Riconversione e ricucitura: strategie per il riuso e la rigenerazione della Zai veronese - parte 1

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Riconversione e ricucitura: strategie per il riuso e la rigenerazione della Zai veronese

Laureanda: Elisa Montagna

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Ai miei cari, al mio futuro, alla mia cittĂ .

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UniversitĂ IUAV di Venezia Tesi di Laurea Magistrale in Architettura e Culture del Progetto aa. 2017/2018 - sessione autunnale Laureanda: Elisa Montagna, 286983 Relatrice: prof.ssa Arch. Maura Manzelle Correlatori: prof. Arch. Massimo Rossetti, prof.ssa Arch. Federica Di Piazza e con arch. Maria Manzin

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RICONVERSIONE E RICUCITURA: STRATEGIE PER IL RIUSO E LA RIGENERAZIONE DELLA ZAI VERONESE

SOMMARIO Indice dei capitoli

pg. 11

ABSTRACT Rigenerazione delle periferie - riflessioni

pg. 16

TAVOLE DI PROGETTO

pg. 514

BIBLIOGRAFIA

pg. 544

RINGRAZIAMENTI

pg. 549

ZAI

Zona Agricolo Industriale Zona d’Archeologia Industriale Zona d’Abbandono Industriale

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RICONVERSIONE E RCICUCITURA: STRATEGIE PER IL RIUSO E LA RIGENERAZIONE DELLA ZAI VERONESE

I

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VERONA SUD, TRA STORIA AMBITO ZAI: IERI E OGGI ED INDUSTRIA Cenni di una città parallela

pg. 26

EVOLUZIONE DI VERONA SUD La rapida evoluzione di Verona sud: una linea del tempo pg. 42 Il Consorzio Zai: le scelte urbanistiche post-belliche

pg. 50

La “Zai storica”: genesi della città

pg. 58

I magazzini generali: storia dei manufatti cardine del comparto ZAI Il “Quadrante Europa” e il ruolo di Verona “europea” negli anni ’80

PROGRAMMI URBANISTICI pg. 92

AREE DISMESSE IN ZAI

pg. 136

Cronologia degli interventi di pianificazione di Verona sud

MAPPATURA DELLA DISMISSIONE

pg. 148

MANIFESTAZIONI SINDACALI

pg. 156

pg. 94

I piani del Comune di Verona per la Zai il masterplan per il Piano degli Interventi. pg. 100 Verona Sud ATO 4 I quartieri di Verona Sud: possibilità e debolezze

pg. 114

pg. 66

Franco Mancuso a proposito di Verona sud

pg. 124

pg. 86

Progetti in atto - progetti realizzati una nuova immagine pg. 128 del comparto sud

Associazione Ivres l’impegno sindacale di preservare pg. 158 la memoria

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III

IV

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE Introduzione al tema dell’archeologia industriale

V

DA SPAZI DEL LAVORO A SPAZI IN DISUSO

FENOMENO DEL RIUSO

pg. 176

RICICLO DI AREE DISMESSE

Buone pratiche di recupero

pg. 180

L’attualità del tema della dismissione. Progetto architettonico o pg. 238 progetto urbano?

Deindustrializzazione e aree dismesse un problema urbano pg. 200 Il luogo e l’identità dell’industria pg. 208 nel rapporto con l’urbano

pg. 220

L’impronta industriale nella costruzione di una città

pg. 244

Relazioni tra area dismessa e paesaggio fenomeno urbano

pg. 252

Raccolta di casi studio

pg. 255

Margini, limiti, frange relazioni pg. 264 tra tessuti urbani dismessi La strada della demolizione: un pg. 270 capitolo estremo

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pg. 278

L’edificio come contenitore: da spazio vuoto a spazio necessario pg. 286 Trasformare per conservare interpretazione dei luoghi indupg. 290 striali dismessi Il progetto di riuso come ricerca pg. 296 di nuove relazioni Come riutilizzare il patrimonio pg. 308 industriale


RICONVERSIONE E RCICUCITURA: STRATEGIE PER IL RIUSO E LA RIGENERAZIONE DELLA ZAI VERONESE

VI

VII VIII

LE FABBRICHE DELLA CULTURA

EX MAGAZZINI EVA

PROGETTO DI RIUSO

LE FABBRICHE DELLA CULTURA

pg. 314

I MAGAZZINI EVA IERI

pg. 384

I MAGAZZINI EVA OGGI

Raccolta di casi studio

pg. 322

ABITARE IN UNA FABBRICA

Report fotografico dell’attuale pg. 392 stato di conservazione

Demolizione o no? Un breve riassunto

pg. 448

pg. 356

Lettura del contesto urbano relazioni con la città

Recupero magazzini Eva

pg. 456

Temi di progetto

pg. 468

Trascritture e riuso di fabbriche pg. 358 a scopo residenziale Raccolta di casi studio

pg. 366

pg. 416

Lettura degli spazi di fabbrica i magazzini Eva all’interno del contesto urbano pg. 424 Strutture industriali del secondo dopoguerra la prefabbricazione del cemento pg. 438

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autonomia elementi costruttivi

ritmo strutture ripetitive vuoto interni

ricucitura

PIANTA LIBERA

flessibilità

ampliamento

spazialità

recinto

senso del luogo assenza

connessioni

svuotamento

collettività

ruralità

VUOTO

dismissione

fatti anomali nel disegno urbano isolato storia

valore architettonico sinergie

SCATOLA riqualificazione 14

senso del luogo

contaminazione

periferia


lavoro

temporaneità

svisceramento

memorie collettive

RIGENERAZIONE

reversibilità spazi

contenitore

SPAZI RESIDUALI

sovrapposizione forme

città modificabilità

officine della cultura

autonomia elementi strategia

DEMOLIZIONE

macchina arruginita

riuso come continuazione stato precedente

riuso

luce brano di città

compiutezza

sventramento

SCATOLA NELLA SCATOLA

silenzio margine inclusione 15


ABSTRACT

Il tema del recupero è di grandis- dedicati al tema del patrimonio industria- anni espandendosi sempre più e assumendo processi di urbanizzazione disima attualità, soprattutto in Italia in le e del suo recupero. cui il patrimonio costruito è di grande portata e molti edifici hanno valore storico- artistico da preservare. Oggi non ci si limita solo al recupero degli immobili di prestigio, spesso vincolati dalle soprintendenze, ma in un ottica sempre più sostenibile, si estende anche a quegli edifici che hanno una storia più recente e che testimoniano il periodo industriale del XIX sec. Si tratta di edifici che hanno perso la loro vocazione produttiva e che hanno bisogno di essere riconosciuti come potenziali portatori di valore e di testimonianza storica. Passeggiando tra le vie della mia città, Verona, alla fine dell’anno scorso, mi sono imbattuta in molteplici siti dismessi. Mi riferisco a luoghi che un tempo ospitavano funzioni manifatturiere-industriali, in quella parte della città che sta a sud del centro storico: la ZAI (Zona Artigianale Industriale). Nata nel periodo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, oggi vede, tra il grigiume del cemento, una gran numero di insediamenti dismessi. La visita al Matadero di Madrid, rifunzionalizzato in centro culturale (come si vedrà in un capitolo dedicato), mi ha fornito la chiave di volta per la scelta dell’argomento di tesi. Mi sono “appropriata” di un’area a Verona sud, in posizione strategica, al margine tra sistema ZAI e tessuto urbano, prettamente residenziale, di Borgo Roma. Il progetto di riuso è scaturito da esigenze urbane, oltreché personali, e ha trovato basi in numerosi episodi di letteratura

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In Italia, infatti, la maggior parte degli interventi edilizi interessa il patrimonio esistente, con una gamma di soluzioni che riguardano la manutenzione, l’adeguamento normativo, il riuso, la conservazione e il restauro, il recupero in termini energetici. In questa sede intendo trattare il recupero considerando quella complessità di interventi che sono legati alla rifunzionalizzazione, ossia alla trasformazione d’uso di complessi dismessi, escludendo pertanto le operazioni che interessano l’ambito del restauro, più strettamente conservative e che hanno lo scopo di preservare il più possibili gli immobili dalle alterazioni, specialmente quelli con un certo valore storico e culturale.

Credo che il riuso abbia come obiettivo principale quello di rivitalizzare, nel senso di portare a nuova vita l’oggetto, offrendo nuove e diverse opportunità, individuando funzioni che creino sinergie con l’intorno e valorizzino il sistema edificio-contesto.

A mio avviso, il recupero di edifici può essere del tutto paragonabile al progetto per i nuovi edifici; tuttavia la necessità di assumere dall’esistente informazioni ad ampio spettro richiede un’attenzione particolare, in qualche modo correlata al “dialogo” che si deve instaurare con ciò che esiste. Quindi, in un panorama in cui le città contemporanee si sono evolute negli

versamente e peculiarmente declinati, è normale assistere ad un processo di decentramento in cui le periferie crescono senza programma ed in maniera incontrollata, andando a formare spesso quelle che sono definite le città diffuse, regioni urbane, metropoli infinite, megalopoli urbane o campagna urbanizzata. Questi processi di ‘metropolizzazione’ pongono una serie di questioni, che sono legate in primo luogo alla perdita e al degrado di superfici che erano idonee alla produzione agricola, alla biodiversità e alla qualità paesaggistica. Inoltre la destrutturazione della forma urbana si rivela preoccupante anche per quanto riguarda la sostenibilità sociale, ambientale ed economica delle nostre città. Oggi conviene adottare una logica di riuso, il consumo del territorio per l’edificazione non è più consentito. Chiarita l’impostazione con cui intendo affrontare il tema del recupero o meglio del riuso, vorrei fare riferimento al panorama urbano in cui si inseriscono i magazzini sede di progettazione, agli edifici abbandonati che sono presenti e il destino che hanno, affrontando naturalmente casi studio tipologicamente coerenti alla funzione industriale di carattere europeo. Il recupero riguarda, come già accennato, un insediamento degli anni ‘50, i magazzini EVA.


LA ZAI A VERONA SUD

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RIGENERAZIONE DELLE PERIFERIE E DEI MANUFATTI

Il tema della rigenerazione urbana è quindi oggi al centro dell’attenzione, o almeno dovrebbe esserlo, delle amministrazioni e della cittadinanza stessa. Spesso, le aree in disuso, si trovano ai margini, in territori periferici che per la loro precisa collocazione rispetto al tessuto densamente abitato, divengono luoghi percepiti come pericolosi o angusti. Nell’ottica della riqualificazione sostenibile, è necessario ripensare a questi spazi non solo come possibili nuove aree residenziali ma piuttosto come probabili input sociali. E’ necessaria quindi una lettura dei bisogni della città stessa, qualsiasi essa sia, in una logica che non precluda solo il profitto economico del progetto ma che questo vada a migliorare la percezione dei luoghi diventi un catalizzatore sociale. I centri città, densamente urbanizzati e senza relativi spazi dismessi, si presentano inadeguati per ospitare spazi per la cultura, come auditorium, musei, teatri, sale per esposizioni temporanee, sale per l’incontro di persone con caratteristiche sociali e di età differenti. I territori abbandonati ai margini diventano così ambienti adatti a ricucire gli spazi urbani, a riportare la cittadinanza a viverli senza consumare suolo o risorse. Allo stesso modo, si può ripensare a cosa c’era prima dell’industrializzazione o urbanizzazione in genere e quindi al tema dell’agricoltura. Tornare a com’erano quei luoghi, ora anonimi e grigi; questo percorso a ritroso può coincidere con i temi di funzionalità sociale ed integrare quindi spazi prettamente costruiti ad aree verdi come orti urbani o parchi “recintati”. Nelle città dove il verde viene recuperato o riusato, sono luoghi urbani di nuovo vigore e soprattutto permettono di rinserrare la vita nelle periferie, le qua18

che si manifestano sempre più spesso e a cui fanno seguito, immancabilmente, fenomeni di obsolescenza e progressivo abbandono del patrimonio edilizio industriale, appare evidente come oggi il progetto contemporaneo non possa sottrarsi ad un confronto con i manufatti che di questi processi rappresentano gli scarti più immediatamente percepibili. Questo tipo di progettazione ha come presupposto la possibilità di un “secondo tempo” della vita degli edifici, successivo a quello della funzione per cui erano stati costruiti, che si configura come il tempo della modificazione (da intendersi come interpretazione critica dell’esistente) dell’adattamento a nuovi usi, del riciclaggio. Quest’ultimo, condotto secondo un approccio di tipo progettuale e non meramente conservativo, occupa oggi un ruolo di primo piano nell’ambito del progetto di architettura anche in ragione del rilievo che la questione della cosiddetta sostenibilità è andata via via assumendo. Si tratta di una pratica che, seppure in maniera discontinua e con motivazioni ed esiti di volta in volta differenti, è da sempre presente nella storia dell’architettura; la disponibilità degli edifici a ospitare funzioni altre rispetto a quelle per i quali sono stati originariamente concepiti e realizzati, testimonia la straordinaria capacità di adattamento che è caratteristica dei manufatti architettonici. Le riflessioni di questo lavoro cercano di mentare forme insediative e modi di rispondere a queste domande e problecostruire maggiormente sostenibili». Alla luce della progressiva cessazione e/o matiche attuali per ristabilire il ciclo delocalizzazione delle attività produttive, di vita di un vuoto urbano. li devono essere vissute non per poche ore, ma per un arco temporale molto più lungo, pena l’essere dei meri dormitori: luoghi dove si torna per dormire o per lavorare. L’idea, dunque, di trasformare delle zone mono-funzionali in zone plurifunzionali, dove oltre alla residenza si possono fare acquisti, vi sono uffici, aree di aggregazione sociale e verde pubblico è una parte della città restituita alla civiltà e all’uomo. I luoghi di incontro sono fondamentali, le persone devono dialogare, ridere, condividere dei valori per inserire proprio questa multifunzionalità oggi, troppo spesso, mancante. Credo che l’architettura contemporanea debba possedere la sensibilità di intravedere la bellezza delle periferie, nel loro aspetto grigio che spesso possiede. La necessità di salvaguardare la risorsa suolo limitando l’edificazione residenziale ex novo, impone una riflessione critica sulle possibilità di trasformazione offerte dalla considerevole quantità di manufatti e superfici libere che costituiscono le numerose aree produttive interessate da fenomeni di dismissione – che, non di rado, si trovano in posizione strategica rispetto alle dinamiche insediative delle aree urbanizzate limitrofe. La ridefinizione del ruolo di questi spazi nel corpo della città rappresenta nel contempo una necessità e una risorsa, nella misura in cui «lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito» (Secchi, 1984); essa costituisce inoltre «un’occasione straordinaria per speri-


RICONVERSIONE E RCICUCITURA: STRATEGIE PER IL RIUSO E LA RIGENERAZIONE DELLA ZAI VERONESE

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I

VERONA SUD, TRA STORIA ED INDUSTRIA

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VERONA SUD, TRA STORIA E INDUSTRIA

Il lavoro di tesi focalizza l’attenzione sull’ampia zona sud della città di Verona. Nel 1895, al di fuori delle mura, non c’erano che campi coltivati, canali di irrigazione che prelevavano acqua dall’Adige, nuclei sparsi e corti rurali. Oggi non è rimasto molto: le tracce del passato sono state cancellate per fare spazio all’ambito produttivo della Zai.

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VERONA, 1868

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Cenni di una città parallela una linea del tempo

Verona per quattro secoli città fortificata della repubblica veneta e, nell’ottocento dell’impero austro-ungarico, anche dopo la sua unione all’Italia nel 1867, ha conservato intatto il territorio agricolo “fuori mura” fino ai primi decenni del sec. XX. Solo con l’avvio della industrializzazione assai tarda rispetto ad altri centri del Nord Italia, ha inizio negli anni ‘20, la formazione dei primi quartieri residenziali suburbani. La realizzazione del parco ferroviario e della nuova stazione di Porta Nuova, costruita nel 1922, contestualmente all’insediamento delle prime industrie lungo il canale Camuzzoni, apre la strada allo sviluppo urbano nelle aree meridionali del territorio extra moenia. Tra il 1924 e il 1926 vengono redatti i primi piani di espansione che daranno luogo allo sviluppo dei quartieri di Borgo Roma e di Golosine. Fin dalla fine del secolo scorso Verona, uno dei centri agricoli più importanti della pianura padana, necessitava di un complesso di strutture centralizzato da destinarsi alla raccolta, conservazione e smistamento dei prodotti ortofrutticoli e cerealicoli. Con la 26

fondazione nel 1924 di un apposito ente autonomo, formato da Provincia, Comune e Camera di Commercio, prende avvio la realizzazione dei Magazzini Generali di Verona. Per l’edificazione del complesso fu scelta un’area di pertinenza militare a sud del parco ferroviario di Porta Nuova nel luogo dove sorgeva il forte austriaco Clam successivamente chiamato Forte di Porta Nuova. L’area di circa 75.000 mq, a forma triangolare ora è posta al termine di un grande viale che costituiva il prolungamento fuori mura di Corso Porta Nuova: il principale asse urbano di Verona che unisce la cinquecentesca porta di Michele Sammicheli con la monumentale Piazza Bra. La scelta del luogo, dovuta al diretto collegamento con la ferrovia, si rivelò subito di importanza strategica perché situata nel punto di convergenza di due importanti arterie di collegamento territoriale con le regioni limitrofe. Il primo nucleo di edifici, magazzini e depositi dotati di impianti di refrigerazione, fu realizzato nel 1927 dopo la demolizione del Forte Clam, mentre l’in-

tervento più importante ebbe attuazione pochi anni dopo con la costruzione della Stazione Frigorifera Specializzata, una struttura di avanguardia nel settore, per molti anni la più importante nell’area europea. Questo nuovo complesso frigorifero progettato nel 1929 dall’ing. Pio Beccherle è formato da un enorme edificio circolare di oltre 100 metri di diametro in grado di accogliere al suo interno i carri ferroviari destinati al trasporto delle derrate alimentari e smistarli, attraverso una piattaforma girevole sormontata da un corpo cupolato, nelle celle di refrigerazione senza scarico e carico delle merci. Negli anni successivi, tra il 1930 e 1940, fino all’inizio della seconda guerra mondiale, in seguito al crescente sviluppo delle attività, i Magazzini Generali ebbero ulteriori ampliamenti con la realizzazione di nuovi capannoni e magazzini nella parte sud dell’area, mentre le due palazzine per uffici poste all’ingresso furono anch’esse progettate da Pio Beccherle nel 1936. Le particolari condizioni della realtà economica veronese della prima metà del secolo ampiamente carat-


PIANO TOPOGRAFICO DI VERONA, 1869

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CENNI DI UNA CITTA’ PARALLELA

terizzate dalla egemonia dell’agricoltura, disegnano alla fine della seconda guerra mondiale una situazione ancora embrionale di industrializzazione nel territorio circostante la città murata. La scelta delle forze economiche, politiche e amministrative dell’epoca, nella fase di ricostruzione economica ed edilizia della città fu di orientare lo sviluppo di Verona verso settori industriali non antagonisti all’agricoltura ma ad essa complementari. Allo scopo fu dato vita nel 1948 ad un Consorzio per la costituzione di una Zona Agricolo Industriale (Z.A.I.) che prevedeva l’insediamento in Verona di un’area produttiva agro-industriale in grado di ospitare un insieme di attività miste di carattere manifatturiero, di trasformazione dei prodotti agricoli e commerciali. Negli anni della ricostruzione post-bellica, la Z.A.I. fu l’intuizione di un osviluppo da parte degli enti più radicati nella vita civica veronese: il Comune, la Provincia, la Camera di commercio, che si consorziarono per dare vita alla zona. Uno sviluppo che doveva affrancare l’economia di Verona 28

da vincoli a volte secolari e lanciarla nel circuito dei traffici internazionali a partire dalle risorse esistenti: i prodotti della terra. Di qui infatti l’econmia veronese è partita per divenire nell’arco di trent’anni quanto mai differenziata nei suoi settori produttivi, e di qui è partita per scoprire l’importanza di una posizione geografica favorevole agli scambi e insieme la necessità di creare e progettare un sistema di comunicazioni e di servizi alle comunicazioni. La zona agricolo-industriale a sud della città è diventata in trent’anni un complesso di enorme rilievo nella via economica, sociale e politica del territorio veronese, parte integrante e viva di un disegno urbano sempre più vasto. La scelta di insediamento della Z.A.I., ricadde su un vasto triangolo di terreni che, a partire dai Magazzini Generali, si inseriva a cuneo tra i due quartieri di Borgo Roma e di Golosine-S.Lucia. Asse portante di tutto l’insediamento fu il prolungamento verso sud, per oltre due chilometri, del viale che, partendo da Porta Nuova, giungeva fino ai Magazzini Generali.

Il Viale del Lavoro a tutt’oggi costituisce l’infrastruttura più importante di Verona-Sud. L’evento di maggior rilievo della Z.A.I. “storica” al momento della sua nascita, fu l’insediamento nelle aree centrali della Fiera di Verona. Nata come Fiera Internazionale dell’Agricoltura fu trasferita nel 1948 dal centro della città su un’area di circa 300.000 mq sul lato di Viale del Lavoro opposto ai Magazzini Generali. Nell’arco di pochi decenni la Fiera di Verona è divenuta uno dei più importanti centri fieristici d’Europa con una attività di circa 30 manifestazioni all’anno. L’evoluzione moderna di questa istituzione rende il quartiere fieristico, completamente rinnovato nell’ultimo decennio, un importante centro d’affari internazionale dotato di imponenti strutture adatte allo sviluppo di attività collaterali di tipo culturale e sociale (convegni, mostre, spettacoli, luoghi di riunione). In questo quadro, particolare importanza riveste il recente progetto di Aldo Rossi per la costruzione di un nuovo padiglione espositivo polifunzionale e la sistemazione di tutto il fronte Fiera su Viale


CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DEL CONSORZIO ZAI

del Lavoro. Ideato due anni prima della scomparsa dell’autore il progetto Rossi costituisce un importante contributo alla integrazione architettonica di strutture specialistiche tipiche della cultura industriale suburbana con la cultura urbana di città ricche di grandi tradizioni storiche come Verona. Ulteriore conferma del carattere misto della Z.A.I. “storica” venne dal trasferimento nel 1952 del Mercato Ortofrutticolo di Verona in una vasta area di circa 100.000 mq adiacente ai Magazzini Generali, anch’essa direttamente connessa con Viale del Lavoro e posta di fronte al quartiere della Fiera. Divenuto in alcuni decenni un importante centro europeo di commercio e di prodotti agricoli il Mercato Ortofrutticolo rappresenta anche sul piano delle strutture edilizie una importante presenza per la Z.A.I.: i quattro grandi padiglioni che formano la parte principale sono retti da una serie di strutture in cemento armato ad arco di parabola di ardito profilo formale. Per le loro dimensioni e per la grande flessibilità interna costituiscono degli interessanti

spazi coperti ricchi di molteplici potenziali possibilità d’uso. In concomitanza con la crescita del Mercato Ortofrutticolo anche i Magazzini Generali ebbero nei primi decenni del dopoguerra, ulteriore sviluppo con ampliamento e parziale modificazione delle proprie attività. Conseguentemente ulteriori interventi edilizi furono realizzati all’interno dell’area triangolare definita dal perimetro murato e dai tracciati dei binari ferroviari. La più immediata conseguenza della istituzione e dello sviluppo della Z.A.I. fu la crescita rapidissima delle due aree residenziali poste ai lati del grande triangolo agricolo industriale. Sul lato orientale il quartiere di Borgo Roma si era accresciuto intorno al vecchio villaggio di Tomba fino a saturare le aree di espansione edilizia prevista dal P.G.R. del 1953 e successive varianti. Altrettanto impetuoso fu lo sviluppo dei quartieri occidentali di Golosine e Santa Lucia sorti lungo i tracciati viari verso i paesi della campagna e anch’essi sviluppatisi sulle griglie di una pianificazione assai sommaria. Entrambi gli insediamenti che oggi stringono in una morsa il

“cuore” industriale della Z.A.I. formano complessivamente una vasta urbanizzazione che supera i centomila abitanti. Le principali contraddizioni che evidenziano questa urbanizzazione sono le seguenti: a) La sua posizione fisica, nettamente separata dalla città storica da una larga fascia di infrastrutture stradali e ferroviarie, la pone in condizione di essere una città autonoma con propri confini territoriali ben chiari. b) L’assenza di contenuti tipici di una città autonoma (strutture pubbliche, edifici specialistici per cultura e spettacolo, musei, parchi, edifici di alta qualità architettonica) la rende di fatto omologabile ai quartieri-dormitorio di tutte le periferie. c) Il cuneo di insediamenti industriali e commerciali della Z.A.I. divide la città in due parti residenziali prive di un vero centro urbano. Sinteticamente Verona Sud è raffigurabile in una vasta urbanizzazione retta da un asse viario stradale rettilineo che collega, con vari tronchi, il centro della città antica, Piazza Bra, con la stazione dell’au29


CENNI DI UNA CITTA’ PARALLELA

tostrada Milano-Venezia. I tre tronchi di questo asse sono: Corso Porta Nuova, interno alle mura urbane attraversa il tessuto edilizio da Piazza Bra alla “sammicheliana” Porta Nuova; Viale Piave corre tra il canale industriale e il parco ferroviario da Porta Nuova ai Magazzini Generali; Viale del Lavoro, attraversa le aree centrali della Z.A.I. dai Magazzini Generali al casello autostradale Verona Sud. All’altezza dei Magazzini Generali viale Piave ha due diramazioni viarie opposte che formano gli assi di penetrazione principali ai due quartieri di Borgo Roma e di Golosine-Santa Lucia. Entro questa maglia primaria si è sviluppata la Z.A.I. sempre più connotata negli ultimi decenni come area industriale e ai lati di questa sono cresciuti i due quartieri-dormitorio. All’interno della Z.A.I. si era costituito un “cuore” definito dai tre insediamenti più “forti”: i Magazzini Generali, il Mercato Ortofrutticolo e la Fiera, una sorta di potente triangolo di strutture di servizio all’economia della città e del territorio. La dismissione dei Magazzini Generali risale alla fine degli anni Ottanta. Il complesso di edifici e terreni che costituisce il più importante “parco” di archeologia industriale del territorio veronese, è oggi soggetto ad un sempre più rapido degrado e totale abbandono. La loro posizione di centralità rispetto a Verona sud costituisce un fattore decisivo per la creazione di un “luogo centrale” o “centro città” in relazione ai quartieri residenziali limitrofi, alle loro necessità di servizi e strutture, per renderli delle vere e proprie aree urbane. Rappresentano, inoltre, una opportunità di riordino

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della maglia viaria e offrono la possibilità di creare una dotazione di parcheggi adeguati in relazione ai grandi centri di attrazione come la Fiera. A partire dagli anni Ottanta si sono susseguiti vari studi da parte dell’Amministrazione comunale di Verona particolarmente mirati al riuso delle aree in questione.

Nelle foto accanto: dall’alto, operazioni di carico di carni lavorate al macello. In mezzo, lavoratori alle officine ferroviarie nel 1866. Sotto un mulino sull’Adige sempre nel 1866.


CARTA TOPOGRAFICA DI VERONA , PRIMI RIFLESSIONI DELL’800

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URBANISTICA A VERONA PRIMA DELLA GUERRA

Ai primi del novecento Verona registrava un’ingente crescita demografica, dovuta al trasferimento di popolazione dai centri minori e dalle campagne, creando un aumento della domanda d’abitazioni. Si costruirono quindi i primi due quartieri popolari: Porta Palio e S. Pancrazio che furono insufficienti a soddisfare la richiesta d’abitazioni, rendendo necessari ulteriori interventi. Questi, si esegui-

rono a sud nella zona di Tombetta ove erano già presenti alcune industrie.

L’espansione della città vera e propria ha inizio successivamente all’emanazi ne del R.D. del 10 novembre 1910, con cui venne a cessare il divieto di costruire nella Spianà. Furono così predisposti i primi piani d’ampliamento per la zona est:quartieri Borgo Venezia e San Pancrazio; e per la zona sud: Borgo Roma, Basso Acquar, Tombetta. In tali aree si realizzò una forte crescita industriale ed i nuovi quartieri furono identificati quali “quartieri operai”. Nello stesso periodo il Centro storico era caratterizzato da scarsa attività edilizia, soprattutto volta all’utilizzo dell’e-

sistente, con sopraelevazioni degli edifici posti lungo gli assi commerciali e secondo i dettami della Commissione d’Ornato. Dopo la prima guerra mondiale venne rimarcato il carattere industriale della città e del conseguente aumento della richiesta d’abitazioni. Utilizzando le risorse rese disponibilidal Testo Unico per l’Edilizia Economico Popolare del 1919, vennero

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realizzati interventi nei quartieri di Borgo Milano, Borgo Trento e Valdonega. Nel periodo dal 23-27 (epoca fascista) vennero aggregati alla città di Verona dieci comuni contermini: Avesa, Parona, San Massimo all’Adige, Santa Lucia, Ca’ di David, San Michele Extra, Montorio, Mizzole, Santa Maria in Stelle, Quinto, Palazzina. La superficie del territorio Comunale venne quindi a comprendere 20.000 ettari circa e la popolazione, nel 1931, raggiunse i 154.000 abitanti. Nel 1926 i “quartieri popolari” erano quattro: Porta Palio, San Pancrazio, Tombetta e San Bernardino, erano stati realizzati nell’ambito di piani zonali, che avevano individuato le reti stradali e le urbanizzazioni. I successivi piani d’a pliamento previdero zone d’espansione, indicando alcuni fattori d’igiene urbana. Nel 1929 il Podestà nominava una commissione per l’elaborazione del bando di concorso per lo studio e la progettazione di un Piano Regolatore. Egli giustificava la necessità di pianificazione con il progresso dei mezzi di trasporto, la nascita di nuove esigenze igieniche, la necessità di nuove trasformazioni artistiche e da un insieme di fattori che intervengono nella vita di una città “moderna”. Le indicazioni nel bando di concorsovdel 15 luglio 1931 puntavano ad una riduzione dell’espansione della città, oltre che ad una conservazione dei manufatti e del suolo pubblico. Nel 1933 la Commissione si riunì per giudicare i 14 elaborati presentati ma nessuno venne ritenuto valido quale piano regolatore della città. Furono assegnati due primi premi, “Valdonega e San Pancrazio” e “Chiodi-

Merlo”, due secondi premi e un terzo premio. Il progetto “Chiodi Merlo” proponeva: la creazione di piccoli centri a bas-

sa densità, con tipologie estensive ed integrate alle attività agricole;

la concentrazione di volumi nelle zone centrali; tipologie semintensive, nella zona immediatamente esterna al centro; insediamenti lungo le strade esterne alle mura; aree di separazione tra centro e periferia, destinate a verde; salvaguardia per la zona collinare; creazione di giardini lungo le mura e all’interno del centro. Altre indicazioni suggerite dai progetti premiati e successivamente adottate nei piani erano: • naturale espansione lungo le vie di transito già in essere; • carattere produttivo della zona sud; • viabilità studiata ad anelli concentrici intersecati da radiali uscenti dal centro; • inviolabilità del centro storico, sia per il restauro sia per la nuova edificazione. Dopo la seconda guerra mondiale, Verona era semidistrutta (circa il 40% del suo patrimonio edilizio risultava colpito dagli eventi bellici) e venne quindi inclusa, dal Ministero dei LL.PP. (D.L. 1375/46), negli elenchi dei comuni che dovevano adottare il Piano di Ricostruzione. Nel 1945 la Giunta Municipale affidava a Plinio Marconi, coadiuvato dall’Ufficio Tecnico Comunale, la redazione del Piano di Ricostruzione e la ristesura del Piano “del 1939”, per adeguarlo ai criteri della Legge Urbanistica del ‘42.


VERONA, 1757

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L’ISTITUZIONE DELLA ZAI

I due strumenti vennero redatti contemporaneamente e il Piano di Ricostruzione venne inteso come piano particolareggiato al P.R.G. Il 9 ottobre 1946 il Consiglio Comunale adottava il Piano di Ricostruzione che riguarda essenzialmente: la sistemazione del Centro, dove si erano verificate le “maggiori distruzioni” (Tomba, Parona e Santa Lucia) e riportava indicazioni specifiche per gli edifici distrutti e/o danneggiati. Nel piano erano inoltre previsti degli a largamenti stradali ove vi erano dei vuoti lasciati dagli edifici crollati. Altre previsioni furono stralciate a seguito delle osservazioni proposte da parte della S printendenza ai Monumenti; che riguardavano l’attraversamento mura, via Quattro Spadevia Catullo e piazza S. Nicolò.

Dal Piano di ricostruzione era previsto lo spostamento a sud del Campo della Fiera e del Foro Boario, costituendo la futura destinazione a zona Agricolo-Industriale. L’istituzione della ZAI La ZAI viene prevista dalla D.L. 579 del 24.04.1948 e fa parte del pro-

gramma di ricostruzione postbellica e

trova naturale insediamento nella zona a sud della città, oltre che per le

scelte fatte in precedenza, perché sempre a sud era previsto il tracciato dell’autostrada VE-MI. 34

Il D.L. individua un’area della superficie di 690 ettari da destinare a zona agricolo-industriale e dichiara di pubblica utilità, all’art. 2: “le opere occorrenti per la sistemazione, l’ampliamento, la trasformazione e l’esercizio di stabilimenti industriali...”; istituisce il consorzio costituito da Provincia, Comune e C.C.I.A.A. che ha lo scopo di promuovere le iniziative pubbliche e private per l’attuazione della zona Agricolo- Industriale. Predispone inoltre

agevolazioni sul piano economico e fiscale. Alla fine degli anni ‘50 nella zona ZAI si trovano: i Magazzini Generali, la Fiera, il Mercato Ortofrutticolo, la Manifattura Tabacchi e il Foro Boario.

Con la Legge 26 luglio 1975 n° 378 “modifiche al decreto legislativo 24 aprile 1948 n° 579 istitutivo della zona agricolo-industriale nel comune di Verona”, al consorzio ZAI viene affidata la gestione d’altre aree per complessivi 643 ettari da destinare ad insediamenti industriali (Bassona, 95 ettari - Marangona 143 ettari) e “Quadrante Europa (400 ettari). La prima, a prendere l’avvio è la Bassona. La convenzione di lottizzazione, che definisce i rapporti tra il consorzio e il comune, è del 1977 ed il primo stabilimento, che viene insediato in quest’area, è del 1978. Direttamente il consorzio provvede all’assegnazione delle aree, espropriate o acquistate, alle imprese per l’insediamento degli edifici industriali artigianali e commerciali. Con D.P.R. 3 ottobre 1977

viene approvato lo statuto del consorzio ZAI, il quale prevede all’art. 2: • la collaborazione con lo Stato, la Regione, la Provincia, i Comuni per l’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale, ecc.; • procedere all’espropriazione d’immobili; • realizzare ed assegnare immobili; • gestire impianti e servizi.

Le scelte delineate dagli strumenti di piano Ripercorrendo la storia degli strumenti di piano a Verona, risulta evidente come le scelte principali per lo sviluppo della città siano state introdotte dai piani redatti dall’Architetto Plinio Marconi nel periodo post bellico. Marconi, incaricato di redarre il Piano di Ricostruzione a Verona nel 1946, traccia schematicamente il P.R.G., esteso a tutto il territorio comunale, secondo quanto prescritto dalla Legge urbanistica N. 1150 del 1942, ed a questo coordina il Piano di Ricostruzione, che comprende innanzitutto l’intero centro storico. Dobbiamo comunque precisare che, costituendo, a quel tempo, il Centro Storico, una parte rilevante del territorio urbano, il Piano di Ricostruzione viene di fatto ad interessare la quasi totalità del comune. Le operazioni previste dal Marconi nel Centro Storico sono interventi minuti e calibrati - adeguamento ad esigenze di igiene, una maggiore dotazione di verde - con cauti diradamenti nelle zone particolarmente colpite dalla guerra. Ma ciò che


PIANO GENERALE DI VERONA, 1828

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L’ISTITUZIONE DELLA ZAI

veramente contraddistingue il piano, è menti. la previsione del trasferimento di al- I temi, contenuti nel Piano di Ricostrucune attività, come la fiera, il foro zione, anticipano le principali scelte dell’impostazione futura della città che boario, il macello, localizzate nel Marconi definisce con il Piano Regolatoquartiere di Cittadella, nell’area a re Generale del 1958. Il Piano Regolatore sud della città in cui, già dal 1924, Generale del 1958 La prima stesura del sono ubicati i Magazzini Generali, P.R.G., affidata all’Architetto Plinio Marponendo le premesse per desti- coni, risale al 1951, in connessione, come si è già osservato, con la stesura del Piano nare quest’area a Zona Agrico- di Ricostruzione. lo-Industriale (Z.A.I.). Contempo- Marconi consiglia un P.R.G. particolarraneamente, nelle aree lasciate libere in mente dettagliato ma contemporaneaCittadella, viene previsto il trasferimento mente elastico, per lasciare aperta la stradi funzioni direzionali sia pubbliche che da a successive modifiche. Alla necessità private favorendo lo spostamento del di future modificazioni si sarebbe meglio “centro degli affari” della città, da Piazza provveduto redigendo delle varianti. delle Erbe, localizzata nella parte più an- “Di qui la rivalutazione di uno strumento tica del nucleo storico, verso Piazza Brà come la variante che, non più un incidene Piazza Cittadella. Infine vengono pre- te di percorso, mezzo burocratico della viste nuove strade di penetrazione verso gestione, diventa aggiornamento di un il quartiere di Cittadella ed in particolare piano che governa un tempo più lungo”. la via di collegamento tra la stazione di E’ attraverso questa “successione di piaPorta Nuova e Piazza Brà (via Valverde). ni” che Marconi ritiene di poter tenere L’attività di Marconi, come quella di al- sotto controllo l’intero territorio. Nella tri architetti a lui contemporanei, prende relazione di Piano scrive: “Il progetto di le mosse dall’esempio di Piacentini, ma Piano Regolatore è rivolto alla soluzione soprattutto di Giovannoni, le personalità di tre problemi: più influenti a Roma e presenze di spic- 1) la forma della città futura, derivante co nel panorama culturale italiano degli dalla dislocazione qualitativa e quantitaanni ‘20. Infatti alcuni dei temi formu- tiva delle zone di espansione residenziali lati e approfonditi da Giovannoni sono o di altra natura; rintracciabili nell’urbanistica di Marconi, 2) l’organismo cinematico principalmenin particolare quello del Centro Storico te in rapporto alle esigenze del traffico - inteso come “ambiente”, parte specifi- di transito; ca e compiuta della città - da conservare 3) l’assetto del nucleo antico. nella sua condizione funzionale e figura- Con il P.R.G. del 1958 egli tende ad intiva mediante la cauta eliminazione delle dirizzare, con l’istituzione della regione superfetazioni, ma soprattutto frenando produttiva (Z.A.I.), lo sviluppo della città e convogliando altrove i nuovi insedia- verso Sud, e ad attribuire il ruolo di cen-

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tro direzionale, sia delle attività pubbliche che private, ad una parte del Centro Storico: il quartiere di Cittadella. Con questa operazione si sancisce lo spostamento del “centro degli affari” da Piazza delle Erbe, nel quartiere di Città Antica, a Piazza Brà, verso il quartiere di Cittadella, con il chiaro intento di decongestionare il nucleo più antico e pregiato della città. E’ interessante sottolineare come Plinio Marconi inserisce i temi della tutela e conservazione del Centro Storico all’interno di un piano organico di sviluppo complessivo della città, prevedendo art rie di collegamento tra le diverse parti del territorio (Mediana a sud della città e galleria delle Torricelle a nord). Si tratta di interventi nella maggior parte dei casi mai realizzati, di grande attualità, che dimostrano come il tema si trascini irrisolto ormai da alcuni decenni. Per quanto riguarda gli interventi di sistemazione del Nucleo Antico, previsti dal Marconi, osserviamo come il suo intento sia quello di migliorare la penetrazione verso Piazza Brà, nuovo “cuore della città”; nuove strade di penetrazione vengono previste nei quartieri di Cittadella e San Zeno con il chiaro intento di collegare tra loro, la stazione di Porta Nuova, il quartiere di Borgo Trento con Piazza Brà. Di diversa natura sono gli interventi viari in Città Antica concepiti secondo il criterio fondamentale: “di non alte-

rare in alcun modo il carattere edilizio ed architettonico interno,

limitandosi a considerare assai cauti diradamenti nell’interno di vasti isolati determinati dalla scacchiera romana dei cardi


VERONA, 1945

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L’ISTITUZIONE DELLA ZAI

e dei decumani” (5) approfittando, nelle zone colpite dalla guerra, delle massicce demolizioni per allargare la carreggiata delle più importanti arterie di attraversamento (via Cappello, via Stella, etc.), tentando nello stesso tempo di ricavare zone verdi e parcheggi, come nel caso della Corte Nogara e di piazza S. Nicolò. Infine il quartiere di Veronetta viene interessato da un minor numero di inte venti viari. Fra questi meritano attenzione la prev sione, poi realizzata, di una breccia nella cinta Magistrale che permette il collegamento diretto tra la zona di Campofiore, dove troverà sede l’Università, e ponte Navi; e l’apertura, anch’essa realizzata, di un passaggio in galleria tra la parte alta di Veronetta ed il quartiere di Borgo Venezia. La salvaguardia e la conservazione del nucleo storico della città scaligera sono affidate non solo ad un insieme di vincoli e divieti, ma soprattutto alle scelte di fondo del piano: sottrarre dal centro antico le maggiori funzioni di richiamo, trasferendole all’esterno dell’angusto ed inadeguato reticolo romano creare

creazione di un nuovo “luogo centrale” all’interno del quartiere Cittadella: Piazza Renato Simoni. Il collegamento diretto tra la stazione di Porta Nuova e piazza Brà attraverso Corso Porta Nuova o via Valverde, favorisce in breve tempo, in queste vie, l’insediarsi di attività terziarie (banche, assicurazioni, ecc.). Si può quindi attribuire a Marconi il ruolo, assunto dal quartiere di Cittadella nei confronti dell’intera città, di centro direzionale pubblico e privato e la creazione a sud di una “regione produttiva” (Z.A.I.), con la conseguente espansione dei quartieri residenziali in questa direzione.

mento periferico. Come Giovannoni ed altri, Marconi r tiene che la battaglia per la salvaguardia del nucleo interno della città di origine antica debba essere combattuta alla periferia, con strategie relative alla ubicazione delle zone di espansione ed al tracciamento di strade esterne di scorrimento. Sempre a Marconi può essere riferita la

aumento della popolazione imprevedibilmente massiccio, dovuto sia ad un incremento naturale, ma soprattutto derivante dall’afflusso nel Comune di forti masse di contadini provenienti dalle campagne vicine e dalle altre Regioni. Le previsioni del Piano Regolatore del ‘58 vengono rapidamente superate sia dal rilevante incremento della popola-

La Variante Generale (1966-1975) La Variante Generale al P.R.G. del ‘58 nasce sia dalla necessità di adeguare lo strumento di pianificazione alla legge n° 167 del 1962, sia dalle modificazioni intervenute nella società, nell’economia e nel territorio di Verona.

zione sia dalla realizzazione di grandi infrastrutture (autostrada del Brennero e Serenissima), che hanno notevolmente condizionato l’organizzazione del territorio comunale. Nel Centro Storico invece, fin dagli anni ‘50, per effetto del maggior benessere economico, è in atto un processo di abbandono da parte della popolazione residente nella parte più antica ed insalubre e cioè dal nucleo di origine romana, Città Antica, e da Veronetta. Nell’intervallo 1951-1971 la popolazione dei quartieri antichi diminuisce ed i locali così lasciati liberi vengono utilizzati come negozi, uffici ed altre sedi di lavoro. Tutti questi fenomeni hanno come conseguenza il rapido esaurimento della capacità ricettiva delle nuove zone residenziali previste dal Piano, la faticosa ricerca di terreni fabbricabili ed il forte rialzo dei loro prezzi. Inoltre le zone destinate dal piano regolatore ad insediamenti industriali risultano, già nel 1962, praticamente esaurite.

Vi è quindi la necessità di introNel decennio 1951-1961, Verona durre nella variante queste nuove quartieri autosufficienti di espan- viene interessata da un “boom” aree industriali e di coordinarne lo sione, onde evitare l’accrescimen- economico ed industriale tra i sviluppo. to isotropo; tracciare strade di arrocca- maggiori in Italia, il quale provoca un Gli studi della variante iniziano nell’ago-

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sto del 1963, con il conferimento dell’incarico nuovamente all’Architetto Plinio Marconi. Ancora una volta il P.R.G. è rivolto alla soluzione di tre problemi fondamentali: 1) Forma e dimensionamento della città futura; 2) Sistema della viabilità; 3) Assetto del nucleo antico.


PIANO REGOLATORE, 1954

In viola le aree previste a destinazione industriale; in blu scuro quelle a commerciale-artigianale; in blu elettrico quelle a servizio ospedaliero.

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L’ISTITUZIONE DELLA ZAI

La Variante asseconda la scelta di uno sviluppo a sud, dove si fa sentire il richiamo della regione produttiva della città.

Inoltre viene prevista la formazione di un grande centro intermodale: l’area del Quadrante Europa. Vengono riproposte le soluzioni per la grande viabilità già presenti nel P.R.G. del ‘58, come la circonvallazione a nord, passante per una galleria sotto le Torricelle, che avrebbe dovuto collegare Borgo Venezia con Borgo Trento e la Mediana a sud della città. Entrambe queste due soluzioni viabilistiche vengono però considerate non idonee dalla Regione in fase di Approvazione del P.R.G. poiché costituiscono “una turbativa ambientale” e quindi “un errore ecologico ed urbanistico” (il sistema della viabilità sarà oggetto di una specifica Variante al P.R.G., la N. 87 del 1988). Infine viene inserito nel P.R.G. il tracciato della strada di collegamento tra il Casello Autostradale di Verona-nord la zona Stadio: l’attuale “Bretella”, realizzata in occasione dei Mondiali di calcio del 1990. Marconi, riguardo al Centro Storico, precisa che: “evidentemente nell’ambito di questo, sono destinate a prodursi altre necessità operative, le quali peraltro esigono, per essere puntualizzate, l’approfondimento di studi a tutti i livelli, storico-architettonico-ambientale, socio- economico, etc.. Studi che possono compiersi e dar luogo a soluzioni positive soltanto nell’ambitodi Piani Particolareggiati (di salvaguardia) di futura 40

redazione”. Intanto gli interventi nelle aree indicate dal P.R.G. come appartenenti a nuclei di antica origine o di interesse storico e ambientale, vengono subordinati alla preventiva approvazione di Piani Particolareggiati. Va notato che il rimando generalizzato ai Piani Particolareggiati, quali strumenti di approfondimento per l’assunzione dei problemi del Centro Storico, è stata una scelta spesso adottata nella cultura urbanistica degli anni tra il ‘50 ed il ‘70, che però si è rivelata, anche a Verona, assai difficilmente attuabile, di fatto inattuata, e, soprattutto, controproducente rispetto agli obiettivi di salvaguardia dell’assetto fisico-morfologico ed economico-sociale del Centro Storico per i quali era stato, fra l’altro, concepito. In attesa dei Piani Particolareggiati, Marconi nella relazione di piano definisce, tuttavia, una normativa di carattere prevalentemente vincolistico, con lo scopo di salvaguardare il patrimonio edilizio, artistico e ambientale del Centro Storico. Le decisioni urbanistiche adottate per il Centro Storico appaiono una premessa atta a congelare una situazione esistente, ponendo un freno all’attività edilizia, per consentire un’ indagine capace di definire il grado di operatività per i singoli edifici: quella che sarà, anche se con notevoli semplificazioni, la Variante 33 del 1984. Per quanto riguarda le funzioni insediate nel Centro Storico anche la Variante al P.R.G., come i precedenti piani, indica come obiettivo il decongestionamento di Città Antica mediante il: “trasferimento ai margini interni della cinta magistrale ed in

un comprensorio esterno di adeguate dimensioni delle zone direzionali ove spostare nel tempo servizi a scala urbana, oggi inseriti nel nucleo di antica origine ed ove ubicare vasti servizi di nuova programmazione”. Si tratta di tutta una serie di servizi pubblici e insediamenti direzionali che andranno a localizzarsi prevalentemente all’interno del Centro Storico nel quartiere di Cittadella. Negli anni ‘80, in conseguenza all’arresto della crescita demografica, dell’espansione della città e del faticoso maturare di un atteggiamento più attento ai problemi della conservazione e del recupero, si fa strada un nuovo indirizzo che auspica la rilocalizzazione delle funzioni all’interno della città, allo scopo di trasferire fuori dal Centro Storico le funzioni terziarie, favorendo così il ritorno dei residenti. Terminato dunque il processo di espansione della città, l’Amministrazione Comunale si pone come obbiettivi quello di migliorare l’uso delle risorse edilizie esistenti e quello della ridefinizione

della centralità urbana.

Sono anni questi in cui anche a Verona, il sistema dei valori connessi alla conservazione e alla salvaguardia del patrimonio edilizio esistente, prima ristretto ad un’élite culturale, si estendono agli addetti ai lavori, ai decisori politici, ed all’opinione pubblica generale. È in questo contesto che maturano i presupposti per una variante specifica per il Centro Storico che tenti di definire un nuovo ruolo per il nucleo antico, quella che sarà, anche se con notevoli semplificazioni rispetto agli intenti originali.


PIANO REGOLATORE, 1975

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EVOLUZIONE VERONA SUD

“Non esiste mondo al di fuori delle mura di Verona� scrisse Shakespeare. Questa condizione urbana venne conservata almeno fino agli anni ‘20 dello scorso secolo, quando per motivi espansionistici e di sviluppo industriale, si inziarono ad urbanizzare le campagne a sud delle mura austriache. Nelle pagine seguenti ho cercato di raccogliere le vicende urbane e politiche che spinsero a muoversi in questo senso, i problemi che sorsero (e che ancora non sono risolti), la percezione dei cittadini del comparto produttivo, ma non solo, di Verona sud. 42


VERONA, 1983

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La rapida evoluzione di Verona sud: una linea del tempo

Verona Sud si configura oggi come una vasta urbanizzazione, una città “parallela” che le scelte urbanistiche di un passato abbastanza recente, ci hanno consegnato separata dal resto della città, priva di un centro in grado di attribuirle quei connotati urbani fondamentali. Il cuore di questa ampia porzione di città (di quasi 1.000.000 mq) è costituito da una serie di aree di prima industrializzazione da tempo dismesse e oggi in stato di abbandono; un’importante arteria stradale le attraversa collegando il casello di Verona Sud e il centro storico della città, e su di essa si affaccia il sempre più importante polo della Fiera.

La presenza di rilevanti episodi di archeologia industriale, la loro centralità rispetto alle aree residenziali di Borgo Roma, di S. Lucia e Golosine, e il collegamento diretto con il centro storico costituiscono un’ulteriore sfida per un qualsiasi piano che voglia intervenire su questa complessità per un suo equilibrato sviluppo, anche tenendo conto della rapidità con cui si evolvono le dinamiche urbane e sociali.

Il carattere peculiare del cuore di Verona Sud, rispetto al nucleo consolidato, è la rapidità con cui è nato, si è sviluppato ed infine è Il recupero di questi luoghi (costi- stato dismesso: la compressione dei tuiti dagli ex Magazzini Generali, tempi, riproponendo in termini invertiti la questione della città dei tempi lunghi e dall’ex Mercato Ortofrutticolo e la città dei tempi corti, ci ha consegnato dalle altre aree limitrofe della Ma- strutture rese obsolete dal progresso e nifattura Tabacchi, delle ex-Car- una parte tiere, del Foro Boario e del Ma- di città che reclama un suo centro, una cello) costituisce da due decenni il sua identità, in una situazione analoga a nodo principale della futura piani- quella del quartiere Arcella a Padova. La necessità di riconnettere il tessuto ficazione urbanistica della città.

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di un passato recente con quello della città storica, di sfruttare questa opportunità per recuperare non solo una cospicua porzione di città, ma anche di un certo “disegno” della città, permette di riscoprire

l’analisi storica come un efficace ausilio per la pianificazione urbana, attraverso l’inquadramento del processo di stratificazione delle aree in esame, lo studio storico delle problematiche, delle soluzioni proposte e degli errori compiuti. La storia di Verona Sud è una storia, come tante altre del secolo breve, che si svolge in circa ottant’anni, un periodo breve per una città, ma che appare molto più lungo se ci si sofferma sui cambiamenti intercorsi nel frattempo nella società. Per molti secoli Verona ha seguito una rigida disposizione dettata sia dagli elementi naturali del territorio (il fiume, le colline) che da quelli fisici (le mura), dettati da altre esigenze; in questo caso la cinta magistrale rinascimentale ha


I MAGAZZINI GENERALI ALL’INIZIO DEL XX SECOLO

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LA RAPIDA EVOLUZIONE DI VERONA SUD

costruito un limite invalicabile tra il pa- rapidità di sviluppo delle città che conesaggio urbano e quello rurale che si è trasta con i tempi fisiologicamente lunghi pertanto mantenuto sostanzialmente in- degli strumenti urbanistici. variato fino a tutto il XIX secolo. Con Per tutto il XIX secolo l’area di

l’avvio dell’industrializzazione dei primi decenni del XX secolo, iniziata in ritardo rispetto al resto del Nord Italia, comincia a mutare la for-

Verona Sud ha mantenuto il suo carattere agricolo, tipico dell’am-

pia fascia di rispetto dalle mura rinascimentali, ad eccezione del Forte Klam, o di Porta Nuova, costruito negli anni 1849/1850 e facente parte del sistema difensivo asburgico. Per questo motivo la storia di questa ampia porzione della città è, come già detto, relativamente breve e si può farne coincidere l’inizio

ma della città ed il rapporto stesso con il territorio, non ancora trasformato dalle prime manifatture semiartigianali del secolo precedente. La realizzazione di importanti infrastrutture, quali la nuova stazione di Porta Nuova e la tramvia, aumenta l’interesse verso le aree ex- con la costruzione nel 1922 della tramoenia (per ampiezza e facilità di co- Stazione ferroviaria a Porta Nuova municazione con il centro e con le altre e del parco ferroviario, che condicittà venete e lombarde) e trasforma zioneranno nei decenni successivi la sua la città da centro agricolo a im- integrazione fisica e sociale con il resto portante luogo di scambi e centro del tessuto urbano. Nel volgere di pochi anni la fisionomia del territorio cambierà manifatturiero nel settore agroali- radicalmente; le tappe di questa trasformentare. Appare subito evidente che mazione possono essere riassunte come il presupposto fondamentale di questa segue. trasformazione è stata la rete di comunicazione che su diversi livelli (trasporto merci, trasporto pubblico e privato) da una parte ha favorito il rapido sviluppo di Verona Sud, mentre dall’altra ne ha decretato un altrettanto rapido declino a fronte del progresso dei trasporti del secondo dopoguerra: in un tempo relativamente breve il tessuto residenziale ha divorato il territorio togliendo lo spazio di sviluppo alla zona industriale e rendendo rapidamente superate le varianti presentate nel corso degli anni ’70 e ’90. La principale ipoteca sul futuro di Verona Sud è rappresentata ancora oggi dalla I magazzini generali e la vecchia fiera di Verona 46


UNA LINEA DEL TEMPO

1924/1926 – Redazione dei primi pia- 1932 – Realizzazione del magazzino per cuneo tra Borgo Roma e Golosine è stani di espansione che daranno origine ai quartieri di B.go Roma e Golosine/S. Lucia, nati dallo sviluppo di piccoli centri abitati presenti sulle importanti via di collegamento verso sud (verso Mantova e Villafranca).

1928/1929 – Fondazione di un ente autonomo formato da Provincia, Comune e Camera di Commercio per la costruzione dei Magazzini Generali di Verona, sull’area di pertinenza militare a sud dello scalo merci, nel luogo dove sorgeva il Forte di Porta Nuova (o Forte Klam). Tale struttura era destinata alla raccolta, smistamento e conservazione di prodotti ortofrutticoli e cerealicoli. Il complesso subisce ulteriori ampliamenti nel periodo 1930/1940 per far fronte all’aumento del traffico merci.

1930/1933 – Nel primo P.R.G. della

città (Chiodi-Merlo) si conferma il carattere produttivo della zona sud della città, oltre la ferrovia, nella quale inserire anche i nuovi quartieri operai; mentre per quanto riguarda le comunicazioni si cerca di inserire le aree industriali sud in una gerarchizzazione della viabilità basata su un sistema di anelli concentrici, intersecati da radiali uscenti dal centro.

1930 – Costruzione del complesso delle Cartiere di Verona, che occupano l’area del precedente Cotonificio Franchini. Successivamente verranno ampliate nel 1961.

i tabacchi greggi e successivamente degli altri edifici della Manifattura Tabacchi. L’intero complesso verrà inaugurato nel 1940. Inizia ad essere prodotta la carta e il cartone all’interno della Cartiere, facenti ora parte del gruppo “Società Editrice Arnoldo Mondadori”.

to il prolungamento per circa 2 km del viale che congiungeva Porta Nuova con i Magazzini Generali, l’attuale viale del Lavoro.

1950 – Costruzione dell’autostrada Milano-Venezia e del casello autostradale.

1945 – Nel Piano di Ricostruzione e nel 1952 – Trasferimento del Mercato Ornuovo P.R.G. (Arch. Plinio Marconi) si prevede il trasferimento della Fiera e del Foro Boario nell’area a sud della città, vicino ai Magazzini Generali (9/10/1946).

tofrutticolo di Verona nella vasta area di 100.000 mq. adiacente ai Magazzini Generali e costruzione dei grandi edifici con strutture ad arco di parabola in cemento armato.

1947 – Interventi di ricostruzione nel- 1953 – Costruzione dell’autostrada Mole Cartiere di Verona e nella Manifattura dena Brennero. Tabacchi, a seguito dei gravissimi danni subiti nel bombardamento del 4/1/1944 1957/1958 – Variante del P.R.G. che e del 8/7/1944. prevedeva nuove aree per il rapido sviluppo delle zone residenziali di Golosi1948 – Con D.L. n° 579 si dà luogo alla ne/S. Lucia e Borgo Roma, sviluppatesi formazione della Z.A.I. e al trasferimen- su griglie di una pianificazione sommaria. to dal centro città della Fiera Internazionale dell’Agricoltura su di un area di 1965/1975 – Variante del P.R.G. per 300.000 mq davanti ai Magazzini Gene- adeguarlo agli sviluppi che la città ha nel rali; si confermano pertanto le scelte di frattempo subito (aumento demografico destinare la zona sud della città ad inse- più rapido del previsto) e ai nuovi strudiamento industriale e commerciale. menti urbanistici (piano intercomunale). Questo costituisce un importante passo 1949 – Costituzione di un consorzio verso una pianificazione che tenga conto per dare vita ad una Zona Agricolo-In- anche dei comuni contermini. dustriale (Z.A.I.) che prevedeva l’insediamento di un’area agro-alimentare in 1971 – Realizzazione del Viadotto tra grado di ospitare attività miste di caratte- l’asse Viale Piave – Viale del Lavoro e re manifatturiero, di trasformazione dei via Santa Teresa, via Tombetta e Stradoprodotti agricoli e commerciale. L’asse ne Santa Lucia, intersecato dal raccordo portante di tutto questo insediamento a ferroviario con i Magazzini Generali, per 47


LA RAPIDA EVOLUZIONE DI VERONA SUD

risolvere l’incrocio allora complanare. Contec Ingegneria concorre al bando di appalto integrato di progettazione e costruzione con l’Impresa Lonardi. L’altezza richiesta dalla linea ferroviaria condizionò la forma particolarmente arcuata del viadotto; la costruzione dei traversi delle pile oltre agli impalcati furono integralmente industrializzati e prefabbricati con tecniche innovative e all’avanguardia per l’epoca.

e Architettonici di Verona sulle aree di Archeologia Industriale, che di fatto tutela tutta l’area dei Magazzini Generali e del Mercato Ortofrutticolo, e non solo gli edifici monumentali, ma anche il loro stesso muro di cinta.

1999 – Presentazione del P.R.U.S.S.T. (Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio) del Prof. Franco Mancuso, proposto dal Comune di Verona per le aree centrali della Z.A.I. con il quale si ribadisce che le nuove scelte relative alla nuova edificazione vanno prese tenendo conto soprattutto dell’urgenza e della necessità di una ristrutturazione urbanistica profonda della parte centrale della Z.A.I. storica.

1982 – Dismissione progressiva dei Magazzini Generali e del Mercato Ortofrutticolo in seguito alla creazione del nodo intermodale del Quadrante Europa, meglio servito a livello delle comunicazioni stradali (autostrada Milano-Venezia e Modena-Brennero) e per la vicinanza con l’aeroporto civile di Verona Villafranca, allora in fase 2011 – Presentazione del Masterplan di potenziamento. per il Piano degli Interventi per la ATO 4 relativa ai compartimenti sud di Verona. 1990 – Formulazione dello Studio di Nel piano vengono indicate le strategie Fattibilità per il Recupero delle aree degli da attuarsi nel settore meridionale della ex Magazzini Generali dell’ex Mercato città che costituisce una delle centralità Ortofrutticolo (Prof. Marcello Vittorini) più importanti di un’area geografica tranche prende coscienza dell’importanza di sregionale, dove storicamente si sono loun recupero globale della Z.A.I. storica calizzate le principali attività economiche sulla base delle recenti trasformazione e produttive, cresciute a ridosso e in reladella città e della società. zione alle principali infrastrutture per la mobilità. 1993 – I contenuti dello Studio di Fattibilità sono stati incorporati e integrati . dalla Variante Generale del P.R.G. (Prof. Marcello Vittorini). 1998 – Imposizione del vincolo della Soprintendenza ai Beni Ambientali 48


UNA LINEA DEL TEMPO

Nella pagina accanto: foto aerea del tracciato di viale del Lavoro. In questa pagina: i Magazzini Generali e la cupola

Costruzione del viadotto di viale Piave, Contec Ingegneria.

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Il Consorzio Zai: le scelte urbanistiche post-belliche

Abbiamo visto che il Consorzio, dotato di propria autonomia amministrativa, per la Zona agricolo industriale di Verona venne istituito nell’aprile del 1948 con Decreto legislativo. Con lo stesso atto nasce la Zona per la quale il Consorzio è chiamato ad operare: la prima Zona agricolo industriale d’Italia. Il Consorzio si dota due anni dopo, nel 1950, di un proprio statuto e diviene operante. ZAI in quegli anni significa a Verona ricostruzione, significa dare un indirizzo allo sviluppo della città dopo le distruzioni della guerra, significa posti di lavoro. Ma che tipo di costruzione e di sviluppo? Comune, Provincia e Camera di commercio veronesi, gli enti che si sono consorziati per dare vita alla ZAI, avevano davanti a sè una realtà ed un mito economici e dovevano operare una scelta: la realtà di

mirante, i maggiori enti locali veronesi scelgono il settore industriale più vicino all’agricoltura, quello degli stabilimenti ortofrutticoli, e decidono il nascere di una Zona e di un Ente ad essa preposto affinchè promuova lo sviluppo del settore immediatamente a Sud della città. Lì s’incrociano le Statali della Cisa e dell’Abetone-Brennero, è prossimo il parco ferroviario di Verona Porta Nuova (nel 1949 si riapre la ricostruita stazione), nel comprensorio già sono operanti i Magazzini generali dal lontano 1924 e proprio dal 1948 lì si è trasferita, festeggiando il suo cinquantenario, la Fiera internazionale dell’agricoltura. Il 17 Marzo 1950 viene insediato il primo Consiglio direttivo del Consorzio (ne è presidente l’ing. Pier Luigi Bonomi da Monte) e il 31 gennaio 1952 viene nominato il primo direttore nella un’economia fortemente sbilancia- persona dell’ing. Luigi Severi. Con un organismo direttivo formato da tre membri ta verso l’agricoltura, il mito fra cui il presidente, e con un direttore, un dell’industrializzazione, la scelta vicedirettore, un geometra e un ragioniedel tipo di sviluppo. Con un’idea che re, il Consorzio inizia il suo lavoro acquiancora oggi viene giudicata saggia e lungi- sendo terreni dagli agricoltori della zona,

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dichiarata per decreto di pubblica utilità, e quindi assegnando gli stessi a prezzi di calmiere e incentivanti l’insediamento a titolari essenzialmente di imprese ortofrutticole. Il Consorzio deve subito pensare, in accordo con gli enti consorziati, all’urbanizzazione della zona, alla costruzione di raccordi stradali e ferroviari; instaura rapporti di collaborazione e assistenza con le industrie insediate. Sorgono anche le prime difficoltà: sulla ripartizione degli oneri di urbanizzazione l’accordo si raggiunge nel 1955, tra il Consorzio e il Comune di Verona, ma avrà applicazione so-lo .negli anni ‘70, quando già esisterà il problema della manutenzione dei servizi urbani, le strade soprattutto. A questo proposito, occorrerà attendere l’ottobre del 1979, quando una delibera dei Comune regolarizza la situazione patrimoniale delle strade in ZAI. Ma intanto, sin dagli anni Cinquanta il Consorzio raggiunge grossi risultati per Verona: si accolgono

nella Zona agricolo-industriale le aziende, anche non ortofrutticole, che in città non hanno possibilità


AREE CONTROLLATE DAL CONSORZIO ZAI

di sviluppo; la presenza di una più per- li e, tramite i raccordi ferroviari, prendo-

Nella mappa le zone di competenza del Consorzio Zai: (A) ZAI storica, (B) “La Marangona”, (C) il “Quadrante Europa”, (D) “la Bassona”, (E) aereoporto Valerio Catullo, (F) zone residenziali entro le mura antiche.

fezionata lavorazione dei prodotti ortofrutticoli concentrata in una zona a contatto con le principali vie di comunicazione favorisce fortemente la ripresa della vocazione commerciale di Verona, specie nei riguardi del centro Europa. Verona, da oltre un secolo con una economia «da guarnigione», Scopre così la sua antica matrice mercantile. I prodotti dell’agricoltura veronese vengono lavorati in ZAI, vengono con-servati nell’enorme stazione frigorifera dei Magazzini genera-

no la via dei mercati germanici. I commenti dei quotidiani sono entusiastici. Si legge su «il Gazzettino» del 15 settembre 1954: «Come si vede, grazie alla ZAI, che offre alle aziende in base al decreto legge del 24 Aprile 1948, ancora naturalmente in vigore, ogni possibile agevolazione fiscale, ferroviaria, doganale, ecc. Verona si sta creando delle solide basi economiche; sono stati trovati insomma i mezzi perchè Verona, pur mantenendo intatto il suo carattere di città turistica, storica e artistica, 51


IL CONSORZIO ZAI

possa farsi avanti, con passo sicuro e spedito, anche sulla via dell’economia, del progresso e della tecnica». Sono anni intensissimi. Già nel 1950 l’assemblea generale degli Enti fondatori aveva approvato il progetto dell’autostrada «Serenissima», che lambirà la ZAI a sud, e nel 1953, a Parigi, si decide la costruzione dell’autostrada del Brennero che intersecherà la prima immediatamente a ovest di Verona. Il Consorzio e sempre impegnato nelracquisizione di aree per la promozione della Zona. I tre enti promotori stanziano 150 milioni per raccordi ferroviari in ZAI; si

inizia a costruire la «spina dorsale» della viabilità della Zona: viale del Lavoro, che attraversando tutta la ZAI congiungerà Verona alla «Serenissima». Il Consorzio oltre a svolge-

rei suoi compiti istituzionali assume un ruolo propositivo di primo piano per lo sviluppo di Verona. E nel 1959, anno in cui si fa terminare a Verona la fase della ricostruzione post-bellica, grazie all’impegno del Consorzio non solo la ZAI una ben precisa realtà produttiva, ma in essa è venuto a costituirsi un potente nucleo di terziario pubblico: accanto ai Magazzini Generali e alla Fiera, ci sono ornai il Mercato ortofrutticolo (dal 1952), destinato

ben presto a diventare il quarto centro di smistamento di frutta e verdura d’Italia (dopo Milano, Bologna, Torino), ci sono ancora la Manifattura tabacchi e Foro boario, mentre e in progetto un grande centro di macellazione e commercio carni che verrà realizzato alla metà degli anni Sessanta (inaugurato

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l’8 luglio 1967), per il quale la proposta di soluzione era venuta proprio dal Consorzio. Se il «balzo in avanti» più significativo dell’economia veronese avviene tra il ‘61 e il 71, con un aumento della ricchezza, in termini di valore aggiunto netto (a prezzi costanti ‘76) del 118 per cento, già nel decennio precedente la tendenza ad uno sviluppo bilanciato abbastanza evidente: sale del 73 per cento il valore aggiunto, passando dai 389 miliardi prodotti nel 1951 ai 672 miliardi del 1961, e ad esso contribuiscono in misura equilibrata agricoltura, l’industria e il settore commerciale e dei servizi. Le esportazioni veronesi

sono già nel 1963 pari a 20,5 miliardi e quasi per il 50 per cento sono rappresentate dal settore ortofrutticolo, che ha la sua base in ZAI e

il cui «peso» permette scambi con l’estero per importare (26,7 miliardi l’import ‘63) materie prime e semilavorati per nuove iniziative industriali in grado di trasformare quelle materie e di riesportarle manufatte. Già nel 1968 il valore le esportazioni supera a pieno quello delle importazioni e gli addetti al settore industriale quasi raddoppiano nel Veronese: passano da 49 mila a 84 mila; in minor misura aumentano gli addetti al terziario, mentre calano gli addetti all’agricoltura. Iniziative industriali sorgono un po’ dovunque sul territorio provinciale, ma soprattutto lungo una fascia centrale che va da San Bonifacio a est di Verona a Bussolengo a ovest del capoluogo. Vi è una tendenza allo spopolamento della collina dovuta all’attrazione dell’area industrialmente più forte, mentre nella Bassa si accosta all’agri-

coltura una spiccata vocazione artigiana. Nel gran crogiolo degli anni Sessanta matura tra l’altro nel 1966 il trasferimento della Dogana dal quartiere cittadino dei Filippini al quadrante ornato dall’incrocio delle autostrade, il Consorzio Zai, mentre va esaurendo i suoi compiti nella Zona “storica” del suo operato. Studia e mette a cuoco da una parte la possibilità di un’estensione delle aree destinate agli insediamenti industriali e di servizio nell’ambito comunale e sostiene, dall’altra, la necessità di un coordinamento delle iniziative per un armonico sviluppo industriale della provincia. Vi è la consapevolezza che lo sviluppo porta con sè alcuni squilibri che un centro di indirizzo e programmazione potrebbe sanare. II 19 giugno 1964, nella sede di corso Porta Nuova, viene convocata dall’allora direttore del Consorzio l’ing. Enea Ronca, una conferenza stampa. Il giorno seguente si legge su «L’Arena», Il quotidiano cittadino: «La politica industriale del Comune non può essere fatta solo nel comprensorio della ZAI, dal momento che sono previste più zone industriali, distribuite secondo meditate valutazioni urbanistiche. D’altronde Comune, Provincia e Camera di commercio hanno più volte affermato la necessità di uno sviluppo pìù equilibrato dell’intera provincia. Uno sviluppo disordinato comporterebbe per tutta la comunità squilibri di vario genere, negativi soprattutto dal punto di vista dei costi. Ed ecco un nuovo compito della ZAI: porsi a livello non soltanto comunale ma provinciale, su un piano di precisa impostazione operativa». Il concetto viene rimarcato in quei giorni in Consiglio comunale dal sindaco


LA “ZAI” NEL 1835

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IL CONSORZIO ZAI Evoluzione imprese in ZAI 1971

Evoluzione imprese in ZAI 1961

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pro.Giorgio Zanotto che è anche presidente della ZAI. Si vuole lanciare un esperimento pilota a livello nazionale, ma il progetto richiede una legge speciale che modificando lo statuto del Consorzio gli conferisca la possibilità di creare un demanio di aree per insediamenti industriali. Viene interessato il competente ministero. L’idea verrà a cadere, dopo almeno tre anni di discussioni, specie per la difficoltà dì mettere d’accordo i vari Comuni della provincia, ma nasce comunque cosi nel 1968 il CIV; (Consorzio per l’industrializzazione del Veronese, con sede presso il Consorzio ZAI e con compiti essenzialmente propositivi e di studio sull’evoluzione economica e produttiva provinciale. Se sfuma in concreto la possibilità di affrontare in modo unitario la politica industriale provinciale, si apre sempre alla metà degli anni Sessanta, e proprio in seno al Consorzio, la prospettiva di allargare le iniziative a favore di insediamenti produttivi nelle zone adiacenti le due grandi autostrade. E’ del 1965 un documento firmato dal prof. Zanotto in cui il Consorzio segnala agli enti locali cittadini la «necessità di pubblicizzar e le aree attorno al quadrifoglio dell’incrocio delle autostrade del Brennero e della Serenissima, e in cui si propone il trasferimento in quelle zone di alcuni servizi. Nasce insomma l’idea del «Quadrante Europa”, che solo un anno più tardi, nel 1966, verrà recepita nella Variante al Piano Regolatore Generale del Comune di Verona: la destinazione della zona, che si estende su 400 ettari, viene mutata da “rurale” a “fieristica, annonaria e per servizi tecnici”. In essa viene fissata la sede del nuovo centro doganale, che,

costruito a totale cura e spesa del Consorzio, vi funzionerà dal 1973; nelle immediate vicinanze di troverà l’aeroporto di Verona-Villafranca, destinato ad accrescere la sua importanza di scalo commerciale e civile. Il “Quadrante” (o “Centro internazionale comunitario Veronese”), come verrà allora anche chiamato) viene concepito come il futuro cardine del sistema commerciale e dei trasporti di una città del sistema commerciale e dei trasporti di una città che vuole ribadire il suo ruolo di centro europeo delle comunicazioni. Riferimenti al “quadrante”, con varie ipotesi di “come riempire in concreto quell’enorme scatola vuota”, si trovano in tutti i documenti politici-programmatici prodotti dagli enti locali veronesi all’inizio degli anni ‘70. Si configura una grossa operazione urbanistica. Ma con quale strumento intervenire qui, e nelle zone di prevista espansione produttiva, una volta che la Variante al PRG di Verona sarà approvata (maggio 1975), dalla Regione Veneto? E’ il momento in cui si impone un allargamento dei compiti del Consorzio Zai. Nel gennaio 1972, dai deputati Erminero e Baldani Guerra, viene presentata alla Camera una proposta di legge per modificare il decreto «istitutivo della zona agricolo-industriale nel Comune di Verona». Un anno dopo, scaduta la legislatura, la proposta viene ripresentata dai deputati Erminero, Guerrini, Fontana e Sboarina, e approvata dai due rami del Parlamento

diventa legge il 26 luglio 1975. Da quella data ZAI non è piu solo la Zona in cui videro la luce i primi stabilimenti ortofrutticoli negli


IL CONSORZIO ZAI Evoluzione imprese in ZAI 1979

anni Cinquanta, ma la Marangona di un «interporto o Centro Intermodale»: (sviluppo naturale della «ZAI sto- un insieme di seivizi funzionali al trasporto combinato su strada e rotaia da realizrica» a sud sino alla Serenissima) con una superficie di un milione e 370 mila metri quadri, la Bassona (a nord dell’intersezione della Statale 11 con l’Autobrennero) coni suoi 950 mila mq., lo stesso «Quadrante Europa». Il consiglio direttivo del Consorzio sale da tre a nove membri. La nuova legge affida ai Consorzio «lo scopo di contribuire allo sviluppo economico del Comune di Verona favorendo il sorgere di nuove iniziative nell’ambito delle zone» e a tal fine l’Ente può espropriare aree e fabbricati occorrenti all’impianto dì servizi e di quanto necessario alla sistemazione degli stabilimenti. La posizione economica di Verona si è intanto nettamente rafforzata rispetto alle città contermini Veneto e della Lombardia, raggiungendo in alcuni settori posizioni leaders in campo nazionale, nonostante il processo inflazionistico e la crisi energetica scoppiata nel 1973 si facciano sentire.

In particolare salgono di anno in anno gli scambi con l’estero, con un

movimento che, non attribuibile alle sole esigenze dell’economia veronese, pone di nuovo in luce il ruolo della città come centro di smistamento nei sistema dei traffici internazionali. Ecco la necessità, a metà degli anni Settanta, di dare una fisionomia all’idea di «Quadrante Europa» che risponda ad esigenze intrinseche allo sviluppo di Verona. Nel settembre 1977, mentre procedono i piani per Marangona e Bassona (primi insediamenti nel 1978), il Consorzio porta a termine uno studio in cui sì propone agli Enti locali l’attuazione

zarsi su 100 dei 400 ettari del «Quadrante». Lo studio verrà inserito un anno più tardi negli impegni programmatici del Comune di Verona e si arriva ben presto alla stesura del piano particolareggiato del «Centro Intermodale» da parte del Consorzio, che il Consiglio comunale approva il 28 novembre 1979. Nello stesso anno il Consorzio ha realizzato il raccordo ferroviario tra la linea FS Verona-Milano e il centro doganale, impianto essenziale all’avvio dell’intermodalità degli scambi. Il piano particolareggiato, che tra l’altro prevede il trasferimento nel «Centro», accanto alla Dogana, dei Magazzini generali, matura contemporaneamente al potenziamento dello scalo aereo di Verona-Villafranca (il 22 dicembre 1979 si costituisce tra Comune, Provincia e Camera di Commercio la «Società per azioni aeroporto di Verona-Villafranca»; il 24 gennaio 1980 viene inaugurata la nuova aerostazione) e alla realizzazione della «tangenziale ovest» destinata a collegare «Quadrante Europa», aeroporto e autostrade. Alle soglie degli anni Ottanta, diviene necessario un ulteriore potenziamento delle strutture operative del Consorzio. In un sistema di relazioni sociali, economiche e culturali tanto più complesso di quello dell’immediato dopoguerra, agendo con enti, istituzioni, categorie a livello locale ma anche nazionale e internazionale, il Consorzio ZAI partecipa concretamente e quotidianamente, con decisioni grandi e piccole, alla costruzione di una Verona che senza tradire sè stessa guarda al suo futuro con responsabilità e coraggio. 55


EVOLUZIONE COSTRUZIONE DELLA ZAI

1907

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1907-1950


1950-1970

1970-1998

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La “Zai storica” genesi della città

Se Eva è un nome che richiama la (estesi, l’inizio, e stata una felice coincidenza che proprio l’industria ortofrutticola «EVA» sia stata la prima ad insediarsi nella ZAI. Era l’inizio del 1952 e l’azienda venne a collocarsi su una superficie di 27.254 metri quadrati. Quasi contemporaneamente sì insediano anche i «Forni Polir» su 16 mila metri quadrati ed altre industrie di trasformazione come la maggior parte degli stabilimenti che saranno poi ospitati nel-la Zona agricolo-industriale veronese. La tipologia dei complessi industriali e le caratteristiche delta zona subiranno tuttavia negli anni una continua, a volte sensibile evoluzione. Con proprie peculiarità, l’assieme compone oggi uno degli aggregati industriali più rilevanti nel nostro Paese, con una estensione superiore a quella del centro antico. Ben presto la ZAI diviene la metà di quasi tutte le industrie nate ex novo e di quelle che volendo uscire dall’angusta cerchia cittadina tendono all’espansione. Molti complessi industriali di altre regioni puntano gli occhi su Verona attratti anche dalle agevolazioni fiscali che la ZAI 58

offre. Ma proprio per evitare che nella corsa all’accaparramento di industrie Verona rischiasse di divenire un irrazionale ed incontrollabile coacervo di attività industriali come Genova, Torino, Milano e Marghera-Mestre, il Consorzio si è

metri quadrati che ha con vertice i Magazzini generali e la Manifattura tabacchi e si apre costeggiando da una parte la strada statale del Brennero, dall’altra la statale della Cisa e a sud si chiude con l’arco formato dai torti di Tomba, Azza no e Dossobuono. Quasi la metà di

dizione di frutta e verdura, fabbriche di marmellate, di succhi, distillerie, prodotti in scatola; 2) affini all’agricoltura: concimi chimici ed organici, anticrittogamici e antiparassitari, costruzione e montaggio di macchine agricole, attrezzi per l’agricoltura e la zootecnica e imballaggi; 3) generici: come forni elettrici, rimorchi, carrozzerie, tubi leggeri, officine meccaniche e depositi. Le prime industrie vanno ad insediarsi in quel ventaglio di sei milioni e 600 mila

agricolo-industriale ha quindi disponibili in realtà 3 milioni di m2 tra via dell’Industria e viale del Commercio. Un inizio lento, con notevoli difficoltà anche finanziarie. Il Consorzio dispone di pochi fondi: 43 milioni in tutto di cui 18 messi a disposizione dai tre enti fondatori (Comune, Provincia e Camera di Commercio) e 25 assegnati dai ministero dei Lavori pubblici. Gli investimenti sono naturalmente tutti per la realizzazione dei servizi, completamente inesistenti. Le prime industrie

cautelato impostando sin dall’inizio lo sviluppo in senso agrico- questo territorio e occupata da lo-industriale e guidandolo su tre di- quartieri residenziali e 600 mila rettrici, che favorivano l’insediamento di mq. sono coperti dal quartiere stabilimenti: Fiera, dai Magazzini generali e dal 1) rigorosamente ortofrutticoli: di deposito, cernita, confezionamento e spe- Mercato ortofrutticolo. La zona


VERONA, 1987

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LA ZAI STORICA Traffico ferroviario a Verona Porta Nuova

Raccordo ferroviario Verona P. Nuova - ZAI

5%

15%

26% 14%

15% 25%

196-63

1965

1970

1975

1978

1979

Nella pagina accanto: in alto una foto aerea del Quadrante Europa; al centro una foto aerea della fiera; in basso containers sui binari del centro intermodale

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infatti si insediano in aperta campagna. I problemi si accavallano e rendono duro il compito della ZAI. Ciò nonostante il Consorzio convinto dell’utilità e della bontà della scelta. La convinzione si basa su alcuni presupposti inconfutabili: il potenziamento dei Magazzini generali, il trasferimento in ZAI della Fiera dell’agricoltura, la realizzazione del Foro boario, la costruzione del macello con relativo mercato delle carni, la creazione di un grande Mercato ortofrutticolo. Lo sviluppo imprenditoriale della Zona è parallelo nel tempo a quello degli enti che in essa si sono insediati in un fenomeno di crescita in simbiosi.

I Magazzini generali

Un’imponente struttura che si estende su 160 mila mq. dì cui 45 mila coperti e 11 mila di celle frigorifere per 100 mila quintali di merci, con 12 chilometri dì rete ferroviaria interna, con un traffico, nel 1979, di 11 392 vagoni. Pur avendo attaversato un momento di crisi (il «boom» si ebbe negli anni dal 1950 al 1970) i Magazzini generali sono ora in piena ripresa, rimanendo un polmone insostituibile dell’economia veronese. II loro rilancio e però legato al trasferimento (già stabilito) nel Centro intermodale del Quadrante Europa, perché l’attuale ubicazione non offre possibilità di adeguamento tecnologico. Le strutture, d’avanguardia per lunghi anni, sono ora sorLa Fiera passate. La collocazione nel Quadrante, Soprattutto il trasferimento del comples- oltre che logica, necessaria. so fieristico ha dato alla Zona un impulso e una vitalità internazionali. La Fiera dell’agricoltura divenuta ora una rassegna Il Mercato ortofrutticolo tra le più importanti del mondo nel settore agricolo. A fianco poi mille altre ma- Gestito dal Comune, trasferito in ZAI nel nifestazioni si sono sviluppate ed hanno 1952 su una superficie di 100 mila mq., incontrato l’ambiente adatto per divenire da semplice centro annonario al servizio rassegne di importanza internazionale. dei dettaglianti cittadini ha avuto negli Vanno ricordate il Samoter, l’Eurocarne, anni un’espansionenotevole registrando il Vinitaly, l’Herabora, l’Euroforesta e il dal 1952 al 1971 uno sviluppo pari al 550 Mobilarte, la Marmo-macchine, la Zoo- per cento. Da mercato di produzione lomercati, la Fiera dei cavalli e il Protagri. cale e divenuto il centro di smistamento In pratica una serie di manifestazioni che per gran parte dell’italia nord orientale. ricoprono quasi l’intero arco dell’anno La merce in transito copre infatti 1180 e richiamano a Verona centinaia di per cento del cormmercio del mercato, migliaia di persone da tutti i Paesi di cui gran parte diretto nei Paesi del Mec. Proprio questa nuova dimensione del mondo consolidando il ruolo europea del Mercato ortofrutticolo esidella come centro di affari. ge per tutti i lavori che concernono il


LA ZAI STORICA

movimento dei prodotti agricoli diretti sui mercati della CEE la selezione qualitativa e il confezionamento delle merci, pùrchè fossero necessarie nuove radicali ristrutturazioni. Anche il Mercato ortofrutticolo era destinato quindi a vedere ben presto il suo futuro in funzione del trasferimento nel “Quadrante Europa”.

Macello e Centro carni Il complesso entrato in funzione nel dicembre 1966 a inscritto in ZAI su una zona di 60 mila metri quadrati ed e capace di produrre 200 capi giornalieri. E’ fornito di cclle frigorifere e di un binario ferroviario. La sua funzione rimane di centro di utilizzazione di tutti i sottoprodotti. Accanto a questo complesso, al Foro boario, su 57 mila mq. circa, dove si svolge il mercato dcl bestiame. Oltre a queste attività, si sviluppano le iniziative imprenditoriali. Sotto questo profilo lo sviluppo trentennale della ZAI storica si può riassumere in alcune tappe significative. Un primo periodo che si conclude nel marzo 1955 con un bilancio di 42 industrie insediate, su una superficie complessiva di 224 624 metri quadrati. La seconda fase caratterizzata dalla necessità di inserire nella ZAI anche industrie non prettamente di carattere agricolo per le quali il Consorzio non poteva applicare le regole di esproprio come faceva per le industrie elencate nel decreto istitutivo del 1948. Ecco quindi la necessità da parte del Consorzio di acquistare terreni, realizzare le opere di urbanizzazione e cederli alle industrie. Un investi-

mento in pratica che il Consorzio rischiò con buon esito grazie ad un prestito, garantito dagli enti fondatori, di 150 milioni concessi dalla Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno. Altri 150 milioni stanziati da Comune, Provincia e Camera di commercio permettono al Consorzio di procurarsi un patrimonio di 360 mila mq. di terreno e di finanziare lo sviluppo dei raccordi ferroviari in ZAI. L’arrivo e la partenza di vagoni direttamente negli stabilimenti ha dato un vantaggio non indifferente agli imprenditori. I primi convogli per gli stabilimenti della ZAI iniziano a viaggiare direttamente all’interno della zona nel 1962-63 grazie ad un consorzio fra ditte che utilizzano il servizio. Dai 3.286 carri iniziali il traffico passa in un anno a 13.595 e nel 1965 tocca l’apice con ben 16.513 vagoni. Poi lentamente il traffico incomincia diminuire: nel 1970 di 15.958 carri, nel 1975 di 9.130, nel 1978 scende sino a 9.095; c’è una leggera ripresa nel 1979 con 9.472 carri, ma la ferrovia sembra aver

perso irrimediabilmente terreno nei confronti del trasporti su strada, per il ritardo tecnologico di cui le

ferrovie soffrono rispetto alle esigenze del traffico moderno. Già alla fine degli anni Cinquanta, tirando le somme di un decennio di lavoro, il Consorzio scopre che, nonostante la crisi del 1959, la ZAI è una realtà operante che incide sullo sviluppo di Verona e dell’intera provincia anche perchè con essa si muovono mille altri settori collaterali, a tutti livelli. All’inizio degli anni Sessanta le Industrie insediate in Zai sono 230 di cui 137 ma-

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LA ZAI STORICA

nifatturiere, cioè di trasformazione e di esse ben 61 sono metallurgico-meccaniche, 67 aziende appartengono al settore commerciale, di cui 49 ortofrutticole; 15 sono le aziende che si occupano di servizi (uffici di rappresentanza, spedizioni, pubblicità, magazzini di stoccaggio e ridistribuzione); 10 operano nel settore alimentare ed infine tre sono le imprese agricole che in realtà sono gli ultimi baluardi della vecchia attivi-contadina rimasti nella Zona. Negli anni Sessanta le imprese subiscono una crescita che si avvicina al cento per cento e nel 1971 sono a quota 409, di cui 263 manifatturiere, con grande presenza di aziende che operano nel campo della carta e cartotecnica e della chimica. Delle prime la Zai ne ospita ben 17 su 36 operanti nell’area comunale e delle seconde 14 su 34, pari al 41% Le metalmeccaniche passano a 118, le alimentari a 16, le commerciali a 113 (di cui 52 ortofrutticole), le agricole rimangono soltanto due e quelle di servizi si raddoppiano. L’evoluzione della zona nel mutamento del suo ruolo, determinato da nuovi sbocchi commerciali e dalla creazione di nuove aree industriali, si nota nella statistica del 1979. II numero com-

plessivo delle aziende raggiunge le 531 unità: si assiste ad un lieve incre-

mento delle manifatturiere (272), mentre è netto l’aumento delle commerciali che salgono a 200, praticamente raddoppiando e assumendo una funzione di supporto alla struttura produttiva di tutto l’hinterland. Anche le imprese di servizio aumentano e salgono a 52 mentre si ri62

duce il comparto commerciale ortofrutticolo per l’assorbimento delle piccolo aziende da parte dei grandi complessi e per l’accresciuto ruolo del Mercato ortofrutticolo nei confronti delle correnti del commercio internazionale. Un aumento registrano le industrie metalmeccaniche che passano da 118 a 138 mentre calano quelle della carta (da 17 a 14) e quelle della gomma (da 7 a 4). Anche le aziende chimiche subiscono un calo (da 14 a 10).

Germania. Inizia così la fase dell’assestamento della ZAI storica già in parte realizzato senza eccessivi traumi, salvando le caratteristiche della città e della sua popolazione e pur garantendo una continuità nel progresso e nello sviluppo economico-sociale, com’era nelle intenzioni dei pionieri della ZAI. Tale assestamento è per di più legato ad un generale processo di ristrutturazione urbana, avviato con il progetto del «Quadrante Europa» Infine scompaiono in modo defi- e che in particolare coinvolge proprio la nitivo le aziende agricole. Insomma, «ZAI storica», con i previsti trasferimenti la «ZAI storica» negli anni ‘80, rispetto in «Quadrante» di alcuni grandi servizi, e agli anni Cinquanta, un po’ meno polo i borghi della Verona sud. agricolo-industriale, vedeva una rilevante presenza manifatturiera e assunse in prospettiva anche una funzione com- Il Consorzio ZAI oggi merciale e di servizi di notevole respiro. Queste trasformazioni non provocano Definito come “un ente istituzionale a in ZAI grandi mutamenti sotto l’aspetto base territoriale con compiti di pianifioccupazionale nonostante la grande crisi cazione urbanistica e di propulsione allo che coinvolge tutta l’economia italiana. sviluppo globale del territorio e dell’ecoNei vent’anni dal 1960 al 1980 le forze nomia, alla cui giurisdizione”, gestisce lavoratrici assorbite dalle aziende della una porzione considerevole del territorio zona passano a 2800 unità, tra operai e veonese. Sono infatti state riservatequatimpiegati ad oltre 13 mila. tro aree al Consorzio: Questa straordinaria crescita ha lasciato >>> la zona industriale denominata Zai in ZAI qualche diletto di funzionalità Storica, dell’estensione di 4 milioni di mq come un’inadeguata rete fognaria, l’il- nella quale sono insediate 600 aziende, luminazione carente, la toponomastica operanti soprattutto del settore agro-inincompleta, la viabilità difficile, difetti ai dustriale, con oltre 20.000 addetti; quali il Comune sta mettendo rimedio, >>> l’altra zona industriale Zai Due-Basdopo la delibera sull’acquisizione in pro- sona che si estende su oltre un milione di prietà e sulla sistemazione di 64 strade e mq e in cui sono insediate 120 aziende l’approvazione del progetto esecutivo di chesvolgono attività ad alto contenuto lavori per la costruzione della mensa e tecnologico con ca. 4.000 addetti; del centro ricreativo della ZAI; sarà un >>> l’Area dell’Innovazione Marangogrande funzionale edificio che sorgerà na, su 1.300.000 mq; su un’area di 5000 metri quadrati in via >>> l’Area del Quadrante Europa che


LA ZAI IN UNA FOTO AEREA

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LA ZAI STORICA

si estende su 2.500.000 di metri quadrati (espansione prevista fino a 4.200.00 mq.), con oltre 100 unità insediate e 10.000 addetti (diretti e indiretti).

Nel complesso si tratta di un vero e proprio sistema infrastrutturale di 10 milioni di metri quadrati che costituisce un punto di forza economico naturale per la presenza di 1.000 aziende e 46.000 addetti.

L’Interporto Quadrante Europa oggi è stato realizzato su 2.500.000 di mq. con espansione prevista fino a 4.200.000 di mq., è il primo in Italia per volumi di traffico combinato ed è stato riconosciuto migliore Interporto in Europa: all’anno vengono movimentate 6.000.000 di tonnellate di merce tramite ferrovia e oltre 20.000.000 di tonnellate su strada. Posto all’incrocio delle autostrade del Brennero (direttrice nord-sud) e Serenissima (direttrice ovest-est), nonché all’incrocio delle Reti Transeuropee TEN-T1 (Berlino-Palermo) e TEN-T6 (Lisbona-Kiev), l’Interporto Quadrante Europa è collegato direttamente con l’Aeroporto di Verona-Villafranca e con la linea ferroviaria del Brennero. In futuro l’Interporto si collegherà con il canale fluvio marittimo Milano-CremonaMantova-Legnago-Rovigo-Po di Levante. Il Quadrante Europa si concretizza in un sistema organico ed integrato di servizi logistici al più alto livello di efficienza ed economicità affiancati dall’intermodalità (casse mobili, semirimorchi, containers), che si può propriamente definire come “Parco di Attività Logistiche” in cui sono insediate oltre 100 aziende con 10.000 64

addetti (diretti e indiretti). L’Interporto interconnette le differenti modalità di trasporto (ferro, gomma, aria); fornisce servizio di trazione ferroviaria; concentra i flussi di traffico; fornisce l’accesso ai corridoi del trasporto europeo; essendo completamente cablato con una rete telematica, offre agli operatori servizi di trasmissione dati, fonia, immagini e l’accesso a banche dati internazionali; fornisce servizi logistici di qualità. L’Interporto inoltre opera in rete, attraverso U.I.R. (Unione Interporti Riuniti), con gli Interporti italiani di rilevanza nazionale e, attraverso EUROPLATFORMS, con quelli di rilevanza europea. Nell’Interporto possono essere individuati i seguenti ”gruppi di servizi” fondamentali: Il Centro Direzionale; La Zona Ferroviaria; l’Agenzia delle Dogane; il Centro Spedizionieri; Volkswagen Group Italia SpA; i Servizi ai mezzi; Truck Parking; Hangartner Terminal; il Parco Quadrante Europa; il “Centro Agro - Alimentare” su 600.000 mq., la più vasta piattaforma logistica italiana per la raccolta, distribuzione e commercializzazione all’ingrosso dei prodotti agro-alimentari.

asse viale del Lavoro - viale Piave

4 km

infrastrutture ferroviarie

strade a scorrimento veloce

autostrade ZAI

4 milioni di m2 Quadrante Europa

2,5 milioni di m2 La Bassona

1 milione di m2 La Marangona

1,3 milioni di m2


0 km

5 km

10 km

5 km

5 km

10 km

15 km

DIMENSIONE TERRITORIALE

10 km

5 km

10 km

15 km

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I magazzini generali: storia dei manufatti cardine del comparto ZAI

I Pubblici Magazzini, definiti “Generali” per la varietà delle merci accolte, sono un’istituzione che risale all’antica Mesopotamia e all’Egitto. Costruzioni di questo tipo, in Italia, si possono ritrovare nei depositi che costruirono i Romani nel porto di Ostia e che diventarono fondamentali allo sviluppo economico delle città all’inizio del XIX secolo per la possibilità di disporre di locali ampi dove alloggiare le merci destinate all’esportazione. Nel Medioevo è accertato che ne esistessero nelle principali città marittime (Venezia, Pisa, Genova, Ancona) sotto i nomi, di derivazione araba, di fontego, fondaco, oppure magazeno. I locali comprendevano non solo botteghe, dove i commercianti tenevano la loro merce, ma anche appositi fabbricati dove venivano depositati e custoditi diversi prodotti. Questi fabbricati non erano di certo molto vasti, ma si trattava di costruzioni con un gran cortile al centro, dove si svolgevano le operazioni, qualche tettoia coperta per deposito merci e camere per commercianti. 66

I primi magazzini che si possono considerare moderni sono i Docks inglesi nati durante la prima rivoluzione industriale. La presenza di leggi, in Italia, che definivano le regole all’interno dei Magazzini, risale al 1871, anche se gli studi in proposito cominciarono circa venti anni prima. Appare evidente, quindi, che quelli che si costruiranno a Verona non sono certo i primi Magazzini Generali in Italia. Nel 1875 fu organizzato anche un Congresso dei Delegati dei Magazzini Generali presso Bologna, sede di uno di questi. In Europa i Magazzini ebbero uno sviluppo ancor più antecedente, basti pensare a Les Halles di Parigi, la cui versione definitiva risale al 1853 e che saranno d’importanza fondamentale per Verona, soprattutto per la grande fonte di ispirazione che sarà la Halle au Blè nella progettazione della Stazione Frigorifera Specializzata. In Italia alla fine del XIX secolo nascono centri specializzati in conservazione delle merci destinate all’esportazione a Torino (1867), Senigallia (1870), Ancona (1871), Siena (1871), Bologna (1872), Napoli

(1875), Milano (1875) e Genova (1875). I regolamenti prevedevano che tutti gli edifici compresi nel recinto fossero numerati ordinalmente in modo visibile dall’esterno, erano inoltre proibiti i depositi di merci private e di tutti i prodotti che richiedevano mansioni speciali per la loro conservazione. La definizione data dalla legge del 1871 parla di “istituti di creazione statale, comunale o privata, i quali hanno lo scopo di ricevere merci e derrate in deposito da tutti ed alle stesse condizioni di tariffe per tutti, di emettere titoli rappresentativi delle merci stesse, di facilitare le operazioni di vendita o di credito su di essi e di promuovere vendite volontarie o forzate, il tutto sotto la sorveglianza di organi statali e di organizzazioni commerciali”. L’idea di far costruire i Magazzini Generali ebbe il primo abbozzo nel 1869, quando la Camera di Commercio di Verona mandò una circolare alle maggiori Camere di Commercio italiane e tedesche con la manifestazione dell’intenzione di rendere la città un centro al servizio


LA STORIA

dei commerci tra Italia e Germania, tra centro e sud dell’Europa. L’intento era quello di creare strutture centralizzate, permanenti e specializzate per la sosta delle merci ortofrutticole, in grado di offrire, rispetto alle iniziative individuali, maggiori possibilità e migliore qualità nella conservazione, a costi unitari inferiori. A questo primo approccio non ne seguirono altri in tempi brevi, anche perché, come abbiamo detto, al tempo la città era impegnata con una forte crisi economica e la possibilità di rialzare la testa sembrava essere fornita soltanto dall’opportunità di intraprendere lo sviluppo industriale fino ad allora mancante. Inoltre il problema maggiore che si poneva al tempo era anche quello del luogo in cui doveva sorgere questo complesso. Ottavio di Canossa, podestà di Verona, nel 1872, disse che “purtroppo la nostra provincia fu il campo prediletto di Marte pel corso di venti anni”, inaugurando

una fabbrica di stoffe e sete e lamentando la scarsa produttività industriale di una città dove le ra-

gioni militari avevano indubbiamente condizionato il lavoro e l’economia. Tre anni dopo uno scrittore

aggiungeva: “per lungo corso d’anni le immense costruzioni militari, i bastioni, le torri e i forti […] largamente ai lavoratori procacciavano i mezzi di occuparsi e di vivere anche senza le officine e le fabbriche”, così che Verona “perdeva ogni tradizione manifatturiera e quasi la speranza di men triste avvenire”. In particolare, il problema di servilismo militare, incideva sul progetto deinnuovi Magazzini poiché l’area scelta all’inizio del secolo per la loro costruzione era quella in cui sorgeva un ex forte asburgico, il Forte Clam o Porta Nuova. L’edificio militare, ubicato all’attuale imbocco di Viale del Lavoro, tra i Magazzinime la Manifattura Tabacchi, era stato costruito dopo l’armistizio del 1848 ed era molto importante per l’impero grazie alla sua ubicazione e all’equipaggiamento di artiglieria. I lavori di costruzione durarono due anni e nel 1859 fu ulteriormente migliorato e completato poiché aveva

il grande compito di difendere il principale accesso a sud della città, quello dalla sanmicheliana Porta Nuova e, al contrario di altri forti, non aveva alle spalle un rilievo che potesse proteggerlo su qualche fronte. Dopo l’annessione all’Italia, il Forte continuò ad essere usato dalle autorità militari italiane come magazzino. Per questo motivo, data la difficoltà di reperire il terreno necessario per la costruzione dei Magazzini a causa della reticenza delle autorità militari e dell’eccessiva richiesta di pagamento, l’Amministrazione, in un primo tempo, prese in considerazione l’idea di spostare i Magazzini nell’area intorno alla stazione di Porta Vescovo, ex area militare già di proprietà del Comune. Questa doveva essere una soluzione temporanea nell’attesa di ottenere i terreni definitivi per la costruzione ma, di fatto, non fu mai praticata. Furono prese in considerazione anche altre ipotesi, come l’utilizzo di terreni in Basso Acquar o la sistemazione entro il Parco Ferroviario di Porta Nuova. Tuttavia entrambe le soluzioni 67


I MAGAZZINI GENERALI

non furono considerate sufficienti per il grande progetto che si voleva realizzare e vennero accantonate per riuscire ad ottenere l’area a sud della stazione che sarà quella in cui si costruiranno effettivamente i Magazzini. Il Forte Clam venne, infine, distrutto nel 1913, ed è proprio quell’anno che cominciarono le trattative tra l’autorità militare e il Comune per l’acquisizione dell’area, insieme a molte altre, sempre nei dintorni di Verona sud. Benché il progetto fosse nell’aria da quasi mezzo secolo, fu concretamente preso in considerazione soltanto dall’Amministrazione fascista nel 1922. L’anno dopo un convegno fatto in data 17 luglio pose le basi per la formazione di un ente autonomo, costituitosi poi legalmente nel maggio 1924, responsabile della creazione e della gestione della struttura. L’Ente Autonomo Magazzini Generali era formato in particolare dalla Provincia, dal Comune e dalla Camera di Commercio, con il concorso della Cassa di Risparmio di Verona e Vicenza. Il Consiglio di Amministrazione dell’Ente era composto da un rappresentante di ciascuna parte in gioco.

I Magazzini Generali di Verona, Ente Morale, nascono nel 1924,

dal Consiglio Provinciale dell’Economia, dal Comune e dalla Provincia di Verona che volevano una struttura a servizio soprattutto dell’agricoltura, per l’immagazzinaggio delle merci estere e nazionali, per il deposito del grano e per la disponibilità di un impianto frigorifero adatto alla conservazione delle carni e dei prodotti ortofrutticoli. I 76 000 m2 dell’area del Forte Porta

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Nuova, resterà in uso all’Amministrazione militare fino al settembre 1925, anno in cui verrà acquistata dai Magazzini Generali. La posizione è ideale per la vicinanza alle Ferrovie dello Stato. Nell’atto costitutivo si legge: “E’ fondato e costituito l’Ente Autonomo Magazzini di Verona, avente per iscopo di provvedere all’esercizio e all’impianto di Magazzini Generali in Verona e fuori, all’esercizio di concessioni relative al movimento di carico, scarico e trasporto merci con qualsiasi mezzo, all’esercizio di operazioni bancarie su warrants e documenti. L’Ente ha sede in Verona presso la Camera di Commercio e Industria”. Lo scopo dell’ente era quello di realizzare un complesso di strutture centralizzate da destinarsi a raccolta, conservazione e smistamento di prodotti ortofrutticoli e cerealicoli. L’ente conseguì, con Regio Decreto del 4 giugno 1925, la capacità di acquisire beni immobili, e iniziò le trattative con l’Amministrazione militare che ancora occupava parte dell’area. Il contratto per l’acquisto di 75˙628 m2 venne firmato nel settembre di quell’anno e il Comune stanziò immediatamente 120˙000 lire per la “costruzione e sistemazione di una strada larga 16 metri” che doveva collegare l’area dei Magazzini Generali al centro storico e che costituì, in effetti, il preludio per lo sviluppo futuro di Verona sud. Il primo progetto di massima per l’area venne redatto dall’ingegnere capo del Comune Adolfo Zordan.. Il piano, studiato sugli esempi dei Magazzini di Genova e Milano, prevedeva la realizzazione immediata di: magazzini per merci estere, magazzini per merci nazionali, magazzini da affittare a privati, frigorifero per merci


LA STORIA

deperibili, magazzini per merci infiammabili, silos per deposito grani. L’idea di edificare a Verona una struttura di questo genere nasceva per i motivi sopra citati riguardo alla sua posizione geografica. L’unico altro centro frigorifero si trovava a Monaco di Baviera e gli esportatori italiani dovevano appoggiarsi a quello per trasportare le merci verso l’Europa centrale. Se calcoliamo che la merce esportata dall’Italia era circa il 47% del totale ci rendiamo subito conto di quanto fosse importante un buon accordo sul trasporto. Il problema dei Magazzini di Monaco era però la quantità immensa di merce che vi arrivava ogni giorno. Aumentando la quantità di merce disponibile alla vendita, il prezzo della stessa si abbassava e di conseguenza spesso non riusciva nemmeno a coprire le spese di trasporto. Era necessario, perciò, avere un centro di raccolta italiano. La scelta cadde su Verona perché la direttrice principale di esportazione era garantita dalla linea ferroviaria verso il Brennero. La città era, infatti, il punto più vicino al confine che si trovasse ancora nella Pianura Padana, quindi facilmente raggiungibile, oltre al fatto che si trovava quasi ad uguale distanza da altri due valichi alpini per l’esportazione, Chiasso e Tarvisio, rappresentando, quindi, una base comoda per entrambi. C’è da far notare inoltre che la sua stessa provincia forniva una forte produzione agricola. Inizialmente si era pensato di collocare un centro di questo tipo a Bologna, ma avendo calcolato che il 26% della merce

proveniva dalla zona subito a nord

della città, fu giudicato più opportuno spostare il centro a Verona.

L’impianto iniziale dispone di 4000 m2 di magazzini, di cui 640 di “spazio refrigerato” serviti da un binario di raccordo con le Ferrovie dello Stato. Viene iniziato il deposito di grani, cereali e derrate varie. Si giunge così alla costruzione di una grande cella per la refrigerazione dei vagoni - la più grande d’Italia - la cui inaugurazione ebbe luogo nell’agosto del 1928. Il primo gruppo di fabbricati, con i relativi collegamenti ferroviari alla Stazione di Porta Nuova, fu inaugurato invece nel settembre 1927, ricevendo l’autorizzazione al deposito di merci nazionali ed estere nell’ottobre di quell’anno. Gli edifici che appaiono nelle immagini storiche sono strutture rigorosamente funzionali, che escludono ogni ricerca formale e fanno ricorso alle più semplici tradizioni costruttive, facendo anche largo uso del cemento. Le forme si riducono a semplici scatole, che tuttavia contengono impianti tecnici molto avanzati per l’epoca, sia per il movimento delle merci attraverso montacarichi elettrici e paranchi a traslazione automatica, sia per la refrigerazione. L’accoglienza fatta ai Magazzini Generali da parte della popolazione e dell’amministrazione veronese fu senz’altro entusiastica e lo dimostrano le parole del giornale locale. In un articolo del

Nelle immagini, dall’alto: Il sistema delle fortificazioni austriache, 1832-1866; l’antico forte Clam nel catasto austriaco; i resti del forte Clam, in prossimità dei magazzini

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I MAGAZZINI GENERALI

Sopra, Principali paesi di esportazione delle derrate depositate nei Magazzini Generali di Verona; sotto, rapporti tra il centro di raccolta di Verona, le principali città italiane e i valichi montani per l’esportazione estera.

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quotidiano L’Arena del 12 marzo 1927 si legge: “è chiaro, indiscutibile, il bene che verrà a Verona da questo ampio intreccio di rapporti d’affari: ditte e industrie dovranno fare capo alla città per molteplici esigenze, il mercato di infinite merci troverà qui la sua sede; il traffico ferroviario, mercantile sarà notevolmente intensificato” (“L’Arena”, Sabato 12 marzo 1927, p. 3). Nello stesso articolo si trova anche una descrizione piuttosto dettagliata degli edifici che componevano il primo nucleo che si andava ad inaugurare: “L’insieme dello stabilimento consta di tre distinti nuclei oltre ai servizi. I due maggiori edifici consistono nel frigorifero e nel magazzino a due piani, segue per importanza il magazzino infiammabili. Il fabbricato a due piani è destinato ad accogliere merci estere ancora sottoposte al vincolo doganale e merci nazionali. Ha una lunghezza di 45 m, è fornito di un montacarichi elettrico della portata di quintali 15 direttamente comunicante con la banchina servita dal binario di raccordo. Il montacarichi collega il piano banchina col sotterraneo e col piano superiore. Il fabbricato del frigorifero, pure a due piani, non ha cantinato. Per la conservazione delle merci refrigerate è stato riservato il piano banchina, mentre quello superiore venne destinato al deposito di merci comuni. L’edificio, che ha un fronte di oltre 45 m, occupa una vasta superficie, è servito direttamente dal binario di raccordo ed è dotato di un paranco elettrico scorrevole che rende agevole il movimento di merci da veicoli esterni al fabbricato o da carri ferroviari ai diversi punti della banchina o del soprastante magazzino. L’impianto frigorifero, dei più moderni, conta undici celle aventi la superficie complessiva di m2 650, mentre una superficie equivalente è occupata dall’anticella, dai corridoi di servizio degli scali caricatori coperti, dalle

banchine e dai servizi vari. La conformazione del fabbricato e la disposizione dell’impianto permettono di caricare e scaricare la merce refrigerata dai veicoli sostanti nello scalo coperto direttamente nell’anticella in modo che questi movimenti avvengano in ambiente riparato e non esposto direttamente agli effetti della temperatura esterna. Delle undici celle di cui è composto il frigorifero, cinque sono destinate alla frutta, verdura, uova e a generi diversi, cinque servono per la conservazione delle carni congelate e l’altra, che può raggiungere la temperatura di -14 gradi, è destinata alla congelazione e ricongelazione”. La grande innovazione di questi Magazzini Generali, rispetto ad altri presenti in Italia, è stata l’offerta di freddo industriale per la conservazione di cibi deperibili e la prerefrigerazione di ortofrutticoli in esportazione. Il primo nucleo originario dei magazzini frigoriferi, ancora sperimentale, era formato da magazzini a più piani per stoccaggio merci, piani caricatori coperti e scoperti, frigorifero per la conservazione di merci deperibili. La tecnica frigorifera aveva l’enorme vantaggio di non limitare più la vendita di prodotti ortofrutticoli ma di estenderla al mondo intero e oltretutto inseriva qualità prima non utilizzabili a fini commerciali. Di conseguenza la presenza di magazzini frigoriferi portava ad un incremento delle colture di frutta e verdura grazie alla maggiore vendibilità, e di qui ad un benessere economico. Questa tecnica cominciò a svilupparsi negli ultimi decenni del XIX secolo attraverso due tappe, riguardanti soprattutto i trasporti. La prima di queste furono gli studi di J.B. Sutherland cominciati nel 1867 in USA. Egli brevettò un sistema


LA ZONA DEI MAGAZZINI GENERALI NEL 1835

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I MAGAZZINI GENERALI

di trasporto ferroviario basato sull’azione refrigerante del ghiaccio fondente. La seconda tappa fu l’applicazione commerciale di questi primi esperimenti attraverso un viaggio fatto da C. Tellier sulla nave “Le Frigorifique”. La tecnica si diffuse inizialmente nei paesi con grande disponibilità di ghiaccio naturale, in particolare USA e Canada. Per il trasporto refrigerato furono infine utilizzati tre tipi di vagoni.

I vagoni isolanti, il cui isolamento termico, delle merci già raffreddate, veniva attuato con pareti doppie o triple inframezzate da materiale isolante (compresse di sughero e catrame) e che potevano mantenere temperature di -5 o -3 gradi per 24 ore. I vagoni ghiacciaia, che ottenevano un abbassamento di temperatura attraverso la fusione di blocchi di ghiaccio in contenitori metallici sulla testata del vagone e che erano molto diffusi nei paesi con ghiaccio naturale. Infine i vagoni refrigerati, dotati di

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serpentine alle pareti e di una macchina a compressione di gas per la graduazione di temperatura. Alla fine degli anni ’20 la preoccupazione principale per il direttivo che controllava l’impianto risultò tuttavia insufficiente a soddisfare le domande degli esportatori. Dalla tecnica frigorifera e dai successi ottenuti dai Magazzini Generali grazie all’uso a fini commerciali della stessa, nacque la necessità di una nuova espansione. Alla fine degli anni ’20 la preoccupazione principale per il direttivo che controllava i Magazzini Generali di Verona era la competizione che si stava creando, alimentata dal Governo centrale, con la città di Bologna, sede anch’essa di importanti magazzini. Sulle pagine del quotidiano cittadino, nel 1929, appare il resoconto del viaggio compiuto dai rappresentanti veronesi a Roma per candidare la città,me i relativi magazzini, a centro principe d’Italia per il commercio con l’estero. Nell’articolo si leggono soprattutto le motivazioni che dovrebbero dettare questa scelta in favore di Verona: “Per poter realmente potenziare l’esportazione,

il centro deve essere quanto più è possibile al nord d’Italia e sulla linea assiale del transito di maggior portata che è precisamente il Brennero. […] Verona è la sola città d’Italia che possiede la giacitura geografica e ferroviaria necessaria al centro di esportazione; domina il Brennero che assorbe il 53% dell’esportazione totale e il 6065% delle esportazioni che hanno più vivo il bisogno di appoggiarsi a un centro nazionale. […] Verona è in facile diretta comunicazione con tutti i grandi centri italiani di consumo.[…] Con i Magazzini Generali sono in essere: vasti magazzini, sale per la lavorazione dei prodotti, frigorifero modernissimo raccordato, galleria per la refrigerazione dei carri ferroviari, fascio di binari, servizio di Dogana di prima classe, servizio di banca, sovvenzioni su tutti i prodotti della terra.” (“L’Arena”, Giovedì 6 giugno 1929, p. 3.) Nell’articolo si esegue poi un confronto tra gli impianti di Monaco, Bologna e Verona che vede in netto vantaggio sempre la città veneta, per superficie totale, investimenti di capitale e servizio frigorifero. E sarà proprio il settore frigorifero che porterà con sé la maggiore innovazione. Le sempre più cospicue richieste di deposito in magazzini refrigerati resero


LA STORIA

Prospetto, sezione e pianta della Halle au Blè.

Costruzione dell’anello esterno della Stazione Frigorifera veronese. Nella pagina seguente fotografie delle fasi costruttive della cupola.

1) U. Ferretti, La stazione frigorifera ortofrutticola dei Magazzini Generali di Verona, Tip. Sonciniana, Fano 1930.

necessario l’ampliamento delle strutture all’interno dei Magazzini Generali e aprirono la strada all’edificio che diventerà il simbolo degli stessi e un enorme vanto per la città di Verona. La costruzione della Stazione Frigorifera Specializzata fu approvata da Comune, Provincia e Consiglio Provinciale dell’economia il 24 settembre 1929 e i lavori iniziarono i primi di novembre. Il Duce, che venne informato dell’intenzione di costruire la nuova Stazione, rispose così: “Signor Prefetto di Verona, Dica all’Ing. Ignazio Cartolari, Presidente dei Magazzini Generali, che ho letto con la più grande attenzione il suo rapporto sul funzionamento di detti Magazzini e sui futuri programmi. Approvo molto l’iniziativa dello stabilimento specializzato per la refrigerazione su larga scala e con la massima rapidità e mi piace che sia stata fissata una data per il funzionamento del nuovo impianto, destinato ad essere della più grande utilità per gli esportatori ortofrutticoli. Roma, 10 novembre 1929 – A. VIII Mussolini”.1 L’edificio, inaugurato nel giugno 1930 alla presenza dell’allora Ministro delle Comunicazioni, On. Costanzo Ciano, divenne il più grande e più tecnologicamente avanzato di tutta Europa e mantenne questo primato per diversi anni. Lo stesso Ministro, nel discorso tenuto nella giornata d’inaugurazione, conferma il primato di Verona sul panorama italiano dei Magazzini Generali affermando che “in questi ultimi tempi sono pervenute al Ministero nuove domande di concessioni; ma io sono personalmente contrario a una fioritura di Magazzini Generali. Pochi devono essere i punti dove questi hanno da sorgere, punti che, come Vero-

na, sono designati dalla geografia e anche dalla disposizione delle nostre linee ferroviarie. Da Verona passa il 50% dei traffici orto-frutticoli italiani; era quindi necessario che in essa si costituisse un simile centro.” La Stazione Frigorifera fu progettata dall’ingegner Pio Beccherle, autore, come si è già visto, anche dell’Ospedale Civile di Borgo Trento. Discendente da una famiglia di progettisti, infatti anche il padre e il nonno erano ingegneri, studiò presso l’Università di Padova dove si laureò nel 1907. Nel 1915 divenne direttore dell’azienda municipalizzata di Verona e, negli anni a venire, fu assunto come Ingegnere capo della Cassa di Risparmio di Verona e Vicenza, motivo per cui venne ingaggiato per la redazione del progetto della Stazione Frigorifera, come si legge nel Bollettino del Sindacato Fascista Ingegneri. Anche i fratelli seguirono la carriera ingegneristica, specializzandosi, uno in calcoli tecnici e l’altro in progetto di infrastrutture, e furono collaboratori di Pio nella stesura del progetto della Stazione, soprattutto per quanto riguarda il collegamento dell’edificio con il tracciato ferroviario. L’edificio costruito è a pianta circolare e ricalca la forma del precedente Forte Clam, oltre a trarre forte ispirazione dall’edificio della Halle au Blè che si trovava presso Les Halles a Parigi. Realizzato nel 1760 e in funzione dal 1769, veniva molto probabilmente presentato come esempio di architettura moderna europea presso l’università di ingegneria ed è quindi quasi certo che Pio Beccherle ne sia venuto a conoscenza, soprattutto per73


I MAGAZZINI GENERALI

ché l’opera è di quasi un secolo e mezzo prima del frigorifero veronese. La Stazione Frigorifera progettata da Beccherle è un edificio a pianta circolare che ha nel centro, nella grande sala cupolata, l’innovazione tecnologica che la farà diventare la più importante d’Europa. Si tratta di una piattaforma rotante con un diametro di 17,95 metri a doppi binari, che permetteva di smistare i vagoni frigoriferi che arrivavano attraverso le rotaie, allacciate direttamente dallo scalo ferroviario di Porta Nuova, all’interno della costruzione. I vagoni potevano essere depositati in sette gallerie con binario poste a raggiera intorno alla sala centrale cupolata. Tra le gallerie, cui va aggiunta anche quella d’ingresso, si trovavano otto locali a forma trapezoidale per celle frigorifere, isolate da un’intercapedine riempita con strati di sughero per evitare le dispersioni. Infine nella parte più esterna vi erano altri locali dedicati allo smistamento e alla lavorazione delle derrate, oltre ai locali tecnici per i macchinari del frigorifero. Al piano superiore vi erano locali destinati a magazzini dei cereali, il cui scopo era anche quello di isolare meglio dall’esterno la parte raffreddata dell’immobile. Sempre al piano primo, esattamente sopra la galleria d’ingresso, si trovavano gli uffici su due livelli, collegati da una scala a chiocciola in ferro battuto di stile liberty ora trafugata. La refrigerazione dei locali era garantita dalla circolazione di aria già raffreddata tramite appositi macchinari, trasportata da tubazioni a soffitto e tenuta in movimento da quindici elettro-ventilatori. La Stazione Frigorifera 74

era anche la più all’avanguardia per quanto riguarda la sicurezza: esistevano apparecchiature per il controllo a distanza e si avevano continue registrazioni di dati sul funzionamento delle celle. La struttura dell’edificio era duplice: la prima era una struttura portante in cemento armato costituita da pilastri, travi sagomate agli estremi per aumentare la superficie collaborante e solai. La seconda, anch’essa portante ma verticale, presentava una composizione che variava dal mattone alla pietra di tufo. Oltre alle due strutture si avevano i tamponamenti formati essenzialmente da mattoni e pietre. L’edificio si presentava all’esterno come estremamente monumentale, cosa data principalmente dalla considerevole mole e dalla grande cupola di 30 metri di altezza che sovrastava la costruzione. L’unico elemento decorativo si trovava nel portale d’ingresso, dove si poteva vedere una cornice di bugne in cemento, sormontata da una specie di timpano con piccole volute. Sempre nel timpano si potevano leggere il numero dell’edificio, il 10, dato dalla numerazione progressiva ordinale obbligatoria per tutti gli edifici che si trovavano all’interno del muro di cinta, e la data di realizzazione della struttura, il 1930. Nel 1936, sempre l’Ing. Pio Beccherle fu chiamato a progettare le due palazzine d’ingresso al lotto dei Magazzini Generali. Gli edifici 15, 16, e 17, come si legge dalla numerazione progressiva, erano adibiti a uffici e, chiudendosi a cuneo nel punto più stretto del lotto triangolare, formavano l’ingresso nord. Le palazzine erano unite tra loro dal portale d’ingres-


FORTE CLAM, 1850 ca

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I MAGAZZINI GENERALI

Mercato ortofrutticolo: veduta aerea degli anni ‘60.

Fiera negli anni ‘60

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so, formato da tre cancelli in ferro battuto e due colonne centrali sovrastate dalla scritta: “Magazzini Generali”. Questi edifici erano di particolare interesse per lo schema compositivo simmetrico e lo stile di stampo razionalista predominante al tempo. Le strutture verticali presentavano una composizione mista in cemento armato e pietra, come in parte si ritrova nella Stazione Frigorifera, mentre i solai erano costruiti, più tradizionalmente, in laterocemento. Le coperture erano anch’esse tradizionali in laterizio. Tra tutti gli edifici all’interno del lotto dei Magazzini, questi tre sono quelli che si presentano più conformi alla tradizione costruttiva cittadina, dando l’idea anche dall’esterno di avere un ruolo completamente diverso rispetto a quello delle altre costruzioni. Al loro interno si trovavano, infatti, gli uffici relativi a direzione ndei magazzini e dogana. La loro diversità si esprime anche attraverso i fronti prospettanti l’ingresso che hanno un andamento curvilineo del profilo e grandi finestroni con specchiature multiple, notevolmente diversi dai lunghi magazzini seriali visti fino ad allora. All’interno dei Magazzini Generali, gli ultimi anni prima della Seconda Guerra Mondiale, si potevano già trovare enti e funzioni molto diverse che ne hanno determinato, nel 1932 durante un convegno a Bologna con i principali rappresentanti italiani, la definizione come più importanti Magazzini Generali della nazione. Vi si trovavano infatti: una sezione doganale dedicata, l’ufficio gestione merci distaccato delle vicine Ferrovie, l’ufficio spedizionieri e operatori economici nazionali e internaziona-

li, l’ufficio poste e telegrafi, l’istituto di credito, il laboratorio chimico doganale, l’ufficio permanente di controllo dell’istituto di commercio estero, l’osservatorio fitopatologico, l’ufficio veterinario e il centro di elaborazione dati per trasmissione in teleprocessing a mezzo cavo telefonico. Appare evidente come tutte queste funzioni concorressero a fare dei Magazzini Generali, una cittadella a sé stante votata all’eccellenza tecnologica in campo commerciale ma che, al tempo stesso, era fonte di grande lustro per la città che la ospitava. Con l’arrivo della guerra i Magazzini, pur rallentando in parte, non fermarono mai la propria attività, anche se nel recinto si contarono quasi 100 bombe cadute durante le incursioni aeree. Da maggio a settembre 1945 i Magazzini Generali caddero in mano alla quinta armata americana che ne requisì gli impianti, utilizzandoli per la conservazione e lo smistamento dei prodotti deperibili o congelati, ma soprattutto per il rifornimento ghiaccio. I lavori di ricostruzione durarono tutto il 1946, soprattutto nella Stazione Frigorifera danneggiata dalle bombe, che, tuttavia, nel 1948 tornò di nuovo a essere la più importante d’Europa. Il 1948 è anche l’anno di due importanti eventi non solo per i Magazzini ma per il futuro dell’intera porzione di Verona sud. E’, infatti, l’anno della costituzione del Consorzio ZAI che provvederà allo sviluppo di tutta la zona industriale a sud del comparto dei Magazzini e che, attraverso di essi, fornirà diverse agevolazioni alle industrie che vorranno installarsi nella Zona Agricolo - Industriale. Inoltre in quell’anno hanno ini-


LA STORIA Foto di Verona sud nell’immediato dopoguerra. Nell’immagine si distinguono: la Chiesa di Santa Teresa(8), la Stazione Frigorifera (127), i Magazzini Generali (149), il mercato Ortofrutticolo (146), il Foro Boario (150), la Manifattura Tabacchi (147). Nella pagian seguente, dall’alto: la cupola della stazione frigorifera, interno; vagoni in prossimità della cupola; automobili parcheggiate sul tetto della cupola intorno agli anni ‘70.

zio i lavori per l’insediamento, nella sua nuova sede, della Fiera di Verona che, dal centro storico, venne trasferita su un’area di 300 000 mq sul lato opposto di Viale del Lavoro rispetto ai Magazzini. Nell’arco di pochi decenni è diventata uno dei più importanti centri fieristici d’Europa, dando anche ai Magazzini Generali una nuova vetrina e maggiori possibilità di sfruttamento grazie alla loro posizione. Pochi anni dopo un altro evento ha chiarito ancora di più l’importanza che quella porzione della città avrebbe determinato per Verona. Dopo il trasferimento del nuovo Macello e del Foro Boario in un terreno poco più a sud dei Magazzini, anche il Mercato Ortofrutticolo costruì la nuova sede accanto ad essi e di fronte alla Fiera, dall’altro lato di Viale dell’Agricoltura. Terminati nel 1952, i quattro padiglioni, ora ridottisi a due, rappresentavano anche un’importante presenza per la ZAI sul piano architettonico. Con il tempo rimase il problema di avere maggiori spazi da destinare ad attività

complementari, come il mercato all’ingrosso delle pesche, un nuovo mercato del bestiame, il macello di zona. Per il grano la soluzione venne trovata costruendo un secondo magazzino della capacità di 50mila quintali e un terzo, di 80mila quintali, sarà edificato nel 1939. Il mercato ortofrutticolo inizierà ad essere costruito solo nel ’48. Si trattava, infatti, di padiglioni retti da una serie di strutture in cemento armato ad arco di parabola che ricordavano molto i mercati centrali spagnoli e che racchiudevano al loro interno una larghissima superficie completamente libera da ostacoli, che potrebbe essere riutilizzata in diversi modi grazie all’estrema flessibilità degli spazi. Il Mercato Ortofrutticolo divenne in pochi anni un importante centro europeo di commercio dei prodotti agricoli e la sua crescita determinò, negli anni 50, un ulteriore sviluppo dei Magazzini Generali con un ampliamento e una parziale modificazione delle proprie attività. Nel 1956 le costruzioni furono ampliate con altri due edifici, i numeri 23 e 24 sul lato sud del sito. Il primo, adibito a depo-

sito granaglie e uffici, era caratterizzato da un fronte esterno compatto che chiudeva il lotto tra Viale del Lavoro e Viale dell’Agricoltura. Tra le soluzioni più interessanti vi era quella d’angolo, costituita da una palazzina di quattro piani fuori terra ad uso uffici e che si trovava direttamente di fronte alla Fiera. All’interno si presentava come una serie di quattro corpi di fabbrica con galleria centrale di uguali dimensioni e tipologia rispetto al secondo edificio dello stesso anno, il n. 24. Dello stesso anno sono anche altri due magazzini che si affacciano direttamente su Viale dell’Agricoltura. Hanno facciate identiche di gusto razionalista che si distinguono soltanto per le iscrizioni riportate: “Stazione Frigorifera Specializzata 25” e “Fabbrica ghiaccio rapido 26”. Le funzioni all’interno erano quelle di deposito granaglie e magazzino refrigerato per il primo, magazzino semplice per il secondo. La fine della ricostruzione degli impianti danneggiati durante il periodo bellico segna per i Magazzini Generali anche l’inizio di un progressivo e inesorabile de77


I MAGAZZINI GENERALI

cadimento delle attività tradizionali cioè di stazione ortofrutticola, di deposito di cereali e zucchero. Lentamente altre attività subentrano. La concorren-

za dei frigoriferi privati, intorno agli anni cinquanta, rende sempre meno indispensabile la stazione frigorifera per la conservazione di frutta e verdura. Con l’apertura delle

due autostrade, la Serenissima nel 1950 e la Brennero-Modena nel 1953, il trasporto su gomma cominciò a prendere maggiormente piede nel commercio, anche di generi alimentari. La costruzione nella nuovissima ZAI di tre impianti frigoriferi privati tra il 1950 e il ’54, oltre ad altri due impianti fuori dalla zona, ma molto vicini, resero non più indispensabile la presenza della Stazione Frigorifera Specializzata. Nonostante queste difficoltà i Magazzini si riconfermano ancora una volta al primo posto su scala nazionale nel 1958. Ci si rese tuttavia conto che le soluzioni adottate finora non sarebbe state più sufficienti alla sopravvivenza dell’Ente che si trovava a concorrere con strutture private da una parte e con l’avanzare sempre più imponente del trasporto su gomma. Nel 1964 fu introdotto per la prima volta in Italia il deposito di autoveicoli esteri per i quali vennero predisposti depositi all’aperto per un totale di 2000 posti auto. Nel 1967 questa funzione si espanse notevolmente grazie all’acquisto e al deposito di autovetture per lo smistamento sul piano nazionale da parte della Compagnia Italiana Automobili (CIA). 78

Negli anni ’70, viste le nuove funzioni alle quali i Magazzini erano stati introdotti nel decennio prima, si decise di compiere un totale rinnovamento delle strutture, in particolare per ridurre la produzione di ghiaccio, ormai non più necessario al commercio, e aumentare le possibilità di deposito di autoveicoli. Nella Stazione Frigorifera Specializzata, in particolare, venne eliminata la piattaforma rotante, mutati i collegamenti tra celle e creati nuovi spazi frigoriferi. Nel 1971 la principale attività e fonte di guadagno dei Magazzini Generali era proprio l’afflusso e il deposito di autoveicoli esteri, in particolare di Audi e Bmw, che ancora oggi hanno a Verona il principale centro di distribuzione italiano. L’importanza del trasporto su gomma fu poi ribadito nello stesso anno con la costruzione del viadotto tra Viale Piave e Viale del Lavoro che si intersecava con i binari ferroviari che collegavano Porta Nuova all’entrata dei Magazzini Generali a piano strada e che tuttora ricopre un ruolo di importanza fondamentale per il raccordo che si viene a creare, attraverso di esso, tra Casello Autostradale, Fiera, Porta Nuova e Piazza Bra. Dopo quattro anni il deposito di auto costituirà una delle principali entrate. La crescente richiesta, durante gli anni ’70, di spazi per automobili impone una ristrutturazione dell’Ente, si inizia a progettare il Quadrante Europa. Nel 1971, quindi le fonti di maggior lavoro dei magazzini Generali erano l’afflusso di autoveicoli esteri, e i depositi frigoriferi di carne congelata, mentre risulta


LA STORIA

Vista aerea del cavalcavia costruito nel 1971.

completamente sparita la refrigerazione di frutta. In questi anni gli impianti frigoriferi risultano vetusti. Da questo momento l’attività all’interno dell’area degli ex Magazzini Generali risulta sempre più disordinata, dopo un breve periodo di attenzione da parte di ditte di autotrasporto l’area viene completamente abbandonata. Per un certo periodo gli edifici all’ingresso verranno utilizzati come centro di prima accoglienza per extracomunitari e profughi della ex Jugoslavia. Un piccolo spazio sarà invece occupato dalla Caritas per la raccolta di materiale cartaceo e un altro come sede dell’associazione culturale Interzona, mentre il resto dell’area verrà utilizzato in minima parte per depositi di vario tipo. Dal 1972 parte dell’attività dei Magazzini Generali venne trasferita al Quadrante Europa. La necessità di decentramento nasceva dalla possibilità di assicurare in questo modo un futuro più roseo ad alcuni settori, in particolare a quello del deposito autovetture allo stato estero, ancora oggi uno dei più fiorenti. Inoltre l’espansione in una zona strategica per importanza economica, permetteva di ottenere uno snellimento della movimentazione e del deposito delle merci che prima gravitavano sul solo polo di Borgo Roma, di eliminare ogni inconveniente di disturbo al traffico urbano per entrata e uscita vagoni, visto che il raccordo ferroviario per gli ex Magazzini si trovava a piano strada, infine la grande possibilità di realizzare depositi “su misura” anche per nuovi tipi di merce in via di sviluppo. Da questo momento in poi si assisterà a un progressivo sviluppo della

sede decentrata e ad un conseguente abbandono di quella storica, fino alla totale dismissione del 1982 dei Magazzini e a quella parziale del Mercato Ortofrutticolo la cui conclusione è avvenuta negli ultimi anni. Nei periodi fieristici gli spazi aperti fungono da parcheggi. L’amministrazione Comunale continua mantenere in sito un custode fino allo smantellamento del centro di prima accoglienza, dopodiché abbandona completamente l’intera area. La mancanza di custodia e lo scarso utilizzo dell’area, ha portato di recente a di-

sagi di ordine pubblico che hanno contribuito a creare un’attenzione negativa, da parte dell’opinione e

dell’amministrazione pubblica, attorno al recupero di questo spazio. Nel frattempo l’area degli ex Magazzini è stata interessata negli anni da diverse proposte di intervento, di cui si parlerà approfonditamente in seguito. Solo per accennare alla quantità di progetti e piani fatti per l’area si conta lo “Studio di fattibilità per il recupero delle aree degli Ex Magazzini Generali e dell’Ex Mercato Ortofrutticolo” del 1990 redatto dal Prof. Marcello Vittorini, i cui contenuti sono stati integrati nella variante del PRG di tre anni più tardi. Importante poi il vincolo imposto dalla Soprintendenza ai beni ambientali e architettonici di Verona che, tramite il D.L. 490/1999, ha posto sotto tutela non soltanto gli edifici ma anche il muro di cinta, evidenziando l’importanza data anche all’isolamento della cittadella tecnologica rispetto al resto della città. La definizione che si trova nella legge parla 79


I MAGAZZINI GENERALI

Planimetria del progetto di Enrico Carli per la costruzione del Canale Camuzzoni.

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di bene culturale come di: “a. cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico,o demo-etno-antropologico; b. cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante.” Rimane il fatto che l’isolamento di cui ha goduto in questi anni ne ha certo permesso la conservazione ma ha anche favorito il degrado, poiché la protezione del muro di cinta ha fatto si che diventasse terreno ideale per la proliferazione di criminalità legata soprattutto alla droga e che ha sempre portato i cittadini a guardare a questo brano di città come un luogo negativo da abbattere. Per questo motivo, fin dagli anni ’80, il dibattito cittadino sulle sorti dei Magazzini Generali è sempre stato molto acceso e le pagine dei quotidiani locali si sono riempite negli anni di articoli e discussioni a riguardo. A partire dal 1988 sono infatti giunte le prime proposte di intervento sull’area di Verona sud. Il quotidiano cittadino “L’Arena” ha lanciato in quell’anno un’inchiesta intitolata “Magazzini e Mercato, quale futuro?”, prestando le proprie pagine alle discussioni di architetti e urbanisti per definire insieme quale fosse la strategia migliore, che permettesse una

questione presentata dall’assessore all’urbanistica Zavetti. La bozza di bando di concorso anche se si riferiva soltanto alle aree dei Magazzini Generali, già trasferiti al Quadrante Europa, conteneva una previsione anche per destinazioni per il Mercato Ortofrutticolo che sarebbe stato presto trasferito. Le destinazioni indicate dal bando di concorso del 1988 sono: verde di sistema urbano per 170˙000 m2, centro espositivo per 12˙000 m2, attività polifunzionali per 15˙000 m2, attività direzionali per 28˙000 m2, mercatino di quartiere per 10˙000 m2, parcheggi per 32˙000 m2 e scuola per 13˙000 m2. Sul bando di concorso si scatenano subito polemiche tra due fronti che vorrebbero uno una maggiore destinazione a verde dell’intera area, l’altro fare della zona una Verona del 2000 dove concentrare tutti gli uffici direzionali spostando gli attrattori di traffico dal centro storico. Se contiamo che inizialmente i progetti prevedevano un ragionamento unitario, non solo per l’area dei Magazzini e del Mercato, ma includendo nelle aree da riqualificare anche il parco ferroviario di Porta Nuova, la Manifattura Tabacchi e le Cartiere Ver na e Fedrigoni, si arrivava ad un‘area con una superficie enorme, circa un milione di m2. Come detto gli urbanisti hanno reagito in modi molto diversi alla proposta dell’ascompleta valorizzazione dell’e- sessore. L’architetto Otto Tognetti, per esempio, si schiera dalla parte di coloro norme bene che ci si trovava in che reputavano la sistemazione a parco una zona strategica d’importanza della zona come un enorme spreco. fondamentale per la città. Egli dice: “quando non si sa cosa mettere Il dibattito è cominciato dopo la pro- si propongono verde e spazi culturali. Il posta per la destinazione delle aree in verde è la paranoia dell’urbanistica. Il


1927-38 1945-16

1918

1925-27

verde a Verona c’è”. Per quanto riguarda la possibile destinazione d’uso aggiunge: “Sono da escludersi residenziale e attività produttive. Puntare quindi su direzionale, commerciale e alberghiero”. Di parere totalmente opposto è invece Luciano Cenna, architetto, secondo il quale il problema è di “finalizzare il verde, che nella concezione moderna non può più essere il parco dell’Ottocento”. L’idea è quella di pensare al verde in funzione riequilibratrice per il quartiere di Borgo Roma, nato durante le espansioni degli anni ’20 che non gode di un indice di servizi molto alto. Rimane comunque convinto che sia necessario un progetto che tenga conto di tutte le aree dismesse di Verona sud e che non si limiti a guardare le aree di Magazzini e Mercato. Un altro architetto, Nico Bolla, ritiene necessario che l’area non sia destinata a un’unica funzione, ma che la sua importanza strategica si traduca in una molteplicità di destinazioni diverse che la possano rendere centro vivo per tutta la giornata. Egli dice, infatti: “se escludiamo in quell’area gli insediamenti produttivi, tutto il resto ci sta. Non deve essere un luogo che vive per sole 8 ore al giorno e poi si svuota, ma un’area che sia utile a Borgo Roma e a tutta la città”. Sottolinea poi l’importanza del concorso di idee, criticato invece da altri, evidenziando come gli obiettivi del concorso debbano essere due, cioè riequilibrare il rapporto tra Verona sud e il resto della città e trattare l’area dei Magazzini e del Mercato come degna di una certa complessità urbana, fatta di funzioni diverse e vissuta durante tutta la giornata.

1938-45

RICOSTRUZIONE FASI COSTRUTTIVE DEI MAGAZZINI GENERALI

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I MAGAZZINI GENERALI

Verona mappe catastali, 1937 e 1970

Il dibattito si intensifica nel secondo numero dedicato all’inchiesta, nel quale viene data voce alle associazioni sindacali e alle circoscrizioni interessate dal progetto. In particolare il presidente della Quinta Circoscrizione, rappresentante Borgo Roma, chiede che sia rispettata la proposta di realizzare un parco nella zona dei Magazzini, rilevando come il proprio quartiere sia stato per anni completamente isolato dal centro storico a causa della rete infrastrutturale che si trova proprio all’altezza dei Magazzini, e che costituisce uno dei maggiori problemi da affrontare in un progetto che prenda in considerazione il recupero dell’area. Per le aree di Magazzini e Mercato viene caldamente appoggiata la scelta del verde, il che “non significa ghettizzare la periferia, ma spostare il baricentro della città verso sud. Nel nostro disegno […] si creerebbe proprio all’ingresso della città, vicino all’autostrada, un’area commerciale, direzionale e alberghiera con un minimo di residenziale perché questa area possa essere viva anche durante la notte e per creare un collegamento

tra Borgo Roma e le Golosine che attualmente non esiste”, come affer-

1) G.B. Da Persico, Descrizione di Verona e della sua Provincia, Verona 1820, vol. I, p. 4. 2) S. Maffei, Verona Illustrata, Verona 1732, Libro III, Notizia delle cose in questa città più osservabili, p. 57.

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ma il presidente della Circoscrizione. In generale l’opinione di abitanti e associazioni, in parte in contrasto con architetti e urbanisti, è quella che sia necessario ricreare l’idea di città in tutta quest’area, in modo da poter ricucire lo strappo,

da una parte tra i due quartieri di Santa Lucia - Golosine e Borgo

Roma e dall’altra tra il centro storico e Verona sud.

Purtroppo la proposta di concorso nazionale avanzata dall’assessore all’urbanistica rimane tale e per tutta la durata degli anni ’90 gli unici momenti in cui si parla di Magazzini Generali riguardano fatti di cronaca legati principalmente al mondo della droga o ad atti vandalici compiuti nei confronti degli stessi edifici. Nel 1998 sembra che ci si avvicini a un momento di svolta con l’apertura, all’interno dell’area dei Magazzini, di un’associazione culturale, Interzona, e del teatro tenda dell’Estravagario. Tuttavia le potenzialità non vengono del tutto espresse visto che ancora oggi Interzona occupa soltanto due magazzini laterali ed organizza eventi che però non arrivano al grande pubblico quanto dovrebbero, mentre il teatro è stato creato abbattendo due costruzioni minori e pericolanti ed erigendo una tenda su uno spiazzo libero, mentre le possibilità di utilizzare, recuperandoli, edifici vincolati potevano portare a risultati decisamente più interessanti. Va rilevato comunque che queste prime iniziative sono state spontanee, dettate da associazioni di privati cittadini che hanno tentato di riappropriarsi di un brano di città che era segnato soltanto dalla delinquenza in attesa di uno sforzo globale mosso dall’Amministrazione comunale che tuttavia, a distanza di più di dieci anni, si fa ancora attendere. E’ in questo periodo che si comincia a pensare al fatto di eliminare il viadotto di Viale Piave costruito nel 1971 in adiacenza all’ingresso dei Magazzini Generali. In molti piani di recupero presentati da


questo momento in poi si parlerà di questo elemento infrastrutturale come di un enorme ostacolo allo sviluppo del quartiere che dovrebbe prendere il via dall’area dei Magazzini. Nella Variante al PRG presentata nel 1998, si parla di Viale del Lavoro che: “verrà abbassato di cinque metri: correrà in trincea, con sponde laterali inclinate e passerelle di collegamento tra le due parti separate dalla strada. Il percorso in trincea comincerà a metà di Viale Piave, dove sarà abbattuto il cavalcavia per lasciare posto a uno svincolo a due piani che collegherà Stradone Santa Lucia con Via Tombetta e quindi Borgo Roma. […] Negli spazi aperti in superficie la circolazione sarà consentita solo a pedoni, ciclisti, motociclisti, taxi, polizia e mezzi di soccorso”.

Nella stessa variante si parla anche di ristrutturazione della cupola della Stazione Frigorifera e di quattro capannoni dei Magazzini per ospitare manifestazioni culturali e ricreative, oltre a uffici pubblici e privati che si estenderanno fino alla zona del Mercato Ortofrutticolo. La Variante del PRG non viene portata a termine nemmeno in questo caso e il procrastinarsi delle decisioni in merito all’area dei Magazzini Generali, la fanno di nuovo oggetto di atti vandalici, soprattutto incendi, che per tre anni circa, fino al 2001, tormentano l’area causando addirittura un rischio di crollo nella cupola della Rotonda, dopo che cinque incendi vi si sono sviluppati all’interno nel giro di

pochi mesi. La frequenza degli incendi comincia a far pensare alla loro dolosità poiché l’edificio della Stazione Frigorifera, vincolato dalla Soprintendenza quale esempio mirabile di archeologia industriale, dovrebbe essere restaurato in vista di un futuro sviluppo dell’area e il suo recupero potrebbe essere sicuramente più costoso e allungare molto di più i tempi rispetto ad un abbattimento dovuto alle sue precarie condizioni. Negli ultimi anni si è posta quindi una maggiore attenzione verso i manufatti dei magazzini, che sono vincolati dalla soprintendenza, in particolare alla possibilità di rifunzionalizzazione degli stessi. Gli interventi di recupero attuati, hanno realizzato all’interno dell’area nuove sedi amministrative di banche e di ordini professionali (Ingegneri e Architetti), oltrechè la sede dell’archivio di Stato. L’edificio cardine dell’intero sistema, la ghiacciaia, inizialmente doveva essere riconvertita in un auditorium ai fini di rispondere ad un esigenza di servizi culturali per i cittadini Veronesi. Purtroppo, per voleri politici ed economici, il progetto non verrà realizzato; verrà dato luogo ad un nuovo grande ristorante, di fama internazionale. L’idea quindi di dare nuovamente ai cittadini residenti i Magazzini Generali è pian piano stata accantonata. Per capire meglio il ruolo di questi fabbricati all’interno del panorama Veronese dello scorso secolo occorre scendere maggiormente nello specificio e fare un pò di chiarezza sullo stato dell’economia di allora, prevalentemente agricola, e sulle necessità urbanistiche di trasferire al di

fuori delle mura i maggiori poli commerciali. Essendo la storia dei magazzini strettamente legata a quella della città di Verona, è necessario fare un breve excursus storico sulle motivazioni che hanno portato alla loro costruzione nella posizione strategica in cui stanno. Uno dei più importanti libri di storia riguardante la città, Descrizione di Verona e della sua provincia, pubblicato nel 1820 dal Podestà Giovanni Battista Da Persico, la descrive come “centro naturale di scambi e di commercio, vivace crocevia di merci discendenti dal centro Europa lungo le vie fluviali e approdanti all’ampio mercato della pianura”(1). Descrizione questa che si rifà a quella di un secolo prima, pubblicata su Verona Illustrata dal suo autore, Scipione Maffei, nel 1732. Si tratta del brano più famoso del libro che definisce Verona come “porto di mare in terra” 2. Il primo autore pone l’accento proprio sulla particolare conformazione storica della città che, costruita entro l’ansa di uno dei fiumi più grandi dell’Italia settentrionale e protetta da una collina a nord, la poneva come centro naturale di scambi e commerci, vocazione che sarà totalmente confermata dalla successiva costruzione dei Magazzini Generali. Dominata per secoli da diverse popolazioni, la città ha subito uno sviluppo profondamente diverso rispetto alle maggiori realtà dell’Italia settentrionale e la posizione assunta dai Magazzini all’interno della città è in parte testimonianza di questa particolare evoluzione.

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LA ZAI STORICA

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Foto della Fiera di Verona durante gli anni ‘60 (sopra) e nel dopo guerra (sotto)

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Il “Quadrante Europa” e il ruolo di Verona “europea” negli anni ‘80

Nella storia del Consorzio ZAI e nella vicenda dei settori politici e istituzionali che in questo doportterra si sono occupati dell’evoluzione economica e urbanisti a Verona, il «Quadrante Europa» è un capitolo del quale si possono cogliere almeno momenti significativi: quello dell’intiuizione, avuta alla metà degli anni Sessanta, di rafforzare il ruolo di «Verona europea» realizzando delle aree a ridosso dell’intersezione delle due grandi autostrade il fulcro di servizi e attività idonei allo sviluppo degli scambi internazionali (intuizione che poggia sulla presenza delle autostrade che accresce la posizione di privilegio della città sul piano interregionale e internazionale per la direttrice europea Nord-Sud); quello (ed è il secondo momento) della prima realizzazio-ne, avvenuta all’inizio degli anni Settanta col trasferimento in zona «Quadrante» del nuovo Centro doganale di Verona: « lo sviluppo passa per la dogana» si legge sui giornali ed è un sal-to davvero storico per la città l’abbandono del-le settecentesca dogana dei quartiere Filippi-ni, sull’Adige, e il suo approdo nell’area della «nuo86

va frontiera» dei traffici; terzo momento, alla fine degli anni Settanta, quello della piani-ficazione, proprio attorno al nucleo doganale, di una superficie di 100 ettari del «Quadrante» sui quali verrà realizzato il Centro intermodale, un grande e razionale complesso di servizi al trasporto combinato su strada e rotaia, comprensivo dei Magazzini Generali (altro storico trasferimento ormai alle porte). Individuata nel quadrante di nord-est dell’incrocio della «Serenissima» con l’Autostrada del Brennero, quest’enorme superficie di 400 ettari che la Variante al Piano regolatore del 1966 aveva depennato dalle zone rurali, va assumendo la sua precisa fisionomia, dopo tanti studi e documenti nel corso degli anni, proprio dopo quest’ultimo momento di pianificazione. Il piano particolareggiato del Centro intermodale di Verona, affidato alla ZAI (preceduto da uno studio promosso dal Consorzio nel 1977 attuato dai progettisti Silvano Franco Franchini, Bruno Padovani e Gimanua Reni (affiancati dai consulenti dei Comune Guglielmo Zambrini e Augusto Cagnardi),

approvato in Consiglio comunale il 28 novembre 1979, non solo rappresenta il superamenio delle intuizioni degli anni Sessanta e la soluzione ai problemi infrastrutturali del Centro doganale (non sarà a più una «cattedrale nel deserto»), ma è la prova della manutenzione di una visione armonica delle linee di sviluppo i Verona a vari livelli. Il “Quadrante Europa”, non è un «cocktail di funzioni» che si aggiungono a quelle tradizionali di Verona, ma è l’occasione per trasferire in un’area strategica, accanto ai terminali del Centro intermodale, alcune funzioni che già esistono, consentendo un processo di riorganizzazione del tessuto urbano. Ecco i dibattiti nati nellap rima metà del 1980 sul trasferimento in zona «Quadrante» dell’enorme scalo ferroviario merci di Porta Nuova, ecco meglio definirsi lapossibilità di una nuova collocazione del Mercato ortofrutticolo a ri-dosso del Centro intermodale: operazioni non ancora definite, ma in grado di caratterizzare e il «Quadrante» e Verona in un futuro che dal 28 novembre 1979 è praticamen-


IL QUADRANTE EUROPA IERI

te già cominciato. Il Centro intermodale é l’«anima» del «Quadrante Europa». Esso sarà collegato dalla «tangenziale ovest» alle autostrade e all’aereoporto di Verona-Villafranca ed è unito da specifici raccordi alla rete ferroviaria (è lambito a nord della ferrovia Milano-Venezia). Al suo interno il servizio doganale, con centinaia di autotreni che ogni giorno arrivavano trasporando le merci più varie per l’importazione e l’esportazione, i Magazzini generali, uffici e servizi riservati alle categorie del trasporto (autotrasportatori, corrieri, spedizionieri), Centro direzionale dell’intero complesso, ampie aree per il parcheggio dei veicoli, una struttura alberghiera, vaste zone a verde, una razionale articolazione viaria interna collegata a due ingressi principali. All’interno è presente uno scalo ferroviario con terminal containers, dove materialmente avverrà “con speciali attrezzature, il passaggio dei vari carichi dai carri ferroviari agli automezzi pesanti e viceversa, da cui intermodalità, del centro”. La spesa prevista dal Piano per le opere di urbanizzazione e per l’acquisto dei terreni e

dei fabbricati su cui è stato realizzato il Centro e di 14 miliardi 376 milioni delle vecchie lire, coperta dal Consorzio anche con contributo regionale. Da parte regionale si stanziò un primo contributo nella primavera 1980 pari a mezzo miliardo. L’importanza di questo servizio per i trasporti, e legata alla riduzione dei tempi e al risparmio di risorse che si tradussero in fondamentali fattori diproduzione. Ciò fu particolarmente avvertito dalle parti sociali. «Un modo più razionale di organizzare la raccolta e la distribuzione delle merci nelle aree urbane con la specializzazione di mezzi e sedi, realizza sicuramente una riduzione dei costi di produzione, dei costi energetici, dì intasamento, dì inquinamento e permette pure la riduzione, in parte, dello stress, della rischiosità, del disagio del lavoratore addetto, un suo maggiore controllo sull’orario di lavoro», affermò a nella primavera ‘80 il segretario generale della Filt - Cgil Lucio De Carlini. Le finalità che con il Centro intermodale si perseguono risposero d’altra parte ad esigenze precise dell’im

prenditoria, se è vero - sono parole del direttore generale della Confindustria. Solustri che «è nell’interesse di tutti che le materie prime da trasformare arrivino in fabbrica con regolarità e certezza e che i prodotti raggiungano il più rapidamente possibile i rispettivi mercati. Il costo del fattore trasporto è talvolta l’ago della bilancia perchè un prodotto italiano si affermi nei mercato internazionale o ne esca». La trasformazione dei trasporti si presentò all’imprenditore ed al lavoratore come una decisiva questione produttiva e tecnologica per gli anni a venire, accanto alle telecomunicazioni e alla trasformazione delle fonti di energia e come queste furono in grado di operare una crescita delle condizioni di vita. Dietro a slogans già in voga in altri Paesi, come «su ruote d’acciaio si risparmia energia» o come «il camion, che fu il re della strada, viaggia in treno», si nasconde dunque una precisa necessità alla quale i centri intermodali danno una risposta. Le F.S. si attrezzarono per produrre speciali carri merci, «a tasca fissa», in grado di trasportare se87


IL QUADRANTE EUROPA Nella pagina precedente: progetto del Quadrante Europa In questa pagina: foto dei vagoni dei treni merci sui binari dell’interporto Veronese Nella pagina accanto: foto aerea dell’area nel 2018; ad oggi il terminal è grande 4 milioni di m² dove lavorano120 aziende con 13.000 lavoratori. Vngono trasportate 26 milioni di tonnellate di merci ogni anno mentre la capacità massima del Terminal è di 550.000 unità/anno. Il terminal è costituito da 3 moduli e dispone di 15 binari, 7 gru a portale e 5 gru gommate.

mirimorchi, casse intercambiabili, grandi containers in modo che si realizzasse un sistema di trasporto intermodale nel quale la ferrovia cura l’inoltro delle merci sulle grandi distanze, da terminal a terminal, mentre gli autotrasportatori completavano il trasferimento delle merci su strada da porta a porta. E’ una grande evoluzione dei traffici e il Centro interniodale del «Quadrante Europa» veronese decisamente in essa inserito e con notevoli potenzialitità, per l’intersecarsi a Verona delle direttrici fondamentali che collegano il valico di frontiera del Brennero ai porti di Venezia e Trieste da una parte e a quelli di La Spezia e Livorno dall’altra, per i traffici relativi alla Germania occidentale e all’Austria, ed infine aiporti di Ravenna, Bari e Brindisi per i traffici tra Centro Europa e Medio Oriente. Nel Piano particolareggiato, il trasferimento dello scalo merci F.S. di Porta Nuova nel Centro intermodale viene ipotizzato come una fase successiva alle realizzazioni iniziali. Sarà questa l’operazione maggiore sotto l’aspetto della 88

poiché permetterà il recupero di una vasta area urbana di Verona sud, la

riorganizzazione del territorio,

zona cittadina interessata alla riconversione della ZAI storica. Il trasterimento dello scalo costituirà d’altra parte una opportuna integrazione dei servizi intermodali, in grado di dare elasticità funzionale a tutto l’insieme. Ciò in previsione del fatto che per quanto possa essere notevole lo sviluppo del trasporto intermodale, esso per un futuro almeno ipotiziabile non potrà assorbire per intero il trasporto merci tradizionale, ferroviario o su strada. La valorizzazione dell’area strategica del Quadrante Europa nella direzione tracciata dal Piano particolareggiato del Centro intermodale, rappresentò probabilmente il più grande «progetto su Verona» di questo dopoguerra. Non fu solo il progetto della «terza città», che si affianca a quella antica e a quella dei borghi sortì a sud della ierrovia, ma l’occasione per collegare le tre parti in modo più consono ad uno sviluppo equilibrato.


IL QUADRANTE EUROPA OGGI

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II

AMBITO ZAI: IERI E OGGI

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PROGRAMMI URBANISTICI

Alcuni dei valori intrinsechi di un’area dismessa sono il silenzio, la memoria, l’essere un non luogo dove non c’è vita. Un tempo. invece, queste aree erano degli spazi pieni di vita, di voci, di forza lavoro. Quello che ho cercato di fare è stato l’avere una visione complessiva dello stato di questi luoghi oggi: che aree sono dismesse? Oltre ad edifici residenziali qual’è l’entità degli insediamenti in disuso? L’amministrazione locale cosa prevede? E i privati? Molto spesso la strada più facile è quella della demolizione; eppure, così facendo, si cancellano tracce di memoria e di storia che hanno scritto le pagine della storia di una città. 92


I CONFINI DELL’AMBITO DI VERONA SUD

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Cronologia degli interventi di pianificazione di Verona sud

Per capire al meglio le dinamiche dell’area gravitante attorno all’ambito Magazzini Generali - ex Mercato Ortofrutticolo - ex Magazzini EVA e gli interessi che hanno sempre gravitato intorno ad essa, ritengo sia necessario guardare, con andamento cronologico, tutti i piani che hanno interessato la zona. L’area comincia a diventare interessante dal punto di vista urbanistico dai primi anni del ‘900, da quando cioè, nell’attigua area di Basso Acquar, cominciano ad insediarsi le prime fabbriche e la zona diventa quindi il luogo ideale per gli insediamenti operai. In particolare questo avviene dal 1903, dopo la promulgazione della Legge Luzzatti che crea gli Istituti per le Case Popolari. Gli obiettivi di questa legge erano quelli di: - controbattere la speculazione privata; - fornire modi utili d’investimento di capitali; - costruire quartieri con affitti adeguati al reddito di lavoro; - aiutare a comporre il dissidio fra iniziativa individuale e accentramento municipale; 94

- non chiedere nulla allo Stato e fornirgli una nuova risorsa di ricchezza tassabile. Nella città di Verona, proprio a partire dal 1903, furono costruiti i primi due quartieri popolari nelle zone di Porta Palio e Porto San Pancrazio. Tuttavia questi primi insediamenti non bastarono a soddisfare il fabbisogno dei cittadini, calcolato in un totale di 2 500 stanze. Per questo motivo venne decisa la costruzione di altri insediamenti popolari e l’Amministrazione diede direttive secondo le quali la nuova espansione cittadina dovesse avvenire soprattutto verso sud e verso est. Il Regio Decreto del 10 novembre 1910, che abrogava la Legge, la quale vietava di costruire sulla spianata militare, diede il via a questa nuova espansione. Sono proprio del 1910 i primi piani di espansione che interessano la zona di Tombetta, Basso Acquar e Borgo Roma, anche se, trattandosi di quartieri concepiti come prettamente industriali, gli insediamenti seguivano tutti i metodi di costruzione propri dei centri operai, con condizioni di vita, soprattutto per quanto riguarda i servizi alla persona, non certo soddisfa-

centi. I piani prevedevano la realizzazione di due lottizzazioni in zona Golosine e Tomba per case unifamiliari e palazzine. Con l’apertura della Stazione di Porta Nuova nel 1922, localizzata a nord della porzione di Verona Sud e divenuta la più importante della città scalzando il primato di quella di Porta Vescovo, l’area sud della città acquistò sempre maggior valore e venne interessata da altri progetti. In particolare tra il 1924 e il 1926 furo-

i primi piani di ampliamento per le zone di Borgo Roma e Golosine. Inseriti in un

no fatti

contesto più ampio che prevedeva interventi anche sulle zone di Borgo Venezia, S. Pancrazio e Porta Palio, i piani erano intesi più che altro come una sistemazione sommaria dell’impianto viabilistico più che dell’assetto edilizio dei quartieri. Nel 1926, nella città di Verona, esistevano quattro quartieri popolari: Porta Palio, S. Pancrazio, Tombetta e San Bernardino, che contavano in tutto ventiquattro edifici per 256 appartamenti e 1532 stan-


CRONOLOGIA PIANI URBANISTICI

ze, ancora molto al di sotto delle richieste starsi a sud, dove l’indefinita possibilità della popolazione. Poiché erano stati di espansione e la vicinanza di sobbordecisi da piani regolatori zona- ghi nei quali l’edificazione operaia possa svilupparsi opportunamente, creavano le li, questi quartieri erano definiti condizioni per una ovvia localizzazione”. soltanto nella maglia viaria, men- A conferma di questa prerogativa dell’atre gli spazi pubblici, i giardini e rea, nel 1938, fu costruito, nel quartiele piazze venivano ricavate negli re di Borgo Roma, un insediamento di spazi di risulta all’incrocio delle case “popolarissime”. L’agglomerato era composto da venticinque stabili semiprincipali strade. rurali con chiesa, casa del fascio, scuoNel 1931, come già visto, fu indotto il la, campo sportivo e negozi. Gli edifici primo concorso per il Piano Regolatore erano ad un solo piano orientati secondo della città di Verona, che tuttavia dava in- l’asse eliotermico, alcuni a cinque vani, dicazioni piuttosto precise per il centro altri a due o tre vani ciascuno ed ogni storico, ma lasciava assolutamente alla casa poteva contare su un orto di circa deriva le zone periferiche e di nuova co- 100 mq. L’intenzione di questo insediastruzione, soprattutto quelle a sud. L’uni- mento era quella di fornire case operaie ca certezza per le zone meridionali della che potessero tuttavia creare un legame città era quella di crearvi un insediamen- con le radici contadine delle persone che to operaio, cosa più volte ribadita da tutti sarebbero andate ad abitarvi, cioè congli operatori coinvolti nella pianificazio- tadini emigrati dalle zone rurali a sud e ne. Lo stesso Plinio Marconi, che parte- venuti in città a cercare fortuna tramucipò al concorso nel 1931 e che sarà poi tandosi in operai. Il legame con la terra e responsabile, quasi trent’anni dopo, della con i luoghi di provenienza era ritenuto stesura del primo vero PRG, sostenne sicuramente una carta da giocare nelche: “le attività industriali dovevano spo- la costruzione di quartieri popolari, in

modo che il nuovo cittadino non si sentisse strappato dal proprio ambiente e non creasse quindi problemi allo sviluppo industriale che si andava compiendo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le condizioni della città di Verona erano disastrose. Il centro, sede dell’armata tedesca, era stato colpito da ingenti bombardamenti alleati e, gli stessi tedeschi, nella ritirata, avevano fatto saltare in aria tutti i ponti sull’Adige, oltre ad aprirsi veri e propri varchi nelle mura cittadine per poter agevolare la fuga. Nel 1946 venne quindi iniziata la stesura di un Piano di Ricostruzione, conclusasi nel 1948. Il Piano si occupava principalmente del centro storico, zona maggiormente colpita dagli attacchi, ma anche della porzione a sud della città. Tutto il comparto di Verona Sud, contenendo al suo interno tutti gli insediamenti industriali, era un bersaglio primario per gli alleati che volevano fermare l’avanzata tedesca. Tra le zone maggiormente colpite vi erano, infatti, Tomba, Santa Lucia e Parona, in cui furono previsti interventi per risanare le ferite ma non espandere i quartieri. 95


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Una pagina della guida provinciale Veronese, edizione 1907

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Nel piano di ricostruzione vennero però previste due cose molto importanti che condizioneranno notevolmente il destino di Verona Sud. Venne, infatti, deciso il trasferimento del Foro Boario e della Fiera dall’attuale zona nel centro storico, ad insediamenti situati proprio a sud della città. Con l’istituzione nel 1948 del Consorzio ZAI, che doveva prendersi cura di tutta la zona industriale compresa tra i quartieri residenziali di Borgo Roma, Santa Lucia e Golosine, la zona di Verona sud veniva ad acquisire sempre maggiore importanza dal punto di vista strategico. Nel 1957-58 venne finalmente varato il PRG della città, redatto, come abbiamo visto, da Plinio Marconi. Il piano prevedeva miglioramenti dal punto di vista igienico-sanitari soprattutto del centro storico segnalando una densità abitativa che non doveva superare i 700 abitanti/ ettaro. Inoltre particolare attenzione venne posta al problema del traffico che cominciava allora a presentarsi in modo insistente e fu segnalato l’esaurimento delle possibili aree di espansione nella zona industriale di Basso Acquar, rendendo ancora più importante la zona della nuova ZAI. Per i quartieri della periferia storica, tra cui si contava anche Borgo Roma, ancora una volta veniva previsto soltanto un riordino della rete stradale e una direzione di espansione, senza prendersi cura della cronica mancanza di servizi che si faceva sempre più sentire nel quartiere. Nel 1959 venne promosso il primo progetto INA-casa della città nel quartiere di Santa Lucia. All’interno del quartiere fu-

rono ricreate le caratteristiche cittadine da contrapporsi a tutti quegli insediamenti “tipo villaggi” costruiti fino ad allorane adottati in tutti i quartieri. La spina dorsale di tutto l’insieme era costituita da negozi, da cui si irradiavano spazi secondari e abitazioni. Pur apparendo piuttosto monotono, con spazi liberi troppo piccoli, poco verde e disarmonia degli spazi interni, il quartiere risultava essere il miglior esempio di edilizia programmata costruito nella città di Verona. Tra il 1965 e per i successivi dieci anni, venne fatta e approvata la prima variante al PRG di Plinio Marconi che si rendeva necessaria dopo il fortissimo incremento di popolazione che ebbe la città di Verona nel decennio 1951-’61, e che rendeva non più sufficienti le previsioni di espansione approntate nel precedente piano. Il fenomeno di incremento demografico aveva visto in particolare un aumento di circa 5000 unità l’anno, con il particolare fenomeno dello svuotamento del centro storico che nello stesso decennio aveva perso 10 000 abitanti. La nuova variante al PRG si sarebbe dovuta concentrare maggiormente sui quartieri periferici, principale meta degli emigranti che venivano a stabilirsi in città. La variante mise a punto un piano di espansione che andava a confermare ancora una volta le precedenti intenzioni dell’Amministrazione, prevedendo l’espansione residenziale soprattutto verso ovest e verso sud, andando oltre le prime periferie storiche e allargando i comuni della prima corona che erano entrati a far parte del recinto cittadino nel 1927.

Inoltre venne prevista un’espan-


CRONOLOGIA PIANI URBANISTICI

sione industriale a sud per 752 ettari, scelta criticata dal Ministero dei Lavori Pubblici, poiché si riteneva

che l’area industriale fosse troppo vicina a quella residenziale, affermazione che, in effetti, non era totalmente sbagliata visti i problemi che l’area si trova ad affrontare oggi.

Il Ministero per ovviare al problema propose di istituire una fascia di rispetto profonda 200 metri tra le due zone lineari, proposta che, tuttavia, non venne presa in considerazione. La variante del ’65 e

le successive modificazioni fino all’approvazione nel 1975, è la prima in cui si comincia a delineare la nuova area industriale del Quadrante Europa che, pur appartenendo al complesso di Verona sud, vive in realtà uno sviluppo completamente diverso, anche perché si tratta di una zona che è totalmente industriale senza alcun brano di residenza al suo L’apertura della nuova sede del Quadrante Europa portò, come visto, alla progressiva dismissione dei Magazzini Generali e di molti altri complessi della prima industrializzazione veronese che si trovavano nel compendio della ZAI storica, portando in evidenza il problema delle aree dismesse. L’importanza di queste aree dismesse, come detto, si fece sempre più pesante a partire dagli anni ’70, quando la scelta amministrativa di portare tutti gli attrattori di traffico di tipo industriale al di fuori dei confini cittadini, o per lo meno ai margini, liberò molte delle aree della

prima industrializzazione nel comparto Verona Sud e in particolare nella ZAI storica. Tra giugno e luglio 1988 fu molto aspro il dibattito che si consumò tra le pagine del quotidiano locale. Urbanisti, architetti e responsabili delle circoscrizioni diedero la propria opinione su quello che doveva essere il futuro delle aree dismesse, in particolare di quella dei Magazzini Generali, resasi da poco disponibile ed in una posizione certamente interessante e potenzialmente molto redditizia. La battaglia tra chi voleva più verde per la città, chi avrebbe voluto spostare qui tutti gli attrattori di traffico che stavano nel centro storico e chi raccomandava di usare lo spazio per servizi di quartiere, andò avanti per oltre due mesi con diversi articoli che esponevano opinioni completamente opposte. La prima presa di posizione ufficiale sull’argomento avvenne l’anno successivo con la redazione, da parte dell’Amministrazione, di un Piano di recupero. Approvato con delibera n. 94 nel 1989, il piano fu approntato per risparmiare territorio e compiere una valorizzazione impostata sul riuso degli edifici e dei complessi di pregio ambientale e architettonico provenienti dalle aree dismesse. Il piano di recupero si occupò soprattutto del centro storico, dei nuclei di antica origine nelle frazioni della prima periferia, di corti rurali comprese nel territorio cittadino, di aree che comprendevano manufatti già destinati ad attività industriali e di servizi aventi interesse dal punto di vista dell’archeologia industriale, in particolare le aree di Magazzini Generali e Mercato

Catasto 1937 con evidenziati gli agglomerati di Tomba e Tombetta.

Catasto 1907 con evidenziato il villaggio di Tomba.

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Variante PRG 1975, nella porzione di Verona sud sono evidenziate, in giallo, le zone in via di dismissione

PRG 1958, nella porzione sud si individuano zone industriali in viola e per grandi attrezzature collettive

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Ortofrutticolo. Le idee che scaturirono da questo piano tendevano, tuttavia, a mantenere una certa funzione industriale all’interno delle aree dismesse, non abbracciando del tutto l’idea che queste potessero diventare dei nuovi centri per la comunità. Nel dicembre del 1990, ancora l’Amministrazione comunale, attraverso una collaborazione con la società “Bonifica”, condusse uno “Studio di fattibilità per recupero aree degli ex Magazzini Generali e Mercato Ortofrutticolo”(51) i cui termini principali della ricerca furono: - Trasformazione di Viale del Lavoro in “corso urbano”, previa deviazione del traffico o costruzione di tratti in trincea; - Costruzione di un nuovo fronte misto lungo il corso urbano; - Recupero degli edifici monumentali dei Magazzini Generali; - Costruzione di una “spina centrale” del terziario pubblico con un sistema di piazze collegate a carattere commerciale; Costruzione di un Parco dei Quartieri per dotare di verde pubblico Verona Sud. Lo studio sfociò, tre anni più tardi, in una nuova variante del PRG in cui il futuro della ZAI storica si poneva come nodo determinante nello sviluppo della Verona del nuovo millennio. Decisa con delibera del 22-12-1988 del Consiglio Comunale. Costruzione di un Parco dei Quartieri per dotare di verde pubblico Verona Sud. Lo studio sfociò, tre anni più tardi, in una nuova variante del PRG in cui il futuro della ZAI storica si poneva come nodo determinante nello sviluppo della Verona del nuovo millennio. Decisa con

delibera del 22-12-1988 del Consiglio Comunale di Verona, ma adottata soltanto a partire dal 1993, la varian-

te prevedeva di utilizzare le aree dismesse di Magazzini e Mercato come grande polmone verde della

città, inserendo anche alcuni insediamenti terziari verticali e conservando testimonianze degli edifici esistenti, in particolare della grande cupola della Stazione Frigorifera da usare per attività espositive e botteghe artigiane. Nodo importante in questa variante, fu la messa in evidenza del fatto che parte di queste aree andavano dedicate ai servizi per i quartieri di Verona Sud, in

modo che l’intera area potesse divenire l’anello di congiunzione tra i quartieri, così

vicini ma totalmente separati, di Borgo Roma, S. Lucia e Golosine. Inoltre si prevedeva l’inserimento di attività commerciali, alberghi e shopping center che potessero essere di servizio alla prospiciente Fiera. La Variante cercò di individuare anche i problemi di cui risentivano i vicini quartieri. Le espansioni che si erano fatte fino ad allora erano sempre state realizzate con i canoni dello zoning monofunzionale, costruendo quartieri che mancavano totalmente di servizi alla persona. La variante individuò i principali fattori di qualità urbana per poterli tradurre in interventi da fare nei quartieri meridionali della città. I principali fattori di qualità urbana sono quindi: - Complessità: la coesistenza all’interno di un’area di tutte le funzioni che interes-


CRONOLOGIA PIANI URBANISTICI

sano la comunità urbana; - Integrazione: intesa sia tra funzioni diverse e relativi spazi, sia tra esercizi pubblici e privati; - Delimitazione: la città deve essere delimitata da precisi confini per evitare la disordinata “colata” di edifici ed attività sul territorio che, soprattutto a sud di Verona, vanno a discapito di quell’attività agricola ancora così florida. La mancanza di delimitazione territoriale, inoltre, fornisce scuse e giustificazioni all’abusivismo e al consumo di risorse naturali, cosa non più tollerabile; - Riconoscibilità: percettibilità immediata e di memoria dell’ambiente urbano. La Variante del 1993 è anche la prima in cui si tratta un fattore molto importante per lo sviluppo di Verona Sud. Nel documento si cerca di individuare quali siano le mancanze, in termini di spazi pubblici, nei quartieri meridionali. In particolare ci si concentra sulle funzioni mancanti riscontrabili tipicamente nella città storica: piazza, corso, giardino pubblico, percorso porticato. L’idea della variante è quella di inserire tutte queste funzioni mancanti nei quartieri per passare dall’attuale modello monocentrico, fondato sul primato indiscusso della città storica, a quello policentrico. Per fare ciò è necessario individuare più centri urbani nella periferia consolidata, in quanto nella città di Verona non si sentiva più il bisogno di espansione, visti i fenomeni di migrazione dal centro, quanto piuttosto d’iniziative mirate al miglioramento della qualità urbana, partendo, prima di tutto, dall’area dei Magazzini che si candidava a diventare principale centro della porzione

sud del territorio. Nell’estate del 1997, il Comune, messo sotto pressione dalle costanti richieste dei cittadini dei quartieri a sud, preoccupati per la popolazione che si stava stabilendo all’interno del comparto dei Magazzini Generali, decise di fare qualcosa. Anche il quotidiano locale aveva allora indetto una campagna di stampa contro gli spacciatori e gli immigrati irregolari che avevano occupato gli spazi dei magazzini dismessi. Il Comune decise di fare un primo immediato intervento per porre rimedio al grave stato di degrado che stavano raggiungendo quelle zone, approvando il progetto che prevedeva l’inserimento di un teatro tenda. Purtroppo la situazione non fu sfruttata in modo adeguato poiché per l’occasione non furono recuperati edifici esistenti ma, al contrario, vennero abbattuti due magazzini per far posto al teatro tenda, costruzione assolutamente temporanea che si appoggiava agli edifici esistenti soltanto per le funzioni di deposito.

Proposte di primo intervento per la Variante al PRG del 1993. Per Verona sud di importanza prioritaria è il riordino della viabilità, la tutela dei forti dismessi e il recupero delle zone gravitanti sull’asse Viale delle Nazioni/Lavoro/Piave)

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I piani del Comune di Verona per la Zai il masterplan per il Piano degli Interventi. Verona Sud ATO 4

Il masterplan

Presentato nel giugno 2010 e in seguito anche in occasione dell’evento UrbanPromo a Bologna, si tratta della conclusione momentanea dell’intera vicenda Verona sud e contiene tutti i progetti attualmente in corso di progettazione o di realizzazione per recuperare le aree dismesse dell’ex comparto industriale. I progetti di recupero sono firmati quasi tutti da grandi nomi dell’architettura internazionale, segno che Verona non solo vuole fare qualcosa per la città, ma richiede anche che questa sia vista come esempio europeo di rinascita e affida questo proposito a nomi che possano creare attesa e aspettativa intorno alla restituzione di una importante porzione di città. Nella nuova Verona sud sarà presente un mix di funzioni necessario a ricostruire una sensazione di città che mancava da tempo in questo luogo, diviso secondo i dettami dello zoning in aree industriali e aree residenziali. I nuovi edifici ospiteranno negozi, uffici, residenze, hotel e centri direzionali che costituiranno 100

da una parte un accesso più importante e monumentale a una città patrimonio dell’UNESCO, dall’altra consentiranno alle grandi istituzioni già presenti, come il polo fieristico, di allargare la propria influenza attraverso strutture appropriate su cui appoggiarsi per gli uffici e i servizi, soprattutto di carattere ricettivo. Il masterplan, presentato il 24 giugno 2010, contiene le linee di indirizzo e le condizioni di fattibilità per gli interventi volti a trasformare la ZAI storica, in particolare lungo l’asse Viale delle Nazioni/ Viale del Lavoro/Viale Piave e a riqualificare i quartieri di Santa Lucia, Golosine e Borgo Roma. I criteri presentati, in continuità in parte con le precedenti Amministrazioni, sono quelli che si dovranno attuare per consentire, in tempi brevi, la restituzione di Verona sud ai cittadini, anche perché un’occasione di questo tipo potrà essere molto utile per creare occasioni di interventi economici e quindi generare investimenti ad alto profitto per i grandi istituti finanziari veronesi, oltre a costituire per la città un autentico biglietto da visita per chi giun-

ge a Verona dall’Autostrada, ma anche e soprattutto, migliorare la qualità della vita degli abitanti di quella zona. Le linee guida del masterplan sono state necessarie in quanto, la maggior parte degli interventi a Verona sud, sono in mano a società private, che hanno bisogno di un disegno comune poiché, perdendo di vista l’insieme, si rischia di compromettere il futuro dell’area o perdere comunque una occasione nel ridisegno della città. Attraverso il masterplan sarà quindi possibile armonizzare gli interventi per evitare di realizzare “cattedrali nel deserto”, per creare un contesto complessivo equilibrato, costituito da progetti ambiziosi ma realizzabili, che riqualifichino la ZAI storica. Altra importante occasione è quella di includere nel risanamento anche i quartieri di Borgo Roma, Santa Lucia e Golosine, creando percorsi che siano vivibili in bicicletta, con numerose alberature e vie sicure per i cittadini.

PRUSST Verona Sud


PIANI URBANISTICI IN ATTO

Asse Viale del Lavoro e Green belt, Masterplan ATO 4

Asse dei servizi e Ring Urbano, Masterplan ATO 4

Il Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio promosso dal Comune di Verona, denominato “PRUSST Verona Sud” si inquadra nell’ambito dei Programmi di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio promossi dal Ministero delle Infrastrutture, con l’obiettivo di realizzare, all’interno di organici quadri programmatici, interventi di riqualificazione infrastrutturale, volti alla riqualificazione ed ampliamento del tessuto economico-produttivo-occupazionale, al recupero e alla riqualificazione dell’ambiente, nonchè dei tessuti urbani e sociali degli ambiti territoriali interessati. Con Decreto Ministeriale dell’8 ottobre 1998 n. 1169 , “Promozione di programmi innovativi in ambito urbano denominati Programmi di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio”, è stato dato avvio al procedimento di elaborazione dei programmi citati, con approvazione del bando e delle norme e criteri di selezione e finanziamento degli stessi. A seguito di successivi Decreti e provve101


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

dimenti Ministeriali, l’anzidetto PRUSST Verona Sud è stato positivamente valutato ed ammesso a finanziamento statale. Il programma prevede: 1) la ristrutturazione dell’asse viario dal casello autostradale alla città storica; 2) il potenziamento dei servizi fieristici; 3) il recupero delle areee centrali dismesse; 4) la riconnessione urbanistica dei quartieri residenziali limitrofi, specie quelli al margine con la ZAI storica; 5) il prolungamento della tramvia urbana. Per la sua realizzazione si è quindi formalizzato un accordo quadro a mggio del 2002, tra Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Regione Veneto, Cassa Depositi e Prestiti e Comune di Verona, in attuazione dell’art. 11 del bando sopracitato, che, in particolare, approvando il programma, individua la modalità di progettazione degli interventi pubblici ed approva il quadro finanziario ed il cronoprogramma inerente l’attuazione degli interventi. Nell’ambito di tale accordo quadro è sta102

to nominato responsabile del progetto il Direttore dell’Area Gestione del Territorio del Comune di Verona, in persona dell’Arch. Luciano Marchesini, con funzioni di coordinatore del PRUSST Verona Sud.

1) la realizzazione, l’adeguamento e il completamento di attrezzature, sia a rete che puntuali, di livello territoriale e urbano, in grado di promuovere e di

orientare occasioni di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e sociale, garantendo l’aumento di benessere della collettività.

I PRUSST rappresentano la nuova fase di programmazione e riqualificazione territoriale che nasce dall’esperienza dei programmi In via esemplificativa tali interventi sono di riqualificazione urbana. Essi riconducibili: mettono in connessione, tra loro, diversi “punti focali” di programmazione presenti in un medesimo ambito territoriale, ognuno con la propria dotazione di strumenti normativo-tecnico-finanziari, i quali, seppure finalizzati a propri obiettivi, devono trovare ordine in un organico quadro unitario, atto ad assicurare un governo efficace ed ordinato delle diverse iniziative che concorrono allo sviluppo di uno stesso territorio (si pensi alla presenza di Patti territoriali, Contratti d’area, ecc.). In tale ottica i fondamentali obiettivi dei PRUSST sono:

- al sistema stradale, ferroviario, aeroportuale, portuale, energetico, idrico, delle telecomunicazioni nonché alle opere necessarie per la difesa del suolo; - ai porti, agli aeroporti, agli interporti, agli scambiatori di modalità e alle interconnessioni delle reti con il sistema urbano; - a interventi di rilevanza tale da costituire poli di attrazione quali: sedi di tribunali, strutture ospedaliere, università, centri congressuali, strutture polifunzionali per lo sport, il turismo e il tempo libero, ecc.;


PIANI URBANISTICI IN ATTO

2 Santa Lucia - 11 941 residenti

3 Golosine - 14 828 residenti

5 Borgo Roma (Tombetta-Basso Acquar) 29 204 residenti

i quartieri 1 3

5

2

4 1 Porta Nuova 2 Santa Lucia 3 Golosine 4 Zai

6

7 5 Borgo roma Tombetta 6 Borgo Roma Tomba 7 Borgo Roma Policlinico

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI

2) la realizzazione di un sistema integrato di attività finalizzate all’ampliamento ed alla realizzazione di insediamenti industriali, commerciali e artigianali, alla promozione turistico-ricettiva e alla riquali-

ficazione di zone urbane centrali e periferiche interessate da fenomeni di degrado.

Questi interventi sono riconducibili, in via esemplificativa: - ad opere di urbanizzazione primaria a servizio di aree produttive o di quartieri degradati; - ad opere di urbanizzazione secondaria di livello almeno urbano; - alla realizzazione e riqualificazione

di insediamenti produttivi in grado di promuovere lo sviluppo, l’innovazione e la competitività tra

imprese, anche attraverso la diffusione di nuove tecnologie; - alla realizzazione e recupero di edilizia residenziale al fine di innescare processi di riqualificazione fisica e sociale dell’ambito considerato; - alla gestione di attività no-profit; - al recupero di edifici di rilevante valore storico-artisitico; - allo sviluppo di artigianato tipico; - alla riconversione di complessi

retta e tempestiva esecuzione dell’accordo stesso, si è articolato in un complesso iter amministrativo che ha attivato una serie di procedure amministrative correlate, oltre ad attività di progettazione, finalizzate alla concreta realizzazione del Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio di Verona. Per i quartieri storici di Borgo Roma, Santa Lucia e Golosine, esso si muove su quattro livelli di azione: - La messa a sistema di una serie di interventi legati all’accessibilità e alla circolazione, come premessa per qualsiasi intervento di riqualificazione urbana; - L’organizzazione di un nuovo disegno di rete che, gerarchizzando il ruolo di ogni segmento viario e ridefinendo la maglia dei collegamenti urbani e di connessione interquartiere, consenta di incidere sulle strade connettive locali, liberandole dal traffico di attraversamento e aprendo le strade ad interventi di walkability; - La definizione di precise strategie per la riqualificazione dei tessuti di ZAI storica cresciuti a ridosso dei quartieri residenziali che, nella trasformazione, dovranno essere la fonte che fornirà maggiori servizi ai quartieri vicini, incrementando

no i livelli di fruibilità. Questo potrebbe accadere grazie alla costruzione di nuovi corridoi di connessione con il sistema dei parchi urbani, extraurbani e di cintura, alla messa in rete del sistema delle aree verdi esistenti e previste nei nuovi ambiti di trasformazione, al rafforzamento delle centralità dei quartieri.

Le reali condizioni d’uso dei tessuti della ZAI L’analisi conoscitiva compiuta all’inizio dello studio per la redazione del Masterplan per Verona Sud ha restituito un’immagine molto diversificata e fluida dell’uso del suolo nella ZAI, dove nei macro isolati della città della produzione il processo di trasformazione, all’interno delle maglie normative del Prg vigente, ha portato la ZAI storica a mutare in maniera profonda la propria natura. Le aree e gli edifici della ZAI destinati oggi ad attività industriali e artigianale sono solo una piccola parte del totale. Dagli ultimi rilievi effettuati sembra infatti che solo il 40% del totale com-

prende attività effettivamente classificabili come attività industriali, mentre il 47% circa rientrala quota di dotazioni pubbliche no nella classificazione del comindustriali contraddistinti da par- e realizzando nuove destinazio- mercio e dei pubblici esercizi, il 7% ticolari valenze, con possibilità di ni d’uso qualificanti, in modo da dei trasporti e delle comunicazioni e contribuire a superare l’attuale il 7% del credito, assicurazione, eserdestinarli anche ad altri usi. cizi pubblici e privati. E’ importante evidenziare che il PRUSST monofunzionalità; Verona Sud dall’accordo quadro ad oggi, - Il rafforzamento del sistema delle aree Appare evidente pertanto come la ZAI sotto il controllo del Collegio di Vigilan- pubbliche e del verde, che deve essere or- storica, negli ultimi decenni, sia stata za, costituito al fine di verificare la cor- dito attraverso interventi che ne migliori- investita da un rapido ed intenso pro-

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MASTERPLAN VERONA SUD

cesso riconversione che l’ha portata ad accogliere un sempre maggior numero di attività e funzioni di tipo terziario con crescente addensamento delle edificazioni e con diffusi fenomeni di congestione .e di terziarizzazione, senza che la maglia viaria ed tessuto edilizio si potessero adeguare alle nuove funzioni. A questo proposito si ricorda come, mentre in termini di popolazione Verona concentra il 32% dell’intera provincia, sul versante degli addetti assistiamo ad una polarizzazione sempre maggiore, in particolare per quanto riguarda le attività di servizio (51.6%). Assistiamo cioè ad un rilevante ruolo del terziario della città, di supporto all’area metropolitana e all’intera provincia. Questa evoluzione e la mutazione del sistema delle attività economiche localizzate a Verona Sud non ha determinato soltanto un processo costante di mutazione delle attività e delle pratiche d’uso degli spazi esistenti, ma anche una sostituzione edilizia, con la proposizione di isolati ibridi, sia per varietà tipologica che per funzioni.

Le reali condizioni di uso della ZAI storica sono state così progressivamente caratterizzate dalla presenza di un tessuto con funzioni miste, che nel corso del tempo si sono andati via via a sostituire alle originarie attività produttive: dal commercio all’ingrosso al direzionale, dalla logistica agli uffici.

perimetro tessuto industriale denso

14 km ca.

superficie tessuto indusriale denso

5 km2 ca.

infrastrutture extra-urbane

ferrovia Brennero - Modena ferrovia Torino - Trieste ferrovia Verona - Mantova autostrada Milano - Venezia

viabilità urbana

strade di quartiere strade secondarie

Laddove questa mutazione endogena non si è venuta a realizzare, si sono evi-

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Estratti dal documento del masterplan: il tema dei quartieri

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denziati diffusi fenomeni di sottoutilizzo o di dismissione, che soltanto in parte si sono tradotti in progetti di recupero funzionale e di ristrutturazione urbanistica. Questi fenomeni di sostituzione funzionale hanno determinato la formazione di condizioni di mixitè anche elevata, con numerose attività commerciali, sia al dettaglio che all’ingrosso, e per differenti categorie merceologiche completamente sganciate dalla attività produttive in loco spazi per la logistica e l’autotrasporto, uffici terziari e direzionali. Nuove pratiche d’uso che, quasi mai, si sono accompagnate alla predisposizione preventiva di quelle dotazioni minime finalizzate a rispondere alle nuove domande legate alle nuove attività, come ad esempio aree per la sosta quantomeno a servizio delle utenze o dei lavoratori impiegati nei grandi contenitori per il commercio o nelle torri per uffici. I nuovi insediamenti si sono generalmente realizzati tramite interventi di tipo diretto, di sostituzione, in lotto interstiziali dentro i grandi ambiti a destinazione produttiva preesistenti. In tutta la Zai storica quindi e non soltanto nella parte a ridosso di Viale del Lavoro, sono in atto processi di riconversione delle attività originarie, con l’insediamento di un numero sempre maggiore di attività e di funzioni di tipo terziario e commerciale che, anche se indicano una vitalità del tessuto economico e sociale locale, comportano innegabili effetti negativi. Fra tutti, il crescente addensamento delle edifica totalmente costruito con aspetti morfologici complessivamente accettabili, ed anche con

una rilevante presenza di attività produttive vere e proprie - il cuore della ZAI storica, cioè

agli ambiti di primo insediamento produttivo veronese, purtroppo spesso caratterizzati da rilevante disordine urbanistico-edilizio, da un diffuso frazionamento in piccole unità immobiliari, da una grande varietà di destinazioni d’uso (produttive, commerciali, terziarie ed

anche abitative), da una carenza pressochè totale di servizi primari a verde e parcheggio (sia interni che esterni ai lotti) e, in molti ambiti, anche da superfici coperte sensibilmente superiori a quanto consentito dalle vigenti norme. La proposta di riordino e trasformazione di questa parte di città non può non confrontarsi con queste mutate condizioni d’uso e pertanto confrontarsi con una terza via, tra quella che subordina la riqualificazione delle aree ad un unico intervento di trasformazione urbanistica (quale quello proposto per esempio con la Variante 286) e quella del mantenimento delle attuali condizioni normative, tra le cui maglie passa comunque la riconversione strisciante del tessuto produttivo. La proposta si vuole confrontare con la possibilità di non definire un’unica modalità operativa subordinata all’individuazione di comparti di trasformazione ma, all’interno di una strategia complessiva di riqualificazione urbana, stabilire alcuni obiettivi da raggiungere per ciascuno dei sistemi individuati mo-


MASTERPLAN VERONA SUD

dulandoli in ragione dei diversi gradi di trasformabilità all’interno dei tessuti edilizi. I cluster produttivi di Verona Sud pongono temi di riqualificazione e di riordino urbanistico e ambientale che necessitano uno spettro più ampio di politiche, di programmi e di strumenti di intervento diversificati e coagenti, capaci di restituire nel tempo, in forma continua e dinamica, quegli elementi di complessità e di sostenibilità ambientale, oggi mancanti.

Cose’è l’ATO

Estratti dal documento del masterplan: il tema di viale del lavoro sopra, tema asse dei servizi sotto

L’ATO n. 04 “Città della trasformazione - VR sud” è costituito dalla vasta area, quasi interamente urbanizzata, posta a sud della città, delimitata a nord dal parco ferroviario di Porta Nuova e dall’ansa del fiume Adige in corrispondenza dell’isola del Pestino, ad ovest dalla linea ferroviaria Verona - Bologna, a sud dall’Autostrada A4 Milano - Venezia, mentre ad est i margini sono meno riconoscibili dal punto di vista morfologico, ma, di fatto, si attestano sull’asta di Via Palazzina. Al suo interno comprende due comparti chiaramente distinti, quello centrale della ZAI storica, a funzione prevalentemente produttiva, e quello formato dai quartieri di Santa Lucia, Golosine e Borgo Roma, a forte valenza residenziale, facente parte della città esterna. La maggior parte del territorio dell’ATO n. 04 è inserita nella fascia dell’alta pianura veronese caratterizzata da un substrato prevalentemente ghiaioso che ospita, a partire dalla profondità di qualche decina di metri dalla

superficie, la potente falda libera atesina. Nell’ATO n. 04 quest’ultima è particolarmente esposta al potenziale inquinamento antropico per la presenza del comparto produttivo della ZAI storica, in buona parte privo di collettamento fognario, associata all’elevata permeabilità dei depositi alluvionali che compongono l’acquifero. Non a caso, quindi, la qualità delle acque distribuite ad uso potabile riscontra sistematicamente, pur nei limiti imposti dalla normativa vigente in materia, concentrazioni di inquinanti più elevati rispetto alle altre porzioni del territorio comunale. Nell’ambito sono quattro i campi pozzi ad uso idropotabile: Basso Acquar, Chioda, ZAI e Polidore. La porzione nord - orientale dell’ATO n. 04 ricade all’interno della piana di divagazione a meandri dell’Adige, in corrispondenza della quale la topografia locale si deprime (anche i toponimi ne sono influenzati: è la zona di Basso Acquar) e ancora evidenti sono i paleoalvei e gli alvei parzialmente abbandonati dell’Adige, ai quali si sovrappone il sistema dei canali artificiali (Camuzzoni, Milani e del Consorzio dell’Alto Agro Veronese). Il fiume Adige, dopo aver attraversato la città entro imponenti argini artificiali, scorre qui entro sponde parzialmente naturali che rappresentano, in caso di piena, il primo punto di rotta a valle della città: l’area infatti è contrassegnata da un rischio idraulico classificato, dalla competente Autorità di Bacino, da moderato a molto elevato; la situazione è peraltro aggravata dalla presenza dell’infrastruttura strategica del depuratore “Città di Verona”. Nel complesso l’area in esame è densamente 107


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Concept delle relazioni urbane estratto dal Masterplan del 2011

antropizzata, con residue porzioni rurali interstiziali o sfrangiate verso sud - est; la presenza nella zona sud dell’ATO n. 04 del Forte Azzano e dei resti del Forte Tomba consentono di dare completezza al sistema dell’”anello verde” della città delle aree di ammortizzazione e, nel frattempo, tutelare e valorizzare i manufatti di architettura militare. I comparti residenziali (Santa Lucia, Golosine e Borgo Roma) e produttivo (ZAI storica) che la caratterizzano presentano caratteri insediativi omogenei tipici delle funzioni ai quali sono adibiti.PAT

I comparti residenziali

Lanificio Tiberghien, Verona 1925

108

L’impianto strutturale del quartiere di Santa Lucia si fonda sull’asse di collegamento tra il nucleo storico di Santa Lucia e Viale del Lavoro. Elementi di tessuto più ordinato si possono ritrovare nel quartiere di Golosine e intorno al nucleo storico di Santa Lucia, dove si rileva la presenza dell’edificazione in continuità lungo le strade. La parte sud del quartiere è invece caratterizzata da un rilevante disordine urbanistico, sia del sistema viario sia delle parti edificate e raggiunge livelli più elevati in corrispondenza delle zone PeeP. La struttura del quartiere di Borgo Roma appare piuttosto disomogenea. La parte nord è caratterizzata da un impianto viario regolare impostato su un disegno a maglia, dove maggiormente è intervenuto il disegno dell’espansione del Piano Marconi del ’57. Più a sud troviamo una struttura forte, ma più disordinata, lungo la spina storica del quartie-

re Tomba e mancanza di struttura urbana e deboli pesi insediativi nella zona PeeP. Il comparto produttivo La prima edificazione del comparto produttivo avviene invece nei primi anni del secolo, quando, per la posizione privilegiata data la vicinanza ai nuovi impianti della stazione ferroviaria di Porta Nuova, sorgono i Magazzini Generali e la Manifattura Tabacchi. Abbiamo visto che nel primo dopoguerra è istituita, con Dgl 579/48, la Zona Agricolo-Industriale, cui seguono i trasferimenti dal centro, della Fiera, Foro Boario e Macello. I successivi PRG del 1957 e del 1975 sanciscono definitivamente la direttrice di sviluppo produttivo della città nella zona sud. Negli ultimi decenni la principale destinazione funzionale prevalentemente produttiva è stata parzialmente sostituita da funzioni commerciali e di servizio. L’avvio di un più ampio processo di trasformazione della zona di Verona sud, colto come obiettivo principale di riqualificazione urbana ed economico funzionale anche dal PAT, ha avuto inizio con la programmazione degli interventi del PRUSST. La trasformazione delle aree industriali sarà subordinata alla verifica della compatibilità della qualità dei suoli, visto che le pregresse attività industriali aumentano il rischio di presenza di aree contaminate da bonificare. Nell’ATO n. 04 è inoltre presente la più grande struttura ospedaliera cittadina con le annesse Facoltà Scientifiche, oggi raggiungibili da deboli accessi, pur costituendo forti attrattori di traffico. Relativamente alle aree riservate ai servizi la dotazione attuale risulta parzialmente carente nel settore dell’istruzione pubbli-


MASTERPLAN VERONA SUD

ca Decisamente carenti i settori dei parcheggi e del verde, soprattutto nelle parti di più antica formazione dei quartieri. Già il PRUSST prevede la creazione di un vasto parco posto a congiunzione tra l’area a destinazione terziaria e il quartiere di Tomba. L’ATO n. 04 presenta un fragile sistema viabilistico: a fronte di sette strade radiali di penetrazione urbana (per Villafranca, Vr sud, Vigasio, Isola della Scala, Legnago, San Giovanni Lupatoto), il collegamento con il centro storico e la parte urbanizzata a nord è fortemente impedita dal parco ferroviario; gli unici tre varchi (via Albere, Viale del Lavoro, Basso Acquar) assumono valore strategico e diventano nodi critici del funzionamento della circolazione, spesso interessata da problematiche di congestione con le conseguenti ricadute ambientali negative. Viale del Lavoro inoltre svolge funzione di raccolta della viabilità radiale e di attraversamento della zona sud. Completano il quadro della viabilità, la presenza dell’Autostrada A4 con il casello di Verona Sud e la complanare con uscita Borgo Roma A nord ed ad ovest sono presenti le infrastrutture ferroviarie della stazione di Porta Nuova e la linea ferroviaria Verona - Bologna. Per quanto riguarda la presenza di impianti tecnologici, nell’ATO n. 04 sono presenti: il depuratore dei reflui urbani “Città di Verona”, al cui interno è ubicata una centrale di produzione elettrica di recupero, l’ecocentro di AMIA S.p.A., il servizio di teleriscaldamento per il quartiere di Santa Lucia, due centrali di trasformazione elettrica AT / MT in area ZAI storica al confine con il quartiere di Golosine, al quale afferiscono alcuni elettrodotti ad alta tensione.

Definizione della mappa delle un rischio di contaminazione della falda libera atesina. Viene rilevato un ambito criticità

a particolare rischio idraulico, ad est di Il collegamento con il centro storico e Basso Acquar. la parte urbanizzata a nord è fortemente impedito dal parco ferroviario. I pochi punti di collegamento assumono valo- Individuazione delle politiche re strategico e diventano nodi critici del e strategie del PAT funzionamento della circolazione. La parte sud dell’ambito è caratterizzata da Il Piano: - individua nell’area di Verona un rilevante disordine urbanistico, sia sud l’obiettivo principale di riqualificadel sistema viario sia delle parti edifica- zione urbana ed economico-funzionale. te e raggiunge livelli più elevati in cor- Il cuore dell’area di riqualificazione e rispondenza delle zone Peep. Nell’ATO riconversione è dato dagli isolati che si è presente anche la più grande struttu- attestano lungo Viale delle Nazioni, Viara ospedaliera cittadina con le annesse le del Lavoro, Viale Piave, indicati come Facoltà Scientifiche, oggi raggiungibili Cardo Massimo dal PAQE, oggi dismesda deboli accessi, pur costituendo forti si o in via di dismissione. La progetattrattori di traffico. E’ presente la fiera, tazione dovrà però essere estesa che si caratterizza per la distribuzione iranche alle aree retrostanti, sopratregolare dei flussi e per la concentrazione degli stessi in determinati picchi. E’ tutto ad est, sulle quali sono prepresente il depuratore del Basso Acquar. visti interventi che favoriscano la E’ presente la centrale elettrica, in zona saldatura con il quartiere di Borgo Santa Lucia. Le aree da trasformare ne- Roma dando corpo all’integraziocessitano di bonifiche molto consistenti. ne delle due parti di città. La trasforIl sistema infrastrutturale è da rivedere mazione dovrà condurre alla costruzione in relazione al nuovo assetto insediativo di una nuova parte di città, residenziale, (ripolarizzazioni). La dotazione attuale di terziaria e dei servizi; - individua l’area servizi risulta piuttosto carente. L’ambidell’ex scalo ferroviario, delle ex Cartieto risulta evidentemente sottodotato di re di Verona e del PRUSST, quali ambiti reti fognarie: un’ampia fascia territoriale territoriali entro i quali le trasformazioni risulta scaricare direttamente al suolo. La edilizio urbanistiche previste comporpresenza del casello di Verona Sud ritano una radicale trasformazione delle sulta particolarmente problematica per i aree, sia dal punto di vista degli usi, sia flussi generati e per l’assetto urbanistico del sistema insediativo, sia nel rapporto complessivo dell’area. Pare auspicabile il con i sistemi di mobilità, sia con i livelli di ripensamento complessivo dell’accesso infrastrutturazione ecologica, prevedenall’autostrada, attraverso un’ipotesi di do la conservazione di edifici e complessi ribaltamento del casello. Viene rilevato 109


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

sistema di ingressi e uscite di sicurezza separate, ognuna di esse doveva essere indipendente dall’altra. In questo modo la struttura sarebbe dovuta essere utilizzabile quasi 24 ore al giorno ospitando al suo interno diversi eventi contemporaneamente. La volontà di creare una ricucitura, attraverso l’area dei Magazzini Generali, da una parte tra i quartieri posti alle estremità della ZAI storica, dall’altra tra il centro storico e la “città” separata di Verona sud, credo che in questo progetto fallisca. Il fatto di non prestare attenzione alla carenza di servizi più volte dimostrata e analizzata per i quartieri vicini sembra che voglia cancellare quasi trent’anni di analisi, proposte, concorsi che si sono avvicendati sull’area. Il rischio già citato anche dagli stessi creatori del masterplan e dagli assessori comunali che più volte si sono esposti sulla questione, è quello di creare grandi opere architettoniche, spesso a nome e su disegno di eccellenti nomi dell’architettura internazionale, che rappresentano grandi mosse commerciali, ma che tengono poco conto di quelle che sono le effettive necessità della popolazione che abita e vive quelle aree, perdendo una grande occasione di costruire un nuovo importante pezzo di città. Sono passati ormai tredici anni dall’affidamento del progetto allo Studio Botta da parte del Comune. In primo tempo era stato affidato all’architetto l’intero comparto dei Magazzini, salvo poi ridurre la commessa al solo edificio della Rotonda, cosa che, a mio avviso ha fatto perdere coesione nel progetto e non ha permesso di costruire un disegno pensa110

to non solo per la città e il prestigio della stessa, ma anche per i quartieri, i principali protagonisti della vicenda, che con questa trasformazione, dovrebbero riuscire ad avere tutti quei servizi che finora sono mancati. La partita su Verona sud è ancora apertissima e ancor più lo è quella sui Magazzini Generali. La speranza è che questa volta si riesca a mettere un punto e un lieto fine a questa vicenda che si sta protraendo dagli anni ‘80, in modo che Verona possa finalmente avere il suo secondo, grande, centro città. Purtroppo la maggior parte dei progetti che vedono come obiettivo un miglioramento della qualità di vita dei cittadini veronesi, sono stati abbandonati a favore dell’interesse privato che mira prevalentemente ad un ritorno economico senza creare effettivi benefici sull’urbanità e sulla popolazione residente. La vicenda della rotonda, per esempio, vede lo sviluppo di un progetto d’investimento privato, Eataly, incapace (e non volente) di generare una migliore qualità del tessuto urbano in quest’area di cerniera e, allo stesso tempo, di cesura tra i due quartieri residenziali.

Tessuto prevalentemente residenziale campi sportivi aree a verde pubblico servizi scolastici aree religiose servizi ospedalieri aree a parcheggio centri commerciali artigianale di servizio servizi del terziario commerciale manufatti dell’agroindustriale logistica e magazzini manufatti industriali servizi ricettivi aree dismesse aree potenzialmente edificabili fermate servizio trasporto pubblico


IL MIX FUNZIONALE IN ZAI

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Turbina in Basso Acquar, 1934

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di edifici ritenuti espressivi dei caratteri storico documentali del luogo; - prevede la dismissione di un fascio consistente di binari allo scopo di ricavare spazi per la residenza ed un’area da destinare a parco urbano; - prevede il ribaltamento del casello autostradale di Verona Sud, consentendo all’intera area a nord del casello di alleggerirsi dai flussi di accesso all’autostrada e di riorganizzarne l’assetto urbanistico complessivo; - prevede la realizzazione dell’asse viario denominato Mediana, in grado di migliorare l’accessibilità all’area; prevede la realizzazione di un sistema di TRM, da collegare strettamente ai processi di trasformazione urbana previsti nell’area; - indirizza gli interventi sulla viabilità alla riqualificazione dell’asse portante, dal casello a Porta Nuova, quale asse urbano, compresa l’infrastrutturazione con un sistema di trasporto pubblico, nonché alla riorganizzazione, in senso ovest/est, dell’asse Via Po, Viale dell’Industria, Via Polveriera, Via Fermi, Via Gioia, Via Pasteur; - prevede l’aumento degli svincoli di connessione con la Complanare, per assicurare una maggiore permeabilità e accesso a tutta l’area sud, al fine di migliorare l’accessibilità all’Ospedale Policlinico e alle aree a servizi circostanti; - prevede un utilizzo a parco a servizio del quartiere di Borgo Roma di proprietà pubblica. La presenza nella zona sud della ATO del Forte Azzano e dei resti del Forte Tomba consentono di dare completezza al sistema dell’”anello verde” della città e, nel frattempo, di tutelare e valorizzare i

manufatti di architettura militare; - individua, attraverso il P.I., un sistema di aree a verde per incrementare la dotazione dei quartieri residenziali ma anche per creare degli spazi che siano contemporaneamente filtro tra le diverse destinazioni dell’ambito e occasione di ricucitura delle parti, così come previsto anche all’interno del PRUSST; - predispone, attraverso il P.I., norme specifiche per l’istituzione del principio di “compensazione urbanistica”, soprattutto in relazione alla realizzazione del parco previsto in Borgo Roma; - lega le opportunità di ampliamento dell’impianto di depurazione presente nell’ambito alla realizzazione di uno specifico studio di fattibilità, riferito in particolare alle problematiche di natura idrogeologica caratteristiche dell’area; - riconosce i luoghi centrali urba-

ni quali luoghi di riferimento per il recupero e la rivalutazione della città esistente. Per l’ATO in questione

lo studio è stato particolarmente approfondito e si rimanda al Quadro Conoscitivo ove è riportato il repertorio delle centralità individuate. Il P.I. dovrà approfondire lo studio di tali ambiti e precisarne il grado di trasformabilità e di riconfigurazione.

La città della fiera La presenza della Fiera di Verona in questo settore della città pone questioni rilevanti in termini di fruizione, accessibilità e sosta, generando un pesante impatto sul sistema del traffico, soprattutto nei


MASTERPLAN VERONA SUD

Sopra: fiera cavalli in un’illustrazione del 1927; sotto: la fiera agricola, foto scattata in viale del lavoro ad inizio anni ‘70

quartieri adiacenti. Attualmente il sistema della sosta di visitatori ed espositori si riversa in modo diffuso su gran parte di questo settore provocando disagi e malumori tra i cittadini. La riqualificazione di Verona Sud non può quindi prescindere da questo tema; il Masterplan individua così alcune possibili strategie che, attraverso l’attuazione e le risorse generate dalle trasformazioni previste, potrebbero razionalizzare e migliorare l’effetto di tali attività. Il ribaltamento del casello autostradale di VR SUD associato alla realizzazione di un parcheggio di interscambio modale con il sistema di trasporto pubblico privilegiato strettamente correlato con le grandi trasformazioni dell’asse, assieme con le potenzialità del sistema ex Mercato Ortofrutticolo-ex Magazzini Generali, porterebbe ad un concentramento delle aree di sosta oltreché ad un minor afflusso di traffico sia verso la città in generale che, in particolare, verso i quartieri, diminuendo o addirittura, attraverso interventi e politiche di riqualificazione

locale, eliminando gli effetti negativi di flussi impropri sulla viabilità dei quartieri stessi.

Ex magazzini generali e mercato ortofrutticolo

rale (ex Magazzini Generali), già oggetto di un PRUSST. Tale aree risultano infatti strategiche e rivestono un ruolo importante per la riqualificazione di Verona Sud ed in particolare dell’asse di Viale del Lavoro. Risulta infatti fondamentale il rapporto di contiguità, anche funzionale, rispetto alla Fiera di Verona. I temi affrontati sono stati soprattutto quelli relativi alla sosta e all’accessibilità specializzata rispetto ai grandi eventi che annualmente vengono ospitati (questione che ha importanti ricadute sulla qualità dei quartieri limitrofi), ma anche quelli relativi alla ricettività e alla fruibilità e qualità degli spazi aperti. In questa ottica si inquadra la soluzione proposta che prevede, con l’interramento della viabilità privata di Viale del lavoro, la possibilità di creare una grande piazza che valorizzi e riqualifichi l’ingresso alle strutture fieristiche oltre a relazionare maggiormente queste due parti di città che più caratterizzano Verona Sud. Temi e potenzialità dll’area: - Funzioni di eccellenza: possibilità di insediare quantità commerciali e ricettive integrate - Spazi aperti: integrazione e continuità tra la Fiera ed il Polo culturale e il sistema del verde pubblico previsto dal PRUSST. - Accessibilità e sosta: parcheggi specializzati a rotazione per gli eventi in forte relazione con il sistema del trasporto pubblico.

Nell’ambito di questo Masterplan una fase del lavoro si è occupata delle aree dell’ex Mercato Ortofrutticolo e del Polo Cultu-

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I quartieri di Verona Sud possibilità e debolezze

Per compiere un’analisi che sia il più possibile profonda e completa ai fini della redazione di questa tesi, è necessario comprendere la varietà e la complessità delle realtà presenti all’interno della città di Verona. Verona è senza dubbio una città di cultura, che ospita manifestazioni riconosciute a livello internazionale come il Festival lirico che si tiene all’Arena, ma questa peculiarità si distingue anche grazie a Castelvecchio, alla fiera VeronaArt che vede aumentare ogni anno i propri visitatori e al Festival di balletto e musica jazz che si tiene ogni anno presso il Teatro Romano. E’ una città turistica tra le prime in Italia, privilegio dovuto anche alla vicinanza e alla forte connessione con il Lago di Garda, ma soprattutto grazie alla quantità di monumenti e opere lasciate da ogni epoca, come se ogni generazione avesse voluto donare alle future un segno della peculiarità di ogni pezzo di storia della città. E’ una città produttiva, le cui aziende, soprattutto in campo agroalimentare, possono competere senza timore tra le migliori d’Europa. E’ una città fieristica e 114

di commercio, la cui Fiera è al terzo posto per qualità di manifestazioni e capienza dopo quelle di Milano e Bari. E’ infine una città crocevia, come già più volte menzionato, posta geograficamente al centro di uno snodo ferroviario e stradale che collega da una parte Lisbona a Kiev attraverso il corridoio europeo numero 5, dall’altra Napoli a Berlino tramite il secondo corridoio che collega l’Italia a tutta l’Europa settentrionale. Un progetto di riqualificazione dei Magazzini EVA, non può esimersi dall’affrontare anche la questione di Verona Sud, costituita dalla vasta area, quasi interamente urbanizzata, posta nella porzione meridionale della città, delimitata da due infrastrutture viarie che la collegano da una parte all’autostrada e dall’altra al quartiere di Borgo Roma fino a quello delle Golosine e vicina al parco Santa Teresa mettendola in connessione con gli ex Magazzini Generali. Ad est, il quartiere di Borgo Roma - Palazzina. Questa porzione di città, identificata fin dal secondo Dopoguerra come la principale direttrice di sviluppo per Verona, contie-

ne tuttavia al suo interno realtà differenti, distinguendo in particolare due comparti con funzioni ben distinte: quello a funzione prevalentemente produttiva della ZAI storica e quello residenziale dei quartieri che si pongono ai lati della Zona Agricolo - industriale. Va notato inoltre come l’area sia totalmente priva di un centro in grado di attribuirle quei componenti urbani fondamentali alla vita comunitaria. Del complesso Verona Sud fanno, infatti, parte due circoscrizioni: la numero 4 con i quartieri di Santa Lucia e Golosine e la numero 5 della quale fa parte il quartiere di Borgo Roma. L’urbanistica fino ad ora ha compiuto sempre piccoli passi fondati su progetti puntuali riferiti all’uno o all’altro quartiere, e solo negli ultimi anni ci si è resi conto che una riqualificazione definitiva del comparto Verona Sud può essere compiuta soltanto attraverso un progetto unitario che riesca comunque a tener conto delle differenze tra quartieri. Al momento la difficoltà maggiore sta anche nel fatto che i quartieri Santa Lucia, Golosine e Borgo Roma, sono separati


I QUARTIERI DI VERONA SUD

Il comparto di Verona sud sopra; nell’immagine sotto il quartiere di Borgo Roma

tra loro dalla porzione della ZAI Storica a sud e dalle aree dismesse di Magazzini Generali e Mercato Ortofrutticolo a nord. Un secondo livello di separazione, ancora più importante, è quello che esiste tra tutto il comparto Verona sud e la città storica racchiusa tra ansa del fiume e mura. Le due realtà sono fortemente separate da un fascio infrastrutturale largo 1 km contenente in particolare le linee ferroviarie e che ha pochissimi punti di penetrazione e scambio tra l’una e l’altra “città”. Su queste due importanti separazioni, potrebbe avere un ruolo fondamentale la trasformazione dei Magazzini Generali e del Mercato Ortofrutticolo, poiché potrebbe rivestire un compito di ricucitura dei due quartieri che, al momento, sono divisi da questa grande struttura e dall’intera area della ZAI storica. Più volte si è parlato, nel corso della trattazione, dell’importanza strategica che ha Verona sud per lo sviluppo futuro dell’intera città e di quanto la carenza di servizi e la completa divisione di questa micro-città da quella storica, abbia risvolti negativi.

Il metodo per risolvere questi problemi potrebbe stare interamente nel futuro dei Magazzini e, per questo motivo, un’analisi urbanistica dei quartieri maggiormente colpiti e dell’intero comparto Verona sud potrebbe essere utile nell’ottica di uno studio volto a fornire maggiori informazioni per la riqualificazione dell’area.

Borgo Roma Il quartiere posto a est della zona dei Magazzini Generali, porta il nome di Borgo Roma, toponimo relativamente recente rispetto ai nomi originali dei luoghi in questione. Il quartiere, che attualmente conta 29 000 abitanti e si attesta come il più popoloso tra quelli della città di Verona, rappresenta, infatti, un’unione tra i due piccoli borghi, un tempo separati di Tomba e Tombetta. All’interno dei due piccoli rioni si era stabilita una popolazione con caratteristiche precise e ben distinte. Il villaggio di Tomba era abitato principalmente da contadini, mentre quello di Tombetta era la casa di pescato115


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Sopra: tessuto urbano nel quartiere di Borgo Roma, porzione a nord; sotto: porzione a sud

ri e artigiani, fino alla disastrosa alluvione del 1882 che spostò l’alveo del fiume verso il centro città e tolse lavoro agli abitanti del villaggio. Il quartiere si è quindi accresciuto a partire da questi due centri, arrivando a saturare le zone di espansione previste dal piano di ricostruzione di Marconi del 1946, poi tradotto in PRG nel 1957. La struttura del quartiere appare piuttosto disomogenea, caratterizzata da un impianto viario regolare impostato su un disegno a maglia nella parte nord, risultato del disegno del PRG precedentemente citato. La tipologia adottata per le zone più consolidate è quella a blocco con edificazione di tre o quattro piani. In più casi si registrano comunque sostituzioni tipologiche atte, nella quasi totalità dei casi, ad effettuare un aumento di cubatura. A sud sitrova invece un impianto ugualmente forte ma notevolmente più disordinato lungo la spina storica del quartiere di Tomba, mentre le porzioni insediative nella zona PeeP risultano totalmente mancanti di struttura urbana e caratterizzati da una viabilità caotica. All’interno del quartiere di Borgo Roma si trovano poi dei centri molto importanti per l’intero comune di Verona che, pur rappresentando delle grosse potenzialità, hanno anche aspetti negativi che vanno sicuramente valutati. La presenza nel quartiere, a breve distanza gli uni dagli altri, di un grande Polo Ospedalie-

ro, del centro Universitario per le materie scientifiche, del quartiere fieristico e della zona industriale, fa si che questi forti attrattori di traffico congestionino la viabilità 116

praticamente ad ogni ora del giorno, rendendo il passaggio ciclopedonale

subordinato rispetto a quello automobilistico. La distanza che separa il quartiere dal centro storico viene accentuata da questa congestione e i 2 km che lo

separano dal centro città risultano insormontabili per una persona in bicicletta o a piedi.

La sensazione di grande separazione è accentuata ancora di più dalla fascia infrastrutturale che separa Borgo Roma dalla città storica. Questi km sono, infatti, costituiti dalla direttrice Viale del Lavoro/Viale Piave, caratterizzata da traffico veloce proveniente dai comuni a sud di Verona; dal Canale Camuzzoni e dalla Linea Ferroviaria che, pur passando su un viadotto sopraelevato, non costituisce comunque un facile superamento per il traffico ciclopedonale. L’assenza di piste ciclabili che colleghi la città-satellite di Verona sud a quella principale, è uno dei problemi che potrebbero essere risolti anche con la riqualificazione della zona dei Magazzini Generali. Altra possibile

divisione interna al quartiere è costituita dalla presenza del Canale industriale, che attraversa il quartiere

operando una divisione netta nella zona sud-est. “Il collegamento tra le parti è supportato, nella parte alta più densamente urbanizzata, dalle strade principali di uscita da Verona, mentre a sud risiede nei collegamenti a scala minore della viabilità residenziale. Il canale quindi, pur rilevandosi come forte discontinuità nell’edificato, non operauna divisione


I QUARTIERI DI VERONA SUD

forte dal punto di vista funzionale” . 1

Santa Lucia e Golosine A ovest dei Magazzini si trova invece il secondo quartiere che fa parte della cosiddetta Verona sud, formato da due realtà distinte: Santa Lucia e Golosine. Il primo ha origini piuttosto antiche e in passato, l’originario centro abitato, sorgeva a circa un miglio dal Bastione di Santo Spirito. Nel XVI secolo la popolazione fu costretta a migrare oltre il ciglione, in seguito al decreto del Senato Veneto che decise di costituire la “spianata” per motivi militari e che costituirà un vuoto nella morfologia di Verona che si manterrà intatto fino al XX secolo. L’attuale quartiere è formato da abitazioni inframmezzate da edifici di carattere produttivo costruiti prevalentemente tra gli anni ’60 e ’70. Il quartiere è diviso dalla città storica dalla linea della ferrovia che recentemente è stata acquisita dalla Circoscrizione in comodato d’uso gratuito dalle Ferrovie. L’area lungo i binari è stata riqualificata e trasformata in un percorso ciclopedonale illuminato che da Via Torricelli a Via Carlo Alberto Dalla Chiesa collega i quartieri di Santa Lucia e Golosine con Stradone Santa Lucia e poi con il centro storico. Del quartiere Santa Lucia fa parte anche il Quadrante Europa che contiene gli attuali Magazzini Generali ed il Mercato Ortofrutticolo dopo la dismissione di quelli oggetto di questo studio. Nel 2005, in località Dogana, è stato realizzato il Parco Quadrante Europa, nell’area dell’ex cava Moreschi.

Il parco contiene al proprio interno un laghetto, tre anelli concentrici di piste ciclopedonali e una superficie preposta alla piantumazione di 10 000 mq sui 63 000 mq totali. Un percorso ciclopedonale collega inoltre il parco con il quartiere attraverso Via Sommacampagna. Pur presentando un indice di servizi sicuramente maggiore rispetto a quello del vicino quartiere di Borgo Roma, la quantità non è ancora sufficiente se confrontata con la media cittadina o con altri quartieri posti soprattutto a nord del centro storico. Il principale proble-

Sopra: ambito del quartiere di Santa Lucia; sotto: il quartiere delle Golosine

ma che si percepisce nel quartiere è dato soprattutto dalla presenza di traffico pesante proveniente o diretto verso la zona del Quadrante Europa che, pur costituendo

una grande risorsa per la città, presenta anche diversi problemi legati soprattutto alla viabilità. A parte questo il quartiere di Santa Lucia presenta soltanto problemi di riordino e riqualificazione funzionale soprattutto lungo le zone poste su Via Mantovana. Il collegamento tra questo quartiere e quello di Borgo Roma avviene attraverso le Vie Po, dell’Industria e della Polveriera, su cui si affacciano molte aree libere, che potrebbero diventare un luogo di aggregazione attraverso un sistema di verde pubblico tale da formare un vero e proprio Parco Urbano. La seconda realtà della zona a ovest dei Magazzini Generali è il quartiere delle Golosine, diviso dal quartiere Santa Lucia dall’ex asse ferroviario ora riqualifica117


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

to. Questa seconda realtà è decisamente più recente rispetto alla prima, basti contare che fino al 1919 all’interno dell’area si contavano soltanto 83 abitazioni. Dal 1919 al 1945 se ne sono aggiunte altre 233 e in seguito vi furono vari interventi da parte dell’Amministrazione che hanno portato il quartiere all’attuale conformazione demografica. Il quartiere si presenta come il più destrutturato rispetto alle realtà appena descritte, poiché formato da nuclei con caratteristiche edilizie totalmente diverse a seconda della disposizione degli stessi a sud o a nord di Via Po. Verso nord si ritrovano elementi di tessuto più ordinato, rilevando la presenza di edificazione in continuità lungo le strade storiche, cosa che si ritrova anche nel nucleo più antico di Santa Lucia.

La parte sud del quartiere è invece caratterizzata da un rilevante disordine urbanistico, sia del sistema

viario sia delle parti edificate. Questo raggiunge livelli più elevati, ancora una volta, in corrispondenza delle zone PeeP, dove, l’adozione di tipologia edilizie in completa indifferenza alla struttura viaria ed al contesto in cui si inseriscono, contribuisce a definire un intorno privo

to che possa definitivamente riqualificare l’area di Verona Sud, deve mantenere una visione unitaria dell’insieme e operare attraverso di essa. Si ritiene dunque necessario individuare, all’interno del comparto, dei macrofenomeni che interessano tutta l’area e che possano essere d’aiuto nella definizione delle direttive principali da adottare nella redazione di un progetto per l’area dei Magazzini EVA (e non solo). Primo macrofenomeno da analizzare e che interessa l’intera area è quello del traffico, soprattutto veicolare privato, che interessa in particolare la zona di Borgo Roma. E’ necessario evidenziare prima di tutto un fenomeno già accennato che sta interessando la città di Verona ormai da diversi decenni, cioè il fatto che la città veda diminuire sempre di più la popolazione interna a vantaggio di quella dei nuclei periferici che va invece aumentando. Il fatto che le maggiori attività produttive si mantengano nella città consolidata, in particolare nell’area di Verona sud, fa capire come la massa in mobilità da

e per la città ogni giorno sia da considerare come elemento fondamentale nell’analisi urbanistica.

La città passa da poco meno di 265 000 abitanti di notte a oltre 400 000 di giorno, con conseguenze su traffico e inquinamento che sono facilmente immaginabili. La città poi, fino a pochi anni fa, è creMacrofenomeni d’area sciuta con l’equazione sviluppo = espanEffettuata l’analisi dei singoli quartieri, si sione sul territorio, tanto che si è giunti a parlare dell’ipotetica città di VEMA, deve tener conto di quello che è stato detto prima, cioè del fatto che un proget- formata da tutto il territorio pianeggiante, un tempo occupato solo da campa-

di qualità urbana.

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gna e oggi quasi totalmente urbanizzato, che si trova tra la città veneta e la vicina Mantova. Questo fenomeno si è verificato soprattutto nella zona sud, visto che la presenza delle colline a nord ha notevolmente fermato la crescita urbana in quella porzione di città, mantenendo livelli di traffico e di accessibilità sicuramente migliori. Il problema maggiore per quanto riguarda il traffico veicolare nella porzione sud del territorio, sta nel fatto che i punti di accessibilità al centro storico sono piuttosto scarsi e si attestano quasi tutti su poche vie che, di conseguenza, sono spesso congestionate. In particolare la maglia viaria di Verona Sud è composta da sette sottosistemi radiali di penetrazione urbana provenienti ognuno dai diversi comuni della fascia periferica (Villafranca, Castel d’Azzano, Buttapietra, San Giovanni Lupatoto, Legnago). Tutti questi sottosistemi gravitano intorno a due strade che convogliano l’intero traffico veicolare della porzione sud del territorio. Stradone Santa Lucia ad ovest e l’asse Viale delle Nazioni/Viale del Lavoro/ Viale Piave a est, sono, infatti, le uniche due penetrazioni che sottopassano la ferrovia e permettono di superare il grande fascio infrastrutturale che divide Verona sud dalla città storica. Soprattutto il secondo raccoglie la maggior parte dei veicoli, giacché l’ultimo tratto, che si attesta su Viale Piave, convoglia anche il traffico veicolare di Stradone Santa Lucia, arrivando ad una portata che supera gli 8000 veicoli/ora anche in orari non di punta. L’evidente inadeguatezza del sistema viario del comparto Verona Sud deriva


I QUARTIERI DI VERONA SUD

Verona, quartiere Tomba (sopra) e Tombetta (sotto) in due foto di Verona, quartiere Tombetta ieri (sopra) e oggi (sotto) in via scuinizio ‘900 derlando

anche dalla funzione per cui esso è nato. Le notevoli dimensioni degli isolati, pensati alla loro origine per ospitare attività industriali, non riescono ad accogliere in modo adeguato la funzione residenziale e i conseguenti flussi di traffico che da essa si sviluppano. Inoltre, da un’indagine condotta per la redazione del Piano di Assetto del Territorio circa l’incidentalità stradale del Comune, la zona di Verona sud è risultata altamente pericolosa per quanto riguarda i frequenti incidenti stradali. In particolare le vie più problematiche risultano essere Viale del Lavoro/Viale Piave ai cui incroci si trovano le vie con il maggior numero di incidenti mortali, Via Centro e Stradone Santa Lucia, in particolare l’ultimo tratto, caratterizzati da una frequenza di sinistri pari a 40 incidenti per incrocio nel periodo 19992003. Altro macrofenomeno riscontrabile nell’intera area è la carenza di verde

pubblico.

Questo fenomeno, in realtà applicabile anche ad altre porzioni di città, è stato parzialmente risolto nel 2009 con l’apertura di Parco San Giacomo nel quartiere di Borgo Roma, anche se ad oggi nello stesso quartiere si riscontra una carenza di verde a standard minimo di circa 300 000 mq. Guardando una mappatura dellearee verdi del Comune effettuata sempre per la redazione del Piano di Assetto del Territorio, si nota che al posto di Verona Sud si trova un grande “buco” bianco che evidenzia la totale assenza di dotazione a verde pubblico di quella porzione di città. La maggior parte del verde, 119


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

soprattutto di quello sportivo, pur non essendo assolutamente sufficiente per una popolazione come quella di Verona Sud che si attesta sulle 100 000 unità, è privato e la popolazione per accedervi ha bisogno di pagare biglietti d’ingresso che non invogliano certo ad utilizzarlo e che comunque non portano vantaggio ai minimi di standard urbanistici previsti. Nota 1: op. cit. “Urbanistica Quaderni”, anno XIII n. 48, aprile 2007, Comune di Verona. Piano di assetto del territorio, supplemento a “Urbanistica” n. 131, p. 33. Sopra: tessuto urbano nel quartiere di Santa Lucia, porzione a nord; sotto, porzione a sud

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Criticità All’interno dell’area oggetto dell’indagine sono presenti luoghi o attività che rappresentano un punto negativo o positivo ai fini dell’indagine che si sta compiendo. Lo scopo di questa breve trattazione è quello di individuare questi fenomeni critici in modo che possano diventare punti di partenza per una progettazione futura dei luoghi. E’ inoltre possibile individuare delle potenzialità già espresse alla massima potenza o ancora latenti ed è importante, per queste, conservare nella progettazione i fattori che ne hanno permesso lo sviluppo o inserire elementi che possano permettere a quelle latenti di ottenere una piena maturazione. E’ chiaro, infatti, come delle potenzialità non opportunamente sfruttate possano facilmente diventare dei punti critici, o come degli elementi possano avere aspetti diversi che li inseriscano nell’una o nell’altra categoria. Tra i principali aspetti negativi riscontrabili nell’area possiamo annoverare sicuramente il sistema della mobilità presente nel comparto Verona Sud che abbiamo appena analizzato. In

particolare i fattori che lo rendono critico sono: - la predominanza di Viale del Lavoro rispetto alle altre strade presenti sul territorio che, rendendolo l’unico asse di penetrazione verso il centro storico, lo pongono anche come principale centro attrattore di traffico e di congestione veicolare; - la presenza del parco ferroviario da una parte e del sistema autostradalendall’altra che chiudono Verona Sud, rispettivamente nella parte settentrionale e meridionale, rendendo impraticabili i pochi punti di accesso che permettono di superare queste due grandi infrastrutture; - l’età ormai superata della rete stradale. Gli interventi sulla rete viabilistica nei quartieri a sud sono stati fatti durante il periodo di espansione negli anni ’50 e ’60 e sono rimasti praticamente inalterati. La grande incidentalità che si può verificare su queste strade e a cui si è accennato precedentemente, è data soprattutto dai frequenti dissesti del manto stradale che provocano un grado di pericolosità decisamente alto. Il secondo grande punto critico è rappresentato dalla mancanza cronica di servizi che si percepisce nell’intero Comune di Verona, ma che risulta essere ancora più forte nella zona sud. In particolare

il maggiore problema si riscontra per il fatto che le funzioni residenziali, localizzate prevalentemente nella periferia, sono lontane da quei servizi urbani concepiti da piani regolatori attuati nell’epoca dello zoning che hanno concentrato


VERONA SUD, 1895

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Sopra: tessuto urbano nel quartiere delle Golosine, porzione a nord; sotto, porzione a sud

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tutti i servizi urbani principali nel centro storico, creando un deficit di servizi per i quartieri vicini. Molti di questi quartieri sono stati provvisti di servizi in un secondo tempo, soprattutto quelli nella zona più a nord concepiti come piccole città-giardino borghesi, mentre i quartieri operai a sud sono stati lasciati nello stato in cui versavano. Le conseguenze per questo atteggiamento perpetrato negli anni dall’Amministrazione sono stati disordini insediativi, scarsa attenzione ambientale e poca volontà di governare con l’hinterland alcuni processi, giacché la zona risultava essere, soprattutto dal punto di vista economico-turistico, meno fruttuosa rispetto al centro storico. Decisamente carenti poi risultano essere le dotazioni di verde pubblico e di parcheggi, soprattutto nelle zone di più antica formazione come i nuclei storici di Tomba, Tombetta e Santa Lucia. Altro fattore negativo che risulta essere molto importante è quello dell’inquinamento, sia esso derivante dalle molte autovetture che transitano e dalla confusione viaria già descritta, sia quello derivato dalle specificità del luogo. Nella zona di Verona sud da anni si è al corrente del grave stato in cui si trova la rete fognaria in quel tratto, rete che è totalmente assente in alcune porzioni della zona oggetto di studio. Il terreno su cui sorge Verona sud, poi, è quello dell’alta pianura veronese, caratterizzata da terreno ghiaioso molto permeabile con al di sotto di esso falde acquifere di importanti dimensioni. La natura della zona, che è stata ad indirizzo produttivo fino a poco tempo fa, ha rischiato di contaminare con i

propri scarichi la falda libera atesina che scorre sotto il territorio di Verona sud, e il rischio di contaminazione non è ancora completamente scongiurato. Inoltre nella zona ad est di Basso Acquar gli argini del fiume, altrove contenuti in costruzioni artificiali e completamente sotto controllo, sono in quest’area quasi totalmente naturali e si presentano a rischio in caso di innalzamento del fiume sopra certi livelli, ponendo il problema di un’eventuale inondazione in un terreno ancora caratterizzato da insediamenti industriali. Ultimo punto critico derivato dall’inquinamento è quello delle aree dismesse. Alcune di queste aree, caratterizzate un tempo da insediamenti industriali, avranno bisogno in futuro, in vista di una completa riqualificazione, di opere di bonifica che potrebbero rivelarsi piuttosto onerose e che costituiscono un aspetto negativo nell’ambito dell’analisi finora attuata. All’interno della zona analizzata, si trovano inoltre diversi servizi e impianti destinati all’intera comunità veronese: la centrale elettrica in zona Santa Lucia e il depuratore di Basso Acquar. L’evidente necessità e utilità di questi impianti non fa comunque dimenticare il fatto che essi siano causa di fastidi e pericoli per gli abitanti che si trovano nelle zone circostanti. Pericoli di inquinamento e di rumore, ma anche dovuti alla presenza di innumerevoli cavi ad alta tensione che partono dalla centrale e passano sopra le abitazioni della popolazione residente nella zona di Verona sud, con il rischio, non così basso, di possibili incidenti.


I QUARTIERI DI VERONA SUD

Nella foto accanto case popolari del cardinale Luigi di Canossa nel quartiere Tombetta; sopra: una cartolina del 1898 stampata in occasione della prima fiera cavalli; a sinsitra una mappa di Verona del XVII secolo. In alto a destra la scuola elementare delle Golosine in una foto del 1956.

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Franco Mancuso a proposito di Verona sud

Nel numero 79 di Architetti Verona, ho trovato molto interessante e capace di dare un quadro generale sulla situazione della parte sud della città, un saggio di Franco Mancuso, architetto e urbanista veneziano, già coinvolto nelle vicende di Verona sud. Lo riporto con testuali parole, evidenziando i temi che saranno fondamentali per la redazione del progetto. “Non so cosa succederà a Verona Sud. Da tempo ho interrotto i rapporti con la vostra città, e dei programmi che la riguardano, salvo che per la breve recente parentesi del Masterplan di Veronetta, conosco solo le informazioni fornite dai giornali e dalle riviste. Ma di Verona Sud so quasi tutto. Non più tardi di dieci anni fa, l’Amministrazione comunale aveva infatti varato un cospicuo programma per la redazione del nuovo PRG, del quale Verona Sud era un capitolo fondamentale. Aveva nominato un Consulente per la sua progettazione, ed egli aveva lavorato in stretto rapporto con l’Ufficio di Piano, mettendo in piedi un gruppo di lavoro assai articolato, comprendente tecnici e pro124

fessionisti di grande competenza e varia estrazione disciplinare, Fra i quali non pochi giovani veronesi. Vi era, in ciò, la convinzione che il nuovo strumento urbanistico dovesse essere profondamente radicato nelle coscienze degli operatori locali, per poter poi essere gestito nel migliore dei modi. Il Piano fu redatto, con tutti gli apparati richiesti, norme, relazioni, schede progettuali, approfondimenti tematici, tavole alle diverse scale; fu discusso nelle Circoscrizioni, con le Commissioni consiliari, la Giunta, il Consiglio. E con le frazioni, le categorie economiche e professionali, la popolazione. Lo si presentò in più riprese in Regione, che lo condivise apprezzandone i contenuti innovativi, l’aderenza alle variegate situazioni del contesto veronese, e l’organica integrazione con gli strumenti della pianificazione sovraordinata. Tanto da dedicare al caso veronese uno spazio cospicuo nel volume dedicato alle esperienze dei Piani d’Area Vasta (si veda F.M., “Forme di Piano e forma della città: Piano d’area, PRG e PRUSST nell’esperienza di Ve-

rona”, in Urbanistica Quaderni, collana dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, n. 25, anno VI, 2000). Nel frattempo, il Piano era stato presentato alla 1° Rassegna di Urbanistica Europea (v. “La costruzione del nuovo Piano Regolatore di Verona”, in La sfida delle città europee, INU Editore, 1997, e, alla 4° Rassegna di Urbanistica Nazionale (v. “Comune di Verona”, in I casi in rassegna, vol. 2, INU Editore, 1997), riscuotendo un notevole successo. Venne intanto il momento del PRUSST. Nessuno se ne era accorto, ma al Consulente e all’equipe che lavorava al nuovo PRG sembrò un’occasione straordinaria per dotare Verona di un programma operativo concreto, e – nel caso che il programma fosse stato accettato – di un non indifferente contributo economico per la sua attuazione. Ne discusse a lungo con l’Amministrazione, e la convinse a partecipare alla gara. Si decise di puntare su Verona Sud. Si lavorò come mai si era fatto, giorno e notte, in piena estate, per stare nei tempi. E si stabilirono accordi precisi ed impegnativi con i partner prescelti: oltre al


IL CARDO DI VIALE DEL LAVORO NEL PROGETTO DI MANCUSO

Comune di Verona, l’Ente Autonomo per le Fiere di Verona, l’ATM, Azienda Mobilità e Trasporti di Verona, l’AGSM, Azienda Generale Servizi Municipalizzati, la Telecom Italia S.p.A. – U.R.T. NordEst, l’AGEC, l’Azienda Gestione Edifici Comunali, e il Collegio Costruttori Edili della Provincia di Verona. Su Verona Sud si fecero indagini, inchieste, valutazioni, mettendone a fuoco i problemi, e si analizzarono le non poche alternative possibili: vi era la convinzione che la posta in gioco fosse davvero importante, e che ogni sforzo dovesse essere fatto per condurre a buon fine l’impresa. Finalmente il piano vide la luce, in tempo per essere presentato a Roma, equipaggiato da una ponderosa documentazione, che spaziava dalle ipotesi sulla configurazione urbanistica dell’area alla quantificazione economica degli investimenti, dalla ottimizzazione della sequenza temporale degli interventi alla massimazione delle politiche gestionali. Lo si discusse in Regione, ove nuovamente fu valutato positivamente per la sua appropriatezza rispetto agli obiettivi del programma mini-

steriale. Ed infatti venne approvato, non ultimo del centinaio varati dal Ministero. Si era fatto un progetto realistico ed appropriato, tutt’altro che magniloquente, commisurato con le risorse disponibili quantificate attraverso attendibili previsioni di spesa; attento al contesto e alla specificità delle diverse situazioni urbanistiche ed edilizie su cui si sarebbe dovuto intervenire. Lo si verificò negli auspicabili esiti architettonici attraverso simulazioni tridimensionali, costruendo modelli e plastici alle varie scale, comparando visualmente lo stato di fatto con gli esiti delle trasformazioni possibili. Si tenne conto di alcune significative presistenze che si sarebbero potute valorizzare; si confrontarono con la Fondazione Cariverona ipotesi

lungimiranti per un inedito polo museale nell’area degli ex Magazzini Generali; e si progettò un traccia-

to della tranvia aderente alle necessità di quella parte della città, che avrebbe intersecato Borgo Roma, l’ospedale, la Fiera, la Stazione ferroviaria. 125


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

L’interesse cittadino per l’area era nel frattempo enormemente cresciuto, anche per merito di alcune importanti iniziative culturali che la segnalavano all’attenzione della città e degli studiosi. Valga per tutte il concorso internazionale di idee lanciato da Vincenzo Pavan nel 1999, pubblicato in un bel volume (del quale il consulente fu invitato a scrivere la prefazione: v. Vincenzo Pavan, a cura di, Subversive Insertions, USA Books, USA Institute Italy, 2000). Il Piano ebbe non poca risonanza, anche nella stampa specializzata in Italia e all’estero, e fu pubblicato in non poche occasioni (dal più lontano 2000, v. “Urbanistica Informazioni” n. 170, anno XXIX, marzo-aprile 2000, al più recente “Urban Requalification and Sustainable Development Plan for City of Verona: the PRUSST of Verona Sud”, in Globalisation Policy of Local Government e the Role of University, International Symposium, College of Architecture, Center for Architecture and Urban Design, Myongji University, Seoul, 2006). Fu un vero successo. La città poteva di126

sporre di un non indifferente finanziamento pubblico, e Verona Sud ne avrebbe potuto trarre ogni genere di vantaggio. Avrebbe potuto assumere – leggiamo dalla relazione del PRUSST – “un au-

tentico ruolo di città”, al posto del “disordinato insieme residenziale (circa 60.000 abitanti, pari a circa un quarto della popolazione cittadina, con scarsissima presenza di servizi di livello urbano); si sarebbero potuti ridurre sensibilmente gli effetti negativi che la localizzazione centrale della ZAI, della Fiera e dei Magazzini generali e del Mercato aveva fin qui prodotto (separazione tra i due popolosi quartieri di Borgo Roma-Tomba e Santa Lucia-Golosine, che insieme al grande ambito produttivo costituiscono appunto Verona Sud); si sarebbe potuto far assumere

dismissione quell’urbanità che meglio avrebbe potuto sostenere il disegno di adeguamento della città agli specifici ruoli vocazionali che essa intendeva sviluppare nelle sue aree meridionali (Quadrante Europa, Parco Scientifico e Tecnologico, Fiera Internazionale)”. E dunque il Piano proponeva, non a caso “un insieme coerente di interventi che facessero perno sulla ristrutturazione

dell’asse infrastrutturale di viale del Lavoro e viale Piave (il “cardo massimo” del Paqe, Piano d’Area del

Quadrante Europa), sull’adeguamento delle strutture di supporto della Fiera internazionale, e sulla riqualificazione delle aree dismesse degli ex Magazzini generali e del Mercato ortofrutticolo (il “Forum” del medesimo Paqe)”. Poi tutto cambiò. Quell’ingente patrimonio di conoscenze, energie, entusiasmi e cultura coagulatosi nell’equipe di progettazione del PRG e del PRUSST fu gettato alle ortiche. Del Consulente e della sua equipe si persero le tracce. Altri alle importanti aree dismesse o in via di ebbero la ventura di sfruttarne le idee, ed


IL CARDO DI VIALE DEL LAVORO NEL PROGETTO DI MANCUSO

anche Verona fu teatro di quel non infrequente cannibalismo culturale (si veda il recente saggio di Andrea Guglielmino, Cannibali a confronto, Edizioni Memori, 2007), che nell’architettura e nell’urbanistica è spesso di casa, e che si alimenta delle idee altrui, deliberatamente ignorando da chi, dove, quando, come e perché siano mai state generate. Ho raccontato questa breve ministoria sollecitato dagli amici di «architettiverona», perché quel Consulente, lo avrete capito, ero io.” E’ chiara la disapprovazione di Mancuso in riferimento alle scelte urbanistiche attuate negli ultimi decenni. In particolare, quello che lui stesso definisce “cardo massimo” si rivelerà problematico “quando a quest’asse si è voluto affidare anche il compito inverso, quello di arrivare in città dal casello autostradale di Verona Sud, perché invece di servire ai veronesi interessati ai cavalli e al mercato o al lavoro, ha dovuto servire a tutto il mondo interessato a Verona, con un volume di traffico che lo ha trasformato

in un canale invalicabile, dunque in una barriera che ha aggravato i problemi dei due quartieri laterali invece di contribuire a risolverli.” Inoltre, il viale, molto trafficato è difficilmente percorribile a piedi, soprattutto nell’attraversamento. L’abolizione del casello autostradale potrebbe essere una soluzione che, tuttavia, porterebbe ad un’altra serie di problemi. Tornare ad usare quest’asse per risolvere il collegamento tra città e servizi e tra i due quartieri, tra di loro e con la città. Con questa operazione sarebbe possibile pensare a quest’asse come a un ampio viale alberato da tranquilla passeggiata, piuttosto che a un viale monumentale del tutto estraneo al tessuto, alla misura, alla modestia elegantissima che distingue la città e la sua storia.

Una veduta dele mercato ortofrutticolo prima della demolizione di due edifici. Sotto: veduta della città da sud, stampa degli inizi del XIX sec. Nella poagina accanto Viale Piave verso il centro di Verona

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Progetti in atto - progetti realizzati una nuova immagine del comparto sud

Nelle pagine seguenti si sono raccolti gli interventi promossi dalla municipalità di Verona negli ultimi quindici anni, per rispondere alle esigenze urbanistiche sottolineate nel Masterplan per il comparto sud.

Stazione FS Verona Porta Nuova – Società Grandi Stazioni La Stazione riveste un ruolo strategico rilevante per il futuro di Verona Sud, in relazione soprattutto alla possibilità di creare, sulla linea Milano-Verona-Venezia un binario preferenziale rivolto all’Alta Velocità e all’Alta Capienza. La Società Grandi Stazioni ha in mano il progetto di Porta Nuova, anche perché Verona è sempre stata e continua ad essere un crocevia importantissimo per traffici commerciali e turistici tra nord e sud Europa e tra est e ovest. Sorta nel 1922 ai margini di una città ancora totalmente compresa all’interno delle mura, la stazione oggi è parte integrante di una struttura urbani128

stica molto più complessa, anche perché essa si trova al margine della grande area di trasformazione di Verona sud. Grande nodo di passaggio, la Stazione è attraversata giornalmente da 68 000 persone1, anche perché nel piazzale antistante trovano posto tutte le linee di trasporto pubblico su gomma urbano ed extraurbano. I lavori di riqualificazione di tutto il complesso interessano sia il fabbricato principale, ricostruito dopo la Seconda Guerra Mondiale sul sedime di quello originale abbattuto dai bombardamenti alleati, sia gli spazi ad esso contigui. All’interno del fabbricato dei viaggiatori il progetto prevede il recupero del maggior numero di aree possibili da destinare a spazi commerciali, senza compromettere l’assetto distributivo attuale, già orientato in questo senso. La proposta si articola poi attraverso nuovi volumi vetrati e nuovi passaggi a livello binari e a piano terra, utilizzabili come sale d’attesa, attualmente presenti all’interno del fabbricato viaggiatori e che saranno sostituite da altri spazi commerciali. La porzione più consistente della siste-

mazione, già parzialmente effettuata e in corso d’opera, riguarda il piazzale antistante, attualmente occupato da un parcheggio e che dovrà regolare in modo più chiaro i flussi di traffico derivanti dall’interscambio, nelle stesse corsie, di mezzi di trasporto pubblico e privato. Sulla grande piazza è prevista un’area per la sosta di mezzi urbani ed extraurbani, già in parte completata, con, sullo stesso lato, due nuovi edifici, sotto la cui superficie troverà posto un parcheggio capace di ospitare 293 vetture e 44 motocicli. Nella sistemazione della piazza è stato previsto l’inserimento di due nuovi stalli di fermata per le linee di filobus, mentre sull’altro lato della piazza, sorgerà un edificio di due piani, completamente vetrato e a carattere commerciale, oltre ad un nuovo parcheggio in grado di accogliere 400 biciclette. L’idea principale è quella di trasformare la Stazione di Verona Porta Nuova, sullo stampo di altre stazioni europee, in un centro di interscambio sempre più funzionale, in grado di connettere agevolmente persone che viaggiano su diversi mezzi di trasporto.


PROGETTI IN ATTO - PROGETTI REALIZZATI

Nota 1: Porta Nuovissima, in “Architetti Verona”, anno XVIII n˚86, Set/Dic 2010, p.57.

Il progetto di riqualificazione punta anche a cambiare lo status del complesso, da luogo di transito a nucleo di attrazione, capace di convogliare su di sé maggiori flussi di traffico e di persone. Per fare questo è evidente che la viabilità a esso connessa e i servizi offerti devono essere di prima categoria. L’introduzione di una maggiore varietà di esercizi commerciali, testimonia la volontà, già vista in altri edifici simili, basti pensare a Porta Garibaldi e Stazione Centrale a Milano, di sfruttare questi enormi bacini d’utenza.

Cartiere di Verona – Gabbiani e Associati La trasformazione delle ex Cartiere, a ridosso della cinta muraria di Porta Nuova, è stata affidata allo studio composto da Bruno e Marcella Gabbiani e Sergio Peruzzo. L’approvazione del progetto da parte dell’Amministrazione comunale è avvenuta a metà 2008, ponendo norme 129


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

piuttosto rigide per l’avvio dei lavori che hanno permesso al progetto di arrivare, in soli due anni, a un primo passo avanti. Entro venti giorni dall’approvazione sarebbero dovute iniziare le opere di demolizione da portare a termine entro sei mesi, cosa in realtà già compiuta. Le opere pubbliche relative alla viabilità, al parco attrezzato per bambini e alle piste ciclopedonali, a carico di privati, e già uno dei nodi fondamentali, Ponte San Francesco, di importanza fondamentale per il progetto ma difficile da sistemare per la posizione e l’ingente traffico. A carico di privati anche la cura e il mantenimento dei 40˙000 mq di parco e l’estensione del servizio di trasporto pubblico all’interno del complesso. L’edificio di archeologia industriale, di 2˙280 mq, sarà ristrutturato e ceduto al Comune per uso pubblico, secondo una destinazione da decidere con il consiglio della Quinta Circoscrizione, quella di Borgo Roma, per cui la realizzazione del progetto sarà di importanza fondamentale. Il progetto prevede l’abbattimento di tutti gli altri edifici degradati esistenti nell’area, a eccezione dell’immobile che ospitava le fucine, il quale verrà recuperato e valorizzato. L’elemento progettuale determinante e che costituirà un punto fondamentale nella costruzione del nuovo landmark cittadino, saranno le due torri direzionali di 19 e 21 piani, che,raggiungeranno anche 80 metri di altezza e saranno rivestite da un paramento cristallino. Le destinazioni d’uso previste sono soprattutto commerciali, per il tempo libero e servizi collettivi, anche per il quartiere di Borgo Roma, come 130

fattore determinante per l’innalzamento della qualità urbana. Intorno ad esse è prevista la costruzione di un parco di 40 000 mq, il cui progetto è stato affidato al paesaggista Andreas Kipar, con piste ciclabili lungo i canali. e interventi di ricucitura della rete esistente, strade e piazze pubbliche coperte e scoperte, da utilizzare tutto il giorno e in ogni stagione. Il “polmone verde” rappresenterà, ha sottolineato l’architetto Gabbiani, ideatore del progetto, “il primo grande intervento di riqualificazione di Verona sud che legherà la parte storica della città a quella più moderna”. All’interno del parco troverà posto un giardino dei ciliegi con 85 alberi, in un’area di 9˙500 mq. L’intero parco sarà delimitato da alberi a grosso fusto, querce piramidali, che occuperanno 10˙500 mq. L’impatto ambientale sarà mitigato da tetti verdi, a coprire circa 5˙000 mq di superficie, da un sistema di produzione di energia che utilizza fonti rinnovabili e materiali eco-compatibili, e dall’uso della luce naturale schermata e filtrata, offrendo visuali variabili grazie alla conformazipne planimetrica delle torri. Il Piano di Riqualificazione prevede inoltre la realizzazione di una multisala cinematografica con nove sale di proiezione, palestre, solarium, fitness center, sala giochi, una struttura vendita con 70 negozi, 12 caffè e ristoranti posti in un volume più basso e allungato verso il parco, caratterizzato da grandi superfici vetrate.


PROGETTI IN ATTO - PROGETTI REALIZZATI

Officine Adige – Richard Ro- Nello studio compiuto, il progettista ha evidenziato soprattutto la densità delle gers Questo progetto, al contrario di altri che analizzeremo in seguito, nasce come intervento di riqualificazione urbana commissionato dalla proprietà direttamente all’architetto inglese Richard Rogers nella prima metà del 2004. Successivamente il progettista che ha redatto la Variante 282 al PRG comunale, Bruno Gabrielli, lo ha assunto come uno dei fondamentali capisaldi nella trasformazione urbana del comparto Verona sud. La grande area di 55˙398 mq, è posta all’estremità sud di Viale del Lavoro, costituendo una sorta di contrappeso rispetto all’area dei Magazzini Generali, posta all’estremità nord. Le difficoltà della progettazione, in questo comparto, stanno nel fatto che, al contrario di altre aree dismesse, questa si trova proprio al confine cittadino, più vicina alla zona che, secondo il masterplan, è prevista a funzione industriale. Il dialogo che l’area potrà instaurare con i quartieri contermini, risulta quindi molto minore rispetto ad altre aree, ed anche i servizi da insediare saranno da valutare in base a questa considerazione. La parte più importante dello studio compiuto da Rogers, ormai dicassette anni fa, sta nella premessa al progetto; infatti l’architetto, prima di fare una proposta, è partito dall’analisi della geografia del territorio metropolitano e del tessuto urbano, confrontandosi anche con l’Amministrazione, che in quel momento era alle prese con la Variante 282, per fare proposte su possibili variazioni nelle direzioni di piano.

edificazioni, la zonizzazione che ha dato luogo a comparti di città monofunzionali, il rapporto con i confini e il territorio non edificato da salvaguardare. Il risultato dello studio è un elogio alla città compatta, strada verso cui si sta cercando di rivolgersi negli ultimi anni per evitare l’estensione a macchia d’olio all’interno della campagna, soprattutto dei quartieri industriali a sud. Le soluzioni studiate insistono su concetti di: - Densità, crescente in prossimità dell’asse (“Cardo Massimo”); - Efficienza delle infrastrutture e del trasporto pubblico; - Forte presenza di spazi pubblici e di aggregazione a verde; Commistione efficiente di funzioni, siano esse pubbliche o private; - Razionalizzazione delle risorse energetiche e cospicuo utilizzo di quelle rinnovabili. Il masterplan che ne deriva segue questi concetti dandogli forma. Il lotto, a forma di rombo irregolare, viene circoscritto da tre cortine di edifici, ciascuno con diverse morfologie in grado di regolare i flussi in entrata e uscita dal comparto, il cui cuore è occupato interamente da spazi comuni attrezzati a verde. La struttura è ben definita ma anche sufficientemente permeabile, e vive in stretto rapporto con l’intorno, ma da esso si distingue tramite alcuni segni riconoscibili, primo tra tutti la grande torre che segna l’ingresso principale all’area e che la sovrasta con i suoi 80 metri di altezza. I parcheggi trovano spazio nei comparti collocati nei quattro

Nella pagina accanto il progetto per le ex cartiere Fedrigoni; nell’immagine sopra il progetto (non realizzato) di Rogers per le ex Officine Adige

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AMBITO ZAI: IERI E OGGI Progetto per l’ex Foro Boario

piani interrati, mentre l’intero piano terra, formato da piastre che corrono lungo i fronti est e ovest, è dedicato al commerciale e alle funzioni pubbliche. Le piastre, alzandosi, si scompongono in due edifici in linea di nove piani, destinati soprattutto al terziario, ma anche a funzioni pubbliche, ricreative, sportive e a residenza. Tutto il lato sud, con una tipologia e morfologia di edifici diversa Dai precedenti e più bassa (6 piani), disposti a C, è destinato interamente a residenza. Nonostante il valore intrinseco alla proposta, essa non potrà essere realizzata finché non verranno realizzati lavori infrastrutturali che possano permettere a un complesso di questo tipo, una volta realizzato, di vivere e far vivere anche il resto del quartiere, non costituendo un elemento attrattore di traffico e congestionante. Il progetto non è stato realizzato: al suo posto l’enorme centro commerciale Adigeo, dal nome delle officine ormai scomparse.

Foro Boario – Mario Bellini Tra i progetti di Verona sud, quello al Foro Boario, pur interessando un’area relativamente piccola rispetto alle altre dismesse (18˙703 mq), è destinato a rappresentare il primo tassello della rinascita, visto che, in costruzione dal 2008, sta per essere quasi del tutto completato. L’area è di notevole interesse strategico visto che si trova in prossimità dell’ingresso nord-ovest della Fiera, tra Via Francia e Via Belgio. Data la sua posizione, alla fine del 2005, ne vengono definiti 132

i parametri urbanistici e le destinazioni d’uso, vincolandola al comparto Fiera e descrivendola come “zona 25 – insediamenti con funzioni fieristiche, annonarie e per servizi tecnici”. Con la Variante Gabrielli se ne intuisce la grande potenzialità e si decide di puntare su un più complesso apparato funzionale, dividendo la zona in due comparti, uno ricettivo-alberghiero ed un altro terziario. Le due scelte che hanno segnato lo sviluppo del progetto, redatto da Mario Bellini, sono state: - Edificare un fronte strada il più possibile compatto e caratterizzato; - Dedicare, all’interno del lotto, un’area di dimensioni cospicue al verde pubblico. Sin dai primi schizzi queste due premesse si sono concretizzate in due distinte forme, poggianti su un dilatato e comune basamento che segue in non regolari confini dell’area, cercando di stabilire un equilibrio tra il contesto, gli spazi vuoti e la prorompente presenza dei due edifici. Quando si parla di fronte stradale compatto, non si intende una “cortina edilizia” tradizionale, quanto piuttosto un fronte ritmato da una composizione di pieni e vuoti, in grado di aprirsi verso l’interno del lotto, ma anche di protendersi verso la strada. Seguendo le prescrizioni di piano si è quindi proceduto a delineare corpi bassi a costruire il fronte strada e edifici a prevalente sviluppo verticale posti più all’interno. In questo modo essi permettono di dialogare con l’esterno secondo diverse scale di percezione. Da una parte la percezione del pedone o dell’automobilista che coglie, in particolar modo, il valore di continuità


PROGETTI IN ATTO - PROGETTI REALIZZATI

dei corpi bassi, dall’altro il ruolo di landmark che gli edifici a sviluppo verticale possono rappresentare per la città. Al fronte strada è affidato anche il compito di proteggere il giardino interno, ma offrirne, allo stesso tempo, degli scorci tramite tagli effettuati nella superficie, in modo da rivelare al passante ciò che accade all’interno del lotto. La scelta dei materiali utilizzati per i diversi edifici serve a distinguere le funzioni he si svolgono all’interno e per legare ma anche dividere le costruzioni stesse. I due edifici alti si distinguono per due “pelli” ugualmente brillanti e tecnologiche ma di diversa natura, lamiera stirata per l’hotel e facciata a doppia pelle in vetro per la torre uffici. Questi due rivestimenti si contrappongono fortemente alla massa del basamento che li tiene insieme, rivestito interamente in pietra, un’ardesia naturale a spacco, spazzolata e posata a secco. Tale elemento costituisce il naturale contrappunto alla brillantezza del rivestimento dei corpi alti e svolge il compito di unificare visivamente i due edifici, fornendo loro un comune ancoraggio al terreno. L’edificio per uffici è un corpo a torre, di nove piani più due di impianti per un totale di 45 metri di altezza, affiancato da due corpi più bassi, di tre piani fuori terra per un totale di 12 metri di altezza. Questi due edifici, secondo le prescrizioni di piano, costituiscono il fronte strada. La parte basamentale ospita al piano terra funzioni legate al rapporto diretto con il pubblico – fitness center, sportelli bancari, - mentre i due piani sovrastanti ospitano anche funzioni terziarie.

L’articolazione planimetrica a “V” tra i corpi costituenti il basamento, determina il formarsi di una piazza che funge da ingresso al complesso degli uffici. Nella torre il trattamento esterno si differenzia a seconda della funzione, trattando le parti che ospitano uffici con la facciata a doppia pelle in vetro, e le parti dei corridoi con un tamponamento opaco rivestito dalla stessa lamiera stirata utilizzata per la facciata dell’hotel. Il doppio aspetto del rivestimento, oltre a legare insieme i due edifici e a rivelare all’esterno la diversità di funzioni, ha anche il pregio di accentuare il gioco plastico che caratterizza il volume della torre. L’edificio dell’hotel vede come tratto principale e che lo rende particolare, il trattamento riservato alla facciata. Il velo di lamiera stirata è infatti steso ad avvolgere tutte le superfici, ma svela, attraverso “strappi” a forma di nubi o uccelli, che alleggeriscono la durezza del materiale, una seconda pelle sottostante in vetro. Alla seconda pelle è affidato il compito di provvedere al comfort interno, e alla stessa struttura in acciaio sono agganciate anche le tende a rullo che realizzano la schermatura interna contro l’irraggiamento solare. L’articolazione volumetrica dell’edificio nasce da quattro elementi regolari in pianta che contengono le camere, tenuti insieme, dal punto di vista sia funzionale che statico, dal nucleo contenente gli ascensori e i servizi di piano.

Autogerma – Cino Zucchi Il complesso, posto tra il quartiere Santa Lucia e la ZAI, dove 20 anni fa era attiva 133


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

l’azienda tedesca Volkswagen per il commercio di auto in Italia, poi trasferitasi al Quadrante Europa, sarà uno delle poche aree dismesse ad avere una prevalente funzione residenziale. Annessi alle abitazioni ci saranno anche alcuni servizi quali negozi e un poliambulatorio dell’ULSS a servizio del vicino quartiere. Rientrante anch’esso tra i 41 progetti presentati da privati dopo la redazione del masterplan, non ha tuttavia un sufficiente grado di definizione per poter essere considerato definitivo. Per il momento il progetto, redatto dall’architetto Cino Zucchi, si concentrerà su un immenso capannone, costruito negli anni ’60, che fungeva da magazzino e che verrà in parte demolito e in parte recuperato grazie ad una particolare conformazione della facciata definita “a disco volante”: in questa porzione, di circa 2˙000 m2, sarà ricavato il presidio sanitario. La palazzina per uffici, adiacente al magazzino, sarà recuperata, lasciando a disposizione del progettista circa 7˙500 m2, mentre altri 50˙000 verranno destinati alla nuova costruzione, con palazzine a quattro o cinque piani in prevalenza, ma che potranno arrivare anche a 11 in alcune porzioni di lotto. Negli edifici saranno ricavati circa 150 appartamenti, pensando anche al ridisegno di spazi comuni e viabilità legata al lotto, costruendo una pista ciclabile per unire il complesso residenziale al quartiere e facendo sorgere, intorno al compendio, i nuovi impianti sportivi. In alto: progetto per l’ex autogerma; al centro e in basso progetto per la manifattura tabacchi

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Manifattura Tabacchi – Antonio Citterio and Partners Come il progetto appena descritto per l’Autogerma, anche quello dell’ex Manifattura Tabacchi, rispetto ad altri che insistono sul comparto di Verona sud, a uno stadio piuttosto embrionale. L’intervento, data la posizione strategica di fronte ai Magazzini Generali e a soli due km da Piazza Bra e dall’Arena, si propone di diventare una nuova soglia sul centro storico, un nuovo ingresso alla città con attività terziarie, commerciali, congressuali, ricettive, in linea con quanto dovrebbe essere realizzato nel nuovo Polo Culturale. Gli edifici industriali facenti parte del complesso, verrebbero recuperati e integrati ad una piastra di nuova costruzione che ne inglobi i volumi. La grande ciminiera, con la sua altezza, rimarrebbe come segno distinguibile dell’area e segno forte e distintivo del passato industriale. Le strutture dei vecchi magazzini recuperati e integrati nella piastra conterrebbero le funzioni legate al nuovo Centro Congressi, di particolare importanza data la vicinanza con la Fiera. Il progetto, disegnato dallo studio Antonio Citterio and Partners, che si estende su un’area di 3,2 ettari, verrebbe completato da una torre, posta sul lato sud del complesso, la cui altezza massima raggiungerebbe gli 80 metri e che ospiterebbe strutture ricettive. Nel complesso verrebbe inserita anche una piazza verde e un parco pubblico. Il cantiere del progetto deve ancora iniziare.


PROGETTI IN ATTO - PROGETTI REALIZZATI

Polo Culturale – Mario Botta Per giungere alla fine della carrellata sui progetti inglobati nel masterplan occorre certamente parlare del destino dell’area dei Magazzini Generali. Destinati a diventare, come descritto dalle direttive del PRUSST, il nuovo Polo Culturale della città, le sue sorti hanno attirato proposte e interventi da parte di molti negli ultimi anni, fino a giungere a quelli che sembrano i progetti definitivi, poiché arrivati a un livello di definizione mai raggiunto prima. Il progetto non è stato unitario, fatto da un solo progettista, che inglobasse tutte le strutture e ne restituisca un quadro completo e attuabile, ma sul comparto esistono tre distinti progetti, che si occupano di differenti edifici e che tentano di dialogare tra loro. A mio avviso, avere per quest’area un progetto unitario, per lo meno nel masterplan, poteva essere la giusta occasione per restituire finalmente questa parte di città alla comunità. Il rischio di compiere progetti separati è sicuramente quello di perdere di vista la logica comune che ha portato quest’area a diventare com’è e si rischia così di sprecare tutti gli anni che sono passati e tutte le proposte effettuate in cui i Magazzini Generali venivano trattati come una unità globale, composta di molte realtà differenti ma da ripensare nel complesso. Dopo i progetti già descritti e arrivati all’Amministrazione per mezzo di concorsi indetti da privati e non, negli anni a venire, soprattutto nel periodo più recente, si sono susseguite altre proposte di utilizzo dell’area molto diverse, che

hanno creato non poche polemiche che sono state diffuse attraverso le pagine del quotidiano locale “L’Arena”, sempre attento alle sorti delle aree dismesse di Verona sud. A partire dall’inserimento all’interno della Rotonda del Museo civico di Storia Naturale, ora a Palazzo Pompei, nel centro storico, e di cui era previsto il trasferimento all’Arsenale dopo la riqualificazione e il restauro dello stesso affidato a David Chipperfield. Approvato dalla precedente giunta nel 2006, ma assegnato ancora nel 2001 dall’Amministrazione precedente, il progetto presso la struttura austriaca è stato pensato, ridimensionato, discusso, fino all’attuale fase di stallo che ha portato a valutare come parte della partita anche gli edifici all’interno dei Magazzini Generali. Altro progetto pensato per l’area è quello della “Città della Musica”. All’interno dei Magazzini Generali si sarebbero dovuti trasferire un megastore Music Box, una liuteria moderna e un vintage shop, il tutto circondato da studi di registrazione, fotografici e di montaggio video, l’Accademia europea della musica, un centro di musicoterapia, il museo della musica, una foresteria per gli ospiti, ristoranti, bar e librerie, un parcheggio multipiano e uno esterno di 60˙000 mq. Il tutto sarebberuotato intorno al cuore centrale del complesso, l’auditorium polifunzionale modulare con l’anfiteatro, che avrebbe potuto ospitare da 500 a 45˙000 spettatori. L’idea della città della musica, pur interessante, anche in virtù del ruolo che sta assumendo Verona negli ultimi anni, con la presenza, soprattutto durante il

periodo estivo, di concerti di grandi star internazionali che richiamano un pubblico enorme da tutto il nord Italia e non solo, non sfrutta appieno le potenzialità di quest’area, anche in relazione ai vicini quartieri e alle possibilità di ricucitura che possono essere svolte nel tessuto urbano della città. L’ultima proposta avanzata negli anni, prima di quella definitiva, è anche quella che ha creato maggiori polemiche. Nell’agosto 2009, il presidente della quinta circoscrizione, quella di Borgo Roma, Fabio Venturi, ha proposto di realizzare, al posto del Polo Culturale, una cittadella del divertimento dedicata ai giovani, dove possano trovare spazio bar e locali serali per lo svago notturno. La proposta ha subito creato scompiglio, soprattutto da parte di un consigliere comunale e assessore che ha affermato che, soffrendo la città da molto tempo di una carenza nella politica culturale, sembra impensabile che qualcuno possa sostituire il miglioramento dell’offerta culturale ai giovani, “aprendo la cittadella del divertimento in un’area destinata a musei e mostre”. La replica non tarda a giungere da parte di Venturi, sostenendo che la sua proposta non fosse rivolta a introdurre locali per assecondare i giovani che vogliono “sballarsi”, quanto piuttosto quelli che amano ascoltare musica dal vivo, chiacchierare tra amici in un luogo che non sia troppo distante dalla città e sia facilmente raggiungibile da tutti, offrendo diverse attrazioni. La proposta venne comunque abbandonata, anche se, forse, le proposte non erano da considerare totalmente sbagliate, soprattutto per la volontà di vivere il luogo 24 ore su 24. 135


AMBITO ZAI: IERI E OGGI

Progetto per gli ex Magazzini Generali

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L’attuale proposta si fonda, come abbiamo detto, su tre progetti intrecciati tra loro. Il primo di questi, riguardante l’edificio 1, prevede di trasferire in questa sede l’Archivio di Stato, e è un progetto approvato nel gennaio 2011. Nell’edificio si è proposto di ricavare anche una terrazza con giardino nella porzione nord, dalla parte opposta rispetto all’edificio della Rotonda. All’interno sono previste sale archivio, biblioteca in cui consultare i documenti e sale studio e il tutto sarà completato da servizi in modo da rendere il complesso vivibile anche da coloro che non dovranno sostare all’Archivio di Stato. Dovrebbero essere stati presenti caffetterie, ristoranti e uffici, nell’edificio in cui doveva essere mantenuta la struttura originale, salvo costruire una galleria centrale vetrata che faccia da asse simmetrico tra le due parti e conferisca all’insieme un aspetto più leggero. All’interno dell’edificio avrebbero dovuto poi trovare posto anche l’Ulss 20, al momento divisa in tre sedi nel centro storico, che in questo modo risparmierebbe notevolmente sulle spese di gestione. Esso rappresenta, insieme all’edificio 27, in cui è previsto l’inserimento di un piccolo teatro per compagnie amatoriali, la prima fase di trasformazione dell’intera area. La seconda fase ha riguardato parte dell’edificio numero 15 che è diventata la nuova sede dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona. L’idea, presentata attraverso una mostra che si è tenuta dal 16 giugno al 1 luglio 2011, è stata quella di spostare l’Ordine in uno dei punti che è divenuto focale per lo sviluppo futu-

ro della città, ponendovi le basi per un potenziale centro delle professioni intellettuali e facendosi motore della trasformazione. Secondo gli accordi presi con la Fondazione Cariverona, proprietaria dell’area, la sede ha trovato posto in una porzione dell’edificio 15 il cui recupero verrà portato avanti in parallelo con quello dell’edificio 17, in modo che, a lavori ultimati, i Magazzini abbiano una nuova entrata degna della trasformazione. La progettazione, stavolta, non è affidata ad una archistar, ma è stata condotta attraverso un Laboratorio di progetto e un team multidisciplinare che ha coinvolto diciassette giovani professionisti veronesi, selezionati tramite un bando partito a metà luglio 2011. Alla centralità della disciplina architettonica si affiancheranno altre professionalità per contributi conoscitivi (storici, geografici, economici), operativi (ingegneri strutturisti, impiantisti, tecnici del restauro) e legati alla comunicazione dell’evento (grafici, web designer). Nel Laboratorio saranno coinvolti anche professionisti locali e cinque docenti provenienti da altrettante strutture universitarie (Verona, Venezia, Padova, Mantova, Ferrara). A quest’iniziativa se ne affiancheranno molte altre, in particolare workshop formati da studenti italiani e stranieri provenienti da tutta Europa, nei quali si studierà l’intorno dell’intervento progettato dal Laboratorio in modo da fornire nuove prospettive per il gruppo di lavoro. Durante tutto l’arco dell’iniziativa, l’Ordine sarà in parte trasferito al Magazzino 28, al fine di familiarizzare con il nuovo ambiente, oltre a organizzare incontri,


PROGETTI IN ATTO - PROGETTI REALIZZATI

seminari e attività di promozione del progetto che saranno aperte soprattutto ai cittadini dei quartieri vicini in modo da coinvolgerli nella trasformazione di una parte di città per loro così importante. Durante tutta la fase esecutiva dei cantieri saranno possibili dei sopralluoghi guidati, per cominciare a riprendere possesso di questa porzione di città. L’intera iniziativa dovrà durare due anni, tra fase formativa e redazione dei progetti, ottenimento delle autorizzazioni, realizzazione dell’opera e allestimento degli spazi, in modo da inaugurare la nuova sede entro il 2013. L’edificio principale dell’area, rimane comunque la grande Stazione Frigorifera Specializzata, il cui progetto è stato affidato, già nel 2006, all’architetto ticinese Mario Botta. Per quanto riguarda il progetto generale dell’area, l’architetto Botta ha comunque previsto una sorta di planivolumetrico che ne descriva i caratteri generali e metta insieme i diversi progetti. Questo vede la foratura del muro di cinta, vincolato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e quindi non abbattibile. Tuttavia egli prevede di mettere mano alle viste che potrebbero aprirsi tramite tagli in questo muro, in modo da far dialogare l’esterno con l’interno dell’area e offrire scorci suggestivi che ne possano rivelare le funzioni. Proprio a partire dal muro di cinta si verrebbero a creare passaggi porticati lungo tutto Viale del Lavoro che si estenderebbero poi all’interno del lotto, in particolare tra la Rotonda e gli edifici 23, 24, 25 e 26 che dovrebbero ospitare attività ricettive, bar e ristoranti a servizio del complesso e dell’antistante

Fiera. I passaggi porticati, anche se non ancora decisi definitivamente, dovrebbero ricreare i tracciati dei binari un tempo presenti sull’intera area. Nella porzione sud del lotto saranno creati parcheggi a raso e due piani di parcheggi interrati collegati direttamente con l’edificio della Rotonda. Per collegare in modo ancora più diretto la zona con la Fiera, avendo abbandonato da tempo l’idea di poter interrare Viale del Lavoro per rendere la parte in superficie completamente pedonabile, viene previsto il contrario, tenendo in superficie le sei corsie del Viale, come programmato dal masterplan, e costruendo un sottopassaggio che parte dal porticato presente nell’angolo sud ovest del lotto e arriva nel piazzale della Fiera, proseguendo con una seconda porzione di porticato che faccia comprendere il legame che insiste tra le due aree(L’edificio della Rotonda doveva essere progettato per ospitare un auditorium e sale espositive, mantenendo all’esterno una immagine praticamente invariata e lavorando maggiormente sulle modifiche alle strutture interne. Per prima cosa va segnalato il fatto che per la costruzione dell’auditorium all’interno della Rotonda, doveva essere creato uno spazio “extra”, scavando sotto l’edifico fino a -6,5 metri di profondità. A partire da questa quota dovevano essere realizzati quattro distinti livelli in cui si inseriranno tre funzioni principali ben distinte: spazio espositivo di circa 3˙000 mq, sistema anfiteatrale di 2˙000 posti e una sala banchetti da 1˙000 posti. La molteplicità di funzioni avrebbe dovuto acquisire un valore aggiunto grazie ad un 137


AREE DISMESSE IN ZAI

Alcuni dei valori intrinsechi di un’area dismessa sono il silenzio, la memoria, l’essere un non luogo dove non c’è vita. Un tempo. invece, queste aree erano degli spazi pieni di vita, di voci, di forza lavoro. Quello che ho cercato di fare è stato l’avere una visione complessiva dello stato di questi luoghi oggi: che aree sono dismesse? Oltre ad edifici residenziali qual’è l’entità degli insediamenti in disuso? L’amministrazione locale cosa prevede? E i privati? Molto spesso la strada più facile è quella della demolizione; eppure, così facendo, si cancellano tracce di memoria e di storia che hanno scritto le pagine della storia di una città. 138


LANIFICIO TIBERGHIEN A VERONA EST

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Sul territorio veronese insistono 555 spazi in disuso, per una superficie complessiva di 2.636.570 m²

Bianchetti C., Dismesse e sfruttate, in “Il Giornale dell’Architettura”n°23, novembre 2004.

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Il significato di un’area dismessa lo si può ricercare “nell’intendere edifici o parti urbane non più e non solo come serbatoio di occasioni da cogliere per ottenere effetti di valorizzazione immobiliare, quanto individuare la specificità di parti urbane da riqualificare come valore contestuale e strategico per il recupero dell’identità dei luoghi”. Un’azione progettuale di riqualificazione che abbia questi caratteri, richiama la nozione di “città esistente” ed introduce la problematica della conservazione estesa alla città dismessa. Parlare di “città dismessa” vuol dire affermare la specificità di un tessuto urbano generato dalla liberazione degli usi per cui è stato creato, sottolineandone l’appartenenza al complesso sistema delle relazioni urbane, come parte integrante di un insieme in cui interagiscano città e società (tradizionalmente rappresentato dalla metafora organicista). Questo significa considerare la città dismessa come parte della città storica, dotata di caratteri specifici e radicati in un tempo della sua vita (la fase industriale), il cui senso e significato va recuperato e conservato come carattere distintivo e permanente, in un processo di mutazione della realtà urbana che vede conservazione e trasformazione come elementi interconnessi, dialettici e non antitetici. Il senso di appartenenza investe la risorsa delle aree dismesse ed il loro valore di bene culturale ed ambientale, laddove la dismissione riguarda siti e manufatti ricchi di valenze storiche,simboliche e testimoniali, capaci di caratterizzare l’interoprocesso di riqualificazione.


LE AREE DISMESSE IN ZAI

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200 000 m2

Lanificio Tiberghien Lo sviluppo dello stabilimento fu molto rapido: già nel 1925 il lanificio diede lavoro a centinaia di persone. Nella seconda guerra mondiale non venne mai bombardato, preservando quella zona della città veronese. Nel periodo postbellico il lanificio subì diversi lavori di ampliamento e adeguamento alle nuove tecnologie; vennero riedificati gli edifici sul fronte strada e reimpostata la disposizione interna di alcuni locali. Ma dal 1970 cominciò la crisi, aggravata ulteriormente da un incendio: una serie di amminsitratori si susseguirono ed iniziarono i licenziamenti, fino alla chiusura nel 2004. Il forte degrado dell’area, luogo di spaccio e di alloggio di senzatetto, ha portato i proprietari, congiuntamente all’amminsitrazione, alla demolizione del lanificio. La ciminiera è uno dei pochi elementi che vengono preservati.

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LE AREE DISMESSE IN ZAI

102 000 m2

Magazzini generali Nel 1975 i magazzini vengono trasferiti al Quadrante Europa, fuori città. Il lento processo di dismissione, ha portato al degrado dei luoghi che, però, negli ultimi anni ha visto progetti di riqualificazione. Nelle previsioni urbanistiche, l’area degli ex magazzini sarebbe dovuta divenire un polo culturale, con tanto di auditorium all’interno della rotonda. Il progetto si è però tramutato nella realizzazione di un centro direzionale-commerciale, e la rotonda verrà trasformata in un enorme ristorante. Alcuni edifici sono già stata ristrutturati, ad ospitare la sede dell’Ordine degli Architetti e quello dell’Ingegneri e l’Archivio di Stato.

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43 000 m2

Manifattura Tabacchi Negli anni ‘50 dello scorso secolo, le tonnellate di tabacco che giunsero a Verona erano un numero significativo. Nei periodi d’oro, la manifattura era arrivata a far lavorare fino a 480 persone. Dopo 90 anni di attività, ha chiuso i battenti ed è attualmente in stato di degrado dopo l’abbandono e i passaggi di proprietà. Nel complesso produttivo dismesso, di proprietà della società Quadrifoglio Verona, una cordata di imprenditori veronesi e milanesi che da diversi anni ha un progetto di riconversione in albergo, uffici e negozi - la Fiera ambirebbe a insediare un percorso dalla stazione di Porta Nuova fino al quartiere fieristico. Con un accesso adeguato, con tapis roulant, un edificio alberghiero che funga da reception, servizi di alto livello per operatori ed espositori nelle rassegne. Numerose possibilità di sviluppo nascerebbero quindi dall’ex manifattura; il nodo delle incertezze è legato ai fabbricati che si potranno o meno demolire, per ricostruirvi quelli nuovi. 144


LE AREE DISMESSE IN ZAI

100 000 m2

Cartiere Fedrigoni Dopo un periodo di crisi, le cartiere Fedrigoni tornarono ad esistere il 9 gennaio 1888 quando Giuseppe Antonio Fedrigoni costituì una società in accomandita semplice fondando la cartiera di Verona. L’idea alla base del progetto fu quella di utilizzare la forza motrice offerta dal canale industriale Camuzzoni che era stato appena realizzato. Fu infatti uno dei primi imprenditori a chiedere di utilizzare le acque del canale. Fedrigoni ottenne l’utilizzo di 10 000 metri quadrati di terreno in località Basso Acquar. Durante i decenni la società si è espansa in tutto il mondo, dando lavoro a migliaia di persone, prendendo anche la lavorazione della carta Fabriano. Nel 2016 l’azienda viene ceduta a mano USA. Una parte degli edifici storici della cartiera in ZAI sono in attuale stato di degrado. La previsione urbanistica per un’area di circa 73 mila m2 è quella di realizzare un altro (ennesimo) centro commerciale, in posizione strategica rispetto al centro e alle infrastrutture. 145


120 000 m2

Mercato ortofrutticolo Il complesso è da sempre gestito dal Comune, trasferito in ZAI nel 1952 su una superficie di oltre 100 mila mq., da semplice centro annonario al servizio dei dettaglianti cittadini ha avuto negli anni un’espansione notevole registrando dal 1952 al 1971 uno sviluppo pari al 550 per cento. Da mercato di produzione locale e divenuto il centro di smistamento per gran parte dell’italia nord orientale. La merce in transito copriva infatti 1180 per cento del commercio del mercato, di cui gran parte diretto nei Paesi del Mec. Proprio questa nuova dimensione europea del Mercato ortofrutticolo esige per tutti i lavori che concernono il movimento dei prodotti agricoli diretti sui mercati della CEE la selezione qualitativa e il confezionamento delle merci, purchè erano necessarie nuove radicali ristrutturazioni. Il Mercato ortofrutticolo fu ben presto destinato a vedere il suo futuro in funzione del trasferimento nel “Quadrante Europa”.

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27 000 m2

Magazzini Eva I magazzini, costruiti nel dopo guerra, si inseriscono poco lontano dall’asse del viale del Lavoro, al margine con il quartiere residenziale di Borgo Roma. Come visto in precedenza, la società che all’epoca li gestiva commerciava merce ortofrutticola in tutta Europa, avvalendosi dei binari, tutt’ora presenti, e grazie alle celle frigorifere conservare gli alimenti. Attualmente, di proprietà privata, sono dismessi ed abbandonati. Le strutture interne non sono collassate e sono tutt’ora in buono stato, essendo in calcestruzzo armato nelle parti portanti. Nonostante lo stato di conservazione, la proprietà ha manifestato l’interesse di riformulazione della destinazione urbanistica nel piano degli interventi nel 2011. La proposta vede la demolizione dei capannoni con ricostruzione di spazi commerciali e ricettivi.

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MAPPATURA DELLA DISMISSIONE

Nella mappatura a fianco, vengono evidenziati in nero gli edifici dismessi rintracciati nel tessuto industriale della Zai e quelli nelle immediate vicinanze in Borgo Roma. La varietas funzionale va dagl’ex Magazzini stessi ad altri capannoni manifatturieri o di deposito, da uffici a residenze isolate. Tra tutti gli stabili individuati, si pone l’attenzione su un sistema di capannoni dismessi dove spicca una struttura reticolare in ferro senza copertura, che sarà oggetto di analisi più approfondite.

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MAPPATURA AREE DISMESSE

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LUOGHI DISMESSI

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Ex Magazzini Generali

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Ex Mercato Ortofrutticolo

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Ex Manifattura Tabacchi

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Residenziale

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Residenziale

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Ex Centrale del Latte

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Industriale

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Industriale

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Industriale


REPORT FOTOGRAFICO

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LUOGHI DISMESSI

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Industriale

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Industriale

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Residenziale

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Uffici

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Industriale

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Uffici

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Industriale

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Residenziale

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Industriale


REPORT FOTOGRAFICO

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Residenziale

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Residenziale

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Residenziale

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Ex Forte Azzano

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Industriale

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MANIFESTAZIONI SINDACALI

Gli anni Settanta si aprono con un evento cruciale per la storia sociale e sindacale italiana: il 20 maggio 1970 viene approvata la legge 300, più nota come “Statuto dei lavoratori”, che garantisce fondamentali diritti ai lavoratori e ai loro sindacati. Con il moltiplicarsi delle iniziative unitarie, si comincia a parlare di “unità organica” e anche a prevedere i tempi per la costituzione del sindacato unitario. Ma il processo si interrompe e, dopo una serie di riunioni lungo due anni, il risultato finale è la costituzione della Federazione unitaria Cgil, Cisl e Uil. Anche a Verona i lavoratori delle numerose aziende della Zai iniziano a manifestare nelle strade i propri diritti; ben presto, infatti, numerose fabbriche iniziarono a chiudere i battenti.

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LE INDUSTRIE IN STRETTO LEGAME CON VIALE DEL LAVORO

scalo ferroviario di Porta Nuova

scalo ferroviario di Porta Nuova

mercato ortofrutticolo

area in riqualificazione supermercato

magazzini generali

fiera

area riqualificata

fiera

foro boario e macello area riqualificata in parte dismessa

cartiere Fedrigoni

cartiere Fedrigoni

magazzini EVA area dismessa

deposito automobili forni Polin

parco Santa Teresa

forni Polin

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Associazione Ivres l’impegno sindacale di preservare la memoria

A maggio 2018 sono venuta a conoscenza di una mostra fotografica organizzata dall’associazione IVRES. Nello specifico, la mostra trattava la storia e l’evoluzione della dismissione di una grande fabbrica del Veronese: il lanificio Tiberghien. Come già trattato nelle pagine precedenti, la grande area è ora in fase di demolizione e l’unico elemento che verrà preservato è l’alta ciminiera, simbolo e land-mark nel panorama della periferia dell’est Veronese. Ivres è un’associazione di promozione sociale che si occupa di ricerca e conservazione della memoria in ambito di storia del mondo del lavoro. Promuove ricerche, organizza giornate di studio e realizza pubblicazioni e documentari sulla condizione di lavoro e lo stato dei diritti nel presente e nel passato. Possiede una biblioteca socio-economica con più di 4.500 volumi, consultabile e aperta al prestito. Conserva l’archivio sindacale della Cgil di Verona con una sezione dedicata al patrimonio fotografico ed altri fondi privati relativi alla storia del lavoro veronese. 158

Nell’informarmi per avere fotografie o quant’altro sull’area d’interesse progettuale, sono entrata in contatto con le persone che gestiscono l’associazione stessa. Facendomi dono di un libro che ben descrive l’evoluzione della ZAI nel trentennio che va dal 1950 al 1980, ho potuto intrattenere una conversazione con due socie impegnate nella diffusione dei materiali e della storia dei lavoratori, che mi hanno raccontato la situazione operai a fine anni ‘60. Numerose industrie, che davano lavoro a centinaia di persone, approfittando del crescente aumento in termini economici, stavano iniziando ad espandersi in altri territori, delocalizzando la produzione. Questo comportò in realtà crisi interne le aziende, costringendo i dipendenti ad avere salari più bassi a fronte di una maggiorazione delle ore di lavoro giornaliere. Le aziende, site per la maggior parte in via Pacinotti, nella parte a sud della ZAI, iniziarono a chiudere a catena: queste producevano ricambi per mezzi meccanici, piuttosto che materie prime per la manifattura delle calzature.

Nelle pagine seguenti, si riportano le foto che mi sono state fatte avere dall’associazione. La maggior parte sono all’interno delle officine Adige, un enorme insediamento in stretta relazione con viale del Lavoro, nella zona sud della ZAI. All’inizio di Viale Venezia, quasi alla fine agli anni Cinquanta, erano ubicate le Officine Adige che producevano rimorchi per il trasporto di merci su strada. Dopo la nascita della nuova Zona Agricola Industriale (Zai) le Officine Adige si sono trasferite su un’area di circa 500 mila m2, in ZAI, passando, successivamente sotto il controllo del Gruppo Viberti, a sua volta collegato alla FIAT (Sistema IVECO), sino a cessare l’attività alla fine degli anni Novanta. Negli anni scorsi, l’area dismessa, è stata oggetto di demolizione per fare posto ad un enorme centro commerciale, che attira ogni giorno centinaia di persone che non possono (o non vogliono) sapere cosa ci fosse precedentemente in quel luogo che ha dato da lavorare a nonni, zii, parenti.


EX OFFICINE ADIGE Ex officine Adige in alcune foto di inizio anni ‘70 Nella pagina precendente, una foto area di fine anni ‘70 del compartimento di Verona sud in prossimità dell’asse di viale del Lavoro - viale Piave. In corsivo è indicata la funzione dell’area nel periodo in cui è stata scattata la foto. In minuscolo, invece, la funzione o il ruolo che la medesima area ha oggi all’interno del tessuto della ZAI.

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EX OFFICINE ADIGE Ex officine Adige in alcune foto di inizio anni ‘70

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EX OFFICINE ADIGE Ex officine Adige in alcune foto di inizio anni ‘70

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Ex officine Adige interni in alcune foto di inizio anni ‘70

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EX OFFICINE ADIGE

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EX OFFICINE ADIGE

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In una stanza, che era larga e lunga, Stavano duecento telai molto robusti. Duecento uomini, questa è la verità, Accanto a ognuno di loro un ragazzetto Sedeva tutto allegro a far trapunte, E in un altro posto lì vicino Cento donne allegramente Cardavano la lana con buona lena e buon umore E cantavano sedute con limpide voci, E in una stanza vicina Si trovavano duecento ragazze [... J Queste graziose ragazze, senza mai interrompersi Filavano tutto il giorno in quel luogo, E così filando con voci intonate Come usignoli cantavano dolcemente. Poi essi entrarono in un’altra stanza Dove c’erano dei bambini poveramente vestiti, Ognuno dei quali sedeva scegliendo la lana E separando la più fine dalla più ruvida: Erano in tutto centocinquanta, Figli di povera gente senza mezzi, E come compenso del loro lavoro Prendevano alla sera un penny ciascuno, Oltre a mangiare e bere tutti i giorni. 168


EX OFFICINE ADIGE

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Nella pagina accanto: lavoratori delle Officine Adige manifestando in viale del Lavoro, in una foto del 1971. In questa pagina alcune foto dell’area delle officine all’epoca, prima della demolizione e durante.

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EX LANIFICIO TIBERGHIEN

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Fotografie scattate davanti alla ditta “Canguro” negli anni ‘90

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LAVORATORI DAVANTI ALLE OFFICINE ADIGE

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III

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

Nei capitoli precedenti, si è analizzato a livello storico e urbano quali siano i connotati dell’ambito a sud della città di Verona. Abbiamo visto come le aree dismesse siano molte e come spesso il futuro che aspetta alle stesse sia incoerente con il ruolo che hanno avuto in passato. Il fenomeno dell’archeologia industriale, un termine introdotto negli anni ‘70 dello scorso secolo, riguarda tutte quelle realtà che hanno visto la realizzazione di un gran numero di insediamenti artigianali-industriali-manifatturieri e che, nel corso dei decenni, sono stati a mano a mano abbandonati. In questo capitolo si cerca di capire quali siano le peculiarità di questo tema, in rapporto alla storia della città e della cittadinanza. 176


UN FATTO EUROPEO

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“Accanto all’archeologia medievale, si potrebbe porre l’archeologia industriale, quasi come sottocategoria dedicata alla catalogazione e studio dei manufatti ed edificiconnessi al nostro passatomanifatturiero, minerario e industriale, includendovi i trasporti ed alcune attrezzature commerciali, in parallelismo con i musei ed i centri di studio della civiltà contadina. E come sempre accade attorno al tema nascono infinite possibilità di interferenze.”

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Così scrive Eugenio Battisti, critico d’arte (ma non solo) appassionato al tema dell’archeologia industriale, riferendosi ad un momento storico fertilissimo. Nonostante le carenze universitarie e dell’amministrazione centrale per i beni monumentali ed ambientali, e la mancanza d’un codice specifico di schedatura (aggiuntivo alle indicazioni fornite dall’Ufficio Centrale per il Catalogo e dalla stessa Associazione per l’archeologia industriale), e pur trattandosi di un campo di scarsa tradizione, si sono moltiplicati gli operatori culturali e per merito di molta buona volontà e d’un fantasioso autodidattismo la loro qualità diciamo pure archeologica è in rapida crescita. Ma per capire di cosa stiamo parlando è necessario fare un’excursus sul significato delle parole “archeologia industriale”, a partire dalla presa di coscienza dell’esistenza di numerosi manufatti intesi come cattedrali del lavoro non più in uso come conseguenza delle modificazioni all’economia mondiale e al modo di produrre stesso.

Nella pagina accanto e in questa l’ex cotonificio Cantoni di Saronno, Varese

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Introduzione al tema dell’archeologia industriale

si riflettono negli elementi compositivi e tettonici, si dimostrano particolarmente flessibili e adattabili, prestandosi ad accogliere funzioni diverse. Le principali difficoltà che si riscontrano negli edifici industriali sono spesso dovute alle eccezionali dimensioni di tali complessi e delle rispettive aree di pertinenza. Per questo motivo le strategie d’intervento più efficaci fanno riferimento alla strategia della scatola nella scatola, oppure a quelle di sottrazione di volume. Un’altra difficoltà che spesso si riscontra nel recupero di edifici industriali è legata alla posizione che questo tipo di immobili spesso occupano nelle aree urbane di riferimento, si tratta di aree originariamente periferiche, che oggi si stanno progressivamente trasformando a centrali. Per questo motivo la reintegrazione delle quasi sempre caratterizzati da una aree dismesse nelle città presuppone delle riflessioni sulla destinazione d’uso apstraordinaria “ricchezza” spaziale propriate, perché nuove e attraenti funil più delle volte creata per mez- zioni danno origine ad un aumento del zo di materiali poveri. Spesso real- volume del traffico delle aree circostanti izzati secondo procedimenti seriali, che e a fenomeni di sostituzione sociale. L’archeologia industriale s’interessa della ricerca e dello studio storico che analizzano i segninmateriali lasciati da un processo di industrializzazione, assegnando alle attività di lavoro e ai processi di produzione una dimensione culturale. E’ una disciplina che dagli anni Settanta si è progressivamente allargata al monumen Il patrimonio industriale spesso influenza il carattere della città o di una regione. La conservazione e riqualificazione di questo patrimonio, attraverso itinerari che collegano “luoghi’ a “edifici’ che custodiscono elementi dell’industrializzazione, è fondamentale perché la perdita della memoria industriale significherebbe la perdita della memoria stessa della città. L’archeologia industriale unisce agli interessi storico- interpretativi una vocazione operativa tesa alla rifunzionalizzazione. I manufatti industriali sono

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Il riuso dell’archeologia industriale si abbina in maniera intrinseca con quello del progetto.

Addizione e sottrazione di volumi a quelli esistenti, costruzione di un nuovo edificio entro quello esistente, densificazione e realizzazioni di nuovi elementi architettonici al fianco degli immobili da recuperare, sono tra le strategie più adoperate. Il ricorso all’accoppia-

mento di esistente e nuovo, reso possibile dalla grande superficie delle aree di pertinenza, risulta una buona operazione dove nasce l’esigenza di ricuciture con il tessuto circostante, dal quale spesso i manufatti industriali risultavano isolati per la presenza di recinti o barriere di altro tipo. Gli spazi residuali tra gli edifici si prestano ad essere trattati il più delle volte come spazi pubblici. Per questo motivo nei capitoli seguenti verrà approfondito il tema, riportando alcune casi studio specifici che mi hanno aiutata.


CASALE MONFERRATO, CUPOLA IN CEMENTO

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

L’archeologia industriale, coraggiosamente espansa, potrebbe anche divenire una disciplina autonoma, ma curiosamente non tanto per una sua auspicata specializzazione, quanto per la mancanza, almeno fino a questo momento, di precisi confini. Sebbene l’espressione “archeologia industriale” sia entrata ormai, più o meno senza eccessivi contrasti, nell’uso comune da circa un trentennio - la troviamo impiegata per le prime volte in modo esplicito circa il 1955 - occorre riconoscere come attorno di essa emerga e si coaguli una problematica tuttora aperta, sia per quanto concerne la definizione e i limiti della disciplina che si intenderebbe distinguere sia, particolarmente determinante, nei confronti della relativa metodologia di indagine. Anzitutto, conviene superare un certo qual disagio implicito nello stesso inusitato accostamento del sostantivo “archeologia” con l’aggettivo “industriale”. “archeologia” indica, infatti, nel linguaggio corrente, una scienza volta allo studio di un assai remoto passato e, per giunta, di “prodotti”, se non sempre altamente qualificati, comunque abbastanza rari e resi preziosi dal loro stesso non facile reperimento; all’opposto, l’appellativo “industriale” sembra esclusivamente riferirsi a una produzione ben moderna e, di più, segnata da inconfondibili e vincolanti caratteristiche utilitarie e funzionali: così da non renderla apprezzabile secondo il metro corrente del comune “valore artistico”. In realtà, l’insolito binomio “archeologia industriale” coniato, guarda caso,

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proprio in Inghilterra, patria indiscussa e “privilegiata” del grandioso fenomeno della “rivoluzione industriale” fin dal secondo ’700, risente, in maniera forse troppo emotiva e, di conseguenza, acritica, dell’entusiastica fiducia dilagante, attorno ai non lontani anni ’50 del nostro secolo ventesimo, per quella che pareva legittimo, anzi ovvio, considerare una ripresa, diremmo meglio ma escalation illimitata del “progresso” economico: da ottenersi, appunto, tramite le assicurate “magnifiche sorti e progressive” dell’industria, risorta vittoriosa dalle ceneri dell’ultimo immane conflitto. Di qui, un giustificabile ritorno a una nuova considerazione per le superstiti testimonianze e i “luoghi deputati” dello sviluppo industriale sin dalle origini: con atteggiamenti, all’inizio, magari di svagata curiosità o di patetico rimpianto via via, però, affinati da innegabile capacità di attento recupero filologico e storicistico. Tuttavia l’associazione dei due termini incontrò la sua reale fortuna - in quei primi anni ’50 - in Inghilterra, dove Donald Dudley, professore all’Università di Birmingham, e Michael Rix cominciarono a ricorrervi per definire un campo di ricerca dagli incerti confini - in equilibrio instabile tra storia, antropologia, storia della tecnologia, urbanistica, storia economica, dell’architettura e dell’arte e dalla difficile periodizzazione. Già nel secondo dopoguerra il territorio inglese era ricco di manufatti sopravvissuti al rinnovamento degli impianti dopo il grande processo di industrializzazione del ’700 e, soprattutto, dell’800: fabbriche abbandonate o in rovina, tal-


LANIFICIO A CASSANO D’ADDA

volta con le vecchie macchine che le facevano funzionare, oppure utilizzate diversamente rispetto alla loro originaria destinazione, oppure inglobate in nuovi insediamenti produttivi e fortemente alterate. Inizialmente questo considerevole insieme di oggetti aveva interessato più che altro gli sto-rici della tecnologia, che si trovavano a disposizione una quantità di pezzi autentici da studiare nella loro collocazione originale. Ben presto anche gli storici dell’architettura e dell’urbanistica si resero conto che i primi insediamenti industriali - fabbriche e case operaie - costituivano modelli che poi si sarebbero sviluppati nella città contemporanea, mentre i singoli manufatti erano un luogo privilegiato di sperimentazione non solo di tecniche e materiali costruttivi mai usati fino allora, ma pure di nuovi spazi di vita e di lavoro; mentre gli storici dell’arte potevano trovare nei mascheramenti formali delle fabbriche un’esemplificazione straordinariamente ricca di quella battaglia degli stili che accompagnò tutto lo sviluppo architettonico dell’800 e del primo ’900. Nell’arco degli oltre sessantanni che ci separano dagli inizi di una consapevole ricerca di archeologia industriale, questa disciplina (se così la si può chiamare, per comodità ma con qualche forzatura) non è tuttavia riuscita a definire in modo pienamente soddisfacente ambito e arco cronologico di pertinenza. Tuttavia, superate la curiosità, gli entusiasmi, le perplessità iniziali, ha innegabilmente compiuto grandi progressi sia dal punto di vista della diffusione al di fuori del luogo d’origine, l’Inghilterra, sia dal punto di

vista della mole di in-formazioni e della quantità di “scoperte” rese possibili da una ricerca scientifica progressivamente più raffinata e via via più praticata. Proprio la consapevolezza di una difficile “collocazione” della disciplina - sia relativamente al campo d’indagine che al suo arco cronologico - ha comportato una fioritura di definizioni, prime fra tutte quelle degli studiosi inglesi. Nel 1963 Green parlava di archeologo industriale come di colui che “si occupa della catalogazione e dello studio dei resti del primo industrialesimo, specie quello dei secoli XVIII e XIX, che non sono stati finora oggetto di studio sul campo. Il metodo dello studio sul campo e della catalogazione e perfino dello scavo nei luoghi opportunamente scelti fa rientrare la materia nel campo dell’archeologia come una sua branca, anche se i risultati ottenuti sembrano essere di maggior valore per gli storici della tecnologia e dell’economia”. Quattro anni più tardi, quando in Inghilterra la ricerca sul campo aveva già portato a significativi risultati e gli studiosi potevano dare il via a una prima si¬stematizzazione dei dati e delle conoscenze acquisite, Rix proponeva ancora più sinteticamente: “L’archeologia industriale può essere definita come cata¬logazione, in determinati casi conservazione, e interpretazione dei luoghi e delle strutture della prima attività industriale, specialmente dei monumenti della rivoluzione industriale”. Nel 1972 Angus Buchanan precisava ulteriormente cosa dovesse intendersi per luoghi e strutture della prima attività industriale e utilizzava il termine “monumenti industriali” per

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

indicare in primo luogo manifatture e fabbriche, senza però escludere “tutti i resti del processo industriale e dell’industrializzazione: per esempio case, luoghi di ritrovo, chiese per la classe operaia. L’archeologia industriale... tende a collocare l’importanza di questi monumenti nel contesto della storia della società e della tecnologia”. Sulla base di tali definizioni, insufficienti a risolvere sostanzialmente gli incerti equilibri della disciplina, ma punti di riferimento operativamente precisi e attendibili, l’Ispettorato ai monumenti antichi del Ministero dei lavori pubblici inglese indicava come monumento industriale “qualunque edificio o altra struttura fissa, specialmente del periodo della rivoluzione industriale, che, in sé o associato a impianti o strutture primarie, illustra l’inizio e lo sviluppo dei processi tecnici e industriali, compresi i mezzi di comunicazione”. La questione era semplificata, solo in apparenza, con l’abbinamento dell’aggettivo “industriale” al sostantivo “rivoluzione” (anziché “archeologia”): d’altra parte non erano esclusi dalla nozione di monumento industriale tutti quei reperti in qualche modo riconducibili a una generica nozione di industria, difficilmente ancoratale a un momento storico, economico e culturale determina¬to. Lo stesso Buchanan, volendo meglio precisare la nozione di monumento industriale, arrivava infine alla massima indeterminatezza pensando a “qualunque resto della fase obsoleta di un sistema industriale o di trasporto, dalla miniera di selci neolitica all’aeroporto oggi superato o al computer”. 184

La soluzione di questo problema, legato all’ampiezza da attribuire all’aggettivo “industriale”, ha diviso e divide tuttora gli studiosi; si connette, d’altronde, alla difficoltà di una definizione di “rivoluzione industriale” del tutto, e per tutti, soddisfacente, se non altro perché quel complesso fenomeno storico si è manifestato secondo modi e tempi assai diversi nelle differenti aree geografiche (si pensi soltanto alla situazione inglese confrontata all’italiana: e, in Italia, alle ulteriori disomogeneità dello sviluppo industriale). Al di là del dibattito teorico, il campo di ricerca dell’archeologia industriale, dai primi anni ’50 a oggi, è stato definito dalle indagini condotte sul campo dagli studiosi inglesi prima, poi dell’Europa intera e degli Stati Uniti. In base alla elementare constatazione che i resti, anche produttivi, delle epoche precedenti la rivoluzione industriale erano già oggetto di studio di discipline di ben più antiche tradizioni e solidità scientifica (dalla paletnologia all’archeologia classica con le sue molteplici diramazioni, fino all’archeologia medioevale), tali indagini hanno in massima parte preso in considerazione manufatti dal ’700 in avanti. È invece più difficile pensare a un termine cronologico conclusivo an¬che perché, dati i sempre più rapidi tempi di consumo delle strutture produttive moderne, l’archeologia industriale arriva a confondersi con l’archeologia contemporanea: una fabbrica come il Lingotto di Torino, costruita dopo la prima guerra mondiale per produrre automobili e attiva fino a pochi anni fa, è diventata un reperto archeologico-industriale in un arco di


UN FATTO EUROPEO

tempo decisamente breve, ma certamente più lungo di quello necessario a far invecchiare e rendere obsoleta, per esempio una fabbrica di computer. D’altronde, anche il termine iniziale del XVIII secolo va inteso con una certa elasticità. Se è vero infatti che fu nel corso del ’700 che il modo di produzione industriale cominciò ad affermarsi come dominante, imponendo le proprie regole agli altri settori della vita collettiva e avviando un’immediata- mente percepibile alterazione del paesaggio (fu come è noto in Inghilterra che gli sviluppi tecnologici, l’accumulazione di capitale e la disponibilità di manodopera, concentrata in grandi centri di produzione, ben presto enormi metropoli, concorsero al primo tàke off della civiltà industriale), è altrettanto vero che elementi del modo di produzione industriale sono rintracciabili anche prima. È il caso, per fare un esempio italiano, dei seicenteschi mulini da seta “alla bolognese” (o “alla piemontese”) studiati da Carlo Poni che, benché ma¬nufatti produttivi di concezione straordinariamente avanzata - soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro - si svilupparono nell’ambito di un’economia non ancora connotabile come propriamente industriale. È dunque ^a tener presente un’ampia fascia storica, sia prima sia dopo il periodo comunemente indicato come della rivoluzione industriale, entro la quale si collocano anticipazioni o sussistenze che interessano evidentemente ancora, proprio per queste loro peculiarità e poiché possono completare serie storiche, gli studiosi di questa disciplina.

Il passaggio dalla manifattura alla fabbrica si può seguire chiaramente prendendo in esame l’industria tessile, che nell’arco di circa un secolo, tra la metà del XVIII e la metà del XIX, si affermò, in alcune aree europee (in primo luogo Inghilterra e Germania) e degli Stati Uniti, come un settore di punta, luogo di applicazione privilegiato in una quantità di innovazioni tecnologiche e costruttive. Evitando di trattare casi isolati del XVI e del XVII secolo (come la tessi¬tura di William Stunpe a Malsmury o l’industria di Jack di Newbury, che si tra¬manda impiegasse un migliaio di artigiani), i precedenti della grande fabbrica inglese si ritrovano, all’inizio del ’700, nella prima sistematica concentrazione in laboratori di macchine tessili azionate a mano: qualcosa di analogo a quanto si stava verificando in Francia, ma in un clima di libera iniziativa che non richiedeva quella ricerca, anche, di buona architettura tipica della situazione francese. Le prime concentrazioni di industria tessile si ebbero, in Inghilterra, nel¬le Midlands, a Nottingham, a Chesterfield. Per quanto riguarda la torcitura della seta è da ricordare, nel primo ’700, il mulino a tre piani costruito da Tho¬mas Cotchett a Derby sul fiume Derwent e quello a cinque piani edificato nel 1721 accanto al precedente dal Lombe, che aveva introdotto in Inghilterra, dopo un paio d’anni di spionaggio industriale in Italia, il mulino da seta “alla piemontese”. Con macchine italiane veniva così fatta funzionare la prima vera fabbrica inglese. Scaduto il brevetto di Lombe molti altri mulini da seta furono costruiti in tutto il

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

Sotto: lanificio Tiberghien Verona; sopra: Zuccherificio Eridania, Codigoro (Italia), 2009.

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paese, a Sherbome nel Dorset (1740), a Macclesfield (1743), a Stockport (1752), a Sutton-in- Ashfield nel Derbyshire (1753), a Chesterfield (1753), a Sheffield (1758): ma il centro della torcitura rimase sempre Derby, dove atta fine del secolo erano in funzione 11 mulini che davano lavo¬ro a quasi un migliaio di persone. Fatta eccezione per i mulini da seta, si trattò inizialmente di laboratori di limitate dimensioni, costruiti presso le case dei mercanti e degli imprenditori, dove gli operai prestavano la loro opera senza l’ausilio di un sistema di produzione dell’energia: le loro proporzioni si accrebbero intorno al 1780, quando, per esempio, cominciarono a entrare in uso macchine tessili con 80/100 fasi ciascuna. A Nottingham, Hargreaves e il socio Thomas James collocarono le loro prime jennies nel famoso Hockley Mill, che conteneva una cinquantina di macchine. A cavallo del secolo anche i filatoi intermittenti di Crompton, che inizialmente funzionavano a mano, si diffusero nei laboratori inglesi di città e di campagna, ponendo il problema della costruzione di strut¬ture più adeguate per accoglierli in maniera funzionale. Come già accennato, nella fabbrica tessile inglese tardosettecentesca non sussistevano le preoccupazioni d’ordine simbolico e formale che avevano invece condizionato i costruttori delle manifatture reali in Francia, spesso architetti illuministi legati a un’idea di architettura fondata sui principi classici di equilibrio e simmetria. Con essa, d’altra parte, si interruppe bruscamente il legame con le tradizioni costruttive - e di “misura” - lo-

cali, che bene o male per tutto il secolo avevano prodotto una crescita, per così dire, organica della pri¬ma architettura industriale. In Inghilterra continuò a essere il millwright a decidere, progettando esclusivamente in termini di utilità, economia, funzionalità: quando interveniva un architetto - e capitò raramente in questa prima fase - si preoccupava solo della decorazione esterna dell’edificio, non certo della sua struttura e dell’articolazione interna. Così, attraverso la figura del millwright, fa la tecnologia allora disponibile a determinare struttura e dimensione delle prime fabbriche. Le macchine, per esempio, non potevano essere lontane dalla ruota motrice, perché alberi di trasmissione troppo lunghi tendevano a disperdere l’energia; l’edificio non doveva essere molto largo, per consentire alla luce di illuminarlo adeguatamente; le fondamenta, infine, dovevano essere profonde abbastanza da assorbire quanto più possibile le vibrazioni delle macchine (e proprio in ciò stava uno dei costi maggiori della costruzione di una “buona” fabbrica). Il migliore design per una fabbrica azionata da un motore idraulico (e successivamente a vapore) si dimostrò quello che riusciva a combinare una ottimizzazione della trasmissione dell’energia, dell’illuminazione e della solidità delle fondamenta. Nacque da queste esigenze il tipo dello stabilimento multipiano, lungo e stretto, con i macchinari localizzati in vicinanza sia delle finestre, sia della ruota motrice e dell’albero di trasmissione, originariamente di legno.


UN FATTO EUROPEO

Sotto: foto della prima industrializzazione di Verona; sopra: archeologia industriale a Prato

Per quanto riguarda la fonte d’energia, va sottolineata, proprio in questo periodo, la sostituzione del motore idraulico con la macchina a vapore. Si ritiene che la prima a essere installata in un opificio sia stata quella che nel 1775 l’inglese Arkwnght utilizzò nella sua filatura per sollevare l’acqua fino a un serbatoio che a sua volta azionava una ruota idraulica. Dal 1784 si incominciò a usare la macchina a vapore a effetto doppio, e nel giro di una quarantina d’anni l’impiego della nuova fonte d’energia si diffuse ampiamente, soprattutto in Inghilterra. La sua introduzione svincolava la fabbrica dalla necessità di collocarsi lungo un corso d’acqua o in sua prossimità, determinando la con-centrazione di impianti e stabilimenti industriali in aree o lungo direttrici di importanza commerciale. Il vapore, però, non escludeva l’impiego di motori idraulici, che continuavano infatti a sussistere, e addirittura si moltiplicavano, nelle fabbriche che avevano adottato i nuovi telai meccanici. La ciminiera divenne il segno distintivo di stabilimenti di dimensioni via via più monumentali, caratterizzati dall’impiego di parti strutturali metalliche. La sostituzione delle travi e dei pilastri in legno con colonnine e putrelle di ghisa e ferro, a partire dal 1780 circa, era motivata anche dalla alta frequenza degli incendi che colpivano soprattutto cotonifici, dove tanto la materia prima che l’olio per i macchinari erano estremamente infiammabili, ed era resa pos¬sibile dagli sviluppi dell’industria siderurgica inglese, ormai pienamente in grado, all’epoca, di produrre su vasta scala le parti richieste.

Modello di fabbrica verticale ottocentesca può senz’altro essere conside¬rata la filatura di cotone di Salford, presso Manchester (1801, ingegneri Boul- ton e Watt): una struttura di sette piani, lunga e stretta come si conveniva, sostenuta da due file di 22 colonnine di ghisa per piano, su cui poggiavano pu¬trelle in ferro a doppia T e voltine in mattoni intonacate (per ridurre i rischi d’incendio e consentire uno sfruttamento per quel tempo ottimale degli spa¬zi di lavoro). Ogni piano risultava ripartito in tre lunghissime navate: nelle due laterali trovavano posto le macchine in prossimità delle finestre, nel corrido¬io centrale sgombro passavano i materiali e i lavoratori (circa tre o quattro- cento fra operai e addetti alle funzioni di servizio, uomini, donne e bambini). Settantanni più tardi un’altra fondamentale tappa nella costruzione di sta-bilimenti con parti in ferro sarebbe stata segnata dalla fabbrica di cioccolato Menier a Noisiel-sur-Mame (1871-72, architetti Jules Saulnier e Gustave Eif¬fel): non si trattava più soltanto dell’impiego di colonnine e di putrelle in ghi¬sa e ferro, ma della realizzazione di un’organica intelaiatura metallica coincidente con l’intera struttura portante della fabbrica, il cui rivestimento in mattoni policromi disposti a motivi geometrici era solcato dalle sottili nerva¬ture metalliche reticolari della “gabbia”, lasciata in vista. La cioccolateria fu collocata trasversalmente sulla Marna, in modo che la corrente del fiume azio¬nasse le tre grandi turbine collocate tra i quattro piloni che sostenevano la struttura portante. 187


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

A fabbriche del genere, sviluppatesi prevalentemente in verticale, si erano aggiunte intorno alla metà del secolo quelle a sviluppo orizzontale, dove un modulo di un unico piano, denominato shed, si ripeteva in serie arrivando a coprire superfici molto estese. Lo shed aveva il vantaggio, tra gli altri, di migliorare l’illuminazione, che rimaneva più costante lungo tutto l’arco della giornata: per ottenere questo risultato, gli spioventi della sua copertura avevano un’inclinazione diversa, forte in quello esposto a nord, completamente vetrato, molto meno nell’altro, che formava con il primo un angolo retto. Dopo i suoi primi consistenti impieghi, in stabilimenti costruiti attorno al 1850, Qshed si diffuse rapidamente, diventando uno dei connotati architettocamente ricco. Singolarmente in contrasto con la modernità di un paesaggio così fortemente tecnologizzato, fatto di percorsi di fili e tralicci metallici, di ciclopiche condotte in lamiera chiodata o saldata, di lice dighe di cemento, si ponevano gli edifici delle macchine, considerati i simboli di una civiltà nuova, che faceva uso di un’energia pulita in grado di affrancare gli nomini da molte fatiche e di aprire la via a un progresso apparentemente senza limiti. Il gusto del tempo non trovò di meglio che portare alle estreme conseguenze, proprio nei contenitori dei nuovissimi impianti, quel ri-corso ai vecchi stili già tipico delle soluzioni formali autocelebrative e promozionali di tante fabbriche ottocentesche. Ma la modernità si impose, nuovamente, negli interni: enormi spazi senza fumi e senza rumori 188

caratterizzati da un design accuratissimo, dove le macchine erano controllate per mezzo di razionali quadri di comando da una minima e discreta presenza umana. A questa branca dell’archeologia industriale possono essere ricondotti altri tipi di fabbriche d’energia come le officine del gas con i loro gasometri, costruite a partire dalla prima metà del XIX secolo, e le opere legate alla raccolta e alla distribuzione dell’acqua (acquedotti e cisterne). Capita che queste ultime siano celate dietro altre importanti presenze storiche - come è il caso di una cisterna milanese edificata dentro un torrione angolare del Castello Sforzesco - ma più spesso esse costituiscono monumenti urbani di grande impatto visivo, come le bellissime torri della Renania e dell’Olanda che già sono state oggetto di approfonditi lavori di rilievo e di catalogazione.

Stazioni e strade ferrate, canali e docks Prima delle centrali idroelettriche, a partire dagli anni ’40 dell’800, erano le stazioni ferroviarie il simbolo più pregnante del progresso industriale: con-siderate da un punto di vista attuale esse appaiono anche il luogo della massima contraddizione tra la funzionalità e la modernità delle enormi gallerie e arcate in ferro e vetro delle coperture e le facciate di rappresentanza, che attingevano i loro mutevoli stili a un repertorio di modelli desunti dal passato, alternando, o addirittura mescolando, singolari recuperi neoegizi con i più consueti neomedievalismi


UN FATTO EUROPEO

o neorinascimentalismi. Lo stile doveva essere commisurato all’entità della stazione: se gotico e romanico trionfavano nelle stazioni di testa, nei centri minori erano sufficienti le riprese di stili dai connotati più precisi, il Tudor in Inghilterra, il Rinascimento tedesco in Germania, un sobrio neoclassicismo in Italia, fino a soluzioni adeguate alle tradizioni che piano piano è giocato da stazioni e ponti, vanno anche ricordati i canali che, prima dell’avvento della ferrovia, costituivano una rete insostituibile di vie di trasporto di materie prime e di prodotti finiti sia, soprattutto, nell’Inghilterra settecentesca, sia sul continente. Come le strade ferrate, erano dotati di strutture e di architetture di servizio che appaiono oggi di rilevante interesse storico: dai tunnel per battelli ai sistemi più elementari di chiuse e a quelli più complessi, caratterizzati da serie di ascensori in successione e grandi stazioni di pompaggio, come quelle di Houdeng in Belgio (1887-88), di Fontinette in Francia (1888) o, di Henrichenburg in Germania (1909-14). I docks dei grandi porti inglesi e continentali rappresentano il terzo fondamentale “luogo” dell’archeologia dei trasporti in età industriale. Anch’essi furono costruiti, non appena la tecnologia lo rese possibile, con strutture - e anche dettagli architettonici - in metallo: un modello classico è il sistema dei docks londinesi sul Tamigi (i West-India Docks, i London Docks, i St. Katherine Docks...), di cui è attualmente in corso un progetto di recupero e di ristrutturazione: ma sono pure notevoli, tra i tanti, i docks di Marsiglia, progettati nel 1827, i poderosi Al-

bert Docks di Liverpool (1839-45), dalle enormi colonne in ghisa in stile dorico del piano terreno, le cupe forme goticizzanti dei più recenti depositi di Colonia, affacciati sul Reno. In Italia impianti di rilievo si trovano a Genova e a Trieste, dove la più in-teressante area di archeologia industriale è proprio il porto vecchio, un complesso paesaggio artificiale, in gran parte inattivo, scandito dalla ritmica successione di file di colonnine di ghisa.

Paraboloidi in cemento a Casal Monferrato, anche nella foto in alto nella pagina accanto In basso, nella pagina accanto, fabbrica di produzione di Eternit sempre nel distretto di Casal Monferrato

Il campo di indagine dell’archeologia industriale Se gli spazi e le forme della fabbrica forniscono informazioni preziose sulle modificazioni progressive di ritmi e modi di lavoro, spazi e forme domestiche gettano luce sui tempi del non-lavoro dell’uomo industriale, riflettendo una razionalizzazione delle abitudini, dei percorsi e dei comportamenti spesso speculare rispetto alla razionalizzazione del lavoro. Una fabbrica, doveva essere solida e produttiva, ma nello stesso tempo costare il meno possibile. Analogamente, le case per operai furono costruite per consentire alla forza lavoro di riprodursi (oltre che essere vicina a fabbriche e miniere), dovendo però rappresentare un investimento il più possibile contenuto. L’effetto combinato di queste due considerazioni - non sempre in equilibrio - spiega l’ampia gamma di situazioni abitative riscontrabile: dalle spaventose condizioni descritte da tanti narratori, filosofi e politici ottocenteschi (e acutamente 189


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Progetto del Gucci Hub presso le ex officine aereonautiche Caproni a sud di Milano

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rappresentate da Gustave Dorè nelle sue illustrazioni della Londra vittoriana) a standard economici ma decisamente accettabili, superiori alla media corrente nella fase del decollo industriale in un qualunque paese europeo. Nella determinazione di tali scarti qualitativi giocava ovviamente un ruolo di primo piano il costo dei terreni, molto elevato in città, dove gli spazi a disposizione erano limitati, più basso in periferia o in aperta campagna. Ma progressivamente, una volta superata, cioè, la fase più selvaggia dell’industrializzazione, anche altri fattori cominciarono a influenzare considerevolmente l’edilizia operaia: in primo luogo lo sviluppo di una linea di pensiero tra utopismo di matrice illuminista, riformismo liberale, filantropismo, socialismo romantico e igienismo, ricca dunque di apporti ideologici anche molto lontani l’uno dall’altro, che comunque vedeva nella questione delle abitazioni un nodo fondamentale della società civile e un problema morale; poi le rivendicazioni dei destinatari delle case stesse, con la costituzione di cooperative a loro volta impegnate nell’edificazione di case economiche ma confortevoli. Il panorama dell’abitazione operaia risulta dunque dal vario mescolamento dei fattori sopra indicati: interessi degli imprenditori e profitti dei costruttori, influenze del pensiero utopico-riformista, azioni della classe operaia. Ci si può conseguentemente imbattere in tuguri che rispecchiano la ricerca del massimo profitto, ma anche in tentativi di città ideali pensate come luoghi di una perfetta socializzazione e di realizzazione della

felicità collettiva. In sintesi, i modelli cui può essere ricondotta l’edilizia per operai sono so-stanzialmente due: la casa, o villino, o cottage per poche famiglie e il grande casamento multipiano per centinaia di persone. La casa singola (per una, due, tre o quattro famiglie, ciascuna con ingresso indipendente) è di solito a due piani con un piccolo giardino. Aggregabile in due diverse soluzioni (di solito isolata o a schiera), rappresenta lo sviluppo della abitazione-laboratorio del tessitore protoindustriale ma anche, per esempio, degli insediamenti semirurali legati alla lavorazione del ferro, dispersi, come avamposti o “villaggi di frontiera”, in località remote ricche di materie prime. I quartieri operai di San Leucio, dove le dimensioni dei piani terreni ci ricordano che quelle stanze dovevano contenere i grandi telai di legno, o, più indietro nel tempo, le seicentesche case a schiera, in pietra, degli operai della ferriera di Salles de Perret possono essere letti come i precedenti del classico villaggio operaio ottocentesco sperimentato in tutta l’Europa industriale, e naturalmente anche in America. È esemplare il caso di Crespi d’Adda, forse il sito di archeologia industriale maggiormente studiato in Italia. Come il villaggio francese di Noi- siel, costruito intorno alla fabbrica di cioccolato Menier, la comunità di Crespi si è sviluppata, a partire dal 1878, intorno a un asse viario principale collegante direttamente, e molto significativamente, l’ingresso del villaggio e il monumentale cimitero all’estremità opposta. Sul lato destro dell’asse funzionava il cotonificio,


UN FATTO EUROPEO

oggi ancora attivo anche se in termini diversi rispetto all’impiego originale; sul lato sinistro, disposte entro una griglia regolare di vie parallele e perpendicolari, i villini operai, soprattutto mono e bifamiliari, ciascuno con il proprio orto-giardino recintato? Ogni famiglia disponeva di quattro locali e godeva quindi di una situazione certamente privilegiata rispetto alla media nelle grandi concentrazioni urbane del tempo. L’industriale Crespi descriveva così, nel 1894, una casa tipo del suo villaggio: “A piano terreno vi è ima camera, pei lavori domestici, di circa 18 metri quadrati e una cucina di circa 20 metri quadri; al primo piano corrispondono due camere da letto; nel solaio si pratica un ripostiglio. Dietro la casa si ha un piccolo porticato con un lavatoio, e in seguito la latrina, che è così completamente staccata dall’abitato. Le camere ricevono l’aria e la luce da due parti... Dacché la popolazione è distribuita nelle nuove casette, la tranquillità e l’igiene del citato villaggio operaio sono perfette: le morti sono rarissime, le malattie infettive o non attecchiscono o non si propagano: le nascite troppo frequenti formano la più seria preoccupazione del proprietario”. La parte del villaggio destinata al non-lavoro comprendeva, inoltre, una chiesa, una cooperativa di consumo, un albergo, un”’ambulanza”, un lavatoio pubblico, la scuola e l’asilo, il teatro, il velodromo e la piazza, consacrata alla vita sociale (a Noisiel funzionava anche una biblioteca e si esibiva periodicamente un’orchestra di musica classica per l’educazione spirituale degli operai). In posizione eccentrica rispetto alle ca

se dei lavoratori fu costruita l’abitazione padronale, in forma di castello medioevale merlato e turrito: la stessa formalizzazione di un rapporto gerarchico rigido e fortemente affermato si coglie nell’impressionante cimitero, dove il faraonico mausoleo dei Crespi incombe sulle file di croci e di tombe tutte uguali. Interventi del genere erano sorretti dalla convinzione di poter formare una comunità solidale attorno alla fabbrica, ridurre l’assenteismo, sfruttare più ampiamente il meno costoso lavoro delle donne (che l’asilo liberava dalla cura dei figli) ed esercitare un più facile controllo sui dipendenti, lontani come si era da centri urbani sovraffollati e turbolenti. Tra la parodia della comunità di villaggio rurale, preindustriale, e la prefigurazione di soluzioni urbanistiche ampiamente adottate nel nostro secolo, caratterizzanti la città contemporanea, si collocano molti altri villaggi e quartieri operai del secondo ’800: primo fra tutti il complesso dei cottages operai di Mulhouse (1848), poi, in Italia, quelli di Schio e di Collegno e, in Germania, il villaggio di Essen e in genere quelli promossi dalla Krupp vicino alle sue acciaierie nella Ruhr. La soluzione dei grandi complessi abitativi, talvolta indistinguibili dalle strutture produttive vere e proprie, fabbriche e manifatture, ha tuttavia incontrato maggiore successo e diffusione: sulle controindicazioni politiche - i rischi di una troppo elevata concentrazione di manodopera sradicata, potenzialmente rivoluzionaria - hanno infatti di solito prevalso le considerazioni economiche. La definizione di questo modello si è affermata

La fabbrica Tempini di Brescia negli anni ‘20,

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secondo una infinità di varianti, che per lo più sviluppavano il tema dell’edificio di minor costo per il maggior numero di alloggi. Vi furono tuttavia episodi eccentrici rispetto a tale regola di fondo, che progressivamente la modificarono nel senso di una ricerca di qualità e di più accettabili standard abitativi. Anche se per molti aspetti sono assimilabili al tipo del villaggio operaio, si possono ricordare i due spettacolari complessi, legati all’industria estrattiva belga, del Grand Homu (1820- 32), presso Mons, e di Bois-du-Luc (1838-53), entrambi risultanti da un’idea di progettazione complessiva nel cui decoro neoclassico si riconoscono ancora, soprattutto nel primo, i segni della cultura illuminista; non va poi tralasciata l’idea del falansterio di Fourier, tradotta in realtà nel familisterio progettato da Godin nel 1858 e concluso nel 1880 a Guisa (per oltre mille persone, con servizi comuni, scuole, teatro, giardini) accanto alle sue fabbriche di stufe, radiatori e vasche da bagno in ghisa; infine le realizzazioni delle società cooperative, impegnate nella definizione di standard il più possibile elevati, fino a risultati di assoluto rilievo nella storia dell’architettura contemporanea come, per esempio, i quartieri operai viennesi degli anni ’20 (Winarskyhof di Be- hrens, Frank e Hoffmann, 1924; Karl Marx Hof di Ehn, 1927; Rabenhof di Schmid e Aichinger, 1927-29).

cia un’indagine più organizzata sull’argomento, in particolare dal 1973 con

il primo “Congresso Internazionale sulla conservazione dei monumenti industriali” che si tenne ad

Ironbridge, in Gran Bretagna. Gli argomenti trattati, pur affrontati con spirito di scoperta, avevano a che fare con una disciplina che stava nascendo in quel momento e l’idea di volgere lo sguardo di storici e studiosi verso luoghi e processi di un’industrializzazione che non era poi così lontana, non incontrava i favori di tutti. Le stesse industrie non avevano ancora cominciato a considerare l’eredità della prima ondata industriale come una parte importante della tradizione culturale del paese, non ritenendola abbastanza “nobile” da meritare l’attenzione riservata all’archeologia intesa in senso più classico. Inoltre, considerato che erano ancora in vita persone che avevano un ricordo soggettivo degli anni difficili nelle fabbriche, in condizioni di vita tremende, elevare questo ricordo non era certo nelle loro intenzioni. Per questo motivo, gli archeologi industriali, all’inizio, dovettero superare atteggiamenti di forte scetticismo e ostilità nei loro confronti per arrivare a fondare la materia. A questo punto si rese necessaria la creazione di una organizzazione che potesse promuovere la cooperazione internazionale sull’argomento. Ed è per questo motivo che nel 1978, nel corso della

terza conferenza sui monumenti industriali tenutasi in Svezia, fu Dagli anni ’70 dello scorso secolocomin- creato il Comitato Internazionale Nascita della materia

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UN FATTO EUROPEO

per la Conservazione dell’Eredità Industriale (The International Company for the Conservation of the Industrial Heritage - TICCIH), ancora oggi operante ed esistente in 42 paesi del mondo. Lo statuto di questa organizzazione, definisce come epoca di studio quella dell’industrializzazione, indicando come “patrimonio industriale” quanto segue: - beni immobili e mobili quali attrezzature, installazioni e accessori che forniscano una dimostrazione delle attività industriali di società economicamente progredite o in via di sviluppo, comprese le fonti di energia e di materie prime, posti di lavoro, abitazioni, mezzi di trasporto e relativi macchinari; - il materiale grafico o altra documentazione su attività e impianti industriali, strutture, attrezzature e testi tecnici, legali e altri, inerenti al patrimonio industriale in genere; - prodotti industriali. Per quanto riguarda criteri e obiettivi, lo statuto indica quelli da osservare in merito a ricerche e studi, collegando i metodi adottati a quelli dell’archeologia classica. Infatti, per lo studio di reperti di archeologia industriale, siano essi di qualunque tipo, è necessario raccogliere documentazione preventiva che li riguardi, compiere studi e rilievi sul posto e infine catalogare quanto trovato per avere una visione completa e ordinata del bene oggetto di studio. La cosa più interessante nell’evoluzione della materia dagli anni ’70 ad oggi è il modo in cui si considera il bene in sé,

o meglio cosa si intenda per bene industriale. In principio, infatti, gli studiosi della disciplina, individuarono come oggetto principale di studio il “monumento industriale”. Esso venne definito dal Ministero dei Lavori Pubblici inglese come “edificio o altra struttura fissa, specialmente del periodo della rivoluzione industriale, che in sé o associato a impianti o strutture primarie illustra l’inizio e lo sviluppo di processi tecnici e industriali, compresi i mezzi di comunicazione”. Una definizione di questo tipo, pone l’accento in particolar modo sul ruolo che avrebbero avuto le fabbriche, in quanto contenitori di vita industriale, nell’aver dato la scintilla che fece nascere processi industriali in una determinata zona. Si può dire che, la prima fase dell’archeologia industriale, dal punto di vista metodologico, si comportasse come la vera e propria archeologia, anche se esercitata senza una vera attività di scavo. L’unico riferimento negli studi a riguardo erano, infatti, i resti materiali dell’età industriale. Questa attenzione al solo manufatto ha portato, nei primi studiosi della disciplina, delle complicazioni, in quanto, analizzando il manufatto in sé, anche se l’attenzione verso gli aspetti tecnologici dello stesso era molto forte, ci si riduceva ad un’analisi di tipo quasi esclusivamente storico-architettonica. Per questo motivo l’analisi veniva richiesta a figure con una spiccata formazione architettonica, che tuttavia avevano lacune in alcuni aspetti storici e archeologici determinanti per la buona riuscita della catalogazione. Grazie a questo fatto le prime analisi

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diedero grandissimo risalto agli aspetti estetici del manufatto, a particolari criteri della sua costruzione, all’organizzazione dello spazio interno e ad elementi decorativi. Il merito di questo approccio è stato quello di conferire agli edifici industriali lo status di monumenti e di renderli poi “beni culturali”, parte del patrimonio di un paese e quindi degni di essere conservati. Il limite di questa visione, basata esclusivamente sul monumento, è di non far percepire completamente le vicende storiche legate alla sua stessa realizzazione. L’analisi delle sole qualità architettoniche del manufatto può fornire molte notizie utili, ma se esse vengono estrapolate da un contesto più ampio, possono risultare falsate. Solo l’analisi del contesto ambientale in cui è sorto un particolare edificio può farci rendere conto delle congiunture storiche, economiche e ambientali che hanno portato alla sua realizzazione. Per questo motivo, dalla fine degli anni ’70, il concetto di “monumento industriale”, ha cominciato ad allargarsi ai dintorni geografici dello stesso, sottolineando come le trasformazioni storiche non abbiano investito soltanto il monumento ma anche l’ambiente in cui questo è inserito. Esempio lampante di quanto appena detto è il forte impatto, generato dalla nascita di una fabbrica, sulla viabilità del sito immediatamente adiacente alla stessa. Inoltre, se pensiamo alla prima industrializzazione, tra i caratteri fondamentali vi era il fatto che gli operai abitassero, il più delle volte, nei pressi dell’impianto e che per questo motivo i villaggi operai furono tra le prime realizzazioni del tem194

po. Risulta quindi evidente come un’analisi completa di un’industria debba tenere conto anche della viabilità da essa generata, delle case operaie, dei ritrovi degli stessi, degli edifici di culto e quant’altro possa essere simbolo di una vita comunitaria. Per questo motivo si è passati dalla dicitura di “monumento industriale” a quella di “sito industriale”. Di nuovo, qualche anno più tardi, alcune critiche furono fatte nei confronti di temi connessi all’ambiente, profondamente alterato dalle modificazioni avvenute durante il periodo del boom industriale. Il carattere maggiormente studiato dalla disciplina negli USA è quindi il rapporto venutosi a stabilire tra la prima industrializzazione e la situazione ambientale preesistente. Esempio totalmente diverso è quello dei paesi dell’Est europeo, dove l’accento è stato posto sul lavoro, intendendo il reperto industriale come testimonianza dei rapporti di produzione generati dallo sfruttamento capitalistico delle classi lavoratrici, o dello sforzo, compiuto dagli ex paesi socialisti, per dare vita a uno sviluppo industriale e a nuovi rapporti sociali più conformi alla situazione media europea. Inoltre, per quanto concerne la tempistica, la Francia ha suggerito una propria scansione temporale degli avvenimenti industriali, basata sulla propria esperienza. Infatti, uno studioso ha affermato che nel proprio paese non vi è ragione di ignorare il XVIII e il XVII secolo (cosa fatta invece dagli studiosi inglesi), poiché l’industria qui ha prosperato più precocemente rispetto ad altri paesi, rallentando


UN FATTO EUROPEO

poi prima della riconosciuta rivoluzione industriale e lasciando quindi all’Inghilterra il primato. Come si è già visto, questa è la problematica che concerne la possibilità di includere o meno nella trattazione temporale, il periodo di proto-industrializzazione, in altre parole di quella fase che ha preceduto il decollo industriale e durante la quale si sono poste le basi per la diffusione del sistema di fabbrica. Anche il caso italiano è simile a quello francese e rende difficoltosa una periodizzazione dettata dall’esperienza inglese. Infatti, mentre in Inghilterra la rivoluzione industriale è stato un fenomeno che si è sviluppato ed è giunto al successo repentinamente nell’arco di pochi decenni del XVIII secolo, le basi per la sua realizzazione avevano radici ben più antiche. Appare evidente come, la traduzione in altri ambiti nazionali della periodizzazione inglese, risulti insoddisfacente e ponga in minore luce fenomeni significativi. L’Italia, infatti, nella corsa allo sviluppo industriale, è partita molto prima, con botteghe artigiane molto avanzate già nel ‘300 e ‘400, ma sul lungo periodo è stata “battuta” dall’Inghilterra che ha avuto un successo più fulmineo. Fatta una distinzione per nazioni e periodi in cui la rivoluzione industriale è avvenuta, rimane, però, da chiarire che cosa si intenda con il termine “industriale” e soprattutto quali siano le differenze che portano a considerare date industrie all’interno del sistema di studio. Con “industriale” la disciplina intende un particolare tipo di organizzazione dell’ingegno umano che si associa a quell’epoca in cui la fabbrica

accentrata diventa il modello organizzativo dominante. Risulta quindi decisivo definire le caratteristiche di questa “fabbrica” che si trova ad essere l’oggetto d’indagine della disciplina. Il sistema di fabbrica deve racchiudere in sé le caratteristiche socio-economiche tipiche dell’età industriale, che sono le seguenti: - proletarizzazione della manodopera; - presenza di macchine più o meno complesse; - accentramento dei mezzi di produzione e della manodopera in un unico luogo; - separazione netta della proprietà del capitale da chi compie il lavoro; - separazione netta della proprietà del prodotto da chi compie il lavoro. In questa visione si trovano ad essere escluse quindi quelle attività presenti in Italia nel periodo antecedente la rivoluzione che, essendo a conduzione familiare, o basandosi su un rapporto corporativo, fanno parte di quel lungo periodo di proto-industrializzazione riscontrabile nel nostro paese. Inoltre per parlare di età dell’industria, è necessario che questa eserciti influenze sociali tali da modificare comportamenti e relazioni economiche, cosa che avvenne soltanto a partire dall’Inghilterra del XVIII secolo. In Ita-

Nella pagina accanto, in questa e nelle due pagine precedenti, foto di archeologia industriale a Porto Marghera

lia, l’Archeologia industriale, nacque nel 1977 a Milano in occasione

del I Congresso della disciplina organizzato da giovani laureati che avevano fatto ricerche sull’Ecòle des Ponts et des Chaussees di Parigi, prima scuola di genio civile. La nascita di questa disciplina, coincide 195


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perfettamente con gli anni dell’abbandono dei grandi complessi ottocenteschi da parte dei monopoli industriali, del rifiuto operaio e del tramonto della catena di montaggio. Se pensiamo al nostro caso di studio, cioè quello dei Magazzini Eva di Verona, pur non trattandosi di una vera e propria fabbrica, vede negli anni ‘70 il proprio tramonto, come accade anche alle maggiori industrie italiane.

Il patrimonio industriale in Italia: approcci possibili

Cementificio Unione cementi Marchino a Casal Monferrato

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Il patrimonio esistente in Italia è ancora oggi enorme e potrebbe davvero diventare la maggiore fonte di sviluppo del paese se opportunamente utilizzata. Negli Stati Uniti, le opere di questo tipo, come le stazioni ferroviarie abbandonate, sono state trasformate in studi professionali o uffici pubblici tra i più ambiti e, pur avendocambiato la propria destinazione, fanno ancora mostra delle antiche strutture testimonianza di altre epoche e usi. La gran parte di questi edifici, anche in Italia, non hanno divisioni interne e sono, per questo motivo, contenitori moderni e flessibili, che si possono adattare a moltissime destinazioni d’uso, riuscendo a preservare la scatola esterna che costituisce un pezzo di storia ed è perciò importante per la cultura comunitaria. Le modalità d’intervento su un edificio di questo tipo sono riconducibili a cinquepossibili atteggiamenti: I. Conservazione integrale. Viene conservata la spazialità interna e l’aspetto esteriore in quanto museifica-

zione di un processo produttivo coincidente con un particolare luogo protetto. Il luogo industriale è trasformato in museo con un preciso percorso di visita che possa far comprendere la storia del fabbricato; II. Conservazione apparente. Vengono valorizzate alcune parti del manufatto con spiccate qualità artistiche. Avviene in questo caso una conservazione del solo involucro esterno e dei solai, lasciando un uso libero dello spazio interno; III. Integrazione dell’edificio originario. In questo caso vi è un’aggregazione di unità diverse: una è quella dell’edificio originario, spesso trattato con una conservazione apparente, mentre l’altra unità è quella di un edificio moderno e funzionale che si aggrega al primo per offrire servizi e spazi non ricavabili dall’edificio antico; IV. Demolizione e nuova edificazione. In questo passaggio vi è normalmente una totale reinvenzione delle forme che spesso non sono una traduzione moderna dell’edificio originario ma una totale modificazione; V. Conservazione simbolica. L’edificio originario viene restituito attraverso alcune parti che diventano simboli del tutto ed è quindi affiancato o completamente integrato con un edificio moderno. Elencate le modalità d’intervento, rimane forse da chiarire quale sia l’effettiva definizione data per il termine “archeologia industriale”. Esso, infatti, viene spesso percepito come ossimoro, poiché si ten-


UN FATTO EUROPEO

de ad associare la parola “archeologia” a qualcosa di antico, mentre la parola “industriale” viene da molti percepita quasi come un sinonimo di contemporaneo. In effetti, questa contraddizione in termini, insita nel nome stesso della disciplina, ha contribuito a creare discussioni e dibattiti nei confronti dei temi che la stessa dovrebbe trattare. Una definizione abbastanza completa potrebbe essere quella data dal Presidente dell’Associazione Italiana per il patrimonio archeologico industriale. Egli dice che “l’archeologia industriale è lo studio sistematico delle componenti materiali del patrimonio industriale. Essa le identifica e analizza attraverso la consultazione di documenti, la prospezione sul terreno e la catalogazione delle vestigia al fine di favorirne la conoscenza e, in base alle diverse situazioni, la salvaguardia, il restauro conservativo, il riuso e la fruizione”. Ancora una volta, anche in questa dettagliata definizione, si affronta l’approccio metodologico da attuare nei confronti del bene industriale ed ancora una volta, si può notare come questa metodologia applicata sia simile a quella che si attua nella disciplina archeologica classica.

L’archeologia industriale in Veneto Per fare un confronto efficace, in modo da capire che tipo di strutture siano quelle dei Magazzini Eva rispetto al contesto in cui si trovano, ritengo sia necessario fare un approfondimento sui manufatti di archeologia industriale presenti nel

territorio veneto e sulle loro passate o future riconversioni. La particolarità del Veneto, rispetto ad altre regioni, è che qui la maggior parte degli insediamenti di archeologia industriale si trova nel territorio della campagna più che della città. Questa particolare disposizione delle costruzioni industriali, che interessano vaste porzioni del territorio regionale piuttosto che essere concentrate in alcuni punti emergenti, avvenne per due ragioni principali: una di queste è il forte intreccio della manifattura con il mondo rurale, per cui non è la grande città, ma piuttosto la piccola o la campagna a generale l’industria. La seconda ragione è per una maggiore precocità della manifattura veneta rispetto ad altre regioni che, essendo partita da forme di tecnologia avanzata per il miglioramento della produzione agricola, vedeva un maggiore sviluppo appunto in questo territorio. Soprattutto nella zona vicentina e padovana, non si tratta di manufatti isolati, quanto piuttosto di interi siti, caratterizzati da più testimonianze della prima età industriale. In tutta la vicenda proto-industriale vi è, infatti, un elemento caratteristico, cioè che l’opificio non si presenta quasi mai come un oggetto isolato nello spazio, ma viene assicurato all’ambiente attraverso un sistema di ramificazioni e prolungamenti che lo incardinano al sito, siano essi di natura infrastrutturale o residenziale. Si ha a che fare soprattutto con reti, più che con punti; reti più o meno estese, a seconda dell’importanza dell’opificio o della sua specializzazione produttiva. A volte, come abbiamo detto, queste reti 197


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sono assai fitte e si stendono dalla fabbrica alla città, incorporando in essa case operaie e servizi sociali, come avviene nei siti di Schio e Valdagno; altre volte sono collegate tra loro dalla rete dell’acqua, come negli antichi mulini sparsi nelle campagne veronesi e non solo. La trasformazione data dall’industria al territorio veneto, si trova ad essere decisamente meno prorompente rispetto ad altre realtà italiane. Infatti, il maggiore impatto dato dallo sviluppo industriale in Veneto, caratterizzato da manifatture strettamente legate al territorio e alle sue produzioni, è quello che deriva soprattutto dalle bonifiche fatte in quel periodo, dove il paesaggio venne modificato completamente in funzione dell’introduzione dell’elemento industriale.

nel Veneto, vi è una consolidata attitudine produttiva, in determinati settori, di alcune aree geografiche: per esem-

Inoltre,

pio attività laniera nell’alto vicentino, cartiera nel bassanese, molitoria lungo i corsi d’acqua della pianura, minatoria della montagna e nella collina. Risulta quindi evidente, anche solo da questa breve introduzione, la diversità che è possibile trovare nel panorama archeologico industriale spostandosi da una parte all’altra della regione. Tra le maggiori specializzazioni che riescono a legare tutta la regione, spicca quella dedicata alla regolamentazione delle acque, le cui tecnologie sono evidentemente connesse al predominio che la Serenissima ha sempre avuto su queste terre e che ha portato a un’espansione 198

delle grandi innovazioni tecnologiche concepite nel capoluogo lagunare. L’acqua è uno degli elementi fondamentali per lo sviluppo iniziale dell’era dell’industria, in quanto venne utilizzata per la navigazione, per produrre energia e per l’alimentazione degli opifici. L’importanza dell’acqua, nel caso di Verona, è stata già largamente sottolineata parlando dell’iniziativa, sostenuta dal sindaco Camuzzoni, per la costruzione di un Canale artificiale che potesse dare il via alla stagione industriale anche nella città scaligera. Altro elemento fondamentale per lo sviluppo, soprattutto a Verona fu la presenza della ferrovia ferdinandea che, concepita finora come strumento per la mobilità dell’esercito, diventa, da questo momento, un importante elemento per il traffico commerciale. La principale differenza del repertorio industriale della provincia di Verona, sta nel fatto che la maggior parte delle opere della città sono i manufatti ottocenteschi austriaci a servizio dell’esercito. Ai fini di quanto detto prima sul metodo di catalogazione dei manufatti appartenenti all’età industriale, questi non possono essere ritenuti tali, poiché mancano di requisiti riguardanti soprattutto il rapporto tra lavoratori e proprietario, ma se stemperiamo questo fatto con il discorso sull’unicità del patrimonio culturale di una nazione rispetto ad un’altra, capiremo subito come questi manufatti siano, al contrario, da preservare. Nel territorio di Verona vi sono almeno 50 reperti di archeologia industriale, inframmezzati da manufatti austriaci costruiti durante l’Ottocento. Spesso questi

ultimi sono di enormi dimensioni e architettonicamente notevoli, come l’Arsenale di artiglieria e il Panificio militare di Santa Marta. Tutti questi edifici, si trovano nel nucleo cittadino, mentre nella campagna possiamo trovare diverse tipologie di opere industriali. In particolare si hanno zuccherifici nella zona tra Legnago e San Bonifacio, mulini ed opere idrauliche nella pianura meridionale, manifatture di vario tipo nella fascia pedemontana nord-orientale e cave di marmo nelle montagne della Lessinia. Di questo patrimonio, poco è stato recuperato per portarlo a nuova vita. In particolare, tra le opere ottocentesche, soltanto il Panificio militare è stato recentemente restituito alla città e ospita le nuove aule e la sezione amministrativa della Facoltà di Economia dell’Università di Verona, mentre il Macello Comunale ha ora funzioni commerciali e ricettive. Le altre strutture sono state al centro del dibattito per anni e sono tuttora oggetto, come i Magazzini, di innumerevoli progetti per il loro recupero che, tuttavia, non sono mai stati portati a termine. Nel resto del territorio veneto, i principali reperti conservati e recuperati per farne un nuovo uso, sono concentrati soprattutto nel capoluogo lagunare, basti pensare al Mulino Stucky, all’Arsenale o ai Magazzini del Sale, ora trasformati in luogo per esposizioni e manifestazioni. Tuttavia si trovano esempi di recupero del patrimonio industriale anche nel territorio circostante. La particolarità è che nel resto della regione si sono conservati maggiormente quegli insediamenti protoindustriali che tendevano a espandere il concetto di fab-


UN FATTO EUROPEO Ex edificio della Perfosfati a Cerea, ora trasformato in un centro polifunzionale per la comunità. Nella pagina precedente l’ex caserma di Santa Marta a Verona est recentemente restaurata da Massimo Carmassi

brica ad una dimensione urbana, creando vere e proprie cittadine industriali. Come si è potuto vedere in questo paragrafo, i temi trattati e le tipologie analizzate, sono completamente diverse da quella dei manufatti industriali della ZAI di Verona e dei Magazzini EVA, oggetto di studio di questa tesi. Lo sono sia per quanto riguarda i caratteri fondamentali che dovrebbe avere un edificio per rientrare nella categoria dell’archeologia industriale, soprattutto sulla base delle caratteristiche prima citate che differenziano un oggetto qualsiasi da uno prodotto durante l’età industriale presa in considerazione. Inoltre finora l’analisi si è concentrata sempre su fabbriche vere e proprie, opifici, manifatture o su opere industriali di carattere idrogeologico che hanno concorso alla formazione e allo sviluppo delle reti industriali soprattutto nel territorio veneto. E’ evidente che i Magazzini EVA non fanno assolutamente parte di queste categorie e quindi, a rigor di logica, dovrebbero essere escluse da questa analisidei fabbricati industriali.

Tuttavia la mia sensazione è che anche i manufatti dei Magazzini, pur appartenendo ad un’epoca e ad una categoria di edifici completamente diversa da quella finora analizzata, abbiano bisogno di avere, nel quadro di una trattazione completa su di essi, un capitolo riguardante l’archeologia industriale. I Magazzini EVA sono comunemente considerati manufatti di archeologia industriale ma, nell’ottica di quanto detto finora, non ne condividono i caratteri fondamentali. La tempistica è sicuramente diversa, qui, infatti, abbiamo edifici che hanno almeno mezzo secolo in meno rispetto a quelli della prima età industriale, tuttavia le caratteristiche costruttive e la metodologia da affrontare per un loro riuso, può essere certamente la stessa di quella adottata per gli edifici che rientrano perfettamente nella categoria. L’affrontare i temi inerenti all’archeologia industriale è stato importante soprattutto per capire in modo più articolato quali possibili scelte progettuali possano essere messe in atto in un progetto di riuso. 199


Deindustrializzazione e aree dismesse un problema urbano

Il problema delle aree dismesse non può essere trattato se non in relazione alle più ampie dinamiche urbane odierne, poiché un fenomeno di tale portata ha, difatti, contribuito ad intaccare alcuni tra i modelli più accreditati sia nella sua interpretazione, sia nello studio del fenomeno urbano in generale. I modelli più diffusi nell’analisi del fenomeno della dismissione si sono dimostrati inadatti ad esplicarne le cause specifiche, da ricercare piuttosto nella mutata natura delle “tendenze urbanizzative” conseguite a partire dalla ristrutturazione industriale che ha ridefinito la distribuzione delle attività secondo nuovi rapporti e gerarchie. Sebbene le attuali tendenze comportino un’alta indeterminazione spaziale, agevolata dai nuovi mezzi telematici, tuttavia, esse mostrano alcuni tratti ricorrenti nell’articolarsi delle convenienze localizzative, nell’accentuarsi della mobilità sulle reti, ma anche nel differenziarsi rispetto ai riferimenti ambientali: fattori riconducibili tutti alla dinamica di un “sistema di modificazioni interagenti” 200

con l’intorno urbano, che ne resta condizione imprescindibile. Il fenomeno della dismissione, letto nel quadro ampio del fenomeno urbano, si inscrive nelle complesse dinamiche del mutamento connaturati ai processi di produzione e riproduzione urbana. La città, che da tempo ha cessato di esistere come corpo coeso, composto dall’accumulazione progressiva della storia, appare oggi come il prodotto della sua disarticolazione temporale, dove si presentano diffusi casi di discontinuità, interferenze e fratture profonde. Il fenomeno stesso della dismissione, infatti, rientra in questa “progressiva” disarticolazione del corpo urbano, come area in cui si realizza fisicamente la trasformazione del sistema-città, ma proprio in virtù di questa capacità trasformativa di cui diventano supporti essenziali, le aree dismesse individuano un insieme specifico. Come condizione difforme alla struttura urbana consolidata di sviluppo, le aree dismesse si individuano come aree della correlazione di differenze spaziali e temporali discontinue per la loro natura

di struttura “transitoria”, ma, proprio per questo, capaci di definire l’identità urbana nella sua irripetibile loro natura di struttura “transitoria”, ma, proprio per questo, capaci di definire l’identità urbana nella sua irripetibile originalità. Le aree dismesse verrebbero, in questa nuova prospettiva, a occupare un ruolo strategico nella modificazione urbana che si ristruttura a partire dal suo interno, ovvero dalle aree che ne hanno determinato gli sviluppi passati e l’attuale assetto morfologico, inducendo nuove potenzialità generative e un vero e proprio “schema” di disponibilità spaziali. Le aree dismesse costituirebbero, dunque, una vera e propria mappa spaziale che caratterizza la città contemporanea, portando con sé una capacità trasformativa che si differenzia dalla consolidata struttura urbana sia in termini di estensione delle scale dimensionali, sia come complessificazione delle scale relazionali. Lo sviluppo della città moderna si accompagna, tra il 1760 ed il 1830, con un rapido e massiccio incremento demografico ed industriale che si influenzano


DEINDUSTRIALIZZAZIONE E AREE DISMESSE

Sopra: M.Sironi, Paesaggio metropolitano, Milano, 1929. Sotto: Zeche Zollverein, foto aerea, 1932.

vicendevolmente producendo un repentino cambiamento del fenomeno urbano mondiale. Questa premessa identifica due processi volutamente separati, l’industrializzazione e lo sviluppo urbano moderno, ma dispiegatisi parallelamente, poiché si è ritenuto di non stabilire un legame di tipo induttivo o causale tra i due fenomeni; osservazione di per sé banale, ma fondativa del ragionamento è, dunque, che la città moderna preesiste come fenomeno all’industrializzazione. Piuttosto si ravvisa un “salto” tra l’industria nascente e le sue condizioni storiche: l’estensione prodigiosa degli scambi, della produzione mercantile, del “mondo della merce” che nasce dall’industrializzazione, comporta una mutazione radicale che si accompagna ad una “crisi” gigantesca della città. Paesi che fino alla prima metà del settecento erano ancora prevalentemente rurali, con un’industria che aveva sede principalmente in campagna e che ricalcava nella sua organizzazione l’impresa agricola, in pochi anni cambiano la loro

struttura produttiva e l’organizzazione stessa del fenomeno urbano nel territorio. L’insediamento delle imprese industriali, all’inizio sporadiche e disperse, dipese da molteplici circostanze locali, regionali e nazionali. A titolo di esempio mentre l’industria della stampa ha il suo sviluppo da artigianale ad industriale mantenendo un rapporto continuo con il quadro urbano, diversamente accade per l’industria tessile, mineraria e metallurgica. L’industria, in un primo momento, tende ad insediarsi fuori dalle città vicina alle fonti di energia, ai mezzi di trasporto delle materie prime, alle riserve di mano d’opera, fungendo da catalizzatore di sviluppo, diventando vero e proprio centro di nuovi agglomerati umani, piccoli (Le Creusot), medi (St. Etienne) e talvolta giganteschi (La Ruhr considerata come “conurbazione”). Ieri, nel più ampio sistema-città le aree industriali erano un sottosistema specializzato, una parte, che stabiliva delle relazioni particolari con altre parti (vie di comunicazione, residenze, aree direzionali, ecc) e con il tutto. 201


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

Ma se un sistema è “qualcosa connesso con un tipo di attività e che conserva una determinata integrazione e unità” allora le aree dismesse in sé stesse costituiscono un sistema in qualche modo unitario rispetto al loro più ampio contesto ambientale. La città oggi tende alla mutazione della sua struttura verso una nuova configurazione, attraverso una “serie di stati”, tra cui la messa in discussione del ruolo di alcune sue parti; le aree dismesse fanno parte di questa “produzione” di una nuova gerarchia spaziale ed organizzativa della città (momento finale del processo). Ma una nuova organizzazione e la trasformazione degli stati stessi, sono dipendenti da una finalità, da uno scopo. Ammettere che il sistema città o il sistema aree dismesse, possano avere uno scopo, significa sganciare l’organizzazione del sistema da pretese di oggettività e relativizzare tutto a valori specifici.

Sopra: M.Sironi, recinto con fabbrica, 1932 Sotto: Boccioni, Periferia con ciminiere, 1908.

Quale può essere lo scopo della trasformazione della città e le aree dismesse, come aree di nuova disponibilità, cosa rappresentano nel sistema?

Se il sistema della città attuale ha come scopo fondamentale la conservazione di sé stesso (o se si vuole del suo modello), ovvero, della natura stessa del fenomeno urbano, allora le aree dismesse come fenomeno tendono al mantenimento delle struttura urbana o tendono a modificarla? Secondo una lettura sistemica poiché le cause della dismissione sono cause “esogene” al sistema città, allora queste 202

tendono ad innescare un meccanismo di trasformazione del sistema, ma la città per definizione non è un modello statico, dunque, il suo equilibrio si realizza nel movimento delle parti, la ristruttura-

zione di una parte della sua organizzazione è il momento essenziale per la sua sopravvivenza come fenomeno.

In tal modo le aree dismesse diventano il supporto odierno di questa necessità trasformativa urbana come lo sono state, in precedenza, le grandi trasformazioni urbane della storia. L’esistenza stessa delle aree dismesse all’interno della compagine urbana definisce una loro presenza forte, fisicamente rilevante, e tale da conservare la memoria strutturale che le lega alle ragioni del contesto e, dunque, agli eventi costitutivi della specifica identità urbana. L’idea di formulare le modalità di un intervento modificatorio di tali aree, significa individuare ciò che dovrà seguire all’abbandono, che inevitabilmente coinvolge le qualità differenziali interne di queste aree rispetto al loro contesto. E’ evidente che le aree dismesse restano tali se non si possiede un’idea di città entro cui il loro assetto possa ri-determ narsi, e ancor più, se non si formula un progetto di ricomposizione urbana in cui contenuti ed attribuzioni siano capaci di esprimere esplicitamente nuovi valori architettonici. Superare lo stereotipo concettuale che identifica le aree dismesse con un giudizio di tipo negativo, è cosa tutt’altro facile, poiché bisogna superare la logica


DEINDUSTRIALIZZAZIONE E AREE DISMESSE

definitoria delle sigle attribuite ai vari casi (aree dismesse, aree sotto-utilizzate, aree deboli e vuoti urbani) per porsi, secondo un’accezione affermativa, che le definisce “aree strategiche”, ovvero, capace di rispondere alla nuova natura dei mutamenti.

Le aree dismesse non sono, dunque, semplicemente un effetto della modificazione urbana ma vanno considerate nel quadro ampio delle loro relazioni, assumendole come problema da risolvere con consenso critico e secondo una prospettiva progettuale, sia in termini architettonici si secondo adeguati modelli urbanistici. Le aree dismesse vanno, in questa prospettiva, considerate come il sostrato di una configurazione urbana nuova derivante dall’attivazione di potenzialità trasformative intrinseche ai luoghi disattivati. La capacità “strutturante” di queste aree rispetto ai tessuti urbani non può essere evinta se non è messa in relazione diretta al fenomeno urbano nella sua complessità, e soprattutto se non si dispone di nuovi paradigmi proiettivi che si fondino sui loro caratteri strutturali, riconoscendo a tali aree l’eccezionalità di cui sono portatrici. La diffusione delle aree dismesse è strutturale sia per la rilevanza morfologica degli spazi e per la loro ampia estensione, sia per l’emergenza dei caratteri espressi dalla loro collocazione nel contesto, sia per l’intensità delle correlazioni alle maglie

viarie e alle reti infrastrutturali. Si tratta in definitiva di abbandonare i modelli desueti e non più capaci di descrivere e prefigurare l’evoluzione della città, ovvero, quella visione conservativa che definisce una continuità del fenomeno urbano (non necessariamente legata alla crescita) sostituendola, piuttosto, con una visione che riconosce i fenomeni urbani entro un sistema dinamico e suscettibile di trasformazioni (cicliche o a intervalli variabili). “Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si percepisce più come una rete che collega dei punti e che intreccia la sua matassa, che come una grande vita che si sviluppa nel tempo”, scriveva Foucault in “Eterotropie, Conferenza al Cercle d’ètudes architecturales” nel 1967. L’epoca attuale, secondo Foucault, è l’epoca del moltiplicarsi delle forme spaziali in funzione del moltiplicarsi delle “trame di esistenza”, epoca in cui si sta attuando il definitivo processo di dissolvimento dello spazio, che dalla categoria della “localizzazione” passa a quella della “estensione”, ovvero, rivelando l’infinità quantità di “relazioni di dislocazione” di cui lo spazio è capace. Anche la città, presa nel reticolo della sua espansione, resta imbrigliata tra gli spazi del transito permanente, che hanno supportato la crescita di una materia edilizia diffusa territorialmente e costituita dall’alternarsi di elementi costruiti e vuoti particolari. Segnata da un complesso reticolo di parti diffuse, la città diventa una sorta di sistema discontinuo capace di descrivere, nel-

Sopra: G. Balla, La giornata dell’operaio, 1904 Sotto: O. Barbieri, Immagini in movimento attraverso l’autostrada Milano-Vicenza,

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

la separazione delle sue parti, una unità spaziale e concettuale identificata “dalla distanza piuttosto che dalla contiguità”. L’identità e la riconoscibilità, dunque, non sono un attributo da riconoscersi esclusivamente alla dimensione del luogo ma, spostandosi sul versante progettuale, si pone il problema del formarsi storico dell’identità come processo, identità avvenuta per successivi interventi trasformativi e non come fatto definitivo compiuto una volta per sempre. In questo senso anche le aree dismesse sono in qualche modo identitarie della storia urbana di un luogo e della città stessa. Le situazioni spaziali atopiche, prodotte dal ciclo formativo dell’ambiente urbano, costituiscono il reale tessuto connettivo della città contemporanea, l’elemento coesivo del paesaggio urbano, entità neutre che strutturano la scrittura dell’ambiente in cui viviamo e dei suoi valori, fungendo da pause, da vuoti caratterizzati da assenza di significato. Avvenuta la perdita del centro e dei sistemi consolidati d’interpretazione del fenomeno urbano (storicamente basati sull’utilizzo di coppie oppositive o di modelli di sviluppo accrescitivi della struttura consolidata urbana) è sempre più necessario attribuire un ruolo alla spazialità della diffusione e della dispersione, riconoscendo in questo sistema discontinuo la presenza non di centri, ma di punti il cui carattere è definito da un’identità basata sull’omologazione. Una soluzione a questa impermeabilità culturale potrebbe essere il riconoscimento di questi sistemi come prodotto attuale della città contemporanea e, per questa ragione, con204

figurazione strutturale, dunque ciò che va ricercato è la possibilità di cogliere, all’interno della spazialità atopica, le differenze in grado di produrre “identi-

tà” per questi spazi frammentati e discontinui tra le reti di trasporto e le altre strutture urbane (insediamenti, servizi, industrie). In-

tervenire in un sistema discontinuo ma strutturante la qualità degli spazi urbani, significa riconoscere a questa ca-

tegoria di “vuoti” sia la valenza strutturale che gli è propria, sia il significato estetico del loro essere “esterni” e non interni allo spazio urbano canonico, dunque, le categorie per una loro interpretatazione sono necessariamente la rarefazione, la discontinuità e l’apertura, poiché carenti di identità e unicità, la loro individuazione avviene non per “differenza”, ma piuttosto per analogia. Come vere e proprie “radure” tra le maglie urbane, gli spazi atopici sono, dunque, l’esito estremo di un territorio reso totalmente artificiale, dove i luoghi originali sono stati sostituiti da entità spaziali che si duplicano fino a cancellarli definitivamente, rendendo impossibile l’esperienza dell’autentico e della differenza. Ci si chiede a questo punto se nell’ampia diffusione omologa di questi spazi è possibile rintracciare dei punti di accumulazione delle differenze, la cui qualificazione consenta contemporaneamente di restituire identità e riconoscibilità ai luoghi all’interno della rete rarefatta e discontinua di situazioni atopiche, senza negare a queste ultime la loro intrin-


DEINDUSTRIALIZZAZIONE E AREE DISMESSE

seca “alterità”? Dunque, considerati quali spazi incompleti e, per estensione, opere aperte in cui si innestano termini dicotomici, la disposizione frammista di spazi e oggetti crea una strutturazione che si configura come un itinerario interrogativo, al quale è richiesto di dare un senso. Non si tratta di formulare

un’estetica del degrado, come riedizione di quella del pittoresco, ciò che risulta doveroso è riattivare una capacità di visione e di trasformazione sia degli spazi residuali come struttura di vuoti, sia dei resti insediativi e delle rovine della contemporaneità, mutandoli in frammenti con un valore positivo e poeticamente importante,

in un’ottica di relazione. Significa quindi trovare una relazione con quei materiali urbani che continuano a possedere delle caratteristiche identitarie e differenziali rispetto ad un contesto omologo. Le aree dismesse possono essere considerate una parte importante della realtà spaziale della rarefazione, proprio perché hanno svolto un ruolo primario per lo sviluppo urbano e, tutt’oggi, partecipano delle dinamiche trasformative della città come materiale “rimesso in gioco”. La più diffusa locuzione “aree dismesse” è stata declinata in altre accezioni equivalenti o complementari che ne hanno in parte specificato il senso ma, operando spesso una “riduzione” culturale orientata alla definizione di “convenienze” specifiche, ne hanno ridotto il “senso” generale e le specifiche valenze spaziali; tra le tan-

te definizioni si ricordano: “aree deboli”, aree “sotto-utilizzate”, e, per contrazione, “aree interstiziali”, o anche per estensione “vuoti urbani”. Tutti questi termini concorrono a definirne il carattere di “debolezza” attuale da esse rivestito nel contesto urbano, soprattutto come situazione contingente e simmetrica al ruolo

forte che queste aree avevano nel passato assetto industriale, che le collocava in un sistema di centralità rispetto al circostante.

Anche la locuzione “vuoto urbano”, mediante un’estensione concettuale, abbraccia situazioni altre e più generali rispetto alle sole aree dismesse, o sotto-utilizzate, in quanto nuovamente rese disponibili a vario titolo. Dunque, gli spazi vuoti sono innanzitutto e soprattutto vuoti di significato, non sono insignificanti perché vuoti, ma piuttosto sono “visti come vuoti”. Dal punto di vista architettonico le aree dismesse, considerate come aree vuote, sono trattate come punti di coagulo della realizzazione del nuovo, infatti, non è certo un caso che la maggior parte dell’architettura contemporanea “si sia stabilita” in situazioni in cui si verifica la condizione migliore del costruire, ovvero il grado zero di ogni progetto, la tabula rasa. Architetture con generali caratteristiche di libertà provvisoria, svincolate dai limiti imposti dal luogo, “oggetti rispondenti ad una cultura dell’eventuale”, disposti all’interno di una permanente transizione che li definisce quali “materializzazioni dell’istante”vengono continuamente

Nella pagina accanto: Botto e Bruno, “under sky” e “where nobody lives”, Milano, 2001.

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

localizzati nelle aree dismesse preceden- territoriale, una geografia che “ponentemente svuotate. Dunque, le posizio- dosi come un sistema di barriere spesso ni del “ripristino del ruolo emer- insormontabili, disegna una mappa mene di regioni gente” delle aree dismesse nella tale di recinti interconnessi compenetrate” 1 compagine urbana, hanno trattato Il tema del limite, del vuoto, del recinto, i “vuoti” calandovi grandi e auto- del rapporto interno-esterno, si ripronomi apparati dispositivi che, con pongono secondo nuove declinazioni diversi accenti, attendono ad una spaziali, non più legate al concetto di rifondazione del luogo o all’esibi- unità del “corpo” urbano ma come segni da ricomporre in una unità dei “diversi”, zione della contemporaneità. dove la modificazione della forRisulta ormai necessario attribuire a questi “vuoti impropri” delle aree dismes- ma urbana si ristruttura a partire se non l’assenza di significato, bensì, dall’interno “per scambiare ai borla capacità propria di accogliere nuovi di”, estendendo le scale dimensionali e significati, dunque, vuoto non come portando al suo interno la com“invisibilità” programmata e finalizzata plessità relazionale della città e dei all’omologazione, né come grado zero del progetto ma, piuttosto, vuoto “consi- conflitti urbani. stente” nella sua dimensione, potenziale risorsa per i suoi caratteri residui d’identità e differenza.

Le aree dismesse evocano, dunque, un forte senso di identità urbana, poiché, corpi prodotti dalla storia della città industriale che, per quanto “abbandonati”, continuano a manifestare identità, attraverso i propri limiti spaziali e gli stessi elementi della separazione (muri, recinzioni, limiti) come un sistema di barriere rispetto al loro contesto prossimo e nella relazione con l’intero sistema urbano. Le aree della dismissione, come quelle dell’abbandono disegnano, dunque, a causa della loro forte presenza

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Aree dismesse del nord milanese ad inizio 2000 (Bicocca, Bovisa, Ansaldo, Marelli e Falk) con l’indicazione delle principali infrastrutture di collegamento viario e ferroviario (milanomonza con le fermate: Bicocca a sud, e Sesto San Giovanni a nord).


DEINDUSTRIALIZZAZIONE E AREE DISMESSE

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Il luogo e l’identità dell’industria nel rapporto con l’urbano

L’industria, nel bene e nel male, ha segnato profondamente l’organizzazione della città e nel territorio, sia nella struttura che nell’immagine, attraverso un cambiamento durato due secoli che ha fatto corrispondere, al rapido avanzamento tecnologico, il motore di trasformazione della sua realtà. La produzione non solo di macchine ma anche di strutture, processi e modelli organizzativi ha conformato di sé l’intera struttura urbana e i modi della sua costruzione, la “città dell’industria” è diventata il luogo privilegiato del divenire storico, economico, culturale. Un vero e proprio paesaggio “industriale” è venuto costruendosi con la rapidità dei cambiamenti epocali e ha trovato i suoi luoghi laddove si disponevano i confini tra città e campagna, tra metropoli e periferia, guidando lo sviluppo della struttura materiale degli insediamenti successivi. L’industria ha prodotto il suo proprio paesaggio artificiale, le sue tipiche relazioni spaziali, come un sistema di riproduzione e duplicazione della sua logica interna, ma ha anche svolto un ruolo 208

chiave nell’immaginario dell’architettura della modernità. Esiste infatti una forma di coincidenza tra la realtà dei processi della società industriale in divenire, i modi della sua rappresentazione e l’espressione dei suoi contenuti intrinseci, che ha “informato” di sé le aspirazioni di “costruzione” del proprio ambiente, da parte di quanti immaginarono l’architettura della modernità. La società industriale, stabilendo una definitiva rottura tra cultura tecnica e cultura estetica, ha prodotto il suo territorio specifico attraverso le forze produttive, politiche e sociali, che l’hanno animata, ma anche come espressione delle ideologie, delle rappresentazioni, di valori ed di significati. Il rapporto esterno interno è di fondamentale importanza perché sottintende che lo spazio possiede una varietà di estensione e di chiusura in grado di definire l’appartenenza o meno ad un determinato ambito spaziale. La fabbrica ad esempio, come luogo artificiale per eccellenza, nel quale “ha luogo” l’atti-

vità industriale, è caratterizzata da

uno spazio fisico che è operazionalmente “chiuso” e separato dal contesto. Dunque se: “la delimitazio-

ne non è ciò su cui una cosa si arresta, (…) ma è ciò da cui una cosa inizia la sua presenza”1 allora l’industria inizia

la sua esistenza creando il proprio paesaggio all’interno di un confine definito dal recinto industriale, infatti, insediandosi fuori dalla città ed estrapolando da questa la “funzione produttiva”, la fabbrica inizia la sua esistenza come elemento autonomo, come nuovo centro per il circostante.

L’industria desume dalla città la logica dell’insediamento, ovvero, si conforma come entità chiusa, come spazio delimitato a partire dal quale essa inizia ad esistere, intrattenendo con il paesaggio esterno, com’era accaduto con per la città storica, un rapporto figura-sfondo. All’interno del paesaggio urbano, periurbano, periferico o rurale l’industria ha


IL LUOGO E L’IDENTITA’ DELL’INDUSTRIA

una sua estensione e delimitazione, ecco allora le ciminiere che travalicano il recinto per rendersi visibili sullo sfondo della città, come una città “altra”, proprio nel momento in cui si sta realizzando l’estensione e la distruzione dei limiti urbani storici. L’industria diventa, dunque, un’entità chiusa, una “figura” rispetto al territorio esteso del paesaggio urbano, laddove l’insediamento storico urbano inizia a perdere il suo carattere identitario e coeso, parallelamente alla perdita di ruolo del paesaggio rurale come estensione comprensiva della città. Un altro aspetto, di non minore importanza, è il concetto di carattere, che viene considerato sia come “qualificazione” inerente alla costituzione materiale e formale del luogo, che possiede delle proprietà ambientali specifiche e concrete; sia in relazione alle azioni diverse cui corrispondono, appunto, luoghi di carattere diverso. Il luogo, considerato in questa prospettiva, è dunque uno “spazio vissuto”, in cui confluiscono i concetti di spazio e carattere, in una stretta interdipendenza tra concretezza materiale e azioni

di vita che lo determinano o che in esso no i loro luoghi, dunque, questo attività si svolgono. Lo spazio vissuto, non rimanda direttamente all’uomo abitante, può essere esclusivamente identi- all’esperienza ambientale di una società, alla logica esistenziale della sua territoficato come prodotto dell’azione rialità. Dunque uno spazio anoni-

di forze produttive, politiche e sociali, ma è anche il risultato delle ideologie, delle rappresentazioni, dei valori e dei significati che gli sono attribuiti. Da sempre infatti “un

mo si trasforma quando si carica di riferimenti, di simboli, di denominazioni, e di oggetti umani, proponendosi come un teatro nel territorio specifico è il luogo in cui grup- quale individui e società recitano e pi e singoli, mutuamente in opposizione vivono le loro storie, in tal senso e conflitto, tendono a rappresentare sé esso diventa uno spazio culturale. stessi”. Dunque, l’industria, come luogo della produzione, lega il suo spazio al suo carattere specifico, alla sua organizzazione spaziale fa corrispondere il carattere dell’efficienza e della funzionalità, ma questo rapporto è attraversato ed influenzato da un altro aspetto che lega al suo “avere luogo” un ruolo di rappresentazione. Attraverso l’attività di rappresentazione e, quindi, di simbolizzazione del reale gli uomini tessono legami affettivi con i luoghi, che diventa-

Come luogo artificiale per eccellenza l’industria si pone, dunque, come rappresentazione, ovvero luogo in cui la società industriale tende a rappresentare sé stessa in termini simbolici. Una tale rappresentazione è un atto di simbolizzazione che implica la traduzione di un significato che, liberato dalla situazione immediata si “traduce” in un “oggetto culturale”. La fabbrica diventa in tal senso un simbolo, un luogo ideologico, cioè portatore di un significato che gioca un ruolo 209


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

centrale sia all’interno dei suoi confini quanto all’esterno come “motore” di sviluppo della città. In questo senso sembra essere illuminante quanto la città stessa abbia giocato un ruolo simbolico per la fabbrica, infatti, mentre quest’ultima si definisce spazialmente in analogia alla città, che svolge, inizialmente, un ruolo di riferimento; in un secondo momento l’industria si realizza progressivamente come “fatto urbano” specifico ed autonomo, sancendo il suo definitivo distacco dalla città e ponendo al suo interno la ragione della sua esistenza (come produttrice del suo spazio e del suo carattere). Radunando in sé i significati di produzione, sviluppo e autonomia, liberati dall’appartenenza alla realtà fisica urbana e spostati all’interno dei suoi confini, essa

organizza le sue parti spazialmente, articolandole formalmente in relazione al suo carattere di “funzionalità tecnica”, creando una specifica spazialità e un linguaggio di forme simboliche proprie. Sopra: Il Lingotto di Torino in un disegno di inizio ‘900 Sotto: Copertina del romanzo di E. Olmi, “Il ragazzo della Bovisa

L’industria assume, dunque, la funzione primaria di trasmettere la manifestazione di un nuovo ordine generale e astratto, producendo il suo sistema spaziale come concretizzazione materiale delle nuove strutture politiche, sociali ed economiche. Ma come abbiamo visto la fabbrica

è un luogo simbolico ed oggetto culturale per l’intera società industriale, dunque ad essa non è attribuito 1: Heidegger M., Saggi e discorsi, trad. it, Mursia, Milano, 1976. p. 103 e seguenti.

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un unico significato ma, in essa si manifestano una pluralità di significati che

l’hanno determinata come “luogo identitario” per svariati gruppi sociali che in essa identificano la propria consapevolezza di classe e di ruolo all’interno della società. La lettura culturale dei luoghi assume dunque una fondamentale importanza nell’individuazione dei suoi significati, che fa emergere le ragioni funzionali che stanno alla base dei segni culturali. In questo senso la fabbrica e l’industria con la loro specifica organizzazione spaziale che scaturisce dall’identificazione della forma come rappresentazione della funzione, hanno avuto un ruolo forte sia nella costruzione del territorio, come iconemi di riferimento per quel territorio, sia in termini culturali, come identificazione e rappresentazione di una società. Abbiamo visto il ruolo che la fabbrica ha svolto non solo come parte urbana ma anche dal punto di vista del significato ad essa attribuito, ovvero come “oggetto culturale” e, dunque, poiché investito da un una simbolizzazione di tali significati “luogo identitario”. L’oggetto culturale è investito di una “intenzionalità” rappresentativa e per questo è sia oggetto reale, sia oggetto-segno, poiché oggettualizzato, ovvero a cui è stato attribuito un significato. La fabbrica ha espresso una grande quantità di segni che possono essere definiti dal concetto di iconema, ovvero, come segno all’interno di un insieme organico di segni, come parte che esprime il tutto o che lo esprime con una funzione gerarchica primaria. Dunque, l’iconema può essere considerato, sia in quanto elemento che meglio d’altri incarna il genius loci di un territo-


IL LUOGO E L’IDENTITA’ DELL’INDUSTRIA

rio, sia in quanto elemento visivo di forte bolicamente quella intenzionalità che l’ha carica semantica del rapporto culturale prodotta come simbolo, dunque perde che una società stabilisce con il proprio la sua capacità semantica sotto la territorio.

Innegabilmente i segni a cui si attribuisce l’appartenenza all’insieme della fabbrica hanno un alto grado di riconoscibilità, sia perché la loro presenza ha segnato, più o meno, profondamente il territorio, cambiando i connotati dei luoghi

preesistenti distruggendoli e ricostruendoli, definendo nuove relazioni; sia per-

ché la produzione industriale ha creato un suo linguaggio di forme, segni, relazioni spaziali e modalità costruttive.

Questo particolare linguaggio espressivo dell’industria è diventato “iconografia” industriale sia per le caratteristiche di serialità e di ripetizione del segno; sia per la sostanziale differenza dei suoi caratteri e delle sue forme da quelle storiche conosciute.

Il recinto che chiude la fabbrica,

il silos nel territorio agricolo, la ciminiera, le turbine, i serbatoi, le infrastrutture specialistiche come dighe, canali, ferrovie e funivie, hanno segnato il territorio non solo formalmente ma relazionalmente. La “caduta” delle relazioni che definivano quello specifico rapporto tra territorio e azioni umane ha lasciato dietro di sé i suoi segni facendoli poi, velocemente decadere in segnali privi di senso poiché non più depositari di un significato. Nel momento in cui la fabbrica viene dismessa essa smette di rappresentare sim-

pressione di nuove “forze storiche”.

La perdita della funzione pratica in primis, del ruolo portante sul piano produttivo e sociale, ideologico e culturale, ma anche delle strutture materiali e delle relazioni spazio-funzionali, relega dapprima la fabbrica in una condizione di “crisi” a cui è seguita la reale “dismissione” come definitiva perdita di senso generale. Si pensi ad esempio al fortissimo ruolo territoriale dei grandi insiemi industriali nel territorio regionale della Ruhr, ma anche ad elementi singolari che hanno avuto la capacità di rappresentare ed identificare con la loro presenza un intero territorio o una città, si pensi al lingotto di Torino, ai mercati generali, oggi distrutti, di Parigi, e, soprattutto, a quegli elementi minori che, attraverso la loro ripetizione, hanno caratterizzato interi tessuti urbani, ad esempio i docklands londinesi.

La fabbrica e tutto il complesso delle sue parti, si riduce, per i più, ad un oggetto-non oggetto (privo d’intenzionalità) entrando a far parte di quella categoria di oggetti non culturali e insignificanti (o significanti in quanto insignificanti).

Sopra: un quadro di Sironi del 1927 Sotto: R.Vespignani, Periferia con gasometro, 1946.

Dunque la fabbrica, che aveva costituito un iconema per interi territori, è stata sostituito facilmente dalla cultura odierna, con tutto il sistema ad esso sotteso della produzione industriale, così come

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lo scollamento tra valore funzionale e simbolico di paesaggio, riportano gli “oggetti-simbolo” espressi dalla società industriale ad uno stato di non - corrispondenza con il vivere e ed il funzionare del territorio. Ci domandiamo se però un oggetto che è stato segno del proprio tempo, ma di cui si è persa la iniziale intenzionalità-segnicità-semanticità conservi la capacità di essere riconosciuto nella sua piena oggettualità, ovvero se continui ad essere un riferimento comune? La fabbrica dismessa come oggetto-segno, dunque, può rientrare a far parte, trasformato o diversamente “intenzionato”, di un altro contesto segnico attribuendo a quest’ultimo un valore identitario mediato dalla stratificazione? L’arte, forse prima tra tutte è riuscita ad interpretare la caduta di semanticità attraverso il “riuso” degli oggetti e delle parti.

Area dismessa tra perdita d’uso e di significato Sopra: L’iconema della fabbrica Sotto: Silos Americani, da Le Corbusier “Verso un’architettura”, 1921.

Significato e struttura sono per C.Norberg-Schulz il fondamento del genius loci, la prima definisce il rapporto di un oggetto con altri oggetti, l’altra indica le proprietà formali di un sistema di rapporti, insieme esse formano una totalità. Il significato dipende, come abbiamo visto, dall’identificazione e implica un senso di appartenenza, dunque la perdita di significato determina perdita del luogo, costituendo uno dei problemi principali per l’industria dismessa.

L’industria dismessa non è più 212

uno spazio vissuto, ovvero luogo dell’industria, ma, in quanto spa-

zio privato di vita ed attività, entra a far parte dell’ampio mondo degli oggetti di consumo il cui uso esauritosi, consente il definitivo passaggio delle sue strutture materiali, a “oggetti di scarto”. Dunque il mutamento induce sia una perdita d’uso, da considerarsi non meramente in termini funzionali, sia la perdita di identità, di significato del luogo e dei suoi segni, destituendolo del suo “carattere”, ma questa perdita consente una qualche forma di permanenza? Il luogo dell’industria e la fabbrica destituiti di significato e d’uso, preservano la loro identità o parte di essa, sotto la pressione delle forze storiche? E’ necessaria a questo punto una distinzione che ci permetta di separare due ordini di “fruizione” dell’oggetto architettonico o del luogo: • un primo ordine connesso alla destinazione pratica dell’insieme dei segni che costituiscono quella certa architettura o luogo; • un secondo ordine connesso alla dimensione semantica, relativa a ciò che essa significa, non solo sul fronte della cultura, ma come presenza modificante, istituente un rapporto con l’immaginazione del gruppo, con l’insieme dei suoi miti, con la dimensione dell’inconscio collettivo non meno che con gli elementi economico-sociologici che definiscono attività ed esigenze del corpo sociale in un certo momento storico, in cui cioè si intrecciano i rapporti tra il “del tecnico e del significante”. sia l’esistenza di architetture utilizzabili


AREE DISMESSE TRA PERDITA D’USO E DI SIGNIFICATO

senza essere significanti (come i semplici capannoni industriali), sia la possibilità che una certa architettura mantenga la propria capacità di essere significativa (industria che diventa monumento di un’epoca) pur avendo perduto il suo uso pratico o addirittura essendo a noi sconosciuto tale uso. Questo tuttavia senza perdere la propria capacità di emettere messaggi intorno alla propria struttura; anzi talvolta l’incertezza della destinazione aumenta il fascino del monumento e lo immerge in una ambiguità densa di stratificazioni significanti in quanto riferite, con un margine di arbitrarietà, al nostro orizzonte di cultura e provenienti da un diverso orizzonte. Il mutamento dei significati, in quanto uso semantizzato, ha due diverse direzioni di sviluppo: • è mutamento nel tempo in quanto “attribuzione” da parte del gruppo sociale di significati nuovi (di nuovi usi); • è ambiguità dell’opera in quanto polivalenza di significati essendo “sempre implicito in forme espressive caratterizzate da ricchezza ed intensità di effetti che l’operare dell’ambiguità è alla radice stessa della forma espressiva”. Di particolare importanza è che in realtà non si verifica mai la completa caduta del significato in quanto uso: sia il mutamento di destinazione che il consumo della capacità informativa di un messaggio consistono, non tanto nella caduta quanto nel passaggio da un livello ad un diverso livello dell’informazione emessa dall’oggetto, la sua collocazione in un contesto diverso, in cui uso e significato,

pur spostati di rapporto reciproco, restano saldamente correlati. Il che significa comprendere, nel caso di architetture “abbandonate” la loro piena capacità di attualità d’uso, non solo come “legittimità del mutamento dell’uso originale, ma anche come nuova funzione nel contesto urbano e territoriale dell’ architettura stessa (anche del rudere), come significazione speciale di quel contesto, come dialettica col tessuto circostante, come punto di accumulazione speciale”. Esiste, dunque, un valore di figura

come uso e significato degli strati di storia che compongono una particolare architettura o un intero territorio. Nel suo costituirsi un’archi-

tettura si significa anche attraverso l’idea di uso come semantizzazione dell’uso stesso, e come “discorso” signficativo intorno alla fisicità dei luoghi e ai valori attribuibili ad esso dalla società. Dunque la presenza fisica di un’architettura pone in “relazione” la nostra presenza topologica nel paesaggio delle azioni del mondo, come atto di modificazione dell’ambiente fisico. Per queste ragioni la semanticità di un’architettura risiede anche nelle sue connessioni tecnologiche, i suoi rapporti metrici, la sua matericità, l’interna dia-

Sopra: l’archetipo della fabbrica in uno schizzo di A.Iaola, 1990. Sotto: il paesaggio della Ruhr, 2005.

lettica tra limite e spazio, che consentono la conoscenza del significato in quanto materiale agibilità, che diviene significato visuale.

Si pensi ad esempio ai tanti elementi dell’architettura industriale: ai serbatoi, alle cisterne, ai depositi d’acqua, alle ser213


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

pentine, alle centrali elettriche, alle dighe, l’idea stessa di uso, ed il senso dell’aralle condotte forzate, ai nuovi hangar; chitettura è sempre più connesso tutto un immenso alfabetario di forme alla capacità di comprendere, di inedite, la cui “bontà” dipende proprio dalla loro aderenza non solo alla funzio- solidificare il significato della mune pratica e tecnica, ma alla “simboliz- tazione.

zazione” della loro funzione”.

Il rischio, dunque, che le architetture “fuori uso” ovvero non più legate ad una funzione-fruizione, fisica o spirituale, diventino “lettera morta” per quanto concerne la loro semanticità tanto da retrocedere allo stadio di elementi formali asemantici è più che mai realistico nell’epoca della rapida obsolescenza. Appare fondamentale, dunque, che un’archi-

tettura come conditio sine qua non per il suo valore, debba semantizzarsi, ossia, debba rivelare chiaramente la struttura dei rapporti tra il suo uso, la sua forma e il suo significato, attraverso la presenza fisica dei suoi segni costruiti. Que-

Gruppo SITE, Concorso per il recupero del Mulino Stucky a Venezia, 1975.

sto aspetto non investe esclusivamente il campo dell’analisi dell’esistente ma è fondativo per un processo di formazione del progetto di architettura che voglia anche solo rivelare certe condizioni

di esistenza, così che certe modificazioni “inevitabili” diventino possibilità di un progetto di modificazione. I concetti di funzione e fruizione si stanno velocemente “fluidificando” verso una continuità di mutazioni di uso e significato per cui l’idea di trasformazione e variazione finisce con il coincidere con

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Spazi in transizione Se “interpretiamo” questi spazi nel più ampio sistema di riferimento della città, nell’accezione di quest’ultima come luogo per eccellenza del mutatis mutandis, le aree dismesse rientrando significativamente nella categoria di spazi della transizione, divenendo supporti essenziali della città. Se si guarda alla modificazione come ad un processo che riguarda sia lo spazio che il tempo, il territorio, l’architettura e i luoghi, non hanno un valore immutabile, ma variano comunque anche in relazione alla variabilità di giudizio che se ne può avere nel tempo. Nel presente, in particolare, sembra prevalere una visione diversa, rispetto al passato, in cui la caratteristica dei cambiamenti è quella di correre rapidamente, ma anche quella di distruggersi progressivamente: ogni invenzione, ogni innovazione che viene prodotta distrugge la precedente. È per questo motivo che si verifichi, ad esempio, una corsa pazzesca in qualunque tipo di produzione e, allo stesso tempo, si registrano frenate continue, per cercare di fare in modo che la produzione sia contemporanea al cambiamento. Dunque il fenomeno della trasformazione oggi è legato alla velocità


SPAZI IN TRANSIZIONE

sempre maggiore con cui si susseguono i cambiamenti sul territorio e sulle opere dell’uomo nella società contemporanea, alla salvaguardia o cancellazione di significato del contenuto temporale e di storia di queste architetture, alla “temporaneità” e alla capacità di durata fisica delle trasformazioni, , persino alla convenienza della brevità della loro vita nel tempo, come obsolescenza consciamente programmata che preserva la futura possibilità di costruire. In questo “movimento” veloce si opera un cambiamento ancora più radicale che innesca un fenomeno di rapida obsolescenza e consumo, ponendo ogni cosa su un piano oggettuale secondo un movimento di omologazione delle differenze, degradando ogni segno semantico in immagine con scarso valore. Di fronte ad un cambiamento che sottostà principalmente alla categoria della velocità, sembra che si delineino due tipologie di atteggiamento: da un lato la convinzione di dover “cavalcare” il cambiamento come inevitabile capacità di eliminare gli oggetti che ci circondano prima ancora che essi siano stati utilizzati sino in fondo; dall’altro si delinea un bisogno acuto di tesaurizzazione dell’effimero, di valorizzazione del transuente. Si associano così due dei fenomeni più tipici della nostra epoca: quello dell’effimericità della cose, del loro rapido ed incessante consumo e quello del loro riscatto, attraverso una diversa utilizzazione, che può essere tanto simbolica che utilitaria. Il bisogno di fissare il mutevole, di arrestare il continuo divenire delle forme, pone gli oggetti – scartati, inutilizzati, trovati - come riferimenti a cui

conferire una nuova “funzionalità” che, il più delle volte, è di carattere formativo e metaforico: gli oggetti divengono a un tempo simboli di sé stessi e simboli della esistenzialità da cui sono tratti. Dunque nella società del nostro tempo gli oggetti che vengono abbandonati e che assumono un carattere simbolico, mitico, religioso, sono tanto più numerosi quanto più numerosi sono gli oggetti che vengono immessi in quella cultura. In questa prospettiva di variabilità perenne e velocizzata sembra diventare centrale il problema di trovare un “ordine” del cambiamento, che riguardi lo spazio e il tempo nel loro rapporto di determinazione specifica, per sopperire sia alla crescente indeterminazione spaziale della città e del territorio, quanto alla necessità di uscire dall’oscillazione perenne dei valori, nel tentativo di coglierne le strutture permanenti che ne definiscono il tempo storico. Se da un lato si manifesta un’esigenza di rifondazione del rapporto tra spazio e tempo, contemporaneamente sembra prevalere una visione del presente solo quale misura di un tempo omogeneo, universale e continuo, espressione, nell’ epoca della “globalizzazione commerciale”, della volontà di congelarlo al fine di preservare le relazioni di dominanza stabilite. Un tale atteggiamento sembra dispiegarsi in quanti credono che il modo fondativo dell’oggi sia la continua sostituzione dell’ultima novità con la precedente, in un presente vissuto come sequenza di istanti in fuga che passano irrefrenabili dal futuro al passato. All’interno di un presente “sostituibile all’infinito” per alcuni autori come M.Augè sembra fon215


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

damentale oltrepassare la categoria del perenne presente transitorio attraverso l’osservazione di quegli spazi che più di altri manifestano una “sospensione temporale”. Questi spazi sono identificati da Augè negli spazi dell’incertezza del futuro, in aperta opposizione agli spazi dell’evidenza del presente (non luoghi), questi sono per lui: i territori abbandonati, i cantieri, in generale, tutta quella categoria di spazi, di frammenti, di edifici deteriorati o crollati, ovvero, in senso figurato “quanto resta”, che è tale da poter rivestire il ruolo di rovine nel presente. Questa tipologia di vuoti, ben diversa dai vuoti residuali, mette in scena l’incertezza contro il presente, sottolinea “la presenza ancora palpabile di un passato perduto e al tempo stesso l’imminenza incerta di quanto può accadere, sono spazi poetici nel senso etimologico della parola, vi si può fare qualcosa, contengono una promessa” (Augè., Rovine e macerie – Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004).

Le aree dismesse al di là delle loro potenzialità e disponibilità trasformative dell’esistente, ci pongono anche di fronte alla percezione di una “distanza” temporale, che rendono assenti nel presente sia le ragioni che le hanno determinate che i valori che hanno rappresentato, sottendendo una funzionalità perduta ma contemporaneamente un’attualità massiccia. Sono spazi in attesa dove il tempo è passato, ma contemporaneamente dura nei segni e nei resti del presente senza significato, serbatoi del tempo della città, “irriducibile alla storia perché coscienza della mancanza, espressione dell’assen216

za, puro desiderio”. In questa assenza le “rovine” della dismissione sembrano “oltrepassare il presente da due lati” ridestando “la tentazione del passato e del futuro”, come fossero sospese nell’attimo prima del “rientro” di questi luoghi nel presente e nel futuro, proprio come potenzialità e disponibilità trasformative dell’esistente. Osservare attraverso questi spazi il tempo è come nell’ Angelus Novus benjaminiano, contemplare le rovine, attraverso cui recuperare la speranza progettuale della trasformazione, speranza che si esprime nella costruzione del mondo, di ogni ambiente, del contesto, in un’ottica discontinua, dialettica, diacronica. La dismissione è, quindi, fenomeno che si inscrive perfettamente nella mutazione complessiva della città contemporanea, intesa sia come sequenza di processi di arresto della crescita urbana e di declino del sistema industriale, sia come trasformazione degli aspetti fisico - spaziali della città stessa. Il fenomeno della dismissione ha ormai dilatato in tutta l’Europa il proprio significato sino a coincidere con un nuovo modo di pensare e attuare la pianificazione urbana e, in certi casi, territoriale, ma ha anche aperto nuove problematiche progettuali, istituito nuove modalità di percezione spaziale, aprendo la strada alla nascita di temi architettonici sconosciuti fino a quel momento. In questo senso la questione delle aree dismesse non risiede esclusivamente nel processo di dismissione, ma nella rilevanza del fenomeno e nelle sue implicazioni, nella simultaneità del suo manifestarsi in modi e luoghi diversi, e nell’accelerata


SPAZI IN TRANSIZIONE

sostituzione del titolo d’uso, che postula un nesso spaziotemporale nuovo. Si può tentare un’indagine ricognitiva sia delle regole a cui deve sottostare il disegno di queste nuove parti della città, che sono parti dove si costruisce in mezzo al costruito, per ottenere un successo di miglioramento qualitativo e il radicarsi nell’identità strutturale del caso specifico, ma anche, tentare il riconoscimento attraverso il continuo mutare delle esigenze, che la città stessa non si “conforma” secondo regole prestabilite ed immutabili, ne attraverso la prefigurazione ed attuazione di programmi complessi, ma che, alle radice della sua essenza più profonda, essa si configura e vive del rimescolamento dei suoi materiali, sviluppandosi attraverso il lento e confuso sedimentarsi delle tracce, degli usi, delle coscienza, delle memorie. La questione della dismissione non richiede, quindi, soluzioni univoche nelle metodologie d’intervento, nei valori e negli obiettivi da perseguire: non è solo l’occasione per utilizzare vuoti urbani, ma anche l’opportunità, per la città contemporanea, di ripensare i suoi principi insediativi per regolare la trasformazione all’interno del suo stesso corpo. Si tratta , quindi, di trovare le modalità della trasformazione e del ri-progetto sia in termini generali sia legandosi alla specificità del caso, ma anche ripercorrere idealmente i termini della dialettica tra conservazione e trasformazione, in un orizzonte di rinnovata consapevolezza dove alla permanenza dei valori storici e documentari fa da contraltare il bisogno di trovare nuove “identità”; per queste

ragioni il progetto, implicando necessariamente un’azione di modificazione, deve rendersi al contempo permeabile ai valori della storia e del luogo. La conservazione può assumere, quindi, significati e forme nuove in relazione al tema della dismissione, ovvero attraverso la tutela della memoria e la conoscenza della storia di un insediamento, scavando in quel rapporto tra significati immediati (la forma dello spazio e dei suoi materiali) e i significati mediati (la forma della coscienza sociale) che costituiscono da sempre l’immagine duplice della città. Nell’età postindustriale caratterizzata “dallo spostamento del suo centro propulsore dalla produzione di beni materiali a quella dei valori immateriali, primo fra tutti “l’informazione”, ciò che conta non è più “ la fisicità degli oggetti, la concretezza dei fatti, la dinamica dei fenomeni, quanto la loro proiezione nell’universo del simbolico, ovvero il loro significato”. In questa prospettiva la fabbrica permane come metafora di un microcosmo urbano, pur non possedendo più quell’aspetto di luogo della vita sociale esclusivamente finalizzato alla produzione; oggi la fabbrica è dismessa, appartiene alla fantasia e all’iniziativa di chi può usarla, i suoi tessuti e la sua struttura non sono più racchiusi da un recinto, ma sono uno spazio a cui giungere, da percorrere.

urbana e sociale, ancorandosi saldamente alla specificità del luogo, alla sua storia fisica e culturale.

Le aree dismesse in definitiva manifestano simbolicamente l’appartenenza a molteplici categorie di dualità: esse sono dei non luoghi odierni ma dei luoghi fortemente settorializzati nel passato; appartengono a limitate realtà locali, in quanto espressione di culture economiche specifiche ormai obsolete, ma al contempo sono parte di un sistema economico più ampio, di scala internazionale; esse sono il simbolo fisico della passata chiusura verso l’esterno, del territorio interdetto poiché specializzato, e al contempo elemento dell’apertura al territorio circostante e limitrofo dell’oggi. E’ questa dialettica indotta dal tempo a creare il fascino profondo e complesso di questi spazi, percepibili come forma di incompiutezza e assenza del presente, memoria della “forma” passata , presentimento e promessa di possibili forme future.

Lo spazio dismesso può quindi diventare lo spazio della rappresentazione di ruoli e valori, può diventare simbolicamente luogo dell’identità nella frammentazione

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IV

DA SPAZI DEL LAVORO A SPAZI IN DISUSO

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RICICLO DI AREE DISMESSE Gli spazi del lavoro oggi sembrano non esistere più. È il modo di lavorare che è cambiato e che non impone più modelli specifici ai tari insediamenti e alle diverse funzioni del vivere. Un tempo la città era separata dalla campagna, la residenza dal lavoro, il momento del riposo e dello svago distinto da quello della produzione e della amministrazione. Ora non esistono più confini e il turista moderno fatica a cogliere la separazione, assimilando tutto in una visione in cui spazi e funzioni si confondono e si sovrappongono in un indistinto che forma il panorama. 220


SPAZI DEL LAVORO

Cosa significa ripercorrere gli spa- patina di vissuto che il tempo conferisce Confindustria ha provato a sviluppare zi del lavoro? Non vuol dire riesumare ad ogni cosa, mentre già andava modi- questa logica, ponendosi in una prospet-

il passato, né rivendicare un ruolo preminente agli edifici e ai manufatti industriali, che nel lavoro hanno trovato il loro significato originario. Significa piuttosto cogliere e documentare quel processo di formazione dello spazio, inteso in senso lato, in cui opera e

vive l’uomo; uno spazio che è fatto di ambienti e funzioni molteplici. Quali che siano le origini degli edifici

e le scelte del passato l’uomo rielabora tutto e tutto umanizza, rivive, rigenera, ripropone. È quanto è accaduto, accade e accadrà agli edifici, ai manufatti progettati come strumenti di produzione, con il loro impatto su un paesaggio da sempre soggetto alle modifiche dell’uomo.

Gli spazi dell’industria, che forse al loro sorgere potevano apparire come un’imposizione al paesaggio, vi si sono gradualmente integrati, anche nei loro usi successivi,per la

ficandosi intorno ad essi l’ambiente che la loro presenza aveva cominciato a trasformare. In un discorso che vale tanto per le opere più illustri, realizzate da architetti famosi e volute da imprenditori lungimiranti, quanto per gli spazi formati dal tempo e rielaborati dal quotidiano operare di una moltitudine anonima. Una lettura di questi spazi può essere fatta inquadrando i luoghi del lavoro per eccellenza, che in poco più di un secolo hanno ridisegnato il territorio e il paesaggio urbano del Paese, con una visione più attenta alla loro vitalità intrinseca che non alle suggestioni della memoria. Dalla lettura della fabbrica - vecchia o nuova che sia - emerge non tanto un monumento alla produzione, ma come un

tiva particolare: quella della documentazione dell’attualità degli insediamenti industriali, risalendo al loro passato e prospettandone un possibile futuro. Il progetto ha riguardato quasi tutte le regioni italiane, indagando le diverse tipologie di insediamento - gli opifici-villaggio, i modelli e prototipi, la fabbrica-città, i poli industriali, le infrastrutture produttive - e i diversi percorsi di sviluppo delle imprese affiliate. Il processo filologico di conoscenza dei manufatti ha toccato sia i disegni storici che hanno prodotto le fabbriche che le forme dell’architettura per l’industria, su quella sorta di simbiosi tra l’architetto e l’imprenditore che, interpretando l’avventura della modernità nel suo divenire, hanno rimodellato borghi, paesi e città, trasformato le con-

fattore permanente di aggregazio- dizioni di vita e di lavoro, lasciato ne sociale, come risorsa a dispo- un segno decisivo nella cultura del sizione della collettività, come sfida nostro Paese. offerta a quel moderno Prometeo che è la civiltà industriale.

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SPAZI DEL LAVORO

“Apri o Lavoro, le officine immense, onde fluisca l’abbondanza, slancia sugl’indocili fiumi, all’alpe in cima, entro al cor della Terra, al mare in dorso I mostri tuoi c’hanno di ferro il corpo e l’anima d’elettro;... Ne’ templi tuoi d’acciaio e di cristallo oh torri, oh guglie fiammeggianti al sole, alcun dio mai non ebbe are sì belle! Vedo l’umana fratellanza...”

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RICICLO DI AREE DISMESSE

Versi profetici quelli di “Dopo la Vittoria“ di Shelley, che già nel Prometeo liberato aveva esaltato le aspirazioni di intere generazioni travolte dai miti macchinisti della prima industrializzazione. Ma oramai quelle sognate cattedrali di acciaio e di cristallo offrono da decenni lo scenario desolato di una precoce ruderizzazione.

Abbandono, crolli, macerie, lamiere arrugginite, vetri rotti e tetti pericolanti, là dove milioni di operai

produssero ricchezza e maturarono una “coscienza di classe” (come si diceva una volta) ormai dispersa, là dove imprenditori tanto spesso audaci e preveggenti crearono imperi che ancora impressionano per l’ampiezza della loro estensione e la rapidità della loro accumulazione. Di tutto questo patrimonio enorme di edifici e di macchine non restano, oggi in molti casi, che le rovine, i ruderi dispersi di un sistema di produzione che investiva territori immensi, prima appoggiandosi direttamente alle sorgenti di energia, poi accostandosi ai grandi serbatoi urbani di forza lavoro. Le fabbriche più antiche sorgevano lungo i fiumi, spesso in valli inaccessibili, poi le nuove fonti energetiche, le grandi metropoli industriali. Ed ecco, oggi, i problemi ancora aperti offerti dalle grandi aree già occupate dagli stabilimenti industriali e gli architetti e gli urbanisti impegnati in dibattiti estenuanti. Restaurare filologicamente gli antichi manufatti, come suggeriscono gli archeologhi industriali, oppure considerare le aree come un immenso serbatoio ove attingere aree edificabili in zone divenute ormai centrali? Evidentemente, le situa-

zioni sono diverse da paese a paese, da regione a regione, da città a città. Le opzioni operative sono infinite, e vanno dall’abbandono al degrado

in una rinnovata prospettiva neoromantica, al riuso in una più concreta prospettiva economica.

I problemi di Torino sono poi differenti da quelli di Milano, quelli di Genova da quelli di Napoli, quelli di Firenze da quelli di Roma. Il problema si impone perciò secondo la differente dimensione quantitativa e qualitativa delle singole realtà urbane, nella consistenza diversa dei vari manufatti e delle specifiche risorse ambientali. Una serie numerosa di iniziative e di proposte ha, in questi ultimi anni, segnato il dibattito culturale relativamente a tali temi; mostre, convegni, dibattiti, pubblicazioni, singoli progetti che concorrono tutti alla definizione di una nuova

sensibilità rispetto al problema della salvaguardia, del recupero e della attribuzione di significati e di funzioni nuovi alle tracce del passato industriale italiano. Trac-

ce tanto diffuse quanto importanti per la definizione della nostra stessa storia, non solo economica, e che impongono la necessità urgente di una messa a punto di adeguate strumentazioni di intervento. Un primo censimento generale delle risorse in atto, sarà perciò la tappa necessaria ed ulteriore rispetto alla quale potranno poi essere messe a punto tutte le altre necessarie fasi operative. Non essendo infatti pensabile l’estensione acritica e

diffusa di un atteggiamento conservativo tout court applicato a tutte le disseminate testimonianze del passato industriale italiano, sarà perciò necessaria una strategia complessiva e metodologicamente convincente capace, da un lato, di consentire il recupero e la valorizzazione dei reperti più significativi delle diverse situazioni produttive e, d’altro canto, adeguata a consentirne una più produttiva forma di salvaguardia complessiva. Se sarà così necessaria una presa d’atto del fenomeno anche sul piano artistico e su quello documentario (conservando e tutelando adeguatamente gli oggetti e i manufatti di più significativa personalità, fabbriche, macchine, documenti, archivi, materiali pubblicitari, amministrativi e tecnici ecc.) non sarà, d’altro canto, pensabile di sottoporre a vincoli paradossali, antistorici e peraltro inutili, se troppo diffusi ed estensivi, l’intero patrimonio archeologico industriale che solo potrà essere valorizzato da un’intelligenza complessiva delle potenzialità e dei valori dei singoli oggetti presi in esame all’interno del loro contesto sia storico che ambientale e nella rete delle loro corrispondenze infrastrutturali e produttive. L’archeologia industriale è oggi diventata infatti anche e soprattutto un affare dalle proporzioni colossali e gioca peraltro un ruolo strategico determinante ed essenziale nell’avvenire urbanistico delle nostre città. Nonostante le diversità per ogni città italiana, il senso di una necessaria e complessiva presa d’atto del problema come fenomeno di rilevanza nazionale appare evidente e palese agli occhi di tutti. 223


SPAZI DEL LAVORO

Cotonificio a AAathi (Società Porcheddu Ing. G. A., antica ditta ing. G. A. Porcheddu) Nella pagien precedente: il Parco Dora a Torino

Quando, soprattutto in un centro urbano, uno stabilimento industriale cessa di funzionare e non viene demolito per lasciare il posto a un impianto tecnologicamente più avanzato, il problema di una sua nuova utilizzazione si impone quasi automaticamente, per motivi in primo luogo economici, ma anche sociali e di “decoro”. Sui modi di un impiego diverso, nuovamente funzionale o socialmente utile di strutture ferme o abbandonate, quindi sulla teoria e la pratica del restauro in ambito archeologicoindustriale, il dibattito è tuttora aperto e più che mai acceso. Ricordandoci che

la storia dei “luoghi” industriali è molto spesso una storia di aggiustamenti, ristrutturazioni, stratificazioni, modificazioni di impianti e di edifici, vale la pena accennare alle principali Enee di comportamento emerse, in proposito, negli ultimi anni.

La tendenza alla trasformazione di singoli manufatti in musei viventi, musei di se stessi, è sostenuta da molti ed è praticabile soprattutto quando nella gestione dell’operazione interviene l’ente pubblico, a rappresentare, in un certo senso, gli interessi culturali della collettività. Dobbiamo ricordare forse che l’archeologia industriale si fonda su una conoscenza estremamente rigorosa della storia economica dell’industrializzazione, concepita come un quadro di riferimenti indispensabili alla sua periodizzazione di lungo termine, al complesso dei fattori economici, tecnologici ed umani della 224


RICICLO DI AREE DISMESSE

produzione tra organizzazione del lavoro, iniziative degli imprenditori, ambiente ideologico o politico. L’archeologia industriale ha bisogno anche di riferirsi ad una geografia industriale storica, antica o recente, inclusiva di una conoscenza delle risorse naturali e dei fattori di localizzazione. D’altra parte, per giungere ai suoi fini, l’archeologia industriale deve far ricorso a tutto un ventaglio di competenze di carattere scientifico o tecnico, per i suoi collegamenti con la totalità della civiltà materiale, per le sue ambizioni di storia totale o globale, come dir si voglia, dei rapporti fra industria e società. La crescita numerica degli studi di archeologia industriale assolve, una funzione culturale essenziale: quella di sottolineare la forza dei valori di ogni sorta

generati dall’industrializzazione, meritevoli, oggi, di far parte a pieno titolo del patrimonio culturale dell’umanità.

Tuttavia, l’utilità fondamentale dell’archeologia industriale, che è quella di riunire i materiali e di elaborare le vie di accesso, molteplici, ad una comprensione d’insieme del “fatto” industriale, ad un certo punto non basta più a sostenere la stabilizzazione dell’eredità dell’industria come capitolo fondamentale del patrimonio dell’umanità, e neppure come risorsa indispensabile all’avviamento dello sviluppo economico e sociale verso nuove direzioni. È qui che gli studiosi devono agire su un altro registro e congiuntamente agli altri attori o, almeno, esigere che la loro collaborazione sia ufficialmente richiesta. Gli archeologi

industriali devono prestarsi ad assolvere, nel non do in cui viviamo, una funzione di partner in ogni tipo di decisione di primaria importanza relativa ai luoghi della memoria dell’industria, al quadro di vita e persino ai progetti d’avvenire delle popolazioni locali che occupano ancora gli antichi territori dell’industria. Come definire il “processo di patrimonializzazione” dell’eredità industriale? E un insieme di pratiche nel corso delle quali questa eredità si vede innanzitutto riconoscere ufficialmente, sulla base di testi e di decisioni politico-amministrative, un valore patrimoniale, vale a dire appartenente al patrimonio globale di una nazione; poi ottiene delle garanzie di sopravvivenza, a buone condizioni, grazie a eventuali interventi di protezione e di riabilitazione; ma soprattutto, e infine, è l’oggetto di una reintegrazione giudiziosamente scelta e rispettosa delle sue forme e del suo passato, nella vita delle installazioni umane nelle quali essa continua ad assolvere la funzione di riferimento o di perno dell’articolazione dello spazio sulla storia. Le “ pratiche” sono di pertinenza di autorità pubbliche a diversi livelli, dal locale al nazionale. Gli studiosi hanno il controllo, ormai, delle tappe del reperimento, dell’inventariazione nei paesi nei quali la legge ha ufficialmente riconosciuto l’appartenenza delle vestigia e delle testimonianze dell’industrializzazione al patrimonio culturale comune di una nazione. Ovun-

que rimane, però, molto più difficile il far ammettere la necessità

di proteggere i monumenti più significativi del passato industriale, ri-

spetto ai quali tutte le prime nozioni non sono ancora accantonate persino nelle amministrazioni responsabili della cultura. Ma, soprattutto, la nozione di patrimonio industriale come insieme di beni culturali da rispettare e da integrare in un processo di conservazione attivo, in funzione dei valori storici che essi esprimono, rimane una nozione molto poco compresa, molto debolmente assimilata dai responsabili della gestione territoriale, dell’urbanismo, dello sviluppo e da un importante numero di architetti ai quali questi responsabili affidano la riabilitazione di questo tipo di patrimonio, senza una definizione preliminare degli ambiti, dei compiti e delle regole da rispettare. Da circa venticinque anni, l’impostazione della questione del patrimonio industriale è interamente cambiata. Ora succede che non sappiamo bene come assicurare il marketing e la comunicazione di questo patrimonio, vale a dire attraverso quali mezzi farlo emergere, dopo l’industria, dopo la dispersione o la

scomparsa degli attori, come un bene comune, come un insieme di valori culturali condiviso da una larga parte dell’opinione pubblica, aldilà del circolo ristretto degli esperti.

Un popolo di lavoratori ha generato questo patrimonio - i suoi eredi devono essere in grado di dimostrare cosa intendono trasmettere alle generazioni successive ed indicarne le ragioni - in altre 225


SPAZI DEL LAVORO

parole, devono capire se ritrovano la loro identità aldilà delle apparenze di questo patrimonio e se vogliono perpetuarla. La patrimonializzazione: un processo che viene anche “dal basso”. Un lavoro non solo di educazione, ma di uso delle tecniche di diffusione pubblica - cominciando con una museografia territoriale e paesaggistica rivoluzionaria, che oggi appena esiste - ma anche che prova a reintegrare valori del passato industriale nelle possibilità di emozione di oggi a mezzo di manifestazioni quasi teatrali. Due mestieri che non possono essere divisi: da una parte c’è la conoscenza scientifica della materia, dall’altra l’uso dei canali di persuasione per indurre alla consapevolezza e alla sensibilità culturale verso i valori della civiltà tecnico-industriale, opera dell’ingegno umano. per la produzione

termine, sono proprio loro: operai e dirigenti, nelle loro articolate configurazioni gerarchiche. Per ragioni anagrafiche, sono ormai scomparsi coloro che hanno partecipato, a ogni livello, alla prima crescita industriale italiana nel secondo Otto cento. Ciò nonostante, le inchieste o interviste condotte da storici, ma anche da giornalisti della carta stampata, della radio o della televisione, possono aiutare a ricostruire quelle voci, quelle memorie. “Raccontare la fabbrica” è uno dei modi in cui il ceto operaio si è autorappresentato, magari su giornali di fabbrica o bollettini di associazioni attive in fabbrica, con esiti anche di grande interesse. Il filo conduttore di queste voci sovrapposte è, per lo più, il conflitto. Il silen-

Lo spazio della fabbrica

E il rischio maggiore, per chi intenda conoscere uno spazio industriale dismesso, è proprio farsi affascinare da quell’immensità incommensurabile, omogenea e monotona, perdendo di vista la straordinaria complessità delle lotte che ciascuna parte di quello spazio ha configurato fino al momento della sua dismissione. Scrivere di conflitto in fabbrica in modo quasi scontato rievoca il confronto, spesso aspro e talvolta persino violento, tra lavoratori e proprietari o amministratori. E questo conflitto, quasi naturale, che si svolge dentro e fuori gli spazi di produzione industriale ottocenteschi e novecenteschi: occorre tenerne conto, anche in questo caso occorre ricostruirne i fili quando la fabbrica s’è svuotata. Ma non

Quando una fabbrica chiude, quando i macchinari s’arrestano, quel che più colpisce deve essere il silenzio. Gli spazi

della produzione - è presumibile - rimangono ingombri di cose ancora per qualche tempo, ma la folla di persone che li ha fatti funzionare è scomparsa.

Eppure, le voci di chi ha lavorato per anni tra quelle mura echeggeranno ancora a lungo e dovranno essere ascoltate da chi ha in animo di conoscere la fabbrica, microrganismo sociale complesso prima ancora che architettura costruita. I primi testimoni, nel senso storico del

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zio che assedia una fabbrica dismessa, da questo punto di vista, è davvero ambiguo e fuorviarne.

è questo l’unico dei conflitti possibili, cui prestare ascolto. Più di rado, ad esempio, è stata tentata una storiografia dei luoghi di fabbrica ritagliata sulle questioni di genere, lasciando inevase alcune domande cruciali. Tra le varie questioni che potrebbero essere sollevate, quali sono stati gli spazi delle donne in una fabbrica ormai dismessa? Quali le pratiche di appropriazione dello spazio che una donna ha compiuto nei luoghi di produzione, a differenza di un suo collega uomo? Non è il caso di rincorrere, in modo banale, suggestioni interpretative provenienti da altre storiografie o da altre latitudini culturali. L’ obiettivo, tuttavia, deve essere rendere significante uno spazio vuoto, per lo più monotono e dai caratteri pressoché elementari, che fino a poco tempo prima, invece, è stato il luogo dove centinaia, talvolta migliaia di uomini e donne - insieme o separati - hanno vissuto per anni gran parte della loro quotidianità. Non ridurre queste persone a una massa indistinta equivale a non ridurre le campate in cemento armato di una fabbrica a una sequenza ripetitiva: sono già questi ottimi traguardi per qualsivoglia indagine conoscitiva. Quando una fabbrica chiude, è probabile o auspicabile che il maggiore dei problemi, per l’industriale, sia il destino dei suoi dipendenti, non del suo edificio. Forse anche poiché quegli stabilimenti di produzione sono la traccia fisica d’una storia che si conclude spesso con il dissenso di molti, l’industriale tende a verificare quante possibilità ci siano di trasformarli in un altro affare - imprenditoriale,


TORINO, FABBRICA CONFETTI VENCHI

edilizio, finanziario - per poi dedicare gran parte delle sue energie a perseguire tale nuovo affare oppure a dissociare il nome e, se possibile, la storia della sua azienda da quei luoghi. Com’è naturale, le eccezioni esistono ma purtroppo in molti casi, soprattutto quando si parla di imprese di medie e piccole dimensioni, la dismissione di uno stabilimento equivale al tentativo di dismissione della sua memoria. Ciò nonostante, è persino banale ricordare che l’imprenditore è parte essenziale dello spazio di fabbrica: conoscerne la voce, le strategie, le pratiche, gli spazi è indispensabile per arricchire il quadro degli attori in scena. Tra l’altro, dietro un termine così generico, qual è imprenditore, si nasconde una varietà eccezionale di personaggi, gerarchicamente assai diversi: dall’amministratore delegato all’ingegnere capo della produzione, sono molti i lavori che possono trovare letteralmente posto in uno stabilimento industriale, dove non tutto lo spazio è occupato dai macchinari per la produzione. Prestare ascolto a queste voci non è sempre facile. Molto meno propensi, rispetto ai propri dipendenti, a soggiacere alle regole ferree della storia orale, gli imprenditori usano lasciare tracce molto ufficiose (lettere, diari, memorie), talvolta difficilmente recuperabili se inedite, oppure molto ufficiali, più facili da ottenere grazie agli archivi d’impresa ma più complicate da interpretare, soprattutto per uno storico dell’architettura e della città. Quanti riescono, infatti, a penetrare i misteri di un bilancio annuale di una grande corporazione e ricavarne le infor227


SPAZI DEL LAVORO

Padiglioni per magazzini a Milano (Società Porcheddu Ing. G.A., antica ditta ing. G. A. Porcheddu)

mazioni indispensabili per comprendere cronologie e strategie che hanno portato alla costruzione di uno stabilimento? D’altra parte, non molti sono in grado di sciogliere le poche ermetiche righe di un verbale del consiglio d’amministrazione di un’impresa media o piccola, dove presumibilmente le formalità assemblati sono ridotte al minimo. A complicare la situazione interviene, poi, la cosiddetta “letteratura grigia” ossia quell’incredibile massa di materiale a stampa, non destinata tanto alla pubblicazione quanto alla circolazione, dentro e fuori gli spazi della fabbrica: un materiale ricchissimo e largamente inesplorato, dietro cui sovente si riescono a leggere le politiche, le strategie, i modelli di comunicazione ma anche, nei casi più fortunati, gli immaginari dell’impresa. Le voci che risuonano negli spazi industriali, a Mirafiori come altrove, risuonano nella città e si aggiungono ad altre. Gli stabilimenti industriali finiscono sempre per condizionare la città o, ancora meglio, il territorio, così come è vero l’opposto: per ricostruire i loro valori (simbolici, ma anche fondiari, economici, politici, sociali) occorre uscire fuori dai cancelli, oltrepassare i recinti che delimitano l’area di produzione e capire cosa succede all’intorno. Rispetto alle sue fabbriche,

la città è assai più di uno sfondo, di un contenitore indifferente.

Le dinamiche che un edificio industriale attiva nel tessuto fisico e sociale di una città possono mutare il corso della sua storia, contribuendo a far emergere nuovi attori sociali o scomparire consolidati sistemi economici.

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RICICLO DI AREE DISMESSE

bile strumento per ricostruire le storie di La fabbrica come macchina ur- come tali devono essere indagate. Al di là di ogni retorica fittizia, a volte fabbrica ma anche per immaginare uno bana Una fabbrica, un luogo per la produzione riesce a trasformare la città in molti modi, diretti e indiretti. La localizzazione, ad esempio: scegliere dove realizzare un edificio industriale, fra città e campagna, quasi immediatamente innesca un processo di trasformazione dei circostanti valori fondiari e immobiliari, secondo logiche quasi mai lineari alla presenza di un mercato di aree e immobili largamente imperfetto. Inoltre, l’inserimento di un edificio industriale in un tessuto urbano più o meno consolidato, più o meno periferico, non è mai senza conseguenze: sul medio e lungo periodo muteranno i destini di quella parte di città, se non della città intera, dal punto di vista dell’intero ecosistema. In questa prospettiva, diventa indispensabile interrogare le fonti che possono raccontare le storie all’apparenza esterne a questo edificio, perché in realtà queste fanno parte di un’unica storia. Gli archivi municipali o gli archivi di Stato spesso conservano tracce di dibattiti lunghi, animati, spesso violenti che riguardano l ’intorno di una fabbrica, durante la fase della progettazione ma anche dei suoi continui cambiamenti, ma finiscono per interessare anche l’edificio in sé, nei suoi caratteri di progetto e modi di realizzazione e trasformazione. Uno stabilimento di produzione, del resto, non sta mai fermo nel tempo, ma si trasforma, si mo -difica secondo logiche e tempistiche tutt’altro che prevedibili: così come la città. Le due vite scorrono in parallelo e

mitografica, sul ruolo svolto dai processi d’industrializzazione nella formazio ne della città contemporanea, la storia urbana europea s’è confrontata a lungo con la difficile nozione di città industriale, senza riuscire mai a darne una definizione univoca, anzi contribuendo a metterne in rilievo le storie. In particolare le storie quantitative, tuttavia, hanno aiutato gli studiosi a conoscere le dinamiche demografiche, in città o in fabbrica, costruendo una base di dati insostituibile per chi voglia misurare l’impatto della crescita o decrescita urbana sulla fabbrica, o viceversa. E proprio attraverso tale genere di studi che si può iniziare a comprende la difficoltà di misurare taluni fenomeni sulla scala urbana: se è pur vero che Detroit non coincide con le attività della Ford, è altrettanto vero che le attività della Ford hanno contribuito a trasformare i destini dell’intero stato del Michigan (e di alcune regioni circostanti) nel corso del Novecento proprio grazie alla presenza degli stabilimenti automobilistici. Sono scenari di grande complessità, lontani dalle configurazioni più comuni per le città industriali europee e anche nordamericane cresciute nel corso del Novecento. Possono apparire, peraltro, lontani da quanto uno stud ioso può studiare sui temi dell’architettura per l’industria, di solito più circoscritti. Ciò nonostante, occorre tener presente quanto il patrimonio industriale invecchi in fretta, diventando presto obsoleto. E la geografia, in fondo, che deve diventare indispensa-

sviluppo attraverso la loro valorizzazione. Il contesto della città e del territorio, e il particolare dei legami con le memorie di un passato del produrre, vanno letti nella complessità di un sistema generativo (nel quale un fattore attivo forma, governa, rigenera l’insieme delle mutazioni riscontrabili nel suo tessuto relazionale), sistema retto da una duplice apparente finalità: la conservazione e la riproduzione o, nel caso specifico, la rigenerazione. Allora il progetto dell’esistente è fatto nuovo e permanente, nel quale il recupero non è mo da transeunte od operazione temporanea di necessità contingente, ma problema da affrontare con logiche diverse da quelle del passato. Ciò premesso, i precedenti ragionamenti possono essere centrati sull’uso di strumenti teorici o visti in un contesto sperimentale o, infine, collocati nell’ambito del vivente. Emerge la centralità del “progetto di conoscenza”, in una continua inferenza fra conoscenza e progetto, fra sistema edificio e sistema ambiente in senso lato e la necessità di superare la parzialità dei percorsi disciplinari, necessaria a definire quanta ‘qualità’ architettonica del preesistente sia veramente recuperabile, per cui l’ammissione al recupero si dimostra operazione reale e utile, e non fittizia e burocratica. Oggi il problema della proprietà e dell’adeguatezza degli strumenti di supporto alla decisionalità e alla progettualità appare più che mai centrale, ma il difficile esercizio della complessità e l’insoddi229


SPAZI IN DISUSO

sfazione per metodi di supporto analitico-valutativi - non in grado di esprimere la ricchezza della realtà e della sua storia, la variabilità e la pluralità degli interpreti, che non deve tradursi in un ritorno all’autoreferenzialità delle pratiche progettuali e decisionali. Una precipua attenzione riguarda il punto di vista del sistema osservatore, ossia degli attori del processo, dalla committenza agli organismi di progettazione, alle strutture di controllo, alle componenti della comunità locale, ai portatori delle memorie e ai potenziali utenti dell’oggetto stesso del recupero. Le opere che ci vengono da un passato più o meno prossimo possono essere osservate come sono oggi e non com’erano al momento della loro costruzione o durante il loro uso, ma attraverso l’approfondimento della conoscenza della materia che ci è pervenuta e delle fonti documentarie possiamo, almeno in parte, riconoscere le situazioni pregresse e ricostruire e comunicare la memoria. Pertanto nell’intervenire sull’esistente facciamo riferimento non a un testo originario, ma al testo che siamo in grado di “rimembrare” in modo selettivo attraverso la memoria. L’apparato strumentale va ripensato, allora, secondo processi dello sperimentare, valutare, imparare, proprio perché i metodi di conoscenza appaiono, oggi, non sufficienti a far percepire gli esiti significativi: costruire un processo interattivo fra i diversi soggetti per costruire uno scenario valutativo condiviso, valutare le valutazioni, nella prospettiva di opzioni plurime e aperte, di scenari alternativi. 230


RICICLO DI AREE DISMESSE

L’informazione assume un valore in cui non è eludibile la “freccia del tempo” e la sua capacità di tradursi in comunicazione con gli stakeholders, che influenzano gli stessi strumenti dell’ analisi e della pianificazione finanziaria. La difficoltà di tradurre le informazioni disciplinari in conoscen za condivisa, il rilievo dato alle forme della comunicazione riflessiva e della valutazione in progress, nella prospettiva di delineare la struttura di opportunità nelle trasformazioni, di costruire indicatori di convenienza strategica, hanno messo in crisi i modelli di analisi multicriteriali costi/ benefici sociali, le strutture stesse di pianificazione indirizzate ad una generica funzione di interesse sociale. I termini del problema mettono in gioco le potenzialità di valore aggiunto territoriale, così come le qualità future dello spazio costruito, e impongono di affrontare le condizioni di incertezza sul contesto e la complessità degli interessi in gioco.

Il concetto di patrimonio e memoria

Negli ultimi decenni, il lavoro puntuale di ricerca e divulgazione del patrimonio industriale, la sua estensione agli apparati produttivi, alle macchine, agli strumenti del lavoro industriale, alle voci stesse del lavoro, ha lentamente promosso mutamenti di significato e di percezione. Risultato di questa rielaborazione culturale sono anche i modi in cui le comunità e le amministrazioni locali, anche se segnate dalla delo calizzazione e dalla chiusura di realtà produttive e imprenditoriali, inten-

dono “riappropriarsi di un passato che è sempre più totalmente altro e lontano, ma di cui si ha bisogno per un problem a di radici e di senso”. Creare condizioni d’uso del complesso nelle condizioni di pre-recupero, in relazione alla topografia del luogo, è una funzione strategica per la conservazione del patrimonio industriale, in quanto può permettere di attribuire anche funzioni

economiche che possono motivare e garantire nel tempo la conservazione.

Una condizione per la fruizione è legata, infatti, al riconoscimento - “varcare i cancelli” e prenderne contatto - e alla valorizzazione anche attraverso attività artistico-culturali, in quanto si tratta generalmente di luoghi esclusi dalla quotidianità urbana, intesa co-me l’insieme delle funzioni quotidiane degli abitanti della città e che sono combinazione di molteplici fattori di diversa natura. Se il rapporto col passato non può essere basato su un’opzione generale della conservazione, né deve essere relegato al piano di citazioni delocalizzate e decontestualizzate, di tracce nelle maglie urbane, l’azione di selezionare le memorie - nel caso di testimo-nianze quantitative, come è più tipico del patrimonio industriale del moderno, a cui non è riconoscibile il valore di monumento, la

comunicazione culturale della memoria è essenziale per motivarne, dopo la documentazione, la conservazione o la trasformazione attenta alla sua materialità.

La promozione e la valorizzazione divengono strumenti essenziali del marketing territoriale, in quanto le istanze storiche ed ambientali possono assumere un ruolo essenziale nell’indirizzare il tavolo delle decisioni, pubbliche e private, proprio perché la materia del passato industriale attraverso i processi di riconoscimento e comunicazione può assumere un valore di bene anche in chiave economica e non solo nelle forme della museificazione. La fascinazione per gli elementi di una civiltà perduta, la ri-rappresentazione come monumento della storia urbana, il diffondersi di una nuova estetica industriale comportano sia l’accentazione di differenti prestazioni dell’abitare, ma nel contesto di un paesaggio di qualità ambientale, d’uso e culturale, sia prospettive di intervento attente alla cura degli elementi.

Per questi motivi sono necessari strumenti e conoscenze tecnico-culturali per il mantenimento ed il recupero delle parti degli immobili, degli oggetti tecnici e delle tracce di memoria della produzione.

Nella pagina precedente: sotterraneo del Paraboloide di Casale Monferrato; Interno dell’ex fornace Buzzi Unicem a Casale Monferrato

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SPAZI IN DISUSO

Lo spazio in disuso rappresenta un luo- Il fenomeno del disuso, ovviamente, non go incompiuto, mancante di una conclu- riguarda solo la realtà veronese, ma si

“cos’è uno spazio in disuso?”

Ex manifattura tabacchi di Verona, spazi interni abbandonati.

sione, e non più consolidato nella città. Spazi che possiedono una grande carica evolutiva, dove è percepibile il contrasto della trasformazione. La potenzialità dell’assumere nuovi funzioni, anche completamente diverse dalle originali. Sono i luoghi dove le cose possono accadere, dove si può “aggiustare” la città, integrarla e trasformarla. Come si può però discutere e analizzare un fenomeno senza conoscerlo? Una seconda serie di domande si è quindi resa necessaria per approfondire la problematica/risorsa dell’abbandono: “Quanti spazi in disuso ci sono a Verona? Che caratteristiche hanno? Che superficie occupano?” L’associazione veronese AGILE ha intrapreso, tra giugno 2013 e febbraio 2014, un progetto di mappatura del territorio cittadino con lo scopo di censire e catalogare gli spazi in disuso ed abbandonati presenti in questo determinato lasso temporale. Scopo dello studio è stato quello di dare una definizione numerica al fenomeno dell’abbandono, in modo da definire un punto di partenza anche per eventuali serie storiche che potrebbero essere realizzate concordando, a scadenze definite, ulteriori lavori di censimento.

La mappatura ha portato all’individuazione di 555 spazi, per una superficie complessiva di 2.636.570 m². 232

estende a tutta l’Italia. La crescita illimitata è alla base del modello economico praticato preminentemente nel pianeta. Dato che le esigenze degli individui sono limitate, per permettere la continua crescita dei consumi si stimolano il consumo inutile, la compulsione nell’acquisizione, la sostituzione di merci funzionanti, in sintesi il disuso delle merci stesse. Ma i criteri adottati per le merci mobili sono gli stessi che questo modello applica a tutte le risorse incluso il territorio e le trasformazioni che lo riguardano. L’economia dell’industrializzazione, dei consumi, della crescita materiale, lo sfruttamento incondizionato della risorsa suolo per insediamenti produttivi, infrastrutturali, residenziali, di servizio hanno prodotto una grande quantità di manufatti di temporanea utilizzazione, di scadente qualità tecnica e formale, sovradimensionati. Così oggi la risultante di una fase di trasformazione, che sicuramente avrebbe potuto essere meno impattante, è un

territorio pieno di manufatti non più consoni alle nuove esigenze produttive e commerciali che, come tutte le altre merci, escono dall’uso e sono rifiutati, abbandonati, sottoutilizzati.

Se il fenomeno è lo stesso, seppure con esiti ambientali e paesaggistici differenti per dimensione e permanenza, non è errato utilizzare per territorio e manufatti la medesima terminologia di quella in uso per le merci mobili. Le azioni attua-


RICICLO DI AREE DISMESSE

bili sono concettualmente simili ed i termini riuso e riciclo si adattano a quell’esigenza di ridurre i consumi e utilizzare le trasformazioni attuate per altre funzioni. Obiettivo nel caso di edifici ed aree dismesse, come per le altre merci, è il recupero dell’energia servita alla costruzione ed accumulata all’interno degli stessi; essi di fatto costituiscono un enorme deposito che può servire per non consumare ulteriormente, per utilizzare e non sprecare quanto fatto. Obiettivo è, altresì, dare una ragione di essere a quegli impatti, sul paesaggio, sulla società, nell’ambiente che le trasformazioni hanno già prodotto e che, quando non connessi ad una utilità, sarebbero doppiamente irragionevoli e immotivati. In un quadro di risorse limitate appare del tutto insostenibile, oltre che illogi-

co, non tentare di usare un capitale dell’entità del patrimonio di edifici e di aree inutilizzate e sottoutilizzate esistente. Attraverso un

comportamento energeticamente, ambientalmente, eticamente più corretto si può avviare un recupero diffuso che metterebbe a disposizione di chi ne ha necessità le costruzioni non utilizzate, e rimuoverebbe quanto non riutilizzabile rinaturalizzando le aree degradate. Date le dimensioni e la diffusione del problema sembra difficile ipotizzare che l’intervento pubblico abbia la disponibilità economica di sostenere l’investimento richiesto e che l’investimento imprenditoriale privato possa interessarsi di manufatti il cui recupero ha scarse possibilità di produrre profitti. Per non ridurre l’ambito di azione ad un

ridotto numero di interventi puntuali e per evitare che edifici ed aree rimangano per decenni abbandonate in attesa che si concretizzano le condizioni che producono il massimo vantaggio economico, è necessario ampliare la partecipazione e superare le modalità operative che hanno generato l’attuale situazione. È necessario avviare un grande progetto di carattere culturale, economico, sociale e ambientale sostenuto da un sentire comune, da quella ricerca di qualità della vita desiderata dall’intera comunità. Una vera rivoluzione che riporti al centro dell’attenzione valori, la riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, l’eliminazione degli sprechi, la conservazione della natura, il perseguimento del benessere che in passato sono stati volutamente ignorati per permettere l’ottenimento di discutibili risultati economici e sociali. “Dalla metà degli anni 1950 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentata del 78%, mentre la crescita demografica è stata di appena il 33% (AEA, 2006). Oggi, le aree europee classificate come periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione.” L’impatto dell’impermeabilizzazione che ricopre il suolo e fa perdere di funzione al sottosuolo, è di fatto il più grande detrattore della qualità della vita delle nostre città, per la forte pressione esercitata sulle risorse idriche, sulla biodiversità, sulla sicurezza alimentare, sull’effetto isola di calore e sulla qualità dell’aria, ma si è rivelato ancora di più l’indicatore sintetico di ogni processo di urbanizza-

Area Industriale Ex Liquichimica, Saline Joniche (RC). All’interno l’area si presenta in totale abbandono. Molte delle strutture di servizio sono state rimosse. L’imponente ciminiera è visibile dalla Sicilia.

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SPAZI IN DISUSO

zione, quando i suoi effetti comportano degrado e perdita di riconoscibilità dei nostri paesaggi, della capacità produttiva locale, della sovradimensione di disponibilità di stock edilizio a fronte di una grande necessità di recuperare l’esistente e di riconvertire i siti dismessi, soprattutto se inquinati e vere e proprie aree di rifiuto urbano. Quindi il tema principale della strategia di rigenerazione urbana integrata dovrà puntare alla protezione del valore naturale degli spazi periurbani, al miglioramento della qualità della vita nei centri urbani. Al consolidamento delle infrastrutture di trasporto, alla migliore protezione dei suoli nel loro rapporto con la disponibilità ed uso di edilizia pubblica e privata, alla gestione delle acque, al riutilizzo dei terreni, attraverso azioni di riciclo. Piuttosto che infrastrutturare nuovi siti o lasciare dismessi quelli urbani esistenti o quella da bonificare, questi ultimi rappresentano la vera risorsa in cui è possibile creare condizioni di risposta all’impatto diretto ed indiretto dell’impermeabilizzazione attraverso ogni tipo di azione prevista per limitare, mitigare e compensare, recuperando il valore ecologico dei siti a livello urbano e periurbano. “Sfruttare al meglio l’area cittadina esistente in generale è una priorità, senza dover sacrificare spazi verdi, utilizzando i siti dismessi esistenti. Questi ultimi sono in genere un’eredità del passato industriale europeo e possono essere contaminati da tutta una serie di inquinanti (Oliver et al., 2005). Spesso si dà per scontato che i costi del recuperosiano superiori a quelli di una edificazione ex novo, e ciò sicuramente è vero dal punto di vista di chi deve ristrutturare i siti.” 234

L’opportunità della risorsa-luogo: il riciclo delle aree urbane dismesse La rigenerazione urbana integrata attuata con il riciclo delle urbane dismesse,

secondo strategie di sostenibilità sugli insediamenti, rappresenta un’opportunità

unica per attuare strategie di gestione del suolo. È ciò che l’Europa ha messo in campo attraverso le azioni cosiddette Urban SMS (Urban Soil Management Strategy), per migliorare la gestione della aree urbane degradate e provare gli strumenti messi a punto per la valutazione della qualità dei suoli, nel supporto per lo sviluppo di strategie, per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il riutilizzo

ed il riciclo di aree già utilizzate, appare quindi un’opportunità che investe risorse e luoghi, sia che si tratta nella loro definizione di aree urbane dismesse, che avendo subìto

un forte impatto generativo del degrado e dell’abbandono, costituiscono vere e proprie aree rifiuto, sia che si tratti di siti inquinati (e quindi inquinanti sul contesto limitrofo), le cosiddette aree “Brownfield”, quali ex siti produttivi di tipo industriale o comunque luogo di relitti abbandonati, frutto dell’azione antropica. Uno dei fattori ostativi agli interventi compatibili con le azioni di rigenerazione per le aree in questione è spesso di natura economica e ad esso connesso, lo stato di proprietà (pubblico o privato, o misto)

del suolo. In ogni caso, qualsiasi tipo di investitore dovrebbe considerare per gli aspetti decisionali di azione sulle aree interessate, non solo il recupero fisico e produttivo dell’area ma anche la capacità dell’ecosistema naturale di rigenerarsi e produrre benefici collettivi. Tuttavia, investitori e pianificatori spesso trascurano i costi indiretti, come quelli inerenti a perdita di ecosistemi, maggior consumo di carburante a causa del pendolarismo su distanze più lunghe, inquinamento provocato dai percorsi più lunghi, oppure creazione e mantenimento a lungo termine di contatti sociali se l’area edificata è più estesa. Alcuni siti dismessi sono inseriti nell’infrastruttura locale esistente, quindi il vantaggio è che non occorre costruire altre strade. In termini ambientali, riciclare i siti dismessi rigenerando le aree urbane, oltre a recuperare grandi superfici di suolo impermeabile, significa condurre quelle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, utilizzando sugli insediamenti urbani, tipologie diverse di azioni che riguardano la pianificazione del territorio ma anche l’uso di best practices, di ricerca e di monitoraggio con il livello di coinvolgimento dei cittadini per azioni di informazione e prevenzione. Un’iniziativa del WWF vede il censimento di tutti quei siti dismessi, che vanno dalle infrastrutture inutilizzate a spazi aperti in forte degrado, ai fini di avere una panoramica dello stato di salute, e non solo, del territorio italiano. La ricerca individua anche quelli che sono gli involucri-scheletri abbandonati della attività industriali non più attive.


RICICLO DI AREE DISMESSE

Circa il 25% dei casi di abbandono se- delle loro ingenti dimensioni sembrano gnalati riguarda edifici riconducibili alla prefigurare traiettorie finora non spericessazione di attività produttive; certa- mentate, almeno in Italia) ovvero il rimente è il portato della nota contrazione delle attività manifatturiere in Italia – avviata oltre 30 anni fa ed accentuata negli ultimi 10 – ma le ragioni di tanto abbandono sono anche diverse, e il campione emerso ne restituisce alcuni volti. Nella parte largamente maggioritaria dei casi si tratta di edifici recenti, isolati oppure inseriti in aree attrezzate. La loro collocazione si presenta come una delle variabili più significative ai fini delle opportunità di riutilizzo. Se, infatti, l’ab-

bandono è stato causato da una localizzazione irrazionale (derivante

ad esempio dalla pratica dell’abusivismo oppure dall’utilizzo di opportunità di finanziamento mordi e fuggi) potrebbe presentarsi antieconomica qualsivoglia riproposizione di attività. Per gli edifici collocati in aree attrezzate le prospettive di riuso potrebbero teoricamente essere migliori, ma va considerato che nella attuale congiuntura l’offerta di edifici produttivi è largamente più ampia della domanda. A proposito dell’attuale eccedenza di edifici produttivi va sottolineato che alcune segnalazioni non riguardano edifici singoli bensì intere lottizzazioni industriali o artigianali che non sono mai state completate e che oggi hanno perduto le speranze di esserlo con il tempo in quanto affette estesi fenomeni di abbandono. Si tratta in sostanza di insediamenti sbagliati – spesso pagati dal pubblico, ma non si pensi esclusivamente al sud (che a causa

torno programmato all’uso agricolo o la loro rinaturalizzazione. Va detto infine che una parte non irrilevante (circa

il 10%) degli edifici produttivi abbandonati è rappresentata da edifici di pregio storico e architettonico;

questa qualità, insieme al fatto che spesso si trovano in contesti urbani centrali o semicentrali, potrebbe favorire il loro riuso, ma nel contempo comporta una attenta selezione delle funzioni compatibili con il mantenimento delle caratteristiche architettoniche originarie. In parallelo ad aspettative di rafforzamento della città pubblica, il censimento WWF ha evidenziato anche la presenza

Trasformazione del convento São Bernardo, a Tavira, Souto de Moura: nella foto sopra prima dell’intervento, in quella sotto dopo l’intervento. L’operazione è stata quella di ripristinarne l’aspetto proseguendo la trasformazione; il manufatto infatti, era già stato riconvertito in precedenza in una fabbrica del vapore.

di proposte di riutilizzo per fini primari, ovvero quelli abitativi.

I manufatti di partenza sono, dato in qualche modo stimolante, piuttosto diversificati; strutture militari, porzioni di centri storici, stazioni ferroviarie, capan-

noni, magazzini, ospedali, hotel sono

interpretati come opportunità abitativa sia tradizionale – per giovani famiglie – sia estesa a genitori separati, anziani autosufficienti,

popolazione tempo-

ranea, immigrati recenti, a conferma

che la richiesta residenziale non riguarda oggi soltanto un tetto bensì una dimensione urbana compiutamente inclusiva.

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SPAZI IN DISUSO

“Gli edifici abbandonati e in disuso in Italia sono, secondo i dati di Assoedilizia, almeno 2,5 milioni. Nonostante questo, la corsa al cemento non si è mai fermata: l’area urbana negli ultimi 50 anni si è moltiplicata, secondo i dati ufficiali, di 3,5 volte ed è aumentata, dagli anni 50 aiprimi anni del 2000, di quasi 600mila ettari (equivalenti all’intera regione del Friuli Venezia Giulia), un incremento di oltre il 300% (1.100% in alcune regioni). Insomma, in Italia per 50 anni non si è fatto che costruire. Secondo il report Terra Rubata realizzato da Fai e WWF, nei prossimi vent’anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà ancora al ritmo di 75 ettari al giorno. E questo accade anche quando l’andamento demografico dovrebbe far pensare a un rallentamento: tra il 1991 e il 2001, anni di stabilità demografica del nostro Paese, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari all’anno di territorio urbanizzato”.

1) Rubino Silvano, Là dove c’era un capannone ora c’è …, in “Vita”, Milano, Settembre 2013

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RICICLO DI AREE DISMESSE

“La bellezza naturale del nostro Paese non è merito nostro. Ciò che può essere merito nostro è migliorare le periferie, che sono la parte fragile della città e che possono diventare belle.”1

Il recupero degli edifici abbandonati non si limita al cambio di destina-

zione d’uso o ad un semplice adattamento normativo degli stessi, bensì implica una ridefinizione delle qualità spa-

ziali generali dell’edificio e dunque della sua forma, che si ripercuote

inevitabilmente sul suo significato e, non da ultimo, sul suo ruolo urbano. Spesso i manufatti disponibili ad ospitare funzioni altre, rispetto a quelle per le quali sono stati originariamente concepiti e realizzati, si trovano in contesti che hanno cambiato la loro vocazione iniziale, produttiva o altra che sia, in aree della città che si sono trasformate e in cui si sono insediate realtà diverse, spesso in maniera incontrollata. Il recupero va pertanto inteso in una scala più ampia rispetto a quella dell’edificio stesso e che può sfociare nella riqualificazione o nella rigenerazione urbana di parti di città. Da oggi l’attenzione si sposta dai centri urbani, con un tessuto consolidato, alle aree della città che rappresentano la sua prima espansione e che ne costituiscono pertanto le periferie. Queste rappresentano i margini delle città ma “diventano nuovi centri nodo nelle aree metropolitane. Toccare questi punti critici con un rammendo architettonico e innescare un processo virtuoso non riguarda soltanto la qualità estetica e funzionale di un og-

getto fisico. Significa generare un processo sociale ed economico nel momento in cui, anche a livello amministrativo, il territorio viene ridefinito.”2 Nel riformulare il ruolo delle periferie, spesso l’approccio accademico dell’ architetto, che ritiene di poter trasformare una periferia in un pezzo di città, disegnando una piazza, un anfiteatro, un viale o un centro di aggregazione, si è rivelato insufficiente, sono tante le piazze o gli auditorium che rimangono purtroppo desolati. Se ne deduce che il problema della riqualificazione non è solo una questione di forma urbana, ma di ricchezza di funzioni. In un tessuto fragile come la periferia, la forma non può precedere la trasformazione sociale, ma ne deve essere la naturale conseguenza. Appare necessario pensare a un territorio urbano in cui le eccellenze e i poli di attrazione non siano concentrati nei centri storici. “In Italia circa il 60% della popolazione vive nelle periferie. Periferie molto diverse tra loro per struttura economica, sociale, demografica, e anche per livelli di degrado urbanistico e architettonico. Queste differenze, radicate storicamente, si complicano con l’allargarsi delle città nelle aree metropolitane.”3 1) Piano Renzo, Diversamente politico, in “ Periferie. Diario del rammendo delle nostre città”, I numero, report 2013- 2014 sul G124, in “Sole 24 Ore”, Roma e Milano, novembre 2014 2) 15 Albis Mario, Cambia la periferia,cambiano i modi per capirla, in “ Periferie. Diario del rammendo delle nostre città”, I numero, report 2013-2014 sul G124, in “Sole 24 Ore”, Roma e Milano, novembre 2014 3) Di Blasi Ottavio, La periferia e i laboratori di quartiere, in “Arketipo”, n° 84, giugno 2014 Nelle immagini accanto, dall’alto: Silo House, Ginger, una casa sulla sommità di un silo; MDW Architecture, Savonnerie Heymans, riconversione in residenze di un sito industriale; chiesa del Santo Volto di Torino, Mario Botta, recupero della ciminiera come campanile simbolico.

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L’attualità del tema della dismissione Progetto architettonico o progetto urbano?

Il fenomeno della dismissione ha dilatato il proprio significato nel tempo del suo svolgersi sino ad essere considerato come la principale modificazione urbana e territoriale avvenuta negli ultimi trenta anni.

In questo senso, il problema non ha riguardato esclusivamente il processo di dismissione, ma soprattutto la rilevanza dimensionale del fenomeno e delle sue implicazioni, la diffusione e la simultaneità del suo manifestarsi, in modi e luoghi diversi, la sempre più accelerata sostituzione del titolo d’uso che ha determinato nuovi nessi spazio temporali. Lo stato di “necessità”, indotto del processo di dismissione, è stato considerato, per molti aspetti, come un’occasione storica di trasformazione concreta dello spazio urbano e territoriale, ma anche come mutamento delle relazioni e dei rapporti che ne hanno delineano la specifica fisicità.

La dismissione, quale fenomeno tra i più rilevanti nella dinamica 238

degli spazi post-industriali, pur es- di trasformazione tecnologica, di innovasendosi quasi del tutto attuatasi, ha costituito un processo di trasformazione di tali dimensioni e con una tale varietà di situazioni che, ancora oggi, questi spazi costituiscono il luogo e la dimensione materiale preponderante nella quale si sostanziano i principali interventi contemporanei di trasformazione urbana e territoriale. Dunque si può parlare di attualità del fenomeno proprio in vista di questa “continuità” operativa, ma anche di dibattito disciplinare, e, per queste ragioni, si è voluta esaminare la dismissione come processo i cui effetti sono ancora in atto (anche nella città di Verona), nel più ampio quadro delle dinamiche trasformative contemporanee. Inoltre si ritiene che i processi di declino, che ciclicamente investono la città ed il territorio, sono da ritenersi tutt’altro che terminati, si pensi, infatti, alla continue dinamiche trasformative indotte nelle realtà metropolitane dai mutamenti economici e sociali, legati a processi globali

zione e di internazionalizzazione. Dunque se il processo di deindustrializzazione può essere messo in relazione alle trasformazioni generali dell’economia mondiale, allo stesso tempo e, secondo molti, in modo congiunto, si è assistito all’estensione del fenomeno urbano verso una sostanziale dilatazione fisica nel territorio, le cui cause non sono dissimili da quelle che hanno indotto la delocalizzazione dei grandi sistemi produttivi nella “rete”. Nella generale perdita dei riferimenti, nello spazio urbano e territoriale, ma anche sul piano disciplinare, si assiste ad una perdita del senso della trasformazione, all’utilizzo di principi sensibili alle differenze, ad una rinuncia a strategie progettuali che possano interpretare la complessità strutturale degli spazi e dei luoghi dell’abitare contemporaneo. La costituzione del nodo problematico relativo alle aree dismesse e al feno-


ATTUALITA’ DEL TEMA DELLA DISMISSIONE

meno stesso della “dismissione”, diverse, nella storia della disciplina urba- La costruzione del problema non è esclusivamente legato alla dimensione del processo e alla grande diversità di casi, ciò che risulta maggiormente problematico è definibile in relazione alle conseguenze dirette ed indirette che questo processo ha sulla più ampia realtà urbana. La questione è, dunque, individuare cosa “fa problema” non solo in termini definitori ma, piuttosto, all’interno di un processo di definizione del problema non distinto né dai processi generali di formazione e trasformazione urbana, che individuano queste aree in termini “strategici”, né, in sede disciplinare, dai fondamenti concettuali alla base della elaborazione delle “soluzioni” che per esso sono state individuate. Il processo di dismissione non può delle dinamiche urbane poiché l’indebolimento, la dismissione, lo svuotamento, la restituzione di spazi, la liberazione agli usi, la disponibilità di suoli, aree e luoghi come il deperimento delle aree urbane sono fenomeni che ricorrono nella storia della città e, con nomi e definizioni

nistica ed architettonica. A tal fine, l’indagine del fenomeno della dismissione, è stata condotta nella prospettiva di individuarne non solo le cause dell’economia mondiale.

La deriva degli spazi urbani, la distruzione dei fattori produttivi che si sono determinati all’interno dei tessuti urbani, sono dunque gli effetti di quel declino, che può essere interpretato come forma della scomposizione e della dissoluzione dei connotati spaziali e territoriali dei sistemi urbani e, in generale, con la più ampia crisi della centralità. Il fenomeno della

dismissione si inquadra, dunque, nella mutazione complessiva della città contemporanea, intesa sia come sequenza di processi di arresto della crescita urbana (centralizzata) e di declino del sistema industriale, sia come trasformazione degli aspetti fisico - spaziali della città stessa.

I differenti atteggiamenti nell’ambito della cultura urbanistica ed architettonica hanno prodotto una sostanziale variabilità di posizioni in merito al problema delle aree dismesse, cogliendole “a posteriori”, come esito finale del fenomeno, e non nella complessità relazionale delle dinamiche urbane, anche per questa ragione, il problema è stato trattato per lo più attraverso interventi basati sull’eterogeneità delle formule interpretative. La mancanza di un quadro di riferimento teorico e contestuale, in grado di delineare i fondamenti della problematica, ha agevolato, in molti casi, il disarticolarsi degli interventi, delle procedure operative e delle metodologie, intese per lo più come correttivi ad una “fenomenologia” di tipo negativo (ben espressa nella locuzione aree dismesse). Ancora si può affermare che il problema, spesso, è stato ridotto ad una casistica desunta, il più delle volte, dalla tipologia insediativa delle aree urbane investite dal 239


SPAZI IN DISUSO

fenomeno (aree portuali, aree interne, esterne o marginali alla città, cementifici, acciaierie, ecc..), inducendo a scelte successive dettate dal caso per caso o secondo le convenienze economiche e politiche, dunque, senza proporre a livello disciplinare un’analisi che le reinterpreti rispetto ad un’idea complessiva “di città”. La tentazione definitoria ha anche delineato un quadro poco chiaro nella interpretazione delle aree dismesse relativamente alla intrinseca natura “specifica” di questi luoghi, spesso omologati attraverso una sorta di disidentificazione delle differenze (definendole come aree vuote) che circondano, in genere, gli spazi ed i luoghi contemporanei. E’ necessario capire quali siano le cause (esogene ed endogene), ma anche le molteplici modalità (luoghi, tempi, tipologie, interazioni) con cui si è manifestato il fenomeno della dismissione, così da poter delineare un quadro di riferimento e di analisi, tale da consentire l’individuazione dei valori e degli obiettivi che nel tempo sono stati formulati per conferire alle azioni di progetto e di piano l’intera gamma di potenzialità consentite da queste trasformazioni. Dunque, se da un lato il fenomeno della dismissione non può essere trattato al di fuori delle sue cause, delle modalità in cui si è manifestato e delle differenti strategie che lo hanno ridefinito come “problema”, dall’altro si delinea una condizione reale e contingente in cui si trovano, ancora oggi, grandi aree della città e del territorio, costituendo parte di quella “categoria dell’esistente” nella quale 240

opera l’architettura e l’urbanistica coincidono. Solo attraverso un’attenta collocazione del problema nella dimensione più ampia della città e del territorio, si può individuare il quadro d’insieme e di riferimento per la formulazione di soluzioni, le quali, seppur attente alla specificità del singolo caso, per non cadere in una interpretazione “omologata” ed omologante delle differenze e delle identità specifiche, deve necessariamente confrontarsi con un’”idea di città” entro cui il loro assetto possa essere consapevolmente rideterminato.

Ci si domanda se è possibile intervenire nei “luoghi” dell’abbandono e della dismissione, per “restituire” a questi spazi “di assenza e di incompiutezza” un ruolo, un senso ed una forma compatibili con la realtà del presente, ma nella prospettiva per cui la “trasformazione” sembra delinearsi quale orizzonte operativo del futuro?

ture odierne, prodotte dalla dismissione, un valore legato, non solo, al ruolo

passato all’interno della compagine urbana, ma anche, un ruolo “strutturale” e “strutturante” all’interno del più ampio fenomeno urbanocontemporaneo. Dunque se da un lato si tratta di trovare nuovi usi a queste aree, secondo la logica della trasformazione compatibile e dello sviluppo sostenibile, dall’altro lato si delinea un problema legato alla forma fisica della città, che non può essere trattato se non ricercando i motivi e le cause che l’hanno generata.

Progetto architettonico - progetto urbano Abbiamo visto che nell’Europa contemporanea le attività industriali hanno da tempo lasciato le loro sedi antiche dando origine alla questione ormai largamente dibattuta delle “aree dismesse”. Le ragioni di questo abbandono sono legate a molti fattori, dal cambiamento del costo del lavoro a quello delle tecnologie di produzione, dai sistemi di trasporto alla necessità di una comunicazione sempre più veloce e non per ultimo alla globalizzazione dei mercati. Cambia-

Ci si chiede, inoltre, è ancora attuale l’idea che le “regole” dell’intervento in questi “luoghi” possono essere esclusivamente “desumibili” dalle procedure operative secondo un’episodica formulazione del menti che in alcuni casi hanno “caso per caso” o in relazione comportato la rilocalizzazione alla specifica capacità interpretativa, critica e prefigurativa del singolo progettista? delle attività in aree che offrivano Si cercherà, per queste ragioni, di rispon- incentivi, manodopera a basso codere a tali problematiche attraverso una sto e mezzi di trasporto più condisamina dello stato dell’arte in facenti; in molti altri hanno portato alla sintonia con un ampliamento progressi- cessazione dell’attività, con l’abbandono vo dello sguardo che attribuisce alle frat- delle aree e degli edifici.


ATTUALITA’ DEL TEMA DELLA DISMISSIONE

Gli insediamenti lasciati liberi, investendo grandi aree, sono venuti a costituire una riserva di superfici e di volumi da utilizzare per l’espansione e la trasformazione delle città. Anche il loro valore patrimoniale ha subito in alcuni casi fortissime crescite giungendo a livelli assai alti con il cambiamento delle destinazioni d’uso. In questo quadro il recupero delle

aree dismesse si allontana dalla singola aerea e diviene un problema della città che vede il suo sviluppo intrinsecamente legato alla riqualificazione di queste parti della sua periferia. Gli aspetti econo-

mici e progettuali ad esse legati diventano un nodo della pianificazione urbana. Vittorio Gregotti puntualizza il ruolo di questi nuovi spazi nell’introduzione del n. 42 di “Rassegna”: “Lungi da rappresentare la fine del piano, [le aree] sono, per esso, un nuovo stato di necessità, in grado di cogliere un ’occasione storica di trasformazione concreta che non si presenterà più pe r molt i ann i a venire, paragonabile, per alcuni aspetti, all’armatura industriale della città ”. In questa situazione i piani, anche in funzione del peso quantitativo e qualitativo delle aree industriali dismesse nei tessuti urbani, sono chiamati a trovare nuove soluzioni coinvolgendo direttamente gli operatori, ma debbono fornire indirizzi per soluzioni attente anche agli aspetti formali, oltre che economici. La maggiore sensibilità alla morfologia urbana che si è venuta formando in questi anni porta i piani ad affrontare la definizione degli interventi nella loro

complessità con attenzione al contesto, alle relazioni che nel tempo si sono venute consolidando tra le diverse parti dei territori e anche alla costituzione del tessuto sociale nato e cresciuto in funzione degli insediamenti industriali. Infatti la storia dell’edificio, della tipologia edilizia, la forma degli spazi costruiti e di quelli aperti, il recinto della fabbrica, si in trecciano con la storia del quartiere, del tessuto residenziale e della vita degli abitanti ed è compito del piano operare scelte che tengano conto di questi valori e di quei caratteri. La realtà che si presenta nelle grandi città dove si era verificata tra Otto e Novecento un’occupazione delle aree periferiche, un tempo in uso agricolo, da parte di grandi complessi industriali, localizzati dapprima in prossimità dei corsi d’acqua, poi con particolare attenzione alle ferrovie, ai porti, al sistema stradale. Col tempo le fabbriche con i loro edifici pro-

duttivi e di servizio inizialmente isolati, si sono a poco a poco incasto-

nate nella maglia urbana della città che è cresciuta loro intorno divenendo parte integrante della città stessa, anche se la grande dim ensione dei complessi, la loro chiusura in un recinto, il loro rapporto diretto con le vie di comunicazione ferroviarie e portuali hanno continuato a rappresentare fatti anomali nel disegno urbano. L’integrazione con la città è avvenuta anche attraverso la costituzione di comunità cresciute intorno alle fabbriche: la storia, le esperienze di lavoro, le lotte sindacali,

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SPAZI IN DISUSO

le sconfitte e vittorie, hanno costituito valori da non dimenticare. Appare quindi evidente che il recupero delle strutture industriali dismesse non può partire solo da un progetto sugli edifici, da un esame e dalla definizione delle attività compatibili con i fabbricati e con la loro struttura, alla ricerca di nuove destinazioni, ma deve essere collegato alle scelte pianificatrici della città: è il piano delegato a scegliere se mantenere o abbattere, se riutilizzare o sostituire. Il progetto partirà quindi dalle decisioni del piano per rapportarsi al quartiere, definirà la relazione tra le diverse parti, individuerà le strategie operative creando le sinergie necessarie. Nella città di Torino, ad esempio, la demolizione di interi distretti industriali e il mantenimento di alcuni relitti simbolici è una precisa scelta di piano non certo condivisibile. Soluzioni di conservazione con precisi obiettivi di sviluppo urbano possono essere concordate con operatori e imprenditori e, quando avvengono, possono raggiungere livelli di qualità e di efficienza che, oltre a costituire risarciture nel tessuto della città, mantengono memoria di attività e valori di architettura senza abdicare a risultati anche economicamente soddisfacenti. L’esempio della ristrutturazione della fabbrica Carpano a Torino con cambiamenti di destinazione d’uso radicale, rappresenta un risultato estremamente positivo di un lungo processo che ha visto l ’ente pubblico definire gli obiettivi e le scelte urbanistiche e concordare con l’imprenditore privato un progetto con grandi ricadute a scala urbana. 242

Solamente dopo la definizione di questi obiettivi quindi diventa possibile affrontare le scelte formali legate al progetto architettonico, studiare le tipologie strutturali dell’edificio, in¬dividuare materiali e tecniche costruttive e definire un progetto operativo capace di essere competitivo e redditizio. Da questo momento lo studio del sito e del manufatto, della sua formazione e del suo rapporto con le parti della città con cui si è sempre relazionato, l’analisi strutturale e tipologica porteranno a definire criteri e soluzioni architettoniche. E ancora si terrà conto delle relazioni tra le diverse parti dell’edificio legate dalle ragioni produttive che le hanno generate, degli spazi vuoti e del loro rapporto con l ’edificato. L’attenzione al disegno dello spazio aperto e alla sua messa in relazione con il quartiere e la città, l’apertura dei recinti, il collegamento con i servizi e con le reti urbane, la relazione tra le diverse funzioni all’interno del costruito costituiranno i temi principali del progetto. Le scelte formali, la messa in evidenza dei caratteri architettonici originali, le sostituzioni di alcune parti restano affidati alla sensibilità dei progettisti; ciò che però sembra in questa sede necessario ancora richiamare è la necessità di conservare la memoria del lavoro originario che si svolgeva nella fabbrica anche attraverso l’utilizzazione di elementi simbolici. Il progetto richiede sempre cultura e non solo tecnica e disponibilità alla sperimentazione. Osserva a proposito Franco Mancuso che il risultato fina-

le del progetto sarà tanto miglio-

re quanto più ingloberà la storia dell’edificio e in particolare sarà capace di coinvolgere nel dibattito gli abitanti, in modo da realizzare un recupero che rappresenti una memoria condivisa.

Graffiti su alcuni edifici dismessi, poblenou art district, Barcellona


ATTUALITA’ DEL TEMA DELLA DISMISSIONE

Nella pagina precedente, sopra: vista dal ponte sulla Dora Riparia dei capannoni Teksid in dismissione nell’area di Spina 3 a Torino, 2002 Al centro: veduta aerea dell’area di Campi a Genova con intervento simulato al computer Sotto: una sala espositiva del museo minerario di Lewarde. In quresta pagina: le sponde della Dora Riparia a Torino, nei pressi dell’area dismessa di Spina 3, 2005

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L’impronta industriale nella costruzione di una città

Il concetto di “impronta industriale” viene avanzato per la prima volta dalla rivista francese “Le Moniteur” nel 2002 che, a proposito della trasformazione urbana di Torino iniziata con il Piano Regolatore firmato da Gregotti e Cagnardi approvato dalla città nel 1995, ma la cui redazione durava da quasi un decennio, definisce Torino come un laboratorio esemplare di “riconversione urbana di spazi industriali”, luogo in cui ci si pone l’obiettivo di “conservare l’impronta industriale [...] attraverso la ricomposizione delle aree industriale dismesse”, operazione che viene definita dalla stessa rivista “una reale mutazione urbana. Il concetto di “impronta industriale” compare senza che venga però chiarito in che cosa consista effettivamente. E’ necessario, innanzitutto, capire se è la presenza massiccia di impianti industriali, a determinare una “impronta” all’interno della città che perm ane quando questi vengono dismessi, oppure se si tratta del rapporto che queste aree produttive hanno nel tempo instaurato con la città e quindi nelle tracce formali, so244

ciali, funzionali che, una volta dismesse, hanno lasciato dietro di sé la loro “impronta” appunto. Viene dunque avanzata l’idea che il patrimonio industriale della città non consista solo negli oggetti urbani e architettonici oggi svuotati dalle loro funzioni, ma anche, o forse soprattutto, nelle relazioni formali, sem antiche o funzionali, con il tessuto urbano che le ha contenute e che, attraverso e insieme a loro, si è sviluppato. La persistenza e la reale riconoscibilità di queste tracce è probabilmente da m ettere in relazione con le modalità di insediamento prima, e di dismissione poi, delle grandi aree produttive del cosiddetto Rapport Lacaze nel 1985, producendo l’unico studio a scala nazionale su questo fenomeno. In Italia invece, lo stesso fenomeno comincia a essere percepito solo a partire dagli anni novanta. Il già cita to PRGC di Torino del 1995 è forse il primo stru mento urbanistico che propone di affrontare organicamente a scala urbana il tema delle aree industriali urbane dismesse, cogliendon e il carattere

strategico rispetto alle future trasformazioni della città. A Torino ad esempio, le aree industriali dismesse all’interno della città rivestono una particolare importan za oltre che per la loro entità (si parla di circa cinque o sei milioni di m2 a metà degli anni novanta), anche per la loro posizione strategica. Le aree produttive interessate dalla dismissione si trovano qui prevalentemente lungo la linea ferroviaria che penetra nel cuore della città, costituendo una vera e propria frattura nel tessuto u rban o consolidato, lungo i corsi d ’acqua e nelle zone un temp o considerate periferiche rispetto al nucleo urbano, ma che costituiscono oggi la cerniera tra il nucleo antico della città e le nuove espansioni. Queste aree sono ancora elementi vitali per la città co ntem poranea, capaci di stru tturare il rinnovo del tessuto urba no, così come in passato sono state in grado di condizionarne lo sviluppo preordinando leggi formali e modalità insediative di interi b rani di costruito. Carlo Olmo arriva quindi a definirle “polmoni dell’asimmetria” dei processi urbani,


L’IMPRONTA INDUSTRIALE

Dismissione e riutilizzo delle aree industriali come “vuoto urbano”: veduta verso sud-est dell’area di Spina 3 a Torino, 2005

Analisi tipo-morfologica (alla scala urbana) e analisi percettiva (alla scala urbana dell’edificio) dell’area di Spina 3, prima della dismissione e a seguito degli interventi di trasformazione

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SPAZI IN DISUSO

Complesso industriale dismesso in fase di demolizione, ciminiera e serbatoio prima della implosione. Milano, area Bovisa, anni ottanta (Fotografia di architettura archivio Federico Brunetti)

Via Giordano Bruno, Torino 1992

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Il concetto di “impronta industriale” viene avanzato per la prima volta dalla rivista francese “Le Moniteur” nel 2002 che, a proposito della trasformazione urbana di Torino iniziata con il Piano Regolatore firmato da Gregotti e Cagnardi approvato dalla città nel 1995, ma la cui redazione durava da quasi un decennio, definisce Torino come un laboratorio esemplare di “riconversione urbana di spazi industriali”, luogo in cui ci si pone l’obiettivo di “conservare l’impronta industriale [...] attraverso la ricomposizione delle aree industriale dismesse”, operazione che viene definita dalla stessa rivista “una reale mutazione urbana. Il concetto di “impronta industriale” compare senza che venga però chiarito in che cosa consista effettivamente. E’ necessario, innanzitutto, capire se è la presenza massiccia di impianti industriali, a determinare una “impronta” all’interno della città che perm ane quando questi vengono dismessi, oppure se si tratta del rapporto che queste aree produttive hanno nel tempo instaurato con la città e quindi nelle tracce formali, sociali, funzionali che, una volta dismesse, hanno lasciato dietro di sé la loro “impronta” appunto. Viene dunque avanzata l’idea che il patrimonio industriale della città non consista solo negli oggetti urbani e architettonici oggi svuotati dalle loro funzioni, ma anche, o forse soprattutto, nelle relazioni formali, sem antiche o funzionali, con il tessuto urbano che le ha contenute e che, attraverso e insieme a loro, si è sviluppato. La persistenza e la reale riconoscibilità

di queste tracce è probabilmente da m ettere in relazione con le modalità di insediamento prima, e di dismissione poi, delle grandi aree produttive del cosiddetto Rapport Lacaze nel 1985, producendo l’unico studio a scala nazionale su questo fenomeno. In Italia invece, lo stesso fenomeno comincia a essere percepito solo a partire dagli anni novanta. Il già cita to PRGC di Torino del 1995 è forse il primo stru mento urbanistico che propone di affrontare organicamente a scala urbana il tema delle aree industriali urbane dismesse, cogliendon e il carattere strategico rispetto alle future trasformazioni della città. A Torino ad esempio, le aree industriali dismesse all’interno della città rivestono una particolare importan za oltre che per la loro entità (si parla di circa cinque o sei milioni di m2 a metà degli anni novanta), anche per la loro posizione strategica. Le aree produttive interessate dalla dismissione si trovano qui prevalentemente lungo la linea ferroviaria che penetra nel cuore della città, costituendo una vera e propria frattura nel tessuto u rban o consolidato, lungo i corsi d ’acqua e nelle zone un temp o considerate periferiche rispetto al nucleo urbano, ma che costituiscono oggi la cerniera tra il nucleo antico della città e le nuove espansioni. Queste aree sono ancora elementi vitali per la città co ntem poranea, capaci di stru tturare il rinnovo del tessuto urba no, così come in passato sono state in grado di condizionarne lo sviluppo preordinando leggi formali e modalità insediative di interi b rani di costruito. Carlo Olmo arriva quindi a definirle “polmo-


L’IMPRONTA INDUSTRIALE

ni dell’asimmetria” dei processi urbani, luoghi cioè dotati non solo di una forte capacità di trasformazione propria, ma anche di un certo potenziale di assorbimento dei mutamenti urbani circostanti, dell’“asimmetria” intesa come distanza tra i mutamenti politico-economici e le conseguenti trasformazioni fisiche della città, che caratterizza i processi urban i di trasformazione. Per sfruttare questo potenziale, Olmo suggerisce di non rifugiarsi in un atteggiamento riduzionistico, che egli definisce di stampo medioevale, che oggi tende a riempire i “vuoti” lasciati dalle attività industriali con nuove funzioni, ma di concepirli piuttosto come aree in trasformazione, senza volere a tutti i costi preordinarne un ’organizzazione spaziale conclusa.

Problemi di censimento delle aree industriali dismesse Nel confrontarsi con le politiche di gestione delle aree industriali dismesse, appare evidente l ’utilità di un censimento di tali aree proprio per poter impostare delle strategie a livello urbano, ma anche comprensoriale e poi nazionale, che non affrontino il tema della trasformazione caso per caso, localmente, ma siano in grado di generare strategie complessive. In Italia non vi è stata purtroppo una politica a livello nazionale per la gestione delle aree industriali dismesse, né per quanto riguarda il loro censimento, né per quanto riguarda le strategie di tra-

sformazione, a differenza che in Francia dove il Rapport Lacaze ha avuto almeno il merito di fornire un quadro ricompositivo degli insediamenti prod uttivi dismessi sul territorio nazionale. Rispetto alla possibilità di avviare u n’operazione di censimento che possa rendere conto dello stato e dell’evoluzione della dismissione industriale, si invoca spesso il problema di una definizione precisa del fenomeno, il problema cioè dell’individuazione del limite tra sottoutilizzo e abbandono dei luoghi, due estremi tra i quali intercorrono una molteplicità di situazioni intermedie, che permetta di classificare un sito produttivo come dismesso e, quin di, dell’in dividuazione di parametri (sospensione della fornitura elettrica, sospensione della raccolta rifiuti) che indichino con certezza lo stato delle aree industriali. La dismissione industriale è stata spesso studiata dal punto di vista dei suoi risvolti storici, economici, sociologici, ambientali e poi, con il diffondersi della sensibilità legata alla nascita del concetto di archeologia industriale, rispetto al valore artistico-architettonico dei suoi manufatti e al suo ruolo rispetto alla memoria collettiva, ma troppo spesso si è trascurato di indagarne le ripercussioni sulla forma urbana. Un approccio “progettuale” alla trasforazione delle aree industriali dismesse, un approccio che tenda cioè ad individuare dei criteri per la loro ri-progettazione formale, che non si limiti all’individuazione dei manufatti (o peggio delle porzioni di manufatti) da conservare, che si ponga il problema non solo della funzione, ma anche, e soprat-

tutto, della forma architettonica e urbana degli esiti di questa trasformazione, non può non tenere conto del ruolo strutturante che gli insediamenti pro¬duttivi hanno avuto nella generazione della forma della città.

In Europa, quindi anche in Italia, è possibile individuare una classificazione tipologica dell’evoluzione del rapporto tra gli insediamenti produttivi e il territorio urbano, evidenziando cinque fasi storiche: lo sviluppo industriale connesso all’estrazione di materie prime, l’avvento della città industriale, la formazione di una fascia industriale urbana, la zonizzazione industriale e la fase dell’espansione disordinata delle attività produttive (nel nord Italia specialmente).

Inizialmente l’avvento della città industriale porti a un’espansione della città che avviene per riempimento delle aree rimaste libere tra gli impianti produttivi intorno ai quali sorgono gli edifici residenziali per i lavoratori e i servizi a loro connessi. Ne lle fasi successive gli impianti industriali tendono poi a concentrarsi in alcune aree specifiche della città in funzione delle esigenze produ ttive prima, e dell’accessibilità poi. Tali aree si isolano progressivamente rispetto al tessuto urbano circostante configurandosi come isolati chiusi prima, poi come blocchi di isolati chiusi da muri o da steccati attraverso i quali è possibile percepire solo le emergenze architettoniche quali 247


SPAZI IN DISUSO

le ciminiere o gli edifici destinati agli uffici. Questi blocchi di isolati rimangono comunque inseriti all’interno del tessuto urbano , del quale rispettano allineamenti e struttura, talvolta addirittura introiettando al loro interno la maglia della città.

Attori

Gasometro, Torino 1996

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Le grandi operazioni di trasformazione dei siti produttivi in disuso si caratterizzano per la presenza di un numero elevato di attori coinvolti: le amministrazioni locali, i proprietari, gli investitori, gli abitanti dei quartieri circostanti, le associazioni ambientaliste e di tutela del pa¬trimonio storico e ambientale, ma anche i tecnici, i progettisti e così via. Già all’inizio degli anni novanta, nel numero monografico della rivista “Prometeo” intitolato Luoghi e spazi di lavoro 1872-1992, Francesco Perego sottolinea l’importanza di una nuova figura professionale capace di interagire con la molteplicità di attori coinvolti nei grandi processi di trasformazione urbana ed in particolare in quelle aventi per oggetto le grandi aree industriali dismesse. Questa figura che nel mondo anglosassone viene chiamata developer sarebbe infatti capace di gestire l’operazione da un punto di vista finanziario, ma possiederebbe anche capacità progettuali e quindi di coordinamento efficace dei processi di trasformazione urbana. Ad oggi tuttavia, questo tipo di figura non è prevista né nella legislazione, né nella prassi operativa della realtà italiana.

Se in Francia la figura del maìtrise d’ouvrage sembra in qualche modo tendere verso il concetto di developer in quanto creata per coordinare diverse competenze, sebbene ancora distinta da quella del promotore finanziario, in Italia questo tipo di figura stenta ad affermarsi. Sempre la molteplicità di attori coinvolti, e quindi la complessità e la tortuosità dei processi di trasformazione delle aree industriali dismesse, rende non facile una valutazione della qualità degli interventi. E largamente condivisa l’opinione che sia opportuno individuare criteri prestazionali invece che prescrittivi per valutare gli esiti delle trasformazioni in corso al fine di garantire una maggiore qualità urbana. Altrettanto condivisa è però la convinzione che definire e applicare criteri prestazionali sia ancora difficile, specie in una materia connotata da aspetti fortemente soggettivi come la qualità di luoghi, edifici, paesaggi. In ogni caso molti studiosi e osservatori, in questi ultimi anni, hanno riconosciuto l’importanza che in un giudizio sulla qualità degli interventi va attribuita alla qualità morfologica dello spazio urbano e agli effetti delle trasformazioni non soltanto sui comparti interessati, ma anche sui tessuti urbani circostanti.

Dunque le ricadute della dismissione e della riqualificazione di questi territori produttivi sono oggi ammesse e osservate e pongono alla progettazione architettonica e urbana sfide importanti per la qualità complessiva della città che sono state industriali.


L’IMPRONTA INDUSTRIALE

Fabbricati industriali dismessi in fase di demolizione. Milano, area Portello, anni novanta (Fotografia di architettura archivio Federico Brunetti)

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SPAZI IN DISUSO

“Ciò che si trasforma attira l’attenzione in modo incomparabilmente più perentorio di quanto non faccia ciò che resta immutato”, ma è anche per questo, però, che “le prospettive che si fondano principalmente sull’esperienza del mutamento storico corrono sempre il rischio di travisare la realtà, perché dimenticano la presenza nascosta di ciò che permane…ritenere, dimenticare, ricordare appartengono alla costitutiva storicità dell’uomo, e costituiscono anzi essi stessi una parte della sua storia e della sua cultura”. Gadamer

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SESC POMPEIA, SAO PAOLO, LINA BO BARDI

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Relazioni tra area dismessa e paesaggio fenomeno urbano

“Il mondo fenomenologico è costituito di cose concrete che sono tra loro interrelate in maniera complessa e spesso contraddittoria” se consideriamo il paesaggio come “riflesso della realtà fenomenica”1 esso acquisisce il ruolo di referente visivo fondamentale ai fini della costruzione territoriale, ovvero, esso si trasforma da spazio anonimo in spazio culturale carico di riferimenti, di simboli, di denominazioni, e di oggetti umani, “proponendosi come un teatro nel quale individui e società recitano e vivono le loro storie”. Il paesaggio industriale è dunque un fenomeno urbano e territoriale che costituisce un “ambiente” con dei propri caratteri specifici, manifestando non solo la presenza di elementi autonomi, di iconemi, ma, mostrando anche specifici gradi di relazionalità che sono il segno fisico di un preciso ordine d’uso e di appartenenza a quel territorio. Ma il paesaggio è anche caratterizzato dal cambiamento, dalla mutazione, dal continuo ri-territorializzarsi dei suoi spazi. Per intere regioni e per molte città l’industria ha avuto un fortissimo ruolo ter252

ritoriale si pensi, ad esempio, ai grandi insiemi industriali nel territorio regionale della Ruhr, ma anche nad elementi singolari che hanno avuto la capacità di rappresentare ed identificare con la loro presenza un intero territorio o una città, come il lingotto di Torino, i mercati generali, oggi distrutti, di Parigi, e, soprattutto, quegli elementi minori che, attraverso la loro ripetizione, hanno caratterizzato interi tessuti urbani, ad esempio i docklands londinesi. I monumenti dell’era industriale vengono considerati, non solo un’attrattiva turistica ma, per analogia con il loro passato storico produttivo, si inseriscono nel recupero globale dell’area quali punti di sviluppo strategico della regione (landmark). Non è quindi un caso che le antiche miniere diventino parchi espositivi sulla storia industriale o grandi centri di produzione energetica e tecnologica, vecchie fonderie ritrovano significato come elementi di land-art, grandi mosaici risultato di duecento anni di uso industriale, linee ferroviarie dimesse trasformate in percorsi nella natura industriale, mentre

capannoni e fabbriche ospitano nuove attività culturali, espositive, terziarie, ricreative, produttive, residenziali, ecc… Gli iconemi della fabbrica e le nuove sistemazioni paesaggistiche si fondono su di un unico piano che è contemporaneamente un’astrazione sia del riferimento “naturale” che di quello “artificiale” superando, in tal modo, la passata dialettica oppositiva tra fabbrica e natura, dunque, l’orografia del suolo naturale è costruita attraverso i materiali di scarto della vecchia industria, mentre contemporaneamente è l’industria stessa a naturalizzarsi, divenendo rovina restituita al ciclo di consunzione naturale. Dunque, al centro del processo di recupero del territorio industriale della Ruhr non c’è solo il singolo oggetto o il singolo sistema, ma si realizza una innovativa interazione tra territorio, paesaggio e architettura, proponendo come oggetto della trasformazione lo stesso “materiale-paesaggio”, quale elemento formato da una pluralità di casi e situazioni diversificate. Il tema della ri-connessione tra i diversi oggetti e sistemi,


RELAZIONI TRA AREA DISMESSA E PAESAGGIO

che concorrono alla formazione del territorio-paesaggio, diventa il “cuore” del progetto di landscape urbanism, nel quale la molteplicità, le differenze ed l’eterogeneità dei “materiali” coinvolti, vengono strategicamente reintegrati nella reidentificazione degli ampi territori degradati. Tutto, quindi, concorre alla formazione della unità-diversità del paesaggio, dal parco paesistico stesso al sistema fluviale, dall’archeologia industriale ai nuovi spazi abitativi urbani, fino ai nuovi usi ed attività che in questi luoghi si svolgono. Nelle pagine seguenti vengono riportati alcuni casi studio che vedono la riqualificazione di grandi aree industriali dismesse in Europa, dal nord fino all’Italia.

1: Schultz., Il fenomeno luogo, in “Genius Loci”, pp.8-9. Nella fotografia area ex Falck Unione, Sesto San Giovanni

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SPAZI IN DISUSO

Landschaftspark Duisburg-Nord, planimetria generale

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Landschaftspark Duisburg-Nord Bacino della Ruhr, Germania, 2000 Peter Latz

Il Landschaftspark Duisburg-Nord è uno degli interventi che rientrano nella riorganizzazione del parco del fiume Emscher,nuno dei nodi della nuova rete di percorsi attraverso la storica regione (route Industriekultur e route Industrienatur) dell’industrializzazione tedesca. Il parco acquista così una funzione non solo strutturale ma anche economica di rilancio turistico; costituendo una risorsa alimentata della messa in esposizione delle realizzazioni e resa continuamente percepibile dai grandi ladmarks che punteggiano il paesaggio. Il progetto del parco Duisburg-Nord (del paesaggista Peter Latz) è una vera e propria “ricostruzione” di paesaggio naturale nel quale le miniere e le fonderie non demolite rientrano nel progetto come tema conduttore della conservazione: le tracce storiche dell’industria, innalzate al ruolo di veri e propri monumenti della

ne naturalistica del parco. I diversi materiali dell’industria rientrano nel presente come rovine, del naturale ed incostante processo evolutivo che dalla fabbrica funzionante, attraverso la dismis-

sione, le reinserisce nell’orizzonte della naturale consunzione del tempo, fino a farli diventare il simbolo

fisico della nuova identità della regione. Le fasi stesse dell’intervento, caratterizzate dai tempi lunghi di realizzazione, sono pensate anch’esse in funzione di un approccio soft alla trasformazione e secondo la logica del nonfinito lasciando lo spazio al cambiamento naturalistico e spontaneo dell’area.

Il progetto conserva ed integra nel disegno del parco gli elementi e i pattern che erano parte della precedente zona industriale, of-

frendone un nuovo uso e una diversa

Ruhr, non vengono recuperati o interpretazione, e ricollegandoli al contetrasformati ma, lasciate allo stato sto attraverso la fitta maglia di percorsi di “residui”del passato, diventando ciclabili e sentieri. Questa interpretazioil “supporto” principale della costruzio- ne di “tipo culturale” della fabbrica come

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SPAZI IN DISUSO

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LANDSCHAFTSPARK DUISBURG-NORD

rovina, seppur in chiave di un’estetica del “pittoresco” o dell’”abbandono”, le fa rientrare come elementi simbolici (iconemi) del processo di stratificazione del tempo portato al suo estremo, dove è il paesaggio stesso, il punto di partenza emdi arrivo, in un processo circolare che conduce, attraversando i territori dimessi, intesi quali territori immaginativi, verso nuove prospettive del progetto e della conservazione. Anche la leggerezza degli interventi confermano questa logica diventando installazioni artistiche provvisorie o integrate matericamente al contesto, dove anche l’uso, prevalentemente culturale, si articola in eventi e manifestazioni temporanee. I diversi elementi che integrano il parco (la piazza metallica, simbolo del parco e della sua trasformazione, il Sinter Park, i bunker gardens e il water park) operano come sistemi indipendenti, riconnettendosi fisicamente in certi punti o solo visivamente, come frammenti all’interno del pattern naturalistico e veri e propri giardini tematici. 257


SPAZI IN DISUSO

Zeche Zollverein planimetria generale

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Zeche Zollverein XII Essen, Germania, 2005 Rem Koolhaas, Norman Foster. SANAA

La Zeche XII e la Kokerei Zollverein costituiscono uno deinmaggiori esempi della cultura industriale del ‘900, sia per l’unicità e qualità architettonica (progettata secondo i dettami del Bauhaus) sia per la grandiosità del sistema organizzativo industriale (estrazione del carbone ed acciaieria), per queste è stata definita “la cattedrale della cultura industriale” ed è stata recentemente inserita dall’Unesco tra gli edifici da salvaguardare come patrimonio culturale mondiale. Il masterplan generale, su progetto di Rem Koolhaas (2005), per le suddette ragioni, è stato orientato alla conservazione integrale sia dell’impianto urbanistico, organizzato lungo tracciati paralleli (strade, ferrovia, binari, ecc…) corrispondenti alle differenti fasi del processo di lavorazione, sia dei diversi elementi architettonici, progettati, da molti protagonisti della modernità. L’intervento è caratterizzato da differenti strategie di riutilizzo e ristrutturazione, che vanno dalla conservazione integrale, sia della loro organizzazione spaziale interna, sia degli edifici nei loro rapporti reciproci e con il contesto come monumenti materiali del lavoro che nel tempo hanno modellato quel paesaggio specifico. Alla conservazione e al restauro delle

“cattedrali” dell’industria si affianca

la sistemazione dell’ampio parco nel quale viene introdotto un sistema di percorsi nuovi affiancato a quelli del passato che, riutilizzando parzialmente le linee ferroviarie dismesse,

entra a far parte della “promenade” tematica che documenta il funzionamento della fabbrica. Gli interventri più “incisivi” sono legati al riuso integrale dei grandi corpi di fabbrica che, a differenza di altri interventi, non prevedono lo svuotamento di tutte le strutture, dunque le macchine della produzione e i segni degli usi precedenti, in alcuni casi (Design Zentrum), vengono reintegrati con elementi legati alle nuove funzioni museali, culturali, educative e produttive (artigianato e produzione artistica). Il progetto risulta così fortemente articolato nel suo programma funzionale, nell’intento di giungere a una più stretta integrazione tra modalità d’intervento sui singoli manufatti e scelta di forme di utilizzo consone alla natura degli spazi, evitando lo stravolgimento delle strutture originarie e garantendo allo stesso tempo un ampio mixité d’uso. Dunque, convivono nel grande parco teconologiconaturalistico, i monumenti industriali, i nuovi percorsi, il parco, le nuove funzioni (uf-

fici, musei, sale concerti, botteghe d’artigianato, ristoranti, produzione di energie rinnovabile, ecc.), con le nuove costruzioni legate alla cultura e all’insegnamento (scuola di Design), tutto nell’ottica di restituire alla “città

proibita dell’industria” il suo ruolo di centralità collettiva, come vero e proprio “parte di città” che riqualifica e arricchisce la periferia circostante.

Molti gli architetti chiamati ad intervenire nella riqualificazione complessiva dell’area, tra i quali in particolare: Norman Foster (1996) progetta il nuovo centro di design all’interno del volume dell’ex Kesselhaus (sala caldaie) conservando integralmente i macchinari interni ed integrandoli al nuovo percorso espositivo; il gruppo Sanaa (2006) progetta la nuova scuola di Management and Design; Rem Koolhaas (2004), oltre al masterplan, progetta il recupero dei gasometri in uffici e dell’area della cokeria come vero e proprio “villaggio creativo” adibito alla formazione ed alla produzione, sia artistica che legata alle nuove tecnologie innovative.

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SPAZI IN DISUSO

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L’ex area industriale Caen, Francia, 1997 D. Perrault

Un caso particolare è quello dell’ex area industriale di Caen riqualificata su progetto di D. Perrault (1997). La riqualificazione dell’area è stata condotta attraverso una trasformazione radicale con la demolizione totale delle vecchie strutture industriali fatta eccezione per alcune sue parti selezionate e da riutilizzare come “residui” iconici. L’obiettivo del progetto è la totale trasformazione dell’area da complesso industriale ad alto impatto paesistico e ambientale in un nuovo “pezzo” di città. Per queste ragioni vengono delineate le tre fasi fondamentali in cui si articola il processo di trasformazione: la demolizione di tutte le strutture industriali; la bonifica e ri-naturalizzazione dell’area con la definizione dell’impianto insediativo ortogonale che divide i grandi parterre; la costruzione del nuovo quartiere periferico della città. Il nuovo impianto segue logiche del tutto nuove e senza alcun riferimento né al tessuto viario né alla forma dell’impianto industriale, ma ne conserva solo le dimensioni proporzionali (lotto industriale medio) trasfigurando tale misura attraverso l’a-

strazione della griglia che individua i lotti quadrangolari in cui saranno costruiti i nuovi “pezzi” di città. La nuova città conserverà, sia dell’industria che del grande vuoto post-industriale, solo un grande parco centrale e le due principali strade di comunicazione con la città di Caen.

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SPAZI IN DISUSO

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Ilva di Bagnoli Napoli, Italia, 2006 Cellini

Sempre nell’ambito degli interventi di recupero delle aree dismesse in cui svolge un ruolo centrale il territorio-paesaggio, può essere inserito anche il caso dell’area Ilva di Bagnoli a Napoli. Nonostante la dismissione in questo contesto sia stata sostanzialmente un processo di progressiva “cancellazione” dei caratteri insediativi dell’area industriale, il recente progetto di Cellini recupera, attraverso la creazione di un grande parco urbano, parte dell’archeologia industriale come elemento di landmark e di qualificazione identitaria del luogo. Le industrie abbandonate vanno a comporre una sorta di giardino tematico all’interno del più ampio parco urbano, anche in questo caso la maggior parte

li a cui sono affiancati edifici di nuova costruzione; il sistema dei percorsi che ricollega tra loro le diverse zone dell’area (museo della scienza e della tecnica, la zona delle vasche d’acqua, la zona dei pontili); il sistema degli specchi d’acqua che si ricollega attraverso alcuni canali alle vasche di raffreddamento del complesso industriale e al nuovo porticciolo turistico nella zona dei pontili; il sistema del verde articolato secondo tre declinazioni differenti (giardino tematico, il bosco, e il verde lineare lungo i percorsi). Tutto, dunque, concorre alla formazione della unità-diversità del “nuovo” paesaggio, affidando al grande parco il ruolo di “legante” tra le diverse parti ed i diversi materiali coinvolti nel progetto.

delle strutture non viene recuperata a nuovi usi ma rimane come elemento simbolico del paesaggio industriale ed è usato come materiale della composizione. Il giardino

dell’industria è caratterizzato da quattro sistemi fondamentali: le rovine industria263


Margini, limiti, frange relazioni tra tessuti urbani dismessi

Il progetto del recupero delle aree dismesse non riguarda esclusivamente processi di trasformazione che avvengono entro i limiti interni dell’area, i processi di trasformazione di parti incluse nel sistema urbano coinvolgono anche una serie di elementi “esterni” quali ad esempio: spazi abbandonati o di risulta, margini urbani interni e interclusi tra assetti morfologicamente differenziati, presenza

di tessuti consolidati o meno, elementi orografici, stratificazioni storiche si pongono come condizioni di riferimento, ecc… Stabilire delle relazioni tra i “diversi” materiali che rientrano nel progetto, sia interni all’area che ad essa esterni, significa in molti casi stabilire le strategie relazionali che andranno a caratterizzare gli interventi in cui le condizioni di riferimento, pur soggette a meccanismi degenerativi oppure caratterizzate da livelli di

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strutturazione complessa, rientrano come “materiale operante” nel progetto. Il progetto si pone in questi casi sia come riconnessione tra le parti rideterminando, a partire da una lettura ed interpretazione delle condizioni insediative del contorno, le relazioni attraverso l’interpretazione dei margini, dei limiti spaziali e delle frange; sia come “strategia della separazione” che si orienta alla ricerca, all’interno del corpo della città, grandi vuoti, barriere ed ostacoli. Lavorare sul margine e sul limite che definisce la separazione tra differenti sistemi insediativi può seguire diverse strategie di che, sulla base dell’analisi e della classificazione dei diversi tessuti e categorie spaziali, possono trovare differenti approcci ed interpretazioni. Il margine può, dunque, essere considerato come separazione dialettica tra le differenti parti, oppure può essere ridefinito attraverso opportune riconnessioni o, ancora, può ispessirsi introducendo elementi di “ordine” superiore o essere considerato come elemento identitario nella costruzione di un impianto insediativo, sia esso

L’intervento sui margini è frequentemente applicato nel caso di sistemi interconnessi di aree dismesse incluse nei tessuti urbani periferici, questa particolare situazione morfologica è dovuta,mnella gran parte dei casi, al ruolo che le attività industriali hanno svolto come “produttrici” di urbanizzazione. industriale, residenziale o misto.

Queste industrie, infatti, insediatesi nelle aree più periferiche e contigue alle vie d’acqua e alla rete ferroviaria, hanno indotto un processo di urbanizzazione e di espansione (soprattutto alla fine del XIX sec.) che ha prodotto un tessuto abitativo disomogeneo. In molti casi

il margine può essersi costituito a partire da elementi e processi alquanto diversificati, che, solitamente, hanno prodotto tessuti edilizi fortemente diversificati ed inframmezzati da ampie aree vuo-


MARGINI, LIMITI, FRANGE

te, industrie, strutture abitative Nel caso di Milano i tessuti dell’edilizia autonome, ecc..., a titolo di esempio: diffusa, sfrangiati e non consolidati, sono

spesso inframmezzati da aree abbandonate, aree residuali agricole o veri e vuoti industriali, baricentricamente disposti lungo la direttrice stradale e ferroviaria Milano-Monza; qui l’intervento si sostanzia nell’analisi dei margini e dei differenti materiali che vi si attestano, cercando la riconnessione delle parti in un unico sistema interconnesso. Nel caso di Torino il sistema assiale, rappresentato dalla linea ferroviaria lungo la quale si concentrano numerose aree industriali dismesse è l’occasione per ridefinire e segnare il sistema di assialità urbano, come struttura morfologica portante per i nuovi interventi di recupero ed integrazione di nuovi servizi, spazi tre casi presi in esame, il sistema pubblici e verdi. interconnesso di aree industria- Il caso di Roma è caratterizzato dalla relazione sul margine che le grandi aree li nella periferia nord di Milano, dismesse intrattengono sia rispetto al sila “Spina centrale” a Torino e il stema fluviale del Tevere, sia con i tessuti quartiere Ostiense a Roma, presen- urbani densi e consolidati. tano tutti una forte relazione con tessuti morfologicamente differenziati. lungo le direttrici di uscita dalla città sulle quali si sono attestati tessuti dell’espansione recente e non pianificata; lungo le linee di frattura disegnate nella città dai grandi sistemi di trasporto ferroviario o veicolare; oppure lungo gli assi esterni destinati al decentramento delle direzionalità urbane. Il margine, il limite o la frattura sono, dunque, interpretabili come elementi identitari del paesaggio periferico, nel quale i tessuti edilizi hanno acquisito un impianto insediativo che segue una disposizione lineare, determinata dal peso preminente assunto nella struttura morfologica da segni e geometrie assiali. I

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SPAZI IN DISUSO

L’area nord di Milano

Tipologie di margine, da sopra: il margine tra aree industriali ed edilizia reticolare diffusa; margine tra edilizia reticolare diffusa e aree agricole residuali; margine tra spazi aperti naturali e struttura viaria fitta; margine tra strutture viarie fitte e ampie.

Le aree dismesse dell’area nord Milano sono caratterizzate da un sistema interconnesso di grandi comprensori industriali e reti infrastrutturali, i primi interventi di riqualificazione, a partire dalla metà degli anni 80, sono condotti con l’obiettivo di creare nuovi poli metropolitani “primari” riqualificando le industrie dismesse attraverso la stretta connessione, sia con gli snodi ferroviari nevralgici (alla scala metropolitana e regionale) sia con i tessuti edilizi diffusi e dell’intricato sistema di aree vuote o agricole residuali. La presenza di un sistema di ampi enclaves sia industriali che di aree residuali rurali, ha introdotto il tema del limite tra queste configurazioni con un certo grado di omogeneità morfologica e le configurazioni diffuse e sfrangiate dei tessuti circostanti.

il sistema dei grandi enclaves, per rafforzare i limiti dell’edificato e contenere la frammentazione edilizia, per segnare e dare forma all’interferenza tra paesaggi diversi. Le tipologie di margine sono state individuate in relazione alla natura dei “materiali” che si affacciano su di esso,

ed in particolare: come limiti (recinti) tra aree industriali ed edilizia reticolare diffusa o aree agricole, come aree d’intervallo tra edilizia reticolare diffusa e aree agricole residuali, come limiti lineari o infrastrutturali tra tessuti consolidati (struttura viaria a maglia fitta o a maglia larga) ed edilizia diffusa.

Attraverso l’inspessimento dei margini si ricrea, dunque, una omogeneità morfologica dei tessuti sfrangiati, oppure la riqualificazione di alcuni margini come aree verdi lineari stabilisce nuove relazioni tra infrastrutture ed edilizia diffusa, o tra quest’ultima ed i nuovi poli di servizi e cultura all’interno delle aree dismesse. I grandi enclaves dismessi sono, dunque,

Il limite ed il margine sono diventati i temi centrali per ristabilire le relazioni sia tra i differenti “materiali” della periferia, sia la continuità morfologica dei sinriconnessi tra loro attraverso un goli sistemi coinvolti. Attraverso il progetto lungo le aree di margine che sistema di spazi aperti e di marcollegano e dividono i diversi materiali gini lineari: i primi, come spazi agriurbani, dunque, è possibile sovrapporre ai frammenti della città esistente un sistema di spazi urbani continui in grado di assorbire la spinta delle espansioni degli insediamenti a loro contigui e di dar forma ed espressione al valore aggiunto che tali spazi generano se connessi tra loro. Il tema del limite, letto come bordo tra le diverse tipologie di tessuto, è stato utilizzato per definire morfologicamente

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coli residuali dello sviluppo edilizio ed industriale sono stati riqualificati con usi collettivi e parchi urbani(Parco nord Milano), mentre, i margini coincidenti con i confini delle grandi aree industriali (ex Falck, ex Breda, ex Marelli) e dei tessuti edilizi sfrangiati rientrano in una strategia di densificazione mediante l’edilizia residenziale. Le industrie riconvertite con funzioni di tipo superiore (Bicocca - uni-


MARGINI, LIMITI, FRANGE

versità) sono integrate con funzioni legate al tempo libero (parco nord Milano) e alla cultura (museo nelle ex aree Falk), costituendo, in tal modo, un sistema integrato funzionalmente. Dunque spazi aperti e verdi, margini ed infrastrutture fungono da elementi di relazione secondo un doppio ordine di azione, come ispessimento e rarefazione, tale da riconnettere ad una scala sistemica interconnessa, sia le aree tra loro morfologicamente omogenee (spazi verdi e grandi comprensori agricoli ed industriali), sia i diversi tessuti della edilizi della periferia milanese.

Torino il progetto della “Spina” (1996) Nel caso di Torino il progetto della “Spina” (1996) nasce dall’esigenza della riqualificazione di un’ampia parte di città attraversata dall’asta ferroviaria nord-sud in posizione baricentrica urbana, asse su cui si attestavano le principali aree dismesse dell’industria meccanica ed automobilistica della città. La riqualificazione è avviata con la riorganizzazione della linea ferroviaria, per anni vera e propria barriera all’interno della città, che viene interrata consentendo la realizzazione di un grande viale, come asse della riqualificazione delle aree dismesse suddivise in quattro principali comparti di trasformazione, a cui è stata aggiunta l’area del Lingotto-Mercati generali. Le nuove funzioni direzionali, terziarie, culturali e i servizi, localizzati all’interno delle aree di recupero hanno consentito la successiva

riqualificazione del tessuto “minore” della città di Torino, infatti, oltre agli interventi principali sono molte le aree limitrofe, i piccoli vuoti residuali urbani ad essere progressivamente riabilitati e reintegrati nel tessuto cittadino. Si definisce, lungo l’asse della riqualificazione, un “intervento a densità variabile” che si irraggia diffusivamente dalle aree centrali, dove è più trasformativo, verso le frange più esterne della città, recuperate con interventi modificatori più “leggeri”. L’impianto assiale liberato dalla vecchia ferrovia è, dunque, l’occasione per ridefinire e caratterizzare l’insediamento con un segno “forte” che assume il rilievo e l’identità di una spina urbana, nella quale si organizzano in sequenze lineari eventi urbani molteplici e differenti, determinando lungo il suo tracciato nuove gerarchie nel sistema delle relazioni spaziali. L’asse diventa l’evento di supporto ad altri eventi trasformativi in una logica in cui il sistema delle nuove relazioni è in grado di riqualificare lo spazio, di riannodare, in sequenze di ambienti, frammenti urbani, tessuti consolidato o meno, recinti, radure e tracce identitarie della città.

Il sistema dei grandi enclaves milanesi formato dalle aree agricole residuali e dai vuoti delle aree dismesse.

La riqualificazione delle aree di Roma Ostiense (2002) Anche nel secondo caso preso in esame, le aree dismesse nel quartiere di Roma Ostiense, sono caratterizzate da uno sviluppo industriale avvenuto in stretta relazione alle infrastrutture (corso navigabile del Tevere, ferrovia per Civitavecchia), infatti, alla 267


SPAZI IN DISUSO

Nelle foto accanto l’area della Spina 3 (ex Michelen, ex Vitali, ex mimino tubi) planimetria della dismissione e progetto di recupero come Parco naturalistico del fiume Dora. Nella pagina accanto le aree della ex Papareschi e della ex Italgas. Il problema della connessione tra i due ambiti e la città è stato risolto attraverso un progetto unitario che coinvolgesse sia le due aree dismesse nella loro relazione con il Tevere, sia i tessuti edilizi circostanti.

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MARGINI, LIMITI, FRANGE

fine del XIX sec., vengono insediate nell’area la centrale Termoelettrica Montemartini, i Magazzini Generali, il Mattatotio, la nuova stazione di Trastevere, lo scalo del bestiame al Testaccio, i mulini e i pastifici , le industrie ferriere, ecc… La “città industriale” romana, situata in ampio terreno pianeggiante, per la sua posizione di vicinanza al centro urbano e per l’accessibilità dovuta alle infrastrutture, una volta dismessa continuava a costituire una “centralità” strategica per il riassetto delle periferie di pria formazione della città. Anche in questo caso le strutture industriali sono in stretta relazione ai quartieri residenziali costruiti nell’anteguerrama, già nel 1946, inizia la progressiva dismissione che continuerà fino al 1980, quando, si avvieranno i primi programmi di riqualificazione inaugurati dalla localizzazione dell’Università. All’interno del grande ambito urbano di Roma-Ostiense, attraversato e diviso in due dal Tevere, sono presenti diverse realtà industriali: la ex Papareschi, l’ ex Italgas e i Mercati Generali, che in fase di progetto sono state considerate come

strutture fortemente interconnesse tra loro, sia per la relazione specifiche con il limite del Tevere, sia per l’inclusione di queste aree nel sistema urbano.

Il progetto di recupero riguarda entrambe le aree localizzate a ridosso del Tevere, la ex Papareschi e l’ ex Italgas, considerate come parti integranti di un unico sistema urbano, caratterizzato contemporaneamente dalla “separazione” e

dalla “connessione” dovuta alla presenza del fiume. Il tema del margine è dunque, affrontato secondo due prospettive, da un lato secondo la necessità di una connessione diretta tra le due aree, dall’altro attraverso il rafforzamento dei bordi sul margine del tessuto urbano, con l’obiettivo di dare riconoscibilità all’insieme e di renderlo, allo stesso tempo, fortemente interrelato con il contesto. L’obiettivo di realizzare un intervento chiaramente riconoscibile e differente dalla morfologia dell’intorno ha indirizzato la scelta verso la conservazione delle tracce che, attraverso la trasposizione in un vero e proprio confine costruito, laddove persisteva il riferimento fisico al recinto della fabbrica, segna e definisce il passaggio ad un “ordine” di scala differente. Il tema del margine ritorna nell’organizzazione del verde ma interpretato come elemento di connessione secondo due ordini organizzativi differenti, da un lato come elemento lineare lungo gli argini del fiume, dall’altro come “l gante” nella sistemazione di un due grandi parchi urbani, nei quali vengono organicamente ricomposti gli elementi di archeologia industriale e le nuove costruzioni che ospitano servizi e attività culturali alla scala urbana. Dunque, in entrambi i casi analizzati il tema del margine e del limite diventa la modalità per creare una interdipendenza e una relazione tra due “ordini” morfologici differenti: quello del tessuto urbano e quello delle aree dismesse “restituite” alla città. 269


La strada della demolizione un capitolo estremo

Un capitolo estremo nel processo di trasformazione del progetto delle aree dismesse si può identificare con la demolizione, come fase ultima di modificazione, che comporta la scomparsa fisica del manufatto architettonico. Demolire, sottrarre o ridurre sono, dunque, declinazioni del concetto di “demolizione”, che nella nostra società rimanda al processo di progressiva e continua trasformazione a cui è sottoposta la realtà fisica.

Il binomio costruzione-demolizione sono, difatti, i termini di un medesimo processo edificatorio, in quanto entrambe appartengono al ciclo di crescita e modificazione che vincola l’architettura al tempo storico.

La società del consumo ha, inoltre, accelerato il ritmo di queste trasformazioni estendendolo a tutti i prodotti umani, negando loro qualunque stabilità e finitezza. Tale condizione comporta una profonda 270

revisione del concetto di “durata”, istituendo una nuova modalità di corrispondenza, diversa dal passato, delle estensioni concettuali di conservazionememoria e demolizione- amnesia. Francoise Choay ha evidenziato come se il ricordare è un modo per evitare la “perdita di sé stessi”, la conservazione generalizzata del passato diventa una disfunzione, in quanto anche la “dimenticanza e la rimozione sono necessarie alla creazione”. In questo senso sia la demolizione/sottrazione, sia la conservazione devono contemplare una finalità di miglioramento selettivo e critico dove l’architettura, nel suo processo di ideazione, costruzione e scomparsa, dialoghi “continuamente con i propri limiti generali e specificaci, utilizzandone i confini per superarli o rispettarli, sempre guardando positivamente alla loro esistenza come punti di riferimento”. Tornando sul piano operativo la modalità della sottrazione può essere intesa sia nella sua accezione di trasformazione “in negativo”, che corrisponde ad un’opera-

zione di riduzione dell’esistente e ad una “liberazione” totale; sia in senso “parziale”, mediante la sottrazione di parti o con una loro semplificazione. La “riduzione” di un edificio, come operazione opposta al suo ampliamento, può evocare, inoltre, l’idea di un ritorno a un ipotetico “stato originario”, che comporta la riconquista di una presunta “verginità” del contesto, intendendola come una possibile strategia di tutela ambientale, volta a rimuovere le degenerazioni e l’inquinamento. Una riduzione architettonica può, dunque, produrre una pluralità d’interventi di diversa consistenza e natura, come: l’introduzione di nuovi ordini strutturali, come nel caso di assi viari tracciati a seguito della demolizione di interi settori di tessuto urbano; una “liberazione” spaziale che può consentire la conservazione delle tracce dei tessuti viari, quali “principio insediativo permanente” per la costruzione del nuovo; una demolizione che, nel caso estremo, introduce un ordine di scala differente. Ad ognuna di queste categorie e declina-


Cino Zucchi, Ex-Jughans

zioni della riduzione architettonica corrisponde una grande quantità di interventi progettuali contemporanei, solitamente realizzati nei contesti urbani delle grandi città europee. Il progetto della sottrazione può definirsi come un’operazione selettiva volta alla ridefinizione dell’esistente mediante operazioni di “composizione e ricomposizione” delle parti in un nuovo equilibrio spaziale e funzionale. Intorno al progetto di sottrazione applicato alle aree dismesse, in questi ultimi anni, si sono concentrate molte delle attenzioni disciplinari, oltre che economico ed imprenditoriali, con la prospettiva di farne i “fulcri” di nuove politiche di rigenerazione urbana. In queste aree si sono recentemente sp rimentate tecniche d’intervento “innovative” che contemplano, contemporaneamente ed in maniera integrata, la demolizione, la sostituzione e la conservazione, mediante strategie operanti desunte dalla peculiarità dei contesti in cui sono state attuate.

Ex-Junghans alla Giudecca, Venezia La riqualificazione delle ex officine Junghans sull’isola della Giudecca a Venezia, prevedeva la riconversione di alcuni edifici industriali a residenza e terziario e la costruzione di nuovi edifici residenziali a completamento di lotti liberati dalle demolizioni. Sottrazione e memoria sembrano essere i due poli all’interno dei quali si muove il progetto di Cino Zucchi, nel quale alle decise trasformazioni, si intrecciano sottili modifiche degli edifici e degli spazi aperti esistenti, ponendo il progetto come punto d’intersezione di due differenti scale dimensionali: quella del tessuto denso a nord e quella più rada dei recinti industriali che bordano la Laguna. Il progetto che tenta di ristabilire un rapporto “contemporaneo” con la tradizione e con l’unicità del paesaggio lagunare di Venezia, pone al suo centro la complessità della stratificazione storica urbana spostandola “semanticamente” nella 271


costruzione del nuovo attraverso un’analogia che “rimanda” alla permanenza piuttosto che alla sua reale conservazione fisica. Le relazioni spaziali tra i volumi, vecchi e nuovi, rimangono inalterate nelle proporzioni, pur diventando l’innesto di una nuova architettura che interpreta, in chiave moderna, i segni e le forme del passato. La demolizione del recinto della vecchia industria di orologi consente la “liberazione” della aree limite sui canali occupate in aderenza diretta dalle nuove costruzioni, mentre, la conservazione di tracce singolari, come le ciminiere, diventa l’unico richiamo diretto al passato industriale. Differente, invece, il legame con il contesto storico della città, dal quale è veicolato il tema compositivo delle ornie chiare alle finestre, usate nel progetto come elementi compositivi di un pattern moderno contrastante con la superficie muraria.

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Zuiveringspark ad Amsterdam L’intervento nello Zuiveringspark localizzato nella periferia di dAmsterdam è sostanzialmente improntato alla totale trasformazione del contesto industriale con l’obiettivo di costruire intorno alle poche permanenze conservate un intero progetto per un nuovo quartiere reside ziale che, nonostante la cancellazione dei capannoni e delle fabbriche ricalca sostanzialmente l’impianto planimetrico e distributivo della vecchia industria. Viene, dunque conservato solo il nucleo dei depuratori idrici che sono progettati con l’obiettivo di accogliere al loro interno nuove abitazioni. In particolare il vuoto programmatico dei depuratori viene trattato come elemento di relazione tra interno ed esterno, affidando all’involucro originario un ruolo di filtro che, parzialmente trasformato, ridefinisce una spazialità adatta ad accogliere la funzione residenziale. Il perimetro chiuso degli originari depuratori è stato opportunamente svuotato ed aperto, non solo per


consentire la creazione di affacci esterni per le abitazioni, ma diventando un vero e proprio elemento di “passaggio” tra le nuove residenze e lo spazio pubblico del quartiere, con la collocazione al suo interno di uno spazio verde. Attraverso la definizione di questo spazio di pertinenza delle residenze, ma contemporaneamente esterno ad esse, i progettisti hanno trattato il limite, costituito dall’involucro di cemento del depuratore, come elemento a “doppia funzione”, capace di istituire un dialogo compositivo tra l’esterno e con il nuovo “interno” abitativo.

Zuiveringspark ad Amsterdam

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