Theriaké marzo - aprile 2020

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Theriaké RIVISTA BIMESTRALE DELL’ASSOCIAZIONE GIOVANI FARMACISTI DI AGRIGENTO

Anno III n. 26 Marzo - Aprile 2020

IL DOPO COVID-19 Chi vince e chi perde di Carlo Ranaudo

ALCUNE CONSIDERAZIONI BIOETICHE SULLA PANDEMIA COVID-19 di Francisco José Ballesta, L C

LA QUERCIA MILLENARIA Un’esperienza di reale prossimità di Samuela Boni

LE LINEE CELLULARI V79 E CACO-2 Due modelli per studi in vitro di epi-mutagenesi di Fabio Caradonna

RICORDANDO LA FILOSOFIA DELL’ARTE DI CARLO CHENIS di Rodolfo Papa

SULLE ROTTE DI ULISSE L’invenzione della geografia omerica di Pinella Laudani

L’EDUCAZIONE DEI FIGLI SECONDO ALESSANDRO D’AVENIA Fabrizio Gaetano Verruso intervista Alessandro D’Avenia

BREVE STORIA DELLA DISINFEZIONE E DEI DISINFETTANTI di Giusi Sanci


Sommario

4 Editoriale

36 Cultura

6 Attualità

32 Apotheca&Storia

IL FARMACISTA SEMPRE IN CERCA DI UN RUOLO E LA REALTÀ CHE BUSSA ALLA PORTA

IL DOPO COVID-19 Chi vince e chi perde

L’EDUCAZIONE DEI FIGLI SECONDO ALESSANDRO D’AVENIA

BREVE STORIA DELLA DISINFEZIONE E DEI DISINFETTANTI

10 Bioetica

ALCUNE CONSIDERAZIONI BIOETICHE SULLA PANDEMIA COVID-19

14 Bioetica

LA QUERCIA MILLENARIA

Un’esperienza di reale prossimità

18 Appunti di Formare l’eccellenza

LE LINEE CELLULARI V79 E CACO-2 Due modelli per studi in vitro di epi-mutagenesi

24 Delle Arti RICORDANDO LA FILOSOFIA DELL’ARTE DI CARLO CHENIS

32 Cultura

SULLE ROTTE DI ULISSE L’invenzione della geografia omerica Responsabile della redazione e del progetto gra1ico: Ignazio Nocera Redazione: Valeria Ciotta, Elisa Drago, Christian Intorre, Federica Matutino, Giorgia Matutino, Carmen Naccarato, Silvia Nocera, Giusi Sanci. Contatti: theriake@email.it Theriaké via Giovanni XXIII 90/92, 92100 Agrigento (AG). In copertina: Nicolas Poussin, La Peste à Ashdod. 1631, olio su tela. Museo del Louvre, Parigi. Questo numero è stato chiuso in redazione il 25 – 4 – 2020

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Collaboratori:

Pasquale Alba, Giuseppina Amato, Carmelo Baio, Francisco J. Ballesta, Francesca Baratta, Renzo Belli, Irina Bembel, Paolo Berretta, Paolo Bongiorno, Samuela Boni, C. V. Giovanni Maria Bruno, Paola Brusa, Lorenzo Camarda, Fabio Caradonna, Matteo Collura, Alex Cremonesi, Salvatore Crisafulli, Fausto D'Alessandro, Gabriella Daporto, Gero De Marco, Irene De Pellegrini, Corrado De Vito, Roberto Di Gesù, Gaetano Di Lascio, Danila Di Majo, Claudio Distefano, Vita Di Stefano, Luca Matteo Galliano, Fonso Genchi, Carla Gentile, Laura Gerli, Mario Giuffrida, Andrew Gould, Giuliano Guzzo, Ylenia Ingrasciotta, Maria Beatrice Iozzino, Valentina Isgrò, Pinella Laudani, Anastasia Valentina Liga, Ciro Lomonte, Roberta Lupoli, Irene Luzio, Erika Mallarini, Diego Mammo Zagarella, Giuseppe Mannino, Massimo Martino, Giovanni Noto, Roberta Pacicici, Roberta Palumbo, Rodolfo Papa, Marco Parente, Simona Pichini, Irene Pignata, Annalisa Pitino, Valentina Pitruzzella, Renzo Puccetti, Carlo Ranaudo, Lorenzo Ravetto Enri, Salvatore Sciacca, Luigi Sciangula, Alfredo Silvano, Gianluca Tricirò, Emidia Vagnoni, Elena Vecchioni, Fabio Venturella, Margherita Venturi, Fabrizio G. Verruso, Aldo Rocco Vitale, Diego Vitello.

In questo numero: Francisco José Ballesta, LC, Samuela Boni, Fabio Caradonna, Pinella Laudani, Ignazio Nocera, Rodolfo Papa, Carlo Ranaudo, Giusi Sanci, Fabrizio Gaetano Verruso.

Anno III n. 26 – Marzo – Aprile 2020



Editoriale

IL FARMACISTA SEMPRE IN CERCA DI UN RUOLO, E LA REALTÀ CHE BUSSA ALLA PORTA i. n.

Figura 1. Spezieria di Santa Maria della Scala, Roma. Foto dal web.

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el corso dell’esperienza di responsabile dilettante di questa rivista, tante volte ho ceduto alla tentazione di fare ricorso a titoli come “il ruolo del farmacista in questo…” o “il ruolo del farmacista in quest’altro…”. Titoli che già da qualche tempo mi venivano a noia, ma che ⎼⎼ proprio a causa del mio dilettantismo ⎼⎼ non sono stato capace di evitare. E ancora, a quanti di noi, negli ultimi dieci o quindici anni, non è capitato di partecipare a convegni o corsi

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ECM che avevano per titolo “il ruolo del farmacista nella regolazione del transito intestinale”, “il ruolo del farmacista nella corretta asciugatura di piatti e stoviglie”, “il ruolo del farmacista nel pagamento delle bollette del gas”, o “il ruolo del farmacista nella contraccezione d’emergenza”? PerFino nella contraccezione d’emergenza il farmacista può vantare un ruolo. Un ruolo da guardiano (o guardone?) del tranquillo esito di un rapporto fugace, o di un amore clandestino.

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Editoriale Si potrebbe riassumere l’ultimo ventennio di storia della nostra professione con il titolo “il farmacista sempre in cerca di un ruolo”. Scrisse Seneca, nelle lettere a Lucilio, che «nessun vento è favorevole al navigante che non sappia in quale porto vuole approdare». La terribile realtà quotidiana che questa pandemia ci porta a vivere ⎼⎼ a mio parere ⎼⎼ ha riposto in un angolo lontano dalla nostra vista tanti discorsi ⎼⎼ pur legittimi ⎼⎼ sul marketing, sul category management e su quant’altro si debba esprimere con anglicismi obbligatorî, che personalmente non ho mai amato. La cruda realtà di oggi ci ripropone qual è davvero il nostro ruolo. Quello che, in fondo, abbiamo sempre avuto. Il ruolo di chi svolge un servizio essenziale nel territorio, attraverso la dispensazione e la preparazione di medicinali. E aggiungerei, di tutti i medicinali, di cui i pazienti, che possono essere curati a domicilio, hanno bisogno. Infatti, tra le criticità, emerse in questa fase di emergenza sanitaria, vi sono state la distribuzione per conto e la distribuzione diretta dei medicinali. Queste forme di dispensazione ⎼⎼ come è noto ⎼⎼ hanno richiesto in tutte le regioni diversi interventi e aggiustamenti da parte del legislatore, per cercare di attenuare i disagî e i disservizî conseguenti alle restrizioni a cui tutti siamo ancora assoggettati. Le farmacie territoriali dovrebbero essere ordinariamente fornite di tutti i medicinali e i presidî che occorrono ai pazienti non ricoverati. Considerando questo aspetto principale, si dovrebbe ricostruire il sistema farmaceutico italiano; riducendo la burocrazia, e offrendo ai pazienti ciò che è davvero importante, attraverso l’unico canale di distribuzione possibile che è la farmacia territoriale. Il sistema ordinario in vigore prima della pandemia ⎼⎼ sia detto fuori dai denti, o meglio, fuori dalla mascherina ⎼⎼ prevedeva che il cittadino potesse trovare in farmacia un vastissimo assortimento di prodotti talvolta pressoché inutili. Ma se era diabetico, per esempio, e aveva bisogno di un ipoglicemizzante di ultima generazione, allora doveva recarsi dallo specialista, per ricevere un piano terapeutico; poi doveva recarsi dal medico di famiglia, perché questi allegasse al piano terapeutico la ricetta medica; quindi andava in farmacia a prenotare il medicinale; inFine ritornava in farmacia a ritirarlo, se tutto era andato bene. Sì, perché, se lo specialista non aveva usato la penna rossa o blu per Firmare il piano terapeutico, il paziente doveva ritornare dallo specialista, fare Firmare il piano terapeutico usando una penna di colore diverso dal nero, e poi andare nuovamente in farmacia.

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Figura 2. Vorstermans Flemish, Lucius Annaeus Seneca. Scottish National Portrait Gallery, Edimburgo.

Quando sarà passata l’emergenza, si potrà riproporre identico questo meccanismo, senza provare neppure un po’ di vergogna? Torneremo ad ascoltare esperti pronti a tirare fuori improbabili metafore darwiniane sulla necessità di adattarsi al cambiamento? O Finalmente cercheremo di determinare noi il cambiamento, con lo sguardo Fisso agli aspetti essenziali della professione? Riappropriamoci di ciò che ci appartiene e che dà senso al nostro lavoro. E intanto ricordiamo i colleghi che sono morti.

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Attualità

IL DOPO COVID-19 Chi vince e chi perde Carlo Ranaudo*

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erto non è questo il momento delle polemiche o delle recriminazioni. Non siamo ancora usciti dall’emergenza e abbassare la guardia sarebbe un grande errore. Ma forse è il momento per ri;lettere, prima che l’oblio della spasmodica ricerca di una pseudo normalità renda vano e inutile l’immane sacri;icio provocato da questa minuscola e invisibile particella chiamata virus (veleno). E allora troviamo il tempo oggi di iniziare una ri;lessione che ci possa aiutare a ragionare su chi in questa “guerra” può essere considerato un vincitore, e chi invece ne è uscito scon;itto. In genere si parte da chi vince, invece vorrei partire dalla parte opposta, da CHI PERDE. PERDE IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE, un tempo ;iore all’occhiello della nostra bella Italia. Una Sanità che da oltre un decennio è considerata non più un bene ma un costo da razionalizzare. Già, razionalizzare, una bella parola dietro cui si cela solo una cosa: IL TAGLIO delle risorse. Chiunque è entrato in questi anni nella stanza dei bottoni ha ponti;icato sugli sprechi, sui tagli, sul recupero di denaro. Grandi economisti, grandi manager che forse in un ospedale non sono mai entrati e che la sanità la hanno conosciuta solo sui libri contabili. Migliaia e migliaia di medici, infermieri, personale sanitario in meno, evidentemente inutili se la parola d’ordine è stata il r i s p a r m i o , i l b l o c c o d e l l e a s s u n z i o n i , gl i accorpamenti, con la conseguente chiusura di tanti ospedali e riduzione dei posti letto. Risultato: Una medicina territoriale che non ha retto ⎼⎼ forse non pronta e non attrezzata ⎼⎼ che ha convogliato tutti verso gli ospedali diventati luoghi di morte e non di cura. PERDONO I MODELLI REGIONALI, anche quelli sbandierati in nome dell’ef;icientismo che si sciolgono come neve al sole di un marzo tiepido di primavera: dall’ef;icienza competitiva del Lombardo Veneto, al modello più centralistico dell’Emilia, ;ino ai sistemi più poveri del Sud, in cui qualcuno senza trionfalismi ha avuto forse il buon senso di

ammettere che il ritardo di qualche settimana ha permesso di prepararsi ed evitare una possibile immane catastrofe. PERDONO I GURU DELL’INFORMAZIONE dietro una confusa approssimativa girandola di notizie, a volte senza nessun coordinamento. 180.000 casi, no, forse 2 milioni, o forse, come qualcuno ha ammesso, numeri ancora diversi, addirittura 6 milioni. Ed inoltre il virus è arrivato in Italia il 21 febbraio con il Paziente zero. O forse no! Il Covid-19 era in Italia già a gennaio, o addirittura a dicembre! E allora l’incidenza dei decessi qual è? 25.000 su duecentomila casi: addirittura il 12% oppure 25.000 su 2 milioni e … allora poco più dell’1%. Questo non è dato sapere dai quotidiani bollettini di guerra delle ore 18. Tanti casi in più o in meno in un giorno. Certo a parità di numero di tamponi effettuati avremmo potuto parlare di un trend, ma se il numero di tamponi cambia forse cambiano anche i risultati da

*Docente di Farmacoeconomia, Dipartimento di Farmacia - Università di Salerno

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Attualità

un giorno all’altro, da una regione all’altra. E allora alcuni numeri che senso hanno? Sarebbe stato più logico analizzare i ricoveri nelle unità intensive e i decessi. E inoltre. Tragiche passerelle televisive di grandi esperti assurti all’improvviso agli onori della cronaca, capaci di parlare ognuno una lingua diversa. P E R D E L A S C I E N Z A impegnata soprattutto a Figura 1. Medici e infermieri al lavoro senza sosta nel reparto di terapia intensiva passato da 5 a 17 letti per curare i pazienti COVID-19 all’ospedale di Vizzolo Predabissi - Ansa / Andrea Canali. Fonte Il dimostrare il successo o il Sole 24 ore. primato del singolo, a volte ef;imero, anziché cercare quella condivisione, quel lavoro di squadra, che se sfruttato per tempo VINCONO TUTTI QUEI MEDICI che già non fanno avrebbe permesso di raggiungere protocolli ef;icaci, più rumore, ma che hanno pagato il prezzo più alto a quando ancora si brancolava nel buio più totale. questa tragedia. Vincono perché hanno creduto ed onorato ;ino all’ultimo il loro giuramento «di PERDE LA POLITICA che ancora una volta dimostra perseguire la difesa della vita, la tutela della salute l’incapacità di lasciarsi indietro beghe e interessi di ;isica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo bottega per avviare un percorso di vera gestione dalla sofferenza […], di curare ogni paziente con dell’emergenza, in cui la collaborazione e la scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, condivisione, nel giusto rispetto dei ruoli, avrebbe promuovendo l'eliminazione di ogni forma di forse dato a noi e al mondo intero che ci osservava diseguaglianza nella tutela della salute». l’immagine del paese con la P maiuscola. Medici Andati e non Mandati al fronte, con l’unico MA PERDONO SOPRATTUTTO LE MIGLIAIA DI obiettivo di voler essere soltanto Medici. Senza PERSONE andate via nella più grande “solitudine di pubblicità e senza passerelle, senza luci della ribalta, essere considerati solo un numero”, o una bara in un chiedevano soltanto uno scudo per proteggersi e camion militare, in una tragica statistica cui poco importa se quel numero corrisponde ad una storia, a d u n n o m e , a d u n a famiglia. PERDONO TUTTI GLI ANZIANI, tutti quei nonni rinchiusi nelle ormai note RSA, residenze, pensate per far trascorrere una serena vecchiaia, che si trasformano in maledetti lager, ponti verso una tragica camera a VIRUS. E c’è allora CHI VINCE ? Sì, assolutamente sì.

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Figura 2. Seriate (BG), Chiesa di San Giuseppe. Personale sanitario dell'Esercito sani;ica le bare di alcune delle vittime di COVID-19, trasportate da cinque camion (Carlo Cozzoli/Fotogramma, Seriate - 2020-03-28).

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Attualità

Figura 3. Piazza San Pietro, 27 marzo 2020. Il Santo Padre Francesco imparte la benedizione urbi et orbi.

proteggere. Uno scudo che tante volte non è mai arrivato, o che si è trasformato in un’arma di offesa verso sé stessi e verso i malati. Uno scudo banale detto in gergo “mascherina”, dal prezzo così basso che nessuno più voleva produrlo. Un dispositivo di protezione strategico ma che non “rende” e dunque non serve. Li chiameremo eroi per alcuni giorni: onoriamo il loro sacri;icio cercando di non vani;icarlo quando ricominceremo a parlare di riorganizzare una sanità fatta di valori e non di tagli. Almeno non saranno morti invano. VINCONO LE DECINE DI INFERMIERI MORTI, che con turni massacranti e con protezioni scarse, nonostante retribuzioni a volte a limite della sopravvivenza e contratti precari a 6 mesi, sono comunque rimasti a lavorare, rappresentando l’unico e l’ultimo contatto e conforto per chi stava chiudendo gli occhi andandosene via per l’ultimo viaggio. Non dimentichiamoci di loro e del loro sacri;icio quando tra qualche mese dovremmo trovare i soldi in modo da non dover dire a tanti di loro «grazie, ma ora non ci servite più!».

la quotidianità di una intera nazione, permettendo il rispetto delle regole e dei vincoli. Di loro già oggi non si ricorda nessuno, ma esistono e continueranno ad esistere nell’ombra. VINCE QUELL’ITALIA DELLA SOLIDARIETÀ che senza se e senza ma è riuscita a creare “ponti” per chi versa nel bisogno, anche dello stretto necessario senza innalzare il muro dell’egoismo, avallato e g i u s t i ; i c a to d a l r i s p e t to d e l l e re g o l e d e l distanziamento e dell’isolamento. E VINCERANNO FORSE tutti quelli che pensano che il mondo non tornerà come prima. Quelli che credono in questa grande occasione per cambiare il modo di vivere. La grande occasione per uno sviluppo che non sia solo competizione, ma che superi l’interesse dei forti verso i deboli, che rispetti la natura quale bene più grande. Quelli che pensano che la solidarietà sia forza e non debolezza, che la salute sia un bene e non un costo, che il NOI venga prima dell’IO. Forse questo è solo un sogno? Ma

VINCONO I FARMACISTI, che pure hanno pagato il loro alto tributo di vittime. Soprattutto quei farmacisti dei paesi, unico vero punto di riferimento per tanta gente, soprattutto per gli anziani, che non riescono ad avere altro contatto per un consiglio sanitario, ma anche per un conforto morale.

«solo sognando restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori e sarà migliore il mondo» (Luis Sepùlveda, vittima del COVID-19).

VINCONO TUTTE QUELLE PERSONE SENZA NOME E SENZA STORIA, che hanno continuato a garantire

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Bioetica

ALCUNE CONSIDERAZIONI BIOETICHE SULLA PANDEMIA COVID-19 Francisco José Ballesta, LC* «Ethical problems in infectious disease should be analysed and clinical practices, research agendas, and public policies developed, that always take into account the possibility that a person with communicable infectious disease is both victim and vector». (Battin et al. 2009, 109)

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essuno avrebbe immaginato lo scorso luglio, quando nella nostra facoltà si è svolto il 18º Corso Estivo di Bioetica intitolato: “Bioetica, Salute Pubblica, e Minacce Infettive alla Salute Globale” (Ateneo PontiGicio Regina Apostolorum, Facoltà di Bioetica, 8-12 luglio 2019), che, dopo pochi mesi, avremmo avuto tra di noi questa pandemia Covid-19. In un primo momento, durante il corso, abbiamo fatto un’analisi veloce delle principali minacce infettive alla salute globale, per guardare poi tutte le Gigure coinvolte (malati, sani, guariti, portatori, personale sanitario, popolazione in generale e istituzioni a diverso livello), evidenziando le loro responsabilità. Il Gilm Contagion (Steven Soderbergh, 2011), scelto per alcune attività del corso, ci metteva, in anticipo, nello scenario di una pandemia. Nella preparazione del corso, avevo trovato nel volume The Patient as Victim and Vector: Ethics and infectious disease un approccio interessante alle malattie infettive, evidenziando che questa realtà è una di quelle che aiuta a mettere a posto le idee. In questo caso a ripensare il paradigma dominante nella bioetica (la corrente principialista di Beauchamp e Childress), e a girare verso un modello nettamente personalista che si aggiusta meglio ai problemi della bioetica. La bioetica principialista Gissa l’attenzione sull’individuo (malato come vittima). La salute pubblica mette l’accento sugli aspetti sociali (malato come vettore, potenziale trasmettitore della malattia). Nelle parole degli autori: «To put the contrast in a nutshell, bioethics has been primarily interested in the patient as victim, public health in the patient as vector» [1]. «The picture remains one of the

need to mediate the tensions bet ween the individualism of bioethics and its privileging of autonomy on the one hand and the concern of public health for the good of all on the other» [2]. «Both @ields require rethinking of basic theoretical notions — autonomy, the individual patient, the harm principle, the public — in light of the idea that human beings are all, always, in some sense both victims and vectors at one and the same time» [3]. Percepiamo come gli autori, quando parlano di bioetica, si riferiscano alla corrente principialista. Noi aggiungiamo che la bioetica personalista sarebbe il paradigma che permetterebbe di armonizzare questi due aspetti, p e r c h é n e l l a s u a v i s i o n e s o n o p r e s e i n considerazione, in modo armonico, due versanti della persona: la sua soggettività e la sua natura

*Facoltà di Bioetica, Ateneo Ponti8icio Regina Apostolorum, Roma

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Bioetica

Figura 1. Nicolas Poussin, La Peste à Ashdod. 1631, olio su tela. Museo del Louvre, Parigi.

sociale. L’armonizzazione dei due versanti è fondamentale per evitare i tipici conGlitti tra diritti (quelli individuali e quelli della collettività). Bayer ci dice: «It is a remarkable, and I think lamentable fact, that in recent years the still-nascent discussion of public health in general and of epidemic disease more speci@ically, has all but been supplanted by the language of human rights. Human rights efforts can and have had important, morally signi@icant outcomes, especially in the face of outrageous assault on human dignity. But too frequently the terms of human rights have been too blunt an instrument for engaging the extraordinarily dif@icult challenges of infectious disease» [4]. In realtà, Battin et al. propongono, come alternativa alla bioetica principialista, la loro visione vittima-vettore. Nel libro gli autori confrontano direttamente il loro paradigma con quello principialista [5], e va evidenziato che la loro visione corrisponde, senza volerlo, ad una bioetica personalista e non principialista. In quest’ottica, viene proposto dagli autori di mettere insieme tutti i valori in gioco (individual liberty,

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protection of public from harm, proportionality, privacy, duty to provide care, reciprocity, equityinclusiveness, trust-openness-transparency, solidarity, stewardship, subsidiarity, the precautionary principle, reasonableness, responsiveness, harm minimization, respect, fairness, neighbourliness …) in modo armonico davanti al bisogno di reagire nei confronti delle pandemie [6]. Nella cornice di riferimento stabilita (vittimavettore), prendendo in considerazione tutte le misure possibili indirizzate alla prevenzione e al controllo della dispersione della malattia, va fatta, in primo luogo, una classiGica in quattro categorie, che dipendono dall’ambito nel quale si dà il conGlitto di valore più signiGicativo. In secondo luogo, vanno i d e n t i G i c a t i a l c u n i c r i te r i d a p re n d e re i n considerazione per considerare giustiGicate tali misure. Le quattro categorie di misure sarebbero: Violations of Bodily Integrity and Physical Security (da un semplice test diagnostico Gino alla vaccinazione obbligatoria). Violations of Liberty and Consent

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Bioetica

Figura 2. Due scene del Gilm Contagion di Steven Soderbergh, 2011. A sinistra Kate Winslet, a destra Matt Damon.

(isolamento, quarantena obbligatoria, controllo degli spostamenti …). Violations of Privacy and Con@identiality (identiGicazione dei vettori, identiGicazione dei loro contatti …). Violations of Justice, derivate fondamentalmente da misure non b e n c a l c o l a te o p p u re s e m p l i c e m e n te n o n giustiGicabili (non considerare dovutamente i gruppi vulnerabili, limitare l’acceso alle misure di cura/ prevenzione per qualche gruppo …) [7]. I criteri da prendere in considerazione per gestire le misure sono divisi in due gruppi. Nelle parole degli autori: «Whatever the scope of constraints, speci@ic basic procedural and substantive principles must be observed whenever and to whatever extent constraints are imposed, regardless of whether the measures are precautionary, preventative ones, or the emergency measures to stop the spread of pandemic disease that we will consider here» [8]. Parlano di tenere conto da una parte dei principi fondamentali e dall’altra dei criteri procedurali. I principi fondamentali sarebbero le cose più importanti. Gli autori indicano questi: 1) Personal security (le persone identiGicate per gli altri come portatori sono frequentemente vittime di atteggiamenti ostili nei loro confronti), 2) Basic survival and health needs, including prevention and treatment (non si possono trascurare i bisogni basilari delle persone sottoposte alla misura in questione), 3) Communication (tante misure implicano forme di isolamento e si dovrebbero garantire le vie di comunicazione), 4) Equitable

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allocation of burdens (le misure frequentemente toccano alcuni gruppi e non altri, e hanno ricadute più pesanti su gruppi già svantaggiati; si dovrebbe mettere attenzione perché queste diseguaglianze non eccedano quello che è strettamente necessario) e 5) Compensation for loss (alcune misure causano danni economici che dovrebbero essere compensati in qualche modo) [9]. I criteri procedurali sarebbero questi: 1) Important interest (le misure da prendere dovrebbero poggiare su evidenza scientiGica), 2) Least restrictive alternative (tra le possibili misure per raggiungere l’obiettivo, prendere quelle che impongono le minori cariche), 3) Transparency and disclosure (parlare a tutti come vittime-vettori, spiegando i motivi per p re n d e re / r i t i ra re q u a l s i a s i m i s u ra ) e 4 ) Reconsideration (le misure in atto devono essere valutate continuamente) [10]. Leggendo questo elenco ci rendiamo conto che si tratta fondamentalmente di quello che sta accadendo, con maggiore o minore esattezza, in questa pandemia Covid-19, in tutto il mondo. I problemi girano fondamentalmente attorno alla scelta delle misure più appropriate in ciascun momento. Qui abbiamo visto di tutto, e da queste esperienze dobbiamo imparare per il futuro. Purtroppo vi sono state anche, in tanti luoghi, discriminazioni che violano la giustizia. Pensiamo al fenomeno diffuso e silenziato dell’abbandono, esclusione, discriminazione degli anziani, che dovrebbero essere il primo gruppo da prendere in

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Bioetica considerazione per la sua vulnerabilità. Questo è frutto della diffusa mentalità utilitarista che opera nella società e che permea tante linee guida di attenzione sanitaria. Per Ginire queste riGlessioni, voglio presentare i comunicati offerti dalla nostra facoltà in riferimento a questa pandemia. 6 Marzo. «In vista dell’emergenza COVID-19 che vive l’Italia in questi giorni, crediamo sia utile ricordare i principali doveri morali che corrispondono alle persone, individualmente considerate, e alla popolazione in generale. Principi etici di riferimento: Cura della propria vita e salute. Evitare di fare del male agli altri. I doveri della persona sana: Prevenzione. I doveri della persona malata: Curare la propria salute. Evitare il contagio degli altri. I doveri della persona guarita: Collaborazione nella cura degli altri. I doveri della popolazione in generale: Vigilanza. Evitare il panico. Fidarsi dell’autorità ed eseguire le misure stabilite» [11]. 24 Marzo. «In continuazione con la prima comunicazione (primi giorni di marzo) che faceva riferimento ai principali doveri morali che corrispondono alle persone, individualmente considerate, e alla popolazione in generale, e considerando i dilemmi etici che possono viversi nelle unità di cure intensive (UCI), dovuti al Glusso di pazienti in situazioni estreme, crediamo opportuno ricordare i criteri etici che devono regolare l’acceso dei pazienti alle risorse sanitarie disponibili (microallocazione a livello inferiore). In questo senso si evidenziano due momenti che implicano diversi criteri. Momento di valutazione dell’accettabilità terapeutica (criteri d’inclusione). In questo momento si fa la valutazione rischi/beneGici, per il singolo paziente, della misura da implementare. Essendo il beneGicio terapeutico per il paziente superiore ai rischi, questo deve essere accettato alla terapia, incluso nella procedura che corrisponda. È importante considerare che questa valutazione si faccia attendendo esclusivamente al beneGicio terapeutico per il paziente. Momento di selezione Ginale. Quando ci sono abbastanza risorse disponibili, non compaiono altri problemi e tutti i pazienti possono usufruire delle misure terapeutiche idonee per loro. Sorgono invece dei problemi quando le risorse sono scarse o non sono abbastanza per tutti i casi che potrebbero trarne beneGicio. In queste situazioni bisogna evitare qualsiasi tipo di discriminazione in base ai criteri di prognosi, età … Il criterio di selezione Ginale è la

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Figura 3. Battin MP., Francis LP., Jacobson JA., Smith CB., The Patient as Victim and Vector: Ethics and infectious disease. 1 Ed. New York: Oxford University Press, 2009.

gravità del bisogno, l’urgenza, e, a parità d’urgenza, l’ordine di arrivo» [12].

Bibliografia e sitografia 1.

Battin MP., Francis LP., Jacobson JA., Smith CB., The Patient as Victim and Vector: Ethics and infectious disease. 1 Ed. New York: Oxford University Press, 2009, p. 63. 2. Ivi pp. 68-69. 3. Ivi p. 74. 4. Bayer R., Margaret P. Battin, Leslie P. Francis, J.A. Jacobson and Charles B. Smith. 2009. The patient as victim and vector: Ethics and infectious disease. In: Bioethical Inquiry 6 (2), pp. 249–250. DOI: 10.1007/s11673-009-9146-5, 2009, p. 250. 5. Cfr. Battin MP., et. al., opera citata pp. 464-465. 6. Cfr ivi pp. 313-314. 7. Ivi pp. 306-312. 8. Ivi p. 315. 9. Ivi p. 322-326. 10. Ivi p. 315-320. 11. https://www.upra.org/news/bioetica-salute-pubblica-eminacce-infettive-alla-salute-globale-covid-19/ 12. https://www.upra.org/news/emergenza-covid-19-e-icriteri-etici/

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Bioetica

LA QUERCIA MILLENARIA [1] Un’esperienza di reale prossimità Samuela Boni*

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ignora, se lo desidera può avvalersi della legge 194!». Sono queste le parole che una donna, nella maggior parte dei casi, si sente rivolgere pochi minuti dopo aver ricevuto una diagnosi patologica per il bimbo che porta in grembo. Contrastanti opinioni oggigiorno ruotano attorno al valore attribuito al concepito, ma è la realtà del vissuto domestico, che non si cura degli orientamenti ideologici e dei tecnicismi utilitaristici, a trasmettere una verità incontrovertibile che precede la stessa consapevolezza dello stato gravidico: qualunque sia l’appellativo utilizzato, “embrione”, “feto” o “bambino”, si è sempre alla presenza di un Iiglio. L’affermazione «Sono incinta!» è l’espressione di un modo d’essere che signiIica fare spazio ad un altro che già si fa presente. «Aspetto un bambino!» diventa, così, la narrazione di quello stesso stato che identiIica l’inizio di una relazione con una personalità che già è e che chiede di essere riconosciuta ed accolta. È l’inizio di una nuova biograIia che arricchisce e qualiIica il vissuto di coloro che vi hanno dato origine: una donna ed un uomo diventano una madre ed un padre. Differenti possono essere i contesti generativi e le reazioni che vi susseguono, ma vi è un unico comune denominatore che accomuna i genitori che si recano negli ambulatori della diagnosi prenatale: il riconoscimento di quel Iiglio e la volontà di fargli spazio. La realtà del Iiglio e la relazione con esso instaurata sono dati imprescindibili che non possono essere accantonati, nemmeno durante lo svolgimento degli e s a m i d i a g n o s t i c i . E s s i , i n fa t t i , n o n s o l o rappresentano l’oggetto dell’indagine, ma sono il principio che dà origine allo stato gravidico, uno stato Iisiologico della vita biologica della donna, scandito da un tempo e con una Iinalità ben precisa. Tuttavia, i mutamenti culturali e i progressi tecnicoscientiIici degli ultimi decenni hanno contribuito a rideIinire l’approccio alla gravidanza che, sempre più medicalizzata, Iinisce per essere trattata come uno stato di malattia della donna, il cui agente patogeno è rappresentato dal Iiglio stesso.

Questo sguardo, sempre più radicato nel sentire comune, subordina il riconoscimento e l’accettazione del Iiglio agli esiti degli esami diagnostici. Il tempo della piena accoglienza viene, così, sospeso nell’attesa di un responso che funge da arbitraria autorizzazione ad appropriarsi di quel legittimo ruolo genitoriale, una prassi, che diviene cultura, e che condiziona non solo il sentire dei genitori ma anche l’agire del personale sanitario. Alla presenza di una diagnosi di patologia, come se si azionasse un automatismo protettivo, si procede con la trasmissione di informazioni, tra cui spicca la possibilità di avvalersi della legge 194/78, c o m u n i c a z i o n e d o v e r o s a d a a d e m p i e r e puntualmente quale ossequioso rispetto di un legalismo formale che, svuotato del suo senso

*Docente di scuola secondaria di secondo grado, laureanda in Bioetica presso l’Ateneo Ponti9icio Regina Apostolorum - Roma, referente per Mantova de La Quercia millenaria - Onlus

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Bioetica

normativo, soggiace sotto la s c u r e d i u n i d e o l o g i c o p r i n c i p i o d i autodeterminazione. Non considerare l’intima relazione che lega madre, p a d re e I i g l i o e i l l o ro personale vissuto, riduce l’esperienza della diagnosi p r e n a t a l e a m e r a rendicontazione di uno stato oggettivo di sviluppo biologico c h e i d e n t i I i c a i l n u o v o i n d i v i d u o s u l l a b a s e d i s t a n d a r d q u a n t i t a t i v i , attribuendo aprioristicamente una valutazione qualitativa Figura 1. La Quercia Millenaria - Onlus, riconosciuta come primo Perinatal Hospice d’Italia della sua vita futura. Alla m a d re e a l p a d re v i e n e stato per la famiglia Paluzzi e per tutte le famiglie comunicata una diagnosi e a nulla serve l’utilizzo di dell’associazione La Quercia Millenaria – Onlus che una fraseologia che alterni a incomprensibili termini hanno saputo trarre dalle loro gravidanze, segnate da m e d i c i l o c u z i o n i p i ù c o m u n i . I n a s s e n z a una diagnosi di patologia, quella spinta propulsiva dell’espressione «Va tutto bene!», nella mente di quei necessaria non solo a rileggere il proprio vissuto, ma genitori l’immagine del Iiglio ideale si scontra con la anche determinate nello scegliere di afIiancare realtà del Iiglio reale e in quello stesso istante tutto medici e genitori, con la Iinalità di mostrare loro ciò che prima aveva un ordine e un senso viene l’esistenza di un percorso alternativo all’aborto, spazzato via, lasciando dietro di sé solo un insieme di caratterizzato da una reale prossimità che è piccoli pezzi, una frammentazione del presente che accoglienza delle reciproche fragilità attraverso la impedisce la piena comprensione della realtà. È in conoscenza delle rispettive personalità e nel rispetto questo momento di smarrimento, quasi nel tempo di delle singole libertà. un battito d’ali e nel pieno di un vortice di In sedici anni di attività La Quercia Millenaria è stata informazioni, che a questi genitori viene avanzata la la prima realtà italiana (riconosciuta anche all’estero proposta di interrompere la gravidanza, quasi che come primo Perinatal Hospice) a proporre un fosse l’unica via percorribile, una via data accompagnamento integrale delle gravidanze con burocraticamente per scontata. patologia. Dalla diagnosi all’epilogo naturale, Ne risulta uno stato di completa solitudine. La coppia attraverso il sostegno e l’elaborazione del vissuto, (o la madre) viene lasciata sola con la sua sofferenza, anche luttuoso, le famiglie dell’associazione si il mondo attorno ha fatto la sua parte e attende a afIiancano a questi genitori testimoniando come debita distanza il responso Iinale. In questo spazio di l’esperienza totalizzante di portare a termine la lontananza si percepisce l’enorme divario che si crea gravidanza, nonostante la previsione di epiloghi tra “noi” e “loro” quasi che fossero gli uni contro gli infausti, abbia donato loro un senso di completezza altri, divisi da un legalismo sterile che assume le nel sentirsi pienamente genitori. È questo orizzonte sembianze di una conquistata libertà. di senso, strettamente legato alla ricerca del bene, Il grido sordo, invece, invoca la richiesta di una del bello e del giusto, che chiama queste famiglie ad r i n n o v a t a v i c i n a n z a , d i u n o s g u a r d o esserci per abitare una relazione segnata dal dolore, compassionevole che giunge al cuore di quella realtà dalla quale solo loro riescono a udire integralmente viva e ferita che chiede solo di essere accolta. quel grido silenzioso che si fa strada in un caos che Colmare questo divario è un’azione necessaria per sembra oscurare e dominare ogni capacità della ricomporre l’alleanza di quel rapporto medicoragione. paziente che è prima di tutto relazione empatica, È nel momento in cui emerge la necessità di una luce accogliente e Iidata; un incontro sinergico di che rischiari e doni un’adeguata visione delle cose prossimità nel quale vi è la certezza di volgere lo che trova spazio la proposta de La Quercia Millenaria, sguardo verso una comune direzione. un sostegno ed una presenza che non fa sentire soli, È proprio nei vissuti personali, carichi di sofferenza, che richiama alla consapevolezza delle difIicoltà che è possibile trovare la genesi di un agire intenzionato ad accorciare questa distanza. Così è

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annunciando con certezza che alla Iine ne varrà la pena. Non solo i genitori trovano sollievo in questo accompagnamento, ma sempre più medici riconoscono la validità di questo servizio e richiedono la collaborazione dell’associazione. Irrompere nella storia personale di una famiglia con la consapevolezza di essere i portatori di una novella carica di dolore, che è annuncio del venir meno di quel bene, il Iiglio, di cui si sta facendo esperienza, signiIica entrare in contatto con i desideri e, al tempo stesso, i timori più profondi che celano tutta la vulnerabilità della natura umana. Questa fragilità smuove quel senso di responsabilità alla cura verso l’altro che chiede di saper cogliere i modi e i tempi del suo manifestarsi. Potersi avvalere del sostegno di chi sa leggere ed interpretare anche i bisogni più nascosti di questi genitori rappresenta, per il personale sanitario, l’opportunità di avvicinarsi al loro vissuto e, attraverso quest’opera di mediazione, facilitare la comprensione delle reciproche istanze. Anche per questo motivo, sono in aumento le strutture ospedaliere che richiedono di iniziare una collaborazione con La Quercia Millenaria adottando il protocollo di Perinatal Hospice, predisposto dall’associazione in riferimento alle linee guida della Comfort-Care elaborate dalla neonatologa dottoressa Elvira Parravicini. Aiutare a vivere con naturalezza il tempo della gravidanza, favorendo il consolidamento del legame bio-affettivo, attraverso anche la formazione di ricordi tangibili, non signiIica alimentare quel kronos che, nel suo scorrere, conduce inesorabilmente verso la Iine, ma è vivere un kairos, un tempo nel mezzo qualitativamente dedicato, designato allo scopo di vivere pienamente l’essere genitori, l’essere famiglia. La cura nell’accompagnamento coinvolge il vissuto integrale delle famiglie. L’esperienza della gravidanza si estende oltre la relazione madre-padre-Iiglio e trascende la realtà biologica abbracciando tutto un orizzonte di senso che coinvolge la totalità delle dimensioni umane. È a motivo di questa complessità che il servizio offerto dall’associazione non si esaurisce con il solo coinvolgimento delle famiglie che compongono La Quercia Millenaria, ma richiede un lavoro sinergico con differenti Iigure specializzate (medici specialisti, ginecologi, ostetriche, psicologi, neonatologi, genetisti, anatomopatologi) e l’impegno a tessere relazioni virtuose con enti ed associazioni afIini, contribuendo alla realizzazione di una rete sociale che si estende sull’intero territorio. Il punto di forza, però, che caratterizza l’impegno a realizzare questa prossimità, è l’indiscussa peculiarità del vissuto personale di queste famiglie. La loro presenza, gravata dall’umana sofferenza, si fa testimonianza di speranza e l’esistenza di quei Iigli, accolti nella loro perfetta imperfezione, è vita, per i

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Figura 2. Impronte delle manine e dei piedini. Ricordo tangibile dell’esistenza del proprio Iiglio e strumento utile all’elaborazione del lutto.

più non degna di essere vissuta, ma che nel suo breve dispiegarsi è stata capace di seminare frutti di vita eterna.

Nota 1. La Quercia Millenaria – Onlus come associazione unica per tutto il territorio nazionale cessa ufIicialmente la sua attività, con delibera del Consiglio Direttivo, a gennaio 2020 dopo 16 anni dalla sua fondazione, per proseguire l’attività di volontariato mediante l’apertura di realtà associative regionali, arrecanti lo stesso nome e gestite da famiglie facenti già parte della Rete di famiglie nazionale. Attualmente è operativa La Quercia Millenaria Toscana – ODV e sono di prossima apertura La Quercia Millenaria Lombardia – ODV, La Quercia Millenaria Veneto – ODV, La Quercia Millenaria Marche – ODV.

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Appunti di Formare l’eccellenza

LE LINEE CELLULARI V79 E CACO-2 Due modelli per studi in vitro di epi-mutagenesi Fabio Caradonna* Abstract. È da pochi anni noto che alcune sostanze, non classi?icabili come veri e propri mutageni, sono in realtà dei modulatori epigenetici ed inducono, ad esempio, cambiamenti nella metilazione del DNA. Inducendo modi?icazioni epigenetiche non causano mutazioni genetiche, sfuggono ai test di mutagenesi e carcinogenesi ?ino ad ora utilizzati ma possono ugualmente avere effetti fenotipici simili a quelli di un mutageno/carcinogeno. Per anni l’arsenico, noto veleno ad alte dosi, contaminante obbligato delle acque potabili, è stato oggetto di dibattiti sulla sua mutagenicità a basse dosi. Utilizzato, paradossalmente, come chemioterapico in alcune terapie oncologiche, mostrava effetti mutagenetici non coerenti a tal punto che la comunità scienti?ica, ?ino a qualche anno fa, non lo aveva classi?icato come mutageno. Alcune risposte sono venute recentemente proprio dall’uso di linee cellulari stabilizzate di laboratorio, come ad esempio le cellule V79-Cl3 di Hamster chinese, con le quali è stato possibile contribuire a chiarire che l’arsenico, a basse dosi, compatibili con quelle contenute nelle acque potabili, non è un mutageno ma un epimutageno cioè una sostanza in grado di indurre modi?iche epigenetiche (in particolare nella metilazione del DNA), modi?iche che, in certe condizioni possono indirettamente sfociare in situazioni ugualmente problematiche per la cellula o per un organismo. Un’altra linea cellulare usata come modello è rappresentato dalle cellule Caco2, ottenuta da carcinoma di colon umano, adibita a studi di compatibilità, tossicità, genotossicità ed epi-genotossicità di sostanze. Studi metilomici preliminari, condotti nel laboratorio da me coordinato, hanno dato interessanti indicazioni che gli estratti di alcuni cibi sono in grado di contrastare l’effetto epi-mutagenetico dell’arsenico aprendo avvincenti scenari di ricerca applicata, utili alla recente tendenza del settore agro-alimentare industriale, quale quella di “funzionalizzare” cibi e bevande.

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tudiare fenomeni cellulari non è semplice: per motivi legati alla senescenza cellulare di cellule normali non è possibile perpetuare in vitro la vita di una cellula normale differenziata per poterne con calma e per più generazioni studiarne i processi. Sarebbe quindi auspicabile ottenere delle cellule che possano essere immortalizzate in laboratorio, fuori dall’organismo che le ha generate, ma che ancora conservino quelle caratteristiche proprie, utili a comprendere il fenomeno che si vuole indagare. Nello speci?ico, studiando i fenomeni cellulari su una linea continua (immortalizzata) di laboratorio si deve tener conto che si stanno osservando non “quelle cellule” ma “un modello di quelle cellule”. Una ulteriore premessa importante sta nella comprensione dell’epigenetica, una recente branca della genetica che studia le modi?iche della cromatina (ad esempio la metilazione della citosina a

formare 5-metilcitosina) non conseguenti a mutazioni della sequenza primaria del DNA capaci di modi?icare espressioni geniche. L’epigenetica rappresenta un rapporto DNA-ambiente ed ambiente-DNA in quanto molte molecole contenute nell’ambiente, e nei cibi in particolare, possono fungere da modulatori epigenetici, non sempre dannosi, anzi tutt’altro. La linea cellulare continua di laboratorio: un modello di studio in vitro di fenomeni biologici In una linea cellulare è possibile studiare fenomeni riuscendo ad isolarli, enucleandoli dalla convergenza di più elementi che ?iniscono per comporre i cosiddetti fattori di disturbo e di confusione. Rappresentano un’ottima modellizzazione del fenomeno, forse non esattamente corrispondente ma sicuramente paragonabile. Come si ottiene una linea cellulare continua di laboratorio da una cellula

*Docente di genetica. Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche Chimiche e Farmaceutiche (STEBICEF, sezione di Biologia Cellulare) - Università degli Studi di Palermo. fabio.caradonna@unipa.it

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Appunti di Formare l’eccellenza

espiantata da un organismo? In un solo modo: modulando, aumentando l’instabilità genomica della cellula primaria. È infatti ampiamente noto che tutte le cellule di un organismo, con grande dispendio di energia metabolica, mantengono funzionali tutta una serie di endpoints: hanno infatti una moderatissima instabilità genomica, attuano una fedele replicazione del DNA della cromatina e dei cromosomi, conducono una corretta segregazione cromosomica, un corretto coordinamento del ciclo cellulare, possiedono la possibilità di riparare il più possibile il DNA e sono in grado, dal punto di vista epigenetico, di mantenere il giusto grado di metilazione genomica del DNA, curando che non scenda sotto certi livelli critici. La linea cellulare nasce grazie ad una iniziale grande instabilità genomica fra le cellule primarie messe in coltura (in vitro); l’instabilità genomica favorisce la g e n e r a z i o n e d i c e l l u l e g e n e t i c a m e n t e / genomicamente diverse a cause di errori insorti in uno degli endpoints prima menzionati. Si instaura subito una competizione in vitro, una selezione clonale che avvantaggia il clone con la combinazione di aberrazioni per crescere in quelle condizioni. Più in dettaglio, se una cellula per rimaneggiamenti genomici aberranti silenzia i propri geni di controllo della crescita cellulare e contemporaneamente iperattiva quelli della riparazione del DNA, allora può de?inirsi “immortalizzata”. Una linea cellulare continua di laboratorio “nasce” quando dalla grande instabilità genomica si arriva per selezione clonale ad una cellula che è tanto instabile quanto basta per essere immortalizzata, ma tanto stabile quanto basta per mantenere una moderata omeostasi cellulare. Una cellula immortalizzata può non essere tumorale, mentre una cellula tumorale è sicuramente immortalizzata. L’immortalizzazione si de?inisce

come la possibilità di perpetuare un certo fenotipo cellulare in vitro a condizioni di fornire nutrienti e condizioni chimico-?isiche per il tempo necessario alla crescita. Questo attiene sia alle cellule immortalizzate non tumorali che a quelle tumorali, per le quali si aggiungono alcune altre caratteristiche peculiari, come la crescita senza inibizione da contatto, la non dipendenza da certi fattori di crescita ed altro. L’instabilità genomica è la caratteristica del cancro È noto che il cariotipo della cellula tumorale è instabile e per questo in continuo cambiamento. Quasi tutti i tumori solidi sono costituti da cellule aneuploidi, quindi con numero cromosomico diverso dalla normalità. Condizione necessaria af?inché il cancro si sviluppi è che tutti i meccanismi di riparazione/controllo falliscano, in modo che la condizione aneuploide si propaghi attraverso le innumerevoli divisioni cellulari (Figura 1). Se guardiamo questo stesso evolversi attraverso la chiave di lettura epigenetica, notiamo una correlazione tra il grado di metilazione genomico del DNA e l’insorgenza del cancro (Figura 1). Più in dettaglio, il DNA di una cellula normale possiede livelli genomici di 5-metilcitosina (5-MeC) normali, tipicamente molto accentuati per via delle grandi quantità di DNA strutturale (centromeri, telomeri, etc) metilato. Al contrario, il DNA di una cellula tumorale possiede livelli genomici di 5-MeC bassi rispetto alla normalità. Questo può essere determinato e può a sua volta determinare una iperespressione di oncogèni accompagnati da silenziamento di alcuni geni oncosoppressori. Riepilogando, dunque, le principali differenze, genetiche/epigenetiche, fra una cellula normale primaria ed una appartenente ad una linea cellulare

Figura 1. Il rapporto fra instabilità genomica e cancro, a sinistra; relazione epigenetica fra grado di metilazione genomica del DNA e insorgenza del cancro, a destra.

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Appunti di Formare l’eccellenza continua di laboratorio sono tutte imperniate sull’instabilità genomica ed epigenomica. In particolare una cellula normale è geneticamente stabile, è differenziata, è in grado di vivere per un numero di divisioni “a termine”, ha un citotipo ben de?inito ed ha un DNA normometilato. Una cellula appartenente ad una linea continua di laboratorio, è geneticamente instabile, è poco differenziata, in presenza di risorse tro?iche ha a sua disposizione un numero di divisioni illimitato, conserva tratti fenotipici della cellula primaria di origine ed ha un DNA meno metilato della cellula primaria. Una cellula tumorale, a prescindere dalla sua collocazione in vitro o in un organismo, presenta un DNA ipometilato. La linea cellulare V79-Cl3 e gli studi sull’arsenico È stata ottenuta in seguito a immortalizzazione spontanea di cellule isolate dal polmone di un criceto cinese normale (maschio), l’Hamster chinese Cricetulus vulgaris. È particolarmente adatta ad esperimenti di mutagenesi dal momento che nel processo di stabilizzazione in vitro, delezioni cromosomiche e mutazioni genetiche hanno eliminato la funzionalità della maggior parte dei geni CYP e le cellule hanno conservato una certa stabilità del cariotipo e della cito-morfologia. Ricordiamo che la famiglia multigenica dei geni CYP raggruppa geni che codi?icano per enzimi metabolizzatori di xenobiotici, responsabili della maggior parte del potere detossi?icante di una cellula. Queste cellule, dunque, non possono rimaneggiare alcuna molecola per detossi?icazione e quindi possono essere degli ottimi modelli di studio degli effetti di un mutageno o di un epimutageno. L’arsenico (AdS) è un contaminante “obbligato” della nostra vita, è naturalmente presente nel suolo, nell’aria e soprattutto nell’acqua ad uso umano potabile. Il nostro laboratorio si è occupato da 15 anni di effetti epigenetici dell’AdS, riportando che questa molecola in vitro demetila il DNA di cellule normali, rendendolo simile a quello delle cellule tumorali (Figura 2) [1]; ed inoltre innesca una severa instabilità genomica agendo anche sul fuso mitotico ed inducendo, di conseguenza, aneuploidia. Quindi, una bassa dose di AdS, a partire da 6 ore dal trattamento, innesca apoptosi oppure, cosa molto interessante, conferisce alle cellule instabilità genomica ed epigenomica. Quelle cellule sfuggite all’apoptosi indotta da arsenico, hanno severe anormalità del fuso mitotico e diventano genomicamente ed epigenomicamente instabili. Il risultato più interessante ⎼⎼ ma forse più inquietante ⎼⎼ è che questa instabilità continua anche generazioni dopo aver rimosso l’AdS dal mezzo di coltura, creando una linea cellulare “nuova”, una sorta di “modello nel modello” che noi abbiamo

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chiamato “cellule ASO”. Queste cellule si mostrano molto instabili, più delle progenitrici V79-Cl3, ma hanno avuto solo una prima esposizione all’AdS e da generazioni cellulari non più. Quindi, basse dosi di arsenico, comparabili a quelle cui ciascuno di noi può essere stato esposto almeno una volta nella propria vita, possono dare a cellule in coltura effetti a lungo termine anche quando il veleno non è più presente da tempo. Potrebbe essere, di conseguenza, suf?iciente anche soltanto una esposizione a dosi sub-micromolari per indurre, a distanza di tempo e in assenza di altre esposizioni, effetti a lungo termine potenzialmente prodromiche alla cancerogenesi.

Figura 2. L’arsenico (AdS) induce demetilazione genomica del DNA. Tramite immunolocalizzazione cromosomica di 5MeC, viene visualizzato sui cromosomi di cellule V79-Cl3 non trattate la condizione di normometilazione (a destra) in confronto ad una forte ipometilazione dopo trattamento con AdS (a sinistra) [1].

Gli studi nutrigenomici sulla linea cellulare CaCo-2: una luce in fondo al tunnel La nutrigenomica è una recente branca della genetica e dell’epigenetica che studia i meccanismi con cui molecole contenute nei nutrienti interagiscono con il DNA e con la sua espressione, identi?icando quegli alimenti che possono avere effetti positivi (o raramente negativi) sulla salute umana. Ciò richiede la comprensione di come alcuni nutrienti agiscono a livello molecolare modi?icando espressioni geniche, variando di conseguenza alcuni metabolismi, ed in ultimo contribuendo a determinare lo stato di salute di un individuo. La linea cellulare Caco-2 di adenocarcinoma colonrettale umano è stata isolata negli anni ’70. Studi precedenti del nostro Dipartimento hanno dimostrato che nell’estratto di un noto frutto oleaceo siciliano sono contenute molte molecole ad effetto bene?ico per la salute umana [2]. Recentemente, utilizzando cellule CaCo-2 differenziate abbiamo condotto dei trattamenti in vitro con 3 dosi di estratto idro?ilo del noto frutto oleaceo siciliano (EIP

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Appunti di Formare l’eccellenza 10, 20 e 30) corrispondenti a 35, 70 e 100 g di frutto e per tempi paragonabili al transito intestinale (3 h). I risultati sono visibili in ?igura 3: l’EIP è in grado di bilanciare, in alcune condizioni annullare o ribaltare, il danno epigenetico da AdS sia somministrato alle cellule prima che dopo la dose di arsenico. Sebbene gli esperimenti in vitro siano abbastanza distanti dal poter avere una conferma in vivo o direttamente su soggetti o pazienti, si può certamente affermare che in alcuni distretti tissutali dell’organismo, quali per esempio, il colon retto, la contemporanea presenza di arsenico e di estratto di frutto oleaceo siciliano può essere un contrasto agli effetti negativi delle basse dosi di arsenico contenute, ad esempio, nell’acqua potabile. Conclusioni Le linee cellulari continue di laboratorio sono degli ottimi modelli in cui è possibile studiare fenomeni biologici in vitro scevri da fattori di disturbo/ confusione. Oltre a tutti i vantaggi già descritti, è importante sottolineare che essi rappresentano una ottima soluzione per una prima fase di ricerca in cui è possibile non usare i modelli animali in vivo con notevoli impieghi di denaro, di forza lavoro ed anche … con cattiva immagine presso gli animalisti e parte dell’opinione pubblica; Come tutti i modelli, le linee cellulari restituiscono una condizione non reale ma realistica dei fenomeni biologici, ed al pari di ogni tecnica sperimentale va utilizzata conoscendone limiti e ambiti di applicazione. Riguardo gli studi qui presentati nello speci?ico, la conclusione è ovvia ed è stata già pronunciata secoli addietro dalla saggezza popolare: variare la dieta assumendo vari cibi, tutti appartenenti alla dieta mediterranea, sicuramente aiuta l’organismo a bene?iciare dell’effetto salutistico di alcune molecole in essi contenute, anche quando si trovano in associazione ad altre molecole dannose delle quali sono in grado di abbatterne o ridurne gli effetti negativi. La genetica odierna ha abbandonato la sua visione riduzionista del secolo scorso, ed ha imparato che studiare un genoma senza le relazioni con l’ambiente equivale a vedere in bianco/nero un quadro a colori: se ne conoscono i tratti ma non si apprezzano tutte le sfumature in esso contenute, a volte più importanti, e la nutrigenomica e l’epigenetica ne sono un chiarissimo esempio.

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Figura 3. Effetto epigenetico dell’estratto idro?ilo di un noto frutto oleaceo siciliano (EIP) a 3 concentrazioni compatibili con assunzioni tradizionali della dieta mediterranea. Come è visibile nel gra?ico, l’effetto DNA-demetilante in rosso dell’arsenico (As) viene ribaltato dalla compresenza dell’estratto di questo frutto oleaceo (in verde) sia somministrato prima che dopo la bassa dose di arsenico. Si rammenta che un DNA demetilato è simile a quello posseduto da cellule tumorali.

Bibliografia 1.

2.

Sciandrello G., Caradonna F., Mauro M., Barbata G., Arsenicinduced DNA hypomethylation affects chromosomal instability in mammalian cells. Carcinogenesis 25(3): 413-417, 2004. Gentile C., Perrone A., Attanzio A., Tesoriere L., Livrea MA., Sicilian pistachio (Pistacia vera L.) nut inhibits expression and release of inBlammatory mediators and reverts the increase of paracellular permeability in IL-1β-exposed human intestinal epithelial cells. Eur J Nutr. 54(5): 811-821, 2015.

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Delle Arti

RICORDANDO LA FILOSOFIA DELL’ARTE DI CARLO CHENIS Rodolfo Papa

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ieci anni fa, il 19 marzo 2010 ci lasciava M o n s . C a r l o C h e n i s , v e s c o v o d i Civitavecchia, professore presso la Università Ponti>icia Salesiana, per molti anni Segretario della Ponti>icia Comissione per i Beni Culturali della Chiesa. Vorrei ricordarlo per l’impegno della sua ri>lessione estetica [1]. Carlo Chenis imposta una ri>lessione estetica che coincide essenzialmente con la >iloso>ia dell’arte e della bellezza, in modo che estetica e >iloso>ia dell’arte e della bellezza risultano coincidenti. Egli, formatosi nella Università di Torino, in questo senso fa propria l’affermazione di Pareyson: «l’estetica non è una parte della >iloso>ia, ma la >iloso>ia intera concentrata sui problemi della bellezza e dell’arte» [2]. A differenza di Pareyson, però, che intendeva proporre una estetica che «non è una meta>isica dell’arte, ma un’analisi dell’esperienza estetica» [3], Chenis affronta invece la ri>lessione s u l l ’ o p e r a d ’ a r t e d a u n p u n t o d i v i s t a fondamentalmente ontologico e meta>isico, come esplicitamente afferma più volte: «La ri>lessione va […] fondata in termini meta>isici e religiosi, poiché una lettura esclusivamente fenomenica ridurrebbe Figura 1. Carlo Chenis (Torino 1954 - Roma 2010). per l’opera d’arte, sia il valore intrinseco, sia la fruizione sensibile» [4]. ovvero l’ergon in termini aristotelici, un prodotto Egli argomenta che la fondazione dell’opera d’arte dell’attività poietica umana, l’esito del facere. richiede ri>lessione meta>isica, mentre la ri>lessione In quanto tale, l’opera d’arte risulta subito inserita sull’opera d’arte sacra richiede, oltre alla ri>lessione nell’ordine degli enti contingenti, dunque ha tutte le meta>isica, anche una ri>lessione religiosa. caratteristiche delle sostanze composte, ed è L’impostazione >iloso>ica innanzitutto soggetta al s o r r e g g e a n c h e l a «… l’opera d’arte è fondamentalmente un divenire. «Dal punto di r i > l e s s i o n e t e o l o g i c a v i s t a t e o r e t i c o , i l s u l l ’ a r te s a c ra , q u a s i “manufatto”, ovvero l’ergon in termini manufatto, appartenendo svolgendo il ruolo di aristotelici, un prodotto dell’attività poietica all’ordine della realtà praeambula *idei. contingente, è soggetto al umana, l’esito del facere […] soggetta al L a p e c u l i a r i t à d e l l a divenire» [5]. ri>lessione di Carlo Chenis divenire» Il divenire segna l’opera sta proprio in questo d’arte in quanto essa ha un ambiente fortemente teoretico, decisamente inizio nella attività produttiva umana, ha una durata ontologico, nel quale ogni argomento ed ogni materia nel tempo, durante la quale viene fruita, conservata, di ri>lessione risultano completamente immersi, restaurata o lasciata consumare, ed ha una >ine per quasi come ossigeno vitale. consumazione o distruzione. L’in>inito cui l’arte ⎼⎼ L’opera d’arte viene ricondotta da Chenis come vedremo ⎼⎼ riesce ad alludere sta tutto nel suo innanzitutto nella prospettiva delle “cose arti>iciali”, signi>icato, e non certo nel suo signi>icante che, come l’opera d’arte è fondamentalmente un “manufatto”, ogni cosa “fatta di polvere”, alla polvere ritorna.

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Delle Arti Rodolfo Papa, pittore, scultore, teorico, storico e >ilosofo dell’arte. Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Docente di Storia delle teorie estetiche presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Sant’Apollinare, Roma; il Master di II Livello di Arte e Architettura Sacra dell’Università Europea, Roma; l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Santa Maria di Monte Berico, Vicenza; la Ponti>icia Università Urbaniana, Roma. È Accademico Ordinario della Ponti>icia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Presidente della Accademia Urbana delle Arti. Tra i suoi scritti si contano circa venti monogra>ie e alcune centinaia di articoli (“Arte Cristiana”; “Euntes Docete”; “ArteDossier”; “La vita in Cristo e nella Chiesa”; “Via, Verità e Vita”, “Frontiere”, “Studi cattolici”; “Zenit.org”, “Aleteia.org”; …). Come pittore ha realizzato interi cicli pittorici per Basiliche, Cattedrali, Chiese e conventi (Basilica di San Crisogono, Roma; Basilica dei SS. Fabiano e Venanzio, Roma; Antica Cattedrale di Bojano, Campobasso; Cattedrale Nostra Signora di Fatima a Karaganda, Kazakistan; Eremo di Santa Maria, Campobasso; Cattedrale di San Pan>ilo, Sulmona; chiesa di san Giulio I papa, Roma; San Giuseppe ai Quattro Canti, Palermo; Sant'Andrea della Valle, Roma …).

In quanto ente contingente, l’opera d’arte è causata, e per conoscerla occorre considerarla nella prospettiva della causa. Appare chiaro come la “sostanzialità dell’opera d’arte” [6] si spieghi con la complessità delle cause aristoteliche: ogni manufatto ha una materia, una forma, un arte>ice, una >inalità. Chenis offre una de>inizione complessa del manufatto, impostata proprio sull’ordine delle cause. Partiamo dalla considerazione della causa materiale, particolarmente importante nella ri>lessione sull’opera d’arte: «Ogni opera d’arte ha una sua materialità sensibile che si connota in speci>iche componenti materiche» [7]. La peculiarità delle componenti materiche costituisce un elemento identitario importante delle varie arti, tecniche, stili. Il manufatto nasce proprio dal «processo di trasformazione da parte dell’uomo di particolari materiali» [8]. L’artista non lavora con la materia prima, ma con le materie seconde, con materiali che hanno le proprie proprietà e qualità [9]. «L’opera d’arte si attua mediante la trasformazione di materiali, dal momento che la materia impiegata ha già una sua forma». Il manufatto nasce dal «processo di trasformazione da parte dell’uomo di particolari materiali» [10]. Le materie con cui l’artista lavora sono esse stesse sostanze materiali, hanno cioè una loro causa formale, che fa sì che il legno sia legno, il marmo sia marmo, il lapislazzulo sia lapislazzulo. Ciò consente di veri>icare come la formazione dell’opera non sia “creazione” in senso proprio, ma solo un creare per analogia. «Il creare umano non è infatti ex nihilo, ma procede da quanto già esiste in natura» [11]. L’artista non trae dal nulla l’opera, ma innanzitutto la trae dalla materia. Chenis imposta dunque il rapporto natura-arte nei termini della precedenza della natura sull’arte. L’arte lavora con ciò che “già esiste in natura”.

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Propriamente l’artista non chiama niente all’esistere, ma trasforma quanto già c’è. La componente materica dell’opera d’arte consegna l’opera al divenire. La materia, infatti, è intesa aristotelicamente come potenzialità, principio di cambiamento, e proprio in base a tale prerogativa la materia può diventare opera d’arte, portando in essa la potenzialità del divenire e dunque una possibilità di cambiare che non >inisce mai. I materiali infatti

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Delle Arti nella loro contingenza si collocano «nel tempo e nello spazio, così che il loro divenire è congiunturato dai fenomeni naturali e dagli usi sociali. Sono soggetti a mutamenti >isico-chimici, alla “patina del tempo”, ad eventi naturali traumatici, ad usura gestionale, ad interventi manutentivi, a distruzione, ecc.» [12]. Chenis traccia tutta la complessità del divenire dell’opera d’arte radicandolo nella materia. Materia signi>ica infatti localizzazione e temporalizzazione. Ogni cosa materiale ha una estensione materiale, e dunque sta in un dove, e una collocazione temporale, dunque sta in un quando. Il divenire locale e temporale delle cose signi>ica anche divenire sociale, culturale. L’opera d’arte non solo è segnata dal divenire >isico-chimico dei suoi elementi, ma anche dalla cultura che la produce, la gestisce, la conserva o la distrugge. Il rapporto con i materiali consente anche di tracciare la storia di una civiltà, in cui la conoscenza delle materie prime, il loro impiego, la scoperta delle tecniche di trasformazione, gli esiti estetici, sono elementi importanti. La storia di una cultura è anche storia di materiali, trovati e scelti. In questo contesto, l’attenzione alle culture echeggia in modo implicito l’attenzione ermeneutica al concetto di tradizione e di identità dei popoli, che Chenis apprese soprattutto da Pareyson [13]. I m a n u fa t t i , i n v i r t ù d e l l a m a te r i a , s o n o completamente consegnati alla storia: «Di conseguenza la loro durata è relativa alle condizioni ambientali, laddove gli eventi si possono combinare in modo non preordinato, cagionando cause impreviste» [14]. L’opera d’arte è, dunque, segnata dal divenire della materia e dal divenire della cultura, ed è sottoposta, come ogni realtà contingente, alla casualità, ovvero alla combinazione non preordinata degli eventi. Su tutte queste causalità (compreso il caso), che interagiscono con la causa materiale, si impone l’artista, capace di esaltare la potenza e ridurla all’atto: «l’impegno dell’artista per plasmare l’opera superando resistenze ed esaltando potenzialità. I materiali sono stati abitualmente scelti, sia per esigenze esecutive, sia per motivi estetici» [15]. La formazione dell’opera dipende, dunque, profondamente da questa componente materica e, allo stesso modo, la fruizione dell’opera stessa ne è in>luenzata. La prima conoscenza che si ha di un manufatto è conoscenza sensibile; non è possibile cogliere i signi>icati immateriali di un’opera senza cogliere anche le componenti materiali del messaggio: «la conoscenza per il godimento della medesima, essendo una percezione complessiva, non prescinde dai materiali» [16]. La causa materiale, in quanto potenza, da sola non è niente; Chenis sottolinea la priorità dell’atto, e dunque la centralità della forma sostanziale: «La

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Figura 2. Luigi Pareyson, (Piasco 1918 - Milano 1991).

forma è ciò che quali>ica la realtà contingente nelle sue speci>iche determinazioni». L’opera d’arte appartiene all’ordine delle cose contingenti e tuttavia non possiede la consistenza di una nuova sostanza, ma si con>igura, al pari di ogni ente arti>iciale, come composizione di sostanze già esistenti. Dunque, l’opera d’arte non ha propriamente una “forma sostanziale” nuova, altrimenti l’artista sarebbe realmente un creatore. Chenis si muove sul crinale del linguaggio: da una parte il compimento dell’opera è “forma” in senso fenomenologico, dall’altra il compimento dell’opera non può consistere nella creazione di una forma sostanziale. Anche relativamente alla forma, dunque, sembra che Chenis prediliga un linguaggio decisamente meta>isico, usando il termine in modo diverso per esempio da Pareyson, il quale scriveva: «Qui si intende la forma come organismo, vivente di vita propria e dotato di una legalità interna: totalità irripetibile nella sua singolarità, indipendente nella sua autonomia, esemplare nel suo valore, conclusa e aperta insieme nella sua de>initezza che racchiude un in>inito, perfetta nell’armonia e unità della sua legge di coerenza, intera nell’adeguazione reciproca fra le parti ed il tutto» [17]. Tuttavia la teoria della “formatività” di Pareyson [18], rimane nell’orizzonte, soprattutto come attenzione alla globalità dell’atto artistico: «formare signi>ica per un verso fare, cioè compiere, eseguire, produrre, realizzare, e, per

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Delle Arti l’altro, trovare il modo di fare, cioè inventare, scoprire, >igurare, saper fare» [19]. Per Pareyson il formare è “tentare” e la forma è “riuscita” [20], mentre per Chenis il compimento dell’opera d’arte viene detto in termini di perfezione ontologica che si manifesta come splendore estetico. L’opera d’arte, pur non essendo creazione di una nuova sostanza, tuttavia conferisce alle sostanze esistenti una con>igurazione ontologica nuova, sicuramente di ordine accidentale, ma tuttavia dicibile come perfezione, ovvero compimento. L’opera d’arte, rispetto alla sostanza o alle sostanze di cui si compone, possiede accidenti prima inespressi, solo potenziali, la cui possibilità diviene attualità nell’opera d’arte formalmente compiuta. La “causa formale” dell’opera sta, dunque, nella perfezione di essere che le sostanze raggiungono nell’opera grazie all’operare dell’artista. L’opera d’arte è, infatti, caratterizzata dallo splendor formae, cioè dallo splendore della forma: «L’opera artistica incarna per sua natura uno splendor formae, ovvero il raggiungimento di una perfezione d’essere» [21]. Lo splendore formale, che è causa di bellezza, si pone comunque nell’ordine della perfezione ontologica: «Dal punto di vista meta*isico il manufatto artistico si pone come esistente dotato di splendore formale. L’opera d’arte si quali>ica per la sua bellezza che r ive l a p e r fe z i o n e o n t o l o g i c a e s p l e n d o re estetico» [22]. La bellezza intesa come “splendore della forma” è l’esito concettuale di un percorso che affonda nella speculazione greca ma trova il suo compimento nel pensiero cristiano: «Nella concezione abituale di ispirazione cristiana la bellezza è stata abitualmente intesa come “splendor formae”, cioè come splendore della forma sostanziale, così da evidenziare attraverso le componenti accidentali la perfezione d’essere di un particolare manufatto artistico»[23]. La perfezione della forma si manifesta nelle componenti accidentali, nelle qualità dell’opera che costituiscono gli elementi della sua bellezza. Il tema della bellezza è anch’esso affrontato innanzitutto in termini ontologici, come un trascendentale: «Ontologicamente il ‘pulchrum’ appartiene alla sfera dei trascendentali, ovvero ai generi supremi dell’essere. Pur nelle diverse sottolineature teoretiche esso può venire inteso come armonia trascendentale. Pertanto, la bellezza nella sua dimensione ontologica è intimamente congiunta, pur nella distinzione formale, alla bontà, verità, unità che costituiscono le proprietà trascendentali dell’essere» [24]. La solida formazione tomistica di Chenis, >iltrata attraverso i migliori interpreti di san Tommaso tra i quali sembra prediligere, forse anche per la assidua frequentazione della produzione montiniana, Jacques Maritain, segna la struttura ontologica della

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Figura 3. Jacques Maritain (Parigi 1882 - Tolosa 1973).

concezione chenisiana del bello: annoverato tra i trascendentali, esprime la pienezza d’essere delle cose, si distingue formalmente ma si converte con bontà, verità, unità; si de>inisce come armonia degli stessi trascendentali [25]. Lo stesso Maritain de>iniva il bello come lo «splendore di tutti i trascendentali riuniti» [26]. Il manufatto non ha una identità naturale, come l’hanno invece le sostanze non arti>iciali, ma come ogni realtà fatta dall’uomo ha piuttosto una propria “autenticità” che secondo Chenis «si commisura pertanto allo splendore raggiunto, dal quale ne deriva la fruizione estetica» [27]. L’autenticità si con>igura nei termini di compiutezza dell’opera, e dunque implica sia la persistenza della sostanza che le sue variazioni: «L’“autenticità” non è infatti sinonimo di immutabilità, ma si esplicita nella persistenza sostanziale che non preclude variazioni accidentali proprie del divenire contingente» [28]. Lo splendore della forma è la compiutezza dell’essere dell’opera e dunque è anche il principio della sua fruizione estetica, cioè del rapporto tra l’oggetto fruito e il soggetto che ne gode conoscendolo. Chenis ripercorre la questione della bellezza come “ciò che visto piace”, ricollegandola direttamente alla perfezione ontologica dello splendor formae: «Dal punto di vista estetico la bellezza è ciò che piace al vedersi. Ora è piacevole ciò che intrinsecamente ha raggiunto splendore formale» [29]. Dunque la piacevolezza della fruizione estetica è un segno, un effetto, del raggiunto splendore formale. Questa compiutezza del manufatto è innanzitutto tale in se stessa, cioè l’oggetto raggiunge per sé la sua

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Figura 4. Duccio di Buoninsegna, Maestà del Duomo di Siena (1308 - 1311). Museo dell’Opera Metropolitana, Siena.

bellezza, ovvero il suo bonum, che si traduce come integrità, compiutezza, perfezione. Chenis nota come la compiutezza del manufatto possa darsi anche come relazione ad aliud, cioè nei termini di “consonanza” ad un’altra sostanza, che è un soggetto intelligente capace di cogliere la bellezza: «La bellezza estetica di un’opera si ha quando il manufatto raggiunge per se il suo bonum simpliciter (ovvero l’integrità, la compiutezza, la perfezione), o per aliud la consonanza con un soggetto (ovvero il coglimento di bellezza e intelligibilità)» [30]. Sembra dunque che lo splendor formae si dia secondo quantità e qualità ed anche secondo relazione, cioè secondo i tre predicamenti che dicono l’essenza, pur non coincidendo con essa. In questa prospettiva teoretica, acquista intelligibilità il noto detto tomista: «In questo senso ‘pulchra dicuntur quae visu placent’» [31]. Chenis non trascura la portata ontologica della de>inizione tommasiana di bellezza e ne esalta anche in modo originale la questione relazionale, che r i m a n d a a d u n a s e n s i b i l i t à , m o d e r n a e contemporanea, verso il soggetto e le sue interpretazioni [32]. Comprendiamo che la bellezza artistica in se stessa esiga intelletto e sentimento, associati; si riferisce alla conoscenza concettuale ma anche alla risposta passionale. La bellezza rientra nell’ordine delle perfezioni ontologiche e rimanda a Dio, ma nella perfezione >inita del suo splendor formae esprime l’impossibilità di raggiungere la pienezza del suo >ine e dunque è in se stessa aperta, e richiama nel soggetto un percorso che ha la struttura del desiderio: quel desiderare di possedere di più ciò che

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già si possiede, che è poi l’essenza dell’eros platonico: «l’amore è tendenza a essere in possesso del bene per sempre» [33]. L’intelletto viene chiamato alla pienezza ed il sentimento viene chiamato alla forza delle emozioni, entrambi sono spinti verso un >ine che li sorpassa, essendo divino e non umano. La >initezza stessa dell’opera d’arte, nel suo additare l’irraggiungibilità della pienezza, rende consapevoli della verità divina. Proprio qui incontriamo la modalità di continuità, e non di frattura, tra la >iloso>ia del bello e la teologia della bellezza: «Da un punto di vista teologico, la bellezza è metafora della ‘gloria di Dio’, in quanto la bellezza sensibile partecipa della bellezza divina» [34]. I trascendentali si radicano infatti causalmente negli attributi di Dio: la realtà è una, bella, buona, vera, perché è pensata e voluta da Dio: «Dal momento che al Creatore si predicano gli attributi di somma bontà, verità, unità, bellezza, anche alle creature si attribuiscono analogamente i medesimi requisiti. Lo dichiara il poema della creazione quando l’Onnipotente ritrova il suo operato ‘bello e buono’» [35]. Nella bellezza artistica, inoltre, rifulge per analogia l’opera creatrice di Dio perché l’artista è creatore per analogia [36]. Nello splendor formae si manifesta una aura sacrale, che analizzeremo meglio quando affronteremo la questione dell’arte sacra: «Un’opera d’arte cultuale è autentica quando il suo splendore formale ne rivela l’aura sacrale dando pienezza di signi>icato ai contenuti che dichiara» [37]. Mi sembra si possa affermare che nella ri>lessione chenisiana lo splendor

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Figura 5. Duccio di Buoninsegna, Maestà del Duomo di Siena (1308 - 1311), il lato delle Storie della Passione. Museo dell’Opera Metropolitana, Siena.

formae assume il ruolo di preambulum alla comprensione della sacralità dell’arte. Se l’opera d’arte non fosse bella, non potrebbe neanche essere sacra. La sintesi di sostanze ilemor>iche che costituisce il manufatto, e lo splendor formae che rende il manufatto un’opera d’arte bella, sono sempre collocati sul piano del divenire, un divenire complesso e multidimensionale, di cui occorre tenere conto nella conservazione e nel restauro del bene; il divenire dell’opera è af>idato alla cura dell’uomo [38]. La causa ef>iciente del manufatto è l’agente, è l’artista: perché esista la Pietà di Michelangelo è necessario Michelangelo, lo scultore, la causa ef>iciente che pone in atto il progetto artistico rendendolo opera. Anche altri soggetti concorrono ef>icacemente al compimento dell’opera d’arte, quali committenza e fedeli, dimensioni che Chenis, attento alla complessità contestuale dei fenomeni, non trascura mai: «L’opera d’arte rappresenta, infatti, la riuscita di un’azione creativa umana, per cui suscita curiosità sulle intenzioni di artisti, committenza, fedeli, oltreché sulle modalità del processo artistico >ino al suo compimento» [39]. L’artista è l’agente principale, gli altri soggetti intervengono in genere sul contesto, in maniera a volte anche determinante: «Specie nel caso dell’arte per il culto, all’agente iniziale, che deve sintonizzare l’impresa personale con gli altri arte>ici dello spazio culturale, subentrano abitualmente altri agenti che intervengono raramente sull’opera stessa e frequentemente sul suo contesto mutandone gli equilibri» [40].

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L’artista, che agisce sui materiali compiendo l’opera, si muove in base a un >ine. Anzi, forse è impossibile affrontare la causa ef>iciente dell’opera d’arte senza soffermarsi sulla causa >inale, che muove l’artista, e tutti gli altri soggetti che lo attorniano. Il >ine si speci>ica a diversi livelli; innanzitutto c’è il >ine in sé dell’opera che coincide con il bonum ontologico, ovvero con la compiutezza dell’opera, splendor formae: la bellezza, infatti, è un >ine in se stessa. A ciò si aggiunge, in modo non competitivo ma compositivo, il >ine strumentale, con>igurabile come >ine dell’operante, come >ine della causa ef>iciente [41]. Se il *inis operis è il bene ontologico dell’opera, il *inis operantis è il bene culturale ed etico della comunità. Per esempli>icare in modo eccellente questa distinzione si può fare riferimento alla Maestà di Duccio, un’opera che ha in se stessa lo splendore della propria perfezione e che inoltre fu subito percepita come un bene comune dalla collettività senese; la grande opera infatti, destinata all’altare del Duomo di Siena, venne commissionata dal governo della città ed accolta dalla città stessa come un bene: si racconta che l’opera, una volta >inita, fu trasportata dalla bottega di Duccio >ino al Duomo, con una grande processione capeggiata dal Vescovo, cui tutta la città di Siena partecipò, riconoscendo il proprio bene nella stessa bellezza dell’opera, in una armoniosa sintesi tra “la bellezza dell’opera (attraverso cui si compie il >ine che le è intrinseco)” e “la sua funzione culturale (attraverso cui si ottiene l’obbiettivo degli arte>ici)”. Sulla base di queste ri>lessioni, si può distinguere l’opera in quanto tale, che è in stessa disinteressata,

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Delle Arti cioè che non serve per produrre conoscenza, e l’opera in quanto bene dell’uomo, che possiede un interesse: «Pur essendo in sé disinteressata, cioè ponendosi oltre il soddisfacimento meramente strumentale, l’opera d’arte assolve, con coef>icienti diversi>icati, ad una funzione catartica attraverso la bellezza, didascalica attraverso i contenuti, utilitarista attraverso la struttura» [42]. La funzione dell’arte è, dunque, molteplice: catartica in virtù della bellezza, didascalica attraverso i contenuti e utilitaristica per la struttura. Si tratta di u n t r i p l i c e o rd i n e d i > i n a l i t à : l a c a t a r s i , l’insegnamento e l’utilità. A queste >inalità generiche, si aggiungono le >inalità speci>iche dell’arte sacra: le celebrazioni rituali, la catechesi biblica, il ruolo apologetico [43].

Bibliografia e note 1.

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10. 11. 12. 13.

14. 15. 16. 17. 18. 19. 20.

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Per quanto segue, cfr. R. PAPA, L’autenticità dell’opera. La filosofia dell’arte di Carlo Chenis, Ladolfi editore, Borgomanero 2016. Pareyson L., Estetica. Teoria della Formatività, Milano, Bompiani, 1988, p. 15. La distinzione tra estetica e filosofia dell’arte, inoltre, è estranea alla riflessione magisteriale sull’arte sacra, come Chenis stesso pone in evidenza: «Tralasciando la dibattuta questione riguardante la differenza tra estetica e filosofia dell’arte, perché non è desumibile dai documenti magisteriali» Chenis C., Fondamenti teorici dell’arte sacra. Magistero post-conciliare, Roma, LAS, 1991, p. 82. Pareyson L., Estetica, op.cit., p. 9. Chenis C., Il concetto di “autenticità” negli interventi sui manufatti artistici. Prospettiva teoretica, in Basile G. (Ed.), I restauri di Assisi. La realtà dell’utopia. Atti del I Convegno Internazionale di Primavera sul Restauro (supplemento Kermes Quaderni 47), Firenze, Cardini, 2002, p. 9. Ibid. Ivi, p. 10. Ibid. Ibid. Chenis sottolinea la considerazione dell’aspetto materiale dell’opera, anche nell’ambito dell’arte sacra: «Compito specifico di un’indagine riflessa, che definisca il bello nell’ambito del sacro, sarà anzitutto connotare gli elementi costitutivi dell’opera d’arte: intuizione estetica, materia e forma, attributi essenziali» Chenis C., Fondamenti, op. cit., p. 82. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. Ibid. Ibid. Per il concetto di tradizione in prospettiva ermeneutica, cfr. Gadamer HG., Verità e Metodo, Milano, Bompiani, 2010 (pubblicato per la prima volta nel 1960) e Pareyson L., Verità e interpretazione, Milano, Mursia, 1971. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. Ibid. Ibid. Pareyson L., Estetica, op. cit., p. 7 Ivi, p. 275. Ivi, pp. 59-60. Ivi, p. 60.

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L’opera d’arte, nella prospettiva della causa, svela se stessa: composizione di sostanze ilemor>iche, opera di un uomo che agisce animato da un >ine propriamente umano, aperto verso il soprannaturale.

21. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 11. «La bellezza ha una sua intrinseca intelligibilità, poiché è splendore della forma sostanziale» (Chenis C., Dal bello sensibile al Sommo-Bello. Conoscenza e fruizione dell’ineffabile divino nella mens della Chiesa, in Congiunti L. (a cura di), L’audacia della ragione. Riflessioni sulla teologia filosofica di Francesca Rivetti Barbò, Roma, Hortus Conclusus 2000, p. 35. 22. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. 23. Ibid. 24. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. 25. Su questa tematica, cfr. Lobato A., Essere e bellezza, Latina, Assessorato alla Cultura, 1996. 26. Cfr. Maritain J., Arte e scolastica, Brescia, Morcelliana, 1979, n. 66, pp. 129-130. 27. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 11. 28. Ivi, pp. 7-8. 29. Ibid. 30. Ibid. 31. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 11. Nella frase, cita Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 5, a. 4 ad 1. 32. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., pp. 11-12. Nella frase, cita Agostino di Ippona, De vera religione, XLI, 77. 33. Platone, Simposio, 206 A (trad. it. a cura di Matteo Nucci, Torino, Einaudi, 2009). 34. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 12. 35. Ibid. 36. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, n. 1. 37. Ibid. 38. Ibid. 39. Ibid. 40. Ivi, p. 13. 41. Ibid. 42. Ibid. 43. Chenis C., Il concetto di “autenticità”, op. cit., p. 10. Nel passaggio citato, Chenis fa riferimento a PAOLO VI, Omelia Solenne rito in San Pietro a solenne conclusione del quinto centenario della nascita di Michelangelo,29 febbraio 1976, e a Giovanni Paolo II, Allocuzione ai Partecipanti al Convegno Nazionale Italiano di Arte Sacra. L’artista è mediatore tra il vangelo e la vita, 27 aprile 1981.

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Cultura

SULLE ROTTE DI ULISSE L’invenzione della geogra7ia omerica Pinella Laudani*

Figura 1. Arnold Böcklin (1827 - 1901). Ulisse e Polifemo, 1896, collezione privata.

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a mostra intitolata Ulisse, l’arte il mito, aperta -ino al prossimo 21 giugno 2020 [1], espone nell’ex chiesa di San Giacomo, collocata accanto i Musei San Domenico di Forlì, reperti d’eccezione tra i quali eccellono gli ottantasei lingotti di oricalco e parte della nave greca, tutti appartenenti al Museo Archeologico di Gela. Attraverso copiosità di reperti e di opere d’arte, la mostra racconterà il mito di Ulisse che nel corso dei millenni ha in-luenzato non solo la cultura mediterranea ma anche la “cultura” tout court di tutti i tempi. Infatti, oltre a rappresentare un tipo d’interesse letterario e storiogra-ico, il mito del Re di Itaca è stato -in dall’antichità, -ino ai giorni nostri, una fonte d’ispirazione artistica che ha da sempre affascinato la cultura occidentale. Ulisse, il cui vero nome era Odisseo (che in greco signi-ica “colui che è odiato”) ha incarnato lo spirito dell’homo faber ipsius fortunae nei secoli e il suo mito è stato presente nelle tante correnti artistiche e letterarie ed è stato modello culturale degli scrittori delle varie correnti letterarie -ino alla cinematogra-ia contemporanea: l’Inferno di Dante, la Gerusalemme

liberata di Tasso, il Moby Dick di Melville, e l’Ulysses di Joyce e 2001: Odissea nello spazio (il -ilm di Stanely Kubrick). Per questo motivo, la mostra raccoglie opere di grande pregio che appartengono alla prima e più famosa colonizzazione dell’antichità e che incarna il mito di Ulisse: la Magna Grecia. Furono gli Eubei di Calcide e di Eretria i più antichi esploratori delle rotte mediterranee; marinai, mercanti, coloni, che, procedendo da oriente verso occidente, si spinsero -ino alle acque degli empori atlantici, superando, presso Gibilterra, le mitiche colonne di Ercole. Il mondo della grecità arcaica, resta tutto su quella memoria dell’Odissea che è nella ‘bisaccia’ di ogni navigante e poi colonizzatore di città. Il dato davvero più rilevante è costatare che la codi-icazione della geogra-ia dell’Odissea era de-initivamente compiuta, già da prima, e su più scenari mediterranei, nella seconda metà delI’VIII secolo a.C., nella stagione cioè ⎼⎼ con Cuma e con Naxos ⎼⎼ delle prime fondazioni coloniali elleniche sia in Italia sia in Sicilia.

*Archeologo, Ricercatore associato presso Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Fa parte del comitato scienti>ico della mostra Ulisse, l’arte il mito.

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Cultura

Tale codi-icazione resterà sostanzialmente immobile -ino alla tarda età ellenistica, quando i Romani, vinta Cartagine, si proietteranno su rotte atlantiche, anche nuovamente riciclando l’eterna leggenda dell’eroe navigatore. Tuttavia è l’Odissea a consentirci di comprendere, più di ogni altra opera o testimonianza, il mondo, l’ambiente, l’esperienza tecnica e l’ansia esistenziale che l’uomo greco ha sviluppato grazie alle sue avventure trasmarine. Ulisse diviene, dunque, il modello di riferimento del navigante ellenico amante e conoscitore della vita marinara che tempra l’ingegnosità e che gli permette di ottenere mezzi di sussistenza anche nelle estreme dif-icoltà. Tipica dello spirito ellenico è, infatti, la tendenza a sopperire con la tecnica alla povertà dei doni offerti dalla natura. Questa mentalità, acquisita con la padronanza del mare, consente all’uomo greco di insediarsi in terre lontane, ricreandovi delle proiezioni della patria d’origine. Anche l’assetto geogra-ico della terra ellenica contribuisce a temprare l’uomo greco, fornendogli la capacità di adattarsi ai luoghi che andrà a colonizzare. Nel mondo antico il mercante, come del resto Ulisse, è anche un esploratore, che sosta in terre molto lontane ed è sempre proteso al ritorno (nostos): nonostante che in ogni porto ci sia una donna che si innamora di lui, l’eroe persegue la meta della casa e dei -igli (oikos). La conoscenza del mare da parte del mercante e dell’eroe diventa un motivo di superiorità sulle genti che abitano il continente: non a caso Ulisse de-inisce i Ciclopi rozzi, in quanto non conoscono il mondo del mare e della navigazione e l’indovino Tiresia dirà ad Ulisse che il suo ultimo viaggio per terra avrà luogo in un altro mondo, in cui non si conoscono il mare, il remo, il sale. Le società che non hanno padronanza e conoscenza dell’arte marittima sono, dunque, destinate all’isolamento. Ulisse mercante/colono diventa il prototipo dell’uomo moderno che, nonostante la solitudine del viaggio e la paura dell’ignoto, punta al miglioramento di sé attraverso il sapere geogra-ico, la conoscenza delle rotte percorribili, l’esperienza di temerari piloti e la spinta all’espansionismo trasmarino. La nave di Gela e il suo carico A Gela, importante porto marinaro dell'antica Grecia, con-luivano le merci pregiate provenienti dai mercati dell'Egeo e dell'Attica e proprio a Gela giunse in quel

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tempo una nave greca, la quale, forse per le cattive condizioni meteomarine, affondò davanti alle sue coste. La scoperta del relitto risale al 1988, e si deve a due subacquei locali, Gianni Occhipinti e Gino Morteo. Una lunga indagine archeologica durata circa 20 anni h a p o r t a t o a l l a l u c e l a s t r u t t u r a l i g n e a dell’imbarcazione, il carico trasportato, e, frattanto, si sono stabilite strategie di recupero, restauro e musealizzazione. Dopo quasi 3.000 anni, l'imbarcazione è stata individuata a 800 metri dalla costa, nel tratto di mare antistante l'emporio antico di Bosco Littorio. Con diverse campagne di scavo subacqueo è stato possibile recuperare la merce trasportata a bordo,

Figura 2. La nave di Gela dopo il restauro

ma anche studiare le caratteristiche strutturali di una nave mercantile, una delle poche, in così buono stato di conservazione, ritrovate nelle acque del Mediterraneo. Dopo il recupero, le delicate strutture lignee sono state trasferite nel laboratorio Portsmouth, in Inghilterra, e sottoposte al trattamento di restauro, utilizzando il metodo del PEG [2]. Dagli studi effettuati si è stabilito che l’imbarcazione naufragò a soli 800 metri dalla costa, prima di scaricare le merci nelle piccole botteghe, che dal porto, ubicato presso la foce del -iume Gelas, arrivavano -ino alla località attualmente conosciuta con il nome di Bosco Littorio, dove è stata scoperta un’ampia porzione dell’insediamento commerciale. Dall’esame dei reperti che compongono il carico sembra che il naufragio sia avvenuto intorno al 480 a.C., probabilmente per un mutamento delle condizioni meteo-marine, che impedirono alla nave di raggiungere il porto di Gela. Il mercantile, che giaceva in una profondità di 5-6 metri, è un veliero dalla forma larga e tozza, che misura circa 20 metri di lunghezza, e quasi 7 metri di larghezza, realizzato

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Cultura

Figura 3. La nave di Gela dopo il restauro

nella tecnica a “guscio”, con una struttura portante esterna costituita da un fasciame di tavole in pino chiaro. Le tavole erano legate da corde vegetali, passanti entro fori, e connesse mediante parti lignee cilindriche, poste ad intervalli regolari. La tecnica a “guscio”, e “l’uso delle cuciture” erano conosciute -in dai tempi del faraone Cheope (III millennio a.C.). Le tracce di tessuto rinvenute in corrispondenza delle giunture delle tavole e il rivestimento interno di pece avevano lo scopo di impermeabilizzare lo scafo, forse protetto esternamente da lamine di piombo. La nave trasportava un carico costituito da beni di pregio (ceramica attica -igurata e a vernice nera, ceramica laconica, oggetti in bronzo, e, inoltre, anfore vinarie e olearie) e da una grande quantità di vasi di produzione coloniale, la cui presenza consente di ipotizzare che il mercantile navigasse soprattutto lungo brevi tratti della costa siciliana e della Magna Grecia, effettuando numerosi scali nei vari empori, dove si svolgevano le operazioni di scarico e di carico della merce o della zavorra, utile a riequilibrare il peso della nave, come dimostrano le numerose pietre ritrovate sul relitto. Altri oggetti offrono interessanti informazioni sulla vita di bordo: 8 cestini in -ibra vegetale, con manico in legno, contenenti probabilmente derrate alimentari, erano destinati alla vendita, ovvero all’alimentazione dell’equipaggio, cui erano riservati i buoi, macellati e in quarti, trasportati a bordo, dei quali sono stati individuati i resti delle carcasse.

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Un amo e una fuseruola -ittile da rete dimostrano che i marinai si cibavano anche di pesce, mentre le olle da cucina, le ciotole, le brocche e le lucerne con ampie tracce di combustione erano gli altri oggetti della vita quotidiana. Uno zufolo -ittile serviva probabilmente ad impartire ordini ai marinai durante il corso della navigazione. Alle pratiche di culto che si svolgevano durante la navigazione, come ricordano Omero e Tucidite, potrebbero essere ricondotti 4 arule -ittili a decorazione dipinta, un cinghialetto -ittile, una statuetta lignea, di cui è stato rinvenuto il braccino, e la statuetta -ittile di divinità seduta. Tra gli ospiti della nave vi erano probabilmente un mercante, cui doveva appartenere uno stilo in osso, destinato ad incidere le tavolette di legno, spalmate di cera, utilizzate per redigere il giornale di bordo, e un personaggio di ceto elevato, forse proprietario di una -ibula di argento ritrovata durante la campagna di scavo.

Note 1. 2.

La chiusura della mostra è stata procrastinata a data da de-inirsi. Il glicole polietilenico (PEG) o ossido di polietilene (PEO) o poliossietilene (POE) è un polimero preparato per polimerizzazione dell'ossido di etilene. Il trattamento con i PEG permette il consolidamento, attraverso diversi bagni, di strutture lignee sommerse per lungo tempo e il loro conseguente mantenimento in zone umide o basse temperature.

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Cultura

L’EDUCAZIONE DEI FIGLI SECONDO ALESSANDRO D’AVENIA Fabrizio Gaetano Verruso*

Figura 1. Calarossa, Terrasini (PA). Alessandro D’Avenia con Vito Provenzano

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ell’occasione agrodolce di un incontro organizzato dall’Associazione “Alumni Segesta”, per comunicare la cessazione delle a t t i v i t à d e l l ’ o m o n i m a R e s i d e n z a universitaria maschile di via Gaetano Daita, ospite d’eccezione è stato un famoso letterato, che conosce e apprezza questa istituzione educativa sin dalla più tenera età. Si tratta di Alessandro D’Avenia, il quale ha trattato il tema delle “Necessità nell’educazione dei giovani”. Ma procediamo con ordine. Luogo dell’incontro è la suggestiva cornice del Centro internazionale di Calarossa, a Terrasini. Il saluto iniziale è stato portato dal presidente dell’Associazione “Alumni Segesta”,

Vito Provenzano. La Segesta esiste a Palermo dal 1956. Dal prossimo settembre [2019 ndr] chiude i battenti la storica sede di Palazzo Spadafora, il cui portone è stato varcato nei decenni da migliaia di studenti, professori e professionisti. Provenzano parla del calo della domanda di alloggi universitari per i fuori sede, legato all’esodo crescente degli studenti siciliani verso gli Atenei delle grandi città italiane e straniere, più legati al mondo del lavoro. «Come è noto ⎼⎼ tiene a precisare Ciro Lomonte, Vinora vicedirettore della Residenza ⎼⎼ l’evoluzione delle politiche governative a sostegno dei collegi universitari ha fatto sì che le Residenze dell’ARCES non siano più Vinanziate dal MIUR. Sarebbe difVicile

*Stenografo parlamentare all’Assemblea Regionale Siciliana, si occupa di assistenza al processo verbale delle sedute e attività ispettiva; nel 2005 ha ottenuto a Vienna il titolo di campione mondiale di stenograDia. Svolge attività pubblicistica per iscrizione all’Ordine dei Giornalisti. Questo articolo è stato pubblicato su BlogSicilia.it il 30 agosto 2019.

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Cultura Alessandro D’Avenia (Palermo 1977), terzo di sei Vigli, nel 1990 si iscrive al liceo classico Vittorio Emanuele II di Palermo, dove ha modo di conoscere padre Pino Puglisi, insegnante di religione in quella scuola, da cui è profondamente affascinato. Dopo la maturità, si trasferisce a Roma per frequentare il corso di laurea in lettere classiche alla Sapienza, prima di vincere un dottorato di ricerca a Siena, concluso nel 2004 con una tesi sulle sirene omeriche e la loro relazione con le Muse. Inizia ad insegnare alle scuole medie, poi viene assunto al Collegio San Carlo di Milano. Nel 2006 fonda una compagnia teatrale amatoriale, e frequenta un Master in produzione cinematograVica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2010 cura la sceneggiatura di una serie Disney. Nello stesso anno pubblica il suo primo romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori), che in breve tempo diventa un successo internazionale con più di un milione di copie vendute e traduzioni in venti Paesi. Nel 2011 pubblica il secondo romanzo Cose che nessuno sa (Mondadori), anche questo tradotto all’estero. Dal 2011 collabora con i quotidiani La Stampa e Avvenire. Nel 2013 Rai Cinema produce il Vilm Bianca come il latte, rossa come il sangue, ispirato al primo romanzo. Nel 2014 pubblica Ciò che inferno non è (Mondadori); mentre nel 2016 viene pubblicato il suo primo saggio L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita (Mondadori), che diventa in seguito anche un’opera teatrale. Nel 2017 pubblica Ogni storia è una storia d’amore (Mondadori). Nel 2018 inizia a collaborare con il Corriere della Sera, curando la rubrica Letti da rifare. inoltre coniugare le necessità di ammodernamento della struttura previste dai nuovi decreti ministeriali con i vincoli architettonici di Palazzo Spadafora. La Residenza Segesta non risulta più sostenibile e l’ARCES ha deciso di sospenderne l’attività. Questa è la notizia nuda e cruda, ma sappiamo tutti che la sostanza sono le persone e non le strutture e gli immobili». Infatti, malgrado tutto, le forme di volontariato rese possibili da quanti hanno storicamente operato in Residenza continueranno in un’altra sede, in via Cordova 27, «dando continuità al lavoro di formazione umana e spirituale dei liceali, degli universitari e in generale dei giovani e delle loro famiglie». Quella che viene interrotta è la residenzialità, alla quale era legato un modello di educazione conviviale. In questo senso, le attività che avranno luogo dal prossimo settembre saranno incentrate sul sostegno e la formazione dei giovani genitori rispetto alla buona gestione della vita familiare e alla educazione d e i V i g l i , s u p p o r t a n d o l a « c re a z i o n e e i l mantenimento di ambienti dove i ragazzi possano crescere e maturare in modo positivo», prosegue inVine Vito Provenzano. Sul tema dell’educazione dei Vigli, di grande interesse (come nelle attese) è il contributo di Alessandro D’Avenia, palermitano, docente, sceneggiatore e scrittore (al suo attivo anche cinque best seller editi per Mondadori). D’Avenia incanta gli intervenuti, com’è nel suo stile, parlando di giovani, da sempre

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fortemente ripresi nei giudizi delle generazioni che li hanno preceduti. In questa ripetizione, che “di nuovo” si ripercorre nella storia generazionale contemporanea, invita proprio a riVlettere su come l’espressione “di nuovo” racchiuda la “diversità nella ripetizione”, la novità nell’iterazione di cui si rende magistralmente interprete persino la Natura in ogni tramonto! E per quanti avessero atteso nel contributo di D’Avenia possibili ricette intorno al tema dell’educazione della prole, ecco l’avvertimento dell’angelico scrittore dai riccioli d’oro: «in educazione non ci sono soluzioni: dobbiamo chiederci semmai se stiamo lasciandoci educare. La prima necessità, infatti, è educare se stessi». Perché non serve costringere i Vigli dentro modelli costanti e frustranti di regole: «essere ispirati nell’educazione non signiVica essere geniali: il senso della vita ⎼⎼ prosegue D’Avenia ⎼⎼ è crescere nel dono di sé, aiutando chi ci sta intorno (e se stessi) a coltivare il desiderio di vivere, giammai la paura di morire». E naturalmente, per i Vigli, non può esistere altro che la «relazione genitoriale, non conoscono le basi della vita che non sia la qualità della relazione tra i genitori, con la certezza per costoro che non si è genitori perfetti ma si resta certamente i migliori genitori possibili che possano essere capitati ai nostri stessi Vigli!». A chi scrive piace correlare l’intervento di D’Avenia a uno dei suoi molteplici scritti per la rubrica del Corriere della Sera Letti da rifare. In Latte, sangue e

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Cultura

Figura 2. Calarossa, Terrasini (PA). Foto di Ignazio Nocera.

cioccolatini (n. 47 dell’11 febbraio scorso), il tema dell’educazione è così restituito al lettore: «Educare è introdurre alla realtà»: qui, nella consegna proposta da D’Avenia, il letto da rifare, nella ricorrenza di San Valentino, «è stilare due liste (latte/sangue): da chi

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riceviamo e a chi diamo la vita? Se un nome coincide, quella relazione ha creato il circolo virtuoso dell’amore “eterno”. I genitori possono farlo con i Vigli, aiutandoli a riVlettere su cosa signiVichi amare».

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Apotheca & Storia

BREVE STORIA DELLA DISINFEZIONE E DEI DISINFETTANTI Giusi Sanci*

L

a possibilità che si potessero circoscrivere, se non prevenire, le grandi epidemie con una boni6ica di tutto quanto fosse a contatto con il malato, era un principio intuitivo attuato ben prima della scoperta dei microbi. Con la teoria dei “miasmi", secondo la quale dai corpi degli ammalati venivano emanate sostanze, che contaminando tutt'intorno erano responsabili del contagio, anche la n o r m a t i v a p u b b l i c a a g i v a d i conseguenza: nelle piazze e negli incroci, si disponevano bracieri in cui erano bruciate sostanze aromatiche (resine di pino o zolfo) o maleodoranti (sterco, peli e corna di bovino), per puri6icare l'aria e disperdere i miasmi. Le abitazioni dei malati venivano trattate invece lasciando porte e 6inestre aperte per una decina di giorni, lavando i pavimenti con aceto, e imbiancando le pareti con calce; indumenti e masserizie venivano bolliti con liscivia e allume di rocca, lasciati sotto acqua corrente per 5-6 giorni e poi esposti al sole per due settimane. Un ulteriore passo avanti, nei mezzi utilizzati nella lotta alle malattie infettive, si ebbe grazie ai progressi compiuti dalla chimica nel XIX secolo. Il chimico francese L. Guyton de Morveau nel 1806 descrisse un nuovo metodo per combattere i miasmi dissolti nell'aria, grazie all'utilizzo dei vapori di cloro. Altro preziosissimo contributo venne da Agostino Bassi (1773-1856) che individuò l'azione attenuante esercitata dal sole sui microbi e l'effetto sterilizzante della sola acqua in ebollizione. Con il 1800 si assiste alla nascita della microbiologia: le scoperte di Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910)

hanno 6inalmente fatto cadere le fantasiose teorie del passato sulla eziologia di molte malattie infettive: non più miasmi, ma microrganismi ben identi6icabili e aggredibili. Disinfettanti e antisettici ancora usati ai giorni nostri furono inventati e utilizzati su larga scala negli anni

*Farmacista

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della Prima Guerra Mondiale, infatti ad uccidere i soldati, più delle ferite riportate, erano le infezioni. In quegli anni nacquero e vennero utilizzati i primi disinfettanti antibatterici che, se non potevano curare le infezioni, fornivano però una garanzia in più di evitare le gravi complicazioni della contaminazione delle ferite e probabilmente abbatterono in qualche misura la mortalità. La prima forma di medicazione fu la cosiddetta soluzione di Dakin-Carrel. Henry Dakin era un chimico americano che aveva messo a punto una soluzione a base di ipoclorito di sodio e acido borico. L'ipoclorito di sodio ha un elevato potere antisettico, ma la sua composizione è instabile e in più ha un effetto irritante. Dakin riuscì ad ottenere un derivato stabile e privo di causticità, neutralizzandolo con acido borico. Carrel, biologo e chirurgo francese, iniziò ad utilizzarlo per le medicazioni durante la chirurgia, anche se una grande diffusione avvenne negli anni della guerra proprio per gli interventi sui soldati feriti in battaglia. Un altro fra i primi disinfettanti ad essere utilizzato fu la tintura di iodio. Inventata nel 1908 dal medico istriano Antonio Grossich, venne utilizzata per la prima volta nel 1911-12 durante la guerra italo-turca. Il metodo di applicare la tintura per sterilizzare il campo operatorio una decina di minuti prima dell'intervento, e poi ancora dopo l'anestesia e alla conclusione, dopo i punti di sutura, contribuì probabilmente a salvare molte vite. La disinfezione ha posto rimedio ai drammi provocati in passato dalle infezioni: basti pensare alle gravi epidemie dovute alla peste, al colera, alla febbre gialla, ecc. Ancora nella prima metà dell'Ottocento la suppurazione delle ferite rendeva vani interventi chirurgici ben riusciti. A metà del 1800 la "febbre

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puerperale” uccideva migliaia di puerpere, soprattutto nei grandi ospedali. Fu Semmelweis a supporre che la malattia fosse provocata dagli stessi medici e studenti, quando spesso visitavano le pazienti dopo aver fatto pratica di dissezione dei cadaveri. Egli ordinò che tutte le persone del suo reparto si lavassero bene le mani con una soluzione disinfettante (cloruro di calcio) prima di qualsiasi contatto con le pazienti. Tale direttiva portò ad una drastica riduzione dei decessi. Successivamente, nel 1894, un chirurgo inglese, J. Lister introdusse nel suo reparto di chirurgia l'obbligo dell'uso sistematico di acido fenico; lo faceva spruzzare nell'ambiente e spargere sulla cute del malato, sulle mani dei chirurghi e sui teli del lettino operatorio. Gli apparecchi per sterilizzare gli ambienti erano molto simili ai nebulizzatori utilizzati per inalare i medicamenti; erano molto più grossi, alti circa 35 cm, avevano un fornello ad alcool con 6iamma regolabile e con una caldaia per l’acqua, a questa erano collegati due erogatori orientabili da cui usciva l'acido fenico nebulizzato misto a vapore acqueo. Semmelweis e Lister furono i primi a registrare una diminuzione degli indici di mortalità da infezione ospedaliera postoperatoria nei loro reparti. Da allora, la lotta contro i microrganismi patogeni attraverso l'uso di disinfettanti ha ottenuto risultati sempre più sicuri ed ef6icaci. Ricordiamo di seguito le principali classi di disinfettanti utilizzate. Acido fenico (o fenolo). Si tratta di un composto aromatico derivato dal benzene. Il fenolo agisce sulla cellula batterica facendone precipitare la

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abbia un potere antisettico di minore ef6icacia, risulta più facilmente gestibile. Cloro e derivati. I disinfettanti a base di cloro fecero la loro comparsa nel 1916, durante la guerra di Verdun, con la cosiddetta soluzione di Dakin-Carrel, costitiuta da una soluzione acquosa di ipoclorito di sodio allo 0,45-0,50%. L'ipoclorito di sodio è il sale sodico dell'acido ipocloroso la cui formula di struttura risulta essere NaClO. Ha un elevato potere antisettico, ma la sua composizione è instabile e in aggiunta ha un effetto irritante. Dakin riusci ad ottenere un derivato stabile e non corrosivo neutralizzandolo con l'acido borico.

componente proteica della parete, e causandone la distruzione. Utilizzato come disinfettante ambientale 6ino agli anni ’50-60 è stato abbandonato soprattutto per la sua tossicità. Nel 1867 il medico inglese J. Lister aveva intuito l'importanza di disinfettare sia le ferite sia gli strumenti chirurgici. A tale scopo aveva elaborato una soluzione di acido fenico, che tuttavia risultava piuttosto irritante e tossica per il corpo umano. Lister cercò allora di attenuare questo effetto collaterale diluendo l'acido fenico sia in acqua che in olio. La soluzione acquosa serviva per la disinfezione iniziale delle ferite, mentre quella oleosa veniva applicata successivamente perché più duratura. L'acido fenico venne da allora utilizzato per nebulizzazione per preparare gli ambienti operatori, per lavare gli strumenti chirurgici e le mani dei chirurghi, che cominceranno ad utilizzare inoltre indumenti più puliti e adatti.

Alcoli. Il più usato è l'acool etilico. Hanno il vantaggio di esplicare la loro azione e poi evaporare rapidamente senza lasciare residui. Tuttavia non sono adeguati a disinfettare le ferite perché denaturano le proteine esposte e formano uno strato al di sotto del quale i microrganismi possono continuare a proliferare. Sono adatti però per una disinfezione super6iciale, come ad esempio le mani, per materiali e super6ici. L'acool etilico insieme all'alcool isopropilico è più ef6icace diluito in acqua (tra il 70-90%) che puro in quanto il meccanismo di denaturazione delle proteine per avvenire ha bisogno di acqua. Perossido di idrogeno (acqua ossigenata). Composto noto 6in dagli inizi dell'Ottocento, fu preparata per la prima volta da A. Thenard nel 1818. L'attività germicida è riferibile allo sviluppo di ossigeno a contatto con i tessuti. Ha una forte attività contro il bacillo del tetano, non lede i tessuti ed ha una blanda azione antiemorragica. È quindi indicata in emergenza per la pulizia e la detersione di ferite cutanee.

Bibliografia e sitografia 1.

Tintura di iodio. La sua scoperta è dovuta al medico italiano Antonio Grossich. Questa composizione, al contrario dell'acido fenico, era del tutto tollerabile sulla cute e possedeva un altissimo potere antibatterico, motivo per cui è stata utilizzata 6ino a tutti gli anni ’60 in ospedale e in sala operatoria. A causa però delle frequenti allergie dei pazienti, nonché per la cautela necessaria alla sua conservazione, è stata sostituita dai derivati organici dello iodio (come lo iodopovidone) che, sebbene

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2. 3.

4. 5.

Cfr. Scotto G., Globalizzazione e malattie infettive: tra passato e futuro. Le infezioni in medicina, Vol. 19, Issue 1, 2011, pp 56 - 61. Cfr. Grande Enciclopedia. Istituto Geogra6ico de Agostini. Novara 1972, Vol. VIII, pag. 397. Cfr. De Luca E., Disinfezione. In Universo del corpo, 1999, I s t i t u t o d e l l a E n c i c l o p e d i a I t a l i a n a : h t t p : / / www.treccani.it/enciclopedia/disinfezione_%28Universodel-Corpo%29/ Cfr. Solomons TWG., Chimica organica. Zanichelli, II ed. italiana 1988, p. 422 e p. 605. https://www.focus.it/scienza/salute/quando-la-tinturadi-iodio-salvava-i-soldati

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