due lamiere di acciaio saldate tra loro attraverso sezioni di acciaio quadrate ad intervalli di mezzo metro. L’intera struttura è formata da otto lastre di acciaio. I gradini in massello di rovere vengono sollevati l’uno dall’altro e dalla volta di acciaio da complessi supporti in acciaio su entrambi i lati, la cui altezza varia per adattarsi alle geometrie divergenti dei due elementi. I gradini sono leggermente inclinati rispetto all’orizzontale nel modo tradizionale. I corrimani, ma non la balaustra, sono costruiti con coppie in barre d’acciaio: sono in teak con le giunture e le estremità protette con lastra di ottone. Queste sono rientrate con una tacca in modo che la qualità

Primi disegni di studio per il nuovo ponte

planare della lastra di ottone possa essere chiaramente evidenziata; Scarpa era infatti ansioso di riconoscere sempre la vera natura di un materiale. La giustapposizione al ponte in pietra già esistente risulta essere felice e sottolinea l’intervento Scarpiano di epoca moderna, ponendosi in contrasto come elemento nuovo in uno spazio antico. La sala d’entrata Il nuovo ingresso è costituito da due porte in acciaio e vetro che durante il giorno rimangono aperte e allineano gli stipiti alla vecchia finestra. Sono costruiti da piatti di acciaio e sono fissati mediante viti in ottone sui lati; il vetro della porta ripara gli interni. Scarpa conduce il visitatore a fare i primi passi parallelamente al canale scendendo due gradini, contenuto all’interno del cordolo dell’ingresso un momento di transizione segnato a 45° rispetto all’ortogonale, e un altro perpendicolare all’entrata. In questa sala d’ingresso gli elementi principali della ristrutturazione di Scarpa sono: nuovi pannelli in stucco lucido sul soffitto; pannelli di stucco verticali circondati 11


Il salone d’ingresso con il pavimento in tessere marmoree policrome

da acciaio montato sulle pareti e un pavimento libero, trattenuto dalle pareti originali. Il pavimento è bordato da un cordolo in cemento e rivestito internamente con pietra d’Istria. Tra il nuovo piano e le pareti è presente quindi una sorta di fossato di cemento, la cui base generalmente non è visibile dalla maggior parte dei punti di vista. Questo espediente, molto utilizzato da Scarpa in contesti storici, permette di sottolineare il distacco tra la struttura antica e il nuovo intervento, come segno di rispetto, preservazione ed indipendenza. Il nuovo è liscio, fatto di lastre di pietra, marmo, calcestruzzo prefabbricato o intonaco incorniciato, è ortogonale, tagliato e montato insieme con precisione, simile a una macchina. Opposto ad esso, ma non messo da parte, c’è la ruvidità e la qualità organica dell’edificio originale rappresentato da mattoni e archi in pietra, richiamato da Scarpa nell’utilizzo di cemento con materiali calcarei, grezzo, giustapposto alla pietra degli archi. Lo stesso approccio è stato utilizzato a Castelvecchio dove nuove superfici ortogonali sono state inserite e isolate dalle pareti del castello. Il cordolo di bordo, una cimasa che protegge la pa12

vimentazione antica, dalla profondità esagerata, simboleggia un promemoria quotidiano del fenomeno dell’acqua alta. Scarpa progetta infatti l’inserimento di tubi di scarico che conducono l’acqua direttamente dal canale maggiore in tutte le stanze adiacenti attraverso un sapiente gioco di percorsi. Questi non solo drenano le acque quando si alzano, ma agiscono al contrario, li invitano durante un’alluvione. I pannelli delle pareti sono tipicamente di larghezze irregolari disposte come un gigante Mondrian, un’ispirazione ricorrente per Scarpa. Sono piegati intorno agli angoli in modo da enfatizzare la continuità della superficie del muro e pendono da una fonte nascosta sopra il piano del soffitto. Tutti i nuovi schermi sono stati posizionati di fronte alle pareti originali per consentire la circolazione dell’aria, ma anche (come il pavimento) per contribuire al senso di distacco dal tessuto originale. La preziosa e vulnerabile qualità dello stucco-lucido contrasta con la natura terrosa del cemento sottostante quasi a voler essere una perfetta rappresentazione della delicatezza di Venezia e della sua pericolosa po-


Le due porte ad arco in acciaio ed ottone permeabili all’acqua

Il percorso che unisce la sala d’ingresso alla sala espositiva a nord-est

Gradino d’ingresso a 45°

sizione a pochi centimetri sopra l’acqua. Il portale d’acqua C’è una certa deliberata ambiguità nel piano di Scarpa tra ciò che è dentro e ciò che è all’esterno: in questo egli rispecchia il modello originale di utilizzo di un palazzo veneziano. Le lunghe gallerie arcate (porteghi) che scorrevano da davanti a dietro erano all’interno ma non abitate in inverno. L’uso del vetro di Scarpa in prossimità dei passaggi è un tentativo di preservare il continuum dello spazio del piano terra pur accogliendo nuovi usi abitati. Dall’atrio d’ingresso ha quindi origine un percorso che si sviluppa parallelamente al canale, intersecando lo spazio dell’antico portego. La funzione di questa zona di passaggio in cemento rivestito in pietra è quella di regimare l’invasione del piano terra da parte dell’acqua della laguna attraverso un’articolazione altimetrica di gradoni in pietra. La luce del watergate attira il visitatore lungo l’asse e nello spazio centrale che è essenzialmente un incrocio di percorsi dal watergate all’androne d’accesso. Il rio invade lo spazio interno,

chi sosta sul campiello intravede lo spazio interno e l’acqua lambisce la “fondamenta” eretta a protezione del portico. Scarpa ha introdotto infatti l’esperienza dell’acqua direttamente nell’edificio attraverso le due porte ad arco che ha allineato con identiche griglie a cerniera in acciaio e ottone. Ogni porta contiene tre griglie di apertura: l’elemento centrale è reso più stretto e più alto dei suoi vicini in modo che possa si distingue da loro. La luce cattura il gioco di ottoni verticali e orizzontali e forma un complesso schema sul buio riflesso nell’acqua. Oltre al ponte, le griglie sono la sola parte evidente del rinnovamento di Scarpa ad apparire sulla facciata. L’unico altro elemento nel disegno di Scarpa sulla facciata anteriore sono due doccioni d’acciaio in alto sulla grondaia che gettano l’acqua piovana diretta mente nel centro del canale. In cima al bordo dell’acqua si trova una delle famose “scale a pioli” di Scarpa realizzate in cemento armato e ricoperte da una pietra istriana bocciardata. Ogni passo è un quadrato su un piano con un angolo ri13


Le scale sul Rio di Santa Maria Formosa; elemento di distribuzione dell’acqua all’interno del progetto

Illuminazione cielo stellato

mosso a 45°, la lunghezza di questo bordo è uguale alla lunghezza del quadrato originale. Si incastrano insieme per esprimere l’azione di salire una scala, un approdo protetto a “cavana”, resa surreale dalla presenza di fioriere cubiche in lastre di pietra di Prun di Verona. La scala svolge tre ruoli architettonici. In primis è una grande celebrazione del rituale dell’arrivo via acqua e dell’ingresso formale originale all’edificio. In secondo luogo rafforza l’intervento di Scarpa e l’inserimento del suo nuovo passaggio. Il visitatore ha bisogno di salire e superare la cima del suo cordolo protettivo per scendere sul nuovo piano. E infine agisce come un controllo informale del livello dell’acqua. Inizialmente Scarpa progettò un sistema di illuminazione a pavimento, che potesse riflettere sul soffitto la luce a simboleggiare una notte stellata; purtroppo è andato danneggiato a causa dell’episodio storico di acqua alta del 1966 arrugginendosi e dando un aspetto di degrado all’elemento rettangolare. Oltre lo spazio centrale, Scarpa continuò il suo passaggio. Termina in una stanza adiacente che ha allineato con 14

pannelli di stucco in modo simile a quelli nella sala d’ingresso. Anche questa stanza è utilizzata come area espositiva, ma ha uno status secondario rispetto alle altre. Il pavimento termina appena superata la soglia d’accesso e tramite un gradino si scende al livello della sala, la più vulnerabile alle alluvioni e per questo enfatizzata dallo scarico al centro. La sala espositiva A fronte dello spazio d’acqua si apre il fulcro dell’attuale zona espositiva; l’aula Gino Luzzatto, corrispondente al portego originario, salone d’impianto rettangolare che Scarpa delimita con due vetrate: una verso il giardino e una verso il canale. La rimozione di un certo numero di false colonne, ha permesso il ripristino dell’originale flusso ininterrotto di spazio dal canale al cortile, uno spazio lungo e basso con luce alle due estremità. Il percorso protetto è separato dalla stanza da una vetrata con telaio in pietra. L’apertura, però, non è continua. Emergente dal giro dei cristalli e in posizione asimmetrica rispetto alla luce della sala, per ospitare


Il gradino d’accesso alla sala nordest

Il percorso che collega il foyer alla sala ad est affacciata sul Rio

un grande calorifero, Scarpa ha realizzato una fantasiosa colonna polimaterica, utilizzando il medesimo calcare istriano. Esso è impreziosito dall’accoppiamento con il cristallo e dal lavoro i intaglio cui è stato sottoposto Le parti in pietra dell’involucro, infatti, sono state sagomate e lo spessore messo in mostra evidenzia che sono semplicemente sovrapposte al rivestimento in vetro. L’accoppiamento ed il disegno dei due materiali denunciano l’irrilevanza dal punto di vista statico di questo volume, realizzato in realtà per lo scorcio visivo che deve creare all’ingresso. Un esercizio linguistico quindi, tradotto in una sequenza di opposizioni, una serie di segni. All’interno della sala, Scarpa colloca due schermi in pietra e vetro tra il portellone e la sala espositiva e tra la sala espositiva e il cortile, che contengono accessori per lampade fluorescenti dietro vetro acidato. Il vetro è fissato a filo della superficie della pietra in modo che durante il giorno la presenza delle luci sia quasi impercettibile: di giorno sono strisce scure, di sera diventano bianche. Le porte di vetro hanno una striscia di sicurezza incisa che assomiglia in proporzione al ve-

tro degli apparecchi di illuminazione. Nel primo schermo si incontra un notevole assemblaggio di lastre di pietra e di vetri incastonati attorno e che celano i due radiatori. Al livello inferiore le lastre di calcare hanno le loro giunture esagerate e intarsiate con foglia d’oro, a richiamare l’arte bizantina. Scarpa ha scelto di impreziosire la sala espositiva maggiore con due materiali che non sono stati trovati nella ristrutturazione. La pavimentazione è in lastre di calcestruzzo prefabbricato lavato, mentre il rivestimento parietale è costituito da fasce di travertino senza cornice, tagliate contro la grana in modo che le loro vene denocciolate siano esposte. Queste attraversate da una rotaia d’ottone appositamente predisposta per le esposizioni temporanee. I pannelli prefabbricati del pavimento si alzano ai lati della stanza per formare lo zoccolo delle pareti nello stesso modo del pavimento nella sala d’ingresso. Sono disposti ad intervalli irregolari, di conseguenza le superfici hanno sempre ritmi sincopati imprevisti che attirano l’attenzione, o nel caso di pavimenti interagiscono con il ritmo regolare dell’atto di camminare. 15


Porta in travertino

La sala per le esposizioni temporanee che mette in collegamento visivo il giardino ed il canale

Le lastre prefabbricate sul pavimento si trovano all’interno di sottili fasce di pietra istriana lucidata e riflettono brillantemente la scarsa luce del giardino in contrasto con i pannelli di cemento assorbenti. La scelta della pietra romana del travertino è insolita: Scarpa generalmente specifica la necessità di utilizzare il materiale locale, in questo caso la pietra d’Istria. Tuttavia, se si pensa alle facciate dei palazzi più nobili affacciati sul Canal Grande, in particolare alla Ca’ d’Oro, si risponde immediatamente alla scelta progettuale attuata nella sala principale del piano terra. Il rivestimento può anche essere associato alle crustae romane o ai rivestimenti ripartiti della chiesa quattrocentesca di Santa Maria dei Miracoli. Quindi, in un certo senso, queste pareti sono considerate come nuove superfici poste contro le pareti di mattoni originali. L’intercapedine ha anche un ruolo funzionale: protegge le lastre dagli effetti negativi della risalita di umidità dai muri. I pannelli, spessi 3 cm, si attaccano alla muratura con un telaio in metallo, che accoppia alla solidità del rivestimento la levità della tecnica costruttiva adottata che prende spunto da quella romana (l’opus 16

marmoretum, cioè il rivestimento romano sorretto da scutolae, distanziatori ceramici e zanche in ferro per reggere le crustae). Gli spessori vengono bordati con fasce d’ottone ad in instaurare rapporti tra le parti e tra i pannelli vengono inserite le luci in vetro inciso mimetizzate totalmente nel materiale del travertino, a richiamare quelle in lastre istriane di proporzioni uguali sul pavimento. Il gioco di luci e ottone si combina con il travertino per trasmettere un’atmosfera di lusso di modo che i dipinti o le mostre sembrino superflui e non necessariamente obbligati ad esserci per creare l’atmosfera spaziale. La rotazione dei vetri, nella libera disposizione, scandiscono le rotazioni alternate delle venature nelle diverse pezzature del rivestimento marmoreo. Vengono inseriti dei faretti sul soffitto, regolabili per l’illuminazione delle opere esposte. In fondo alla stanza, nell’angolo, c’è una porta di travertino “segreta” che porta in una piccola aula nell’angolo sud-ovest del palazzo utilizzata per estensioni di mostre o incontri. La porta è a filo in modo che in prospettiva non interferisca con la corsa generale del


Dettaglio del corrimano e scala che conduce al piano superiore

Dettaglio del montante in pietra del vetro verso il giardino

La scultura con il leone nel giardino

travertino. Tuttavia, vista frontalmente, la sua forma irregolare rivela una fetta di luce tra la porta e il suo bordo. La lastra è sospesa nel vuoto disegnato dallo scalino. Soltanto nella parte superiore presenta un contorno spezzato; basta esercitarne una piccola pressione e la porta ruota con facilità a dimostrazione di come la conoscenza costruttiva consenta all’architetto di destinare materiali a usi che le loro naturali qualità, parrebbero escludere. Sul retro, la sua struttura in acciaio incernierata è esposta (come la porta all’Olivetti in Piazza San Marco). Tra la sala d’ingresso e la piccola sala espositiva adiacente al giardino si trovano la scala pubblica, un ascensore e un bagno. Nella scala Scarpa ha proseguito il tema di appendere i pannelli in stucco incorniciati d’acciaio lungo le pareti che qui ha modificato lungo il bordo inferiore per produrre un bordo a gradini. Lo spazio tra i pannelli di stucco e la scala è colato con calcestruzzo aggregato grezzo esposto. I gradini usurati della scala in pietra d’Istria originale non vennero ricostruiti: Scarpa scelse di posizionare nuove lastre orizzontali di marmo in cima come nuovi

gradini e di mettere i montanti verticali contro l’originale, lasciando una fessura nel centro attraverso la quale il profilo della scala originale si può vedere. In questo modo la scala viene rinnovata e tuttavia l’originale può ancora essere vista ponendosi in contrasto con il nuovo intervento. Il giardino A fondo della sala si apre il giardino rettangolare, delimitato da un alto muro perimetrale. In origine era il cortile del palazzo, ma era caduto in disuso e nel 1961 era in stato di abbandono. Se non fosse per i montanti e i due asimmetrici piani di appoggio laterali che li sorreggono, i cristalli della parete di fondo, costituirebbero una barriera visivamente irrilevante tra l’aula e il giardino. Ma il telaio in pietra svolge un ruolo di mediazione; i montanti non sono in asse con le due colonne libere centrali. Il calcare è lavorato con semplicità, ma il piano in ombra del massello squadrato è impreziosito da una scanalatura dorata, che dà luogo ad un ulteriore accostamento di opposti, richiesto dalla logica visiva dell’opera antica. Il pavimento della 17


Dettagli muro di quinta

Dettagli delle vasche d’acqua

Il giardino o “hortus conclusus”

sala espositiva in calcestruzzo prefabbricato e pietra istriana levigata continua come pavimentazione nella terrazza del giardino: così, la porzione più prossima le colonne risulta liberata dai gradini e appare come prosecuzione del portico. All’interno della sala, è possibile vedere di sguincio il capitello figurato su di essa appoggiato. Il muricciolo di contenimento esterno diventa il piedistallo del più aulico dei reperti presenti nella corte. Per dare giusta sistemazione al capitello, Scarpa inserisce nello spessore della parte terminale del calcestruzzo due fasce a tutta altezza di calcare veronese. In questa maniera, sottopone la terminazione del setto ad un’allusiva metamorfosi, poichè trasforma il profilo cementizio nel simulacro di un tronco di colonna. Al di là delle soluzioni geniali e raffinate, il principale compito pratico di Scarpa era quello di proteggere le finestre e le porte dei locali di servizio al piano terra all’estremità est, realizzando un muro di cemento fuso, piegato e spezzato in una serie di piani orizzontali e verticali. Particolarmente efficace è la consistenza variabile del getto di calcestruzzo nel muro di quinta, 18

chiaramente delineato, grigio e liscio a contrasto con l’aggregato di pietra bianca istriana. Le superfici dei setti in calcestruzzo sono ravvivate dalle fasce disegnate dalle casseforme e dall’affiorare superficiale degli inerti. In questa composizione essenzialmente rozza è stato posto il mosaico di oro di de Luigi, piastrelle in colla nera e argento di Murano. Il nastro alto 15 cm viene collocato ad un altezza tale che tiene conto dei diversi dislivelli e non si interrompe neppure dove i piani risultano sfalsati. Uno scorcio nel muro, mette in comunicazione visiva lo spazio del giardino con il terrazzo antistante il palazzo, dove viene inserito un corso d’acqua. L’acqua è protagonista: dal canale su cui si affaccia il palazzo, entra nell’edificio attraverso paratie che corrono lungo i muri interni. Il riferimento più immediato è quello della corte del palazzo veneziano intesa come prolungamento dell’androne, luogo disegnato da una pavimentazione a forti contrasti cromatici, caratterizzato dalla presenza del pozzo e della cisterna d’acqua, fonte di vita per il palazzo e per il giardino. Nel caso di Querini è assente l’asse di allineamento che connetteva l’edificio storico


I giochi sinuosi nella vasca in alabastro che richiamano il flusso dell’acqua; il gocciolatoio in bronzo

alle aree verdi per scandire il disporsi degli elementi edilizi e vegetali che davano forma al giardino e concludersi nel secondo accesso dal canale secondario. Questa è la ragione del disegno preciso della nuova corte che restituisce rigore allo spazio innescando nel contempo un diverso sistema di relazioni e di prospettive tra interno ed esterno. La volontà espressa lucidamente a Castelvecchio, di far dialogare la geometria dell’architettura con le forme mutevoli della vegetazione, ritorna prepotente anche nel progetto del giardino Querini. L’esigenza di connettere gli spazi del giardino a quelli del palazzo, ritrovando idealmente quella “integrazione scenica” che così spesso aveva legato i due elementi della storia della città fino a farli diventare parti di un unico disegno, appare evidente in questa proposta. Scarpa organizza lo spazio esterno come uno dei momenti fondamentali del suo progetto di restauro, collocando la varietas botanica all’interno dell’impostazione rigoristica dell’hortus conclusus2. I margini sono molto importanti nella definizione della forma del giardino. Il prato, contenuto da un muretto in calce-

La vera da pozzo con il leone; la vasca in rame attraverso lo squarcio nel muro di calcestruzzo

struzzo, si presenta sopraelevato rispetto al livello della sala Luzzatto ed è attraversato dal canale d’acqua che, partendo da una labirintica scultura in alabastro, una “fonte delle acque” stilizzata. Questa progettata come un labirinto attraverso il quale l’acqua trova il suo percorso quasi a voler essere metafora della città di Venezia. All’altra estremità l’acqua scorre oltre un leone di pietra con lo stemma dei Querini; successivamente scende attraverso uno scivolo regolabile in bronzo in un gocciolatoio in pietra d’Istria, prima di cambiare direzione per scomparire infine sotto una vera da pozzo. Come un reperto, la vera viene presentata con un gesto analogo a quello offerto dal capitello. Nel porgerlo all’attenzione, Scarpa aveva ritenuto necessario risarcirlo per la sua condizione di frammento. Di un’analoga attenzione è fatta oggetto la vera da pozzo, una voltà il “centro” del giardino. Ora, il ruolo dell’elemento in pietra non è più quello di serbatoio d’acqua, ma diventa il punto dove l’acqua scompare. Sulla sinistra, adiacente il muro di calcestruzzo, Scarpa colloca una vasca d’acqua in tessere vitree e cemento, all’interno della quale ne pone una seconda 19


Dettaglio delle colonne e del capitello su piedistallo in giardino

di rame, cemento e mosaico e in un piccolo canale ai cui estremi si trovano due labirinti scolpiti in alabastro e pietra d’Istria. Lo stagno è poco profondo e pieno fino all’orlo. Come se galleggiasse sull’acqua, posò un vassoio di metallo bronzato (recuperato dalla mostra di Torino del 1961) che contiene una pianta di giglio. All’interno del bordo del vassoio c’è un altro canale d’acqua; è decorato con cerchi in alluminio. Il lastricato circostante è suddiviso in fasce che disegnano un motivo labirintico, centripeto rispetto alla vasca che riprende quelli Romani. È il suono dell’acqua che scorre attraverso le soglie di Scarpa e crea l’atmosfera per l’intero giardino. La conversazione si fa silenziosa mentre il visitatore si avvia intorno al prato. Il lungo corso d’acqua sollevato verso il visitatore stesso per l’ispezione invita a sedersi, ad immergere le dita nell’acqua e da qui a meditare sul giardino nel suo insieme. Il paragone giapponese è inevitabile, rafforzato dalla scelta di inserire alberi di bambù e magnolia. Gli oggetti sono collocati in isolamento: il visitatore è invitato ad un percorso intorno a loro e può quindi osservare le relazioni in 20

continua evoluzione. Le specie botaniche selezionate dallo stesso architetto (e negli anni ripristinate) sono quindi da considerarsi veri e propri materiali costitutivi del progetto. Espansione pianificata Scarpa ritornò a Querini Stampalia nel 1973 quando fu incaricato dal Consiglio della Fondazione di redigere piani per nuove importanti costruzioni su un sito da mettere a disposizione mediante demolizione immediatamente a sud del giardino. Nel piano Scarpa divideva l’edificio in due: un piano a forma trapezoidale più grande a ovest e un piccolo blocco rettangolare adiacente. Entrambi furono sollevati dal piano terra, il primo su un basamento, il secondo su quattro colonne sotto il quale sarebbe stato esteso lo stagno del giardino esistente. Lo spazio attualmente occupato dal vicolo tra il muro del giardino e il sito proposto di Scarpa con una scala per un ingresso al primo piano, forse un riferimento alle scale originali del cortile aperto dei palazzi veneziani. La vista dall’edificio esistente sarebbe stata una ele-


Dettaglio porta d’uscita sul giardino

Dettagli materici: cemento e tessere di marmo nel giardino, travertino e ottone nella sala espositiva

Ingresso d’acqua alla Fondazione

vazione “a strati” tipicamente scarpiana, simile alla ristrutturazione per il Banco Popolare di Verona iniziata nello stesso anno. Sebbene Scarpa abbia spaccato l’edificio in due parti verticali, ha stratificato le sue funzioni orizzontalmente. Il progetto purtroppo non ha funzionato nel pantano delle autorità di pianificazione veneziane che, da quando ci furono problemi in merito al ponte, era diventata ancora più conservatrice e dogmatica. Alla fine furono rifiutati e poi abbandonati dalla Fondazione, come tanti altri progetti del secolo scorso mai realizzati. L’eredità di Scarpa Oggi, la volontà di preservare gli interventi del grande maestro all’interno della Fondazione Querini Stampalia, ha portato ad un massiccio intervento di conservazione tra maggio 2006 e giugno 2007 con fondi della Regione Veneto per la “Valorizzazione dell’opera di Carlo Scarpa”4. Esaminiamo Scarpa. Come la città delle sue origini, tende ad essere liquidato come un anacronistica. La sua arte è sempre stata universalmente riconosciuta, ma il suo metodo di lavoro, i

suoi bilanci, i suoi clienti e la sua collaborazione con gli artigiani erano così insoliti da essere condannati come irrilevanti per il fulcro delle attività architettoniche. Eppure ci ha mostrato un’architettura che usa materiali contemporanei in un modo in cui gli architetti del XX secolo da Loos in poi avrebbero capito. La sua è un’architettura di oggi, moderna, ricca e densa di significato e dettaglio. I suoi edifici erano espressivi, dispendiosi in termini di tempo, lussuosi. Eppure ha costruito opere di una bellezza così duratura che chi oggi rimprovererebbe quei clienti per le loro indulgenze. Investendo un tale valore nella costruzione di Scarpa è stato in grado di ripagare i suoi clienti molte volte. Ci sono molti giardini e piccole gallerie a Venezia: quanti altri sono diventati un luogo di pellegrinaggio come Querini Stampalia? È una destinazione su un circuito internazionale non solo per la sua esemplare conversione o per la sua sensibilità e densità di dettagli di design, ma soprattutto perché dimostra un’architettura inequivocabilmente del nostro tempo, traendo ispirazione dalla città ma con un approccio universale.

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Tipico angolo di un palazzo Veneziano: lo stucco viene steso fino ai blocchi in pietra d’Istria

Varietà di angoli in pietra d’Istria nel giardino, a ripresa di quelli della città

Disegni e fotografie

I disegni rinvenuti sono, per la maggior parte, esecutivi; cioè, quasi indistinguibili rispetto all’edificio poi realizzato. Molti di essi sono stati fatti da Luciano Zinato e in un certo senso ci aiutano a smentire il mito che è cresciuto intono a Scarpa: un mito che lo vedeva disegnare direttamente in sito per gli artigiani. Questo poteva succedere occasionalmente, ma l’evidenza dei disegni è che il processo delle idee era abbastanza ordinario. Note: 1, 3. Carlo Scarpa in un’intervista raccolta nel documentario “Hortus conclusus : Carlo Scarpa e la Querini Stampalia; regia di Riccardo De Cal” 2. L’hortus conclusus (latino, traducibile in italiano come “giardino recintato”) è la forma tipica di giardino medievale, legato soprattutto a monasteri e conventi. È quindi il giardino medievale, che veniva utilizzato per la coltivazione di piante alimentari e medicinali. Chiuso da quattro alte mura, sempre più spesso con una fontana al centro (simbolo di Cristo e fonte della vita), divenne rapidamente simbolo del paradiso perduto. Il simbolismo originario che vuole l’hortus conclusus simbolo della sposa, della Chiesa e della Vergine Maria, trova le sue piante simboliche nella coltivazione delle rose (simbolo della Vergine e del sangue divino), del giglio (la purezza), della palma (giustizia e gloria). (http://www.giardinaggiosemplice.com/ giardino) 4. Legge Regionale 17/01/2002 n°2 art. 41 22

Vista sulle scale e sull’atrio d’ingresso


Pianta piano terra allo stato di fatto nel 1950; dettaglio portale

In alto dettagli cerniere dei cancelli; in basso gradini davanti ai cancelli, soluzione con solchi per l’accumulo dell’acqua

Le prime piante di Scarpa: da notare l’entrata preesistente, le quattro colonne nella sala espositiva e il muro di quinta sul giardino, rimosse nel progetto definitivo 23


Planimetrie di studio per il giardino non realizzate

Canale d’acqua nel giardino e gradoni in cemento grezzo

Disegni per le pietre dell’edicola del copri calorifero

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Pianta piano terra 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14

Ponte d’accesso Foyer / Sala d’entrata Portale d’ingresso dell’acqua Sala nord-est Sala esposizioni temporanee Scala per salire alla biblioteca Porta in travertino Sala sud-ovest Terrazzo sul giardino Prato Sorgente d’acqua Vasca d’acqua in marmo e rame Raccolta acqua Area botanica

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(Osaka, 13 settembre 1941) “Il ruolo dell’architettura è quello di dare risposte e soluzioni intelligenti ai problemi della nostra società.”

Tadao Ando

Autodidatta, Tadao Ando riceve infatti la sua prima ed unica “Laurea honoris causa” nel 2002 dalla Facoltà di Architettura dell’università La Sapienza di Roma. Nonostante il titolo ufficiale, è riconosciuto come uno dei principali architetti giapponesi e tra i massimi rappresentanti della corrente minimalista nell’architettura contemporanea. Trascorre gli anni della sua infanzia in campagna; a diciassette anni tenta di intraprendere, sotto l’influenza del fratello, la carriera di pugile professionista. Per qualche tempo, lavora anche come camionista. Dopo molti viaggi formativi in tutti i continenti, apre il proprio studio nel 1969, con il quale realizza un numero elevatissimo di opere. È stato inoltre docente all’Università di Tokyo e ha svolto lezioni a Yale, ad Harvard e alla Columbia University. Inizia l’attività costruttiva nel 1973 con un’abitazione unifamiliare (casa Tomishima), prima di una serie di residenze con le stesse caratteristiche: tra queste, spicca per importanza casa Azuma ad Osaka (1976), premiata in Giappone e trampolino di lancio verso la fama internazionale. La piccola abitazione porta in sè elementi ricorrenti nella progettualità di Ando: gli ef26

fetti luminosi, l’importanza (anche materica) dei muri e degli spazi divisori, il “rapporto tra geometria pura ed elementi naturali”. I tre fondamenti dell’architettura di Ando sono infatti la geometria, la sostanza e la natura. Quest’ultimo aspetto è evidente soprattutto nei complessi residenziali di Rokko I e II (realizzati tra il 1978 e il 1993) in cui il pendio naturale dell’omonimo monte viene sfruttato da Ando per realizzare residenze con vista sulla baia di Osaka. La sua produzione comprende inoltre edifici di culto (la Chiesa della luce ad Ibaraki, 1989; la cappella sull’Acqua a Tomamu, 1991) e centri commerciali (a Kyoto e Tokyo). Il rigore geometrico con cui esprime “una spazialità evocativa di un mondo interiore tipicamente giapponese” lo porta a realizzare centri espositivi e padiglioni fieristici, centri di ricerca (tra cui “Fabrica” di Benetton a Villorba) e soprattutto una serie di musei, tra cui il Museo del Legno (Hyogo, 1994), della Cultura (Gojyo, 1995), dell’Arte Moderna (Kobe, 2001). A Venezia, da segnalare il restauro di Palazzo Grassi (2005) e quello del Centro per l’Arte Contemporanea (Punta della Dogana, 2009). È stato insignito nel 1995 del premio Pritzker.


Punta della Dogana e la chiesa della Madonna della Salute; Dorsoduro, 2, Venezia

Punta della Dogana: il progetto di restauro

Pianta piano terra di Punta della Dogana con l’intervento di Ando che risulta essere minimo e che si pone distaccato rispetto all’esistente, una scatola nuova all’interno di quella antica

La quattrocentesca Punta della Dogana è costituita da una struttura semplice di nove magazzini. Il volume forma un triangolo che segue la punta dell’insula di Dorsoduro, mentre gli spazi interni sono divisi in lunghi “tesoni” trasversali. Con il ripristino delle murature interne in mattoni a vista e delle grandi capriate lignee il luogo rievoca il passato utilizzo doganale. Nella parte centrale del complesso vi è una corte interna quadrata, che include due “testoni” illuminati da luce zenitale. In questo spazio Tadao Ando ha collocato un nuovo volume con pareti in cemento a vista e una scala per giungere alla quota superiore. Lo spazio si trasforma in modo enfatico, rende apprezzabile la doppia altezza della fabbrica e le opere d’arte esposte, attraverso un dialogo tra antichi e nuovi elementi che rigenerano gli ambienti. All’esterno dell’edificio spiccano i nuovi serramenti ispirati alla grata d’ingresso del negozio Olivetti in piazza San Marco. “Non sarei mai capace di disegnare una griglia bella come quella disegnata da Carlo Scarpa. Il mio vuole essere un segno di rispetto nei confronti di un maestro dell’architet27


Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, “Veduta da San Marco della Dogana da Mar e della Salute”, 1726-1728

Francesco Guardi, “La punta della dogana verso la chiesa della salute”, 1712 - 1793

tura, è il mio modo per rendere onore al maestro.” Il nuovo museo di Venezia è celebrato come un palcoscenico sensazionale per l’arte moderna. 4500 m2 di esposizione nello spazio dell’antica Dogana da Mar, ex ufficio doganale marittimo costruito nel XV sec. e ricostruita più volte per far fronte all’incremento del traffico commerciale. La sua forma attuale è frutto di un restauro effettuato nella seconda metà del XVII secolo, nel 1682 per la precisione, cinque anni prima della vicina Basilica della Salute. Infine ricevette il suo taglio barocco con la luce coronata di Giuseppe Benoni negli anni ‘70 del Seicxento. Sebbene attualmente la Dogana ospiti in parte uffici e magazzini, resta un luogo di particolare valore simbolico molto amato dai veneziani. La vicinanza con al chiesa di Santa Maria della Salute, progettata dal Longhena come ex voto alla Madonna da parte dei veneziani per la liberazione dalla peste che tra il 1630 e il 1631 decimò la popolazione, rende questo luogo molto legato alle tradizioni e alle vicende storiche. Il 21 novembre infatti, si celebra la festa della Madonna della Salute e, per l’occasione, viene allestito un ponte votivo sul canal Grande.

Con contrasti entusiasmanti di materiali e strutture vecchie e nuove, viene integrata all’interno la nuova sede della “Punta della Dogana Contemporary Art Center”. Il contratto per la ristrutturazione di questo luogo sensibile e di prestigio,con la chiesa della Salute nella parte posteriore e Piazza San Marco, quasi di fronte, è stato messo a concorso sia dalla Fondazione Guggenheim, la quale ha gareggiato con un progetto di Zaha Hadid e la Fondazione Pinault, con il vincitore Tadao Ando come progettista. Quest’ultimo realizza anche il teatrino all’interno del vicino Palazzo Grassi, affacciato sul canal Grande. Il complesso di tetti a falde occupa il promontorio con la logica semplicità di un triangolo isoscele, il cui profilo corrisponde a quello cella costa. La sua struttura interna è formata da magazzini paralleli e stretti con porte su entrambi i lati dell’acqua. Con grande rispetto per la sostanza storica, la struttura originale dell’edificio è stata ri-scoperta. Il consolidamento strutturale dell’edificio pericolante e l’allestimento al suo interno della galleria espositiva per l’arte moderna vengono realizzati successivamente al

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«Io cerco ardentemente la mia identità e il suo significato in architettura. Dal momento che tutto è in movimento, questa mia ricerca è permanente e le risposte non sono mai completamente soddisfacenti » (Tadao Ando)

sistema di protezione contro l’acqua alta. Le leggi attuali italiane impongono un restauro filologico degli edifici storici che li riporti allo stato originario, vietando qualsiasi intervento che ne alteri l’aspetto esterno ed interno. Il problema principale dell’intervento è stato quello di riuscire a realizzare uno spazio moderno sviluppando contemporaneamente le potenzialità del monumento antico. Le vecchie apparecchiature murare in laterizio e le travature imponenti in legno dei soffitti vengono riportate alla luce, nascoste dagli interventi successivi, risvegliando il mare e il potere commerciale della Serenissima. Vengono apportate poche modifiche e riguardano l’introduzione di alcuni elementi architettonici volti a valorizzare il fascino degli ambienti e a conferire maggiore risalto alla singolarità dell’edificio. Forma ancora oggi il cuore del sistema una “scatola di cemento” levigata che trasforma l’atmosfera storica in modernità. Dal cubo partono tutti i percorsi di attraversamento del museo, vengono introdotte nuove scale e rampe da e verso il magazzino rinnovato con scaffali tipici di alcuni edifici a due piani, dove il superiore ottenere

luce naturale mite da aperture in vetro smerigliato. Anche le facciate esterne sono state accuratamente restaurate e riportate al loro stato originale, mentre le finestre e le porte sono state rifinite in uno stile contemporaneo in acciaio e vetro. La vicinanza ai traghetti permette una stimolante interazione tra arte moderna e patrimonio storico di cui Venezia è ricca. ll progetto Punta della Dogana ha richiesto un’indagine approfondita sull’edificio esistente, che ha esaminato non solo ciò che l’edificio era oggi, ma ciò che era storicamente. Dopotutto, affinché l’edificio fosse riportato al suo stato originale, quando quel punto era e ciò che includeva doveva essere determinato. Gran parte dell’edificio storico - come le capriate del tetto e i mattoni - fu accuratamente smontato, restaurato e rimontato. In molti punti, tuttavia, le cicatrici lasciate dal processo di rimozione e ricostruzione sono state mantenute. Queste imperfezioni consentono agli strati della storia di mantenere una presenza nel museo e servire da palinsesto della storia del luogo.

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Punta della Dogana prima della realizzazione della chiesa della Madonna della Salute (1631)

Erhard Reuwich, Civitas Venetirarum, 1486

Dogana da Mar

“Un’immensa nave galleggiante sulle acque del Bacino di San Marco, un antico galeone di pietra col cassero di poppa (i due campanili posteriori) … il cui nocchiero, comandante, è la Madonna collocata in cima intenta a “navigare” sulle sorti e i destini della città lagunare …” Dall’estrema punta di Dorsoduro si percepisce una buona parte della spazialità di Venezia: ’isola di San Giorgio Maggiore, la Punta della Dogana in mezzo come una prua protesa verso San Marco, la Laguna, il mare come un monito, e a sinistra la “magica” Riva e Piazza di San Marco con la grande Casa Dogale dove è accaduta tanta Storia e si decideva quanto riguardava la Serenissima. Ma com’era la zona della Dogana prima del 1620 e della chiesa della Salute? C’erano almeno due cose, due complessi edificativi significativi: Santa Maria della Visitazione o dell’Umiltà con facciata sul Canale della Giudecca e Santa Trinità affacciata sul Canal Grande insieme a diversi altri edifici confluenti verso la Punta della Dogana. Queste chiese non esistono più. Gli altri edifici appartenevano ai Cavalieri Tem30

plari e poi da quelli Teutonici residenti in Venezia. Prima di tutto è necessario fare chiarezza sul complesso della “Dogana da Mar”, chiaramente articolato e che si sviluppa in successione a comprendere un insieme di tre volumi che non è possibile confondere. Esso consiste: - della punta vera e propria formata dalla torre, sormontata da statue e dalla sfera, che si conclude con i pilastri e le colonne che si affacciano nel bacino di San Marco; - del corpo degli uffici doganali che si sviluppa, senza soluzione di continuità, immediatamente a ridosso della punta ed è identificato dai grandi archi alla rustica sormontati da una merlatura mistilinea; all’interno i vani sono inizialmente piuttosto piccoli e oltre due spazi cadenzati dai pilastri ottagonali in cotto; - la terza parte, la più ampia, è costituita dal complesso regolare dei magazzini allineati di lunghezza crescente che giunge a chiudere sul lato est il campo della Salute. L’autore dell’opera di testa, comprensivo di torre e loggette è il quasi sconosciuto ingegnere ed architetto Giuseppe Benoni. Sconosciuto poiché compare solo in una significativa fonte a stampa del 1840 scritta dall’architetto Francesco Lazzari, grazie a notizie a lui


Punta della Dogana dall’alto: si individua chiaramente la punta vera e propria, il corpo degli uffici doganali con spazi corti, i magazzini di lunghezza crescente, dall’esterno e in uno schizzo di Tadao Ando

pervenute tramite studiosi dell’epoca. Quello che è certo è che la Punta della Dogana è un caso unico ed isolato. In realtà non è un mero e semplice elemento di arredo urbano: l’edificio assolveva un compito molto delicato strategico nel sistema veneziano, una struttura articolata con ufficio, magazzino, luogo di vedetta, di ispezioni, di controlli e di esazioni. Inoltre, il suo peso, non è solo un semplice segno urbano ma divenne un supporto per altre funzioni. Sarebbe un errore quello di identificare la dogana, cioè un articolato sistema di magazzini, strutture e servizi, con la punta della stessa dogana, cioè il frammento finale che crea una cesura improvvisa con la forma e la storia, risolvendo scenograficamente un quesito linguistico oltre che un problema di funzionalità urbana. Ma chi operò nella prima fase costruttiva della dogana? Sappiamo che Baldassarre Longhena partecipò alla progettazione ma, alla fine, prevalse il semi-sconosciuto Benoni. Ancor prima della famosissima pianta-veduta a volo d’uccello di Jacopo de’Barbari, del 1500, Erhard Reuwich restituisce il complesso della Dogana davanti al quale veleggiano velieri. Siamo nel

1486, quando la macchina edilizia della Dogana già appare nella sua articolazione, che resisterà fino al rifacimento seicentesco. All’edificio basso e allungato, che si articola nei magazzini a capriate, si contrappone in punta una torre quadrangolare su due ordini con copertura padiglione e un accenno di merlatura, un edificio piuttosto tozzo dove sono ospitati funzioni e personale amministrativo. La torre ricorda un antico e mitica struttura difensiva all’imboccatura del Canal Grande, volta ad impedire incursioni e assalti alla città. Questa venne realizzata nel lontano 1414 insieme alla struttura fatta di capannoni paralleli di lunghezza degradante che terminano, appunto, nella torre merlata. Scriveva Tassini (1863) nel libro “Curiosità Veneziane”, che “In Venezia sino all’anno 1414 tutte le merci si scaricavano e si ponevano a bilancia presso San Biagio di Castello. Ma poichè la grande affluenza di esse, si edificarono due dogane, ovvero nel 1313 la Punta del sale, nonchè Punta della Trinità perchè prossimo alla chiesa e al Monastero della Trinità, distrutti quando nel 1631 si innalzò colà la chiesa di Santa Maria della Salute. La Dogana da Mar, che 31


Jacopo de’Barbari, Venetia, particolare con l’insula della Dogana, 1500

Anonimo, Venetiae, 1680 circa

era fornita d’una torre, visibile nella pianta di Venezia attribuita ad Alberto Durero, si riattò nel 1525. Ebbe poi una rifabbrica nel 1675 sul disegno dell’architetto Benoni.” La Dogana da Mar con la sua punta, nonostante la lunga retorica profusa a rimarcare il suo ruolo e funzione di porta, di ingresso dentro il corpo della città, non risulta farsi carico di un tale significato. Questo si percepisce molto bene dalla veduta del de’Barbari. La Dogana solca le acque come la prua di una nave ed è pronta a mollare gli ormeggi per immettersi su una rotta, il cui destino e l’orizzonte sono ignoti (riferendosi alle numerose manipolazioni spaziali a cui sarà soggetta nel tempo). La punta non ha una vera facciata, non ha i soliti marchi dell’ufficialità e del potere.

clusione. Tra il 1675-77 Longhena, autore della sistemazione delle fronti dei magazzini e della Dogana, perderà la partita per la realizzazione della punta vera e propria. La costruzione della basilica della Salute aveva compromesso lo stato di conservazione dei magazzini: per questo motivo toccò allo stesso Longhena preparare un progetto per la sistemazione dell’intero complesso della Dogana e dei suoi magazzini utilizzando i materiali di risulta dello smantellamento delle antiche Beccherie a San Marco. L’operazione di smontaggio dei materiali non è di poco conto: questi infatti godevano di grande prestigio per la loro imponenza e l’elegante trattamento. Quella smontata da Longhena era quindi una facciata a bugne in pietra di Rovigno; il risultato era un insieme di recupero e riassemblaggio eclettico, si può vedere ancora oggi nella nuova fronte del’edificio corrispondente al settore dellla fabbrica inserito tra i magazzini medievali e la vera e propria punta, realizzata poco dopo da Giuseppe Benoni. La parte realizzata da Longhena è quindi costiutita di una facciata ripetuta sia su Canal Grande sia sul Canale della Giudecca formata da due gruppi di tre aperture

La Dogana di Baldassarre Longhena La storia della Punta della Dogana è intrecciata e connessa con quella della basilica della Salute e della sua collocazione orientale del sestiere di Dorsoduro. Nel 1631 si conclude la fase di progettazione della chiesa e solo nel 1670 il cantiere pare avviarsi verso la con32


Luca Carlevarijs, Altra veduta della Dogana, 1703, Venezia Museo Correr

Domenica Lorisa, Veduta della Dogana. 1720

con originali protomi leonine in chiave d’arco, sormontato da un attico concluso da una merlatura mistilinea. Nella collocazione dei marmi, dato dai mensoloni sotto le finestre, si percepisce come Longhena si sia direttamente ispirato a Sansovino, sia nella perizia scenografica che nella genialità della collocazione dei marmi stessi, senza tradire le proporzioni della fabbrica e senza costituire ostacolo al profilo dell’isola. Per quanto riguarda la parte terminale, Longhena non voleva offuscare la veduta sulla Salute; i suoi ripetuti progetti, sette per la precisione, non riescono comunque ad imporsi. Longhena proponeva di proseguire il rivestimento dei magazzini come nella parte già realizzata e di ornare l’impianto con una serie di interventi di ulteriore qualificazione linguistica. Nelle sue intenzioni, la punta vera e propria, con colonne alla rustica, cornicioni e merlature della stessa altezza del rimanente, andava realizzata ex novo modificando ciò che ancora resistiva della vecchia torre merlata. Si doveva infatti abbassare e rivestire la torre creando all’interno alcuni locali per i preposti, le maestranze e gli impiegati e una balaustra. Nei successivi progetti

introdurrà ulteriori elementi di decoso, per rispondere alla richiesta di monumentalità dell’elemento “punta”. Il concorso per la Punta Longhena aveva redatto ben cinque progetti per chiudere l’affare della dogana, senza però riscuotere il gradimento dei Procuratori. Fu lo stesso Senato a chiedere altro materiale e a suggerire di coinvolgere altri progettisti per dare un segno forte al fronte mare della dogana senza tuttavia nascondere la chiesa. I due concorrenti sul campo erano Giuseppe Sardi ed Andrea Cominelli, i cui modelli non erano nemmeno stati ammessi al confronto finale. Longhena non realizzò quindi la punta, fermandosi a tutto il corpo della Dogana fino al portale marmoreo che ancora oggi mette in comunicazione la Dogana stessa con la nuova torre del Benoni. Della facciata che non venne realizzata vi è traccia nell’attuale fronte interna della torre, con il portale dorico ornato dalla strana figura di vecchia in chiave d’arco. Su un edificio gotico rivestito da Longhena con grande effetto pittoresco riutilizzando i manieristici marmi di recupero 33


Sopra: Dionisio Moretti, Dogana di Mare, Venezia 1828 Sotto: Marco Moro, La Punta della Dogana secondo il progetto di Benoni, Venezia 1840

dalle Beccherie di Sansovino e Sorella, l’ingegnere Benoni aggiunge, il proprio doppio cubo edilizio sormontato dalla sfera del mondo sulle spalle dei due giganti della fortuna con la sua vela segnavento. La realizzazione della Punta non fu comunque facile: l’invenzione delle tre logge sui tre lati liberi della torre e le volute e il piedistallo furono comunque elementi che distinsero nettamente lo stile di Benoni da quello del Longhena. La qualità pittoresca della punta è uno dei suoi punti di forza, risultato di scelte accuratissime ed il frutto di un’abilissima utilizzazione degli strumenti linguistici classici del repertorio dell’architettura del Seicento. La Punta si pone con grande sapienza scenografica quasi ad elemento di convergenza e di mediazione tra i barocchi scoppi longheniani alla salute e la equilibrata perfezione dei riflessi palladiani dello sfondo. Se è vero che Longhena era preoccupato di isolare e tutelare la salute va detto che l’operazione di Benoni la rese percepibile maggiormente per accostamento dialettico. Le colonne cerchiate e bugnate che sostengono le tre terrazze sviluppano un gioco raffinato alternandosi a pilastri nella parte interna dei prospetti, 34

Taviani-Lefevre, Veduta di Venezia a volo d’uccello, 1855 ca.

cosi che gli spigoli dei pilastri accentuano l’isolamento e consolidano il distacco del rimanente spazio, mentre le colonne verso gli interni addolciscono l’accesso al portale. In alto, la copertura della torre, che risulta a questo punto un raddoppio in verticale del basamento cubico circondato dalle colonne, offre uno sporto alquanto insolito, sorretto da una trabeazione a triglifi ornati di bei crani equini decoravi e stilizzati. Tutti gli elementi di un’architettura che celebra la pietra. La sapienza scenografica e prospettica del Benoni emerge anche da alcuni suoi scritti che ne sottolineano la soluzione per la punta ai fini di soddisfare l’occhio di chi la guardi, sia da presso che da lontano. Le numerose decorazioni plastiche, come i leoni digrignanti, le statue dei tre Atlanti e di Fortuna, le volute sopra il tetto a ripresa della cupola fanno della punta un elemento che in un certo senso chiude un sistema architettonico e nello stesso momento apre la vista sullo stesso. Alla fine della fase seicentesca il complesso della Dogana si presentava quindi così: la punta estrema realizzata da Benoni; le fronti bugnate ad archi suddivise su ciascun lato in due gruppo finestra-por-


Alvise Pigazzi, Tavole di progetto per la ristrutturazione della Dogana: in alto a sx prospetto verso il Canale della Giudecca, a dx verso il Canal Grande; in basso le piante della zona della Punta; 1838-40

tale-finestra separati da un intercolumnio (il tutto proveniente dalle Beccherie all’Ascensione), con all’interno gli uffici ed i primi magazzini con copertura formata da due piccole capriate a crociera; il triangolo della dogana con sei capannoni monumentali a crescere per dimensione e per concezione, con copertura a capriate lignee poggianti sulle lunghe pareti in cotto rinforzate in maniera non regolare da contrafforti; la pavimentazione mista con l’originale tessitura in cotto a spinapesce sostituita progressivamente in masegni grigi di trachite euganea. La dogana nel 1800 Nel primo ottocento la Dogana si presentava con la punta marmorea con colonne e pilastri, volute e modiglioni, triglifi e il formidabile gruppo Atlanti-sfera-fortuna; subito dietro la parte montata da Longhena, con sei archi per parte, le bugne, i mascheroni, i medaglioni e la merlatura. Procedendo verso la Salute però i magazzini medioevali erano rimasti sostanzialmente com’erano da secoli e inquietavano i Procuratori e il Senato per via del loro apparire ancora un’architettura

non verista, senza dignità rispetto a quel bisogno di monumentalità e di decoro che era una preoccupazione costante e quasi maniacale per quanti si davano da fare per l’apparire della città all’occhio del visitatore. Sul Canal Grande prospettava una muraglia in cotto che terminava in alto con una fitta merlatura. Verso il Canale della Giudecca, invece, la muraglia più bassa e senza merlatura consentiva di vedere la falda minore dei coperti dei sei capannoni corrispondenti alla organizzazione planimetrica della struttura. La parte rinnovata da Longhena e Benoni ospitava la dogana vera e propria, mentre i sei capannoni erano i magazzini usati per le merci. Nei primi quarant’anni dell’800 vennero fatti dei lavori di manutenzione, agli esterni e alla punta, prestazione di falegnameria e muratura. Già dalla fine degli anni trenta gli interventi di ristrutturazione di Alvise Pigazzi erano quasi finiti, visto lo stato di impresentabile degrado dello stabile. L’ingegnere, che lavorò in campo san Francesco della Vigna nella sua galleria sospesa e in altri interventi di minore entità, restaurò e risanò i magazzini verso il Canale della Giudecca, con nuova fronte. Inoltre 35


Alvise Pigazzi, Tavole di progetto per la ristrutturazione della Dogana, dettagli, 1838-40

Francesco Zanin, Punta della Dogana, 1870-1880, Milano

demolì i Saloni posizionati a metà tra la Dogana e la zona dei religiosi nel 1823 per ampliare il giardino del seminario. Egli intervenne anche negli interni e sulla struttura, dando soluzioni coerenti ed equilibrate, riducendo le capriate, adeguando l’andamento obliquo delle falde, organizzando l’interno della ristrutturazione secondo un asse centrale che resterà dominante fino ad oggi. Alla vigilia degli anni cinquanta del secolo, il triangolo della Dogana si presentava compiutamente attrezzato per accogliere una nuova ed importante funzione, quella di punto-franco, dal 1851 al 1872, subentrando in ciò alla piccola darsena neoclassica davanti a San Giorgio Maggiore. Sta di fatto che dall’istituzione del punto-franco le richieste di intervento al Genio Civile per restauri e manutenzioni sono quasi pressoché assorbite dalla necessità di mantenere in efficienza tali importanti strutture, specie per quanto riguarda ripari e rifacimenti alle barriere lignee e alla loro trasformazione da mobili a fisse. L’edificio vero e proprio riceve un adattamento interno per sistemare i nuovi uffici e per far fronte alle necessità logistiche e di acquartieramento delle guardie di

finanza e degli impiegati. Importante la realizzazione di una serie di pilastri ottagonali in cotto in doppia e in semplice fila nel primo magazzino verso la punta per sostenere il solaio delle stanze create tagliando in altezza il vano: da sottolineare che, così come era successo molti anni prima con le necessità di restauri ad appena qualche anno dalla costruzione della Punta, anche ora già si deve provvedere ad interventi manutentori sui nuovi finestroni del Pigazzi. Si giudica preoccupante nel 1861 un cedimento che coinvolge le stanze della direzione della Dogana e la zona dei servizi e che costringe a un massiccio intervento di puntellazione e poi consolidamento proprio all’interno dei piccoli ambienti della Punta. Venne anche realizzata una nuova scala per accedere al cubo superiore. Un’ulteriore proposta per sopperire gli spazi precedentemente ceduti al Seminario patriarcale, situazione riproposta, in forma diversa, anche negli anni cinquanta e poi novanta del Novecento. Nel secondo Ottocento si effettuarono importanti lavori. L’abolizione del punto franco nel 1872 è l’evento che innesca una stagione di grandi lavori sull’intero

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Tavole di progetto per i grandi lavori per l’ampliamento del fabbricato di residenza della Dogana della Salute. Stesure dell’ingegner Carlo Veronese del Genio Civile di Venezia. Si vede in questa pagina la sostituzione dei solai, la riorganizzazione del distributivo, le opere di fondazione; 1875

edificio della Dogana, non solo perché esso determina una trasformazione radicale delle funzioni del complesso che passa dall’essere un luogo sostanzialmente chiuso ed esterno al regime daziario e fiscale, ad una sorta di frontiera esterna, con la necessità di svolgere tutta la serie di controlli, ispezioni e verifiche alla merce in transito. Esso ritorna ad essere un luogo frequentabile e frequentato, nuovamente inserito nel tessuto urbanistico e sociale della città. Le nuove condizioni e le nuove funzioni attribuite agli uffici doganali comportando comunque ulteriori lavori al complesso. Dal 1872 si attuano le trasformazioni che hanno dato alla Dogana la configurazione di base da cui è partito l’intervento di Tadao Ando. La nuova destinazione, di dogana generale, rispetto alla vecchia, punto-franco, richiede un nuovo assetto logistico e non è da sottovalutare lo sforzo per far sì che un tale adeguamento si prepari a far fronte anche a futuri eventuali incrementi di attività. Il Genio Civile di Venezia richiese al Ministero l’ingrandimento del fabbricato demaniale riprendendosi gli spazi precedentemente

ceduti al Seminario. Il progetto del lavoro appare redatto per il Genio Civile con supervisore l’ingegnere Antonio Contin e titolare dell’impresa Angelo Costa. Il progetto, in sintesi, prevede: la demolizione di tutte le tramezzature, scale, infissi e superfetazioni varie della porzione di fabbrica corrispondente, sull’esterno, al rivestimento in pietra tornando alle murature d’origine; sormonto delle pavimentazioni in macigno e in legname, al pian terreno e al superiore; la creazione di una nuova grande sala, demolendo la parte centrale del muro divisorio tra i due primi magazzini longitudinali e sostituendo la capriata, smontando il tetto per tutta la larghezza delle due campate; demolizione di tutte le strutture secondarie del coperto, le superfetazioni ecc anche sul rimanente dei capannoni. Per la parte di nuova costruzione il progetto prevede la creazione di locali verso la punta con soppalchi di nuova realizzazione, foderatura in legno delle pareti e messa in ordine di infissi e finestre. Importante la realizzazione della grande sala quadrata o ”sala delle visite”. Innanzi tutto si provvede a creare delle nuove fondazioni con l’impiego di 37


Testa di leone in chiave d’arco sulla parte longheniana della dogana

Il gruppo Atlanti-Sfera-Fortuna dopo il restauro e il sistema di sostegno interno la torre del Benoni Il portale dorico alla rustica che dalla Torre immette agli ambienti della dogana

circa trecento pali di rovere da quattro metri; sopra, lo zatterone di circa un metro e venti di larghezza formato di doppie tavole di larice incrociate e inchiodate e sopra questo un metro e trenta di muratura di fondazione. I due pilastri alti cinque metri, che sostituiscono muri e capriate, sono previsti a sezione quadrata e sostengono un potente tirante ligneo. Si creeranno dei nuovi grandi lucernari, “fanali” di 3x3.50 metri in lastre di vetro su un telaio in ferro. La sala avrà su tutto il perimetro interno, al secondo piano, un ballatoio di un metro di larghezza con pavimentazione in legno, sostenuto da 32 mensole in ferro battuto e con ringhiera in ferro. La pavimentazione venne realizzata in macigni, nuovi e di recupero. Per accedere al ballatoio si costruiranno due scale in pietra d’Istria, sempre con materiali di recupero. Il piano superiore viene risanato con riparazioni alla muratura, creazione di nuova pavimentazione in legno, intonacature e dipinture, sostituzione o riparo degli infissi, tinteggiature muri ecc. Gli esterni degli edifici saranno tutti riordinati con riparazioni e rifacimenti parziali di intonaci lisci e a bugne; riparati 38

tutti i portoni e le finestre ed alcuni realizzati ex novo. I coperti saranno rimaneggiati, sostituendo le tavole, impermeabilizzando le grondaie, pulendo i canali fra i coppi, sostituendo i parafulmini e così via. Quella della sala quadrata è l’operazione più significativa dell’intervento che ne qualifica la logica su cui fa perno la riuscita dell’intera rilettura del complesso della Dogana. Gli interventi di questa fase, promossi dal Ministero stesso, riescono a sottrarsi ai condizionamenti di una lettura del vecchio edificio medievale a capannoni allineati che aveva sempre esaltato i caratteri essenziali e funzionali di questo tipo di “architettura industriale”. In relazione alla percezione stessa da parte del visitatore della conformazione originaria del complesso; il nucleo di minore estensione e di più recente andamento suddiviso in stanze di piccola dimensione, arroccato nella parte estrema della dogana, appariva diviso in due da uno stretto corridoio di formazione medio-ottocentesca. Questo collegava al livello del piano terreno questo primo nucleo con la vasta area della “sala delle visite” ricavata dal rimaneggiamen-


Tavole di progetto per i grandi lavori per l’ampliamento del fabbricato di residenza della Dogana della Salute. Stesure dell’ingegner Carlo Veronese del Genio Civile di Venezia. A sx la nuova pianta del piano terra, con le modifiche apportate per la cotruzione della grande sala quadrata; a dx le demolizioni al primo piano

to dei primi capannoni a capriate. Su ambo i lati, gli spazi residuali davano vita ad uffici a pianta trapezoidale collegati tra loro e con la sala. Solo quest’ultima presentava una doppia altezza, illuminata dall’alto dai due grandi lucernari, imponendosi gerarchicamente sugli spazi minori. I quattro capannoni più lunghi, pur conservando il loro allineamento, venivano tagliati in tre parti su ambedue i piani, così che se ne perdeva la percezione di lunghe navate con coperto a capriate lignee. La loro parte centrale, veniva trasformata in una vasta stanza di disobbligo: da essa si accedeva alle due scale che conducevano al ballatoio della sala quadrata. In breve scomparivano alla vista i lunghi magazzini a favore di una labirintica ragnatela di piccole stanze, governate da un forte asse di penetrazione centrale, perpendicolare alla struttura. Questi erano percorribili lungo confusi itinerari perimetrali, dominati dai finestroni semicircolari sul Canale della Giudecca e sul Canal Grande, mentre al pian terreno molto cupi in una modesta dimensione di servizio. Nel 1858 si propose l’apertura delle porte su campo della

Salute: la proposta venne respinta ed attuata solo in epoca recente con l’intervento di Ando. Questa scelta annuncia la possibilità di rovesciamento radicale dell’orientamento prevalente dell’intero complesso, mantenendo comunque gli ingressi ufficiali dalla fondamenta in corrispondenza delle due portinerie vigilate che immettevano alla sala quadrata Nel 1875 venne aperto un bar con caffetteria, con illuminazione a gas, che però non ebbe molto successo. Nonostante la lungimiranza mostrata dall’Intendenza di Finanza e dal Genio Civile al momento dell’abolizione del punto-franco, il commercio cittadino non pare prevedere grandi sviluppi. Nel 1879 il ministero chiede notizie storiche sull’origine dell’edificio e informazioni sulle successive destinazioni d’uso, quindi se si tratti di una proprietà demaniale e se abbia di recente subito sostanziali trasformazioni. Il genio Civile di Venezia risponde alla circolare, affermando che non ci sono i mezzi adeguati per il carico e lo scarico, ma nega la possibilità di modifiche sostanziali alla Dogana. S’affaccia anche da queste considerazioni la coscienza diffusa circa una evidente 39


Tavole di progetto per i grandi lavori per l’ampliamento del fabbricato di residenza della Dogana della Salute. Stesure dell’ingegner Carlo Veronese del Genio Civile di Venezia. Sezione longitudinale sulla sala quadrata

difficile “industrializzazione” moderna della città. Va sottolineato che se negli anni del punto-franco, quelli austriaci, si era sempre fatto fronte alle necessità di funzionamento con provvedimenti occasionali e con interventi d’urgenza, le opere del 1873-75 dimostrano una considerevole dose di modernità e una visione d’insieme, secondo una logica programmatica e sistematica. Si avvicinano gli ultimi anni del XIX secolo, quando Venezia deve fare i conti con edifici storici, dell’industrializzazione, che occorrono di risanamento fisico oltre a tutti gli altri piani urbanistici ed edilizia popolare che vedono Venezia al centro di problemi abitativi e igienico-sanitari. In questi anni la Dogana subì piccoli interventi di restauro che vanno dagli adeguamenti tecnologici e funzionali, agli ampliamenti e consolidamenti delle banchine lignee, all’allargamento delle rive d’approdo ecc. Nel 1881 per esempio, si rende necessario un intervento alla parte monumentale con l’inserimento di tasselli, l’integrazione di abrasioni ai marmi, o la sostituzione di parti di cornici o di basi di colonne e di pilastri danneggiati: un veloce degrado dell’edificio, sottoposto a sollecitazioni da parte 40

delle attività pesanti che si svolgevano al suo interno. Una situazione sempre più precaria e degradata . Novecento Dal punto di vista patrimoniale, nella metà del ‘900, il Demanio aliena una parte consistente della Dogana, a favore del Seminario Patriarcale. Questo aveva ottenuto di utilizzare una consistente fetta della Dogana, ricevendola dal Demanio, ben prima del 1958. La parte dell’edificio viene venduta dallo Stato, registrando l’acquisto vero e proprio solo a fine 1964. L’allora Patriarca di Venezia, Giovanni Urbani, giustificò l’acquisto per i grandi spazi aggiuntivi del seminario, quali il dormitorio, il refettorio, le attività ricreative dei seminaristi. Alla fine il Demanio cede circa 1250 metri quadrati del “Compendio Demaniale denominato Dogana della Salute”. Due sono gli aspetti poco chiari: primo, un bene riconosciuto di notevole interesse artistico viene destinato a funzioni che hanno richiesto adattamento, frammentazioni, dotazioni di servizi ecc. non compatibili con il valore storico; secondo che l’unitarietà del sistema “triangolo”


Sopra: la sala con i pilastri ottagonali dopo il recente restauro; Sotto: brani dell’antico pavimento in cotto medievale a spinapesce, oggi circa 50 cm al di sotto del piano di masegni in trachite

Tavole di progetto per i grandi lavori per l’ampliamento del fabbricato di residenza della Dogana della Salute. Stesure dell’ingegner Carlo Veronese del Genio Civile di Venezia. La pianta del piano primo

veniva tagliata brutalmente alla base, il primo e il secondo magazzino nello specifico, quelli a ridosso del Seminario, introducendo un elemento di discontinuità e di dissesto a un complesso che si era preservato in condizioni di unità nel corso di seicento anni. Nel Novecento la Dogana della Salute, sta sopravvivendo a se stessa: il porto e le sue funzioni, le grandi banchine, i terminali ferroviari e marittimi, i Magazzini Generali e il Deposito franco sono migrati altrove sostituendo gli uffici daziari e i depositi fiduciari della Salute. Rimangono alla Dogana alcuni uffici di rappresentanza più che operativi. Tale condizione fa sì che l’integrità dell’insieme e dei suoi spazi sia erosa progressivamente dall’assegnazione degli stessi ai più vari utilizzatori. I vani sono prevalentemente vuoti, degradati, inservibili. Sulla Punta vera e propria giungerà a porre il piede la centenaria Reale Società Canottieri Bucintoro a inizio Novecento, facendone sede del proprio cantiere. Nel corso del 2007 questo sodalizio lascerà la punta ottenendo la concessione in uso del piano terra di uno dei magazzini della sale alle Zattere. Alcuni spazi vennero occupati dalla Soprintendenza

alle Gallerie come depositi per materiali di scavo di scarso valore. Tutto questo testimonia che la lunga stagione della decadenza e del degrado stava minando la consistenza fisica della Dogana, dopo averne rovinato l’immagine, il patrimonio etico e storico. Sui destini della Dogana si stanno però progressivamente affacciando nuovi pretendenti, dalla Regione Veneto al Comune di Venezia, fino all’ipotizzare una destinazione “culturale” per la Dogana stessa, vista la mancanza in città di una sede da adibire permanentemente all’allestimento di mostre ed esposizioni temporanee. Da una parte la Fondazione Peggy Guggenheim, il Ministero dei Beni Culturali e la Biennale, che negli anni ‘90 avanzerà la sua richiesta per collocare nella Dogana della Salute presidenza, direzione ed uffici vari. Parte quindi, alla fine degli anni ‘80, un singolare balletto che ha come oggetto la conquista del prezioso triangolo estremo del sestiere di Dorsoduro. Ricostruire i vari passaggi e le differenti sfumature di questa sorta di anomale lotteria sarebbe troppo complicato: nel 1993 la Regione comunica la mancanza di fondi per il mantenimento dell’edificio. A seguito di 41


La sala quadrata prima e dopo l’intervento di Tadao Ando

una serie di intrecci economici e, soprattutto politici, si optò per la stipula da parte del Ministero delle Finanze di un’apposita convenzione con la Guggenheim. Questa però, non si presentava con un chiaro progetto né con un programma vero e proprio. Solo tra il 199697, grazie ad Alessandro d’Urso, la fondazione e il comune di Venezia costituiscono un accordo per la gestione della Dogana nella sua destinazione mista: museo e sede espositiva. Vittorio Gregotti, predisponeva per incarico della Guggenheim stessa, la prima bozza del progetto di recupero della Dogana e della sua trasformazione in museo. Gregotti partiva da un lato logico e razionale che era, al contempo, una operante scelta filologica e storica: occorreva prioritariamente ricomporre quell’unità del complesso che era stata maldestramente violata con la vendita del Seminario tra il 1958-64. Occorreva inoltre restituire all’insieme della Dogana il suo naturale orientamento e, quindi, il suo senso e la sua logica: ripristinare quindi la geometria strutturale e formale di cui si era smarrito il ricordo. Questo doveva avvenire eliminando le superfetazioni e le frammentazioni, apponendo assi di accesso e di 42

penetrazione trasparenti e simmetrici. Oltre a questo, il progetto proponeva un’adeguata dotazione impiantistica e di servizio, così come ipotizzava la creazione di aree di sosta e di permanenza di pregiata collocazione. La soluzione “b”, che non considerava il ripristino dell’area ceduta al Seminario, era fortemente limitativa da risultare punitivo alla qualificazione dell’intero intervento. Il progetto, in sintesi, prevedeva di riportare l’edificio al principio tipologico originario, costituito da lunghi saloni passanti dal Canale della Giudecca al Canal Grande con altezza media di quasi 10 ml e lunghezza variabile. Le superfici murarie dei saloni avrebbero dovuto essere riportate faccia vista cosìccome le capriate lignee delle coperture. La cessione da parte del Demanio, facendo fondamento ad un articolo della legge Bassanini, con durata novanta novennale all’ente locale era un problema da non trascurare: i fondi per la realizzazione dell’allora progetto di Gregotti non erano sufficienti, nemmeno quelli per gestire la sua vita museale ed espositiva. La vecchia Dogana da Mar, continuava a deperire fino ai limiti della so-


Vista di progetto dello studio Gregotti Associati

Vista di progetto della sala quadrata di Tadao Ando

pravvivenza fisica. Così la Fondazione Guggenheim, prendendo atto delle numerose problematiche insorte, rinunciò al progetto di riqualificazione del complesso. Fino ad oggi Questa carrellata di vicende storiche spiega perché l’inaugurazione del Centro d’Arte contemporanea, nel giugno del 2009, debba essere considerata l’episodio conclusivo di una vicenda che non ha molti eguali nella storia recente di Venezia. Nel 2000 la Francois Pinault Foundation rese pubblica la propria intenzione di realizzare un centro espositivo dedicato all’arte contemporanea e comunicò di avere individuato nell’Ile Seguin, lambita dal corso della Senna a Parigi, l’area più adatta. Per la progettazione di questo museo, destinato ad accogliere le iniziative promosse dalla fondazione stessa e ad occupare il sito ove sorgono le fabbriche abbandonate dalla fine degli anni novanta della Renault, nel 2001 venne bandito un concorso. Tra i progetti fu scelto quello di Tadao Ando. Ma dopo il 2001, una volta espletato il concorso, ostacoli burocratici e complicazioni di varia natura fecero sì

che l’inizio dei lavori per la realizzazione dell’opera subisse diversi rinvii. Quando anche l’annuncio che la costruzione sarebbe iniziata alla metà del 2004 dovette essere smentito, Francois Pinault iniziò a pensare ad una soluzione alternativa. Questa soluzione prese corpo poiché si prospettò la possibilità di acquistare Palazzo Grassi a Venezia, dall’inizio degli anni ‘80 di proprietà della FIAT, promotrice in seguito di un’intensa attività espositiva, con mostre di notevole successo. Nell’aprile del 2005 il gruppo Artemis, guidato da Pinault, assunse il controllo di Palazzo Grassi. Di lì a poco rinunciò al progetto dell’Ile Seguin. Tadao Ando rimase il progettista prescelto per operare all’interno del Palazzo, edificio che nel corso dei secoli subì numerosi rimaneggiamenti ad opera degli innumerevoli proprietari che vissero all’interno. I lavori di ripulitura degli ambienti, furono completati rapidamente. Nello stesso anno, Ando venne incaricato per il restauro e la rifunzionalizzazione del teatrino. L’arrivo della Francois Pinault Foundation a Venezia e le iniziative varate a Palazzo Grassi contribuirono a portare a rapida manutenzione la trasformazione dei magazzini di Punta 43


Scorci tra il cubo di Ando e la struttura antica

della Dogana in una sede espositiva o in una nuova istituzione museale. Il 12 maggio 2005 Francois Pinault si trova a Venezia per incontrare l’allora sindaco Massimo Cacciari. Egli ha da poco acquisito il controllo sulla maggioranza di Palazzo Grassi, al termine di una trattativa difficile. L’imprenditore manifestò il desiderio di incrementare l’impegno su Venezia: la dimensione della sua collezione è tale da spingere alla ricerca di altri spazi, di altre soluzioni, anche oltre l’utilizzazione del piccolo teatrino a fianco di Palazzo Grassi. Il desiderio di Pinault di dare una sede espositiva permanente a una parte della sua vastissima collezione e, insieme, di legare questo progetto alla volontà di attivare un centro di ricerca sull’arte contemporanea e i suoi linguaggi che fosse anti-accademico e sperimentale, sembra trovare sfocio proprio nella vicenda della Dogana. Per la città si poneva la prospettiva non solo di salvare il complesso, ma di far si che questa operazione uscisse dagli schemi e dai condizionamenti di una politica di mero restauro, al di là del più tradizionale concetto di salvaguardia, verso la rilettura, del recupero attivo e 44

critico, creativo ed elastico di un eccezionale oggetto storico. L’impresa è forse una delle avventure culturali più lampanti della città negli ultimi decenni. Anche se l’amministrazione cittadina prosegue con qualche fatica nel suo intento di dotare la città di un’importante opportunità culturale a costo zero, ma che comporta da parte del partner privato un ingente investimento. Al bando lanciato dal Comune per assegnare in sub-concessione trentennale la Dogana per finalità culturali e museali si presentano: la Fondazione Guggenheim e la Fondazione Francois Pinault-Palazzo Grassi. Le due proposte si assomigliano molto ma, allo stesso tempo, differiscono radicalmente: ambedue dichiarano l’intenzione di dialogare con la città, ma anzi di proporsi come naturale catalizzatore per rispondere alla forte domanda di contemporaneo di Venezia. Mentre la Guggenheim, proponendo come progettista l’architetta iraniana Zaha Hadid, pensa ad una vocazione per le grandi mostre, la fondazione di Pinault, proponendo Tadao Ando, pensa ad una vocazione dinamicamente museale. Questa rimane in campo da sola, divenendo un nucleo importante di opere in dotazione perma-


nente. L’opportunità culturale si può paragonare alla creazione della Guggenheim ai tempi di Peggy: una grande opportunità per la città di Venezia e un riscatto per il monumento in sé, oltre che per la cittadinanza e per la cultura veneziana per troppo tempo sommersa dal passato e dalla conservazione netta dello stesso. L’8 giungo 2007 venne firmata la convenzione di partenariato tra il sindaco Massimo Cacciari e FranCois Pinautt per la creazione del Centro d’arte contemporanea di Punta della Dogana. A partire da questa data i lavori per la costruzione del Centro sono stati portati a termine con inusuale rapidità. Il loro completamento è avvenuto in meno di due anni e all’ottenimento di questo risultato, un pre-cedente per molte ragioni suscettibile di venire considerato un modello per affrontare altre e analoghe situazioni in Italia, ha concorso l’armonia di intenti che ha guidato la collaborazione instauratasi tra committente, architetto, amministrazione comunale e Soprintendeza ai monumenti. A conclusione di questo breve excursus storico, sappiamo che la dogana riecheggia le cronache del mondo intero sbarcate dai mercanti con

le loro merci sin dalla fine del Medioevo, prendendo forma dai grandi architetti che hanno lavorato e l’hanno concepita, da Longhena a Benoni. Punta della Dogana, simbolo perfetto di Venezia si spegneva tristemente dopo che il XX secolo non le aveva dato giustizia. Negli anni ‘90 venne chiesto di riportarla all’antico splendore. La scelta di Tadao Ando come progettista, architetto di statura internazionale, con un delicato linguaggio architettonico e un grande rispetto del passato, è stata estremamente positiva per il ricco imprenditore Francois Pinault che aspirava alla creazione di un centro d’arte contemporanea all’interno di un luogo che doveva rispecchiare la natura di un edificio pervaso dalla memoria e dalla storia. Per Tadao Ando un museo è un luogo in cui ogni visitatore acquisisce la propria esperienza dell’arte, in cui ogni artista, si esprime liberamente, in cui ogni opera si impone con forza e dove arte ed architettura convivono in armonia. I vincoli storici diventano fonte di ispirazione, e la nuova architettura diventa imperiosa e fragile allo stesso tempo, spettacolare e discreta, rispettosa ed audace. Il nuovo percorso museale conduce il visi45


Particolari della scala e veduta di una delle sale espositive

Lo spazio espositivo nell’ultimo dei magazzini verso la Punta della Dogana

Tadao Ando e Punta della Dogana

tatore dal Campo della Salute alla Punta. I nuovi spazi sono monumentali ma formalmente semplici, scale e percorsi attirano il visitatore dagli spazi espositivi del piano terra a quelli del piano superiore. Gli ambienti sono flessibili, aperti ed accoglienti come richiesta del committente Pinault; la scenografia e l’architettura antica accolgono le opere. I nuovi spazi di Tadao Ando sono coerenti e diversificati al tempo stesso, determinando ambienti insoliti e sorprendenti oppure vuoti ed essenziali. L’elemento del cubo centrale, realizzato in cemento, materiale descritto come il “marmo dell’architettura contemporanea”, viene contrapposto al lastricato dei tradizionali masegni veneziani e al rumore della città, che non tocca questo luogo silenzioso. La Dogana da Mar, cosciente delle numerose trasformazioni subite nel corso dei secoli, diventata un edificio storico e moderno che può essere tramandato al futuro come segno intangibile del nostro tempo. Un tempo che si dimostra più rispettoso verso il passato, capace di riportare alla luce le vecchie sembianze e capace, soprattutto, di modificarne l’utilizzo senza per questo compromettere la natura architettonica antica. 46

“La pianificazione rispetta fondamentalmente la struttura originaria dell’edificio Dogana del Mar, un magazzino storico con un layout molto funzionale costruito in uno stile architettonico semplice. Il progetto di restauro e la conversione di questo edificio emblematico in un centro di arte contemporanea devono rispettare e sottolineare la sua forma triangolare così come la struttura caratteristica del suo piano, definita da una serie di lunghi muri in laterizio, eretti con orientamento nord-sud trasversalmente tra il Canale della Giudecca e il Canal Grande. Inoltre, il concetto di progettazione architettonica prevede di conservare e sottolineare il grande spazio quadrato esistente situato al centro dell’edificio, anche se questo spazio è stato creato in passato rimuovendo la parte centrale di un muro strutturale e installando due colonne di mattoni. In effetti, è diventato uno spazio molto significativo dell’edificio reale e ha un grande potenziale per il suo restauro, sia dal punto di vista funzionale che simbolico. Il concept di Tadao Ando consiste infatti nel ridefinire questo spazio centrale inserendo un nuovo muro di cemento a vista, inserendo un accento contemporaneo nel cuore dell’e-


Gli infissi delle aperture dei mezzanini

dificio e rivelando così l’armonia tra vecchio e nuovo in un dialogo stimolante. Questo nuovo elemento architettonico diventerà così un simbolo per la rigenerazione dell’edificio. Tutti gli elementi strutturali originali, vale a dire i muri in mattoni e le travi reticolari in legno del tetto, saranno restaurati per mantenere le riparazioni e i trattamenti superficiali minimi; rimarranno esposti nella misura più ampia possibile, rimuovendo le finiture architettoniche che effettivamente li deturpano in molte aree. Il carattere originale dell’edificio sarà quindi accentuato, dando così ai visitatori una migliore comprensione della sua storia. Altri materiali originali come la pavimentazione in pietra dei masegni al piano terra dovrebbero essere mantenuti e reinstallati, per quanto il loro restauro possa corrispondere ai criteri funzionali richiesti per i nuovi spazi espositivi. La pianificazione e l’installazione di sistemi meccanici, richiesti per il nuovo programma funzionale, dovrebbero ancora rispettare il carattere e lo stato del vecchio edificio. Il concetto architettonico proposto privilegia quindi un concetto di installazione tecnica in grado di soddisfare le esigenze climatiche di base, ma senza mirare a condizioni per-

Infissi di una delle porte laterali

fette. Poiché l’inserimento di installazioni meccaniche in questo storico edificio veneziano è molto delicato e sarà ridotto al minimo, stiamo quindi cercando di combinarle con soluzioni passive come la ventilazione naturale.” Le parole dello studio Tadao Ando Architect & Associates, risalgono al luglio 2007. Il complesso della Punta della Dogana è costituito dal torrino che conclude verso est un lotto triangolare occupato da una serie di magazzini composti da una somma di campate, di luce variabile e profondità decrescente rese omogenee da due ininterrotte facciate, di luce variabile e profondità decrescente. Quando Tadao Ando intraprende il progetto per la riorganizzazione del complesso, le campate sono per la maggior parte tagliate orizzontalmente da solai realizzati, in epoche differenti, atto scopo di moltiplicare te superfici utili; l’originario sistema di distribuzione a pettine lungo entrambe le fondamenta, che prevedeva per ogni magazzino un accesso da ciascuna delle testate, risulta quindi largamente modificato da interventi per la riduzione degli ambienti a un uso diverso dal primitivo. Il gruppo delle tre campate 47


Le scale interne

più prossime al torrino fronteggiante il bacino ha subito le trasformazioni maggiormente invasive. I diversi ambienti si distribuiscono lungo un corridoio centrale di spina che si conclude su una vasta aula a tutta altezza, ricavata dalla sostituzione di uno dei setti portanti tra le campate con una coppia di pilastri in muratura. Le restanti campate che compongono il complesso sono frammentate in numerosi ambienti più piccoli messi in comunicazione fra loro da varchi aperti tra i setti. Per la realizzazione del progetto, lo studio Ando si appoggia a un gruppo italiano di professionisti, specializzati ciascuno in un ben determinato ambito di interventi: l’architetto Adriano Lagrecacolonna assume la direzione lavori ed è il referente per la progettazione degli impianti; gli ingegneri Giandomenico e Luigi Cocco si occupano dell’intervento di risanamento strutturale degli antichi magazzini e della progettazione esecutiva delle opere edili; lo studio Ferrara-Palladino ha invece l’incarico di curare la progettazione illuminotecnica. Nella stesura della prima bozza di progetto, Tadao Ando si dedica innanzitutto allo schema della circolazione dei flussi di visitatori all’interno delle aree 48

espositive prevedendo ripristino, almeno parziale, della primitiva distribuzione periferica a pettine ricalcando, lungo il margine nord delle campate, pur sempre all’interno della facciata, il percorso della fondamenta lungo Canal Grande. L’accessibilità ed complesso è prevista soltanto dal lato ovest, attraverso uno dei fornici affacciati sul campo detta Salute: ottrepassata la biglietteria e il guardaroba, il visitatore prosegue verso il torrino costeggiando la parete prospiciente il Canal Grande, in tal modo alla sua destra si succedono i vani degli antichi magazzini che, parzialmente liberati dalle partizioni innalzate per scompartire le campate, si possono intravedere, anche se filtrati da grate, in tutta la loro ampiezza. La percezione delle volumetrie originarie, viene quindi nuovamente suggerita sia per lo smantellamento delle pareti di tamponamento, sia grazie alla demolizione di alcune porzioni di solaio. Sfruttando l’eccezione nel sistema di setti portanti paralleli, introdotta nel corso del XIX secolo, Andro prevede la costruzione, attorno ai pilastri al centro dell’aula, di un recinto in cemento armato che distribuisce, in questa prima versione del


progetto, sia i percorsi orizzontali che quelli verticali. Il nuovo muro, è discosto dalle murature preesistenti come dalle strutture della copertura in modo da distinguersi nettamente dall’edificio in cui è contenuto. L’apparente cautela dell’architetto nei confronti delle preesistenze, é favorita da una situazione contingente: non sono ancora disponibili rilievi attendibili del complesso. L’intervento di Ando sembra quindi mirato non tanto al rispetto del manufatto antico, di cui chiede una parziale demolizione, pur se rivolta esclusivamente ad aggiunte ottocentesche, quanto piuttosto a una più generate economia del progetto. L’ubicazione del recinto, discosto dalle pareti perimetrali, e la scelta della finitura per i nuovi pavimenti sono cioè scelte svincolate da eventuali precisazioni dimensionali. Nelle successive tavole dell’architetto, lo schema dei percorsi subisce una prima complicazione, venendo articolato con l’apertura di nuovi varchi tra le campate più lunghe. Anche il percorso di avvicinamento al recinto è accorciato, ridotto ad una campata. La moltiplicazione dei varchi segue una logica mirata a scongiurare la possibilità, per il visitatore, di intravedere il

contenuto della successiva: nel recinto, ci si imbatte senza preavviso e poi si è obbligati a girarvi intorno per scoprirne l’acceso. Il recinto e il nuovo pavimento, entrambi “levigati e ragionevoli”, esibiscono un’estraneità ancora più radicalizzata; le murature devono inoltre venire ripulite per lasciare esposti i mattoni nudi, vecchi, con tutti gli eventuali rattoppi riconoscibili ed in vista. La rimozione di ogni stratificazione riconoscibile, mira a conferire all’edificio l’aspetto di un rudere, a costituire un fondale omogeneo atto a mettere in risalto il nuovo manufatto in cemento armato e il nuovo pavimento. Dove tali esperimenti sembrano essere inefficavi, Ando reintonaca tutto ricoprendo le pareti con scaffali e nasconde le orditure dei soffitti con nuovi controsoffitti. Lo spessore del muro realizzato è di 30 centimetri e vengono posti due varchi sul lato rivolto verso il canale della Giudecca. Ando propone quindi di incrementare l’altezza del recinto così da trasformare il parapetto in un muro alto, interrotto soltanto da quattro aperture simmetricamente accoppiate lungo i lati verso i canali. Portando l’altezza delle pareti in calcestruzzo fino al limite dell’intradosso delle capriate 49


Gli elementi del torrino restaurati

del tetto, Ando esclude quasi completamente la vista delle murature in mattoni dei magazzini dall’interno del recinto, cosicché chi vi entra si trova in un ambiente invertito rispetto a quello da cui proviene, una sorta di passaggio dal positivo al negativo: dove prima c’era un pavimento nuovo in cemento levigato ora ci sono i vecchi masegni del pavimento preesistente; dove prima c’erano murature antiche in mattoni ora c’è un muro nuovo in cemento; mentre prima la luce riflessa dall’acqua entrava obliqua dalle aperture laterali affacciate sui canali, ora, piove direttamente dai grandi lucernari aperti nel tetto. La larghezza complessiva, inizialmente prevista pari a 9 moduli da 1,8 metri, è stata in seguito limata, per garantire tutt’intorno al vano un passaggio largo in media 2 metri. Il modulo di 0,9 x 1,8 metri, su cui Ando abitualmente dimensiona i propri progetti, corrisponde alla dimensione dei pannelli assemblati per formare i casseri per il getto del calcestruzzo. Le sagome dei pannelli una volta ritagliate, vengono giustapposte, così da formare un’unica lastra liscia e piana e in modo che le commessure trai singoli elementi risultino impermeabili poiché qua50

lunque colatura segnerebbe indelebilmente la parete del setto. Sul muro finito, compaiono invece soltanto le sottili e regolari tracce impresse dai bordi dei pannelli e le impronte lasciate dagli ancoraggi tesi tra di essi durante le operazioni di montaggio prima dei getto del calcestruzzo. Nella costruzione del recinto sono stati quindi previsti due giunti verticali per lato e nemmeno un giunto orizzontale, e ciascun segmento è stato realizzato con un unico getto. In sede di cantiere, anche l’altezza del muro è stata ridotta, rispetto alla quota di progetto di 0,225 metri, pari a un quarto di modulo. Il peso, la forma e la dimensione del recinto in calcestruzzo hanno anche comportato un attento studio delle fondazioni, complicato dalla delicata condizione del sito su cui sorge l’intero complesso e dalla presenza della fondazione dei muro tra le due campate che, nonostante le demolizioni ottocentesche, si trova ancora intatta al proprio posto. La malferma consistenza sabbiosa del sottosuolo, era in parte già nota poichè aveva contribuito al dissesto del muro esterno sul lato del Canal Grande. Questo era dovuto anche allo sconsiderato intervento di manutenzione delle antiche


catene lignee nel secolo scorso. E’ stata quindi realizzata ina doppia corona di pali a sostegno della fondazione del nuovo manufatto: questo intervento mette a riparo l’edificio dal possibile rischio che si avrebbe a causa di un cedimento delle nuove fondazioni del recinto, e cioè il pericolo che questo vada a gravare sulla statica dell’intero edificio. Per quanto riguarda i pavimenti, Ando avvia un processo di distillazione che lo porterà a cambiare più volte il tipo di finitura e la disposizione dei giunti. Inizialmente, ad ogni ambito funzionale corrispondeva un pavimento differente. In seguito, viene assegnato un unico tipo di pavimento con la sola eccezione, dell’interno del recinto. Finiture differenti vengono invece scelte per il torrino e gli spazi ad esso adiacenti e, successivamente, anche per l’area della biglietteria, ovvero per tutti gli spazi destinati a funzioni diverse da quelle espositive. Ando chiede di valutare la possibilità, poi scartata, di replicare, ai piano terreno, medesimo pavimento utilizzato da Carlo Scarpa nel complesso monumentale della tomba Brion: un “mosaico” di sampietrini di 3 x 3 centimetri di lato annegati nel calcestruzzo, levigati, tuttavia, come un

terrazzo alla veneziana. Per la collocazione degli impianti elettrici e meccanici, Ando, in prima istanza, prevede di disporre, discosti dalle pareti dei magaz-zini e schermati da grate analoghe a quelle disegnate per i serrame-ti esterni, dei contenitori ben distinguibili, ricavati principalmente dall’ispessimento dei diaframmi posti inizialmente lungo il recinto. L’esigenza, di mantenere il più possibile sgombre le campate per ragioni espositive, si traduce in una progressiva diminuzione del numero dei contenitori che vengono, infine, ridotti a un totale di cinque. Una complessa rete di condutture percorre anche il sottosuolo fino a una quota di fondazione, nei punti di maggior profondità, di -2,2 metri rispetto al piano di calpestio per le quali è stato necessario prevedere un’adeguata impermeabilizzazione e un sufficiente zavorramento delle strutture per evitare infiltrazioni e sottospinte dal basso in caso di alta marea. Le pareti esterne delle vasche in cemento armato, sono perciò interamente rivestite con guaine impermeabilizzanti e dimensionamento dei pacchetti dei pavimenti, contenenti il sistema di riscaldamento, ha dovuto tener conto del peso necessario a contrastare la spinta dell’acqua anche in caso di alta marea eccezionale. 51


Schizzi di studio per la sistemazione del complesso

Disegni e fotografie

I disegni del progetto di restauro, sono ricchi e dettagliati. Alle prima fasi di ideazione e schizzo concettuale dell’idea si aggiungono gli elaborati tecnologici di dettaglio dei professionisti italiani che lavorano sul campo. Si nota la particolare attenzione allo schema dei flussi, ai materiali orizzontali e dei singoli elementi caratteristici.

Schizzi di studio per la finitura delle pareti e dei pavimenti, 25 luglio 2007 52


Schizzi di studio per la sistemazione del complesso

Rilievo della pianta del piano terra e del primo piano, ottobre 2007

Schizzi di studio per la finitura delle pareti, 25 luglio 2007

PiantSchizzi preliminari: prima ipotesi per l’inserimento del recinto, sezione e pianta.

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Schizzi di studio per il piano primo, 21-22 dicembre 2007

12 dicembre 2008, schizzo di studio per la tessitura dei masegni

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Schizzi di studio dei dettagli dei vani tecnici per gli impianti tecnologici 54

Pianta del primo piano


Pianta piano terra 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Foyer / Biglietteria Uffici Servizi igienici Vani tecnici Spazi per le esposizioni Cubo quadrato in cemento Caffetteria Canal Grande Canale della Giudecca

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Piante per la proposta di ampliamento della Fondazione Querini Stampalia, mai realizzata

La difficoltà nel progettare a Venezia

Le città italiane sono circondate da architettura “storica”. Una buona vita nasce da un uso coerente del patrimonio edilizio esistente, ma è anche necessario un patrimonio architettonico migliore. Per realizzare un’architettura migliore servono tre costituzioni: in primis nuove forme e nuovi allestimenti; il recupero e il rinnovo di passate architetture; la tutela e il rammendo del paesaggio. Venezia è da sempre stata, e continua ad esserlo, la patria di ogni “salvaguardia” conservatrice, il luogo per eccellenza del sospetto nei confronti di ogni intervento architettonico-urbanistico innovativo. Effettivamente la storia ha qualche fondamento. Si pensi a Wright, Le Corbusier, Kahn: a nessuno è stato concesso di costruire in laguna. E Scarpa è sempre stato tenuto all’angolo, tranne che per la voce di Mazzariol che ha permesso che la sua opera venisse realizzata. La città accolse positivamente i progetti innovativi, il dibattito culturale era vivo: questi fattori portarono a querelare chi e i motivi che non ne permisero la realizzazione. Nel corso dell’ultimo ventennio è sorta la volontà di dare luogo a Venezia a tante fondamentali voci dell’architettura contemporanea. 56

Venezia è polifonia contrastante, complementarietà di tempi e di linguaggi, insofferenza per ogni forma o disegno che si risolva compiutamente in sé stesso. Le realizzazioni più recenti si inseriscono in un contesto in cui le esigenze funzionali si ordinano. Il complesso delle stesse costituiscono una somma di monumenti dove le logiche economiche sono a fondamento degli stessi. Il loro disegno assume sempre spessore urbanistico-territoriale, inserendosi in una visione più allargata della scala dell’edificio. Consideriamo i poli culturali museali. Essi costituiscono la struttura economica portante della città; è per la loro presenza, dal loro stato di salute che Venezia può continuare ad essere città internazionale. Le opere di restauro compiute trovano in risposta della consapevolezza che la salvaguardia del passato artistico-culturale veneziano è il fondamento del futuro anche economico della città. E ancora, che salvaguardia non vuol dire mera conservazione, ma trasformazione e riuso, poiché solo ciò che vive può conservare in sé memoria del proprio passato. La continuità tra le diverse istituzioni culturali, museali, fondazioni è


Schizzi preliminari di Tadao Ando per l’inserimento di un elemento circolare all’interno di Punta della Dogana

fondamentale per dare un’immagine concreta dei progetti per Venezia, per connetterli tramite una logica di sistema. Per realizzarla occorre un linguaggio comune, un sentire uguale in materia di salvaguardia e conservazione tra istituzioni. Se tra Comune e Sovrintendenza non vi fosse stata simpatia non si sarebbe mai restaurato un singolo mattone di Punta della Dogana, e Tadao Ando non avrebbe realizzato gli spazi interni. Se Mazzariol mentre era impegnato in politica non fosse stato concorde con Scarpa e il direttore Dazzi per la realizzazione della Querini Stampalia, anch’essa molti anni prima non si sarebbe realizzata. Il rapporto tra le istituzioni a Venezia ha funzionato, permettendo la realizzazione di numerosi interventi di grandi architetti ma anche giovani progettisti. I problemi della salvaguardia attiva della città persistono, indubbiamente. Ma Venezia vive, soltanto dimostrando di saper accogliere in sé, nel suo tessuto urbano, i linguaggi dell’ora conferendo ad essi il timbro, trasformandoli in sé. Una città nobile e antichissima, in grado di accogliere architetture contemporanee riscoprendo nel patrimonio la potenza vitale di un futuro prestigioso. Venezia e la

laguna sono eccezionali per la loro morfologia, per la loro totale artificialità: per continuare a vivere devono avere la possibilità di accogliere nuovi quanto meditati manufatti d’architettura, capaci di aggiungere al passato le voci del nostro tempo esaltando la sua eccezionale singolarità. La Querini Stampalia In un’intervista del 1978, Scarpa disse: “Ricordi la casa che Wright propose di costruire a Venezia? (Progetto per la Fondazione Masieri). Wright non ha copiato le finestre della porta accanto. Propose un lavoro per il suo tempo senza dimenticare che la caratteristica essenziale di Venezia era ed è l’acqua. Come ho detto, non ho avuto altro che problemi a pianificare le regole a Venezia e ai burocrati che li interpretano. Ti ordinano di imitare lo stile delle finestre antiche dimenticando che quelle finestre sono state prodotte in tempi diversi da un diverso modo di vivere con “finestre” fatte di altri stili e con un modo diverso di creare finestre. In ogni caso stupide imitazioni di questo genere sembrano sempre cattive. Gli edifici che imitano sembrano degli 57


Demolizione dei solai in cemento armato risalenti al XX secolo

imbroglioni e questo è proprio quello che sono “. A differenza degli allestimenti per Castelvecchio a Verona che chiarificano gli strati esistenti della storia, l’intervento alla Fondazione Querini Stampalia è di facile comprensione. Sebbene fosse stato modificato nel XIX secolo con l’aggiunta di pannelli e false colonne nello spazio principale del piano terra, non vi era alcun lavoro di alcun significato in quel periodo e Scarpa si sentì del tutto libero di rimuovere questi elementi, tornando al guscio del XVI secolo come il suo punto di partenza. La Querini Stampalia oggi è significativa non solo per la combinazione tipicamente superba del linguaggio del XX secolo di Scarpa con quello dell’edificio originale ma, più in particolare, è il progetto che probabilmente si ispira e si fa ispirare dal fenomeno veneziano stesso. La città stessa ha influenzato il suo pensiero architettonico e teorico, forse maggiormente di altri maestri come Wright, Hoffman o de Stijl. Il contesto Veneziano, entra e si cuce perfettamente nel Palazzo Querini: in comune con tutte le case nobiliari, presenta la sua facciata anteriore al canale (il Rio S. Maria Formosa) e impreziosisce lo sbocco sull’acqua 58

come ingresso principale. L’uso del materiale vulnerabile della muratura conferisce al palazzo in sé e, in generale, a Venezia un’aria di decadenza accelerata. Gli strati di stucco che si sormontano contrastano con la superficie in mattoni che sotto persiste. C’è una tensione tra i due, il sottile prezioso stucco artificiale che si adatta in modo vulnerabile alle forze imprevedibili del decadimento rappresentato dall’acqua. Ogni edificio mostra quindi un ciclo continuo di alternanza di stratificazione e decadimento; le facciate rappresentano un dialogo visivo tra le mani dell’uomo e la risposta della natura. Risposta della natura che vede nell’acqua l’elemento maggiore che porta a questo degrado: tutti i veneziani sono acutamente consapevoli del livello quotidiano dell’acqua, se solo nel loro subconscio. La città vive costantemente sui suoi nervi. Scarpa ne è consapevole e nel progetto riproduce quella sensazione di tensione vissuta quando l’acqua sta per traboccare dal suo contenitore. “Vassoi d’acqua traboccanti in una cascata” facevano parte del progetto di Scarpa per il padiglione veneziano alla mostra di Torino del 1961. Appropriatamente


I lavori di restauro all’interno di Punta della Dogana nel fango del piano terra

lo spettacolo era chiamato “Un senso del colore e la regola delle acque”; uno di questi vassoi è stato recuperato e successivamente incorporato nello stagno nel giardino del Querini. Questo spazio riproduce in un certo senso le minime differenze di quota della città, le quali si comportano in modo diverso a seconda delle variazioni di marea. Infatti, nel giardino di Querini il lungo e stretto corso d’acqua stabilisce il piano orizzontale del prato contro il quale il visitatore, emergendo dalla galleria, si muove su e giù. “Venezia ha finalmente un classico esempio di lavoro di ristrutturazione architettonica da offrire: la Fondazione Querini Stampalia, un bell’esempio sia dal punto di vista della struttura che della forma, e che possa veramente incoraggiare un più ampio restauro del tessuto della città. Il creatore di questo progetto non è altro che “l’estraneo” di un’architettura italiana contemporanea, il geniale Carlo Scarpa.“ Queste parole furono scritte nel 1964 da Giuseppe Mazzariol, critico e amico di Scarpa, che in effetti commissionò il lavoro, seguendo le orme del suo predecessore come direttore della

fondazione, Manlio Dazzi. Nessuno dei cambiamenti che Mazzariol sperava di vedere realmente accaduto, e in effetti gli ulteriori progetti di Scarpa per gli archivi e i magazzini sul retro dell’edificio della Fondazione furono respinti, così come quei progetti altrove a Venezia, di Wright, Le Corbusier e Kahn. Per tutto il tempo, Scarpa fu braccato dai magistrati della città per il fatto che non aveva alcun titolo di studio universitario e non era quindi iscritto nel registro degli architetti (sebbene fosse direttore dell’Istituto di architettura dell’Università di Venezia). La qualifica alla fine conferitagli era un dottorato onorario conferito postumo. Questi frammenti di informazioni aiutano a mettere insieme un’immagine del contesto culturale in cui Scarpa stava lavorando e di cui il suo straordinario capolavoro fa parte. Punta della Dogana Come ben sappiamo, il progetto di Tadao Ando ha vissuto numerose vicende prima della realizzazione. Il restauro conservativo che l’ha restituito dopo decenni all’uso pubblico è un esempio di eccellenza nel campo 59


Restauro della copertura di Punta della Dogana e inserimento dei nuovi lucernari

della conservazione del patrimonio culturale. L’eccellenza deriva nella qualità dell’intervento architettonico, nel rispetto per l’edilizia storica. La gestione amministrativa del patrimonio pubblico, ha subito un lungo processo a partire dalla concessione dell’uso del bene al Comune di Venezia, il quale ha deciso di cercare tramite procedura di evidenza pubblica, un investitore disposto a restaurare il bene e a gestirlo per alcuni decenni dentro un preciso vincolo di destinazione culturale all’arte contemporanea. Lo Stato Italiano ha molte difficoltà nel garantire un flusso di risorse sufficiente per la manutenzione, conservazione e restauro dei beni architettonici e storici. Talvolta questo comporta al non accettare interventi “stravaganti” rispetto al carattere tipologico di una struttura antica, soprattutto a Venezia. Alcune innovazioni legislative introdotte negli anni ‘90 hanno sbloccato coinvolto i privati nei progetti di restauro degli immobili, innescando però gelosie reciproche fra Stato, Enti locali ecc, rallentando di conseguenza l’obiettivo reale. Ciò che succedeva anche negli anni in cui operava Scarpa. Il caso di Punta della Dogana però, è un caso di successo e di ap60

plicazione avanzata delle nuove normative nel campo dei beni culturali. Normative che hanno permesso, a Punta della Dogana, di sbloccare uno stallo durato più di trent’anni, durante i quali l’immobile è stato chiuso e inutilizzato. Il progetto dimostra quindi l’efficacia del partenariato fra pubblico e privato nella cultura, e restituisce a Venezia e al mondo intero non solo un monumento storico di valore ineguagliabile, oltre ad un pezzo di laguna che non era più fruibile, ma anche uno spazio in cui sguardo è rivolto all’oggi e al domani della creazione artistica. Forse, a distanza di mezzo secolo dagli intrecci a Palazzo Querini, qualcosa sembrerebbe essere cambiato a Venezia. Forse gli interventi di modernità possono trovare terra fertile anche nella città legata alla tradizione per eccellenza. E’ da ricordare che nonostante l’intervento di Ando a Punta della Dogana la riporti agli antichi splendori, ciò che effettivamente è visibile dall’esterno è nullo: solo le nuove inferriate, che tra l’altro rendono omaggio a Scarpa, denotano un cambiamento che rimane prettamente interno e che rimuove tutte quelle superfetazioni che si applicarono negli


Operazioni di “scuci cuci” sulle antiche murature

Il getto del calcestruzzo costituente il cubo centrale nelle casserature

ultimi interventi di restauro di fine ottocento. Alla Querini Stampalia, il nuovo ponte di Carlo Scarpa, destò numerosi problemi e disguidi con il comune di Venezia, tanto da dover far ricorso a intrecci che solo l’allora responsabile Mazzariol riuscì a sbrigare. D’altronde è difficile immaginare Venezia diversa, con opere d’architettura moderna che si pongono in netto contrasto con il disegno tradizionale delle calli, delle facciate e dei canali. Eppure qualche intervento di lieve entità sta prendendo il suo spazio vitale: pensiamo al ponte della costituzione di Santiago Calatrava, l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara a Piazzale Roma, le abitazioni di Gino Valle alla Giudecca o quelle di Gregotti a Cannaregio. Queste architetture interpretano in chiave moderna gli elementi tipici Veneziani, i ponti che uniscono le sponde opposte, le corti che da sempre caratterizzano i lotti delle abitazioni, i rivestimenti in marmo che celebrano le facciate più importanti e prestigiose. Ricordiamo infine i numerosi interventi di restauro conservativo e di ristrutturazione degli apparati interni: numerosi magazzini all’Arsenale, con interventi di svariati studi di architettura e progettazione; la sede

dello IUAV; il nuovo hotel Hilton al Mulino Stucky, l’Accademia delle belle Arti; i padiglioni della Biennale, il nuovo Fondaco dei Tedeschi dello studio OMA. Ecco quindi che il quadro sembra farsi più limpido: forse Le Corbusier o Wright sarebbero riusciti a realizzare i propri progetti nel panorama moderno del XXI secolo. Magari non avrebbero nemmeno fatto discutere, in senso negativo s’intende; i turisti avrebbero indicato le nuove architetture come un luogo da visitare ed i Veneziani avrebbero apprezzato la buona architettura moderna che anche solo con la semplice differenziazione tipologica avrebbe rispettato la città storica. Così ci si augura. Gli interventi per le due Fondazioni, a distanza di decenni, riassumono il dibattito del contesto in cui sono state realizzate e (ancora) oggi si inseriscono nell’insieme di interventi antico-nuovo ben riusciti che celebrano Venezia e la sua storia che traspare dai mattoni di cui è costruita.

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Studio per posate, 1977-78

Vasi “sommersi a bollicine”, 193436, Venini, collezione privata

Via a Bardolino, nella strada di Villa Ottolenghi

Ando architetto e Scarpa designer?

Cerchiamo di comprendere le figure dei progettisti delle due architetture in esame. Da un lato Carlo Scarpa, una figura eccentrica nel panorama Veneziano dagli anni ‘ 30 in poi; un uomo libero e capace di produrre spazi di grande emozione nonostante il titolo ufficilale di architetto. Dall’altro Tadao Ando, un architetto moderno, vissuto e formatosi in un altro continente, dove la concezione di casa e spazio è differente dalla nostra. Entrambi restauratori raffinati di una città ricca di storia, storia che viene espressa dalla materia architettonica stessa attraverso i suoi palazzi e i materiali da costruzione. “Qui est ce beau artisan?” “Chi è questo raffinato artigiano?” La domanda venne fatta nientemeno che da Le Corbusier che visitò la Fondazione Querini Stampalia nel 1964 poco dopo il suo completamento. Era a Venezia in relazione al famoso ma sfortunato progetto per un nuovo ospedale civile a Cannaregio. Le Corbusier non fu il primo grande architetto a riconoscere il talento di Scarpa in incognito. Bruno Zevi racconta della visita di Frank Lloyd Wright a 62

Murano per scegliere la vetreria che, in seguito, è stata ispirata ai disegni di Scarpa. Ciò che è interessante, tuttavia, nel caso di Le Corbusier è la sua scelta della parola “artigiano”, piuttosto che architetto. Non solo ci consente di chiedere: Carlo Scarpa è stato un architetto? (ed è la Fondazione Querini Stampalia quindi architettura o “semplicemente” interior design?), ma possiamo anche riflettere sulla qualità “artigianale” del suo lavoro e la sua rilevanza per le preoccupazioni degli architetti nella seconda metà del XX secolo. Legalmente, Scarpa non è mai stato ufficialmente qualificato, un fatto agito dall’Ordine degli Architetti di Venezia nel 1956 quando portarono la loro famosa, ma infruttuosa, causa legale per impedirgli di usare il titolo. Tuttavia, se utilizziamo la definizione di Zevi come “un creatore di spazi significativi”, chiaramente la predilezione di Scarpa per l’intervento in edifici esistenti piuttosto che crearne di nuovi raramente lo colloca in quella categoria. Forse con l’eccezione del cimitero metafisico di S. Vito di Altivole, la storia selezionerà quei progetti - Castelvecchio a Verona, Abatellis in Sicilia, e Querini Stampalia e lo showroom Olivetti a Ve-


Dream chair di Ando

Il cemento in Scarpa e Ando

nezia - come il più didattico e originale. Queste sono tutte opere nel contesto di edifici esistenti. Le sue nuove costruzioni - la Banca Popolare a Verona, la casa sul Lago di Garda e la casa di Udine - sembrano meno certe. Anche la meravigliosa estensione della galleria Canova di Possagno, apparentemente un nuovo progetto, prende il suo potere dalla giustapposizione con l’edificio esistente piuttosto che come una nuova costruzione indipendente. Nonostante la definizione di Zevi, la rilevanza di Scarpa per il lavoro che l’architetto generalmente intraprende oggi non potrebbe essere maggiore: si potrebbe sostenere che fino a Scarpa non abbiamo avuto altri esempi di grande creatività per questo tipo di lavoro, il confronto tra tessuto costruito e la società che l’ha prodotto utilizzando come mezzo l’architettura. Prendiamo gli interventi di Cà Foscari (1935-37) e delle Gallerie dell’Accademia (dal 1944) come riferimenti: essi si situano sulla linea dell’allestimento, in un’area nella quale l’arredo è parte complementare e inscindibile di una risistemazione in cui il restauro è la premessa necessaria e integrante di un’opera di

realizzazione di nuovi ambienti completamente rifiniti. Scarpa era stato continuamente chiamato per questo tipo di lavori essendo considerato più un allestitore, un uomo di gusto e un arredatore che non un vero e proprio architetto nell’accezione culturale per noi più immediata. Il tema del design nell’opera di Carlo Scarpa si presenta come una questione piuttosto articolata. All’ambito del designi infatti, si può ritenere che appartenga l’esperienza scarpiana nel mondo del Vetro di Murano (1926-47 ca.), ma anche quella di progettista di architettura degli interni, con la realizzazione di mobili e arredi fissi pensati come un unicum. O l’attività di produzione di mobili di serie o di oggetti in argento. Sono esperienze da considerare come secondarie e che, sono state considerate nella loro episodicità. Ognuna di queste, però, rimanda ad aspetti e temi tipici dell’opera scarpiana. Il rapporto con i materiali, innanzitutto: a partire dal vetro, con il quale Scarpa opera appena dopo il diploma all’Accademia, la volontà di sperimentazione ha alimentato il lavoro da architetto. Il suo personale approccio nei confronti dei materiali, da conoscere e impiegare per le loro pe63


I portali di Tadao Ando a Punta della Dogana (sinsitra) celebrano Carlo Scarpa nel negozio Olivetti di Piazza San Marco (e anche a Castelvecchio)

culiarità più intrinseche, attraverso una perizia tecnica. A partire dal vetro e dalle forme classicheggianti degli oggetti di design, Scarpa s’indirizza verso una semplificazione delle linee e verso la conoscenza di altri materiali che utilizzerà nelle sue opere personalizzandole, fino a riconoscerle sue anche solo per gli accostamenti cromatici e materici. Il suo modo di fare design ha assunto un ruolo centrale nella storia del vetro veneziano del Novecento, ma anche il suo modo di allestire gli spazi antichi e di coglierne ogni particolare. Una questione cruciale si può individuare nel complesso rapporto che si instaura tra oggetto progettato e spazio architettonico. Ciò è evidente soprattutto nel caso di arredi fissi o mobili pensati per specifiche situazioni contingenti. Si tratta di interventi su misura, rintracciabili in situazioni nelle quali si evidenzia, anche nel caso degli arredi, il suo caratteristico modo di procedere che prende forza nel confronto con un contesto predeterminato. Le situazioni spaziali più restrittive e vincolanti vengono colte come pretesto divenendo di volta in volta occasione progettuale. La consuetudine di Scarpa di realizzare arredi su misura, 64

precisa la sua volontà di controllo spaziale anche a piccola scala. Nelle abitazioni il mobile risponde ad un uso contribuendo alla costruzione di rapporti tra le parte che diano un preciso senso dello spazio domestico. Ma la progettazione su misura non si riferisce solo alle abitazioni: prendiamo la Querini Stampalia come esempio calzante. Qui il progetto su misura include tutti i caratteri a contorno del luogo: l’acqua, i muri antichi, il giardino protetto. Ogni singolo materiale dato viene assorbito dal progetto grazie ad un accurato allestimento capace di accogliere ciò che è già dato all’interno di materiali tipicamente da costruzione, i quali divengono “mobili” da percorrere ca paci di raccontare il luogo. Le molteplici esperienze Scarpiane di progettazione di oggetti di design come posate, vasi, tavoli, sedie e quant’altro attiene alla materia, l’ha portato a scegliere con precisione maniacale ogni singolo materiale per suscitare prima di tutto emozioni allo spettatore, oltre che essere funzionale. Non è forse questo uno dei compiti di un architetto? Emozionare chi abita uno spazio, seppur temporaneamente? E non è forse un desiderio quel-


Interni di Wabi House, Tadao Ando

Disegni di studio dei portali a Punta della Dogana

lo di vivere in un ambiente esteticamente piacevole? Possiamo allora assumere per dato di fatto che nonostante la mancata laurea in architettura, Scarpa abbia saputo costruire e tramandare architetture che ancora oggi studiamo e consideriamo opere straordinarie. Tadao Ando, autodidatta che riceve anch’esso la laurea honoris causa dopo anni e anni di lavoro come progettista. Da giovanissimo si propone più volte come stagista presso alcuni studi d’architettura ma viene sempre licenziato a causa della sua testardaggine e del suo forte temperamento. All’età di diciotto anni, progetta gli interni di un locale notturno, dietro l’incarico di un paio di personaggi eccentrici entusiasti di affidare il compito ad una persona priva di istruzione accademica. “Da allora” racconta Ando, “la mia pratica si è evoluta attraverso tentativi ed errori”. Curiosa la ricezione di un’incarico per la progettazione di un’abitazione per una famiglia di tre componenti. A costruzione terminata, il committente comunica ad Ando che la famiglia si è accresciuta di altre due persone e che quindi l’abitazione non risulta più ade-

guata. L’architetto così decide di acquistare l’immobile che, nel 1969, diventerà la sede del suo studio: Tadao Ando Architects & Associates. Quelle di Ando sono costruzioni di forte impatto, capaci di instaurare un dialogo con i propri fruitori; sono giochi di forme, di volumi, di pieni e di vuoti. Il dentro e il fuori sono concepiti come un’entità unica e rappresentano l’unione tra l’uomo e la natura, nel totale rispetto dei concetti cardine della tradizione giapponese. Forse, oltre a non essere entrambi ufficialmente laureati in architettura, lo stile giapponese può porli in similitudine più che in contrasto. Nel tempo, molteplici sono state le riflessioni di colleghi e studiosi sulle ragioni del legame tra Scarpa e il Giappone, dal punto di vista architettonico, ma soprattutto filosofico e intellettuale. Non mancano reperti e appunti che mostrano un’attenzione da parte di Scarpa nei confronti degli incastri architettonici tipici della carpenteria nipponica, come quella che ebbe Ando da giovane verso un carpentiere, che, alle prese con la ristrutturazione di una casa, rinuncia persino al proprio pasto. Da qui ha 65


Vasi disegnati da Carlo Scarpa per Venini

origine la sua passione per l’architettura. Se per Scarpa la passione deriva dagli studi all’Accademia e per Ando dall’esperienza visiva e umana, i due casi possono essere assimilati allo stesso, alla scoperta di un desiderio innato che trova conferma nelle poche esperienze di due uomini ancora giovani. Individuando i tre fondamenti dell’architettura di Ando, questi sono: la “geometria”, che si materializza nella realizzazione di forme e volumi puri; la “natura”, che si manifesta nell’utilizzo creativo della luce naturale, dell’acqua, del vento e nell’accortezza di trovare soluzioni eco-compatibili (grande attenzione al risparmio energetico ed al rischio d’inquinamento ambientale); la “sostanza”, ovvero i materiali da costruzione, come il cemento a faccia vista (per il quale utilizza casseforme aventi come modulo le dimensioni del tatami giapponese), il vetro, il legno e la pietra. Dall’altro lato l’influenza della cultura giapponese sull’attività creativa di Scarpa è il risultato di un avvicinamento lento e profondo, che comprende suggestioni letterarie, tradizioni e filosofie. Durante una lezione tenuta nel 1976 allo Iuav di Venezia afferma: ”La cul66

tura giapponese permette di raffinare il proprio spirito”. L’acqua nell’architettura di Scarpa è materiale da manipolare e inserire in un articolato ma naturale schema di causa e effetto in cui essa si fa riflesso e luce per lo spazio interno ed esterno. Il suo scorrere si fa metafora del tempo e della vita, come vuole la tradizione giapponese che ispira anche i suoi giardini. Ai dettagli di costruzione Scarpa, come un artigiano, dedica tutta la sua attenzione facendo si che il materiale diventi punto d’origine del progetto stesso. Il principio di fondo di questo modus operandi risiede in una progettazione che implica una conoscenza di forme e materiali e del rapporto tra i due che crea un’armonia tipica della tradizione nipponica. Da ricordare, oltre al già citato contributo di Scarpa nella produzione di design di vasi Venini, quello di Tadao Ando nelle collezioni recenti: Ando Cosmos, Ando for Venini, realizzata nel 2011 per celebrare il novantesimo anniversario dell’azienda, Veliero del 2012 e Ando Time del 2015. Ando Cosmos rappresenta il tema dell’ “ordine dello


Vasi collezione Ando Cosmos per Venini

Bancone accesso nello spazio espositivo Design Sight a Tokyo

spazio� attraverso una semplice geometria di una sfera sottratta dal centro di un cubo, dove la divisione perpendicolare del volume origina quattro parti separate. L’impegno nel progetto di oggetti di design da produrre in serie, come i vasi in vetro o alcune sedie, avvicina il maestro giapponese alla ricerca materica di Scarpa, in chiave moderna evidenziando le caratteristiche formali rintracciabili nelle architetture.

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Pianta sala d’ingresso della Fondazione Querini Stampalia: è evidente lo scarto Scarpiano nella posa del pavimento

Antico e nuovo: due modi di interpretare lo spazio

Il rapporto fra nuovo e antico è, per l’architettura contemporanea, un tema costante e dunque sempre attuale, anche perché affrontato e declinato secondo una grande varietà di modi e di impostazioni. Fintanto che un oggetto architettonico esiste ai nostri occhi, qualsiasi sia la sua epoca di costruzione, funzione, o importanza, esso appartiene al presente. Ogni edificio diviene storico nel momento in cui tramanda qualcosa, ci racconta una tradizione, un modo di vivere, un modo di pensare, di costruire. E ogni qualvolta un edificio racconta ciò, abbiamo il dovere di conservarlo, perché se perso, perderemmo non solo muri e finestre, ma soprattutto cultura. E non può esistere società senza cultura. Diviene quindi fondamentale il concetto di identità. E’ proprio grazie alla sua identità che l’edificio assume i connotati di riserva di cultura e conoscenza. L’identità è ciò a cui la conservazione dovrebbe tendere. Troppo spesso infatti, ci troviamo di fronte a situazioni in cui la conservazione viene confusa con l’”imbalsamazione” del fabbricato, che vuole essere tenuto lontano da ogni tipo di contaminazione del nuovo, visto come il male assoluto e come pericolo (a Venezia questo è un tipo di approccio molto frequen68

te). Ciò che non deve essere persa è l’identità, ciò che connota l’edificio, ciò che fa balzare alla mente nel momento in cui lo si indaga e lo si capisce, ciò che fa di quel fabbricato un vettore di storie. Uno degli aspetti da chiarire è il ruolo che la storia assume nella progettazione. La storia dovrebbe essere strumento nelle mani nel progettista, grazie al quale egli interpreta un luogo, un contesto, ne capisce il significato nascosto e quindi, di conseguenza, agisce. Studiare la storia, in ambito progettuale, significa quindi capire gli avvenimenti e soprattutto le condizioni che hanno portato a quegli avvenimenti, in quanto essi come detto vengono poi rispecchiati dalle nostre città e dai nostri edifici. Ma se il progetto di architettura significa “trasformazione” e le operazioni di restauro significano “conservazione”, sembrerebbe impensabile immaginare un’ integrazione fra le due discipline. Il progetto è l’unico strumento in grado di verificare consapevolmente gli effetti trasformativi dell’intervento proposto, il loro peso; è lo strumento che fa comprendere perché conservare e che cosa conservare. E’, in sintesi, un atto di regolamentazione della trasformazione, che aggiunge il proprio segno, che reinterpre-


L’insegna all’ingresso utilizza la scrittura del sacello di Leon Battista Alberti in cappella Ruccellai

ta senza distruggere. Anche un intervento come la rifunzionalizzazione dell’edificio crea una discontinuità all’interno della vita dello stesso, in quanto l’apporto di forme e materiali differenti, porta esso verso una nuova vita. Ecco dunque che appare evidente il motivo per il quale è necessaria una differenziazione, la stratificazione delle trasformazioni e degli interventi: significa rendere autonome e riconoscibili le parti e gli elementi di nuova formazione rispetto agli esistenti. La differenza misura una “distanza” ma nel contempo pone in luce la necessità di sintesi fra tutte le dualità viste fin ora: tra nuovo e antico, fra continuità e discontinuità, tra conservazione e trasformazione, tra storia e progetto. Differenziazione per fornire ai posteri una luce chiara e netta in grado di scandagliare e ripercorrere con il solo ausilio degli occhi la storia trasformativa dell’edificio. Dallo studio dei due interventi in analisi, risulta chiaro l’approccio dei progettisti: il lavorare all’interno di edifici ricchi di storia da tramandare ai posteri, porta inevitabilmente allo sviluppo di una volontà chiarificatrice di ciò che è venuto prima e ciò che è venuto dopo. Il progetto diventa quindi una spiegazione sot-

tile di quante trasformazioni l’hanno portato ad essere così com’è, senza tuttavia poter comprendere a fondo l’evidenza di ogni singolo cambiamento. La Querini Stampalia

Prendiamo la Querini Stampalia: qui troviamo Scarpa nella sua maturità, concentrando i suoi sforzi su un palazzo veneziano. Quale progetto più adatto ci poteva essere? Non si tratta solo di un’esplorazione e un adattamento di un edificio esistente, l’attività architettonica che Scarpa ha reso più sua, ma anche di un edificio classico e tipico della sua città natale. Guardando Scarpa dalla prospettiva della fine del secolo XX ci accorgiamo di quanta attualità ci sia nel suo lavoro. Si occupa principalmente di restauri di edifici esistenti, attività che è diventata la più consueta per molti architetti d’oggi; lavora primariamente su progetti per musei e mostre, cosa che rappresenta sempre più la possibilità di esprimere una forma d’arte elevata in architettura; trova un linguaggio architettonico che, per quanto completamente radicato nello spirito del movimento moderno, è anche pregno di una straordi69


Dettagli antico - nuovo in Scarpa alla Querini Stampalia

naria densità espressiva. Infine, la sua architettura, nonostante il suo richiamo universale, è giunta a una reinterpretazione straordinaria dei fenomeni della sua città natale. La stratificazione di materiali pregiati disposti in pannelli stesi pericolosamente sopra l’acqua è come un riferimento simbolico alla precarietà stessa della preziosa città di Venezia di fronte al pericolo delle maree. Insieme a queste scelte, altri riferimenti alla città galleggiante sono la maniera in cui l’acqua viene condotta all’interno dell’edificio e la nuova sistemazione edilizia in forma di “zattera” che galleggia all’interno del vecchio edificio. Nella sala espositiva principale Scarpa ha rivestito lo spazio interno/esterno con preziose lastre appese in pietra di travertino, così simili ad alcune facciate “esotiche” di certi palazzi veneziani. Anche nel giardino la disposizione del prato è la linea di riferimento di quota che riprende la linea dell’acqua dei canali veneziani, unico elemento orizzontale che dà misura di tutte le variabili di altezze della città. Palesemente la costruzione del ponte trae la sua ispirazione dal confronto della geometria degli elementi 70

arco/scalino di quei pochi ponti tradizionali veneziani sopravvissuti senza parapetto. L’evoluzione del ponte stesso è stata svelata ulteriormente da una serie di schizzi, che dimostrano un’asimmetria del ponte, sviluppata in alcuni disegni dove l’ortogonalità si estende alla ringhiera. In opposizione c’è l’idea di un ponte ancora asimmetrico ma con una forma ad arco che combina scalini su un lato e pendenza morbida sull’altro. Il progetto finale trae la sua origine dall’arco ma gode in prospetto laterale della risoluzione di geometrie potenzialmente conflittuali: l’ortogonalità dello scalino e la curvatura dell’arco. Consideriamo poi la scalinata nel portego. Si presume che i gradini dovessero essere scavati e si sarebbero dovuti riempire e svuotare d’acqua durante il crescere e il calare delle maree. Questa ipotesi non realizzata rafforza la tesi che questa zona del palazzo sia stata totalmente progettata considerando il movimento quotidiano dell’acqua. Le innumerevoli indagini progettuali che Scarpa intraprese, per ogni singola zona del palazzo, ricordano quanta energia egli dedicasse ai suoi progetti; quanto paziente e intensa fosse la sua ricerca


Dettagli antico - nuovo in Ando a Punta della Dogana

per la rielaborazione espressiva di edifici storici. Ma non solo dei manufatti storici delle città storiche. Analizziamo ora una serie di ulteriori suggestioni celate all’interno del progetto che fanno di Scarpa un progettista capace di raccontare tra le righe dettagli che occorre studiare per capirli fino a fondo. Questo aspetto dell’opera scarpiana lo differenzia nettamente da Tadao Ando, il quale a Punta della Dogana, mostra chiaramente il suo distacco dall’antico sia a livello materico che di cesura spaziale, a sottolineare il moderno dal vecchio, il cemento dalla muratura. La comprensione del luogo diventa “facile” ed immediata, dove le accortezze progettuali non celano segreti come in Scarpa. Ando si può inserire nel movimento postmoderno di regionalismo critico, nell’architettura dei luoghi che consiste in rifiuto al totale assorbimento dell’attualità globalizzante, caratterizzata dalla massimizzazione di produzione e di consumi, abbracciando, invece, un approccio critico di intervento che risponda ad un bisogno di identità con i luoghi. Ciò non comporta affatto una ricerca di un anacronistico linguaggio finto-antico o di un revival del vernacolo,

ma quella di un preciso metodo che pone in relazione oggetti partoriti in epoche ben diverse, ancorandoli saldamente al contesto esistente. Il progettista deve essere consapevole del fatto che il progetto architettonico determina in ogni modo una trasformazione di questo contesto e che questo contesto opporrà una qualche forma di resistenza. La sensibilità nell’inserire un oggetto contemporaneo si deve misurare non solamente con il contesto, con il linguaggio delle forme, con la scelta dei materiali e delle tecniche, ma anche con la stessa idea di abitare. Per accedere al Palazzo Querini Stampalia, difficilmente non si nota la targa sulla facciata, tra la finestra sovrastante la bucatura d’accesso e la quadrifora balconata del piano nobile dal fondo dorato su sugello lapideo, ove si legge il nome del palazzo: un prezioso sigillo monumentale, impaginato con esperto calcolo di proporzioni e di equilibri tra pieni e vuoti. Si tratta di un episodio ulteriore di quell’arte del congiungere, la letterale scrittura architettonica, reiteratamente praticata da Carlo Scarpa. La scelta del repertorio letterale rimanda immediatamente alla lapide monu71


mentale antica, classica, più precisamente alle capitali epigrafiche imperiali romane confermato dall’uso antiquario del segno V per la U. Dunque, la struttura della scritta e delle lettere scelte da Scarpa è quella archi grafica per antonomasia. Mardersteig, editore e stampatore tedesco naturalizzato italiano, scoprì l’esatto modello a cui si ispira Scarpa: la lunga scritta tracciata dall’Alberti e incisa nel 1467 della trabeazione del Sacello Rucellai in San Pancrazio a Firenze. In altri termini, Scarpa riprende “alla lettera” il ritmo e la struttura di disegno dell’Alberti, allargando proporzionalmente il ductus. Le ragioni di questo rafforzamento di “colore” sono date dalla leggibilità nel contesto specifico ma anche la sensibilità ottico-materica, associata a d un’altra testimonianza delle “intenzioni” del progettista che sente «un’enorme volontà di essere dentro la tradizione» reinterpretando l’Alberti. Entrando, la pavimentazione colorata balza subito all’occhio. Il progetto della stessa deriva da una reinterpretazione di un pavimento a gioco prospettico, non di rado presente nell’architettura veneziana dall’inizio del Cinquecento. Una delle affermazioni di Scarpa, 72

“ci terrei che un criticico scoprisse nei miei lavori certe intenzioni che ho sempre avuto. Vale a dire, un’enorme volontà di essere dentro la tradizione, ma senza fare i capitelli o le colonne, perchè non si possono più fare. Neppure un dio inventerebbe oggi una base attica”, prova la scelta progettuale. Percorrendo la sala, si arriva alla scala oltre il portale, che porta al piano superiore della biblioteca. Qui, sulle alzate preesistenti, Scarpa sovrappone un rivestimento in pietra, modellato a renderne evidente lo spessore e consentire di osservare gli antichi scalini, puntando l’attenzione sull’accostamento ed il montaggio, sulla dilatazione delle connessioni e sulla spaziatura, riferendosi al posizionamento dei supporti verticali del corrimano. “In questo modo”, spiegava, “si può rinnovare la scala senza distruggerla, preservandone l’identità e la storia, aumentando la tensione tra il vecchio e il nuovo”. In ogni vano del piano terra risistemato e in ciascuno degli episodi che lo animano si percepisce e avverte la medesima “tensione”. L’antica muratura semplicemente spazzolata, rimane così com’è con accanto una colonna in calcare che sorregge una trave in legno,


a testimonianza del carattere costruttivo del palazzo storico. Percorrendo l’infilata delle porte negli archi esistenti, che vengono sottolineati da un accostamento scuro e dal soffitto foderato in legno dipinto a stucco e di un colore scuro, tendente al verde lucido, ci si accorge che la disposizione dei vani non ha alcun intento prospettico. Il senso dello spazio e del movimento all’interno, è guidato da un percorso dai bordi rialzati. L’antica pavimentazione è infatti protetta e conclusa da una cimasa continua in calcare fossilifero, ricettore d’acqua a reinterpretazione ulteriore delle contingenze e delle necessità, a protezione del portico dalle inondazioni imprevedibili. Così protegge anche le murature nella sala espositiva, con i pannelli in travertino, agganciati con delle zanche, permettendo il ricircolo dell’aria. Immediatamente oltre la vetrata, verso il giardino, il muricciolo di contenimento del prato diventa il piedistallo di un capitello. Questo si appoggia al capitello rendendo il profilo cementizio il simulacro di un tronco di colonna. Una ricercata dimostrazione della varietà delle soluzioni e dei significati che Scarpa era in gra-

do di declinare studiando intervalli, spessori e pertugi. Infatti, non soltanto inserisce un’astratta porzione di colonna per posizionare correttamente questo reperto, ma completa l’evocazione della struttura cui appartenevano anticamente le volute, inserendo quattro cilindri metallici tra il collarino e il piano di appoggio in calcestruzzo, risarcendo così il capitello, anche per la perdita dell’astragalo. La vera da pozzo che accoglie l’acqua che scorre nei canali del giardino, viene presentata con un gesto analogo del capitello. Non asservendo più l’antica funzione, cioè quella del sollevamento di acqua dal suo fondo, ora diventa il luogo dove l’acqua scompare. L’elemento fluente rappresenta così una rappresentazione del lavoro d’intuito dell’architetto, che educato al passato, deve sostenere per compiere il lavoro affidato il maniera corretta. Punta della Dogana Tra il dicembre del 2007 e il marzo del 2009, tanto sono durati i lavori di restauro e di realizzazione del nuovo Centro d’arte contemporanea progettato da Tadao Ando, il grande meccanismo logistico di Punta 73


Dettagli antico - nuovo in Scarpa alla Querini Stampalia

delta Dogana, il senso stesso di questo edificio, si è rimesso in moto. E l’8 giugno 2007 quando tra il Comune di Venezia e Palazzo Grassi viene firmata la convenzione per il recupero dell’edificio e la realizzazione del nuovo museo. Le indagini strutturali, gli studi storici e i rilievi partono da zero. Ogni elemento portante e non viene mappato metro per metro: dalle malte ai mattoni, dagli intonaci alle pietre, fino alle travi in legno, le strutture divisorie e portanti, le fondamenta. Si mappa anche la concentrazione di sale alla base delle mura di laterizi, dovuta all’azione dell’acqua marina. L’allestimento del cantiere, che aprirà ufficialmente il 13 dicembre 2007, già di per sé la prima grande sfida di questo ambizioso progetto. Punta della Dogana un edificio che ha caratteristiche uniche anche in una città come Venezia: l’edificio, che ha la forma di un triangolo isoscele, divide il Canal Grande e il canale della Giudecca e confina per l’80% del suo perimetro con la laguna. Una parte della sua base si affaccia sul campo della Salute, a più di 100 metri dal vertice. Per queste caratteristiche, oltre che per la dimensione, si differenzia nettamente dal classico palazzetto veneziano della 74

Fondazione Querini. L’allestimento del cantiere prevede 3600 metri quadrati di impalcature, i quali permettono di raggiungere ogni parte del complesso. Nella prima fase di progettazione, Ando invia ai progettisti italiani disegni in scala 1:200 che non permettono una dettagliata risposta e soluzione ai problemi tecnici e di conservazione del complesso. La collaborazione con i professionisti in Italia risulta quindi essere fondamentale. I primi interventi riguardano la demolizione delle superfetazioni e dei solai in cemento armato e lo smantellamento degli elementi architettonici novecenteschi. Il lavoro archeologico procede parallelamente ai primi scavi; le ricerche permettono di ricostruire la complessa vita architettonica della Dogana da Mar fin dai suoi albori nel 1313. Vengono scoperte le fondamenta originali, le tracce degli antichi cantieri del Seicento, le ampie zone quattrocentesche di pavimento di antinelle posate a spina pesce. Tra marzo e aprile 2008, il volume originario dei magazzini della Dogana, con le sue navate sorrette dalle immense pareti divisorie di mattoni rossi inizia a farsi percepire. Le numerose destinazioni


Dettagli antico - nuovo in Ando a Punta della Dogana

d’uso che si sono succedute all’interno del complesso, da deposito delle Gallerie dell’Accademia a sede di una società di canottaggio e parte del Seminario minore, hanno causato ferite e mutamenti dell’apparato interno che risultano deleteri. Rimane il segno delle pareti divisorie, delle bucature ricavate nei muri e nei solai, l’impronta delle scale di ferro, le finestre e le botole, che avevano contribuito a stravolgere l’originale senso trasversale dell’edificio. Ando e Pinault si incontrano con il gruppo di progettazione italiano per discutere ogni dettaglio delle finiture, si valuta dal vero l’accostamento tra il nuovo e l’esistente, la funzionalità degli spazi rispetto alla nuova destinazione museale. Ando si rivela estremamente attento alla conservazione dell’edificio, alle indicazioni della Soprintendenza e ai suggerimenti dei progettisti italiani. Lo scopo è quello di trovare il migliore compromesso tra la perfezione formate delle architetture di Ando e i dissesti della vecchia e affascinante Punta della Dogana. Su tutte le scelte di Ando prevale la semplicità, la sottrazione, la priorità del vecchio edificio sul nuovo. Il vetro, il cemento, il metallo si appoggiano con rispetto ai la-

terizi secolari dell’edificio, al legno, alte malte e agli intonaci originali. Dove questi sono rovinati, la mano dell’architetto giapponese non calca, non copre, non aggiusta. Ne segue anzi la traccia, ripercorrendone la memoria storica e la vicenda costruttiva. Paratie mobili, posizionate sui portali, e una barriera orizzontale che risale lungo la base delle pareti, permettono di mantenere il pavimento al riparo da acqua e umidità. La vasca di contenimento e anche la sede dei cunicoli tecnologici che corrono sotto l’edificio distribuendo impianti elettrici, idraulici, telematici e un sistema di riscaldamento a pavimento. Alle pareti di mattoni a vista è riservato un trattamento ben più delicato. Si tratta della tecnica detta “scuci e cuci”, che consiste nel sostituire i mattoni danneggiati uno ad uno, con il grande vantaggio di poter intervenire chirurgicamente nelle aree interessate dal degrado. Per questo delicato intervento, vengono riutilizzati mattoni originali, oppure vengono impiegati mattoni antichi o dalle analoghe caratteristiche fisiche e cromatiche e create malte con una composizione chimica simile all’originale. I restauratori intervengono 75


Dettagli antico - nuovo in Scarpa alla Querini Stampalia

anche sugli elementi artistici e strutturali di pietra con il consolidamento attraverso barre in acciaio inox e microiniezioni di malta e calce per eliminare ogni spazio vuoto o distacco interno. Il bugnato della facciata, viene recuperato con trattamenti specifici. Durante l’estate si procede con il restauro completo della copertura con trattamenti anti tarme, di sabbiatura e di consolidamento. Ogni capriata dell’ossatura del tetto verrà smontata, riconsolidata e riposizionata in sede. Talvolta verrà sostituita se in grave stato di degrado. La realizzazione del cubo in cemento si rivela una delle sfide più complesse dell’intero cantiere. Come già detto, i muri sono di cemento armato con faccia a vista, realizzati con una raffinata tecnica di carpenteria che permette di ottenere superfici lisce e lucenti come seta. Sono pareti alte 7,11 metri e larghe 16. Un intervento unico, poiché nessuno aveva mai eretto “muri Ando” di questa altezza con un singolo getto. Sono stati condotti test e simulazioni sulla terraferma per definire il particolare mix di calcestruzzo e del necessario prodotto ritardante per fissare i tempi massimi di utilizzo e 76

verificarne la qualità. L’assemblaggio dei pannelli 90 x 180 centimetri, avviene direttamente in cantiere tramite betoniere poggianti su chiatte ormeggiate direttamente in laguna. I getti vengono eseguiti all’alba o a notte fonda quando il moto ondoso è limitato. La conclusione della realizzazione del cubo, porta alle ultime fasi di cantiere: la posa e la lucidatura dei pavimenti di cemento, la posa del linoleum per le superfici dei soppalchi, il montaggio di infissi e finestre, l’allestimento dell’impianto di illuminazione, videosorveglianza e condizionamento. L’ultima operazione di restauro riguarda la statua della Fortuna, che ha smesso di segnare la direzione del vento. La struttura metallica interna ed il meccanismo che permette la rotazione della statua subiscono interventi di recupero attraverso tecniche tradizionali. Il rame delle statue viene ripulito e ricucito, la doratura del globo completamente restaurata. I lavori vengono conclusi nel marzo del 2008, l’apertura al pubblico qualche mese dopo. A conclusione di queste brevi descrizioni circa l’approccio che hanno avuto rispettivamente Carlo Scarpa e Tadao Ando, in periodi storici e di pensiero diversi,


Dettagli antico - nuovo in Ando a Punta della Dogana

possiamo affermare che il tipo di approccio è differente sotto alcuni aspetti. Se da un lato Scarpa, a Palazzo Querini, provvede all’eliminazione delle poche superfetazioni aggiunte nei secoli, Ando deve fare i conti con una struttura che ha subito molte più manomissioni. Le diverse destinazioni d’uso, la diversa importanza all’interno del tessuto veneziano e le dimensioni architettoniche dei complessi in sé, portano inevitabilmente alla risoluzione di problematiche diverse. L’intervento di totale rispetto dell’apparato storico che compie Tadao Ando, con ripristino degli elementi caratterizzanti e consolidamento delle strutture, non ha niente a che vedere con Scarpa. O meglio, quest’ultimo, quando si trova ad operare su Palazzo Querini, cerca di cogliere la poetica del luogo facendo divenire il suo intervento un’opera di valorizzazione del fenomeno veneziano, come l’acqua alta o il solo riflesso della luce. La commistione di materiali, perfettamente accostati e studiati nei minimi dettagli, lascia in secondo piano la struttura in mattoni originaria che trova spazio solo negli squarci lasciati nei passaggi da una stanza all’altra. A Punta della Dogana, invece, il passato emerge chiaramente

e il nuovo, l’elemento cemento, sembra aver paura di intaccare la bellezza della storia. Qui è chiara l’intenzione dell’architetto, e cioè quella di avere uno spazio puro, dove i due materiali storici prevalenti (mattone e pietra) non vengano oppressi dalla modernità. Ecco quindi l’utilizzo di poca materialità, pochi colori e contrasti per far risaltare le antiche tessiture. All’esterno non vengono apposti elementi superflui: entrambi gli interventi si limitano al cambiamento delle grate delle forature, inserendosi a pennello nelle murature antiche. Scarpa azzarda il ponte il legno che, nonostante sia un’aggiunta all’apparato storico, riprende i caratteri tipologici e funzionali degli antichi ponti veneziani. Entrambi gli interventi sono sensazionali: nella loro unicità regalano al contesto in cui si inseriscono una nuova vita, riecheggiando in maniera totalmente differenziata ma comunque lecita, il passato e l’umanità di Venezia che traspare in ogni singolo elemento, dall’acqua alla costruzione in sé.

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Dettagli della materia vegetale

Materiali e luci

“Dentro, dentro l’acqua alta; dentro, come in tutta la città. Solo si tratta di contenerla, di governarla, di usarla come un materiale luminoso e riflettente. Vedrai i giochi della luce sugli stucchi gialli e viola dei soffitti, una meraviglia!” “Gli occhi ridenti e una grande ma anche pudica felicità di comunicarti un dono: la soluzione del problema, e in più la bellezza, il gioco, l’incanto dell’inatteso.” Così definisce Mazzariol in un’intervista del 1961 Carlo Scarpa circa la questione “acqua alta”, se dentro o fuori il Palazzo. Sappiamo che alla fine questa entrò nel progetto, diventando filo conduttore e materiale primario alla base dello stesso. Il fenomeno di Venezia è naturalmente non solo fisico: ci sono eredità culturali, storiche e sociali che a loro volta hanno influenzato profondamente Scarpa e lo hanno distinto dagli altri architetti italiani. La logistica della città insulare ha impedito la sua industrializzazione: l’assenza di industrializzazione ha prolungato l’artigianato. Questa è una caratteristica della città che era un prerequisito assoluto per Scarpa, essenziale per 78

il successo di qualsiasi suo progetto. Non solo ha preteso e si aspetta un alto livello di qualità artigianale, ma ha anche provato a utilizzare lo stesso team ancora e ancora, sia a Venezia che altrove. Scarpa aveva bisogno di comunicare verbalmente e pittoricamente con l’artigiano: la presenza costante sul cantiere ne testimonia il suo attaccamento alla costituzione degli spazi nei loro dettagli, nell’idea dell’impossibilità di dividere l’attività di progettazione da quella di costruzione. Doveva essere sul posto a immaginare idee e poi a disegnarle. Il “team” di Querini Stampalia è stato lo stesso di molti altri progetti: Servevio Anfodillo per lavori di falegnameria, Paolo Zanon per l’acciaio, Silvio Fassi ha versato calcestruzzo e Eugenio de Luigi ha prodotto il suo famoso stucco lucido veneziano per i pannelli interni in gesso. Questa forma di intonaco, famosa per la sua capacità di mantenere il colore intenso (bianco, grigio e rosso terracotta sono usati a Querini) e per la sua profondità luminosa e la lucentezza, sintomatica del lusso esotico per cui Venezia è famosa ed è un promemoria dei suoi legami storici con l’Oriente, Bisanzio e


Dettagli cemento - mattoni e cemento - griglia metallo; dettagli vetro - mattoni e cemento scale - cemento parete

Islam. A Querini non ci sono lavori in ferro straordinari o intricate sculture in legno, ad esempio, a prima vista Scarpa sembra non essere la romantica scuola di ispirazione artigiana di Ruskin. Ma in un altro senso, perché ha evitato i modi standard di fare le cose e ha creduto che ogni problema doveva essere pensato dai primi principi, ha impegnato i suoi artigiani in un dialogo creativo che forse possiamo interpretare come una versione moderna più sottile di Ruskin. C’è una qualità senza tempo associata ai progetti di Scarpa: sarebbe, infatti, assurdo classificare la Querini Stampalia come un edificio degli anni Sessanta. C’è una totale assenza del cliché alla moda nel suo lavoro. Vincent Scully parla con timore, dicendo: “Scarpa conosceva tutta l’arte europea”1. Questa affermazione trova la sua giustificazione pratica a partire dal disegno del pavimento riflette ed estende il motivo e i colori della grata in rame, che separa l’anticamera della stanza dal canale. Ma, oltre alla sua superba funzionalità in questo spazio, il pavimento esibisce una sottile strategia completa-

mente specificata da Scarpa. L’architetto ha creato il pavimento utilizzando un modulo che impiegò in almeno altri tre suoi progetti: il palazzo Querini Stampalia, la Chiesa del Torresino a Padova (1978) e il Museo di Castelvecchio di Verona (1956). Il modulo è un quadrato, di cui un quadrante è costituito da un area di colore e/o texture contrastante. Visivamente, si può percepire come una forma a L riempita con un quadratino. Nel palazzo Querini Stampalia, Scarpa ha utilizzato due marmi chiari (crema e rosa-beige) per la forma a L e due più scuri per il quadratino (rosso e verde) combinati in quattro diversi moduli colorati. Le quattro rotazioni di ognuno di questi moduli danno 16 diverse unità orientate. Il motivo complessivo del pavimento è il risultato della combinazione di queste 16 unità A prima vista, può sembrare che le unità nel pavimento di Scarpa siano disposte a caso. I suoi schizzi per il disegno del pavimento ci mostrano, invece, quanta cura abbia posto nel disporre e codificare, secondo i colori, le singole unità affinché niente nella realizzazione fosse lasciato al caso. I disegni ci indicano con chiarezza quanto Scarpa abbia meditato su 79


Dettagli pareti sala espositiva: travertino, cemento grezzo prefabbricato e pietra Istriana; vetro acetato fluorescente; binari in ottone

come disporre le unità per ottenere un effetto complessivo di marezzatura (a richiamare il motivo dell’acqua nel canale a fianco). Prendiamo la sala espositiva della Querini Stampalia, uno spazio ricco di materiali differenti messi in un dialogo armonico e perfetto. Le pareti in lastre di travertino, grigie con accenti giallastri, vedono l’inserimento di bordi in fasce d’ottone e tra i pannelli vengono inserite le luci in vetro acidato ed inciso mimetizzate totalmente nel materiale in pietra, e richiamano le lastre istriane di proporzioni uguali sul pavimento. Il gioco di luci e ottone si combina con il travertino per trasmettere un’atmosfera di lusso di modo che i dipinti o le mostre sembrino superflui e non necessariamente obbligati ad esserci per creare l’atmosfera spaziale. La capacità di Scarpa di intervenire sull’esistente lo porta ad elevare il ruolo dell’architettura ad essere quasi un’opera d’arte, non necessariamente fine a sè stessa, ma in grado di abitare lo spazio. Il travertino dimostra tutte le sue qualità tattili, insieme alla lucentezza del soffitto stuccato, al 80

gioco delle fonti luminose, senza coinvolgere le aperture da cui proviene la luce. Il contrasto con pavimentazione, grezza e meno riflettente, resituisce il portico alla sua funzione configurazione ideale. In ogni progetto d’architettura, i materiali utilizzati subiscono delle variazioni dipendenti dal fattore tempo. Spesso, un architetto, consegnata la sua opera, la abbandona ad utilizzi propri ed “impropri”, a cambi di destinazione d’uso, ad adeguamenti funzionali, ecc; al consumo. Comprendere il degrado dei materiali o meglio, quella che possiamo definire la perdita delle caratteristiche iniziali dei materiali è previsto e usato anch’esso come tema di progetto, come valore d’uso dell’opera stessa. Un’altra causa è quella legata al tempo, e il particolare rapporto istituito da Scarpa che solleva una questione relativa alla conservazione della sua opera, dove l’invecchiamento dei materiali è previsto e usato anch’esso come tema di progetto. La perdita delle caratteristiche iniziali dei materiali allora può davvero non essere definita degrado, ma può essere il risultato perseguito dall’autore. L’ansia di conservare il materiale originario interrompe il colloquio del proget-


Dettagli del cemento messo a contrasto con i mattoni della muratura esistente

tista con il tempo al quale ha consegnato la sua opera, per cui la conservazione del materiale distrugge invece l’intenzione poetica, nonché la lezione progettuale. A fronte di questi ragionamenti, evidentemente il tempo può essere assunto nei progetti di Scarpa come elemento vivo e concreto, come materiale essenziale per la creazione del progetto e per il tramando dello stesso. Materiale che lo rende un organismo vivo e capace di modificarsi, senza per questo perdere la sua concezione spaziale ma, anzi, rafforzandola. Oggi, diventa necessità affrontare criticamente e scientificamente la questione della manutenzione e del restauro dell’opera di Scarpa. E’ caratteristico dell’architettura del nostro tempo utilizzare con grande frequenza materiali assai deperibili, proporre, quindi, speciali problemi manutentivi e conservativi. Diventa importante tutta la documentazione della natura degli interventi, in rapporto a quegli artigiani che hanno operato accanto a Scarpa. Se Scarpa utilizza una molteplicità di materiali, da quelli in pietra naturale di diverso tipo, a quelli metallici, fino ad avvalersi della materia acqua come ele-

mento progettuale da far entrare nel palazzo, lo stile di Ando porta ad una notevole semplificiazione dell’abaco. L’utilizzo quasi esclusivo del cemento a vista, con casseformi che si basano sulla dimensione del tatami giapponese, viene associato alla muratura veneziana esistente ed al ripristino del tetto in capriate di legno. Una semplicità materica tipica della modernità, degli anni 2000, dell’architettura dell’oggi, astratta e spesso monocromatica. Punta della Dogana Ando ha elaborato fin da subito e con estrema rapidità il progetto cui hanno fatto seguito le stesure degli elaborati necessari a renderlo cantierabile. degli elaborati necessari a renderlo cantierabile. Dai disegni si nota come sin dal primo momento le linee dell’intervento fossero chiare. Il caratteristico impianto dei magazzini affiancati e linearmente disposti tra le rive del Canal Grande e del canale della Giudecca, doveva essere mantenuto. Realizzando imponenti lavori per dotare la fabbrica di adeguate fondazioni, per porla al riparo sia dall’umidità sia dagli effetti dette alte maree e pre81


vedendo di riconfigurare i soppalchi esistenti, il fine del progetto era quello di attrezzare uno spazio espositivo di circa 3300 metri quadrati. I suoi primi schizzi dimostrano come sin dal primo momento Ando abbia ipotizzato di inserire un nuovo spazio a tutta altezza, in posizione più o meno baricentrica rispetto all’impronta triangolare del complesso di cui si riprometteva di rispettare l’assetto e la struttura. Immaginato di forma cilindrica, una figura ricorrente nelle opere di Ando. Questo spazio ha assunto la configurazione di un volume cubico, posizionato, in modo da attraversarla nel suo sviluppo verticale, in corrispondenza di una “corte” preesistente, non presente però nell’edificio originale. Per il nuovo spazio, Ando ha previsto l’impiego di cemento armato lisciato e lucido, ormai riconosciuto come cifra delle sue opere. Quando i lavori hanno avuto inizio, gli interventi di restauro sono stati portati a compimento con l’intento di porre in luce le successive stratificazioni che le hanno configurate, rendendole documenti anonimi ma non per questo insignificanti, atti ad illustrare la storia e le vicende che hanno progressivamente modificato l’in82

terno del complesso senza intaccarne l’involucro. Tra queste molteplici tracce costituite da materiali diversi, dopo averle riportate alla luce senza accompagnarle con alcun commento, Ando ha inserito interventi radi e puntuali facendo ricorso ad una gamma ristretta di materiali. Nel disegnarli ha prestato particolare attenzione alto snodarsi dei percorsi che consentono il passaggio da un magazzino all’altro, dal piano terreno al livello occupato dai soppalchi, finendo per predisporre un tragitto che si dipana intorno all’asse ideale che attraversa i magazzini dall’ingresso a ovest allo spazio terminale a tutta altezza affacciato sul bacino marciano. Mentre i nuovi varchi ritagliati nette murature dei magazzini sono stati ricavati netta maniera più anonima, la presenza degli impianti e degli apparati tecnologici richiesti dal museo è stata esplicitamente denunciata. Queste apparecchiature sono state collocate proteggendole con parallelepipedi in cemento lisciato, sistemati sono i soppalchi, esibendo freddamente la propria atterità rispetto agli antichi e tormentati involucri che li accolgono. Il percorso che ora si snoda all’interno della fabbri-


ca, dall’ingresso posizionato accanto al podio su cui si erge la chiesa di Santa Maria delta Salute sino all’ambiente sormontato dal torrino su cui ruota la scultura della Fortuna, ora restaurata, conduce allo spazio occupato dalla corte a base quadrata definita da muri in cemento. Queste quattro lame, interrotte soltanto da due aperture che consentono la circolazione dei visitatori, sono spesse una trentina di centimetri, sono lunghi 16 metri e alti più di 6. A dispetto detta sua evidenza, anche questo inserimento, come le scale che portano ai ballatoi, le balaustre che li completano, i corrimano, le poche finiture, sembrano rispettare una regola soltanto, quella che ha imposto che i materiali nuovi e le nuove strutture si accostino sfiorandoli e quasi senza toccarli ai preesistenti apparati murari, dando così vita a continui intervalli scanditi in crescendo sino all’apparire prepotente e improvviso della corte cubica al centro dei percorso espositivo. Tra la fabbrica formatasi nel Seicento e quanto ora vi é stato aggiunto o sostituito non si osservano mediazioni né passaggi mimetici, quasi Ando abbia deciso di incastonare, tra le stratificazioni che formano

l’antico edificio, volumi e piani che le separano e le distinguono in modo ordinato dallo scorrere del tempo. Concorre a rafforzare questa impressione l’evidenza con cui Ando ha puntato sulla contrapposizione delle qualità tattili, e non soltanto visive, di quanto ha progettato a quelle degli involucri all’interno dei quali ha lavorato. I materiali da lui impiegati per realizzare gli inserimenti che ha disegnato sono lisci, asettici, privi di imperfezioni, tali da non opporre alcun ostacolo alla mano che li sfiora; incrostati, corrosi, mescolati e accidentati sono invece quelli di cui il passare dei secoli. Gli intervalli e le incisioni che separano gli uni dagli I’altri consentono ora di misurarne fisicamente con l’ausilio del tatto la distanza. Questa regola e le finalità che hanno indotto ad adottarla sono rese evidenti dai modo in cui la corte centrale é isolata nello spazio che occupa. I microintervaili che si possono osservare in ogni passaggio detta costruzione subiscono a questo punto un salto di scala; sottoposti a una dilatazione improvvisa, cedono la scena a un’esplicita rappresentazione contrappuntistica di astrazione e organicità che si avvale dell’evidenza con cui gli scarti 83


di tempi, durate, tecniche e, infine, culture vengono offerti alla vista. Per questa ragione all’organico e familiare aspetto dette antiche stessiture murarie messo in luce grazie al lavoro di scarnificazione su di esse operato, lo spazio centrate contrappone superfici e aperture modellate con precisione chirurgica e realizzate con un unico materiale e con tale cura da attribuire loro e all’impasto cementizio una levigatezza che riflette la luce e suggerisce al tatto una sensazione analoga a quella che potrebbe produrre una cortina di seta. Ando ha ripristinato soltanto all’interno della corte delimitata dalle sue pareti specchianti l’antica pavimentazione in pietra, invece eliminata in tutti gli altri ambienti espositivi a favore di una liscia pavimentazione in cemento. Oltre che dalla copertura, la luce si diffonde nella corte e negli ambienti espositivi filtrata dalle aperture laterali preesistenti, le quali sono state sistemate facendo ricorso ad un’ulteriore citazione. Le cancellate di protezione dette aperture ricavate nell’involucro delta fabbrica seicentesca da lui disegnate sono infatti riproduzioni puntuali di quella mirabile realizzata da Carlo Scarpa per il negozio 84

Olivetti nelle Procuratie Vecchie in piazza San Marco (1956). Questa citazione, non diversamente da quella di cui Ando aveva ipotizzato di avvalersi nel corso del progetto pensando di prendere a modello per le pavimentazioni all’interno dei magazzini quella realizzata dallo stesso Scarpa netta tomba monumentale Brion, è eloquente. Ando punta su una strategia progettuale collaudata e nell’avvalersi di mezzi espressivi non meno sperimentali, avendo appreso dalla cultura alla quale appartiene che la perfezione di ogni fare si raggiunge attraverso l’eliminazione di quanto non è essenziale. Restaurando Punta della Dogana ha ridato voce, facendo ricorso ad un diverso linguaggio, alla lezione che Scarpa ha impartito nel corso della sua intera carriera. Nel confrontarsi con quanto il passato gli affida, l’affronto più grave che un architetto può fare al tempo, è di negarsi al compito di dare voce al proprio tempo, mimetizzandosi tra le pieghe di quanto il grande costruttore ha per lui e per noi preservato.


Bibliografia e sitografia

- Hortus conclusus: Carlo Scarpa e la Querini Stampalia, regia di Riccardo De Cal; Venezia: Fondazione Querini Stampalia, 2007;

con la collaborazione di Chiara Casarin, prefazione Massimo Cacciari; Venezia: Fondazione di Venezia : Marsilio, 2014;

- Querini Stampalia Foundation: Carlo Scarpa; Richard Murphy, Londra: Phaidon Press Limited, 1993;

- Tadao Ando per François Pinault: dall’Ile Seguin a Punta della Dogana,Francesco Dal Co; Milano: Electa architettura, Venezia: Palazzo Grassi, François Pinault Foundation, 2009;

- Carlo Scarpa alla Querini Stampalia, Disegni inediti, a cura di Marta Mazza; Venezia: Il cardo, 1996 - Carlo Scarpa, L’opera e la sua conservazione I.1998; III.2000, a cura di Maura Manzelle; Milano: Skira Editore, 2002; - Carlo Scarpa, la fondazione Querini Stampalia a Venezia, Francesco dal Co e Sergio Polano; Milano: Electa, 2006; - Tadao Ando, volume 2 1995-2010, Francesco dal Co; Milano: Electa architettura, 2010; - Tadao Ando, Le opere, gli scritti, la critica, Francesco da Co; Milano: Electa, 1995;

- Dogana da Mar, Giandomenico Romanelli; Electa, Milano, 2010; - Identità, futuro e tradizione. Sacca Fisola 2.0, Piacentini Nicola, Pozzani Camilla, Zubelli Andrea; tesi di laurea magistrale, Università IUAV di Venezia, 2017; - bg4fsvirginia.wordpress.com/2015/10/12/case-study - insideart.eu/2016/11/14/scarpa-il-giappone-larchitettura - divisare.com/projects/146535-Punta-della-Dogana - http://www.giardinaggiosemplice.com - www.querinistampalia.org - www.palazzograssi.it

-Architetture contemporanee a Venezia, Renata Codello, 85


Pannello a coprire un quadro elettrico in muntz-metal nella sala d’ingresso

Pavimentazione ingresso in tessere quadrate, marmi lucidati (nembro rosato, bardiglio, verde Alpi, pietra di Arzo)

Lastre in cemento grezzo e pietra d’Istria nella sala espositiva

Sala espositiva: in travertino le pareti, in cemento e pietra d’Istria il pavimento

Dettaglio montante in ferro vetrata sul giardino

Vasca in alabastro e ottone

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Portale portego in acciaio ed ottone


Dettagli dei portali e delle murature esterne e della pavimentazione interna;

Travi vecchie e nuove

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