Economia circolare dalle origini alle prospettive per il futuro

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELL’INSUBRIA DIPARTIMENTO DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E MANAGEMENT

Economia circolare: dalle origini alle prospettive per il futuro

Tesi di Laurea di: Lavinia Elettra Reggiani Matricola Nr. 730223

Relatore: Prof. Lelio Demichelis

Anno Accademico 2019/2020 1


Indice Introduzione....................................................................................................................................................... 3 Capitolo 1 - Che cos’è l’economia circolare ..................................................................................................... 5 1.1 Definizione di economia circolare ............................................................................................................... 5 1.2 Come e quando nasce il concetto di economia circolare ............................................................................. 8 1.3 Principi e obiettivi ..................................................................................................................................... 14 1.4 Il passaggio da un’economia lineare a una circolare ................................................................................. 16 Capitolo 2 - La situazione ambientale attuale ................................................................................................. 19 2.1 Il deterioramento ambientale e sociale ...................................................................................................... 19 2.2 Il limite delle risorse della Terra ................................................................................................................ 22 2.3 Il problema dei rifiuti e la sovrabbondanza della plastica ......................................................................... 24 2.4 Il cambiamento climatico e i suoi negazionisti.......................................................................................... 28 2.5 Il legame tra distruzione delle foreste ed epidemia Covid-19 ................................................................... 31 Capitolo 3 - Verso uno sviluppo qualitativo della vita .................................................................................... 34 3.1 Il Green New Deal ..................................................................................................................................... 34 3.2 L’indicatore di Benessere Equo e Sostenibile (BES) ................................................................................ 37 3.3 Il ruolo della finanza per la tutela dell'ambiente........................................................................................ 41 3.4 La responsabilità sociale e ambientale delle imprese ................................................................................ 44 3.5 Il greenwashing e l’illusione verde ........................................................................................................... 45 3.6 La responsabilità individuale ..................................................................................................................... 52 Conclusione ..................................................................................................................................................... 57 Bibliografia ...................................................................................................................................................... 60 Filmografia ...................................................................................................................................................... 61 Sitografia ......................................................................................................................................................... 61

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Introduzione Alla base di questo elaborato vi è l’analisi dell’economia circolare, un sistema in grado di realizzare uno sviluppo sostenibile per la nostra società. Alla fine del secondo millennio si è preso coscienza del fatto che le risorse del pianeta sono limitate e quindi destinate ad esaurirsi, ma anche del fatto che un’economia basata sull’accrescimento infinito di produzione e consumo confligge con i limiti fisici della Terra. Quindi si dovrebbe ridurre l’inquinamento causato dal sistema produttivo che ha caratterizzato gli ultimi due secoli e preservare le risorse del pianeta, realizzando nuovi beni dagli scarti. Le risorse naturali, una volta utilizzate, dovrebbero ritornare nell’ambiente seguendo un moto circolare. L’obiettivo dell’economia circolare è quello di conseguire uno sviluppo sostenibile in grado di diminuire i danni al sistema naturale e che permetta alle generazioni future di soddisfare i propri bisogni con le stesse opportunità che abbiamo noi. Le motivazioni che mi hanno spinto ad approfondire questo tema sono principalmente legate al mio amore per la natura. Mi sono resa conto che la luce del sole, i fiori, i prati, gli uccelli che cantano e il rumore delle onde del mare sono tutti elementi che mi permettono di vivere bene. Durante gli ultimi anni, ho avuto l’opportunità di visitare i paesi della Scandinavia dove la natura emerge imperiosa e quasi incontaminata. Ho attraversato boschi sconfinati, camminato su spiagge deserte e fatto il bagno in acque limpidissime. Questi posti mi hanno fatto capire quanto la natura sia un bene prezioso e necessario per l’uomo. Mentre nei luoghi in cui ci sono molte fabbriche e grandi insediamenti umani, l’ambiente è spesso minacciato dal modello economico lineare, che sfrutta in modo massiccio le risorse e inquina il pianeta. Gran parte della società di oggi è basata sul consumismo e sul cosiddetto feticismo per il nuovo. Produciamo e compriamo più di quanto abbiamo bisogno seguendo il paradigma “prendi-usa-butta”. Le nostre case sono piene di oggetti superflui che, durante la loro produzione, hanno consumato energia e materie prime e, quando finiranno in discarica, inquineranno l’ambiente. Attualmente ci troviamo in un periodo storico in cui la quantità e la densità della popolazione sono in continua crescita e lo stile di vita è sempre più frenetico. Questa velocità imposta alle azioni umane dal sistema lineare contrasta con i ritmi naturali dell’evoluzione biologica. La Terra non potrà soddisfare per l’eternità, con le risorse esistenti, un numero infinito di persone, garantendo a tutti salute e benessere. Nel 2019 abbiamo sentito parlare la giovane attivista svedese Greta Thunberg, che voleva, e ancora vuole, sensibilizzare il mondo alla lotta contro il cambiamento climatico attraverso le campagne Save the Planet e i Friday for the Future e sulla stampa apparivano gli slogan “There is no planet B”, “la terra brucia” e “non c’è più tempo”. 3


Quindi con la mia ricerca ho voluto approfondire quanto il pianeta sia effettivamente in pericolo. Ho cercato di capire cosa possiamo fare noi abitanti delle zone più popolose ed economicamente avanzate per arginare il degrado ambientale e sociale. Ho analizzato le teorie dell’economia circolare per vedere quali potrebbero essere i comportamenti virtuosi da adottare sia a livello macroeconomico sia a livello dei singoli individui. Attraverso l’analisi dei manifesti delle politiche ambientali delle maggiori organizzazioni internazionali sono venuta a conoscenza della politica delle aziende green, della finanza sostenibile e delle proposte di istituti di ricerca in tema di energie rinnovabili e riciclo dei materiali. Dalle notizie sui giornali e dai social network mi era sembrato che il cambiamento climatico fosse un’emergenza recente; invece ho letto su libri e documenti che si è iniziato a parlare di ecologia già nella seconda metà del secolo scorso. Il primo ad immaginare un sistema economico chiuso fu Kenneth Ewart Boulding nell’articolo “The Economics of the Coming Spaceship Earth” del 1966, nel quale paragona la Terra ad una navicella spaziale in cui le risorse sono limitate e lo spazio per gettare i rifiuti è ridotto. Successivamente, negli anni Settanta, Nicholas Georgescu-Roegen, considerato precursore della moderna economia ecologica, ha elaborato la teoria della “bioeconomia”, un sistema sostenibile dal punto di vista sia ecologico che sociale. Lo scopo di questo scritto è spiegare che, nonostante i dubbi e le idee contrastanti riguardo al cambiamento climatico, tutti i giorni dobbiamo rispettare il pianeta e i suoi esseri viventi. Per il bene degli animali, della vegetazione e dell’umanità, non dobbiamo alterare e inquinare gli ecosistemi. Il mio desiderio è che tutti possano comprendere l’importanza del preservare la natura e le sue risorse. I miei genitori spesso mi raccontano com’era il territorio quarant’anni fa e com’è cambiato nel tempo. Oggi non ci sono più i grandi prati attorno a casa, ma si vedono sempre più costruzioni, auto e cemento. Mi chiedo come sarà la vita tra dieci, venti e trent’anni. Se ci saranno ancora i bei paesaggi oppure se dovrò raccontare alle generazioni future com’erano i laghi e i ghiacciai di oggi. Il mio invito è quello di agire quotidianamente per la salute del pianeta e del prossimo. Nella conclusione ho raggruppato semplici azioni per vivere in modo più sostenibile e attento nei confronti dell’ambiente. Sono ottimista, in quanto penso che l’umanità saprà trovare buone soluzioni per svilupparsi in modo sostenibile e vivere in modo più tranquillo e sereno.

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Capitolo 1 - Che cos’è l’economia circolare 1.1 Definizione di economia circolare Sempre più spesso sentiamo parlare di “economia circolare”. Ma di cosa si tratta? “È un’economia progettata per auto-rigenerarsi, i cui flussi di materiali si suddividono in due tipologie: rifiuti di origine biologica, in grado di essere reintegrati nella biosfera; e quelli tecnici, che devono essere progettati per essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera.” 1 Questa è la definizione della Ellen MacArthur Foundation, un’organizzazione americana che sostiene persone e istituzioni impegnate a costruire un mondo più giusto, verde e pacifico, investendo su programmi di economia circolare. Ponendosi come alternativa al classico modello lineare, questo nuovo sistema intende promuovere una concezione diversa di produzione e utilizzo di beni e servizi, in contrasto con il consumismo. I principi su cui si basa sono tre: ridurre, riusare e riciclare. Ridurre gli sprechi di materie prime, gli imballaggi e le merci che vengono buttate via. Riusare quello che viene accantonato, cioè revisionarlo e reintrodurlo nei cicli di produzione, allungandone così la vita. Riciclare gli scarti non utilizzabili e i rifiuti, in modo tale da recuperare i materiali, per creare nuovi prodotti, evitando la dispersione di risorse e riducendo la quantità complessiva di spazzatura destinata alle discariche.2 Si tratta di tre aspetti – che riprendono e richiamano le culture ecologiste degli anni Settanta del ‘900 – intorno ai quali si vorrebbe costruire un nuovo paradigma di sostenibilità, in uno scenario in cui l’inutilizzato si trasforma da problema in risorsa. I rifiuti devono essere reinseriti nei processi, sia in quelli produttivi che in quelli distributivi, rivedendo la logica dello scambio e del consumo. Adottare un approccio circolare significa quindi riorganizzare tutte le fasi del ciclo delle merci, prestando attenzione all’intera filiera. A monte, si vuole gestire le risorse in modo più efficiente, riducendo gli sprechi e mantenendo il più possibile nel tempo il valore dei beni. A valle, occorre evitare che venga smaltito tutto ciò che ancora possiede una qualche utilità, ma recuperarlo e reintrodurlo nel sistema.3 “Questi aspetti costituiscono l’essenza dell’economia circolare, che mira, attraverso l’innovazione tecnologica e una migliore gestione dei materiali, a rendere le attività economiche più efficienti e meno impattanti per l’ambiente”.4

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www.ellenmacarthurfoundation.org W. McCallum (2019), Vivere senza plastica, Harper Collins Italia, Milano 3 http://consultazione-economiacircolare.minambiente.it/sites/default/files/verso-un-nuovo-modello-di-economiacircolare_HR.pdf 4 http://consultazione-economiacircolare.minambiente.it/economia-circolare-principi-obiettivi-0 2

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Ma ovviamente questo non basta, occorre infatti che, a monte dell’economia circolare e per garantire un suo sviluppo, vi sia un profondo ripensamento culturale, etico e dei valori del modello esistente fino ad oggi. Quindi serve una trasformazione dei modelli di marketing e una presa di coscienza dell’esistenza di beni comuni (aria, acqua, ambiente, rete informatica, scuola/istruzione, eccetera), cioè non appropriabili dall’economia privata o non privatizzabili. È necessario che la società adotti un principio di precauzione e soprattutto un principio di responsabilità verso la biosfera e verso le future generazioni. Occorre un mutamento antropologico, un ripensamento generale del modello economico vigente ormai da tre secoli e basato sullo sfruttamento della natura e dell’uomo. Come in natura, dove nulla viene sprecato – ma diventa un elemento nutriente di un altro organismo – lo stesso deve accadere nell’agricoltura e nell’industria, attraverso il riciclo, il riuso, la gestione degli output produttivi e la rigenerazione. Lo scarto deve essere trasformato in “materia prima seconda”. Ma soprattutto deve cambiare il modello basato sull’accrescimento infinito dei profitti privati, dello sfruttamento della biosfera e delle risorse naturali, introducendo il concetto di limite (infra). Anche perché, come la pandemia del 2020 ha dimostrato, esiste un conflitto evidente tra il modello di economia lineare attuale e la biosfera. È stato necessario il lockdown per rivedere acque pulite e cieli tersi. Inoltre, siamo circondati da cose che giacciono abbandonate, che non sono mai state utilizzate o che sono dismesse quando potrebbero essere ancora utili. Ci sono magazzini colmi di macchinari in attesa di essere rottamati. In cantina o in soffitta tutti abbiamo scatoloni pieni di oggetti e vestiti con scarso valore affettivo, comprati e usati magari una sola volta all’anno. È necessario porre fine a questo modo acritico di accumulare. Dobbiamo fermare la morte prematura dei prodotti. Infatti, sebbene il riciclo e il riuso siano strategie fondamentali di recupero, tante volte “condanniamo a morte” – cioè alla dismissione – materia perfettamente sana. Günther Anders, filosofo e scrittore tedesco (1902-1992) conferma che “nell’era della tecnocrazia, i prodotti fabbricati sono destinati a morire, nascono già con il fine di morire. La produzione in serie rende gli oggetti caduchi e transitori, i consumatori sono educati a sfruttare i vecchi prodotti, a consumarli nel più breve tempo possibile, così che questi possano lasciare il posto a nuovi esemplari.”5 Il mercato, l’industria e la pubblicità hanno suscitato il bisogno di consumare e soprattutto di consumare sempre di più, creando addirittura “bisogni non necessari”6. Quindi è il sistema stesso a favorire l’abitudine dell’usa e getta. Normalmente la manutenzione ha costi molto elevati e questo disincentiva la riparazione degli oggetti. Proprio 5 6

G. Anders (2003), L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino L. Demichelis (2017), Sociologia della tecnica e del capitalismo, Franco Angeli, Milano, pag. 128 e segg.

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su questo si basano appunto la produzione e il consumismo. L’obsolescenza programmata è una tecnica di produzione e di stimolo al consumo. Altre volte invece, è la moda o comunque il marketing a dichiarare vecchio, o a far percepire come vecchio, mediante processi di invecchiamento psicologico dei beni7, un vestito, un oggetto di design, un pc o uno smartphone, così che siamo influenzati ad accantonarlo e sostituirlo. Una società basata oggi sul feticismo per il nuovo dovrà trasformarsi in una società basata sulla responsabilità della conservazione e del riutilizzo, del non spreco e del non usa e getta. Ci vorrà una trasformazione antropologica profonda, che deve andare a scardinare processi economici e sociali ormai consolidati. Riparare, fare upgrade, rivedere le pratiche di obsolescenza programmata ed essere fuori dalle mode, sono strategie auspicabili per fermare questo consumismo insensato. E per questo, “Il modello circolare coinvolge le abitudini dei consumatori e si pone come regolatore dei processi manifatturieri delle grandi imprese. È in grado di creare nuovi posti di lavoro e al tempo stesso di ridurre notevolmente la domanda di materie prime vergini”8. La circolarità è essenzialmente la traduzione pratica dell’obiettivo di estendere la vita utile dei prodotti, di produrre beni di lunga durata, di attivare economie di ricondizionamento e di ridurre la produzione di rifiuti. “La Fondazione Ellen MacArthur ha individuato cinque criteri fondamentali che riassumono i principi da seguire per creare una economia circolare: 1) Eco progettazione, ossia progettare i prodotti pensando fin da subito al loro impiego a fine vita, quindi, con caratteristiche che ne permetteranno lo smontaggio o la ristrutturazione. 2) Dare priorità alla modularità, versatilità e adattabilità del prodotto, affinché il suo uso si possa adattare al cambiamento delle condizioni esterne. 3) Affidarsi ad energie prodotte da fonti rinnovabili, favorendo il rapido abbandono del modello energetico basato sui combustibili fossili. 4) Adottare un approccio ecosistemico e pensare in maniera olistica, avendo attenzione per la globalità e considerando le relazioni causa-effetto tra le diverse componenti. 5) Recuperare i materiali in modo tale da favorire la sostituzione delle materie prime vergini con materie prime “seconde” provenienti da filiere di recupero che ne conservino le qualità.”9

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Si rinvia - tra i molti possibili riferimenti critici al mondo del consumismo e della psicologia applicata al consumo e alla manipolazione delle scelte dei consumatori - a V. Packard (2004), I persuasori occulti, Einaudi, Torino 8 http://consultazione-economiacircolare.minambiente.it/sites/default/files/verso-un-nuovo-modello-di-economiacircolare_HR.pdf 9 www.ellenmacarthurfoundation.org

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1.2 Come e quando nasce il concetto di economia circolare Il concetto di economia circolare ha radici profonde e non è riconducibile ad un autore o ad una data precisa. Trarre ispirazione dalla natura e dai suoi processi biologici e rigenerativi è un modello di pensiero che risale a molto tempo fa. Tuttavia, si inizia a parlare di circolarità in modo più specifico nella seconda metà del secolo scorso. “Durante gli anni Sessanta il problema della insostenibilità della crescita economica era nell’aria: vari autori avevano denunciato che l’impoverimento delle risorse naturali (foreste, minerali, acqua, combustibili e fertilità del suolo), la congestione urbana, l’inquinamento dell’aria e delle acque, l’avvelenamento degli esseri umani e degli animali, avevano tutti la loro origine nelle ‘regole’ dell’economia, nella idolatria della crescita del Prodotto interno lordo, nella divinizzazione del possesso di merci e beni materiali.”10 Nel 1966, Kenneth Ewart Boulding (1910-1993, economista e poeta inglese naturalizzato statunitense) presenta, all’interno del suo articolo “The Economics of the Coming Spaceship Earth”, l’idea di una vita circolare dei materiali. La sua teoria parte dal fatto che “gli uomini primitivi e quelli delle civiltà antiche immaginassero di vivere su un piano illimitato” e solo, successivamente, con le spedizioni navali e con l’invenzione dell’aereo, si è arrivati alla conclusione che il globo fosse invece limitato.11 Nell’opera di Boulding si metteva già in risalto il problema che è diventato poi la base dell’idea di economia circolare: quello della limitatezza delle risorse naturali e della incapacità dell’ambiente di assorbire i rifiuti prodotti dal metabolismo industriale. Boulding, considera la Terra una spaceship, ossia una navicella spaziale di dimensioni e risorse limitate, sia per quanto riguarda la possibilità di trovare cibo, acqua e ossigeno, sia per la sua capacità di accogliere rifiuti. Dovremmo comportarci come se abitassimo in un sistema ecologico chiuso, capace di rigenerare continuamente i materiali, usando soltanto un minimo apporto esterno di energia. Le leggi economiche dovrebbero seguire le leggi e i limiti dei processi fisici e biologici. Dopo Kenneth E. Boulding, ci parla di economia sostenibile Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994), economista, matematico e statistico rumeno. 12 Egli elabora la teoria della “bioeconomia”, sostenibile sia dal punto di vista ecologico che dal punto di vista sociale. Si propone di formulare un’economia giusta e compatibile con le leggi fondamentali della natura. Secondo alcuni, è proprio Nicholas Georgescu-Roegen il precursore della moderna economia 10

G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, pag. 104 K. E. Boulding (1966), The Economics of the Coming Spaceship Earth http://natwiss.de/wpcontent/uploads/2017/02/boulding__the_economics_of_spaceship_earth.pdf 12 https://it.wikipedia.org/Nicholas Georgescu-Roegen 11

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ecologica, disciplina che propone un modello di sviluppo che garantisca simultaneamente l’equilibrio economico ed ecologico. Georgescu-Roegen puntualizzava che “la produzione agricola e industriale, così come è praticata secondo le leggi economiche attuali, non può durare a lungo per motivi fisici”13. Egli riteneva che qualsiasi processo necessario per ottenere merci materiali avrebbe diminuito la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità di produrre successivamente altri beni. Nella normale industrializzazione la materia si degrada, ovvero diminuisce la sua possibilità di essere riusata in ulteriori attività economiche. Tale principio, definito “quarto principio della termodinamica” 14, afferma che le sostanze, come l’energia, sono soggette all’entropia. Per questa legge gli elementi si degradano in modo irreversibile, senza essere totalmente riciclati e riutilizzati. Anche qui ritorna il concetto di limitatezza della materia presente sul pianeta. Georgescu-Roegen si è impegnato a spiegare che la crescita economica, con l’aumento continuo di merci prodotte, avrebbe comportato un impoverimento complessivo del pianeta, una diminuzione della quantità di materiali che la Terra avrebbe potuto fornire in futuro. Quindi non è possibile nessuna crescita esponenziale: in ogni caso la crescita economica e materiale è destinata a diminuire perché diminuisce, prima o poi, la quantità di energia e di materia disponibile per gli oggetti necessari ai bisogni, continuamente crescenti, degli esseri umani. Nicholas Georgescu-Roegen pubblica nel 1971 la sua opera principale dal titolo “The Entropy Law and the Economic Process” (La Legge dell’entropia e il processo economico) in cui mette in risalto quali sono stati gli errori dell’economia classica occidentale, riconducibili al grande limite della visione meccanicistica della realtà. Le sue strette implicazioni nella tecnologia e nell’economia sarebbero alla base della crisi ecologica, sociale e politica che genera un rallentamento della crescita. Il fatto che la popolazione non raggiunga un grado di soddisfazione adeguato alle sue necessità basilari, conduce ad un continuo sfruttamento dell’ambiente con un uso e un abuso che va ben oltre le sue disponibilità, fino ad arrivare al limite dell’esaurimento delle risorse. 15 I fondamenti della bioeconomia di Georgescu-Roegen sono di un’attualità sorprendente. Basti pensare all’odierno deterioramento generale delle risorse del pianeta causato dal sistema capitalistico. Le sue teorie sono, ancora oggi, il punto di partenza per tutti coloro che cercano di conciliare l’economia con l’ecologia per raggiungere obiettivi di sostenibilità. La soluzione proposta da Georgescu-Roegen, contenuta nel suo saggio “Energy

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Cit. in G. Nebbia (2020), La terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, p.103 https://it.wikipedia.org/wiki/Bioeconomia 15 “Nicholas Georgescu-Roegen e la teoria della bioeconomia”, Demetra, Biografie, http://www.demetra.org/index.php/biografie/382-nicholas-georgescu-roegen-e-la-teoria-della-bioeconomia 14

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and Economic Myths”16, mette in risalto la necessità di limitare la corsa ad un consumismo sfrenato e l’inutilità degli acquisti di prodotti alla moda o semplicemente superflui. Egli auspica che l’incremento demografico non superi il limite permesso dall’agricoltura biologica e che la collaborazione con i paesi in via di sviluppo sia idonea al raggiungimento di un livello di vita adeguato a tutti. Il risultato delle ricerche di Georgescu-Roegen non è riconducibile, tuttavia, a una società stazionaria. L’economista infatti spiega, con la legge dell’entropia, che una società con popolazione, produzione e consumi costanti non potrebbe durare a lungo. Spiega che la Terra continuerebbe, in ogni caso, a impoverirsi di energia (e di materia) utilizzabile e continuerebbe a diminuire la sua capacità di assorbire, assimilare e disintossicare le scorie del metabolismo industriale e merceologico. Siccome, secondo Georgescu-Roegen, la salvezza non può essere riconducibile ad uno stato stazionario, l’unica possibile condizione ideale proposta è quella in cui produzione e consumi, a livello planetario, diminuiscano. Georgescu-Roegen lancia un messaggio alla popolazione mondiale: “Dovrete abituarvi in un primo tempo ad avere delle automobili più piccole, dei macchinari più razionali, dovrete abituarvi a ricorrere di più e meglio alle risorse rinnovabili dipendenti dal Sole, non tanto dai pannelli solari, quanto piuttosto dalla fotosintesi: foreste e agricoltura razionale potranno soddisfare molti bisogni umani della popolazione mondiale esistente.”17 Questi obiettivi coincidono con i programmi attuali delle maggiori Organizzazioni sovranazionali, pubbliche e private: ONU, UNESCO, Unione europea, Club di Roma, ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives) e IUCN (International Union for Conservation of Nature). Georgescu-Roegen è stato anche uno dei primi autori a pronosticare la contaminazione dell’ambiente e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili, prima ancora della crisi del petrolio del 1973 (e poi del 1979) e della pubblicazione dei “Limiti della crescita” da parte del Club di Roma18 nel 1972. Quest’ultimo rapporto è stato erroneamente tradotto in italiano con “I limiti dello sviluppo”, confondendo due concetti e due processi invece profondamente diversi; la crescita è meramente quantitativa, mentre lo sviluppo punta anche alla qualità dell’ambiente sociale e naturale.

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N. Georgescu-Roegen (1998), Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, con l’Introduzione di G. Nebbia; Id (2002), Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 17 G. Nebbia, Introduzione a Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, cit. 18 Il Club di Roma è un’associazione di scienziati, economisti, imprenditori e manager, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti, fondata nel 1968. La sua missione è ricercare soluzioni alle problematiche che l’umanità si troverà ad affrontare. Aurelio Peccei ne fu uno dei fondatori e certamente il suo esponente di maggiore spicco. Il citato Giorgio Nebbia ne fu uno dei componenti.

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Il Rapporto del Club di Roma “The Limits to Growth” 19, viene pubblicato nel 1972 sulla base di un progetto di ricerca e di previsione a medio-lungo termine affidato a un gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Già nel 1972 si era capito il pericolo di un tasso di crescita esponenziale della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse. Questo trend avrebbe condotto ad un collasso improvviso e incontrollabile della popolazione e della capacità industriale. Secondo il Club di Roma l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di modificare i tassi di sviluppo per giungere nel futuro ad una condizione di stabilità ecologica ed economica. Il Rapporto prediceva che la crescita economica non potesse continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità – appunto e ancora: il concetto di limite – di risorse naturali, specialmente petrolio, e della limitata capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta. Secondo i ricercatori del MIT sarebbe stato necessario intraprendere quanto prima delle azioni correttive per arginare gli effetti negativi dello sviluppo incontrollato. Secondo loro, più tardi si fosse intervenuto, più gravi sarebbero stati i danni sul pianeta. Il rapporto realizzato dal MIT per il Club di Roma produsse immensa attenzione, ma l'essenza del messaggio, cioè la previsione che dopo l'anno 2000 l'umanità si sarebbe scontrata con la scarsità delle risorse naturali, fu rifiutata dai maggiori economisti del tempo. Oggi il Club di Roma continua, nella sede svizzera di Winterthur, la sua storica attività per porre delle fondamenta a lungo termine di un sistema a tutela dell’ambiente economico e sociale. “Fifty years later, there is no doubt that the ecological footprint of humanity substantially exceeds its natural limits every year. The concerns of the Club of Rome have not lost their relevance”20. Nel 1976, Walter Stahel e Genevieve Reday presentano alla Commissione europea un rapporto dal titolo “The Potential for Substituting Manpower for Energy”. Qui delineano la loro visione di un’economia circolare e il suo impatto sulla creazione di posti di lavoro, sul risparmio di risorse e sulla riduzione dei rifiuti. Walter Stahel, nato a Zurigo nel 1946, , è considerato uno dei fondatori dell’economia circolare. Negli anni ha ricoperto posizioni di rilievo all’interno della Commissione europea, ha partecipato a numerosi think-tank e ha scritto importanti libri come “The Performance Economy” e “Economia circolare per tutti”.21

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D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers (1972), I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità, Mondadori, Milano 20 https://clubofrome.org/ 21 https://it.businessinsider.com/walter-stahel-papa-delleconomia-circolare-addio-globalizzazione-e-lora-dellaperformance-economy-chi-lo-capisce-fara-grandi-profitti/

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Mentre nel 1983, le Nazioni Unite hanno creato la World Commission on Environment and Development, nota anche Commissione Brundtland, dal nome della presidente della Commissione, Gro Harlem Brundtland, all’epoca primo ministro norvegese. Il suo scopo era studiare uno sviluppo sostenibile per l’ambiente e la società “necessario a soddisfare i bisogni del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”22. La Commissione Brundtland, nel 1987 pubblica il Rapporto “Our Common Future”, nel quale si precisa che un ambiente degradato e depauperato delle sue risorse non può garantire uno sviluppo durevole e socialmente accettabile del pianeta. Il messaggio finale della Commissione dichiarava che il mondo non era su un sentiero di sviluppo sostenibile e che per assicurare un progresso duraturo si sarebbe dovuto agire su più fronti: economico, sociale, ambientale e istituzionale.23 Il cammino della presa di coscienza globale del problema ambientale passa per una lunga serie di conferenze internazionali. Nel 1992, durante l’Earth Summit delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro, si redigono tre programmi da sviluppare nel futuro. L’Agenda 21 è il primo piano d’azione per il ventunesimo secolo in cui viene precisata l’interrelazione esistente tra ambiente, economia, società e sviluppo. Gli altri programmi sono la Convenzione sui Cambiamenti Climatici e la Convenzione sulla Diversità Biologica. La svolta decisiva però arriva nel 2000 con la Dichiarazione del millennio. Qui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite presenta l’impegno mondiale a far sì che la globalizzazione produca effetti positivi per tutto il pianeta e specialmente per i paesi e le persone più povere. Vengono definiti i cosiddetti Millennium Development Goals (MDGs), otto obiettivi orientati ai Paesi in via di sviluppo da raggiungere entro il 2015. Si vuole sradicare la povertà estrema e la fame, rendere universale l’istruzione primaria, promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne, ridurre la mortalità infantile e quella materna, combattere l’Hiv/Aids, la malaria e altre malattie endemiche, garantire la sostenibilità ambientale e sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.24 Nel 2012 la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, nota anche come Conferenza di Rio+20, si conclude con la dichiarazione "The Future we want"25, che prevede un percorso verso un nuovo accordo globale per lo sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2015 (cioè al termine dei quindici anni previsti dalla Dichiarazione del millennio). Nel trattato 22

Commissione Brundtland (1987), Our Common Future, Oxford University Press E. Giovannini (2018), L’utopia sostenibile, Laterza, Roma-Bari 24 https://www.un.org/millenniumgoals/ 25 https://sustainabledevelopment.un.org/futurewewant.html 23

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si affrontano temi come lo sradicamento della povertà, l'energia, l'acqua, l'igiene, la salute e l'insediamento umano. Il 25 settembre 2015, gli stati dell’Assemblea generale dell’ONU adottano un piano intitolato “Transforming our world: the 2030 agenda for Sustainable Development” corredato da 17 Sustainable Development Goals (SGDs)26 e da 169 target o sotto-obiettivi, nei quali vengono toccati diversi ambiti, che sono fondamentali per assicurare il benessere dell’umanità e del pianeta. Si passa dalla lotta alla fame all’eliminazione delle disuguaglianze, dalla tutela delle risorse naturali all’affermazione di modelli di produzione e consumo sostenibili. Il documento si apre con le seguenti parole: “Questo programma è un piano di azione per la gente, il pianeta e la prosperità. Cerchiamo di rafforzare la pace universale in un contesto di maggiore libertà. Riconosciamo che lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale e un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Tutti i paesi e tutte le parti interessate, agendo in uno spirito di collaborazione, attueranno questo piano. Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia dell’indigenza, vogliamo guarire e proteggere il nostro pianeta. Siamo determinati a intraprendere le azioni coraggiose per il cambiamento che sono urgentemente necessarie per portare il mondo su un sentiero di sostenibilità e resilienza. Mentre ci imbarchiamo in questo viaggio collettivo, ci impegniamo a far sì che nessuno sia lasciato indietro”27. Il problema è sempre quello del rapporto conflittuale tra economia capitalistica fondata sulla presunzione di avere risorse illimitate e un reale ambiente naturale limitato. L’ambientalismo degli anni Settanta nasceva proprio da questa consapevolezza. Giorgio Nebbia scriveva che “il capitalismo deve, per le sue leggi, sfruttare la natura, fonte di materie prime nella cui trasformazione in merci trae il proprio profitto e, nello stesso tempo, genera le nocività ambientali.” La società capitalistica impone di estrarre sempre più risorse, di sfruttare sempre di più la natura e di sbarazzarsi dei rifiuti al minimo costo possibile. Essa misura tutto solo in unità monetarie, senza tenere conto di quei beni che non hanno prezzo come la salute, la bellezza, l’aria e l’acqua pulita. “Una genuina difesa della natura e dell’ambiente richiede necessariamente un controllo e una pianificazione della produzione agricola e industriale, degli insediamenti, della difesa dell’aria, delle acque e delle risorse naturali in quanto beni collettivi.”28

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https://www.aics.gov.it/home-ita/settori/obiettivi-di-sviluppo-sostenibile-sdgs/ https://www.unfpa.org/resources/transforming-our-world-2030-agenda-sustainable-development 28 G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, pag. 33 e 38 27

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1.3 Principi e obiettivi Sottoscrivendo l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, i capi di Stato e di Governo dei 193 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite hanno riconosciuto l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e si sono impegnati a “salvare il mondo”. “La scelta di imboccare la strada verso lo sviluppo sostenibile non solo è possibile, ma è anche l’unico modo per evitare i rischi di un collasso del sistema socioeconomico”29. L’Assemblea generale dell’ONU propone per il futuro un mondo in cui ogni Paese goda di una crescita economia duratura, aperta a tutti e in cui vi sia un lavoro dignitoso per ciascuno. Si vuole un pianeta in cui i consumi, i processi di produzione e l’uso delle risorse naturali (dall’aria alla terra, ai corsi d’acqua) siano sostenibili. Un mondo in cui lo sviluppo e l’impiego della tecnologia siano attenti al clima e rispettino la biodiversità. I 17 Sustainable Development Goals vengono così sintetizzati nell’Agenda 2030: “Noi immaginiamo un mondo libero dalla povertà, dalla fame e dalla malattia, dove ogni vita possa prosperare. Prevediamo un mondo libero dalla paura e dalla violenza, un mondo universalmente alfabetizzato. Un mondo con accesso equo e universale a un’educazione di qualità a tutti i livelli, a un’assistenza sanitaria e alla protezione sociale, dove il benessere fisico, mentale e sociale venga assicurato. Un mondo dove riaffermiamo il nostro impegno per il diritto all’acqua potabile e a servizi igienici sicuri, dove ci sia un’igiene migliore e dove il cibo sia sufficiente, sicuro, accessibile e nutriente. Un mondo dove gli insediamenti umani siano sicuri, resistenti e sostenibili e dove ci sia un accesso universale all’energia economicamente accessibile, affidabile e sostenibile”.30 In dettaglio31: 1)

Sconfiggere la povertà

2)

Sconfiggere la fame: sicurezza alimentare e agricoltura sostenibile.

3)

Salute e benessere per tutti.

4)

Istruzione di qualità: promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti.

5)

Parità di genere: raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment (maggiore forza, autostima e consapevolezza) di tutte le donne e le ragazze.

6)

Acqua pulita e servizi igienico-sanitari garantiti a tutti.

7)

Energia pulita e accessibile: assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni.

29

E. Giovannini (2018), L’utopia sostenibile, Laterza, Roma-Bari https://www.un.org/development/desa/disabilities/envision2030.html 31 https://unric.org/it/agenda-2030/ 30

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8)

Buona occupazione e crescita economica: incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile e un lavoro dignitoso per tutti.

9)

Innovazione e infrastrutture

10)

Ridurre le disuguaglianze all’interno e fra le nazioni.

11)

Città e comunità sostenibili: rendere le città inclusive e sicure.

12)

Consumo e produzione responsabili

13)

Lotta contro il cambiamento climatico: adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze.

14)

Flora e fauna acquatica: conservare gli oceani, i mari e le risorse marine.

15)

Flora e fauna terreste: proteggere e ripristinare gli ecosistemi terrestri, contrastare la desertificazione, far retrocedere il degrado del suolo e arrestare la perdita di biodiversità.

16)

Pace, giustizia e istituzioni solide: promuovere società pacifiche, offrire a tutti l’accesso alla giustizia e creare istituzioni efficienti e responsabili.

17)

Partnership per gli obiettivi: rafforzare i mezzi di attuazione per lo sviluppo sostenibile mondiale. L’Agenda 2030 si distingue per essere universalmente valida. I suoi 17 Obiettivi riguardano tutti i paesi coinvolti, con particolare attenzione per le popolazioni e i Paesi poveri del Sud del mondo. “Ognuno è chiamato a contribuire allo sforzo di portare il pianeta su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. Ciascun paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di miglioramento sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs, anche se le problematiche sono diverse a seconda del livello di crescita”32. Perché è evidente che mentre alcuni popoli si trovano ancora a lottare contro la fame, altri, al contrario, sono impegnati nella promozione di un’alimentazione sana e nella lotta contro l’obesità. Alcune nazioni faticano ad avere accesso all’energia, altre invece, ne hanno un consumo talmente elevato che sono alla ricerca di soluzioni per ridurre l’impatto ambientale. L’universalità dell’Agenda 2030 prevede il coinvolgimento di tutte le parti sociali, dalle imprese ai governi, dalle organizzazioni della società civile ai singoli cittadini, i quali sono anche consumatori, educatori ed elettori. È evidente che non possono essere solo le autorità politiche a gestire il cambiamento. Devono essere modificate anche le strategie di business delle imprese, le scelte di consumo degli individui e delle famiglie.33 La Dichiarazione approvata il 25 settembre 2015 si conclude con le seguenti parole: “Il futuro dell’umanità e del nostro pianeta è nelle nostre mani. Si trova anche nelle mani delle nuove

32 33

https://asvis.it/public/asvis/files/Rapporto_ASviS_2017/FLASHCARD_web.pdf E. Giovannini (2018), L’utopia sostenibile, Editori Laterza, Roma-Bari

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generazioni, che passeranno il testimone alle generazioni future. Abbiamo tracciato la strada verso lo sviluppo sostenibile; questo servirà ad assicurarci che il viaggio abbia successo e i suoi risultati siano irreversibili”.34 Per portare il nostro paese, l’Italia, su un sentiero di maggiore sostenibilità economica, sociale e ambientale, nasce nel 2016, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASvis). L’obiettivo è di far crescere nella società, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 e di mobilitare gli operatori a realizzare i Sustainable Development Goals. La sua missione è quella di favorire la crescita di una cultura della sostenibilità a tutti i livelli, orientando a tale scopo i modelli di produzione e di consumo. L’ASvis analizza le opportunità per l’Italia legate all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, contribuisce alla definizione di una strategia nazionale per il conseguimento degli obiettivi e alla realizzazione di un sistema di monitoraggio dei progressi verso questo traguardo.35

1.4 Il passaggio da un’economia lineare a una circolare “Il modello economico di crescita che ha caratterizzato la nostra storia nell’ultimo secolo viene definito economia lineare. Abbiamo vissuto all’interno di un sistema di mercato, basato sull’estrazione di materie prime, sulla produzione e sul consumo di massa e sullo smaltimento degli scarti, una volta raggiunta la fine del ciclo di vita del prodotto. Questo incessante flusso di estrazione e dismissione di materia, inefficiente e costoso è stato, ed è tuttora, una delle principali cause dei problemi del nostro tempo. Fenomeni come l’inquinamento marino e terrestre, l’accumulo di rifiuti, l’emissione di gas serra e del conseguente cambiamento climatico sono stati da esso generati.”36 Il processo lineare, che si è sviluppato tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, con le sue innovazioni tecnologiche ha portato un rapido sviluppo economico e scientifico. L’obiettivo primario è quello di ricavare sempre maggiori profitti aumentando la produzione; per ottenere più beni si adotta una tecnologia più efficiente, oppure basta aumentare la quantità di fattori in entrata. Tutto ciò che il mercato richiede, può essere prodotto adeguando la realizzazione alla domanda, seguendo la credenza positivista che l’ambiente può generare da solo tutte le risorse naturali che servono da input al processo economico. Questo sistema economico si basa su un’estrazione sempre più massiccia di risorse, uno sfruttamento

34

https://unric.org/it/agenda-2030/ https://asvis.it/ 36 http://www.ytongplanet.it/yblog/da-uneconomia-lineare-ad-uneconomia-circolare/ 35

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indiscriminato del pianeta e una gran quantità di rifiuti da smaltire. È una forma – Nebbia la definiva esplicitamente così – di violenza che esercitiamo sulla Terra ma anche, senza rendercene conto, su noi stessi e sulle generazioni future37. La violenza di una società “che misura tutto solo in unità monetarie e nei cui calcoli non entrano i beni che non hanno prezzo: la salute, l’aria e l’acqua pulita, la bellezza”. L’industrializzazione è incentrata su una crescita continua della quantità di merci prodotte per ottenere un profitto sempre maggiore, senza chiedersi a che cosa e a chi servono veramente i beni prodotti e quali effetti negativi abbiano sul territorio e sulla vita umana. Questo sistema, porta con sé una serie di conseguenze, come appunto l’impatto ambientale negativo e l’esaurimento progressivo degli input a cui si attinge per la produzione. Il processo lineare non tiene conto dell'inquinamento e della limitatezza delle fonti non rinnovabili. Così, nella seconda metà del Novecento, con l'avvento della crisi petrolifera e l’aumento smisurato dell’inquinamento nei paesi industrializzati, il sistema ha iniziato a vacillare. Fisici ed economisti hanno iniziato a studiare e a sviluppare alternative per fermare l’inquinamento da combustibili fossili. Gli scienziati hanno progressivamente sensibilizzato le autorità politiche e la società civile a cambiare rotta. Si è cominciato a pensare diversamente e sono entrati nell’immaginario comune nuovi concetti, come la valorizzazione degli scarti dei consumi, l’estensione del ciclo di vita dei prodotti, un’economia della condivisione delle risorse, l’impiego di materie prime da riciclo e l’uso di energia rinnovabile. Queste nuove direttive consentirebbero di ripensare il sistema produttivo e di consumo in termini responsabili, in grado di migliorare le condizioni ambientali del nostro pianeta e la vita dei suoi abitanti. Nel passaggio da un modello di economia lineare a uno basato sul concetto di sviluppo sostenibile si accetta l’idea che la crescita debba rispettare i limiti planetari e non sia orientata solo a generare un maggiore Prodotto interno lordo. L’orientamento dovrebbe essere quello di creare benessere per tutti, con migliori condizioni di salute, di lavoro, di rapporti interpersonali e di qualità dell’ambiente. Questo nuovo sistema ha come obiettivo non solo la redditività e il profitto, ma anche (e soprattutto) il progresso sociale e la salvaguardia dell’ambiente. La differenza tra l’approccio dello sviluppo lineare e quello sostenibile risiede fondamentalmente nella dimensione della “giustizia inter-generazionale”, insita nel modello di sviluppo sostenibile e assente, invece, in quello classico. Fino a qualche decina di anni fa, il tempo futuro era considerato infinito o abbastanza lungo per consentire di gestire o riassorbire tutte le esternalità negative. Il modello economico tradizionale partiva dalla considerazione che l'ambiente potesse 37

G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, pag. 33 e segg.

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essere anche “un serbatoio di rifiuti”38. Ben presto però, emerse la necessità di analizzare la società nella sua globalità come un sistema chiuso (vedi quanto menzionato sopra con Boulding, Georgescu-Roegen e altri studiosi del Novecento), in cui l'economia e l'ambiente non sono caratterizzati da relazioni lineari, ma da un legame circolare.

In figura: confronto tra modello economico lineare e quello circolare

All’interno di un sistema ecologico dobbiamo rispettarne le regole di funzionamento, i limiti fisici, biologici e climatici. Il modello “prendi-realizza-consuma-elimina” è sempre meno adatto alla realtà in cui ci troviamo ad operare oggi. La massima attenzione viene rivolta ora alla prevenzione delle esternalità ambientali negative e alla realizzazione di nuovo valore sociale e territoriale pensando alle generazioni future.

38

D.W. Pearce, K.R. Turner (1991), Economia delle risorse naturali e dell'ambiente, Il Mulino, Bologna

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Capitolo 2 - La situazione ambientale attuale 2.1 Il deterioramento ambientale e sociale L’attuale situazione della Terra è critica. Basta infatti guardare la realtà con attenzione per rendersi conto del progressivo deterioramento ambientale e climatico – oltre che sociale – del nostro pianeta. Anche a causa dell’aumento esponenziale della popolazione si stanno creando forti scompensi ambientali e sociali. Vaste aree del pianeta sono sottoposte a fenomeni climatici violenti come cicloni, uragani, tifoni e bombe d’acqua. Altre zone sono soggette a dissesti idrogeologici, inondazioni e siccità, che si alternano con maggiore frequenza di un tempo. E la causa sono i cambiamenti climatici: a rivelarlo è un rapporto delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di catastrofi. 39 L'attività umana, direttamente, o tramite le sostanze tossiche da essa prodotte, ha inquinato intere zone del pianeta, comprese l’atmosfera e i corsi d'acqua. A causa di questo, si verificano piogge acide, impoverimento e alterazione del suolo, deforestazione, desertificazione, migrazione o scomparsa di fauna e flora autoctone, erosione e introduzione di specie invasive. Quando parliamo di degrado ambientale, ci vengono in mente le gravi conseguenze ecologiche. Tuttavia, le cattive azioni dell’uomo causano anche altri effetti catastrofici sulla società. Ne sono un esempio l’instabilità economica, i conflitti armati, le grandi migrazioni, la fame e il potenziale collasso dei sistemi socioeconomici sia dei paesi emergenti, che dei paesi più sviluppati. “I quartieri degradati in Italia, i ghetti negli Stati Uniti, le banlieue in Francia sono luoghi noti, sia per chi vive al loro interno sia per chi li guarda dall’esterno, come zone senza legge e residenze problematiche. Interi quartieri sono diventati no-go zone, territori della deprivazione e dell’abbandono, zone selvagge delle città da temere e da cui fuggire, perché rappresentano focolai di violenza, vizio e dissoluzione sociale”40. Tutto questo emerge anche da uno studio della ricercatrice Maike Hamann, dal titolo “Inequality and the Biosphere”41 pubblicato su Annual Review of Environment and Resource. Qui si spiega come l’aumento delle disuguaglianze e l’accelerazione della crisi climatica e ambientale siano collegati. La ricerca conferma che ad essere più esposti ai rischi ambientali catastrofici sono spesso i soggetti più deboli: la disuguaglianza sociale è destinata ad aumentare di pari passo con le temperature, con effetti devastanti su fame, povertà e migrazioni. Proprio recentemente ho avuto modo di

39

https://www.undrr.org/news/drrday-un-report-charts-huge-rise-climate-disasters L. Wacquant (2016), I reietti della città, Edizioni ETS, Pisa http://edizioniets.com/priv_file_libro/2961.pdf 41 https://doi.org/10.1146/annurev-environ-102017-025949 40

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riscontrare questo fenomeno da vicino attraverso la corrispondenza che intrattengo con Centro aiuti per l’Etiopia. Il direttore della sezione locale dell’Associazione mi ha informato della crisi alimentare e ambientale sempre più grave nel Corno d’Africa dovuta a un susseguirsi di periodi di grande siccità e di alluvioni.42 Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, ha presentato il 25 giugno 2019 il suo rapporto al Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite. Nel documento Alston sottolinea il fatto che “il cambiamento climatico avrà un impatto maggiore sui più vulnerabili e potrebbe condurre oltre 120 milioni di persone alla povertà entro il 2030. In questo contesto i paesi maggiormente coinvolti saranno quelli che già si trovano nelle regioni più disagiate del mondo”43. Con un aumento delle temperature di solo 1,5°C saranno colpite molte aree fra le meno sviluppate del mondo, dove la popolazione si troverà ad affrontare scarsità di cibo e un peggioramento delle condizioni di salute. Come conseguenza, aumenterà il flusso migratorio verso le zone più sviluppate, come sta già avvenendo in alcune zone dell'Africa.44 Alston prospetta l'avvento di un "apartheid climatico", uno scenario nel quale i più ricchi avranno la possibilità di pagare per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti, mentre il resto della popolazione sarà costretta a soffrire.45 Coniugare giustizia ambientale e giustizia sociale è oggi sempre più importante per garantire il benessere sia delle singole comunità che dell’intero globo. L’idea del possesso dei beni materiali e della produzione continua hanno fatto mettere da parte i vecchi valori di solidarietà fra le generazioni e di sintonia con la natura. L’uomo, intervenendo in modo sempre più massiccio e disordinato sull’ambiente in cui vive, è diventato il responsabile principale dello squilibrio tra popolazione, capitalismo e ambiente. Nel corso della storia, le civiltà si sono sviluppate come “ospiti” di un pianeta generoso di risorse. Si trattava di raccogliere quello che la realtà naturale offriva. Viceversa, durante gli ultimi due secoli la prospettiva si è rovesciata. Attualmente stiamo vivendo in un’epoca chiamata Antropocene, dove è l’uomo, con i suoi comportamenti, a determinare lo stato e l’evoluzione dell’intero pianeta.46 Ciò che interessa alla società e all’economia lineare di oggi è estrarre quanto più possibile dalla natura. Ma la velocità imposta dalle azioni umane al pianeta contrasta – come visto nel Capitolo 1 – con i ritmi naturali dell’evoluzione biologica. “Le leggi della società capitalistica sono in contrasto con le leggi 42

https://www.centroaiutietiopia.it/articolo/emergenza-fame-il-covid-e-un-problema-secondario https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=24735&LangID=E 44 https://ipccitalia.cmcc.it/ipcc-special-report-global-warming-of-1-5-c/ 45 https://unipd-centrodirittiumani.it/it/news/Consiglio-diritti-umani-il-relatore-speciale-dellONU-sulla-povertaestrema-e-i-diritti-umani-preconizza-lavvento-dellapartheid-climatico/4941 46 Anthropocene: The Human Epoch (2018), Reg. E. Burtynsky, J. Baichwal, N. de Pencier, Mercury Films, Canada, Film. 43

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della materia e dell’ambiente, con le leggi della natura. Alla rottura di questo ciclo risalgono tutti i problemi ecologici.”47 La Terra offre le risorse naturali necessarie alla vita del genere umano. Alcune di esse vengono definite rinnovabili, perché si rigenerano naturalmente o per effetto dell'uomo, in quantità pressoché infinita e in tempi ridotti, purché utilizzate in maniera accurata. Esse corrispondono al raccolto agricolo, ai pascoli, alle foreste e alla cosiddetta energia rinnovabile derivante dal Sole, dal vento, dalle maree e dai salti d'acqua. Altre invece, vengono definite come non rinnovabili, sia per l'impossibilità di rigenerarsi sia per il lungo tempo di cui hanno bisogno per farlo; in esse sono compresi i minerali e i combustibili fossili.48 Questi ultimi sono per l’uomo una grandissima fonte di energia, che viene utilizzata quotidianamente, ma che ha bisogno di milioni di anni per svilupparsi in natura. Con la rivoluzione industriale del XVIII secolo è aumentata la richiesta energetica da parte delle fabbriche, dando inizio a un uso sistematico di combustibili fossili. Dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, il petrolio è diventato la principale fonte energetica per il riscaldamento, i processi produttivi e i trasporti. Quando l’uomo estrae le risorse non rinnovabili dal suolo, lascia un “buco” irreversibile nelle riserve disponibili per le generazioni future. Dovremmo allora smettere di utilizzarle? In realtà, nessun elemento potrà mai esaurirsi, per il semplice motivo che in natura nulla si crea e nulla si distrugge (per la legge fisica della conservazione della massa). “Gli esseri umani non consumano niente: tutte le merci, dopo essere state usate per un tempo più o meno lungo, ritornano nell’ambiente, nei corpi riceventi naturali” 49. Ma il processo di fossilizzazione della sostanza organica è estremamente lungo e la quantità che oggi si fossilizza è trascurabile rispetto al fabbisogno energetico accelerato della società in cui viviamo. Se vogliamo garantire un pianeta sano e ricco di risorse naturali, dovremmo diminuire il consumo di fonti non rinnovabili. Già da qualche decennio, ci troviamo di fronte al “the end of everything”50, ossia l’esaurimento di molte materie prime indispensabili per il benessere e il progresso a cui siamo abituati. Ogni anno viene calcolato dal Global Footprint Network il giorno del superamento dei limiti del pianeta, cioè la data in cui si esauriscono virtualmente tutte le risorse che la Terra può offrirci nell’arco di un anno.

47

G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, pag. 34 F. Fusco (2014), Pianeti ed esopianeti. Nuove scoperte, Youcanprint, pag. 95 49 G. Nebbia (2020), La Terra Brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, p. 57 50 E. Giovannini (2018), L’utopia sostenibile, Laterza, Roma-Bari 48

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Questa caratteristica di fornire i beni necessari alla vita umana si chiama anche "biocapacità" e rappresenta appunto lo stock che non dovremmo sovra-sfruttare per evitare di generare un “deficit ambientale”. Nel 1961 l'umanità utilizzava il 73% delle disponibilità terrestri, invece oggi nel 2020 l'umanità utilizza il 160% della biocapacità, ossia viviamo come se avessimo a disposizione 1,6 pianeti. Ma il pianeta è uno, unico, finito e limitato.

Fonte: Global Footprint Network, National Footprints & Biocapacity Accounts 2019 Edition

Lo sfruttamento delle risorse naturali deve essere inferiore al loro tasso di rigenerazione spontanea. Invece, l'andamento del sovrasfruttamento è storicamente in crescita: nel 2000 l’Earth Overshoot Day è caduto il 4 ottobre, nel 2017 era il 2 agosto e nel 2019 il 29 luglio.51 Fa eccezione l’anno 2020, in cui il lockdown mondiale ha determinato un rallentamento del consumo di risorse, spostando virtualmente in avanti la data di inizio del nostro debito con il pianeta al 22 agosto. Secondo il Global Footprint Network, il Covid-19 ha causato, rispetto all’anno precedente, una riduzione del 9,3% “dell'impronta ecologica” dell'umanità. Secondo gli studi che sono stati fatti a partire dalla seconda metà del Novecento, la soluzione a questo problema si troverebbe appunto nel modello economico circolare, il quale prevede uno sviluppo sostenibile in grado di evitare danni permanenti al sistema naturale.

2.2 Il limite delle risorse della Terra Fino agli anni ’70 – prima del Rapporto del Club di Roma (supra, Capitolo 1) – si riteneva che le risorse fossero inesauribili e che la natura potesse riparare eternamente i danni subiti. Si pensava che l'uomo, con la sua abilità e la sua tecnologia, fosse capace di controllare i processi di squilibrio.52 E invece non è così. La Terra non possiede sufficienti risorse per soddisfare i bisogni sempre crescenti dell’umanità. Le potenzialità del pianeta non aumentando di pari passo con la crescita dell’economia e della popolazione, ma esistono dei limiti fisici. Se la popolazione

51 52

https://www.overshootday.org/ https://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/87_01_049.pdf

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e i consumi continuano ad aumentare, viene spontaneo chiedersi qual è il limite entro il quale possiamo “sfruttare” la Terra. Secondo uno studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature nel 2009 da un gruppo di scienziati guidato da Johan Rockström, nel nostro pianeta esistono delle soglie che non dovrebbero essere oltrepassati. Il rischio sarebbe di andare incontro a cambiamenti imprevisti e irreversibili che potrebbero danneggiare il buon funzionamento del sistema e quindi il benessere o la sopravvivenza stessa dell’umanità. Questi “limiti planetari” definiscono i confini entro i quali noi esseri umani possiamo operare in sicurezza, senza nuocere agli equilibri del pianeta. Se li superiamo, al contrario, rischiamo di trasformare la Terra in un luogo assai meno ospitale di quanto sia ora.53 I nove Planetary Boundaries 54 da non oltrepassare vengono così elencati: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, variazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, acidificazione degli oceani, consumo di suolo e di acqua, riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, diffusione di aerosol in atmosfera e inquinamento chimico. Fu rilevato nel 2009 che tre di questi limiti erano già stati superati: troppa anidride carbonica rilasciata in atmosfera, troppo azoto rimosso dall’atmosfera per usarlo nel suolo come fertilizzante e biodiversità in declino troppo rapido. Dieci anni dopo la prima verifica, gli stessi scienziati hanno aggiornato questo elenco aggiungendo un altro limite già valicato: il cambiamento nell’uso del suolo, ovvero la deforestazione. Abbiamo tagliato troppi alberi per convertire il territorio boschivo ad uso agricolo. 55 Il raggiungimento degli altri limiti dipende dalle nostre azioni e da cosa ci aspettiamo per il futuro. Fino a che punto è sopportabile dalla Terra il progresso merceologico, con più beni, più cibo, più frigoriferi e automobili, più strade e costruzioni, garantito a un numero crescente di persone? Qual è il numero massimo di abitanti che la Terra può contenere? Qual è la capacità portante, la carrying capacity, della Terra per gli esseri umani? Già l’economista inglese Thomas R. Malthus (1766-1834) con gli imprecisi dati statistici di cui disponeva, dimostrò che la popolazione inglese stava aumentando con una velocità maggiore rispetto all’aumento della produzione di cereali e immaginava che un giorno non ci sarebbe stato più cibo per tutti.56 La teoria di Malthus continua ad essere valida anche in epoca recente: una popolazione che vive in uno spazio circoscritto con una data disponibilità di cibo, aumenta fino a un certo limite e poi diminuisce.

53

http://www.decrescita.com/news/i-limiti-del-pianeta/ https://www.stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries/planetary-boundaries/about-theresearch/the-nine-planetary-boundaries.html 55 https://www.galileonet.it/limiti-planetari-oltrepassati/ 56 Malthusianesimo: dottrina economica che attribuisce alla pressione demografica la diffusione della povertà e della fame nel mondo. 54

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La crescita infinita e illimitata – essenza e scopo del capitalismo – si scontra dunque con i limiti inviolabili del pianeta. Davanti agli innegabili limiti della Terra e alla necessità di rispondere alla domanda di beni essenziali che viene dai popoli emergenti, i paesi sviluppati dovrebbero porsi diversi interrogativi e chiedersi quali beni siano essenziali e quali siano superflui per lasciare ai poveri del mondo e alle prossime generazioni, un pianeta ricco di bellezza naturale come lo conosciamo noi oggi e per garantire la sopravvivenza dell’umanità. 57 In questo momento, con il nostro sistema produttivo, la Terra si sta allontanando dall’equilibrio ecologico necessario, oltre che per la sopravvivenza delle specie animali e vegetali, anche per la vita dell’uomo. La formazione del nostro pianeta è datata a circa 4,54 miliardi di anni fa, mentre l’homo sapiens vive solo da 200.000 anni. Questo significa che la Terra esisteva, esiste e continuerà ad esistere anche senza il genere umano. Al contrario, l’uomo si è formato dalla natura e senza di essa non può vivere. La fine dell’umanità non rappresenterebbe, quindi, la fine del pianeta. Mentre è vero il contrario. Se vogliamo rimanere a lungo sulla Terra non dobbiamo dimenticare quanto sia importante la sintonia tra uomo e natura. Per poter godere pienamente delle potenzialità del pianeta dobbiamo quindi rispettare i limiti delle sue risorse.

2.3 Il problema dei rifiuti e la sovrabbondanza della plastica Ogni giorno vengono buttati nell’immondizia cartacce, bottigliette e in questo periodo anche mascherine e guanti. In Italia ogni persona produce in media 497 chilogrammi di rifiuti urbani all’anno.58 Se moltiplichiamo tale quantità per il numero di abitanti del pianeta, otteniamo una cifra esorbitante. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale “What a Waste 2.0 – A Global Snapshot of Solid Waste Management to 2050” nel 2016 sono stati prodotti oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti a livello globale. Senza un’inversione di tendenza, si prevede un incremento del 70% dei rifiuti rispetto ai livelli attuali entro il 2050, raggiungendo le 3,4 miliardi di tonnellate. 59 Nella relazione della Banca mondiale si afferma, inoltre, che la produzione di rifiuti sta aumentando a un ritmo troppo elevato e se l’andamento resterà quello attuale, entro la metà del secolo la popolazione europea e nordamericana arriverà a produrre il 25% di rifiuti in più rispetto a oggi. Nello stesso lasso di tempo, il volume aumenterà del 50% in Asia orientale, del 200% in Asia meridionale e del 300% nell’Africa subsahariana.60 In meno

57

G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20180328STO00751/statistiche-sulla-gestione-deirifiuti-in-europa-infografica 59 https://www.worldbank.org/en/news/press-release/2018/09/20/global-waste-to-grow-by-70-percent-by-2050unless-urgent-action-is-taken-world-bank-report 60 Ibidem 58

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di trent’anni, insomma, il mondo sarà completamente sommerso dai rifiuti se non si introducono già da ora soluzioni condivise di gestione degli scarti. Questo era quanto si prevedeva prima della pandemia del 2020. Infatti, secondo il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, in Italia l’emergenza Coronavirus ha riportato i consumi ai livelli più bassi degli ultimi venticinque anni.61 L’effetto del lockdown ha portato le persone a cambiare necessariamente stile di vita. Le spese legate al tempo libero, ai pasti fuori casa, alla mobilità, ai viaggi e alle vacanze hanno subito una battuta d’arresto. Ancora a inizio 2021, non essendosi risolto il problema del Covid-19, le famiglie italiane rinunciano al superfluo. Ci si domanda se questo cambiamento, non solo in termini di volume, ma soprattutto in termini di abitudini, rimarrà dopo la pandemia. La mia valutazione è che i livelli di consumo, finita l’emergenza, continueranno a crescere. La pandemia non potrà modificare le macro-tendenze di spesa. Difficilmente si rinuncerà agli svaghi del tempo libero, ai viaggi, alle vacanze, ai pasti fuori casa e ai nuovi modelli di scarpe o di smartphone. Secondo la Banca mondiale, bisogna correre ai ripari con seri piani di riduzione, riciclo e recupero dei rifiuti, favorendo la raccolta differenziata. L'Europa ha già cominciato da qualche anno a incoraggiare gli stati membri a essere più attivi attraverso la direttiva sui rifiuti del 2008. Il rapporto “What a Waste 2.0” sottolinea che il corretto smistamento dei rifiuti è fondamentale per città e comunità sostenibili, sane e inclusive, ma è spesso trascurata, in particolare nei paesi del terzo mondo. Laura Tuck, vicepresidente per lo sviluppo sostenibile della Banca mondiale afferma che “sfortunatamente, è spesso la parte più povera della società ad essere influenzata negativamente da una gestione inadeguata dei rifiuti. Non dovrebbe essere così. Le nostre risorse devono essere utilizzate e quindi riutilizzate continuamente in modo che non finiscano nelle discariche”.62 Le discariche hanno molteplici problemi se non progettate correttamente, perché possono contaminare i terreni e le falde acquifere con le sostanze chimiche presenti nei rifiuti, che sono dannose per la salute di animali e persone. I depositi rilasciano metano, che influisce negativamente sul clima. Inoltre, se lo smaltimento è indifferenziato si perdono le materie prime e i prodotti, che potrebbero invece generare ulteriore valore se riutilizzati, riciclati o reimmessi nel ciclo economico. Sebbene siano i paesi a basso reddito quelli più colpiti dall’immondizia, è la popolazione dei paesi industrializzati a produrre il maggior numero di rifiuti. Siamo circa il 16 per cento della popolazione mondiale, ma produciamo il 34 per cento dei rifiuti del pianeta. È stato osservato 61 62

https://www.confcommercio.it/documents/ http://esper.it/2018/10/17/banca-mondiale-uneconomia-circolare-per-ridurre-lo-spreco-di-rifiuti/

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che più si diventa ricchi, più si tende a consumare e a gettare via.63 Nei paesi sviluppati però, più del 50% degli scarti viene riciclato; mentre in altre parti del mondo meno del 10% è destinato a qualche forma di recupero. Il resto finisce bruciato in modo indifferenziato, nella migliore delle ipotesi, oppure viene abbandonato senza controlli. I paesi a basso reddito riescono a riciclare soltanto il 4% dei rifiuti e più del 90% viene incenerito o rilasciato nell’ambiente.64 Particolare attenzione deve essere rivolta alle materie plastiche, che, se ben riciclate possono dare vita a numerosi nuovi prodotti. Si tratta di un materiale quasi indistruttibile poiché gran parte dei suoi polimeri non sono biodegradabili. È importantissimo il loro corretto smaltimento per evitare che si accumulino nell’ambiente, dove rimarrebbero per secoli. Attualmente, la quantità di plastica dispersa supera la quantità che viene riciclata. Ogni anno, almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari. Ad oggi, si stima che vi siano più di 150 milioni di tonnellate di plastica negli oceani, tanto da formare intere isole. La più grande è nota come “Pacific Trash Vortex”65 e ha dimensioni tra i 700.000 km2 e i 10milioni di km2 (la grandezza degli Stati Uniti). Proseguendo con i trend attuali, entro il 2050 negli oceani potrebbe esserci più plastica che pesci, in termini di peso. I rifiuti che si riversano sulle spiagge e nei mari possono intrappolare, ferire o addirittura essere ingeriti dalle specie che popolano l’ecosistema marino, provocando il loro soffocamento. Per verificare lo stato di salute dei mari italiani, Greenpeace ha effettuato nel mese di luglio 2020 un tour nel Tirreno. La spedizione dal nome “Difendiamo il mare” ha confermato che la plastica, una volta gettata in acqua, si trasforma in un vero e proprio killer per capodogli e tartarughe. I ricercatori hanno registrato la presenza di rifiuti di microplastica nello stomaco del 75% degli organismi marini provenienti dalle isole dell’Arcipelago toscano. 66 Come dimostrato dagli esperti, questi frammenti con dimensioni microscopiche (inferiori ai 5 mm di diametro), costituiscono una fra le principali cause di morte per soffocamento di pesci e uccelli poiché vengono scambiati per cibo. Si tratta di bottiglie, imballaggi, reti da pesca e sacchetti che una volta finiti in acqua, si spezzano in parti più piccole per azione dell’erosione e delle correnti. “In passato, ci siamo comportati nei confronti degli oceani come se fossero infiniti. Vi abbiamo gettato senza esitazione ciò che non ci serviva, pensando che tutto vi sarebbe stato inghiottito, attribuendogli generosamente la funzione di discarica pubblica universale. Vi è certamente la

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https://www.rinnovabili.it/ambiente/usa-produttori-rifiuti-pro-capite/ https://www.ohga.it/rifiuti-nel-mondo-senza-uninversione-di-tendenza-nel-2050-ne-produrremo-il-70-in-piu/ 65 https://it.wikipedia.org/wiki/Pacific_Trash_Vortex 66 https://www.greenpeace.org/italy/storia/12190/microplastiche-nei-pesci-e-a-tavola/ 64

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tendenza a credere che ciò che è nascosto non esiste, e ciò che non vediamo più non è un problema. […] Ma oggi l’inquinamento e le devastazioni sulla vita marina sono sempre più visibili.” 67 Il problema sono gli oggetti monouso, che vengono utilizzati una sola volta, ma impiegano secoli a decomporsi. Altri residui plastici si disperdono nell’ambiente in modo più insospettabile, come ad esempio attraverso i tessuti sintetici, i cosmetici, gli pneumatici e i prodotti per la pesca. Essi finiscono nel suolo e nei fiumi e poi ritornano a noi attraverso la catena alimentare. Infatti, con i milioni di tonnellate di plastica che scarichiamo ogni anno nei mari, non solo distruggiamo l’habitat marino, ma danneggiamo noi stessi mangiando pesce intossicato. Secondo uno studio commissionato dal Wwf all’Università di Newcastle in Australia, risulta che ogni mese ingeriamo più di 20 grammi di plastica e circa 250 grammi in un anno. Il 65% lo assumiamo bevendo l’acqua imbottigliata, il 5% lo respiriamo nell’aria e il restante 30% viene dal cibo che mangiamo.68 Ricordiamo che gli oceani da soli assorbono il 30% dell’anidride carbonica creata dall’uomo, essi sono i “nostri polmoni”, ma con i rifiuti li stiamo avvelenando.69 Inoltre, molte persone hanno il mare come fonte di sopravvivenza, milioni di uomini al mondo basano la propria vita sulla pesca, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. “È urgente un’azione globale per affrontare questa minaccia” afferma Marco Lambertini, direttore generale del Wwf. Questo fenomeno è la prova più evidente che l’economia lineare non è più sostenibile: entrano materie prime ed escono rifiuti, i quali producono effetti negativi sull’ambiente, il clima, la salute dell’uomo e l’economia. Il paradigma “prendi, produci e scarta” deve cambiare in “riduci, riusa e ricicla”. Ho già parlato nel primo capitolo della teoria di Kenneth E. Boulding, secondo cui viviamo in un sistema chiuso, nel quale non esiste un “non luogo” dove portare i rifiuti. Dobbiamo imparare a riciclare e ridurre gli scarti per non avere conseguenze negative sull’ambiente. A tal proposito, vorrei ricordare il film “Wall.E”70 prodotto nel 2008 da Pixar insieme a Walt Disney, in cui la Terra viene completamente abbandonata dagli esseri umani. Gli abitanti lasciano il pianeta a causa dell'eccessivo inquinamento e del continuo accumulo di rifiuti che l’hanno reso inospitale. Il film ci invita, in maniera poetica e romantica, a ripensare al significato delle nostre vite che, sopraffatte dallo stress del progresso e della modernità, hanno perso il significo del vivere bene. Il lungometraggio suscita numerosi spunti di riflessione sull’ecologia. L’intento è 67

M. Fontenoy (2019), Les Mers et les Ocèans pour les Nuls, Edition First, Paris https://www.wwf.it/news/notizie/?47800/La-plastica-nella-nostra-dieta 69 https://www.green.it/4-modi-per-aiutare-gli-oceani/ 70 Wall.E (2008), Reg. Andrew Stanton, Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures, Film. 68

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quello di far soffermare il pubblico sui danni che provoca la pigrizia dei singoli cittadini che, con i loro consumi compulsivi e sfrenati, riempiono il pianeta d’ogni sorta di scarto, senza preoccuparsi di come eliminarli e delegano ad altri questo compito. Abbiamo visto che il sistema della raccolta differenziata e del riciclaggio, da solo non è sufficiente a salvaguardare il pianeta. Data l’enorme quantità di beni prodotti, anche un sistema più efficace per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti non riuscirebbe a impedirne la completa dispersione. Gli scienziati stimano che quasi un terzo dei rifiuti di plastica sfugge ai sistemi di smaltimento e di recupero, quindi è diventato necessario che tutti gettino via di meno e riutilizzino di più. Con l’emergenza della pandemia Covid-19 i consumi in generale sono diminuiti, ma l’utilizzo della plastica è aumentato notevolmente. I rifiuti monouso sono tornati protagonisti ed è aumentata in tutto il mondo la domanda di dispositivi e barriere protettive, come mascherine, visiere e guanti. Questi oggetti stanno salvando le persone, ma anche inquinando il pianeta. Inoltre, le misure di isolamento hanno innescato un boom del commercio online e la gran parte dei prodotti acquistati in rete è avvolta nella plastica. Spesso le merci sono contenute in imballaggi composti da vari strati, che proteggono i beni dagli urti durante il trasporto, ma rendono quasi impossibile il riciclo. Circa il 40% della produzione di plastica è destinato al packaging, ed è qui che si concentra il maggior problema dell’inquinamento. I consumatori sono confusi, dovendo scegliere tra difesa dell’ambiente e tutela della salute. In questo momento la cosa più importante è proteggersi dal virus. Quindi visto che già la pandemia sta sommergendo il mondo di plastica, cerchiamo di evitare consumi superflui. E quando la crisi sanitaria finalmente finirà, si spera che la tendenza alla riduzione degli sprechi riprenda.

2.4 Il cambiamento climatico e i suoi negazionisti I disastri ambientali degli ultimi decenni mostrano con tutta evidenza che è in corso un cambiamento climatico causato dall’aumento della temperatura dell’atmosfera. Gli effetti del riscaldamento globale sono sempre più evidenti, sia per le popolazioni che vivono in prossimità delle coste, sia per coloro che abitano i territori più aridi, dove si alternano periodi di grande siccità e alluvioni devastanti. Nei paesi del Nord del mondo vi sono state nevicate abbondati in alcune zone e inverni completamente senza neve in altre. Le foreste che bruciano, i ghiacciai che si sciolgono, le inondazioni e l’erosione delle coste mostrano che l’attuale situazione ambientale è problematica.

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Sebbene sembri un problema attuale, gli scienziati hanno rilevato che forti cambiamenti di temperatura si sono verificati fin da sempre sul nostro pianeta. Ma mentre in passato l’evoluzione del clima era molto lenta e causata da fenomeni naturali, la crisi ambientale che stiamo fronteggiando oggi sembra essere molto veloce e causata dalle attività umane.71 Si stima che la continua crescita di emissioni di CO2, di metano e di azoto abbiano causato, con l’effetto serra, un riscaldamento globale di circa 1°C rispetto ai livelli preindustriali. Le conseguenze di questo cambiamento – come già ricordato all’inizio di questo capitolo – si vedono già nella perdita di ghiaccio, nell’innalzamento del livello del mare, nelle ondate di calore, nelle precipitazioni estreme, nella perdita di biodiversità, nella riduzione della barriera corallina e nel calo della resa dei raccolti agricoli.72 Gli effetti dei cambiamenti si manifestano ovunque: dalla Mongolia colpita dalla siccità alla Thailandia sommersa dalle alluvioni, dall’Australia devastata dal fuoco e alle comunità dell’Himalaya minacciate dallo scioglimento dei ghiacciai. Alcune città costruite sulle coste come Jakarta in Indonesia, Dar es Salaam in Tanzania, New York e Miami negli Stati Uniti e Venezia in Italia si troveranno ad affrontare gravi conseguenze date dall’innalzamento del livello del mare. Altrettanto drammatico, sebbene diverso, sarà lo scenario per la Giordania, che potrebbe essere il primo paese a non avere più acqua dolce a disposizione. Oggi abbiamo un grande vantaggio rispetto al passato, perché possediamo tante informazioni, che i supercalcolatori possono elaborare per fornire scenari sul clima futuro. Studiando i dati del passato, gli scienziati hanno capito che anche aumenti di pochi gradi delle temperature medie del pianeta possono destabilizzare le grandi masse glaciali presenti in Groenlandia e nella parte occidentale dell’Antartide. I report dell'IPCC suggeriscono che durante il ventunesimo secolo la temperatura media della Terra potrebbe aumentare ulteriormente rispetto ai valori attuali da 1,1°C a 6,4 °C in più. L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha fissato l’obiettivo di contenere il surriscaldamento globale entro i 1,5°C per evitare una catastrofe climatica.73 Esiste tuttavia qualcuno che la pensa diversamente, come Bjørn Lomborg, autore del libro “L’ambientalista scettico”, per il quale il riscaldamento globale esiste ma non è un problema. Con il suo bestseller, intende mostrare che dal punto di vista ambientale la Terra gode oggi di uno stato di salute migliore rispetto al passato: “Le condizioni dell'aria di adesso sono le migliori che si registrano da decenni, l'aspettativa di vita è cresciuta in maniera verticale, le

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https://climate.nasa.gov/causes/ https://ipccitalia.cmcc.it/ipcc-special-report-global-warming-of-1-5-c/ 73 IPCC Special Report 2018, “Global Warming of 1,5°C” https://www.ipcc.ch/sr15/ 72

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foreste stanno aumentando e le acque nel nostro pianeta sono nel complesso più pulite”74. Egli sostiene che “the global warming is real, it is man-made and it is an important problem. But it is not the end of the world”.75 Sono tanti invece i negazionisti dello stesso global warming che sminuiscono o negano l’allarme sul costante aumento della temperatura media della Terra, i suoi effetti e soprattutto, il ruolo dell’uomo in questo cambiamento climatico planetario. Ad esempio, Antonino Zichichi, fisico italiano, è un sostenitore della falsa correlazione tra uomo e cambiamento climatico. Egli afferma che: “Il riscaldamento globale dipende dal motore metereologico dominato dalla potenza del Sole e le attività umane incidono solo per il 5%, mentre il 95% è dovuto a fenomeni naturali legati al Sole”. 76 Zichichi è convinto che attribuire la causa del surriscaldamento globale alle attività umane sia senza fondamento scientifico. Anche Franco Prodi, uno dei massimi climatologi mondiali che ha passato una vita a studiare le nuvole e i loro effetti, in più occasioni ha sostenuto che non è provato il nesso tra emissioni di anidride carbonica e aumento delle temperature. “Per paradosso, se le temperature salgono si ha un effetto maggiore di raffreddamento perché evapora più acqua, si creano più nubi e queste schermano il sole”. Piuttosto “Il clima cambia perché varia la quantità di radiazione che giunge alla sommità dell’atmosfera. E questa può variare per ragioni astronomiche, ovvero perché cambia l’inclinazione dell’asse terrestre e la distanza tra Sole e Terra, oppure astrofisiche, cioè perché cambia l’intensità dell’attività solare. L’attività dell’uomo si sovrappone, a queste cause naturali, con l’immissione di gas e particelle nell’atmosfera”.77 Nel mese di settembre del 2019, il segretario dell’ONU, Antonio Guterres (che è sul fronte opposto rispetto ai negazionisti) ha organizzato a New York un Summit sul clima con lo scopo di intensificare gli sforzi per affrontare la crisi climatica. I leader mondiali erano invitati a portare dei progetti concreti per ridurre le emissioni di anidride carbonica. In contrapposizione al Summit sul clima, 500 esponenti clima-scettici (professori, lobbisti, politici) provenienti da tutto il mondo hanno sottoscritto una petizione dal nome “Non c’è una emergenza climatica”, indirizzata proprio ad Antonio Guterres. Tra i firmatari italiani vi era Renato Ricci, presidente delle Società di Fisica italiana ed europea e i già citati Franco Prodi e Antonino Zichichi. Nel testo si trovano le seguenti parole: “Il riscaldamento globale antropico è una congettura non 74

B. Lomborg (2003), L’ambientalista scettico. Non è vero che la Terra è in pericolo, Mondadori, Milano J. Jowit, “Bjørn Lomborg: in his own words “, The Guardian, 30 agosto 2010 https://www.theguardian.com/environment/2010/aug/30/bjorn-lomborg-climate-change-quotes 76 R. Vivaldelli, “Greta, il catastrofismo è smentito dalla storia”, il Giornale, 3 ottobre 2019 https://www.ilgiornale.it/news/mondo/greta-catastrofismo-smentito-storia-1762494.html 77 https://www.agi.it/scienza/cambiamenti_climatici_prodi_clima_nubi-6334402/news/2019-10-14/ 75

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dimostrata e dedotta solo da alcuni modelli teorici climatici. La letteratura scientifica recentemente ha messo in evidenza l’esistenza di una variabilità climatica naturale legata soprattutto ai grandi cicli millenari, secolari e pluridecennali dell’attività solare e della circolazione oceanica, che sono stati responsabili di altri periodi caldi degli ultimi 10.000 anni”.78 La teoria che considera l’uomo come la principale causa del global warming, secondo tali scienziati, potrebbe quindi essere sbagliata. Il clima della Terra è cambiato più volte da quando essa esiste, con l’alternarsi di periodi più caldi e più freddi causati da fattori naturali. “I cambiamenti climatici ci dicono che il nostro pianeta è vivo e in quanto tale ospita la vita, dalle piante a noi esseri umani. Un pianeta senza alluvioni, terremoti e frane sarebbe un pianeta morto.”79 afferma Alberto Prestininzi, professore del Dipartimento di Scienze della Terra all’Università Sapienza di Roma. Il ruolo principale delle variazioni climatiche è sicuramente svolto dal Sole che è fonte di calore e luce per il nostro pianeta, la sua azione non è costante e per questo il clima terrestre può variare. Inoltre, la posizione della Terra rispetto al Sole non è sempre uguale: l'inclinazione del pianeta si modifica, causando cambiamenti nel modo in cui il calore e i raggi colpiscono la superficie. Nel corso della storia, anche i vulcani con le loro eruzioni hanno avuto grande influenza sulle temperature del globo. In generale, l’attuale dibattito sul riscaldamento riguarda le cause dell'aumento della temperatura media dell'aria analizzate specialmente a partire dalla metà del XX secolo. Si discute se tale aumento sia senza precedenti o se faccia parte delle normali variazioni climatiche naturali. Ma ormai sembra consolidata la certezza scientifica sul fatto che questa fase di riscaldamento sia determinata – come dimostrato sopra – soprattutto dalle attività umane.

2.5 Il legame tra distruzione delle foreste ed epidemia Covid-19 L’agricoltura intensiva, l’urbanizzazione incontrollata e la deforestazione hanno portato allo stravolgimento di alcuni equilibri ecologici. Il crescente impatto umano sugli ecosistemi, in combinazione con quello dei cambiamenti climatici globali, causa l’indebolimento degli habitat

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Lettera “There is no climate emergency” inviata all’Onu https://cdn.qualenergia.it/wpcontent/uploads/2019/09/ecd-letter-to-un.pdf 79 F. Punzi, “Ecco perché la nostra casa non è in fiamme: parla il prof. Prestininzi, uno dei firmatari della dichiarazione contro l’allarmismo climatico”, Atlantico Quotidiano, 27 settembre 2019 http://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/ecco-perche-la-nostra-casa-non-e-in-fiamme-parla-il-prof-prestininziuno-dei-firmatari-della-dichiarazione-contro-lallarmismo-climatico/

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naturali e la conseguente perdita di biodiversità.80 Secondo un’analisi apparsa su Nature nel 2015 si stima che all’inizio della rivoluzione agricola del 1700 vi fossero sulla Terra circa 6.000 miliardi di alberi, mentre oggi ne restano circa la metà.81 Le foreste tropicali sono ambienti ricchi di vita che ospitano fino all’80% delle specie terrestri. Questi ecosistemi sono abitati da milioni di organismi, in gran parte ignoti alla scienza e innocui per l’uomo, che comprendono virus, batteri e funghi. Oggi però la distruzione degli ecosistemi ha portato alla diffusione di insetti o altri animali serbatoio che possono facilitare lo spillover di agenti patogeni pericolosi per l’umanità. Spillover significa “salto interspecifico”, cioè il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un'altra. “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie” scrive David Quammen, giornalista scientifico e autore del saggio di zoonosi “Spillover – L’evoluzione delle pandemie”.82 Molte delle malattie emergenti, come ebola, AIDS, SARS, influenza aviaria, influenza suina e oggi il nuovo Coronavirus, si pensa che non siano calamità casuali, ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi. Infatti, è probabile che le principali cause della diffusione dei patogeni emergenti siano proprio la distruzione delle foreste tropicali e il commercio della fauna selvatica.83 Molte epidemie degli ultimi decenni sembra che abbiano avuto origine nei mercati delle metropoli asiatiche o africane dove si effettua il commercio illegale o incontrollato di animali selvatici vivi, come scimmie, serpenti, pangolini e pipistrelli. Si creano in questo modo pericolose opportunità per lo sviluppo di malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo. 84 L’attuale pandemia provocata dal virus SARS-CoV-2 ha una probabile connessione con i pipistrelli. 85 Con l’invasione del loro habitat, l’infezione virale da questi animali all’uomo è stata quasi inevitabile. Il virologo molecolare Michael Letko della Paul Allen School of Global Animal Health della Washington State University spiega che “la pandemia di Covid-19 è una sfortuna, ma non è sorprendente. Sono anni che il contatto umano

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Rapporto ONU: mentre le foreste nel mondo continuano a diminuire, è necessario intervenire con urgenza per tutelare la loro biodiversità, 22 maggio 2020, http://www.fao.org/news/story/it/item/1276925/icode/ 81 “Mapping tree density at a global scale”, 2 settembre 2015, https://www.nature.com/articles/nature14967 82 D. Quammen (2014), Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano 83 https://www.isprambiente.gov.it/files2020/notizie/FAQgiornatainternazionaleforeste3.pdf pag. 15 84 “Pandemie, l'effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi”, 25 marzo 2020, https://www.wwf.it/news/pubblicazioni/?52801/Pandemie-leffetto-boomerang-della-distruzione-degli-ecosistemi 85 https://www.isprambiente.gov.it/it/evidenza/coronavirus/covid-19-e-pipistrelli-chiarimenti-circa-le-relazioni-tra-lapresenza-di-chirotteri-e-il-rischio-di-trasmissione-covid-19

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con animali selvatici aumenta. Era solo questione di tempo prima che succedesse qualcosa come la diffusione del coronavirus”86. L’attuale emergenza sanitaria ci deve far riflettere su quanto l’alterazione degli ecosistemi e la sottrazione di habitat naturali alle specie selvatiche può favorire il diffondersi di patogeni prima sconosciuti. Quindi è diventato fondamentale studiare il funzionamento degli ecosistemi, e in particolare il loro ruolo nel difenderci dalla diffusione di malattie. Se fossimo meno invasivi e ci muovessimo con più delicatezza e saggezza, avremmo più animali nelle nostre foreste e meno virus nei nostri corpi. Le foreste, insomma, sono il nostro antivirus naturale. Solo riconoscendo che il nostro benessere è strettamente collegato a quello della natura che ci ospita, possiamo tutelare la specie umana da future pandemie. “Dalla crisi coronavirus si esce mettendo al primo posto la salute ambientale, umana e animale” dice l’appello degli ambientalisti ai Presidenti delle Commissioni permanenti della Camera e del Senato il 7 aprile 2020. 87 Durante quest’ultimo decennio si è affermato sempre più, a livello globale, l’approccio “One Health”88, che riconosce come la salute dell’uomo, quella animale e quella dell’ecosistema siano collegate indissolubilmente. Per creare un futuro globale migliore abbiamo bisogno di intervenire con una visione circolare di insieme, che prevede un nuovo accordo tra persone e natura: un New Deal for Nature and People. Questo concetto è stato riconosciuto da tanti organismi sovranazionali, come l’ONU, l’OMS, la FAO, la Commissione europea e da tanti istituti di ricerca. Chiudo questo capitolo con una frase di Papa Francesco, che alla crisi ambientale e sociale ha dedicato la sua Enciclica Laudato sì, del 2015: “Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato”.89

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https://news.wsu.edu/2020/07/30/bracing-next-pandemic/ https://www.kyotoclub.org/documentazione/comunicati/2020-apr-07/l-esperienza-del-coronavirus-impone-diripartire-mettendo-al-primo-posto-la-salute-ambientale-umana-e-degli-animali/docId=9823 88 https://www.iss.it/one-health 89 https://www.avvenire.it/papa/pagine/papa-non-possiamo-fingerci-sani-in-mondo-malato 87

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Capitolo 3 - Verso uno sviluppo qualitativo della vita 3.1 Il Green New Deal Per far fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici e intraprendere un percorso verso la società circolare, è nato negli Stati Uniti il movimento del Green New Deal90. Si tratta di un progetto politico con lo scopo di favorire una transizione equa e giusta verso un’economia sostenibile e con impatto ambientale zero. Questo progetto prevede delle misure concrete per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. Il nome “Green New Deal” ha un chiaro rimando al “New Deal” di Franklin D. Roosevelt che nel 1933 attuò una serie di riforme sociali ed economiche in risposta alla Grande Depressione, attivando politiche di creazione di lavoro, redistribuzione della ricchezza, limitazione della speculazione finanziaria, welfare state diffuso, eccetera. L’interpretazione moderna mette insieme l’approccio economico e soprattutto sociale di Roosevelt con le idee attuali di energia rinnovabile e consumo intelligente di risorse. A partire dagli anni Settanta, scienziati e gruppi di attivisti statunitensi – analogamente a quanto accadeva in altre parti del mondo occidentale e non solo – hanno iniziato a prendere coscienza della necessità di portare l’economia del loro paese verso le energie rinnovabili, la sostenibilità e la responsabilità per la biosfera e le future generazioni. Queste idee hanno progressivamente avuto largo seguito e sono rientrate – come visto nel Capitolo 1 – nei programmi per l’ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme, UNEP). Così, nel 2008, il direttore esecutivo dell’UNEP ha inaugurato il progetto Global Green New Deal con lo scopo di creare posti di lavoro nelle industrie che tengono conto dell’obiettivo di diminuzione delle emissioni inquinanti. Successivamente, nel 2019, il senatore del Massachusetts Edward J. Markey e la rappresentante alla camera del distretto di New York, Alexandria Ocasio-Cortez, entrambi democratici, hanno reso pubblico il loro programma del Green New Deal.91 Gli obiettivi del GND riguardano sia aspetti sociali che ambientali, come combattere la povertà con piani di assistenza sanitaria universale, aumentare i posti di lavoro “state-sponsored”, incrementare i salari minimi, utilizzare fonti di energia 100% rinnovabile, installare una rete elettrica di nuova generazione che abbatta gli sprechi, incrementare l’utilizzo delle auto elettriche e quello di un sistema ferroviario ad alta velocità.92 Inoltre, la trasformazione green 90

https://en.wikipedia.org/wiki/Green_New_Deal https://www.congress.gov/116/bills/hres109/BILLS-116hres109ih.pdf 92 N. Klein (2018), On fire. The (burning) case for a Green New Deal, Allen Lane, London 91

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riguarderebbe tutto il sistema di produzione industriale, che verrebbe riprogettato per diminuire le emissioni di CO2 e l’impatto negativo sull’ambiente. Il Green New Deal è diventato un tema molto discusso a livello mondiale sia dal punto di vista politico che economico. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha posto il Green Deal al centro della trasformazione dell'Europa e a fine 2019 la sfida ambientale è stata introdotta come priorità nell’agenda comunitaria davanti al Parlamento europeo.93 A Bruxelles si sono delineati quattro propositi per ridurre le emissioni e creare nuovi posti di lavoro: 1. diventare climaticamente neutri entro il 2050, 2. proteggere vite umane, animali e piante riducendo l’inquinamento, 3. aiutare le imprese a diventare leader mondiali nel campo delle tecnologie e dei prodotti puliti, 4. contribuire a una transizione ecologica giusta e inclusiva.94 Nel dicembre 2020 “il Consiglio europeo ha approvato un nuovo obiettivo UE vincolante di riduzione interna netta delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Si tratta di un aumento di 15 punti percentuali rispetto all'obiettivo per il 2030 che era stato concordato nel 2014. I leader dell'UE hanno invitato il Consiglio e il Parlamento a tenere conto di questo nuovo obiettivo nella proposta di legge europea sul clima e a adottare quest'ultima rapidamente”95. Se guardiamo al di fuori dell’Europa, notiamo invece che non viene fatto nessuno sforzo di tutela dell’ambiente da parte degli altri paesi. Ad esempio, nel periodo 1990-2012 l’India ha aumentato le proprie emissioni del 200% e la Cina del 290%.96 Anche gli Stati Uniti, con la Presidenza negazionista di Donald Trump, sono usciti dagli Accordi di Parigi sul clima, cioè da quell’accordo raggiunto a livello internazionale nel 2015 (COP 21) per evitare pericolosi cambiamenti climatici e limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi – anche se ora, con la nuova Presidenza Biden, gli Usa hanno posto l’ambiente tra le grandi priorità. Un futuro sostenibile richiede ovviamente una visione globale. Servirebbe un accordo mondiale, un Global Green New Deal per bilanciare la crescita economica – o meglio ancora lo sviluppo economico qualitativo – e la salvaguardia dell’ambiente. Ma i paesi che hanno appena raggiunto un tenore di vita migliore, difficilmente accetterebbero questo patto.

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https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it https://sbilanciamoci.info/green-new-deal-dinamica-di-struttura-occupazione-e-ambiente/ 95 https://www.consilium.europa.eu/it/policies/green-deal/ 96 https://ec.europa.eu/jrc/en/news/global-co2-emissions-continue-rise-eu-bucks-global-trend 94

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Per quanto riguarda l’Italia, il lancio del Green New Deal sta avvenendo attraverso l’approvazione della legge sul clima, il decreto Salvamare e la norma sul riciclo End of waste. Nel luglio 2020 è stato presentato il cosiddetto “Collegato ambientale”, cioè il Disegno di legge “Green New Deal e transizione ecologica del Paese”, che contiene importanti indirizzi strategici per la tutela del territorio italiano. Lo scopo di questa norma è l’attivazione di sistemi di controllo e monitoraggio delle attività potenzialmente inquinanti al fine di proteggere l’ambiente. Prevede, inoltre, interventi di riqualificazione energetica, incentivi per l’istallazione di dispositivi sanitari idonei al risparmio idrico, la promozione dell’autoconsumo e la condivisione di energia prodotta da fonti rinnovabili, una migliore gestione dei rifiuti e il contrasto all’obsolescenza programmata dei beni.97 Sempre nel 2020 il governo italiano ha stanziato, con la Legge di bilancio, 33 miliardi di euro da spendere in 15 anni nelle iniziative del Green New Deal. Le priorità del fondo saranno: economia circolare, decarbonizzazione, riduzione delle emissioni, risparmio energetico, sostenibilità ambientale e “programmi di investimento per progetti di carattere innovativo”. I comuni avranno in dotazione ulteriori risorse spendibili per opere di edilizia pubblica, inclusi efficientamento energetico, manutenzione della rete viaria, dissesto idrogeologico, prevenzione del rischio sismico e valorizzazione del territorio. Gli enti locali, nel periodo 2020-2034, disporranno di contributi per interventi di messa in sicurezza degli edifici, delle strade e del suolo, per lo sviluppo di sistemi di trasporto pubblico ecologici, per le infrastrutture sociali, le bonifiche ambientali dei siti inquinati e per la riconversione energetica verso fonti rinnovabili.98 Altro ancora è contenuto nel Recovery Fund, accordo raggiunto tra Parlamento e Consiglio sul bilancio europeo 2021-27, che in risposta alla grave recessione economica scoppiata in Europa a seguito della crisi Covid-19, hanno deciso di stanziare una quantità ingente di risorse a favore dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi. Una buona parte del Recovery Fund è destinata agli investimenti a tutela dell’ambiente: “almeno il 30% delle risorse totali dovrà contribuire agli obiettivi climatici dell'Unione”. Inoltre, in base all'accordo, “dal 2024 il 7,5% della spesa annuale dovrà andare agli obiettivi della tutela e conservazione della biodiversità, quota che salirà al 10% a partire dal 2026”99.

97

Disegno di legge “Green New Deal e transizione ecologica del Paese” https://www.madehse.com/public/file/38107ddlcollamb20-39789.pdf 98 G. Santilli, “Green New Deal, piano da 33 miliardi”, Sole24Ore, 7 gennaio 2020 http://www.inu.it/wpcontent/uploads/Sole_green_new_deal_7_gennaio_2020.pdf 99 https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it

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Nonostante la circular economy sia entrata nell’immaginario collettivo, sia a livello macroeconomico che microeconomico, nella pratica le difficoltà sono molte. Secondo le indagini della European environment agency, si è notato che la messa in pratica di obiettivi nazionali green trova spesso difficoltà a livello politico-normativo. Per passare all’economia circolare sono fondamentali azioni legislative e normative mirate.

3.2 L’indicatore di Benessere Equo e Sostenibile (BES) Per molti anni, il progresso di un paese è stato rappresentato unicamente dal Prodotto Interno Lordo (Pil), una grandezza macroeconomica che misura il valore aggregato, a prezzi di mercato, di tutti i beni e i servizi finali prodotti sul territorio in un dato anno. Il Pil simboleggia la forza economica di una nazione in base al suo grado di sviluppo e progresso finanziario, per questa ragione le politiche macroeconomiche tendono a rendere massimo il livello del Pil. Ma questo indicatore è di natura esclusivamente economica e prende in considerazione solo la quantità e non la qualità. Esso non tiene conto di tantissimi fattori che contribuiscono al benessere del paese e della sua popolazione. Nella vita, infatti, non contano solo i dati numerici relativi alle statistiche del Pil. “Troppa enfasi è stata posta sul Pil come misura principale della salute delle economie e delle società. Se non guardiamo alle cose che veramente contano nella vita, non possiamo fare le scelte giuste per le persone, la società e il pianeta” 100 afferma Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001. Anche Robert Kennedy, nel 1968 durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, criticò l’idea del Pil, in quanto esso "misura tutto, eccetto ciò che per cui vale la pena vivere"101. Ormai da decenni è in corso a livello internazionale il dibattito sul cosiddetto "superamento del Pil" come unico indicatore di misurazione del benessere. Si è diventati consapevoli che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non possono essere esclusivamente di carattere economico, ma devono tenere conto anche delle fondamentali dimensioni sociali e ambientali. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso molti studi si sono dedicati alla ricerca di indicatori in grado di descrivere il benessere soggettivo. Sono state scelte variabili come: l’accesso all’istruzione, la salute fisica, l’inquinamento, la probabilità di disastri naturali, il rispetto dei diritti umani, la discriminazione, la libertà politica, la sicurezza personale, la conciliabilità tra lavoro e vita privata, il tasso di mortalità infantile e l’aspettativa di vita. 100

J.E. Stiglitz, J. Fitoussi, M. Durand (2018), Beyond GDP: Measuring What Counts for Economic and Social Performance, OECD Publishing, Parigi, https://doi.org/10.1787/9789264307292-en 101 Discorso sul PIL di Robert Kennedy del 18 marzo 1968 https://www.comprensivo8vr.edu.it/attachments/article/369/Discorso%20sul%20PIL%20di%20Robert%20Kennedy%2 0del%2018%20Marzo%201968.pdf

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Nessuno di questi indicatori è di natura economica. Infatti, è stato studiato che nel corso della vita, la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e dalla ricchezza. Indagando le determinanti del benessere soggettivo, nel 1974 è stato formulato il “paradosso della felicità” o “paradosso di Easterlin”102 (dal nome dell’economista che lo osservò per la prima volta a proposito degli Stati Uniti), secondo il quale, a fronte di incrementi di reddito, il livello di soddisfazione individuale rimane stazionario o persino decresce. Già Adam Smith nel saggio del 1759 “The Theory of Moral Sentiments” evidenziava come "il figlio del povero, che lavora giorno e notte per acquisire talenti superiori ai suoi concorrenti, sia spinto dall'idea ingannevole che il ricco sia più felice o possieda maggiori mezzi per la felicità. In realtà, essendo la capacità di godere dei beni fisiologicamente limitata, l'uomo ricco può consumare poco di più del povero, la cui minor quantità di beni è compensata dalle minori preoccupazioni e dalle migliori relazioni sociali rispetto al ricco che vive continuamente in ansia per i suoi beni, ed invecchia solo e deluso per non aver raggiunto la felicità e per di più invidiato dai suoi concittadini”103. Quasi duecento anni dopo, il paradosso di Easterlin ha messo in crisi l'impostazione mondiale delle politiche economiche indirizzate alla crescita smisurata sulla base del Pil. Economisti e psicologi hanno iniziato ad interrogarsi più approfonditamente su che cosa rende felici le persone e che cosa esse intendano per felicità. Se raggiungere il benessere economico non garantisce una vita felice, allora quale stile di vita è meglio perseguire? E quali obiettivi dovrebbe porsi una società che intende mettere la persona e i suoi bisogni al centro di ogni decisione pubblica? In realtà ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che può realisticamente ottenere. Infatti, sebbene la qualità media di vita sia migliorata, oggi non ci riteniamo più felici di vent’anni fa perché le nostre aspettative sono cambiate e desideriamo sempre di più. Il paradosso di Easterlin vale anche quando si paragonano paesi dove la ricchezza pro-capite è molto diversa, ad esempio un paese povero e uno ricco.104 Notiamo che, a fronte di diverse possibilità economiche degli abitanti, la felicità è maggiore solo quando i cittadini hanno un migliore accesso ai servizi e ai beni comuni. Allora qual è il “segreto” della felicità? Il livello di istruzione, le condizioni di salute e le relazioni umane sembrano essere i principali indicatori 102

https://en.wikipedia.org/wiki/Easterlin_paradox A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, 1759 tradotto in italiano da S. Di Pietro, Teoria dei sentimenti morali (1995), Rizzoli, Milano https://bur.rizzolilibri.it/libri/teoria-dei-sentimenti-morali/ 104 M. Maggiori, M. Pellizzari, “Alti e bassi dell’economia della felicità”, La Stampa, 12 maggio 2003, p. 19 http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/Itemid,3/action,detail/id,0160_01_20 03_0129_0019_1113037/ 103

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di benessere. Anche vivere in un paese democratico e libero incide molto sulla serenità degli individui; abitare in una città con poca povertà e poche disuguaglianze sembra rendere più felici. Inoltre, gli studi che confrontano felicità e soddisfazione di persone simili indicano che gli occupati sono molto più felici dei disoccupati perché la sicurezza del posto di lavoro rende meno stressati e chi ha una famiglia stabile è più felice di chi è separato o divorziato. La soddisfazione per la propria vita è un elemento fondamentale non solo per il benessere della persona, ma anche per il buon funzionamento del sistema. Infatti, “la ricerca scientifica ci dice che se le persone sono più felici, la “macchina” funziona meglio e la sfera dei loro bisogni si modifica, superando la dimensione puramente egoistica e comprendendo i bisogni della società nel suo complesso, cioè delle altre persone e dell’ecosistema” 105 . Enrico Giovannini, economista, statistico e accademico italiano, autore del libro “L’utopia sostenibile” afferma che “la felicità e la resilienza contribuiscono a trasformare le condizioni materiali (ciò che si ha) in stati fisici e mentali (ciò che si è)” portando a una maggiore soddisfazione personale. Inoltre, è stato dimostrato che “la capacità di estrarre felicità e di essere molto resilienti dipende non solo da fattori genetici (molto rilevanti), ma anche dall’educazione, dalla cultura e dall’ambiente in cui viviamo, cioè dal modo con cui funziona il modello di sviluppo”106. C’è quindi un legame circolare tra buona salute degli spazi in cui si vive e soddisfazione delle persone. Risulta chiaro, a questo punto, che per misurare il grado di progresso sostenibile di una comunità, è necessario considerare, oltre all’economia, anche aspetti di natura sociale, umana e ambientale. Nel 1990 è stato ideato l’Indice di sviluppo umano (Isu), in inglese Human Development Index (HDI), un indicatore che a partire dal 1993 è stato utilizzato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite accanto al Pil per valutare la qualità della vita dei membri di un paese. Questo indice tiene conto di differenti fattori come la speranza di vita, lo stato di salute, il livello di istruzione e il tenore di vita. 107 Sebbene sia stato criticato per il fatto di non tenere conto delle questioni ambientali e tecnologiche, l’Isu è sicuramente un indicatore più completo del Pil. Nel 2011 l’Ocse ha introdotto il Better Life Index, con l’intento di fornire un quadro completo sulla qualità della vita nei vari paesi del mondo. Il Better Life Index, o indice del benessere e della felicità, si basa sui già citati temi: abitazione, reddito e occupazione, salute, sicurezza personale, istruzione, equilibrio lavoro-vita privata, soddisfazione, relazioni sociali e ambiente.

105

E. Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, Roma-Bari, 2018, p. 60 Ivi, p. 61 107 https://economictimes.indiatimes.com/definition/human-development-index 106

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Rispetto all’Isu degli anni Novanta, oggi gli economisti tengono conto anche delle risorse naturali, oltre che umane e sociali. Nel 2013, Istat e Cnel hanno elaborato un modello di misurazione composto da indicatori più esaustivi, includendo la sostenibilità ambientale, la qualità sociale e la parità tra i sessi.108 Si tratta del Benessere equo e sostenibile (Bes), elaborato insieme ai rappresentanti delle parti sociali e della società civile “con l’obiettivo di integrare le informazioni fornite dagli indicatori sulle attività economiche con le fondamentali dimensioni del benessere, corredate da misure relative alle diseguaglianze e alla sostenibilità”.109 Dal 2016, il Bes – con la norma 163/2016 che ha riformato la legge di bilancio – è entrato per la prima volta a far parte del Def (Documento di economia e finanza). 110 E dal 2018 gli indicatori Bes sono stati inclusi tra gli strumenti di programmazione e valutazione della politica economica nazionale. Gli indici e le analisi sul benessere vengono spesso affiancati al monitoraggio dei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. I due set di indicatori hanno entrambi lo scopo di aumentare la qualità di vita attraverso una particolare attenzione al singolo, alla comunità e all’ambiente. Istat e Cnel hanno determinato il Bes a partire dai seguenti 12 indicatori: 111 1.

Reddito medio disponibile aggiustato pro capite.

2.

Indice di disuguaglianza del reddito disponibile.

3.

Indice di povertà assoluta.

4.

Speranza di vita in buona salute alla nascita.

5.

Eccesso di peso.

6.

Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione.

7.

Tasso di mancata partecipazione al lavoro, con relativa scomposizione per genere.

8.

Rapporto tra tasso di occupazione delle donne 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli.

9.

Indice di criminalità predatoria.

10. Indice di efficienza della giustizia civile. 11. Emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti. 12. Indice di abusivismo edilizio.

108

https://www.istat.it/it/files/2013/03/bes_2013.pdf https://www4.istat.it/it/benessere-e-sostenibilit%C3%A0/misure-del-benessere 110 https://www.mef.gov.it/inevidenza/Il-nuovo-Rapporto-sul-Benessere-Equo-e-Sostenibile-allegato-al-DEF-2019/ 111 https://www.istat.it/it/files//2019/12/Bes_2019.pdf 109

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L’indice di Benessere equo e sostenibile ha contribuito a dare una visione d’insieme più completa delle reali condizioni in cui si trova la popolazione. Joseph E. Stiglitz spiega l’importanza di dotarsi di strumenti di misurazione validi: “what we measure affect what we do”, ossia “ciò che si misura influisce su ciò che si fa”. Usare un indicatore di benessere piuttosto che un altro porta alla realizzazione di interventi di policy di diverso tipo. 112 Oggi, l’obiettivo è di allontanarsi dall’idea di raggiungere solo profitto economico e spostare l’attenzione sugli individui, mettendo sullo stesso piano le determinanti di tipo economico e non economico. Anche perché, proprio se assumiamo una visione più ampia, ci rendiamo conto che un modello orientato a conseguire una crescita infinita del Pil non è possibile in un pianeta limitato (supra, Club di Roma, Nebbia, Georgescu-Roegen).

3.3 Il ruolo della finanza per la tutela dell'ambiente Il settore finanziario oggi gioca un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico. Gli investimenti sostenibili e responsabili, noti con l’acronimo inglese SRI, che sta per Sustainable and Responsible Investment, vengono scelti dagli investitori che non si accontentano di ottenere un ritorno finanziario, ma vogliono essere certi di non contribuire – più o meno direttamente – ai cambiamenti climatici e alle ingiustizie sociali. In ambito economico-finanziario per indicare tutte queste attività, che tengono in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance, si parla di investimenti ESG.113 L’acronimo ESG significa Environmental, Social e Governance: con Environmental si considerano le emissioni di CO2, l’impatto sulla biodiversità e la sicurezza alimentare; Social fa riferimento ai diritti umani, le condizioni di lavoro, l’impiego di minori e l’uguaglianza; infine, la Governance si riferisce alla qualità del consiglio di amministrazione, la loro remunerazione e il diritto degli azionisti. Focalizzare l’attenzione solo sui rendimenti finanziari di un determinato settore o azienda è ormai considerato riduttivo, mentre è diventato fondamentale integrare nelle analisi i criteri ESG. Gli investimenti sostenibili e responsabili negli ultimi anni sono diventati noti a tutti, ma hanno una storia secolare. Le prime forme di investimento responsabile (IR) vengono, infatti, ricondotte al XVIII secolo, quando le correnti religiose più rigorose, come il protestantesimo, ritenevano incompatibile con la dottrina cristiana la scelta di investire i propri risparmi in attività economiche che facevano uso di schiavi o erano collegate alla produzione e al

112 113

http://www.comitatoscientifico.org/temi%20SD/rapportostiglitz.htm#_Toc245580717 https://www.wallstreetitalia.com/trend/esg/

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commercio di armi, tabacco e alcolici o coinvolte nel gioco d'azzardo. E il 13 febbraio 1928, a Boston, nacque ufficialmente il fondo di investimento etico, Pioneer fund che, sulla scia dell’orientamento imposto dalla chiesa metodista, fu il primo in assoluto a tagliare fuori dal raggio dei suoi investimenti il gioco d’azzardo, il tabacco e l’alcool. 114 Il fenomeno degli investimenti responsabili esce dall'ambito religioso solo a partire dagli anni Sessanta, sull'onda della diffusione, in tutti i paesi industrializzati, di movimenti di protesta in materia di diritti civili e di partecipazione democratica. Questi movimenti iniziano a fare domande scomode anche ai big dell’economia e della finanza, per capire come e dove investivano il loro denaro. A partire dagli anni Ottanta, anche in Europa si inizia a parlare di investimenti responsabili, in particolare nel Regno Unito, paese in cui, nel 1984, viene lanciato il fondo Stewardship Trust dell’organizzazione inglese Friends Provident. Ma è con gli anni Novanta che la finanza socialmente responsabile si pone come esempio per tutto il mondo degli investimenti.115 In Italia, gli IR solo arrivati in tempi relativamente recenti, quando nel 1997 è stato costituito il primo comparto etico dalla società di gestione del risparmio del gruppo Sanpaolo. L'esempio della “linea etica” è stato seguito da diverse società di gestione che hanno a loro volta lanciato prodotti simili, come Hera, Enel, Ferrovie dello Stato e Cassa depositi e prestiti. Adesso, Borsa Italiana collabora con la comunità finanziaria per perseguire gli obiettivi di crescita sostenibile, come: emettere obbligazioni green, social e sostenibili, essere una società quotata attenta ai temi della sostenibilità, accedere a investitori e investimenti ESG, scoprire esperienze di successo e risorse di valore.116 Nel 1999 vennero lanciati gli indici sostenibili Dow Jones per valutare la performance di sostenibilità di migliaia di società. Essi si basano su un’analisi delle prestazioni economiche, ambientali e sociali, valutano la governance aziendale, la gestione del rischio, il marchio, la mitigazione dei cambiamenti climatici, gli standard della catena di fornitura e le pratiche di lavoro. Questi indici sono diventati il punto di riferimento per gli investimenti nella sostenibilità.117 I progetti sostenibili – riconosciuti e non dal Dow Jones Sustainability Index – sono finanziati con i green bonds e i climate bonds, obbligazioni legate a tutti quei progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente. Questi titoli possono essere una grande opportunità per finanziare l’implementazione degli obiettivi dell’Agenda 2030 e altri piani di crescita verde. Le 114

https://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_sostenibile#Origini_ed_evoluzione Ivi 116 https://www.borsaitaliana.it/notizie/finanza-sostenibile/home-page/home.htm 117 https://en.wikipedia.org/wiki/Dow_Jones_Sustainability_Indices#Assessment 115

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prime obbligazioni verdi sono state emesse da organismi sovranazionali, ad esempio, dalla Banca europea degli investimenti (Bei), successivamente sono arrivate le emissioni corporate in tutto il mondo. Il primo green bond di Stato europeo è stato emesso dalla Polonia, che nel dicembre 2016 ha lanciato un’obbligazione verde da 750 milioni di euro. Ma è stata la Francia, un mese dopo, a entrare in modo pesante sul mercato finanziario sostenibile, emettendo un Titolo di Stato transalpino (Oat), che inizialmente doveva essere di 7 miliardi di euro, ma la richiesta degli investitori istituzionali ha esteso il programma di emissioni fino ad arrivare a 22 miliardi. Successivamente hanno emesso titoli di Stato green anche l’Irlanda, il Belgio, l’Olanda, la Germania e l’Italia.118 A fine 2020, le emissioni in obbligazioni verdi e sostenibili da parte delle banche italiane hanno raccolto sul mercato oltre 2 miliardi di euro. Una soluzione per dare una svolta alla riduzione delle emissioni di CO2 tramite la finanza l’ha indicata Mark Carney, ex-governatore della Banca d’Inghilterra: “Siano le Banche centrali a investire in green asset influenzando così il mercato delle obbligazioni verdi”. Culturalmente qualcosa sta cambiando anche nel campo del risparmio gestito, in quanto gli investitori Millennials chiedono di investire nelle iniziative green con maggiore attenzione ai fattori ESG. Questa crescente tendenza da parte del mondo finanziario e dei piccoli risparmiatori è un importante segnale dell’interesse a tutti i livelli per una realizzazione futura dell’economia circolare. Spesso però la finanza si dichiara “sostenibile” solo per attirare l’attenzione dei possibili clienti. Infatti, alcune grandi banche finanziano ancora le imprese che inquinano, le industrie delle armi e si dedicano ad affari puramente speculativi, che di responsabile non hanno niente.119 Per finanza etica si intende, invece, il settore che pone le persone e l’ambiente al centro dell’attività di investimento e tiene conto – in via prevalente – delle future generazioni. Nel 1998 è stato redatto dall’Associazione finanza etica il “Manifesto della finanza etica”, il quale raggruppa gli obiettivi di un programma di investimento responsabile. Al punto 6 del manifesto si evidenzia che la finanza eticamente orientata “esclude per principio rapporti finanziari con quelle attività economiche che ostacolano lo sviluppo umano e contribuiscono a violare i diritti fondamentali della persona, come la produzione e il commercio di armi, le produzioni gravemente lesive della salute e dell'ambiente, le attività che si fondano sullo sfruttamento dei minori o sulla repressione delle libertà civili.”120

118

https://www.ilsole24ore.com/art/green-bond-ecco-cosa-sono-e-come-funzionano-AC9tKqDB https://sbilanciamoci.info/finanza-non-sostenibile/ 120 https://www.bancaetica.it/sites/bancaetica.it/files/web/labanca/Politica%20del%20credito/Manifesto%20della%20Finanza%20Etica.pdf 119

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3.4 La responsabilità sociale e ambientale delle imprese I consumatori attenti alla giustizia sociale e alla salvaguardia ambientale sono ancora troppo pochi. Le scelte di acquisto, invece che sul prezzo, dovrebbero basarsi sulla qualità, sull’origine delle materie, sulla sostenibilità del packaging e sull’attenzione alla filiera e alla produzione. Se non con la condotta dei cittadini, come è possibile raggiungere risultati sostenibili? Possono le aziende, cambiando la loro offerta, guidare i cambiamenti sociali e ambientali? In passato le imprese sono state molto irresponsabili verso il territorio e i cittadini, rifiutandosi di valutare le conseguenze del loro agire. Affinché, ora, vengano rispettati i diritti fondamentali dei lavoratori, delle comunità locali e il rispetto dell’ambiente naturale, è necessario che le imprese e il mondo economico si accollino un’importante responsabilità. Si parla di Responsabilità sociale d’impresa (Rsi), ossia "l'integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate"121. Al centro della Rsi vi è un obbligo morale ed etico nei confronti dei dipendenti, dell’ambiente, della società, dei concorrenti, dell’economia e di tutti i settori che vengono in contatto con l’azienda. Ciò si traduce nell'adozione di una politica aziendale che sappia conciliare gli obiettivi economici con quelli sociali e ambientali, in un’ottica di sostenibilità futura. “Credere nella responsabilità sociale significa andare oltre il semplice rispetto della legge”122, investendo di più nell’ambiente e nei rapporti sociali, destinando parte delle proprie risorse anche a vantaggio della comunità. La Rsi è entrata formalmente nell'agenda dell'Unione Europea a partire dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, dove è stata considerata “uno degli strumenti strategici per realizzare una società più competitiva, socialmente coesa e per modernizzare e rafforzare il modello sociale europeo”. Oggi investire nella Rsi non è più solo un modo per rispondere alla crescente richiesta di qualità di prodotti e servizi del mercato, ma è anche una strategia per distinguersi dai competitor valorizzando il proprio marchio in termini di reputazione d’impresa. Diventa però difficile capire la volontà dell’azienda: se essa svolge pratiche volontarie per il bene della comunità o per puro accrescimento di reputazione e denaro (greenwashing, infra). Adriano Olivetti, imprenditore della società di macchine da scrivere, è considerato il precursore della responsabilità sociale d’impresa verso i dipendenti e il territorio. Grazie alla Olivetti, ad

121

https://www.unioncamere.gov.it/csr/P42A0C385S370/Che-cos-%EF%BF%BD.htm http://www.orienta-express.it/index.php/2019/10/28/responsabilitasociale/#:~:text=Credere%20nella%20responsabilit%C3%A0%20sociale%20significa,e%20che%20continuano%20a%20 farlo 122

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Ivrea, sono state costruite case, scuole, asili e biblioteche. La Carta Assistenziale della Olivetti, redatta nel 1950 dal Consiglio di Gestione, inizia sottolineando che “Il servizio sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni lavoratore dell’Azienda contribuisce con il proprio lavoro alla vita dell’Azienda medesima […] e potrà pertanto accedere all’istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici”.123 Risulta chiaro che Olivetti aveva a cuore il benessere dei propri dipendenti. L’impresa responsabile secondo Adriano Olivetti – Luciano Gallino ne descrive la filosofia in un suo libro dal titolo “L’impresa responsabile”124 – va però ben oltre la definizione di Rsi. Poiché Olivetti era anche uomo di cultura e cercava di portare la conoscenza (e non solo le competenze, come oggi) ai suoi dipendenti, organizzava attività culturali/educative anche in campo artistico e musicale-teatrale; nelle biblioteche da lui create, le persone potevano trovare libri anche di autori marxisti. Olivetti si sentiva responsabile verso la società e verso il territorio, infatti fu proprio lui a portare in Italia quella scienza allora ancora sconosciuta che era l’urbanistica. L’impresa responsabile (e umanistica) di Olivetti era quindi filosoficamente molto diversa da quella che oggi si definisce appunto con Rsi. Certo, anche oggi ci sono imprese innovative, che si impegnano ogni giorno nella responsabilità sociale d’impresa, con iniziative per diminuire l’impatto ambientale, la quantità di rifiuti e incrementare l’inclusione sociale. Microsoft, ad esempio, sostiene comunità locali nei paesi poveri con progetti solidali, si occupa di programmi per la salute e il benessere dei suoi dipendenti, è attiva nella rimozione delle disparità di genere e delle minoranze, utilizza energie rinnovabili e sistemi di risparmio energetico e opera con fornitori a loro volta attenti all’ambiente. A sua volta, Banca Intesa Sanpaolo si contraddistingue per il suo sostegno alle persone in serie difficoltà economiche, erogando centinaia di milioni di euro all’anno in pasti, posti letto e finanziamenti agevolati. Inoltre, collabora con la Ellen MacArthur Foundation in veste di Global Strategic Partner finanziando progetti relativi all’economia circolare di piccole e medie imprese.125

3.5 Il greenwashing e l’illusione verde Il concetto di Responsabilità sociale d’impresa è spesso oggetto di critiche. Le aziende sono accusate di applicare la Rsi non per comprovati motivi morali, ma perché sperano che ciò possa avere un effetto positivo sulla loro immagine. Secondo tale opinione, molte imprese mostrano

123

https://www.storiaolivetti.it/articolo/95-lo-stato-sociale-olivettiano-e-la-filosofia-di-/ L. Gallino (2019), L’impresa responsabile, Einaudi, Torino 125 https://group.intesasanpaolo.com/it/sostenibilita 124

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presunti comportamenti sostenibili per ottenere maggiori profitti attirando l’attenzione dei consumatori sensibili alla salute del pianeta. I critici descrivono la Rsi come parte del marketing e l’adesione ai principi dell’economia circolare più come un’esibizione che non una realtà vera e propria. Questo comportamento è chiamato greenwashing: le aziende dichiarano di essere ecosostenibili quando invece non lo sono. Il termine greenwashing è il risultato della combinazione di due parole inglesi: green, il colore tradizionalmente associato alle questioni ecologiche, e whitewashing: parola usata dagli anglofoni sia nel significato letterale di “imbiancare”, sia nel senso figurato di “dissimulare”, “nascondere” o “insabbiare” dei fatti spiacevoli. In italiano potrebbe essere tradotto con l'espressione "darsi una patina di credibilità ambientale" o “tingersi di verde” per sembrare più amico del pianeta.126 “Il greenwashing indica quindi la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un'immagine positiva di sé sotto il profilo dell'impatto ambientale. Questo con lo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica e dei media dagli effetti negativi per l'ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti” 127 . Un’azienda che fa greenwashing usa in maniera disonesta campagne pubblicitarie o in qualche caso persino iniziative di responsabilità sociale per coprire le sue azioni irresponsabili. Il greenwashing, in tal senso, può essere inteso come un “marketing ecologico di facciata”. Si intende, infatti, ogni azione di marketing che tenti di far passare le normali attività dell’impresa come più sostenibili di quanto esse siano nella realtà. Per alcune società, in sostanza, è più conveniente investire nel comunicare il proprio impegno in termini di sostenibilità, attraverso la pubblicità, piuttosto che mettere in atto misure realmente in grado di ridurre l’impatto ambientale. Il termine greenwashing è stato coniato dall’ambientalista newyorkese Jay Westerveld nel 1986 per condannare la pratica delle catene alberghiere che cominciarono a chiedere ai propri ospiti di riutilizzare asciugamani e teli da bagno, sostenendo che la scelta fosse più sostenibile dal punto di vista ambientale rispetto a cambiarli giornalmente, quando in realtà la motivazione era di natura puramente economica in modo da tagliare i costi.128 Il ricorso alla pratica del greenwashing si è poi intensificato negli anni Novanta quando grandi aziende chimiche e petrolifere, come ad esempio Chevron o DuPont, cercarono di spacciarsi come eco-friendly proprio per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dall'inquinamento che stavano causando.

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https://it.wikipedia.org/wiki/Greenwashing Ivi 128 J. Motavalli, “A History of Greenwashing: How Dirty Towels Impacted the Green Movement”, https://www.aol.com/2011/02/12/the-history-of-greenwashing-how-dirty-towels-impacted-the-green/ 127

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Ma la vera sostenibilità non è un’operazione di marketing, anzi, è un percorso che affonda le radici in una profonda revisione del modello di business, dei processi e dei prodotti. L’azienda green lo dovrebbe essere nel DNA, quotidianamente impegnata nel raggiungimento reale dei migliori risultati di sostenibilità. Il vero green marketing è quello che riflette un'azienda che, nelle proprie attività economiche e sociali, tiene conto del fatto che le risorse naturali non sono infinite e che quindi è indispensabile un loro uso responsabile per non ledere i diritti della collettività e delle future generazioni. Ciò che contraddistingue una corretta pratica di green marketing e la differenzia dal greenwashing è riuscire a coniugare i risultati economici e la tutela dell'ambiente. Anche i loro clienti devono essere educati a un consumo responsabile. Le aziende devono informare correttamente i propri clienti sulla preparazione e la composizione del prodotto, la provenienza e il tipo di materie prime utilizzate e il tipo di processo eseguito, ovvero deve essere un marketing non finalizzato ad accrescere i consumi, come quello dell’economia lineare, ma a far consumare meglio e meno. Le pratiche di greenwashing, anche se risultano efficaci nel breve periodo, nel tempo possono danneggiare pesantemente la reputazione dell’impresa e la sua competitività sul mercato. Il rischio è quello di perdere credibilità nei confronti del cliente e dei vari altri stakeholder per effetto di una comunicazione ambientale poco trasparente (ovvero non supportata da dati certificati e verificabili). I consumatori, dal canto loro, devono imparare ad avere spirito critico per difendersi dalle false campagne verdi. È importante leggere le etichette, le informazioni riportate sui prodotti e verificare che termini come “green”, “eco” e “bio” abbiano davvero riscontro. Nel web è possibile consultare siti creati appositamente per aiutare i consumatori a individuare le aziende veramente green e quelle che invece effettuano operazioni di greenwashing. Un esempio è GoodGuide, che classifica molti prodotti di largo consumo esprimendo un giudizio secondo tre basilari parametri: salute, impatto ambientale e impatto sociale. In Italia, possiamo consultare Il Fatto Alimentare, che dal 2010 pubblica articoli su tematiche alimentari riguardanti la sicurezza, le etichette, la nutrizione, le analisi dei prodotti e approfondimenti sui prezzi, sui consumi e sulla legislazione. Per quanto riguarda la moda sostenibile esistono Good On You e Il Vestito Verde, i quali forniscono una grande selezione di marchi e negozi per lo shopping consapevole. Nel 2014, è entrato in vigore un nuovo articolo del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale riguardante la tutela ambientale, che frena il greenwashing e controlla i “green claim”, ovvero i messaggi pubblicitari che contengono rivendicazioni ambientali. L’Istituto di autodisciplina pubblicitaria afferma che “la comunicazione 47


commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”129. Questa nuova norma – per quanto non sia una legge ma un codice di auto-disciplina – impone standard precisi di correttezza, in modo tale che gli slogan ecologici non diventino frasi prive di un significato concreto. I consumatori hanno il diritto di pretendere che i prodotti dichiarati come “scelta etica” lo siano davvero. A livello internazionale, la Consumer International, un'associazione europea di tutela dei consumatori, nel 2009 ha individuato i casi più gravi di greenwashing, tra i quali Easy Jet (per aver dichiarato che l’impatto ambientale di un aereo della compagnia sarebbe inferiore a quello di un’auto ibrida) e Audi (per aver comparato il suo diesel pulito all’impatto che avrebbe una bicicletta).130 Molto conosciuto è anche il caso Coca-Cola Life che, qualche anno fa, si propose come una bibita a basso contenuto calorico grazie alla presenza della stevia al posto dello zucchero. La bevanda veniva presentata come un prodotto “sano” e si voleva legare l’inconfondibile brand Coca-Cola ai concetti di benessere e salutismo. A rimarcare il concetto c’era l’etichetta di colore verde – invece del classico rosso – per suggerire e rafforzare le idee di “naturale” e “sostenibile”.131 Nel 2020 la bibita è stata ritirata dal mercato. In Italia, tra i casi più noti di greenwashing c’è stato lo spot di Ferrarelle che, nel 2012, pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 con la creazione di nuove foreste. L’azienda è stata multata perché lo slogan lasciava intendere che l’anidride carbonica venisse interamente compensata, cosa che in realtà non avveniva.132 Nel 2010, anche San Benedetto è stata sanzionata per avere presentato la propria bottiglia di plastica “ecofriendly”, pubblicizzandola come “prodotta con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente” senza una concreta caratteristica ecologica.133 Da tempo, gli ambientalisti di tutto il mondo criticano poi i tentativi di McDonald’s di rendere la sua attività più attenta all’ambiente. Sulla testata online The Vision si può leggere: “Le buone intenzioni dichiarate da McDonald’s contrastano con la natura stessa del brand. È evidente che il core business dell’attività di McDonald’s, cioè la vendita di carne a basso costo e su larga scala, sia incompatibile con una preoccupazione sincera per le sorti dell’ambiente e che ogni 129

https://www.iap.it/codice-e-altre-fonti/il-codice/ http://www.elzeviro.eu/affari-di-palazzo/economia-e-finanza/greenwashing-perche-prodotti-oggi-tutti-verdibio.html 131 https://www.ambientebio.it/rimedi-naturali/la-nuova-coca-cola-life-e-veramente-green/ 132 https://ilfattoalimentare.it/ferrarelle-pubblicita-ingannevole-impatto-zero-greenwashing.html 133 https://robertolapira.nova100.ilsole24ore.com/2010/01/22/san/ 130

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tentativo di presentare certe politiche sotto una luce verde sia solo un’operazione di marketing per non perdere la sua fascia di consumatori più sensibile in materia ambientale, in particolare i giovani” 134. Nonostante le normative a tutela dei consumatori, spesso è difficile capire se si tratta di green marketing o greenwashing; in ogni caso, i tentativi ecologici non sono mai inutili. Sebbene McDonald’s sia una catena di fast-food, non vuol dire che non possa provare ad essere più sostenibile. Sul sito del colosso di Chicago c’è un’intera sezione, Scale for Good, dedicata all’impegno nelle sfide sociali e ambientali più urgenti. Tra questi troviamo: packaging in carta riciclata, eliminazione della plastica monouso, attenzione ai menù-bambino con i giusti valori nutrizionali, corsi di formazione gratuita per i giovani che vogliono entrare nel mondo del lavoro e riduzione delle emissioni di gas serra nella lavorazione della carne bovina, nei ristoranti e negli edifici. Nei punti vendita tedeschi, McDonald’s ha già iniziato a distribuire bicchieri riutilizzabili, posate in legno e involucri di materiale riciclabile al 100%.135 A partire dal 2021, anche nel Regno Unito, verrà introdotta la “zero waste cup”. Anche H&M, un business di fastfashion e quindi naturalmente insostenibile, ha lanciato una Conscious Collection, realizzata con materiali innovativi prodotti da scarti agricoli, tappeti usati, imballaggi in plastica postindustriali e carbonio atmosferico. Oltre alle singole aziende, esistono interi settori di mercato che nascondono informazioni rilevanti per le scelte dei consumatori. Le auto elettriche e i pannelli solari, ad esempio, richiedono l'estrazione di metalli rari che non sono disponibili all’infinito. Le energie rinnovabili vengono considerate la forma più pulita di energia, senza però guardare gli aspetti negativi del loro utilizzo. Per costruire pale eoliche, turbine e pannelli solari servono molti materiali, che vengono estratti dal suolo. Un articolo uscito su Nature qualche anno fa, stimava che, per costruire gli impianti e “convertire un settimo della produzione di energia primaria mondiale, potrebbe essere necessario triplicare la produzione di calcestruzzo, quintuplicare quella di acciaio e moltiplicare di varie volte quella di vetro, alluminio e rame”. L’ONU, la Commissione Europea e la Banca Mondiale hanno stilato approfonditi rapporti in cui arrivano a conclusioni analoghe: per raggiungere uno scenario alimentato totalmente da energie rinnovabili, “serviranno moltissime risorse naturali in più”. Prendiamo ora in considerazione l’industria automobilistica, uno dei settori più criticati per le emissioni di CO2. In tutto il mondo si propongono le auto elettriche come soluzione sostenibile al posto di quelle a combustione. Ma i veicoli elettrici non sono completamente rispettosi 134 135

https://thevision.com/habitat/greenwashing-pianeta-sostenibilita/ https://ilfattoalimentare.it/mcdonalds-green-germania.html

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dell’ambiente. Secondo una ricerca dell’Istituto di ricerca tedesco IFO, se si tiene conto dell’intero ciclo di vita dell’automobile e se non si utilizza energia pulita per ricaricare le batterie, un veicolo elettrico produce più anidride carbonica rispetto a un motore diesel. 136 Attualmente, l’elettricità utilizzata per ricaricare le batterie viene prodotta anche da centrali a carbone. Sergio Marchionne, presidente del gruppo automobilistico Fca, già nel 2017 esprimeva forti perplessità sui veicoli elettrici a causa delle enormi quantità di energia ed emissioni inquinanti connesse al loro ciclo produttivo. A tal proposito annunciava che “forzare l’introduzione dell’elettrico su scala globale, senza prima risolvere il problema di come produrre l’energia da fonti pulite e rinnovabili, rappresenta una minaccia all’esistenza stessa del nostro pianeta”.137 Eppure, anche Fca si è orientata infine verso l’elettrico: nel 2020 sono arrivati sul mercato nuovi modelli di Fiat elettriche e ibride. Oggi, le case automobilistiche sono indotte dalle normative europee a produrre auto alimentate dalle batterie elettriche. Esattamente come, i cittadini “sono obbligati” a cambiare auto perché la circolazione dei motori Euro 1, Euro 2 e successivi, non è ammessa nei centri abitati. Il problema è che, più veicoli produciamo – sia che si tratti di auto a gasolio tradizionale sia di auto elettriche – più le emissioni di anidride carbonica aumentano. L’ideale sarebbe – come già ripetuto più volte – non forzare l’introduzione di nuove tecnologie e nuovi prodotti quando ciò che si possiede funziona ancora. E soprattutto spostare il baricentro del sistema attuale dall’auto privata al trasporto pubblico. Altri aspetti di cui poco o nulla si parla sui mass media sono la riciclabilità delle batterie e la reperibilità delle materie prime. Le batterie tradizionali sono inquinanti, ma in Italia e in Europa sono diffusi numerosi impianti in grado di recuperare tutte le materie prime ivi contenute. Lo stesso non si può dire a proposito delle nuove batterie al litio delle auto elettriche, per le quali, a oggi, non risultano impianti in grado di riciclare e recuperare i materiali. A fine 2020, il presidente di Toyota, Akio Toyoda, ha annunciato che “i veicoli elettrici sono sopravvalutati”, sottolineando “l’eccessivo clamore” che è stato posto sulle auto alla spina. Toyoda ha criticato i sostenitori dell’elettrico perché, “nel valutare la sostenibilità di questa tecnologia, non prendono in considerazione le emissioni di anidride carbonica prodotte dalla generazione di elettricità e, ancor di più, i costi sociali della transizione energetica” 138. Inoltre, Toyoda ha fatto presente che il Giappone andrebbe incontro a un blackout nel caso in cui tutto

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https://www.ilsole24ore.com/art/una-tesla-model-3-emette-piu-co2-una-mercedes-turbodiesel-c220d-ACwk9i4 L. Ponzi (2018), Sergio Marchionne: La storia del manager che ha salvato la Fiat e conquistato Chrysler, Rubbettino Editore, Catanzaro 138 https://www.quattroruote.it/news/industriafinanza/2020/12/17/toyota_akio_toyoda_auto_elettriche_sopravvalutate_settore_collassera.html 137

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il parco circolante fosse alla spina. Proviamo a pensare se tutto il mondo sviluppato circolasse con auto elettriche. Ma l’aspetto più critico delle auto elettriche, in termini di sostenibilità sociale, è legato alla difficile reperibilità delle materie prime impiegate per le batterie. L’estrazione del cobalto, per esempio, viene fatta violando i diritti umani. Nella Repubblica Democratica del Congo, dove si produce oltre la metà del cobalto del mondo, è noto che sono i bambini a lavorare all’estrazione di questo materiale. Il problema etico ed ecologico delle batterie agli ioni di litio è sorto con l’esplosione degli smartphone che, seppur in misura ridotta, contengono gli stessi materiali che vengono utilizzati per gli accumulatori delle auto. La questione è diventata di immense proporzioni perché se uno smartphone richiede circa 15 grammi di cobalto per funzionare, ad una vettura ne servono 15 Kg.139 “Di fronte al boom delle richieste di batterie elettriche è giunto il momento di rivedere le nostre fonti energetiche per dare priorità alla difesa dei diritti umani e dell’ambiente”140 afferma l’organizzazione Amnesty International impegnata nella difesa dei diritti umani; e continua: “ogni fase del ciclo di vita di una batteria, dall’estrazione dei minerali allo smaltimento, presenta rischi per i diritti umani e per l’ambiente”141. Non siamo sulla strada giusta se per trovare una soluzione alla crisi ambientale si è arrivati a violare i diritti umani e sacrificare numerose vite. Mentre i ricercatori sviluppano nuove alternative, la richiesta che è lecito fare all’industria automobilistica e tecnologica è di garantire condizioni di lavoro in linea con i diritti inalienabili degli esseri umani. L’invito è quindi quello di proporre un’auto ecologica, che sia anche etica. In ogni caso, le soluzioni per fronteggiare il cambiamento climatico non sono facili da trovare perché non c’è una visione chiara e unanime. Sembra quasi che ci sia un conflitto ideologico tra ecologia e innovazione. Le autorità scientifiche internazionali hanno riconosciuto che l’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera è il principale responsabile del cambiamento climatico e stanno sviluppando sistemi per diminuirne la quantità. Esiste già un metodo che cattura l’anidride carbonica direttamente nell’atmosfera142, una soluzione che si può attuare immediatamente e velocemente per aggredire il nocciolo del problema climatico. Ma alcuni ricercatori temono che la cattura diretta sia un processo rischioso dal punto di vista sociale, in quanto la popolazione potrebbe dedicare meno attenzione alla riduzione delle emissioni. Curioso è anche il caso della riforestazione e dell’agricoltura rigenerativa, due opzioni

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https://www.ilsole24ore.com/art/sostenibilita-e-auto-elettrica-ecco-perche-e-tema-management-AC3bIeGB https://www.amnesty.it/batteria-etica-summit-oslo/ 141 https://www.amnesty.it/auto-elettriche-vogliamo-una-batteria-etica-entro-5-anni/ 142 https://news.mit.edu/2019/mit-engineers-develop-new-way-remove-carbon-dioxide-air-1025 140

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perfettamente ecosostenibili che permetterebbero di tamponare rapidamente il problema del cambiamento climatico, con un limitato dispendio di risorse e buone ricadute socioeconomiche. Eppure, le iniziative in questa direzione sono continuamente sotto l’attacco dei divulgatori e degli attivisti, i quali sostengono che l’adozione di queste soluzioni potrebbe rallentare la transizione verso le energie rinnovabili. Si tratta di una questione politica o di scienza? Una battaglia climatica o anche socioculturale? Il problema è che ogni volta le conferenze sul clima si chiudono senza aver trovato un accordo e a pagarne il conto non sono i climatologi, ma milioni di persone per cui la lotta al cambiamento climatico e all’inquinamento è una questione di sopravvivenza.

3.6 La responsabilità individuale "Le generazioni a venire pagheranno per centinaia di anni la nostra insensata violenza sulla natura. La vita stessa sul pianeta potrebbe alla lunga rivelarsi soltanto un episodio effimero"143 affermava Mikhail Gorbaciov durante il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile a Johannesburg, Sud Africa nel 2002. Ora, in quanto ospite e fruitore della Terra, ognuno deve assumersi la responsabilità di gestire e mantenere in buona salute il pianeta. È necessario che ci sia un comune senso di solidarietà nei confronti di sé stessi, del prossimo e dell’umanità. Il concetto di responsabilità individuale – che è diverso ovviamente dalla Responsabilità sociale delle imprese (supra) – è rivolto a tutti, intesi sia come singoli che come parte di una comunità, la quale oggi, dal punto di vista spaziale, non è più solo quella locale o nazionale, ma è globale; e dal punto di vista temporale, non comprende più solo chi vive oggi sul pianeta, ma anche chi verrà domani, ossia le generazioni future. Si tratta di prendere in considerazione sia l’equità intra-generazionale, consistente nella necessità di soddisfare le esigenze del mondo povero, migliorandone le condizioni, sia l’equità inter-generazionale, che si traduce nel limitare lo sfruttamento dell'ambiente oggi, per evitare di danneggiare le generazioni di domani. Ma nonostante l’attuale emergenza sanitaria dovuta al Covid e in generale quella climatica, non sembra che i cittadini adottino autonomamente comportamenti responsabili. Durante il periodo pre-natalizio abbiamo visto lunghe code davanti ai negozi e parecchi assembramenti con amici e parenti. La giustizia sociale, oltre a mantenere in buona salute l’ambiente, prevede anche di rispettare le linee guida per evitare di contagiare gli altri. Inoltre, gli attuali comportamenti di

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M. Gorbaciov, “Il futuro dimenticato”, La Stampa, 26 agosto 2002, http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/Itemid,3/action,detail/id,0297_01_20 02_0232_0045_2594165/

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consumo sono ancora del tipo lineare: sconti, cashback e black Friday non rientrano nell’idea di economia circolare. È proprio necessario che cittadini, imprese e amministrazione pubblica si assumano le loro responsabilità sociali e ambientali. Questo concetto è stato spiegato per la prima volta da Hans Jonas, filosofo tedesco naturalizzato statunitense di origine ebraica (1903-1993), che nel 1979 scrisse il libro “Il principio di responsabilità”. Hans Jonas ha voluto porre le basi per la difesa dell’umanità in un “mondo minacciato dalla tecnica e dalle sue conseguenze distruttive”. Si rivolgeva all’uomo del ventesimo secolo, il quale “deve prendere in considerazione le conseguenze future delle sue scelte e dei suoi atti”. L’imperativo di responsabilità viene così formulato: “Agisci in modo tale che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla Terra”144. Solo da qualche decennio – come esposto ed evidenziato in tutti i Capitoli di questa tesi – il sistema economico ha iniziato a preoccuparsi, riconoscendo i limiti fisici del pianeta e la necessità di una giustizia ambientale e sociale. Garantire il futuro all’umanità è sia un dovere verso le generazioni che verranno che un diritto inalienabile dell'uomo. Le attuali regole dell'economia devono essere riconsiderate partendo proprio dal diritto di ogni cittadino a godere della natura e delle sue risorse. Occorre rivedere i modelli di consumo, ridurre gli sprechi, prestare maggiore attenzione agli effetti sull'ambiente delle nostre scelte e fare il possibile per rimediare ai danni già provocati. Per questo forse, solo un’economia circolare non è dunque sufficiente, a monte deve mutare il modello di consumo e il nostro modello antropologico. Per risolvere la crisi ambientale, è indispensabile un cambiamento di mentalità da parte di tutti. Per sostituire il paradigma “compra-usa-butta” in “compra-ripara-tieni”, i singoli individui devono modificare le proprie abitudini, acquistando e scartando meno beni. Dovremmo cercare di sentirci appagati con quello che già possediamo. Anche Papa Francesco, nell’Enciclica Laudato sì, invoca il concetto di sobrietà. Egli scriveva: “La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro. Benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la sua velocità contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di questo cambiamento veloce e costante non sono necessariamente orientati al bene comune e allo sviluppo umano, sostenibile e integrale. Il cambiamento è qualcosa di auspicabile, ma diventa preoccupante quando si muta in deterioramento del mondo e della

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H. Jonas (1990), Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino

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qualità della vita di gran parte dell’umanità”. Che è appunto ciò che sta accadendo. E quindi: “I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. (…) [Eppure] molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi dei cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo”. E ancora: “Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” – “l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale”. E così “l’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti”. È evidente che dobbiamo “porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato”145. Per combattere la crisi climatica dovremmo essere capaci di rinunciare alla cultura consumistica e frenare la morte prematura dei beni. Attualmente, siamo vittime delle mode e del marketing, i quali ci “bombardano” di annunci che ci fanno credere che acquistando un nuovo prodotto la nostra vita potrebbe migliorare. Nella società odierna l’auto, i vestiti e i dispositivi elettronici diventano un modo per compensare la solitudine, l’angoscia, la perdita e i problemi nei rapporti interpersonali. Nel mondo occidentale le nostre vite sembrano guidate dal consumismo, il quale ci offre ogni agio e comfort. Tuttavia, questo sistema ci condanna ad uno stile di vita frenetico, a una perenne insoddisfazione e ad un impatto crescente sull’ambiente. Non possiamo oggi, pensare di tornare indietro a società troppo semplici senza tecnologia, concorrenza e globalizzazione. Sarebbe come perdere gran parte del progresso acquisito durante i secoli passati. Cosa succederebbe se, di punto in bianco, diventassimo tutti frugali e comprassimo solo lo stretto necessario? Serge Latouche, economista e filosofo francese, ha immaginato un mondo in cui tutti lavorano di meno, producono di meno, si affannano di meno e consumano di meno. In tal modo, gli uomini sarebbero ripagati da una vita più lieta, meno

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Cit. in L. Demichelis (2020), Sociologia della tecnica e del capitalismo, Franco Angeli, Milano, pag. 288

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stressata e più ricca di tempo libero da riempire con piaceri che non dissipano le risorse del pianeta, come leggere libri, ascoltare la musica, contemplare l’arte e la natura.146 Ma non bisogna “decrescere”, piuttosto avere un diverso tipo di sviluppo, cioè riorientare il modo di vivere e consumare e avere necessità che possano essere soddisfatte riducendo l’impiego di “capitale naturale”. Per esempio, non c’è bisogno di effettuare sempre trasporti e scambi commerciali intercontinentali. Le ore lavorative dovrebbero essere ridotte in modo da riassorbire la disoccupazione e avere maggior tempo libero. Nella produzione dei rifiuti, bisogna fermare l’obsolescenza programmata e psicologica dei beni. Le industrie devono continuare a produrre e i contadini a coltivare, ma secondo diversi paradigmi. Il Pil può aumentare, ma anche il Bes ha il diritto di migliorare. Abbiamo bisogno di una fase di transizione che preveda severi limiti all’estrazione e in contemporanea crei nuove opportunità di vita alle persone, affinché trovino soddisfazione, al di fuori dall’infinito ciclo consumista.147 Dobbiamo trovare il coraggio di cambiare il sistema che ha prodotto questa crisi ecologica. Sta a noi decidere se “consumare” più musica classica o più gadget elettronici, se passare le giornate in un centro commerciale o fare un’escursione nel verde, se comprare quantità oppure qualità. Il ruolo dei consumatori è fondamentale nel dare una svolta alla domanda perché il cambiamento parte dalle scelte quotidiane, che non riguardano solo i prodotti, ma anche il tempo libero trascorso in modo green. Sono già molte le persone che adottano stili di vita più sostenibili, che preferiscono prodotti e imballaggi non plastici e passano il weekend nella natura. Sono tanti i comportamenti sostenibili, come: scegliere di rifornirci di beni e cibo il più possibile a km zero per evitare l’inquinamento dei trasporti, costruire e vivere in case con classe energetica alta per consumare meno nel riscaldarle e rinfrescarle, fare viaggi senza prendere l’aereo che inquina molto, preferire vacanze green muovendosi in bicicletta e a piedi, dormire in cascine, bungalow e cottage in mezzo al verde, rendere attrattivi luoghi poco frequentati per diminuire l’affollamento delle località turistiche già note, rivalorizzare luoghi dispersi in mezzo alle montagne, in modo da creare lavoro anche in zone meno abitate. Azioni semplici come utilizzare una caraffa invece delle bottiglie, preferire i contenitori di vetro, non comprare alimenti imballati nella plastica e non gettare niente nella natura e per strada possono cambiare le cose. È già in corso un cambiamento, soprattutto tra i più giovani, le imprese e i governi più lungimiranti, che vedono la conversione dell’attuale modello di produzione, di consumo e di organizzazione della società come una straordinaria opportunità.

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S. Latouche (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino N. Klein (2019), Il mondo in fiamme: Contro il capitalismo per salvare il clima, Feltrinelli, Milano

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Per quanto riguarda il nostro paese, da uno studio svolto nel 2019 da Ipsos148, leader mondiale nelle ricerche di mercato con sede a Parigi, emerge che tra gli italiani è cresciuta la convinzione che ogni singolo individuo incida fortemente sull’ambiente. Sempre più spesso le persone adottano uno stile di vita attento e rispettoso, sono più coscienziose nelle scelte di consumo e disposte ad affrontare anche il sacrificio economico. Ciò è confermato da una ricerca sulla sostenibilità di Findomestic, istituto di credito specializzato nel credito al consumo, dalla quale risulta che “la grande maggioranza dei consumatori italiani – ben l’88% – ritiene importante che un prodotto sia sostenibile, l’81% pagherebbe di più per i prodotti green e il 78% sarebbe invogliato ad acquistarli in presenza di finanziamenti a tassi vantaggiosi”149. Secondo Ipsos, tra gli aspetti ritenuti più importanti per gli intervistati, spiccano al primo posto la riduzione delle emissioni e l’impatto ambientale, seguiti dall’attenzione alle condizioni di lavoro dei dipendenti, dal miglioramento della qualità del servizio/prodotto e dagli investimenti in Ricerca&Sviluppo e innovazione.

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https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/news/documents/201905/ipsos_alla_viglia_di_una_nuova_era_plastic_free21.pdf 149 https://www.infofindomestic.it/media/CS_Findomestic_Green.pdf

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Conclusione Con questo lavoro ho voluto pensare a cosa si può fare per sensibilizzare le persone della mia generazione alla tutela dell’ambiente e allo stesso tempo per migliorare la qualità della vita. Inizialmente ho esposto i disastri ambientali e le preoccupazioni per il futuro dell’umanità. Ho cercato di riassumere le soluzioni macroeconomiche proposte dai governi, gli obiettivi per raggiungere la neutralità energetica e le iniziative per la restaurazione delle aree già alterate. Dalle ricerche che ho effettuato è emerso che l’economia circolare è una buona soluzione per ridurre l’attuale degrado ambientale. Ho riscontrato tanto pessimismo e diffidenza verso i “potenti del mondo” che dovrebbero guidare l’economia circolare. Ma il vero cambiamento per il pianeta, secondo me, sarà possibile solo nel momento in cui ci sarà una presa di coscienza generale – non solo da parte dei governanti – e saremo sempre più numerosi ad agire. Il concetto di sviluppo sostenibile richiede un cambiamento sia dei meccanismi di produzione e che di consumo. La buona volontà politica non è sufficiente se non è integrata da uno sforzo più ampio sia a livello collettivo che individuale. Auspico che nel futuro ci sia una sempre maggior coordinazione fra i politi e gli ecologisti, i geologi, gli ingegneri, e gli economisti. Solo una grande concentrazione di sforzi può arginare le conseguenze negative arrecate al pianeta dai nostri comportamenti errati. È difficile cambiare la mentalità di tutti, ma è necessario per la transizione verso un concreto sviluppo sostenibile. Non serve solo l’attenzione nel ridurre gli sprechi e minimizzare il consumo di energia, ma è necessaria una trasformazione della cultura e dei modelli con cui interpretiamo la realtà. Bisogna operare un vero e proprio ribaltamento del principio di creazione del valore: non più solo crescita del Pil, ma anche attenzione al Bes (Benessere equo e sostenibile). Come si può agire? Gli studi effettuati hanno consentito di trovare svariate soluzioni. Per prima cosa, bisogna divulgare informazioni corrette sulla situazione in cui effettivamente ci troviamo e sulle grandi sfide che dobbiamo affrontare. Si dovrebbe chiedere a tutti, cominciando da noi stessi, di agire in modo fermo e responsabile, facendo uso di prodotti durevoli, riparabili e riciclabili. La ricerca tecnico-scientifica deve darci soluzioni per ridurre i rifiuti e gli sprechi, per utilizzare al meglio le energie rinnovabili e per rimediare ai danni causati dall’uso dei combustibili fossili. Il mio elaborato integra la letteratura già esistente riguardante l’economia circolare, tuttavia è da tenere in considerazione che la ricerca è stata condotta nel 2020, anno in cui c’è stata la 57


pandemia del Covid-19. Il lockdown ha segnato per tante persone un cambiamento verso una vita più frugale, mostrando che di solito produciamo e consumiamo più del necessario. Mi sono chiesta se cambieremo abitudini. Sicuramente, questa crisi ci ha aiutato a separare l’essenziale da ciò che non lo è, ma un mutamento permanente sarà più difficile, richiederà saggezza e forza di volontà, non solo la pressione di un’emergenza. Sarà interessante vedere quali saranno i consumi tra qualche anno, quando saremo tornati ad uscire di casa, andare al lavoro e viaggiare. Ho cercato di riassumere gli aspetti che secondo me sono necessari per avere una società più sostenibile. Le organizzazioni internazionali, come l’Onu e l’Unione europea, preparano agende, piani e programmi, ma ciò che manca è la volontà d’insieme – politica, economica e individuale. Le iniziative dei singoli non mancano e possono fare la differenza. “Un piccolo fatto non è niente di fronte all’immensità dell’universo, ma mille, un milione, un miliardo di questi piccoli fatti sono poi quelli in grado di cambiare il mondo”150. Possiamo sentirci piccoli e impotenti di fronte alla gravità della situazione, ma ognuno può introdurre gesti e azioni quotidiane che hanno un reale impatto verso il cambiamento. Tutti, senza nessuna eccezione, siamo coinvolti per la salvezza del pianeta. Abituiamoci a rispettare la natura ogni giorno dell’anno e in ogni nostra decisione. Di seguito una guida per un lifestyle più sostenibile: 1 Comprare meno e ricaricare. Limitare gli sprechi, acquistando solo il quantitativo di cibo che si intende mangiare. Ridurre gli imballaggi, che nel giro di poco tempo passano dalla busta della spesa al contenitore della spazzatura. Come alternativa usare le borse in tela, facilmente riciclabili e create con materiali naturali. Sono da preferire anche i prodotti sfusi e le ricariche alla spina, che oggi tanti punti vendita offrono per detersivi, acqua, latte e frutta secca. 2 Non buttare, ma aggiustare. Anche se spesso costa di più, prima di comprare un computer e un’auto nuova, si dovrebbe valutare la riparazione. 3 Autoprodurre. Dalla lattuga ai pomodori, al basilico e alla salvia, coltivare l’orto in casa consente di avere sempre a disposizione prodotti km0 e 100% ogm free. 4 Fare shopping consapevole. Privilegiare tessuti naturali come cotone, lana e filati riciclati invece del poliestere e altri materiali sintetici. Informarsi sulla provenienza dei prodotti e sulla loro lavorazione. Evitare catene di fast-fashion e preferire prodotti artigianali di venditori locali.

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P. Ricotti (2011), Sostenibilità e green economy, Franco Angeli, Milano

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5 Adottare un albero per contrastare il riscaldamento globale (uno solo può assorbire tra i 10 e i 20 kg di CO2 l’anno151). Oggi si può scegliere di adottare una pianta su treedom.com o 3bee.it, e vederla crescere attraverso una mappa georeferenziata tramite GPS. 6 Bere meglio. Noi italiani siamo tra i primi consumatori in Europa di bottiglie di plastica per l’acqua minerale. Convertiamoci al vetro, alle caraffe filtranti, ai depuratori e alle borracce takeaway. Oppure creiamo sistemi più efficienti di raccolta e gestione post-uso perché ricordiamo che le bottigliette di plastica sono 100% riciclabili se ben differenziate. 7 Cambiare dieta. Per ridurre il nostro impatto sul pianeta, possiamo scegliere prodotti biologici e locali, che non hanno fatto il giro del mondo per arrivare sulla nostra tavola. 8 Detergenti naturali. Shampoo, bagnoschiuma, creme, trucchi e deodoranti, secondo uno studio pubblicato su Environmental science and technology, inquinano l’ambiente quanto i gas di scarico delle automobili. Prestiamo quindi attenzione alle etichette, privilegiando cosmetici di origine naturale. Anche in spiaggia è importante preferire creme solari bio perché quelle non biologiche sono nocive alla vita marina, bloccando il processo di fotosintesi dei coralli. 9 Condividere di più. La sharing economy permette di acquistare meno cose, condividendo non solo la bici, ma anche l’automobile, la casa delle vacanze, gli spazi per l’ufficio e tanto altro. È una soluzione alla portata di tutti, che permette di risparmiare soldi e consumi. 10 Viaggiare sostenibile. Considerando che il turismo è la quarta fonte di inquinamento in Europa, cambiamo il nostro modo di viaggiare! Ogni volta che è possibile, scegliamo il mezzo di trasporto meno inquinante. Quindi preferiamo la bicicletta, il car pooling e il treno al posto di aerei e navi. Le crociere, in particolare, sono gli spostamenti più inquinanti e sono responsabili della distruzione delle barriere coralline e degli ecosistemi marini. Inoltre, invece di muoverci sempre molto lontano, possiamo scoprire anche i luoghi più vicini a noi. E quando dormiamo fuori, possiamo farlo in strutture ricettive eco sostenibili, che utilizzano elettricità verde, risparmiano acqua e riducono le emissioni di CO2. Ecobnb, ad esempio, offre soluzioni di alloggi eco sostenibili in tutto il mondo. Con il mio lavoro spero di aver dato un contributo alla presa di coscienza della necessità di tutelare l’ambiente e migliorare la qualità della vita attraverso anche questi ultimi consigli per avere abitudini più sostenibili. Il mio augurio è quello che le generazioni future possano continuare a godere dell’affascinante bellezza della natura e delle risorse che il pianeta ci offre.

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https://www.reteclima.it/l-albero-mangia-la-co2/

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