TESI di laurea_Emilia Piccoli

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Laureanda: Emilia Piccoli Relatori: Prof. Arch. Giovanna Massari Prof. Arch. Giuseppe Pino Scaglione Correlatori: Arch. Chiara Rizzi Arch. Marco Molon

UniversitĂ degli Studi di Trento Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale Meccanica Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Edile-Architettura Tesi di Laurea Anno Accademico 2013-2014

Progetto di uno

Spazio per la Contemplazione nel centro di Verona

lo spazio

altro

dell’


2


Alla nonna Maria, per avermi insegnato a starti accanto in silenzio.

L’architettura è una sfida di verità. L’idea, culturalmente valida, poetica ed entusiasmante di cui ci innamoriamo, trova lo scontro con il limite della realtà. Trova la necessità non tanto del compromesso, ma dell’incontro con delle linee vere, con una maglia cittadina vera in quanto sedimentata nel tempo. Il tempo diventa elemento fondante della trasformazione di un’idea in una realtà. L’architettura diventa incontro con la vita, diventa il trasformarsi dell’innamoramento pieno di sè, nell’incontro con l’altro. Ed è in quest’incontro che le linee si sporcano e che l’architettura esplode nella sua bellezza. Ed è in quest’incontro che l’architettura diviene per l’uomo occasione di vita. E.P.

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indice

0.

OVERVIEW

DOVE SEI?

1.

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CONCETTI FONDAMENTALI

SPAZIO VUOTO: lo spazio che concede la domanda Il vuoto in architettura ◦ INQUADRAMENTO_Pieni e vuoti urbani pubblici Il vuoto come alternativa allo junkspace

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TEMPO LIBERO: il tempo per l’uomo Come si definisce il tempo libero? ◦ INQUADRAMENTO_Elementi attrattori ◦ INQUADRAMENTO_Il verde ◦ Com’è stato possibile questo sviluppo? ◦ Queste scelte sono effettivamente così libere? ◦ INQUADRAMENTO_Funzioni ◦ INQUADRAMENTO_Visione complessiva ◦ Avendo a disposizione del tempo, l’uomo è libero di prendere delle decisioni? ◦ INQUADRAMENTO_Flussi Nel mondo odierno c’è una connessione tra classi sociali e tempo libero? Come viene utilizzato il tempo libero dai nostri concittadini?

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CONTEMPLAZIONE: fermarsi a guardare La contemplazione nelle grandi civiltà del passato Stonehenge Astronomia e architettura Maya ◦ INQUADRAMENTO_Percezione visiva ◦ INQUADRAMENTO_Percezione uditiva Astronomia e impero Inca La dimensione contemplativa della vita Homo religiosus Homo symbolicus Il simbolo

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COMUNITÀ: il concetto al centro dello spazio Il concetto di comunità ◦ INQUADRAMENTO_Espansioni ◦ INQUADRAMENTO_Prospetti del perimetro dell’area_1 ◦ INQUADRAMENTO_Prospetti del perimetro dell’area_2 ◦ INQUADRAMENTO_Prospetti del perimetro dell’area_3 ◦ INQUADRAMENTO_Pianta di riferimento ◦ INQUADRAMENTO_Griglie dell’edificato L’architettura della partecipazione Distribuzione degli spazi Comunità e società esterna Il sentimento comunitario Lo spazio della comunità La comunità provvisoria Conclusioni

2.

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ELEMENTI DELLO SPAZIO

NATURA: lo spazio della relazione con l’altro La natura nella letteratura Gli elementi naturali ricorrenti Albero Fonte/ruscello Erba/prato Bosco Fiori Vento ◦ INQUADRAMENTO_Consistenza del verde ◦ INQUADRAMENTO_Presenza di acqua

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TEMPIO: cosa rappresenta oggi? La ricerca del centro La forma del tempio

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ARCHETIPI: elementi del tempio_stanza, percorso e recinto

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STANZA: l’arrivo al centro La dimensione individuale La dimensione collettiva

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PERCORSO: il cammino verso il centro La spazialità La via

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RECINTO: la custodia del centro Gli elementi

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Il palazzo di Cnosso Il limite I TRE ESEMPI: sinagoga, moschea e chiesa, i luoghi contemplativi occidentali L’assemblea al centro dello spazio La sinagoga La moschea La chiesa Sinagoga Beth Sholom, Frank Lloyd Wright Moschea di Roma, Paolo Portoghesi Cappella Notre Dame di Haute, Le Corbusier Lettura degli archetipi

3.

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ANALISI DEL CONTESTO

CONTESTO: il quartiere Veronetta Il quartiere La popolazione ◦ INQUADRAMENTO_Cinta Muraria

pg.121

STORIA: l’evoluzione di Campo Marzio Età romana Alto Medioevo ed età Comunale Età scaligera ◦ INQUADRAMENTO_Caserma Passalacqua La dominazione veneziana L’amministrazione asburgica ◦ INQUADRAMENTO_Rilievo polveriera asburgica ◦ INQUADRAMENTO_Sezione A-A del Bastione ◦ INQUADRAMENTO_Bastione Campo Marzio ◦ INQUADRAMENTO_Sezione B-B del Bastione L’architettura degli edifici: la Provianda di Santa Marta ◦ INQUADRAMENTO_Profilo_1: contesto cittadino ◦ INQUADRAMENTO_Pianta della Polveriera ◦ INQUADRAMENTO_Sezione C-C della Polveriera ◦ INQUADRAMENTO_Progetto per il Campo Marzio proposto dallo studio MPET ◦ INQUADRAMENTO_Profilo_2: contesto cittadino

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4.

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ELEMENTI DEL PROGETTO

INCONTRARSI: lo spazio contemplativo in città Perchè la contemplazione in città? ◦ INQUADRAMENTO_Spazi sacri Uscire e rientrare

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LA SCELTA DEL LUOGO: i fondamenti della localizzazione Vocazione pubblica dell’area Il sacro al centro Verde e parco urbano Presenza del cimitero Presenza etnografica mista

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UN LUOGO SILENZIOSO: il progetto ◦ INQUADRAMENTO_Le componenti del progetto Pieno e vuoto Le mura La polveriera ◦ INQUADRAMENTO_Consistenza del verde

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NATURA: il parco incerto e contemplativo Alberi isolati ◦ PROGETTO_Elementi naturali Alberi sempreverdi e a foglie caduche Insieme di alberi Prato verde Prato fiorito ◦ PROGETTO_Seduta collettiva Acqua ◦ PROGETTO_Allacciamento rete idrografica Tipologie arbustive e stagionalità ◦ Rinaturalizzazione: per fasi e per parti ◦ PROGETTO_Rinaturalizzazione Fase1_anno 2015 Fase2_anno 2020 Fase3_anno 2025

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TEMPIO: lo spazio dell’altro ◦ PROGETTO_Lo spazio vuoto Lo spazio dell’altro ◦ PROGETTO_Lo spazio dell’altro Il Parco Incerto Il Parco Contemplativo Le dimensioni dello spazio dell’altro ◦ PROGETTO_Schema funzionale Da luogo di guerra a luogo di pace Da tempio a deposito per le armi Da deposito per le armi a tempio Accessi e parcheggi ◦ PROGETTO_Accessi e parcheggi Sistema di illuminazione ◦ PROGETTO_Sistema di illuminazione ◦ PROGETTO_Schema di illuminazione del muro

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◦ ◦

PROGETTO_Colonna LED per montaggio su fondazione PROGETTO_Apparato di illuminazione circolare da incasso a pavimento

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STANZA: l’incontro con il sacro PROGETTO_Il centro ◦ ◦ PROGETTO_Associazionismo Associazionismo come modalità di gestione del territorio Funzione degli spazi ◦ PROGETTO_Funzione degli spazi ◦ PROGETTO_Pianta spazio dell’incontro ◦ PROGETTO_Pianta spazio contemplativo Lo spazio contemplativo e lo spazio dell’incontro ◦ PROGETTO_Sezione dello spazio contemplativo ◦ PROGETTO_Sezione dello spazio dell’incontro ◦ PROGETTO_Planivolumetria ◦ PROGETTO_Fuoco ◦ PROGETTO_Ampolla d’acqua ◦ PROGETTO_Sezione spazio contemplativo_1 ◦ PROGETTO_Sezione spazio contemplativo_2 ◦ PROGETTO_Particolare della pavimentazione esterna della piazza ◦ PROGETTO_Sezione spazio contemplativo_3 Evoluzione della polveriera Il recupero del rudere Ipotesi di trattamento della superficie muraria sbrecciata ◦ PROGETTO_Schema di restauro degli sbrecci Frammento e rovina ◦ PROGETTO_Prospetto_1 ◦ PROGETTO_Prospetto_2 ◦ PROGETTO_Sezione spazio contemplativo_4 ◦ PROGETTO_Prospetto spazio contemplativo_5 ◦ PROGETTO_Particolare del prospetto ◦ PROGETTO_Funzionamento pavimento flottante interno alla Polveriera ◦ PROGETTO_Funzionamento del Brise Soleil ◦ PROGETTO_Sezione scala interna

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PERCORSO: lo spazio di decostruzione PROGETTO_Percorsi Incerti ◦ ◦ PROGETTO_Sezione percorso Tracciamento dei percorsi Camminare per segnare il territorio Il Parco Incerto Menhir-Folies ◦ PROGETTO_Zona ristoro ◦ PROGETTO_Sezione A-A della Zona ristoro ◦ PROGETTO_Vista della Zona informazioni ◦ PROGETTO_Funzione e posizione delle Folies Funzione delle Folies

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◦ ◦

PROGETTO_Ingresso PROGETTO_Vista della Zona servizi igienici

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RECINTO: da difesa a custodia PROGETTO_Schema del recinto ◦ I due recinti Il limite Lo scavo di roccia Il giardino contemplativo ◦ PROGETTO_Sezione dello scavo_1 Il muro della storia ◦ PROGETTO_Sezione dello scavo_2 ◦ PROGETTO_Vegetazione sul terrapieno Tipologie vegetative sul terrapieno ◦ PROGETTO_Sezione della scalinata

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CONCLUSIONI

pg.249

5.

1:500 1:500 1:100 1:100

APPENDICE

LA PAROLA ALLE COMUNITA’: in ascolto di chi vive la realtà comunitaria pg.253 MONTE OLIVETO, Verona: Comunità terapeutica per il recupero dalla tossicodipendenza “CEIS” NOMADELFIA, Grosseto: Comunità di cattolici praticanti fondata da don Zeno Saltini SERMIG, Torino: Fraternità di famiglie e consacrati nata nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Oliveiro CENTRO JACOPO LOMBARDINI, Cinisello Balsamo (MI): Comune evangelica valdese fondata nel 1968 VILLA VRINDAVANA, Firenze: Comunità Hare Krishna fondata da B.S.Prabhupada nel 1966 VILLAPIZZONE, Milano: Comunità di famiglie fondata da Bruno e Enrica Volpi nel 1978 ISLAM, Imperia: Comunità islamica di Imperia BOSE, Biella: Comunità ecumenica monastica di uomini e donne MONASTERO SAN DAMIANO, Borgo Valsugana (TN): Comunità di Clarisse, fondata nel 1984 EBRAISMO, Verona: Comunità ebraica di Verona L’ISOLA, Sasso Marconi (BO): Comunità politica di famiglie fondata nel 1978 e conclusa nel 1992 LA RICERCA DEL SILENZIO I LUOGHI DEL SILENZIO L’ASCOLTO DEL SILENZIO

BIBLIOGRAFIA

pg.283

RINGRAZIAMENTI

pg.289

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0.OVERVIEW

dove sei?

1

la duplice domanda: nello spazio e nell’uomo

A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggiato alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Passa una donna nero-vestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qualcosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all’altra e disegnano frecce, stelle, triangoli, finchè tutte le combinazioni in un attimo sono esaurite, e altri personaggi entrano in scena: un cieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana col ventaglio di piume di struzzo, un efebo, una donna-cannone. Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia o sotto il portico, o si accalca sotto un tendone del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi2. Le nostre città sono i luoghi in cui storie e vis-

The lost Pleiad, Randolph Rogers, 1875

suti si sovrappongono alla maglia urbana. Sono i luoghi che attraversiamo quotidianamente, su cui il nostro sguardo tante volte si posa sfuggente tra un pensiero e l’altro, tra un’attività e quella successiva. Le strade della nostra città sono lo spazio in cui il tempo si interrompe per passare da un momento a quello dopo. Passiamo per quelle strade tutti i giorni e non sappiamo più distinguere tra ciò che vediamo e ciò che interpretiamo. La disposizione delle strade nei nostri occhi è l’inseguimento di un ricordo o di un progetto, è la scenografia sbiadita della nostra vita. Il tempo

1. la SACRA BIBBIA, Gen 3,9 2. CALVINO I., Le città invisibili, Ed. Oscar Mondadori, Milano 2014, pag.49

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che l’uomo ha camminato, dopo che si è chiesto a chi appartiene, dove sta andando, a cosa deve la sua forma. La domanda viene rivolta ad Adamo da Dio, nel giardino dell’Eden. Dio nella sua onniscienza conosce naturalmente la posizione di Adamo, e conosce profondamente il suo animo umano. E allora perché lo interpella? Lo scopo della domanda è la consapevolezza, la scelta dell’uomo e la sua libertà. Vuole provocare nell’uoAdamo ed Eva nel giardino dell’Eden, Lucas Cranach il Vecchio, 1530 mo una reazione in grado di coinvolgere, colpire l’uomo profondamente, non lasciarlo indifferente nei nella città ha un incalzare continuo, non lascia confronti della vita. Adamo si nasconde per non spazi di indeterminatezza. Tempo e spazio si sodover rendere conto, per sfuggire alla responvrappongono creando una ragnatela che si strinsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni ge attorno al nostro corpo, che condiziona il nouomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situastro andare. Le città sono il luogo in cui il tempo zione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità è scandito dal lavoro, dall’impegno, dalla ricerca della vita che si è vissuta, l’esistenza viene dell’efficienza. La città è un luogo di transito, trasformata in un congegno di nascondimenun luogo della provenienza e della destinazione. to3. Attraverso questa domanda, questo dialogo, Nella città la domanda incessante è da dove vieni e dove vai? E’ un moto continuo, interminabile, a l’uomo prende consapevolezza di nascondersi a breve termine, che non lascia spazio all’indugio. sé stesso. Tutto dipende dal fatto che l’uomo Nella città sono molti i luoghi che cercano di risi ponga o no la domanda: finché questo non spondere a queste domande incessanti. Gli spazi avviene la vita dell’uomo non può diventare camforniscono risposte precedendo le domande, sono mino. Per quanto ampio sia il suo successo, per ridondanti, pieni, sovrapposti, sono spazi sulla quanto vasto sia il suo potere e colossale la cui porta c’è l’orario di apertura e l’orario di sua opera, la sua vita resta priva di un cammino chiusura. finché egli non affronta questa voce4. Ma se per un momento il tempo fosse il presente La domanda successiva che ci poniamo è di che e non una proiezione del passato nel futuro? Se spazio ha bisogno l’uomo contemporaneo per per un momento la domanda non fosse da dove ascoltare questa domanda e dare voce ad una vieni e dove vai, ma semplicemente dove sei? risposta. Un luogo in cui il dove sei? possa esDove sei? L’uomo viene da sempre interpellato sere avvertito anche in senso fisico, là dove si da questa domanda, viene coinvolto in un dialogo, è. E’ importante che questo luogo non sia esterno in cui può scegliere se entrare, se fuggire, se ai luoghi riconosciuti dall’uomo come quotidiani. nascondersi. Dove sei? è la prima domanda che L’allontanamento dai proprio spazi alimenterebbe Dio rivolge all’uomo nel libro della Genesi, dopo la tendenza al nascondimento. E’ pur vero che in 3. BUBER M., Il cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon, Magnano BI 1990, pag.20 4. Ibid, pag.23

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momenti particolari della vita dell’uomo è necessario prendere le distanze dalle cose di tutti i giorni, e salire sul monte Tabor, simbolo dell’ascensione e dell’innalzamento spirituale. Ma poi è fondamentale scendere, imparare a conoscere sé stessi nel mondo abituale. Quando viaggiamo in una zona qualsiasi del mondo o di noi stessi, ovunque tranne là dove siamo, torniamo avvertendo un senso di non appartenenza completa. E’ proprio nell’ambiente in cui siamo, nella situazione che ci è toccata in sorte, in quello che capita giorno dopo giorno che possiamo stare di fronte al dove sei? e rispondere sinceramente. Uscire da sé, dalla propria posizione, non fa che mostrarne l’impossibilità effettiva. Molto apprese Siddharta dai Samana, molte vie imparò a percorrere per uscire dal proprio Io. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso il dolore, attraverso la volontaria sofferenza e il superamento del dolore, della fame, della sete, della stanchezza. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso la meditazione, attraverso lo svuotamento dei sensi da

Convergence, Jackson Pollack, 1952

ogni immagine per mezzo del pensiero. Queste e altre vie apprese a percorrere, mille volte abbandonò il proprio Io, per ore e per giorni indugiò nel non-Io. Ma anche se queste vie uscivano inizialmente dall’Io, all’Io la loro fine riconduceva pur sempre. Mille volte Siddharta poteva sfuggire dal suo Io, indugiare nel nulla(...); inevitabile era il ritorno, inesorabile l’ora in cui egli ritrovava se stesso, ed era di nuovo l’Io-Siddharta, e di nuovo provava il tormento di non poter sfuggire al circolo delle trasformazioni5. Dove sei? è la domanda che definisce la nostra localizzazione per intero. Possiamo fuggire dallo spazio, ma non possiamo fuggire dal tempo: il tempo è una coordinata perfettamente democratica, uguale per tutti, l’Ora. Dove sei? presuppone la scelta del “dove essere”, ma non quella del “quando essere”. Ma spazio e tempo non hanno senso se non legate l’una all’altra imprescindibilmente. La teoria

5. HESSE H., Siddharta, Ed. Adelphi, Milano 1975, pag.39

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della relatività, con la sua formulazione dello spazio-tempo mette infatti fine alla teoria del tempo assoluto, ci costringe a modificare radicalmente le nostre idee dello spazio e del tempo. Noi dobbiamo accettare l’idea che il tempo non sia separato completamente dallo spazio e da esso indipendente, ma che sia combinato con esso a formare un’entità chiamata spaziotempo. (...) Un evento è qualcosa che accade in un particolare punto nello spazio e in un particolare tempo. E’ perciò possibile specificarlo per mezzo di quattro numeri o coordinate. Di nuovo, la scelta delle coordinate è arbitraria: si possono usare ogni volta un insieme qualsiasi di tre coordinate spaziali ben definite e una qualsiasi misura di tempo. (...) E’ utile pensare le quattro coordinate di un evento come se se ne specificasse la posizione in uno spazio quadridimensionale chiamato spazio-tempo6. Il luogo in cui l’uomo può stare davanti alla domanda dove sei? è quindi uno spazio dell’ora, uno spazio in cui l’essere umano possa trovare sè stesso. Uno spazio della domanda, non uno spazio della risposta, dove sia permesso dubitare, dove le soluzioni non arrivano prima che l’uomo ne abbia avvertito la necessità. E’ uno spazio in cui il punto interrogativo prende il posto del punto fermo. E’ uno spazio in cui si possa contemplare l’esistente fermandosi, non un luogo di passaggio. E’ un centro vuoto da cui si osserva il pieno circostante. Un quadrato bianco su un quadro di Jackson Pollock. Il caos del quadro permane, non se ne superano i confini, perché quella è la realtà. Non è uno spazio che crea un mondo alternativo. Sono già moltissimi gli spazi che propongono l’inesistenza. Pensiamo ad esempio ai centri commerciali, alle palestre di roccia, alle immense megastrutture che occupano gli spazi del nostro quotidiano, più densi, più colorati, più entusiasmanti, più emozionanti, in confronto ai quali tutto il resto è sbiadito. Ma c’è forse verità dietro a ciò che è sgargiante? C’è forse uguaglianza? C’è forse la possibilità di chiedersi dove siamo? Il dove sei? è una domanda personale, che ogni

uomo rivolge a sé stesso, con cui ciascuno dialoga intimamente, che ha una risposta diversa per ciascuno o forse addirittura nessuna risposta. Ma è anche una domanda collettiva, così come collettivi sono gli spazi cittadini, così come collettivo è il concetto di Uomo al quale la domanda è posta nel libro della Genesi. Si tratta di chiedersi dove siamo personalmente, ma anche dove siamo come comunità. Come abbiamo detto il tempo è una variabile democratica, uguale per tutti, ma lo spazio? Lo spazio può assumere infinite connotazioni, ma se permette la domanda, allora è uno spazio per tutti, uno spazio archetipico, comunitario, sgerarchizzato, che non annulla le differenze, ma unisce gli uomini, dispersi tra le strade cittadine, attorno alla questione fondamentale dell’esistenza. L’uomo entra nel vuoto contemplativo di un parco nel centro cittadino, fa esperienza del silenzio, ascolta, osserva la realtà, fermandosi. Poi esce, rientra nel quadro da cui effettivamente non è mai uscito, e ricomincia il suo moto perpetuo, il suo da dove vieni e dove vai. E condivide questa esperienza con altri uomini, consapevole che, come appunta Chris Mc Candless nel suo taccuino, dopo aver letto “La felicità familiare” di Lev Tolstoj, la felicità sta solo nel vivere per gli altri7. O ancora, colpito dalla lettura di “Ktaadn” di Henry David Thoreau comprende l’importanza di pensare alla nostra vita nella natura, quotidianamente trovarsi davanti la materia, entrare in contatto con rocce, alberi, vento sulle gote! La terra solida! Il mondo autentico! Il senso comune! Contatto! Contatto! Contatto! Chi siamo? Dove siamo?8

6. HAWKING S.W., Dal Big Bang ai buchi neri, Ed. Rizzoli, Milano 1998, pag.38-39 7. KRAKAUER J., Nelle terre estreme, Ed. Corbaccio, Milano 2008, pag.222 8. Ibid, pag.225

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concetti fondamentali spazio vuoto: lo spazio che concede la domanda tempo libero: il tempo per l’uomo contemplazione: fermarsi a guardare comunità : il concetto al centro dello spazio 15


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1.CONCETTI FONDAMENTALI

spazio-vuoto lo spazio che concede la domanda

spazio s.m. 1. Il campo disponibile per gli oggetti della realtà in quanto si considerino individuati da una collocazione o posizione, dotati di dimensioni, e capaci di spostamento […] 2. In senso più limitato, definisce comprensivamente i concetti di estensione visibile, volume o superficie disponibile. Part. Spazio pubblico: lo spazio sovrastante o sottostante alle aree pubbliche e part. A strade e piazze la cui occupazione è soggetta a speciale tassa a favore del Comune o della Provincia. vuòto agg e s.m. 1. agg. Privo di contenuto (contrapposto a pieno)|fig. Con riferimento al contenuto mentale e spirituale, può essere indicativo di incapacità di concentrarsi. 2. s.m. Spazio libero nel quale nessun corpo solido si frappone. | Nella filosofia antica, nozione di spazio in cui nulla è, negatrice dell’Essere in quanto esistente nello spazio increato e indistruttibile, immobile, uno e indiviso. Ad un tal genere di assoluta astrazione la filosofia moderna è andata sostituendo il concetto proprio delle scienze sperimentali.

IL VUOTO IN ARCHITETTURA Il vuoto esiste davvero? Questa è la domanda che ciascuno di noi si pone di fronte alla spinosa questione del vuoto. E’ un concetto difficile da comprendere, da visualizzare e tante volte perfino da credere. Non siamo abituati a riconoscerlo, perché il nostro sguardo è educato a cercare il pieno. Sembra quasi un’idea, qualcosa di astratto. Ma scopriamo, invece, di farne esperienza proprio nel nostro quotidiano, molto semplicemente, in tutto ciò che in casa per funzionare ha bisogno delle proprietà fisiche che si sviluppano tra vuoto e pieno, come ad esempio le lampadine ad incandescenza. Forse tante volte non facciamo esperienza di un vuoto assoluto, ma relativo ad un piano, alla presenza della materia. Ed è così anche in architettura: il vuoto entra in relazione con il pieno e ne definisce i confini, i volumi, e ci permette di farne esperienza. In realtà quindi cercare il vuoto significa anche conoscere in qualche modo la materia. Il vuoto è qualcosa di misterioso, perché non del tutto afferrabile, per-

Visioni simultanee, Umberto Boccioni, 1911

ché percepibile soltanto in una relazione. Chiede un equilibrio particolare. Certo il vuoto non è qualcosa di cui si possa fare esperienza tattile, né è sorretto da altre esperienze percettive, è qualcosa di più concettuale. Per delineare il concetto bisogna chiamare in causa la Fisica, che 17


PIENI URBANI

VUOTI URBANI 18


Casa Farnsworth, Mies van der Rohe, 1951

definisce il vuoto come assenza assoluta di materia in un ambiente, ovvero una situazione ideale, irrealizzabile. Le grandezze fisiche fluttuano senza assumere un valore definito, come viene determinato dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Ma arrivare più vicino possibile al concetto di vuoto è fondamentale anche per capire la materia. Nell’ultimo secolo il concetto di vuoto è diventato sempre più importante nel processo compositivo. Fin dagli anni ’30 il concetto di vuoto e i relativi studi hanno preso spazio nel progetto architettonico. Nell’opera di Le Corbusier di questi anni ad esempio il vuoto entra in dialogo con il pieno, anche se resta il pieno in posizione dominante, quasi a voler schiacciare l’assenza della materia. Il vuoto resta relegato al piano inferiore, come ad esempio a Villa Savoye, ma l’incombenza materica dell’edificio è immanente. Sarà verso la fine degli anni ’40 che Frank Lloyd Wright, progettando il museo Guggenheim a New York, ribalterà il metodo di progettazione a partire dal vuoto. Non è più il pieno ad essere il punto di partenza da cui si scava per creare il vuoto, ma è il vuoto stesso a definire e modellare il volume. In questo modo

cambia anche la relazione tra interno ed esterno: la facciata non è più mediazione tra edificio e mondo esterno, ma è espressione generativa dello spazio: è il modo in cui l’edificio plasma la città con i suoi volumi e la città entra nell’edificio con i suoi vuoti. L’architettura per noi più significativa, per il significato, anche filosofico attribuito all’idea di vuoto, è quella di Mies van der Rohe. Mies alla fine degli anni ’30 fa partire la propria concezione compositiva dalla volontà di creare un’architettura eterna, neutra, vuota. Rifiuta la volontà di creare un forma, poiché ritiene che nella forma rimanga legato il sistema costruttivo, che porta a definire i materiali, con le proprie caratteristiche, in una relazione deterministica. Ovvero sembra che il materiale e le esigenze costruttive rendano necessaria una certa forma, una determinata composizione, senza farla dipendere né dalla volontà progettuale dell’architetto, né tantomeno da quella del fruitore. Mies con la nitida definizione degli spigoli, la fredda superficie dei vetri, la mancanza di suddivisioni interne, il disinteresse per l’uso, arriva a far derivare l’architettura soltanto da sé stessa. Ed è proprio questo ad affermarla di fronte agli uomini come eterna e vuota. Nega il rapporto gerarchico e di interdipendenza tra i componenti architettonici, che assumono ruoli equivalenti e interdipendenti. Mettendo sullo stesso piano gli elementi compositivi, Mies crea un certo isotropismo tra i componenti, e porta lo spazio ad essere in qualche modo omogeneizzato. L’architettura perde densità e oggettivazione. Le partizioni interne, come ad esempio nella Casa Resor, sono semplici pannelli. I muri si vanno assottigliando. Lo spazio diventa interro-

1. NAVARRO J.B., El limite de los principios en la arquitectura de Mies, conferenza tenuta il 7 Febbraio 1983 a Barcellona e riportata in “Revista Tecnica”, inverno 1989, pag.121

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INQUADRAMENTO

Pieni e vuoti urbani pubblici Scala 1:10000

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gativo, crea una sorta di mistero: la vista di chi sta all’interno del recinto deve sentirsi contenuta, deve prodursi una resistenza alla vista, ma contemporaneamente una speranza di uscire, di vedere quel qualcos’altro più in là1. E’ un cammino verso la smaterializzazione, che trova sempre dei punti fermi, dai quali osservare lo spazio che si dissolve. Tal- Frame di “Junkspace”, CRCR, 2010 volta è un cammino, altre volte sono i blocchi traslucidi per l’illuminazione, ma in tutti i casi sono volumi certi. Mies ricercava una verità, che intravide nella logica strutturale, nella lucentezza dei serramenti, ma soprattutto nella smaterializzazione nello svuotamento degli interni. Con la debole caratterizzazione degli ambienti Mies cercava di creare universalità. Per questo di fronte alla sua architettura si ha un’impressione di classicismo: sono spazi che vivono nel tempo, in una sua interpretazione così profonda, da risultare anche esterni, anche eterni. E’ un’architettura mai compromessa con l’immediato e il contingente. Tutto questo è espresso dal celebre aforisma less is more, che ci parla di vuoto in una parola. Il vuoto in sé ha infinite potenzialità, ed è proprio questo il valore più profondo della vacuità: l’universalità per la comunità delle persone e il particolarismo per l’individuo. Il vuoto non è un’entità in sé e per sé: dipende dalla nostra percezione, ha caratteristica fortemente relazionale. Non è immediato fare esperienza del vuoto, ma intuirlo significa scoprire che il vuoto è sempre presente, anche laddove non si prende in considerazione, e la materia, così come ci appare, non è che una manifestazione delle sue infinite possibilità. Proprio dalla materia, il concetto ad esso antitetico, parte la ricerca della comprensione del vuoto, 22

fin dall’antichità. E proprio verso la materia si orienta la sua conoscenza: il senso della materia costruita e della relazione che con essa il vuoto stabilisce, riempie di significato l’esistente. Il vuoto diventa interessante, fondamentale quindi non solo per il valore intrinseco della sua nonfisicità, ma come veicolo per articolare contenuti simbolici. Il concetto di vuoto chiama a sé il concetto di verità. Il vuoto crea più di quanto si possa effettivamente vedere, permette di fuggire al senso di finitezza del pieno. Il costruito, il definito parlano di qualcosa che trova il suo compimento nell’esistente, il vuoto lascia spazio all’eterno, alla comprensione al di là del visibile.

IL VUOTO COME ALTERNATIVA ALLO JUNKSPACE Per meglio comprendere l’essenza e l’importanza del vuoto procediamo per assurdo, come nelle dimostrazioni matematiche, ragionando sul suo esatto opposto, quello che Rem Koolhaas definisce Junkspace. Quando si pensa allo spazio, considerando il vuoto invisibile, nell’architettura spesso si considerano solo i suoi contenitori. Per questo la produzione dello spazio si basa sulla preoccupazione ossessiva per il suo opposto, per


la sostanza e gli oggetti. Ed in questo modo lo slogan del processo compositivo diventa sempre di più more is more. Lo spazio, in base a questo processo, si crea per accumulo di materia su materia, diventa additivo, stratificato, illeggibile. Non esiste una forma capace di relazionarsi con il vuoto, perché soffocato. Regna la proliferazione. E questo è il ruolo della cosiddetta megastruttura, che nega i principi dell’assialità, dei rapporti di proporzione. Questo tipo di struttura occupa ormai molto spazio nelle nostre città, offrendo invece di sviluppo un’entropia dello spazio. E’ un’architettura infinita, in senso diverso dall’infinità del vuoto: è una struttura infinita nella sua capacità di sollecitazione percettiva, nelle forme deformate. E’ un’architettura in grado di togliere ogni possibilità di interpretazione, non fornendo risposte valide, ma essendo capace di intorpidire lo spettatore, che smette di porsi domande. Il junkspace è un insieme di Torri di Babele che non aspira a creare perfezione, ma soltanto interesse. E’ uno spazio sovradeterminato e indeterminato al tempo stesso. La presenza di ciascuno di noi all’interno di questo spazio del non-vuoto è appiattita. Non si tratta di uno spazio fuori dal tempo, come abbiamo visto per l’architettura di Mies, ma di uno spazio che con il tempo non si vuole relazionare. E’ post-esistenziale. Entrando in uno junkspace, l’uomo, che per sua natura è l’essere del dove sei? e del dove stai andando?, si trova incerto e svuotato del suo significato, perché viene proposto un nuovo linguaggio, che annulla quello umano. Il junkspace conosce tutte le tue emozioni umane, i tuoi desideri. È l’interno del centro del Grande Fratello. Anticipa le sensazioni della gente, viaggia corredato da una colonna sonora, odori, sottotitoli, fa sapere a tutti in modo chiassoso come vuole essere letto. Ricco, stupefacente, impossibile, enorme, astratto, minimale storico. (...) L’individuo non è interrogato dallo spazio, ma è lo spazio, pieno, soffocante a suggerire, imporre una modalità di vita. È uno spazio che finge di unire, ma in realtà divide, non crea comunità a partire da interessi condivisi o dalla libera associazione, o dall’umanità, ma da statistiche sulle vendite

e dati demografici. Invade la città e l’intimità di ciascuno, ambisce a diventare uno spazio per “onorare, condividere, piangere (…) sarà responsabile per il piacere e la religione, l’esposizione e l’intimità, la vita pubblica e privata2. È uno spazio che minaccia la libertà: propone modelli, colori, sollecitazioni che trasportano il reale nell’irreale, così da far sembrare il mondo scialbo, inattraente in confronto alla sua irresistibilità. Il vuoto esprime libertà, crea unione riordinando, non elimina le differenze, ma fa sentire ciascuno interprete protagonista della realtà accanto all’altro. Il vuoto lascia spazio al mistero della vita, in cui ogni uomo può sentirsi sé stesso. Il vuoto esprime pedagogia, educa l’uomo al pensiero e alla realtà, invita a stare nel mondo con sapienza, invita a non fuggire il tempo ma a fermarsi per contemplarlo.

2. KOOLHAAS R., Junkspace, Ed. Quodlibet, Macerata 2006, pag.84

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1.CONCETTI FONDAMENTALI

tempo libero il tempo per l’uomo

tempo s. m. 1. Nozione che organizza la mobile continuità di stati in cui si identificano le vicende umane e naturali, ricollegandosi ad un’idea di successione o di evoluzione […] 2. Continuità illimitata ma suddivisibile in corrispondenza allo svolgersi di determinati fenomeni e alla durata di certe azioni; anche la durata stessa, o il decorso di determinati fatti […] Porzione della giornata o di un più lungo periodo,assegnata all’espletamento di qualcosa. COME SI DEFINISCE IL TEMPO LIBERO? Le diverse ideologie e filosofie della storia fanno riferimento a due posizioni fondamentali e contrapposte di Tempo Libero. In primo luogo il tempo libero è visto come strumentale per l’uomo, subordinato nella scala dei valori al tempo di lavoro. La seconda posizione consiste invece nell’assegnare al tempo libero un ruolo autonomo rispetto al tempo di lavoro, ossia una quota di tempo che gli individui tendono a riempire con attività scelte liberamente, non soggette a vincoli imposti dall’esterno, non finalizzate a lucro e ritenute fonte di piacere e/o riposo1. Il concetto corrente di tempo libero si afferma solo a partire dalla rivoluzione industriale, con la comparsa del lavoro salariato e di fabbrica e con la contrapposizione tra tempo-luogo di lavoro e tempi-luoghi della quotidianità. Già fin dall’epoca antica, tuttavia, è possibile ritrovare la nozione di un tempo “altro” rispetto alle incombenze necessarie: nella Grecia classica, la σχολἡ rappresenta il tempo dedicato alle occupazioni liberali e alla quieta riflessione, così come, nella Roma imperiale, l’otium costituisce il diritto-dovere degli uomini destinati a ricoprire le più alte cariche. Il tempo libero, nell’antichità, è una prerogativa delle classi superiori, che la esercitano in tempo

Vista delle terme di Bath, 43 d.C.

di pace, arricchendo il proprio spirito e immettendo nella comunità i frutti di una più elevata speculazione. Nella cultura cristiana si ritrova l’ambiguità del tempo libero, esaltato o denigrato a seconda che la sua caratteristica di non pragmaticità venga collegata ai piaceri dello spirito o dei sensi. Esso è inteso come valore positivo quando è pratica riflessiva, che porta alla realizzazione di un ordine sovrumano nel ritiro dalle preoccupazioni del mondo o alla contemplazione e all’ascesi mistica, in contrapposizione all’accidia, fonte di perdizione e di degrado morale. La condanna dell’ozio rimane un tema costante in tutta la tradizione occidentale. Max Weber mostrava

1. BELLONI M.C., Tempo Libero in “Enciclopedia delle scienze sociali”, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1998, vol.VIII, pag.557

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attrattori per il turista attrattori per lo studente

INQUADRAMENTO

Elementi attrattori Scala 1:10000

attrattori per il cittadino

uso pubblico uso privato

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INQUADRAMENTO

Il verde Scala 1:10000


contrapposto al tempo lavorativo, perché se poniamo attenzione al tempo effettivamente libero, occorre operare al suo interno un’ulteriore distinzione. Al tempo non-lavorativo va infatti sottratto anche il tempo impiegato per i bisogni fisiologici; per la cura della persona e della casa; per recarsi al lavoro. Il rimanente è il “tempo libero” propriamente detto. Si tratta di uno spazio vuoto da riempire con libere scelte.

QUESTE SCELTE SONO EFFETTIVAMENTE COSÌ LIBERE?

Ritratto di Sarah Bernardt, G.F. Tournachon, 1859

come il puritano pensasse di essere stato creato per contribuire alla costruzione del Regno di Dio sulla terra attraverso il lavoro nella vocazione. E’ stato soltanto successivamente, nei paesi protestanti, i più avanzati dell’Occidente, che si sviluppò per la prima volta una concezione che rovesciava il pensiero precedente: si lavora per avere del tempo libero effettivo e per poterlo occupare liberamente.

COM’È STATO POSSIBILE QUESTO SVILUPPO? La struttura economico-sociale cosiddetta capitalistica, ha creato un dualismo tra tempo di lavoro e tempo libero. Con la rivoluzione industriale l’affermazione del lavoro di fabbrica comporta infatti la separazione tra il luogo di lavoro, il luogo di residenza e i luoghi destinati ad altre funzioni. Un’ulteriore distinzione è sul piano temporale, tra il tempo di lavoro e il tempo destinato al ripristino delle forze biologiche e psichiche degli individui. Le occupazioni prodotte in ambito industriale, senza creatività e autonomia, hanno spinto gli uomini a prendere consapevolezza di quanto fosse illusoria la speranza di trovare nel lavoro una forma di autorealizzazione. Il tempo libero non può essere considerato soltanto

La società può determinare in molti modi queste scelte: con i suoi valori, con le scelte pubblicitarie, con la manipolazione consumistica o ideologico-politica, e con altri mezzi ancora. Fino al XVIII secolo l’enorme maggioranza della popolazione in tutto il mondo era occupata nelle attività agricole e la vita dei contadini non conosceva una netta distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero, in quanto essi non avevano orari definiti per le giornate feriali. Il ritmo del tempo seguiva il ritmo dettato dall’alternanza delle stagioni e del giorno e della notte. Le cerimonie tradizionali, comunitarie e religiose, occupavano larga parte del tempo libero. Anche nelle città questo era largamente vero: prima della nostra epoca, la distanza tra la vita del cittadino e quella del contadino, per quanto concerne il problema del tempo libero, non era poi molta. Con la rivoluzione industriale i ritmi di vita dei lavoratori non venivano più dettati dalla natura, ma dall’utilizzo delle macchine e dalle esigenze della produzione e del mercato. In questo nuovo tipo di società la maggior parte della popolazione vede il suo tempo nettamente diviso tra tempo lavorativo e tempo libero: la giornata lavorativa dell’operaio ha un numero fisso di ore, che tende a diminuire. L’industrialismo moderno portò dapprima a uno sfruttamento impietoso del lavoro dell’uomo. Nella fase iniziale dell’industrializzazione il grande problema sociale era infatti orientare il tempo lasciato libero dal lavoro verso pratiche che non turbassero il nascente ordine borghese. Il miglioramento delle condizioni fu certamente dovuto 27


edifici industriali edifici scolastici istituti religiosi

INQUADRAMENTO

Funzioni Scala 1:10000

edifici militari servizi pubblici

INQUADRAMENTO

Visione complessiva Scala 1:10000

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La danza, Henri Matisse, 1910

in larga misura al progresso tecnico-economico ma forse fu dovuto soprattutto alle dure lotte sostenute dai lavoratori stessi,la giornata di 8 ore fu adottata solo in seguito alla prima guerra mondiale. La stessa logica vale anche per le riduzioni della settimana lavorativa e per le vacanze annuali pagate.

AVENDO A DISPOSIZIONE DEL TEMPO, L’UOMO È LIBERO DI PRENDERE DELLE DECISIONI? Lo sviluppo tecnico-economico della società moderna svolge un ruolo assolutamente fondamentale: ha reso possibile istruzione e educazione, indispensabili per il cittadino per la formulazione di una molteplicità di scelte possibili e moltiplica anche i mezzi di attuazione delle scelte. Due elementi fondamentali per lo sviluppo del tempo libero nel XX secolo sono i mezzi di trasporto e i mass media. All’inizio degli anni venti, negli Stati Uniti, con le prime analisi sociologiche, un tema che appassiona particolarmente gli studiosi è la relazione tempo libero/consumi. Il tempo libero

diventa espressione dei consumi imposti e costituisce quella fonte di appagamento non più rappresentata dal lavoro. Vista quindi l’importanza assunta dal tempo libero, lo Stato e le altre principali forze della società intervengono entro piani definiti sempre più spesso. Non si tratta sempre di interventi che hanno direttamente come oggetto l’uso del tempo libero, ma naturalmente vi possono essere e vi sono anche quelli che hanno come scopo quello di influenzare scelte di uso del tempo libero. In questa categoria rientra in modo evidente, ad esempio, la pubblicità turistica, diretta a suscitare il desiderio di fare del turismo. Una speciale attenzione meritano gli interventi che hanno come fine esplicito l’organizzazione del tempo libero dei cittadini: primo tra tutti la costituzione di centri tecnicamente attrezzati per uno o più usi del tempo libero per indurre una molteplicità di soggetti all’uso del loro tempo libero in questi luoghi. In determinate società lo Stato si può istituire a organizzatore unico del tempo libero dei cittadini, come è accaduto per esempio nell’Italia e nella Germania totalitarie durante il fascismo. Nelle nuove città il tempo 29


P P

P

P

P

P

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P

P

P

P

strada trafficata

parcheggio

strada principale strada secondaria strada di quartiere

passaggio attraverso le mura

P

INQUADRAMENTO

Flussi urbani Scala 1:5000

attraversamento del fiume

ferrovia

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libero assume una connotazione importante: dove si sviluppa il tentativo di costruire delle comunità, gli sforzi per organizzare il tempo libero diventano molteplici. Così come in altri campi, anche nell’uso del tempo libero i mass media, muovendo ingenti quantità di capitale, sono ricchi di un potenziale positivo e negativo, sottolineando la responsabilità di coloro che li controllano. In una società in cui la televisione o la radio sono soggette a tutte le pressioni del capitale privato, i ritorni economici rendono inevitabile che esso eserciti larga influenza sulle scelte del tempo libero. Anche l’organizzazione del tempo libero mette a disposizione possibilità non meno rilevanti, e spesso sfruttate. L’organizzazione del tempo libero conduce spesso a un cambiamento delle tendenze spontanee degli uomini, orientando artificiosamente le scelte di tempo libero.

NEL MONDO ODIERNO C’È UNA CONNESSIONE TRA CLASSI SOCIALI E TEMPO LIBERO? Nelle precedenti forme di società, le classi superiori vivevano nell’ozio mentre le classi inferiori sostenevano condizioni di lavoro impegnative. Si sono imposti modelli unitari di tempo libero, solo con la riorganizzazione neocapitalistica dell’economia, e quindi del lavoro. Naturalmente le differenze non sono del tutto scomparse: le differenze di reddito e culturali mettono in luce delle differenze anche nell’impiego del tempo libero. Tuttavia l’enorme maggioranza della popolazione dei paesi occidentali più avanzati ha assunto mediamente i medesimi modelli di tempo libero. Questo perché le comunicazioni e i media del nostro tempo offrono simultaneamente questi modelli di tempo libero, stimolando tutta la popolazione allo stesso modo, e al contempo le condizioni materiali lo permettono. Le proposte comuni di tipologie di impiego del tempo libero indeboliscono la coscienza di classe e ampliano le possibilità di condivisione di spazio e tempo tra persone appartenenti a contesti differenti. Se una società rispetta, sostiene e rinforza l’idea che il tempo libero sia la frazione più importante di una vita umana per la libera autorealizzazione, allora dovrà pro32

muovere questa libertà come effettiva. Per fare questo dovrà garantire che ogni cittadino abbia a disposizione una dignitosa quantità di tempo libero, e di conseguenza una vasta gamma di scelta, si dovranno combattere quindi tendenze manipolative e costrittive. Il “pianificatore” del tempo libero deve quindi affrontare alcune scelte impegnative e prevedere gli effetti a livello sociale. Il tempo libero rappresenta ormai una quota di tempo costitutiva dell’organizzazione quotidiana, e si attesta mediamente attorno alle 4-5 ore, ma la quantità risulta minima in alcune condizioni specifiche, come la fase adulta della vita.

COME VIENE UTILIZZATO IL TEMPO LIBERO DAI NOSTRI CONCITTADINI? Si può notare un duplice addensamento attorno ad attività di tipo “ricettivo” e a localizzazione domestica, tra le quali prevale senza dubbio l’ascolto televisivo, e altre a carattere relazionale e a localizzazione esterna, come cinema e teatro. Trovano minore spazio le pratiche a connotazione maggiormente attiva e creativa, come lo sport. In Italia l’ascolto televisivo rappresenta la pratica di tempo libero più diffusa: il 97% della popolazione pratica questo tipo di intrattenimento. È particolarmente diffuso tra chi ha un livello di istruzione basso. La situazione si ribalta per i consumi più qualificati, assai poco diffusi nel nostro paese. È noto come la lettura sia poco praticata, ma sono le donne le più assidue lettrici di libri. Tra i consumi di tempo libero “qualificati” ed esterni all’abitazione, il cinema rimane l’intrattenimento che interessa più ampie fasce di popolazione. La pratica sportiva risulta invece un’attività sostanzialmente giovanile e non regolare. Il tempo libero tende a modificarsi, seguendo le grandi trasformazioni della modernità avanzata. La de-sincronizzazione dei ritmi e degli orari lavorativi, la frammentazione e il rapido avvicendamento dei tempi sociali rendono problematica la fruizione del tempo libero. Sul piano più strettamente culturale si è venuta affermando una profonda modificazione degli interessi e dei gusti nell’impiego del tempo libero, e si è rea-


lizzata una rapida diffusione dei nuovi modelli di comportamento, grazie alla globalizzazione in atto e all’alta mobilità dei soggetti. La sociologia del tempo libero sembra trovarsi oggi in grave difficoltà. Possiamo riassumere questa trasformazione indicando tre stili di analisi che affrontano problematiche relative al tempo libero:

La questione del tempo libero, come abbiamo visto, non è quindi da sottovalutare. Forse allora il problema non è solo concedere al cittadino una data quantità di tempo libero, ma decidere come influire sulle scelte che ciascun individuo attua rispetto al tempo a sua disposizione.

1. Approccio economicistico temporalista: è esemplificato da Jonathan Gershuny, che suggerisce di considerare il tempo libero all’interno di una generale modificazione della catena dei bisogni, connessa all’ampio processo di innovazione tecnologica in atto. Nelle società moderne si crea una aumento dell’efficienza sociale totale che porta alla riduzione del tempo di lavoro retribuito. Proprio la necessità di recuperare il tempo liberato dal lavoro può portare all’acquisto di beni di servizio: l’aumento del tempo libero aumenterebbe quindi i consumi e aiuterebbe l’incremento dell’occupazione. 2. Approccio culturalista: Chris Rojek considera il tempo libero come uno dei valori che caratterizzano le diverse epoche e uno dei meccanismi di regolazione della prima modernità, oppure uno degli elementi coinvolti del disordine caotico della contemporaneità. Il concetto di tempo libero viene ridefinito rispetto al suo significato originario di fuga/libertà e viene considerato come parte integrante della frammentazione e della discontinuità dell’esperienza. 3. Approccio catartico: parte dalla considerazione dell’inautenticità, della mancanza di senso e della pericolosità, per l’equilibrio umano e ambientale, dell’attuale configurazione del tempo libero. Juliet Schor propone una radicale trasformazione del tempo libero attraverso l’acquisizione di nuove pratiche, quali la meditazione, l’introspezione, il rallentamento dei ritmi sociali, l’adesione alla natura, la riscoperta dei bioritmi. Questo può segnare un punto di frattura con il passato e dar luogo a possibili spinte verso profonde trasformazioni dei comportamenti. 33


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1.CONCETTI FONDAMENTALI

contemplazione fermarsi a guardare

contemplazióne s.f. Insistenza prolungata dello sguardo o del pensiero su una fonte di meraviglia o di ammirazione |part. Meditazione abituale rivolta alle cose divine o spirituali. Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. (...) Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle medusa che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trovò più la base su cui sorgere)1. Il sacerdote che a Roma interrogava gli dèi per conoscere il loro volere attraverso il volo degli uccelli, l’Augure, sollevava il lituo, il suo scettro, e con un gesto ampio, ieratico, circoscriveva la porzione di cielo che avrebbe osservato. Attraverso questa con-templazione giungeva a stabilire se le divinità gradivano o meno una scelta presa dagli uomini.

Dal film “Into the Wild”, Sean Penn 2008

LA CONTEMPLAZIONE NELLE GRANDI CIVILTA’ DEL PASSATO Se non sapessimo che viviamo in un universo in espansione esplosiva che si estende miliardi di anni-luce in ogni direzione, un universo fatto di isole che ruotano a grande distanza l’una dall’altra, a loro volta costituite da centinaia di miliardi di stelle come il sole, ciascuna nella propria orbita? Se non sapessimo niente delle vaste dimensioni del tempo che persistono in questo indifferente, irraggiungibile mare di spazio, e neppure di un inizio dell’universo così come lo conosciamo, avvenuto dodici miliardi di anni fa, o di una sua possibile fine tra miliardi di anni?

1. CALVINO I., Le città invisibili, Ed. Oscar Mondadori, Milano 2014, pag.31

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miti, religione e astrologia. L’uomo antico era spesso convinto che la propria vita spirituale e sociale fosse connessa al mondo materiale, e per questo si atteneva scrupolosamente all’impegno di pagare il proprio tributo alle divinità celesti. Per questa ragione in molti casi la conoscenza astronomica era elemento fondante nella progettazione di spazi fisici come le città e i templi sacri in cui si veneravano gli dèi. Stonehenge è forse il più famoso esempio di un’antica struttura che doveva adempiere a una funzione astronomica e religiosa al contempo. Hawkins e altri studiosi che lo analizzarono negli anni Sessanta, videro in questo grandioso monumento un osservatorio costruito con precisione e un congegno per il calcolo destinato a prevedere le eclissi. Il loro lavoro suscitò molti interrogativi: perché quei popoli guardavano il cielo? Quale conoscenza utile potevano ricavarne? E quale interesse avevano nel far corrispondere quel sapere all’ ambiente in cui vivevano? Viandante sul mare di nebbia, C.D. Friedrich, 1818

Credo che usciremmo sotto un cielo stellato, senza disturbi luminosi, guardando verso l’alto senza conoscere incomprensibili dimensioni spaziali e temporali e senza preoccuparci di saperne qualcosa. Probabilmente guarderemmo le stella, senz’altro desiderio se non quello di volerle toccare. Oggigiorno viviamo la nostra esistenza un uno schermo artificiale, creato dal progresso e dalla tecnologia. I nostri avi osservavano invece il cielo, derivandone una conoscenza intrisa di un immenso valore, ma che ora appare estremamente futile. Cielo e natura erano aspetti fondamentali della cultura antica, racconti celesti si intrecciavano a

o grandi dèi della notte [...] o stella dell’ arco e stella del giogo o Pleiadi, Orione e il Drago o Orsa Maggiore, vivida stella, e il bisonte prestate ascolto, e poi, nella divinazione che mi accingo a compiere nell’ agnello che sto per offrire ditemi la verità2. Antica preghiera babilonese agli dèi celesti

Per comprendere come gli antichi percepissero i mondo, è necessario osservare i fenomeni con i loro occhi, senza gli strumenti tecnologici attuali. Nel passato, la conoscenza del cielo e dei fenomeni astrologici, era fondamentale anche per la

2. AVENI A., Scale fino alle stelle, Ed. Corbaccio, Milano 2000, pag.22

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distribuzione del potere. La capacità di predire il futuro, di prevedere in quali luoghi si sarebbero spostati i corpi luminosi che governano il cielo e la terra conferiva prestigio, rispetto e autorità a colui che aveva quel particolare dono. Intere città, regni e imperi furono fondati in base a osservazioni e interpretazioni di eventi astrali. L’osservatore antico sembrava trovarsi al centro di un emisfero sulle cui pareti si proiettavano gli eventi. La sfera celeste era una palla di estensione arbitraria incentrata su un osservatore ubicato in un certo punto della terra. Stonehenge Questo celebre sito risale a quasi 5000 anni fa ed è forse il più celebre luogo dell’antichità votato alla contemplazione. Ma com’era costituito? Al tempo della sua costruzione si entrava da nord-est, percorrendo un viale largo quasi 11 metri e fiancheggiato da due terrapieni all’esterno dei quali c’erano fossati di uguale profondità. Poco più di 35 metri prima della fine della strada, si passava in mezzo ai due primi megaliti eretti a Stonehenge verso il 1600 a.C., alti circa 14 metri. Attualmente rimane in piedi soltanto quello più a est, la “pietra del tallone”. Si passava poi attraverso un altro paio di portali di pietra e l’apertura più grande ammetteva direttamente in un altro recinto circondato da terrapieni. Questo cerchio ha un diametro di 130 metri. Chi costruì il cerchio? Perché le dimensioni sono così imponenti? Queste sono forse le prime domande che ci attraversano la mente, ma sono poi molti altri i misteri di questo luogo che rapiscono l’uomo moderno. Continuando a camminare verso il cuore di Stonehenge, sul terrapieno interno si trovavano le buche

di Aubrey: 56 buche intervallate da spazi regolari, piene di roccia calcarea e di pietrisco, disposte in cerchio nel perimetro del fossato. Quattro grandi pietre posizione risalenti al 2600 a.c. erano disposte in modo da formare un rettangolo perfetto all’interno del cerchio di Aubrey, il cui asse era allineato con il viale principale. Oltre le buche di Aubrey si giungeva al secondo cerchio, per dimensioni, di Stonehenge: un imponente anello di 30 pietre sarsen, alte quasi 5 metri. Costruite verso il 2450 a.C., erano sormontate da architravi disposti a forma di cerchio. Proseguendo oltre si trovava il duplice cerchio delle 85 pietre azzurre, collocate verso il 2550 a.C. Le pietre più celebri sono posizionate ancora qualche metro oltre: sono cinque triliti disposti in modo da formare un gigantesco ferro di cavallo. Proprio al centro c’è la pietra dell’altare, che ora appare distesa ma quando fu collocata, nel 2000 a.C. circa, era eretta e con tutta probabilità rappresentava il principale oggetto di culto. Ciò che vediamo oggi sul terreno sono i resti di pietre disposte e stratificate in più di venti secoli di storia. Ma qual era lo scopo di Stonehenge? Ci sono

L’antico complesso di Stonehenge

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contemplazione, una commistione inestricabilmente legata di scienza astronomica e scopi religiosi, di investigazione del mistero del cielo e dell’uomo. Astronomia e architettura Maya

Piramide di Kukulkan a Chichén Itzà

state molte risposte, dalle più stravaganti alle più attendibili. Stonehenge è un esempio di architettura multifunzionale; secondo alcuni archeologi era un luogo di culto, un agglomerato di fortificazioni abitate, un tempio celeste e un osservatorio per seguire il percorso del sole e della luna. Nei duemila anni di storia dell’edificio tutte queste definizioni contrastanti sono state utilizzate, e a seconda dei periodo si è data più importanza ad alcune invece che ad altre. Era forse un cimitero eretto dal mago Merlino in memoria dei patrioti celti caduti in guerra? Un tempio costruito dai romani? Secondo altri fu il luogo dell’incoronazione dei primi britanni, il sito in cui si svolgevano i riti di adorazione dei sacri druidi. Jones, architetto del XVII secolo, vide in Stonehenge la simmetria e l’equilibrio dell’architettura tardo-rinascimentale. I druidi del XVIII secolo affermarono che era il luogo in cui un tempo deliberava la corte suprema dei loro antenati. Questa tesi era in contrasto con l’ipotesi secondo cui Stonehenge era un planetario a cielo aperto. I triliti rappresentavano il sole, la luna e i pianeti. Le «pietre blu» del ferro di cavallo interno erano i dodici segni dello zodiaco e la «pietra dell’ altare» il luogo dove il gran sacerdote vedeva il sole del solstizio di giugno sorgere sopra la «pietra del tallone». Un’ipotesi del XX secolo è che le dimensioni del cerchio di pietre «sarsen» di Stonehenge fossero proporzionali alle dimensioni del nostro pianeta. Ma la verità qual è? Stonehenge è un luogo per la 3. Ibid, pag.166-167

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Non è possibile definire con precisione in quali anni i popoli dell’America centrale raggiunsero la condizione sofisticata di “civiltà”, ma si tratta di circa 4500 anni fa. A quel tempo la culla della cultura maya si estendeva lungo la costa a sud dell’America centrale, nella foresta tropicale alle spalle del Golfo del Messico. Non è chiaro il motivo per cui i Maya, più di tutte le altre civiltà dell’America centrale, si spinsero così lontano nell’osservazione delle stelle, ma gli astronomi Maya erano in grado di studiare i più complicati cicli celesti senza l’aiuto degli strumenti di precisione. Per avvicinarci all’architettura maya da una prospettiva astronomica, dobbiamo ricordarci che la scienza antica era strettamente unita alla religione. Lo spazio religioso dei maya era fatto di piramidi-tempio e di centri cerimoniali e questi luoghi erano il fulcro della loro esistenza materiale e dominavano la loro vita. Cielo e terra erano strettamente connessi: gli esseri umani, proiettati nell’immagine dei loro dèi, si credeva fossero guidati da forze celesti. Lo storico della religione Paul Wheatley è giunto alla conclusione che quelle religioni che associano esplicitamente la creazione dell’universo con l’origine del mondo di solito mettono in scena la propria cosmogonia tentando di riprodurre sulla terra una versione in miniatura del cosmo3. I luoghi di culto maya erano riproduzioni terrene di quelli che pensavano essere i luoghi abitati dagli dèi o dai morti. I templi e allo stesso modo i riti celebrati all’interno creavano una relazione tra il regno terreno e quello del divino. Gli spazi interni, dato il clima tropicale della zona, erano ridotti al minimo nell’architettura maya, per dare invece la preferenza a grandi, massicce piramidi che attorniavano immensi spiazzi. Uno degli edifici più strani dell’ antica America si trova presso le rovine di Chichén Itzà, la principale attrazione turistica dello Yucatàn. Chichén a


INQUADRAMENTO

PERCEZIONE VISIVA Scala 1:5000

vista sul verde urbano vista sull’edificato

punti di osservazione

vista sulla viabilità

profondità di campo Vista del fiume dal punto di cima del bastione

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Fortezza di Sacsayhuamán, Cuzco

quell’epoca ospitava una cultura ibrida che sintetizzava gli stili e le ideologie degli antichi maya con l’inserimento della cultura tolteca militaristica che si era estesa al di fuori degli altipiani del Messico centrale. La torre del Caracol a Chichén Itzà è sicuramente l’esempio più famoso di edificio storto. La scarsa estetica del Caracol è certamente frutto della sua forma strana. Alcuni ricercatori hanno dedotto che questo suo aspetto avesse uno scopo funzionale, e tra tutti gli usi ipotizzati, quello di osservatorio militare sembra il più attendibile, tenendo conto delle sue caratteristiche e della sua orientazione. Malgrado la sua forma circolare, chiaramente il Caracol non era costruito secondo un modello di astronomia del tipo di Stonehenge. La piattaforma più bassa del primo edificio del Caracol fu costruita dai maya verso l’800 d.C. Si tratta di un’area rettangolare di circa 3000 metri quadrati. La grande scala di fronte sporge in maniera molto accentuata rispetto agli allineamenti degli altri edifici del sito. La posizione del sole al tramonto nel solstizio d’estate si trova entro due gradi di questa direzione, ma una corrispondenza addirittura più vicina è fornita dalle stazioni settentrionali di Venere. Sopra la piattaforma più bassa, incassata nella scala della piattaforma superiore, si trova una nicchia contenente un altare sovrastato da una coppia di colonne. L’altare è allineato asimmetricamente rispetto alla piattaforma superiore 4. Ibid, pag.172

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e, inoltre, è orientato verso l’estremo punto di Venere a nord. Sulle colonne si vedono ancora tracce di pittura rossa e nera. Il rosso è il colore associato al luogo in cui compare Venere nella Tavola di Dresda e il nero di solito simboleggia l’ovest. L’archeologo Oliver Ricketson analizzò l’edificio negli anni ’20, osservando le sue direzionalità e ciò che più lo incuriosì furono proprio queste strane finestre costruite nella torre. Ipotizzò che linee diagonali avrebbero potuto essere impiegate per localizzare con precisione la posizione di un evento all’orizzonte. Le stesse misurazioni, a metà degli anni Settanta, rafforzano la credibilità di questa ipotesi. Abbiamo stabilito che queste direzioni indicavano con esattezza le stazioni settentrionali e meridionali di Venere sull’orizzonte. Può darsi che Venere abbia più a che fare con l’architettura del Caracol di quanto gli allineamenti indichino già di per sé. (...) È anche possibile che le osservazioni astronomiche delineate nel codice di Dresda derivassero proprio dall’osservazione astronomica da questa torre. Considerate tutte queste prove, una connessione intima tra Venere e il Caracol è quasi certa, anche se è stata compresa solo in tempi relativamente recenti. In questo senso la torre del Caracol e molti altri edifici maya, possono esser considerati come un osservatorio, un congegno per penetrare la mente degli dèi4. Gli indicatori planetari si rivelarono la vera fonte di potere e autorità, i garanti


INQUADRAMENTO

PERCEZIONE UDITIVA Scala 1:5000

suoni del parco suoni urbani traffico cittadino punti di ascolto intensitĂ del suono Vista del traffico

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Piano della Zonizzazione Acustica DCC n. 108 del 13.11.1998

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Epopea di Gilgames, tavola argilla, 2000 a.C.

della legittimità del cambiamento in un sistema di credenze che permeava sia il pubblico che il privato della società maya. Esaminando documenti scritti parallelamente agli allineamenti architettonici a cui rinviano, apprendiamo che l’astronomia maya non era pura e semplice astrologia: il modo di osservare il cielo era radicalmente diverso dal nostro, soprattutto per l’uso che veniva fatto dei dati rilevati. Come Stonehenge, il mondo maya ci presenta una scienza astronomica inestricabilmente legata a scopi religiosi. Astronomia e l’impero Inca Gli inca erano abili architetti che, fin da prima della conquista spagnola, avevano sviluppato un impero che si estendeva su tutta l’America sudoccidentale. Chi erano gli inca? La cultura inca si formò sulle fondamenta di Huari e Tiahuanaco, gli imperi che li precedettero, ma dal XII secolo in poi le condizioni climatiche trasformarono questi stati a sud, una volta potenti, in comunità in cui il controllo e la competizione erano meno accaniti. Dopo essersi insediato nella valle di Cuzco, la capitale meridionale, il governante Pahacuti Inca Yupanqui intraprese una campagna che condusse,

nel giro di poche generazioni, ad un impero che si estendeva da Quito (Ecuador), la capitale settentrionale, a Santiago (Cile): una regione lunga 5500 chilometri circa e vasta quasi un milione di chilometri quadrati, che ospitava dodici milioni di persone. Grazie alla documentazione spagnola, Cuzco è uno dei pochi posti in America di cui, benché rimangano soltanto pochi resti, possediamo precisi dati sulla progettazione delle città nel periodo pre-colombiano. I concetti andini di tempo e spazio erano inestricabilmente legati a principi di organizzazione religiosa, sociale e politica, tutti quanti racchiusi nel piano strutturale della città. Ciò risulta particolarmente evidente nell’insolita disposizione urbana radiale di Cuzco. In questa geometria si racchiude la conoscenza che gli inca avevano del cielo. Essi osservavano il cielo accuratamente e svilupparono un preciso calendario basato su ciò che vedevano. Probabilmente il punto di osservazione principale di Cuzco era il Coricancha (letteralmente «recinto dorato »), il Tempio degli Avi, chiamato anche, dagli spagnoli, il Tempio del Sole. Non rimane quasi nulla di questa struttura, ma dagli scritti spagnoli del 1500 risultava essere una costruzione meravigliosa. Era interamente rivestita d’oro, con un immenso disco solare dorato che fronteggia il grande astro al suo sorgere. Doveva trattarsi di un recinto rettangolare fronteggiato da quattro edifici di pietre intagliate con tetti di paglia. Fu proprio l’ornamento d’oro a dare all’edificio il nome di recinto dorato. Il Coricancha era anche dedicato ai più importanti corpi celesti venerati dagli inca: il sole, la luna, Venere e le Pleiadi. Venere, che accompagna il sole, era individuato come il medesimo astro sia che si presentasse davanti al sole, sia che apparisse dietro. Gli inca osservavano la levata e il tramontare di Venere e pensavano che talvolta il sole ordinasse al pianeta di precederlo e a volte invece di seguirlo, ma di rimanergli sempre accanto. Credevano che tutte le cose esistenti dovessero essere appaiate, ma non erano gli unici a pensarlo. Giorno e notte, estate e inverno, maschio e femmina sono solo alcune delle entità di cui tutti abbiamo esperienza e che danno credito all’idea che l’ordine del mondo consista di coppie di opposti. Forse perché le cosmologie, dai 43


maya fino alla Mesopotamia, attribuiscono l’origine del mondo a creatori che procedono in coppia. Ma anche il nostro moderno modello di microcosmo si fonda sui principi di carica positiva e negativa, e il nostro macrocosmo o Big Bang iniziò proprio con la scissione dell’universo in materia e irradiazione luminosa. Un altro dualismo proposto dalla cultura inca, consisteva nella suddivisione del cosmo in ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Il dualismo verticale si rivela la chiave per aprire la porta della cosmologia nel progetto architettonico dell’antica Cuzco. Perciò, come nel caso dei maya e di Stonehenge, il nostro desiderio di capire l’astronomia antica ci conduce direttamente nel cuore di uno spazio civico e cerimoniale in cui tutta la popolazione si riunisce per comprendere il mistero.

LA DIMENSIONE CONTEMPLATIVA DELLA VITA La“dimensione contemplativa” dell’esistenza è quel momento di distacco dall’incalzare delle cose, di riflessione, di valutazione alla luce della fede, che è tanto necessario per non essere travolti dal vortice degli impegni quotidiani.(...) Questo discorso sulla dimensione contemplativa della vita si dirige a ogni uomo e donna che intenda condurre un’esistenza ordinata e sottrarsi a quella frattura tra lavoro e persona che minaccia oggi un poco tutti. Tra le molte cose che si possono dire sulla maniera in cui è vissuta oggi la dimensione contemplativa dell’esistenza, vengono alla mente le seguenti: - la disabitudine presso la grande massa alla pratica della preghiera e delle pause contemplative; - la ricerca, diversamente motivata, presso alcuni gruppi, di forme e momenti più intensi di preghiera, di esperienze di “deserto” e di riconversione alla natura; - l’inconsapevolezza dell’importanza del problema, insieme con una certa nostalgia per questo valore irrinunciabile della vita. (...) L’esodo massiccio dalle città nei periodi di va-

Abaco dei simboli di Carl Jung

canze e nei fine settimana esprime in fondo anche questo desiderio di ritorno alle radici contemplative della vita. Lo sfondo generale di questa situazione è costituito da una cultura occidentale attuale, che ha un indirizzo prevalentemente prassistico, tutto teso al “fare”, al “produrre”, ma che genera un bisogno indistinto di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo. Ma entrambi gli orientamenti rischiano di rimanere superficiali. Sia l’attivismo frenetico, sia certe maniere di intendere la contemplazione possono rappresentare una “fuga” dal reale. Il silenzio. Se in principio c’era la Parola e dalla Parola di Dio, venuta tra noi, è cominciata ad avverarsi la nostra redenzione, è chiaro che, da parte nostra, all’inizio della storia personale di salvezza ci deve essere il silenzio: il silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare. L’uomo che ha estromesso dai suoi pensieri, secondo i dettami della cultura dominante, il Dio vivo che di sé riempie ogni spazio, non può sopportare il silenzio. Per lui, che ritiene di vivere ai margini del nulla, il silenzio è il segno terrificante del vuoto. Ogni rumore gli riesce

5. MARTINI C.M., Lettera di presentazione al Sinodo, Milano, 8 Settembre 1980 6. RIES J., L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro. In Opera omnia vol.III. Milano, Jaca Book, 2007, pag.9

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più gradito; ogni parola, anche la più insipida, è liberatrice da un incubo; tutto è preferibile all’essere posti implacabilmente, quando ogni voce tace, davanti all’orrore del niente. Ogni ciarla, ogni lagna, ogni stridore è bene accetto se in qualche modo e per qualche tempo riesce a distogliere la mente dalla consapevolezza spaventosa dell’universo deserto5. E’ naturale, per l’homo sapiens sapiens religiosus (di cui si hanno tracce, su questo pianeta, databili a diverse decine di migliaia di anni fa) pensare ad un’entità esterna a lui che in qualche modo lo protegge, lo aiuta, lo sorregge nei momenti difficili. La mente ha bisogno di costruire l’immagine di un Dio esterno a noi. Coloro che non avvertono questo bisogno, hanno probabilmente sempre percepito Dio dentro di sé. Non c’è nulla che possa essere chiamato Dio, che non sia in qualche modo in collegamento con ciò che la nostra mente produce come idea di Dio. Ogni uomo, che sia buddista praticante, cattolico animato da fede, speranza e carità, che sia un ateo convinto, ha un’idea di Dio esterno nella propria mente. Anche se l’ateismo

Die, Tony Smith, 1962

spesso costruisce attorno alla persona un tabernacolo inviolabile, e si può considerare una sorta di narcisismo spirituale. Homo religiosus Era saggio, vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei primi giorni del Diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica: quando ritornò si riposò, su una pietra l’intera storia incise. L’epopea di Gilgames

Il dibattito che vede al centro l’essenza dell’homo religiosus è piuttosto acceso. Due tesi si contrappongono: coloro che postulano una stretta correlazione tra dimensione del sacro e vissuto della morte, e quelli che invece ritengono che l’esistenza dell’homo religiosus costituisca il fondamento e l’essenza della natura umana. La prima scuola di pensiero ritiene che l’ipostatizzazione della trascendenza annulli e vanifichi ogni ipotesi di evoluzione dell’uomo ed ogni possibilità di considerare la trascendenza come prodotto della mente umana. Secondo questa tesi, la dimensione del sacro non è propria dell’uomo e si basa su un meccanismo difensivo, ovvero la negazione dell’evento morte. Il culto dei morti è con tutta probabilità il più antico ed universale, e da questo è derivata poi l’idea di un mondo dei morti, quindi di un mondo separato. Infine da questo nucleo primitivo si svilupperà nel tempo, anche se in forme diverse, l’idea della trascendenza e successivamente l’idea di una divinità. La seconda teoria, vede come suoi esponenti fondamentali Julien Ries e Mircea Eliade. Secondo Julien Ries, storico delle religioni, cardinale e arcivescovo cattolico belga, l’homo religiosus è quell’uomo che assume nel mondo un modo specifico di esistenza, che si esprime nelle numerose forme religiose che la

7. van der LEEUW G., Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 2002, pag.30 8. RIES J., L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro. In Opera omnia vol.III. Milano, Jaca Book, 2007, pag.57

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storia ci mostra. Egli si riconosce dal suo stile di vita6. L’autore che coniò l’espressione homo religiosus fu Gerardus van der Leeuw (1890-1950) che lo oppose all’homo negligens: Possiamo quindi intendere la definizione del giurista Masurio Sabino: “religiosus est, quod propter sanctitatem aliquam remotum ac sepistum a nobis est”. Ecco precisamente in che cosa consiste il sacro. Usargli sempre debiti riguardi: è questo l’elemento principale della relazione fra l’uomo e lo straordinario. L’etimologia più verosimile fa derivare la parola religio da relegere, osservare, stare attenti; homo religiosus è il contrario di homo negligens7. In questo senso l’esperienza del sacro o religiosità - prima ancora di informarsi nelle diverse religioni - è ciò che interviene nella costituzione stessa di quella coscienza che, prendendo le distanze dal semplice fluire della nuda vita, dà avvio ad un’umanità che emerge come tale sempre e solo nel rinvio alla trascendenza. Ries ha insistito nell’affermare che l’Homo religiosus non avesse solamente a che fare con il meccanismo difensivo contro l’angoscia dell’evento morte, ineluttabile per ogni essere umano. L’homo religiosus per Ries è colui che è capace di simboleggiare: l’homo symbolicus, che non risale a nessuna epoca storica, ma che si impone fin dall’inizio dell’evoluzione umana. Per comprendere il nesso di significato e di essenza tra Homo religiosus e Homo symbolicus, ci rifacciamo alle parole di Mircea Eliade, storico delle religioni e scrittore rumeno, riportate da Ries stesso: La contemplazione della volta celeste - scrive Ries - ha fatto entrare in gioco la capacità simbolica dell’uomo ed egli ha scoperto, secondo l’espressione di Eliade, un simbolismo primordiale: la Trascendenza, la Forza, la Sacralità. (...) È a partire da questa scoperta del significato religioso della volta celeste che l’uomo arcaico ha compiuto una prima esperienza religiosa. L’uomo ha preso coscienza della sua situazione e della sua posizione nell’Universo. (...) Perciò, nella storia dell’umanità, l’uomo religioso è l’uomo normale. Con Eliade possiamo dire che il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia8.

Nel corso di una delle sue ultime interviste Ries ha affermato: da oltre due milioni di anni osserviamo la crescita di ciò che chiamiamo ominizzazione. (...) C’è una crescita della coscienza nella storia dell’umanità che porta alla nascita delle grandi culture e religioni, ma noi notiamo che dal suo apparire l’uomo è simbolico e religioso. Questa consapevolezza è importante per il nostro tempo. Homo symbolicus L’individuazione dell’homo religiosus e symbolicus in varie culture avviene anche nella reinterpretazione dei luoghi abitativi e di culto. Il livello simbolico è uno strumento interpretativo primo in questo ambito, così come centrale è il tema del sacro, portatore di un potere di suggestione e di una visibilità del trascendente. Torna in primo piano l’attività immaginante e simbolizzatrice dell’uomo, ipotizzata come dato antropologico costante, non primitivo, e le sue relazioni con gli spazi e le forme d’architettura. Con le tre religioni monoteiste, il cosmo non è più realmente mediatore dell’esperienza del sacro. Ma le culture che da esse sono nate hanno conservato ed esaltato le immagini acquisite dalle religioni politeiste, legate ai simboli cosmici della volta celeste, del sole, degli astri; degli elementi naturali dell’acqua, dell’aria e del fuoco; le immagini collegate ai miti. Sacro ebraico, cristiano, islamico sono dunque dimensioni distinte nella caratterizzazione storica spazio-temporale delle tre aree religiose e culturali cui si riferiscono, ma hanno in comune il movimento immaginativo consapevole della vicinanza tra uomo e Dio, e al contempo della totale inesorabilità della distanza che non permette al divino di ridursi alla dimensione umana, ai suoi spazi e ai suoi tempi. Questo dinamismo mantiene delle caratteristiche differenti nelle tre religioni monoteiste, determinando il diverso carattere dei loro spazi cultuali e di preghiera, e i loro momenti di tangenza e sovrapposizione.

9. PIVA A. a cura di., La città multietnica: lo spazio sacro, Ed. Marsilio, Milano 2000, pag.77

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IL SIMBOLO Nell’antichità, la contrapposizione tra diverse posizioni favoriva il logos, cioè il discorso rigoroso e univoco, rispetto al mythos, cioè il dire simbolico. Si pensava che soltanto il logos potesse essere utilizzato in dissertazioni rigorose, mentre il mythos sarebbe incapace di dischiudere l’accesso alla verità. Il pensiero moderno e contemporaneo sostiene fortemente la valenza del logos, confinando i linguaggi mitico-simbolici, i linguaggi estetici o dell’esperienza religiosa, in una sfera non veritativa, comunque in posizione inferiore, secondaria rispetto all’altra. Kant tentò di porre la fede e il suo linguaggio nell’ambito della Ragion Pratica, fuori dal pensiero rigoroso, rischiando di risolvere l’esperienza religiosa e il suo linguaggio in un fenomeno di natura esclusivamente eticopratica. Allo stesso modo anche Hegel cercò di porre le rappresentazioni religiose ai confini dell’ambito della ragione, nel momento della rappresentazione, e non ancora del concetto. E ancora potremmo ricordare altri tentativi di demolire la legittimità dei linguaggi mitico-simbolici, come quello di Marx, o di Nietzsche e Freud. L’esperienza religiosa e simbolica verrebbe quindi ridotta ad espressione della debolezza umana e razionale. Freud vede nella religiosità una conferma della sua tesi di fondo: l’uomo resta sempre debole come un bambino e in preda alla nostalgia del padre. Analizzando questi approcci, osserviamo che l’elemento di fondo è l’incapacità a comprendere la dimensione simbolica del linguaggio religioso, che porta i filosofi di matrice illuministica a ritenere tale linguaggio estraneo all’ orizzonte della verità. Il pensiero razionalista e illuminista ritiene che la verità e l’oggettività siano raggiungibili soltanto con discorsi controllati e rigorosi. Un’altra ipotesi è quella che il linguaggio simbolico sia, al pari del linguaggio razionale, un modo proprio di interpretare il mondo. Non si può ridurre questo tipo di ricerca ad un metodo pre-scientifico di comprendere le cause: andrebbe avanti con l’avanzare del rischiaramento razionale e delle tecniche di controllo tecnico sul reale. Ma alcune dimensioni della verità risultano essere impossibili da ridurre alla verità scientifica, ed è proprio in

quest’ambito che la funzione simbolica trova il suo valore esplorativo. Nella visione simbolica si investiga un rapporto con il mondo che non segue i moduli empirici e le logiche tipicamente razionali, ma nelle pratiche dell’immaginario non abbiamo una presentazione diminuita rispetto al reale, ma semplicemente diversa. Non si vuole negare l’ambito scientifico razionale, ma si vuole sottolineare la possibilità di un altro modo di vedere le cose: Non vediamo meno, ma vediamo come se... Le pratiche dell’immaginario, così come il linguaggio poetico e simbolico, dicono la realtà ma la dicono “in un altro modo”: per questo sono vere e proprie forme poietiche, cioè di mutamento, di ricreazione. Questi linguaggi simbolici che ricorrono a una mimesis, a una ridescrizione, hanno una funzione rivelante: rivelano che il mio primo e primordiale rapporto con il mondo non è quello di una manipolazione né di una presa di distanza obiettivante quale si rivela nei linguaggi e nella prassi scientifico-oggettiva, ma è un rapporto di comune appartenenza. Inoltre, questi linguaggi poetici che, pur senza negare le capacità descrittive e realistiche, non si arrestano ad esse ma dispiegano le capacità ricreative ed esplorative del linguaggio medesimo, indicano che l’uomo è una ulteriorità di senso e una apertura al possibile9. L’urgenza, in questa fase inedita di Transizione per l’umanità e per il nostro pianeta pare inizialmente quella di cogliere fino in fondo la portata della sfida che la crisi ci sta lanciando: siamo infatti di fronte alla necessità di reinventare nuove visioni del mondo, realmente alternative all’unica dominante, caratterizzata dal potere incontrastato della violenza, dal controllo tecnico-scientifico sulle menti e sulla natura, e dall’accumulazione quantitativa universale, motore perpetuo dell’attuale e insostenibile capitalismo globale.

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1.CONCETTI FONDAMENTALI

comunità il concetto al centro dello spazio

comunità s.f. 1. Insieme di persone che hanno in comune rapporti sociali, linguistici, etici. 2. Complesso di persone o di ceti organizzati per il conseguimento di vantaggi comuni dal punto di vista pratico, politico, economico.

Il quarto stato, Pelizza da Volpedo, 1896-1901

IL CONCETTO DI COMUNITA’ Il primo a introdurre il concetto di comunità nell’ambito delle scienze sociali fu Ferdinand Tönnies, alla fine del secolo scorso. Parlare di comunità era impossibile senza tener conto del rapporto con il concetto di società. Il dualismo comunità-società esprimeva una distinzione nell’ambito delle relazioni umane, differenziando tra la “vita reale e organica”, essenza della comunità, e “la formazione ideale e meccanica” che esprime la società 1. La comunità deve quindi essere intesa come organismo vivente, e la società invece come un aggregato e prodotto meccanico 2.

La comunità è una cerchia di persone che non può essere costruita, che rimane esterno alle dinamiche contrattuali. Il suo proprio modo di sentire è indicato da termini come tenerezza, reverenza, rispetto. Ma i due concetti, comunità e società, si costruiscono secondo Tönnies per opposizione: nella società gli individui vivono, come nella comunità pacificamente l’uno accanto all’altro, ma sono separati: l’individuo non svolge alcuna attività che esprima uno spirito di unità con gli altri individui, ma tiene in considerazione piuttosto la propria soddisfazione, in uno stato tensionale con gli altri. L’emergere dei caratteri societari, a partire dall’emancipazione dell’individuo, porterebbero secondo Tönnies alla divisione di interessi, a dif-

1. FERDINAND TÖNNIES, Comunità e società, Laterza, Bari 1987, pag.45 2. Ibid, pag.47

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L’ultima cena, Leonardo Da Vinci, 1500

ficoltà di adattamento personale e di sottomissione dei molti alla discrezionalità dei pochi. Max Weber, partendo dal concetto di comunità di Tönnies, lo rielabora in modo più articolato. Per relazione sociale Weber intende un comportamento di più individui instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso, e orientato in conformità3. La relazione è comunitaria se, e nella misura in cui, la disposizione dell’agire sociale poggia (…) su una comune appartenenza, soggettivamente sentita dagli individui che ad essa partecipano. Mentre un’associazione è tale se la disposizione dell’agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente3. Weber mostra quindi più interesse alle forme intermedie tra le due polari: ritiene infatti che la maggior parte delle relazioni sociali abbiano parte di entrambi i caratteri relazionali: relazioni sociali create per un fine posso infatti evolvere in rapporti basati su valori di sentimento e viceversa. Weber esprime una certa preoccupazione per il destino dell’uomo in un mondo sempre più razionalizzato: il concetto di comunità appare in crisi. Talcott Parsons, sociologo statunitense, riflettendo sull’analisi dei suoi

due predecessori, individua le difficoltà di uno schema che semplicisticamente contrappone i due concetti di comunità e di società. Nel suo studio individua 5 dilemmi che contrappongono gli originari concetti antitetici. Definisce uno schema che esplicita la scelta di interazione dell’individuo, ogni qualvolta si sente chiamato alla relazione con gli altri. I 5 dilemmi si possono così riassumere: 1. Affettività-neutralità affettiva: tra la gratificazione immediata e la valutazione delle conseguenze del comportamento. 2. Orientamento verso l’io-orientamento verso la collettività: perseguimento dei propri interessi o di quelli del gruppo al quale si appartiene. 3. Universalismo-particolarismo: la valutazione delle persone o relazioni sulla base di criteri generalizzati. 4. Acquisizione-ascrizione: se il rilievo cade su ciò che un soggetto fa o su ciò che un soggetto è. 5. Specificità-diffusione: rispettivamente rapporti e aspettative di ruolo dal contenuto limitato oppure indefinito.

3. MAX WEBER, Economia e società. Comunità, Ed.Donzelli, Roma 2005, vol.1, pag.23

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INQUADRAMENTO

Espansioni Scala 1:20000 centro storico prima espansione espansione fuori le mura espansione residenziale espansione industriale

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INQUADRAMENTO

Prospetti del perimetro dell’area_2 Scala 1:1000

Caserma Santa Marta

INQUADRAMENTO

Prospetti del perimetro dell’area_3 Scala 1:1000

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INQUADRAMENTO

Prospetti del perimetro dell’area_1 Scala 1:1000

INQUADRAMENTO

Pianta di riferimento Scala 1:5000

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Nonostante lo sforzo di razionalizzare i comportamenti umani, anche il modello di Parsons ricade nella coppia analitica comunità-società. La crisi del concetto di comunità viene espressa in 3 problematiche fondamentali: 1. La perdita di identità dell’individuo nella società contemporanea. Mostra la difficoltà di adattamento dell’individuo alle situazioni di incertezza e variabilità tipiche dei contesti sociali moderni. Non vale solo nell’ambito individuale, ma anche come “identità collettiva”. Identità non coincide con comunità, ma si può contrapporre all’antitetico interesse, che guida le relazioni. 2. Il principio di reciprocità: un’economia nascosta e non istituzionalizzata, che svuota la reciprocità da sentimentalismi e sentimenti comunitari. La reciprocità mostra il ritorno di alcuni aspetti comunitari nell’economia, e mostra degli schemi relazionali capaci di mantenersi nel tempo, mentre l’economia nella sua forma pura definisce relazioni che si esauriscono nell’atto dello scambio. 3. La fiducia come requisito che rende possibili relazioni e strutture sociali. La fiducia rimanda a contenuti incerti e sfuggenti, ma essenziali nel vivere sociale. Può essere definita come un’aspettativa di esperienze con valenze positive per l’attore, maturata sotto condizioni di incertezza ma in presenza di un carico cognitivo e/o emotivo tale da permettere di superare la soglia di mera speranza 4. Vediamo quindi come il concetto di comunità mostri debolezze analitiche, ma evochi problematiche che continuano ad essere attuali, anche se nessuno dei nuovi termini risulta completamente in grado di esaurire ciò che il termine “comunità” evoca.

L’ARCHITETTURA DELLA PARTECIPAZIONE L‘architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti. Con questa frase De Carlo negli anni ‘60 voleva mettere in discussione le prassi progettuali consolidate in urbanistica e architettura e proporre in alternativa all’autonomia disciplinare delle figure professionali della progettazione, una logica di partecipazione dell’utente, capace di tener conto dei bisogni reali dei fruitori. De Carlo proponeva la Progettazione Partecipata, spesso attraverso la metodologia del workshop, in cui l’utente è da subito coinvolto nel processo decisionale, dando rilievo e sostanza alle sue aspettative. In una conferenza tenuta a Melbourne alla fine degli anni ‘60 afferma che l‘architettura del futuro sarà caratterizzata da una partecipazione sempre maggiore dell’utente alla sua definizione organizzativa e formale5. L’architettura della partecipazione, come sottolinea lo stesso De Carlo, è un’utopia, ma un’utopia realistica. Si tratta di una forma di progettazione in cui tutti intervengono in egual misura nella gestione del potere, anche quando il potere non esiste perché sono tutti direttamente ed egualmente coinvolti nel processo delle decisioni. Il concetto di architettura della partecipazione parte dalla considerazione dell’attività architettonica come un aspetto particolare dei fenomeni di trasformazione globale dell’ambiente fisico, e l’architetto in quanto tale, secondo la natura dei problemi, potrà essere primo attore o comparsa. Con il Movimento Moderno, lo studio della città e dello spazio era giunto a delle conseguenze estreme da un punto di vista progettuale: la città era stata trasformata in una macchina, dopo essere stata sottoposta al processo di semplificazione e pulizia degli elementi considerati superflui. Ne è massima espressione la zonizzazione: mentre nella città preindustriale il lavoro, il tempo libero, la circolazione, l’istruzione, lo spettacolo, gli scambi, la produzione e la contemplazione avvenivano ovunque, nella città contemporanea (quella disegnata dagli urbanisti) ogni attività

4. Ibid, pag.47 5. DE CARLO G., L’architettura della partecipazione, Ed. Quodlibet Abitare, Roma 2013, pag.38

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INQUADRAMENTO

Griglie dell’edificato Scala 1:20000

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è al suo posto, oppure dovrebbe esserlo; e se non lo è, il fatto di non esserlo diventa (per gli urbanisti) un errore, una insopportabile “incoerenza funzionale”6. Questo processo compositivo partiva dalla convinzione secondo cui le funzioni generano automaticamente la forma, sia della città, che delle abitazioni stesse. La forma chiara e definita dell’architettura del razionalismo e del primo dopo guerra aveva la presunzione di cambiare la società, di agire sui comportamenti umani. Secondo De Carlo i contributi del Movimento Moderno hanno guardato all’organizzazione spaziale con gli stessi criteri della produzione industriale, e questo ha fatto sì che si ponesse più attenzione agli aspetti formali che agli aspetti globali delle problematiche progettuali. Ciò che è mancato all’approccio del Movimento Moderno è stata la profonda comprensione della funzione, a cui avrebbe poi seguito la forma: l’analisi funzionale si è infatti fermata ad una povera rappresentazione di comportamenti convenzionali, non volendo sacrificare in molti casi la chiarezza compositiva a favore dell’insieme di comportamenti sociali contraddittori e di conflitti nell’utilizzo dello spazio. Ma questa comprensione avrebbe richiesto la partecipazione diretta dei protagonisti, mentre invece il metodo adottato imponeva di escluderli e di non ascoltarli7. La partecipazione di cui parla De Carlo implica la presenza degli utenti lungo tutto il corso dell’operazione. In questo modo il momento dell’operazione diviene momento progettuale: dal momento della definizione del problema, al momento dell’elaborazione, fino alla verifica dei risultati. La pratica della partecipazione cambia dunque ogni momento dell’operazione architettonica e le relazioni tra i momenti. Con questo nuovo approccio, nella progettazione non considereremo più un “uomo tipo” senza società né storia che non ha nulla a che fare con la realtà ma si esce dalla tipizzazione, lasciando la parola a degli esseri umani concreti. L’architettura diventa una questione culturale, consapevole che le forme e gli 6. Ibid, pag.43 7. Ibid, pag.57 8. Ibid, pag.48

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spazi siano uno strumento in grado di modificare i comportamenti umani, e di avere un effetto pedagogico ed educativo sulla società, ma consapevole anche che questo processo non è lineare ma reticolare: le forme agiscono sui comportamenti umani solo attraverso retroazioni; e queste retroazioni si manifestano e hanno interferenze positive quando le forme si mantengono in continuo aderente rapporto con il contesto che le genera; che il contesto sia tutto il sistema delle forze sociali, con i suoi conflitti e le sue contraddizioni, e non soltanto il sistema delle forze istituzionali8. Nel contesto della progettazione dello spazio contemplativo, l’approccio partecipativo è naturalmente ridotto alla forma di ascolto, e vuole quindi tenere conto dell’opinione di coloro che vivono quotidianamente in una condizione di vita comunitaria, per comprendere gli elementi fondanti e i principi spaziali alla base della comunità stessa. Sono stati quindi estratti dei principi generali a partire dalle interviste rivolte a 11 comunità:

• MONTE OLIVETO, VERONA: Comunità terapeutica per il recupero dalla tossicodipendenza “CEIS”

• NOMADELFIA, GROSSETO: Comunità di cattolici praticanti fondata da don Zeno Saltini

• SERMIG, TORINO: Fraternità di famiglie e consacrati nata nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Oliveiro

• CENTRO JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI): Comune evangelica valdese fondata nel 1968

• VILLA VRINDAVANA, FIRENZE: Comunità Hare Krishna fondata da B.S.Prabhupada nel 1966

• VILLAPIZZONE, MILANO: Comunità di famiglie fondata da Bruno e Enrica Volpi nel 1978

• ISLAM, IMPERIA: Comunità islamica di Imperia • BOSE, BIELLA: Comunità ecumenica monastica di uomini e donne

• MONASTERO SAN DAMIANO,


• BORGO VALSUGANA (TN): Comunità di Clarisse, fondata nel 1984

• EBRAISMO, VERONA: Comunità ebraica di Verona

• L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO): Comunità politica di famiglie fondata nel 1978 e conclusa nel 1992

Le interviste sono riportate in Appendice 1 al termine dell’elaborato. Qui di seguito si procede con l’analisi dei dati rilevati. Si sono scelti quesiti appartenenti a quattro categorie diverse di domande e si sono raggruppati per rendere possibile il confronto. Le categorie individuate sono le seguenti: • • • •

Comunità e società esterna Il sentimento comunitario Lo spazio della comunità La comunità provvisoria

DISTRIBUZIONE DEGLI SPAZI: Nelle pagine seguenti sono inoltre illustrati gli schemi funzionali delle comunità intervistate. Vengono evidenziati in particolare gli spazi collettivi e gli spazi comuni, e l’eventuale presenza di recinti tra gli spazi. Emerge la presenza di luoghi dedicati alla condivisione di pratiche di varia natura, quasi sempre in posizioni privilegiate, o comunque raggiungibili da ogni nucleo privato.

RECINTO

SPAZIO PUBBLICO

SPAZIO PRIVATO

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COMUNITA’ E SOCIETA’ ESTERNA Domanda 6 MONTE OLIVETO, VERONA

NOMADELFIA, GROSSETO

SERMIG, TORINO

JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI)

LA RELAZIONE TRA LA COMUNITÀ E LA SOCIETÀ ESTERNA È DI ESCLUSIONE O DI INCLUSIONE? La relazione tra società interna ed esterna è quindi inclusiva: la comunità è aperta, non nel senso che chiunque possa visitarla, ma che i soggetti sono ospitati allo scopo di potersi reinserire. La relazione tra la comunità di Nomadelfia e la società esterna può essere sia di esclusione che di inclusione. Esclusione per tutto ciò che la comunità non condivide a livello educativo, comportamentale, di relazione, economico ecc. Di inclusione per tutto ciò che di buono la società propone. Nomadelfia si presenta all’esterno come un piccolo popolo comunitario. Ci sono rapporti con l‘esterno legati alle attività lavorative o amministrative. In particolare si collabora con i Servizi sociali e i Tribunali per i Minorenni per quanto riguarda l’accoglienza di figli in affido. Inoltre, qualsiasi Nomadelfo può avere rapporti personali di amicizia e collaborazione liberamente con chiunque. Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) nasce da un sogno di inclusione: eliminare la fame e le ingiustizie nel mondo. Si fonda sul quotidiano coinvolgimento della gente comune nel dare il megliodi sé al servizio degli altri e del bene comune, là dove ognuno si trova. Noi la chiamiamo “restituzione” e riguarda tutto ciò che siamo ed abbiamo: beni, risorse, tempo, capacità…La restituzione è un metodo per crescere nella responsabilità e nella fratellanza, ed è la nostra principale fonte di finanziamento (93%). La proponiamo anche ai più giovani, che frequentano a migliaia le nostre case, come la via per scoprire le proprie potenzialità ed affrontare la vita da protagonisti. Relazione di inclusione, ovviamente.

VILLA VRINDAVANA, FIRENZE

D’inclusione – che si concreta quando sono presenti reciproco rispetto e desiderio d’integrazione e non di assimilazione.

VILLAPIZZONE, MILANO

La relazione tra la comunità di Villapizzone e l’esterno è di grande inclusione: tutte le porte e i cancelli sono aperti, e spesso il parco incluso alla cascina si offre come piazza aperta alla cittadinanza. L’esclusione è più su base socio-economica. La discriminazione è su base di censo, non culturale/religiosa. Il lavoro mancante in questo periodo di crisi sta disintegrando la convivenza. Forse l’unico contesto ancora in grado di conservare l’inclusività è la scuola. Di accoglienza.

ISLAM, IMPERIA

BOSE, BIELLA MONASTERO S.DAMIANO, BORGO VALSUGANA (TN)

EBRAISMO, VERONA

L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO)

La relazione è di inclusione. E’ vitale la relazione con la società esterna. Se siamo qui è anche per un messaggio efficace per chi sta fuori. Per la possibilità di mostrare che è possibile vivere delle relazioni diverse. E’ di inclusione sia come provvidenza, per l’esterno, sia per la preghiera per la comunità e per chi si rivolge a noi. Assolutamente di inclusione, la Comunità non vuole isolarsi dalla società esterna, anzi cerca sempre il confronto e il dialogo nel massimo rispetto delle diverse posizioni. Inoltre chiunque può frequentare la Comunità e visitare i suoi spazi, nonché partecipare alle funzioni. Direi di «invasione» nel senso che la realtà comunitaria è entrata senza preavviso e inaspettatamente nella società esterna con una forte componente di analisi critica. L’approccio non è stato accolto con benevolenza, soprattutto dalle forze politiche e dalle realtà parrocchiali del tempo venendo spesso indicato come elemento di disturbo più che di analisi.

ESTRATTO: La relazione tra le diverse comunità e la società esterna è caratterizzata dall’apertura all’esterno e dall’inclusività. Questo rapporto di inclusione si declina con caratteristiche diverse per i diversi carismi comunitari. In alcune comunità (Nomadelfia, Villapizzone, Bose, Sermig) l’inclusività si coniuga sulla base dell’accoglienza. In altre (comunità ebraica, comunità islamica, monastero delle clarisse, Ceis) diventa elemento centrale il dialogo e il confronto con l’esterno, per evitare l’isolamento dalla realtà. Appare quindi vitale la relazione non esclusiva per la rigenerazione stessa della comunità. 58


MONTE OLIVETO, Verona

NOMADELFIA, Grosseto

SERMIG, Torino

59


IL SENTIMENTO COMUNITARIO Domanda 9 MONTE OLIVETO, VERONA

NOMADELFIA, GROSSETO SERMIG, TORINO

JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI)

VILLA VRINDAVANA, FIRENZE VILLAPIZZONE, MILANO

ISLAM, IMPERIA BOSE, BIELLA

MONASTERO S.DAMIANO, BORGO VALSUGANA (TN)

EBRAISMO, VERONA

L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO)

COME DEFINIREBBE IL SENTIMENTO DI APPARTENENZA ALLA COMUNITÀ? Gli appartenenti alla comunità, al termine del processo di guarigione, si ritengono persone che hanno scoperto la bellezza della relazione, e si trovano a ringraziare anche per aver vissuto l’esperienza della droga, senza la quale, con tutta probabilità, non avrebbero scoperto nulla oltre il vuoto che conoscevano. L’appartenenza è anche legata al sentimento di vuoto di senso e di amore che accomuna tutti i membri. Un sentimento di libera scelta, di condivisione della fede e di adesione totale. Noi lo chiamiamo “comunione”: di fede, di valori, di missione, di priorità pratiche. Ma possiamo chiamarlo anche “fraternità”: ci accogliamo come fratelli o sorelle, per vivere come un’unica famiglia. Appartenere alla Comune dava un senso di solidità, specialmente per i bambini che ovviamente essendo esonerati dall’ora di religione cattolica a scuola si trovavano alla Comune in un gruppo consistente di protestanti e ciò li rafforzava nella difficoltà di esporsi a scuola. Relativamente alla nostra comunità: amore, fraternità, guida e sostegno reciproco Un sentimento di solidarietà, apertura. E’ una sorta di amicizia, ma forse più una fraternità, basata sulla “compassione”: include tutti, anche l’estraneo che entra a visitare la comunità. E’ importante non fare comunità con gli amici, ma al contrario basare la scelta comunitaria su interessi comuni da realizzare: la povertà unisce. La comunità è una perla preziosa, diventa importante per tutti custodirla e custodirne l’armonia. Affrontare le difficoltà insieme per far procedere la comunità è un fattore fondamentale. E’ un sentimento visceralmente profondo. Nella concretizzazione non è però troppo coerente. Al di là del dato oggettivo dell’impegno attraverso dei voti, c’è un sentimento più soggettivo dato da una storia comune e da una pratica quotidiana condivisa, che non si lascia riassumere in parole, ma implica una reciprocità e una fiducia che sono sempre da ravvivare. La fondazione del monastero, e della comunità quindi, risale a 30 anni fa. Avere una storia in comune, di fatica e di costruzione di una realtà che non esisteva, crea appartenenza. All’inizio eravamo divise in due gruppi: le fondatrici e le postulanti. Si è poi creata un’unità attraverso ricerca e momenti di difficoltà. Le relazioni fraterne non si esauriscono nello stare insieme. La storia comune porta il sentimento di continuità. L’appartenenza va al di là del limite. Sentire che sei dentro qualcosa che non hai iniziato tu. “La clausura è come il colore nero: serve a dar luce agli altri”. E’ importante sentire, conoscere chi ha generato la fede in quel luogo, chi c’era prima nel tempo e nella storia. L’appartenenza all’ordine non è facile data l’autonomia dei monasteri, ma la comunità non si esaurisce in sé stessa. Il sentimento d’appartenenza risulta essere abbastanza intenso, ma non per tutti gli iscritti. In alcuni casi è molto sentito, alcuni dei membri storici sono legati alla Comunità di Verona, in altri si limita a fugaci apparizioni alle ricorrenze più importanti. Bisogna però ammettere che in periodi di tranquillità si percepisce meno il sentimento di appartenenza, quando si vivono momenti di tensione questo tende invece ad accentuarsi. Innanzitutto era una «casa» nel senso che la accoglienza e l’attenzione al singolo erano palpabili in particolare durante i momenti di riposo e dei pasti. Per la mia esperienza (ridotta visto che al tempo dell’«Isola» ero molto piccolo) quello che passava era il profondo senso di amicizia fondata non solo su simpatia ma su esperienze importanti e su qualche cosa che allora non riuscivo ben ad identificare, ma che oggi riporterei ai momenti di confronto e di analisi su temi profondi e seri.

ESTRATTO: Il senso di appartenenza è elemento imprescindibile per tutte le comunità. Questo sentimento si fonda, in ogni realtà considerata, su convinzioni ed obiettivi comuni e si concretizza nella condivisione, nell’aiuto reciproco, consolidandosi nei momenti di difficoltà. In ambito cristiano l’appartenenza è assimilata ad un sentire fraterno. 60


JACOPO LOMBARDINI, Cinisello Balsamo (MI) e L’ISOLA, Sasso Marconi (BO)

VILLA VRINDAVANA, Firenze

VILLAPIZZONE, Milano

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LO SPAZIO DELLA COMUNITA’ Domande 15-16-18

MONTE OLIVETO, VERONA

NOMADELFIA, GROSSETO

• • • • •

VI È UNO SPAZIO COLLETTIVO CAPACE DI OSPITARE TUTTI GLI APPARTENENTI? IN QUESTO SPAZIO LE PERSONE SONO DISPOSTE GERARCHICAMENTE? E’ IMPORTANTE PER UNA COMUNITÀ CONDIVIDERE IL MEDESIMO SPAZIO? C’è, ed è noto ai membri come la “Giostra”. In questo spazio le persone sono disposte in un cerchio, in cui anche gli operatori sono allo stesso livello, occupando sporadicamente funzione di catalizzatore. E’ fondamentale. Si, esistono più spazi collettivi in grado di ospitare tutti gli appartenenti (chiesa e sala incontri). No, non c’è gerarchia nello spazio. Si, è importante. Ad esempio a Nomadelfia le famiglie vivono in 11 “Gruppi familiari”, ciascuno composto da 4 o 5 famiglie per una media di 25 componenti, con una casetta in comune comprendente sala da pranzo, cucina, laboratori… mentre ciascuna famiglia ha le camere in casette separate. Ogni tre anni i gruppi vengono ricomposti dalla Presidenza, così ogni famiglia verrà a trovarsi con nuove famiglie in un nuovo gruppo. Ce ne sono diversi. No. Ci sediamo sempre in cerchio. È importante perché permette di incontrarsi, di essere “custodi” gli uni degli altri e di camminare insieme nel confronto e nel sostegno reciproco. L’occupare un medesimo spazio rende anche più visibili i limiti di ciascuno, permettendo di metterli in gioco in un cammino di crescita sostenuto da tutti. Per noi non è però essenziale essere sempre e tutti fisicamente insieme. L’apertura ad altri Paesi del mondo e a servizi nella città esterni agli Arsenali ci permette di sperimentare la vera comunione, che non ha bisogno della compresenza fisica e del contatto verbale continuo ma si mantiene nel cuore, nella preghiera e nella condivisione di un ideale comune.. La grande stanza da pranzo e quella delle riunioni. Non c’era nessuna gerarchia perché l’organizzazione e gli interventi venivano discussi insieme e le decisioni erano prese collettivamente. Ovviamente c’erano figure più ‘carismatiche’ che però avevano il buon senso di non prevaricare. Certamente è indispensabile vedersi tutti i giorni (alla sera per chi lavorava fuori). Se ci riferiamo alla comunità fisica quello principale è il tempio. No ,ma si mantiene divisione tra maschi e femmine, pur garantendo parità di spazi. Nel caso di una comunità spirituale come la nostra è importante condividere le pratiche spirituali che normalmente si svolgono in spazi dedicati. I luoghi di condivisione sono la cappella, il salone e il parco. Non v’è gerarchia. C’è un presidente a rotazione, ma ha solo valore di coordinamento. E’ fondamentale. Ci sono stati tentativi di lontananza fisica in altre comunità sorte con gli stessi intenti, ma chi ha provato, ora vive insieme. Relazioni quotidiane e familiarità creano sentimenti fraterni altrimenti improponibili. E’ la fraternità a costruire la società. Dovrebbe esserci un luogo capace di contenere 1500 persone, ma non esiste. Ci sono quattro moschee, una scuola islamica e due luoghi di incontro per famiglie Sufi. Non c’è gerarchia. Tutti sono seduti per terra, l’unica differenza è per l’Imam. E’ irrinunciabile, fondamentale. La prima necessità degli immigrati è quella di formare un luogo di culto condiviso, che diventa anche un luogo di aggregazione e di informazione. Sì.

No, tranne per colui o colei che presiede all’unità.

I medesimi spazi, sì.

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SERMIG, TORINO

• • •

JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI)

• •

VILLA VRINDAVANA, FIRENZE

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VILLAPIZZONE, MILANO

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ISLAM, IMPERIA

• •

BOSE, BIELLA

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ISLAM, Imperia e EBRAISMO, Verona

BOSE, Biella

MONASTERO S.DAMIANO, Borgo Valsugana (TN)

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MONASTERO S.DAMIANO, BORGO VALSUGANA (TN)

• •

EBRAISMO, VERONA

• • •

• L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO)

Il coro per la preghiera, il refettorio la biblioteca e la sala capitolare, dove si passa la sera. Solamente nel coro, ma l’utilità di questo è più pratica che gerarchica. Badessa e vicaria occupano un posto fisso, ma non è quello centrale come nella regola benedettina. Sì, è molto importante. Esistono spazi in grado di ospitare tutti gli iscritti alla Comunità, dalla Sinagoga ai locali della Comunità. All’interno dei locali della Comunità non esiste una disposizione gerarchica, lo stesso discorso vale per la Sinagoga. In quest’ultima vi è una suddivisione tra uomini e donne, inoltre esiste una sorta di altare da dove il Rabbino o l’officiante recitano la funzione (ma non è precluso a nessuno salire e “guidare” la funzione o recitare le preghiere). Non solo è importante ma lo definirei fondamentale, sia per una questione di preghiera sia perché alcuni momenti aiutano a consolidare lo spirito comunitario. Il gruppo propose una auto tassazione per poter acquistare un edificio rurale con annesso campo da coltivare. Questo spazio venne acquistato nell’ottica di una vita condivisa. Alcune famiglie si trasferirono dopo il matrimonio direttamente nei locali che erano stati ricavati dalle diverse stanze mentre altri erano più spesso di passaggio fermandosi in alcune parti del giorno (pasti, dopo lavoro, dopo cena). All’interno di questi spazi si trovavano anche gli ambienti in cui si organizzavano le varie attività. La particolarità che ben mi ricordo di questi spazi è proprio che non sapevi mai dove sederti: non c’erano posti fissi né tanto meno posti gerarchicamente definiti… quasi naturalmente accadeva che le tavolate venivano divise fra maschi e femmine (regola questa mai scritta né detta eppure applicata anche oggi nelle occasioni di ritrovo). Alla stessa maniera anche nella capellina sia per i momenti di riunione sia per i momenti di preghiera, le panche erano disposte attorno alle pareti e quindi tutti vedevano tutti. Lo stesso don Carlo (guida del gruppo) era seduto fra gli altri eccezione fatta, ovviamente, per i momenti di celebrazione in cui presiedeva da dietro un tavolo attrezzato ad altare. Una realtà comunitaria ha bisogno di un punto fisico di riferimento: non per elezione del luogo o esclusione degli esterni, ma, ritengo, per avere un continuo richiamo al concreto. Le idee, le proposte che nascono in quel luogo non possono essere concetti astratti…si scontrano con il ruvido delle pareti che le contengono e se vogliono uscire devono divenire solide… Uno spazio fisico deve esserci anche solo per richiamare ai sensi il contesto in cui la comunità opera ed agisce. La mancanza di tale spazio crea, a parere mio, dispersione e non porta al vero incontro con l’altro che prima di tutto nasce dalla capacità di accoglienza in uno spazio in cui uno dei due è straniero.

ESTRATTO: Tutte le comunità predispongono uno spazio d’incontro che ritengono fondamentale. In tale spazio non risulta esserci in nessun caso una distribuzione gerarchica. Solo nel caso della comunità ebraica e della comunità Hare Krishna v’è una suddivisione di genere. La compresenza nel medesimo spazio diventa fondamentale per rafforzare il sentimento comunitario, condividere pratiche di diversa natura in base alla realtà considerata e creare aggregazione e sostegno reciproco.

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LA COMUNITA’ PROVVISORIA Domanda 20 MONTE OLIVETO, VERONA NOMADELFIA, GROSSETO

SERMIG, TORINO

JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI)

VILLA VRINDAVANA, FIRENZE

VILLAPIZZONE, MILANO

ISLAM, IMPERIA

BOSE, BIELLA MONASTERO S.DAMIANO, BORGO VALSUGANA (TN)

EBRAISMO, VERONA

L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO)

E’ POSSIBILE, A SUO PARERE, FORMARE UNA COMUNITÀ “PROVVISORIA”, CAPACE DI RICREARSI CON ELEMENTI UMANI DIVERSI OGNI VOLTA? E’ difficile, ma se ci sono gli strumenti adatti, è possibile. Penso che una comunità di persone che collaborino in alcune attività sia possibile, ma se per comunità intendiamo una profonda condivisione della vita, la scelta definitiva è un elemento di forza fondamentale. Sì, se il valore ricercato è comune. Per esempio, la preghiera, la solidarietà attorno ad un singolo progetto o in vista di un bene comune, o un tempo di servizio ad una determinata categoria di persone. La capacità di “fare comunità” attorno a questi elementi ridurrebbe di molto l’aggressività sociale e l’ingovernabilità del nostro Paese. Senza dimenticare però che la crisi che attraversiamo è prima di tutto crisi dell’uomo nella sua capacità relazionale e progettuale a lungo termine. Crediamo perciò che l’investimento più urgente sia verso PROGETTI COMUNITARI INCLUSIVI A LUNGO TERMINE. Di fatto tutte le comunità sono ‘provvisorie’; ogni storia ha un inizio, una fase di pienezza e una conclusione; è successo così anche per noi: la Comune è durata circa 30 anni poi si è esaurita; sono cambiati i tempi, le sensibilità, gli obiettivi. Una vita così, piacevole, importante, ma faticosa può essere vissuta solo da giovani entusiasti; bisogna crederci e avere le energie perché la cosa funzioni. Il numero dei membri, appartenenti alla stessa comunità virtuale, che decidono di vivere insieme per brevi o lunghi periodi, è in continuo aggiornamento. Ciò che si ritiene fondamentale è avere a sostegno del progetto un nucleo di persone che conoscano bene la filosofia che si sta applicando e che facciano da riferimento per i residenti temporanei. Per creare una comunità provvisoria è necessario che vi siano delle emozioni condivise. E’ possibile sentirsi in comunione, se la condivisione è interiore, in questo caso non sono emozioni che si auto consumano. Sono semi che cadono nel silenzio e il seme che scompare, è capace di portare frutto. In qualche modo già esistono, attorno alle associazioni di volontariato ad esempio. Credo sia fondamentale che il culto rimanga a sè, vorrei però che la gente si incontrasse sul terreno del “fare”, nei problemi di ogni giorno. Dovrebbe essere uno spazio finalizzato ad un obiettivo comune, per fare qualcosa di preciso e di utile. Quando c’è bisogno, non importa CHI lo fa, ma che QUALCUNO lo faccia, e questo mette le persone sullo stesso piano. Sì, se le regole comuni sono chiare. Non lo so. Credo che in questo progetto sarà cruciale il percorso. La via è un passaggio importante. L’umano dev’essere disarmato per essere vero. “Togliti i sandali”. Entrare a piedi nudi, senza arroganza sarà fondamentale, che l’elemento umano sia davvero umano. Secondo la mia esperienza esiste la possibilità di creare una comunità “provvisoria”; è capitato che la condivisione di spazi per un breve periodo di tempo, che fosse solo un weekend o una settimana, abbia consentito la creazione di una “comunità” tra persone provenienti da città differenti, oppure da differenti Paesi, spesso con background molto diversi tra loro, ma che trovandosi a condividere una medesima realtà, ed avendo almeno una caratteristica in comune, sono riuscite a dar vita al concetto di comunità provvisoria. Credo che una esperienza come una realtà comunitaria per sua natura debba avere un inizio ed una fine… Lo dico non per senso di rassegnazione, ma perché ogni esperienza che si accompagna alla vita personale non può non evolversi con essa, cambiare, crescere, morire rispetto alle sue origini per rigenerarsi con nuova forza. L’importante è che i componenti non si fossilizzino sulle dinamiche e sulle caratteristiche originanti la comunità stessa. Questo creerebbe nei nuovi elementi umani un senso di restrizione, di appartenenza adottiva e non naturale. Una comunità provvisoria potrebbe essere una giusta soluzione nella ipotesi di una struttura capace di ricrearsi ma soprattutto di evolversi con le persone che di volta in volta ne entrino a far parte. Sotto queste ipotesi credo sia possibile proporre una esperienza come quella descritta.

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ESTRATTO: L’idea di formare una comunità provvisoria appare agli intervistati come ambiziosa, anche se possibile qualora gli obiettivi e le regole siano chiari. Il senso di comunità appare fortemente legato all’esperienza interiore ed umana che viene condivisa. Importante è il percorso che porta all’esperienza di condivisione, anche se provvisoria, ma frutto di un cammino che precede e segue il tempo dell’effettiva condivisione dello spazio. L’uomo per vivere la comunità pienamente deve risultare il più possibile destrutturato e svuotato dai pregiudizi.

CONCLUSIONI: L’uomo che appartiene alla comunità costruisce una propria identità a partire dal senso di appartenenza. La comunità, indipendentemente dalla sua connotazione, attribuisce all’uomo un carattere che lo differenzia da coloro che vivono in contesti in cui fanno fatica a riconoscersi. Un aspetto fondamentale della comunità è il depositarsi di un’idea, di un modo di vivere, di una certezza, di un riconoscersi saldi in un ideale. Il rischio è quello che la comunità diventi punto d’arrivo, luogo in cui l’uomo appoggia il proprio sentire individuale soggiogandolo a quello collettivo. Tuttavia l’opportunità di una comunità aperta e ancor più di una comunità provvisoria è di essere punto di partenza per rientrare nel mondo con una consapevolezza di collettività, di non-solitudine, di umanità.

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2

elementi dello spazio natura: lo

spazio della relazione con l’altro

tempio: archetipi:

cosa rappresenta oggi?

elementi del tempio_stanza, percorso e recinto

stanza: l’arrivo al centro percorso: il cammino verso il centro recinto: la custodia del centro tre esempi: sinagoga, moschea e chiesa: i luoghi contemplativi occidentali 67


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2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

natura lo spazio della relazione con l’altro

natura s.f. 1. Il fondamento dell’esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire biologico, in quanto presupposto causativo, principio operante, o realtà fenomenica. Spesso come termine di un rapporto di ordine logico, estetico, morale con le possibilità dell’uomo.

LA NATURA NELLA LETTERATURA E’ bello stare sotto un vecchio leccio, o sopra l’erba soffice: e l’acqua scorre giù dai monti ripidi, gli uccelli intorno cantano, le fonti chiacchierine rumoreggiano e a dolci sonni invitano1. Il luogo della contemplazione è un luogo in cui l’uomo prende contatto con ciò che è altro da sé, ma che gli appartiene profondamente. La natura è da sempre l’elemento con cui l’essere umano si trova a confrontarsi in una relazione di alterità, che lo spinge ad un atteggiamento interrogativo. Il rapporto tra uomo e natura va evolvendosi nella storia, ma mai l’elemento naturale diventa indifferente agli occhi umani. La prima descrizione in assoluto che abbiamo della natura è il testo dal libro della Genesi che descrive il giardino dell’Eden. Si tratta dello spazio che Dio stesso pone in reciprocità con l’uomo: è il primo Altro di cui Adamo può fare esperienza, ed è anche il luogo in cui conoscerà il Bene e il Male, in cui prenderà consapevolezza della propria complessità, della donna che gli è a fianco, e di una sete. E non ultimo è il luogo in cui la domanda “dove sei?”, che citavamo all’inizio, prende forma. Poi l’Eterno Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente, e vi pose l’uomo che aveva formato.

Rapporto uomo-natura

E l’Eterno Dio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli a vedersi e i cui frutti erano buoni da mangiare; in mezzo al giardino vi erano anche l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino e di là si divideva per divenire quattro corsi d’acqua. Il nome del primo è Pishon; è quello che circonda tutto il paese di Havilah, dov’è l’oro; e l’oro di quel paese è buono; là si trovano pure il bdellio e la pietra d’ònice. Il nome del secondo fiume è Ghihon, ed è quello che circonda tutto il paese di Cush. Il nome del terzo fiume che è il Tigri, ed è quello che scorre a est dell’Assiria. E il quarto fiume è l’Eufrate. L’Eterno Dio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo

1. ORAZIO, Epodo II, vv 23 e ss.

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custodisse2. Il divino ha pervaso la natura fin dall’origine, come abbiamo visto, ma fin da subito si pone una questione fondamentale: la distinzione tra il giardino e la natura selvaggia. Per l’antico la natura era un elemento da cui era necessario proteggersi, di cui non ci si poteva fidare completamente in quanto permeato da forze indomabili e spesso imprevedibili. Omero (IX sec. a.C.) nelle sue descrizioni narra di uno spazio pervaso da forze divine, e la natura partecipa a tutto ciò che è divino. Così disse il figlio di Crono e prese la sposa fra le sue braccia; sotto i loro corpi la terra divina fece nascere un tenero prato, del loto fresco di rugiada e crochi e giacinti, folti e delicati, che li nascondeva alla terra. Qui si coricarono avvolti in una nuvola d’oro; cadevano gocce di rugiada lucente3. E’ leggiadra, la natura descritta da Omero, selvaggia e affascinante, sempre fertile, rigogliosa, vitale, ma anche paurosa. La divinità è in grado di creare vitalità, definendo attorno a sé un fascio di luce perenne, che trova massimo compimento nello spazio olimpico. Fuori dall’atrio, vicino alle porte, si apre un vasto giardino: da una parte e dall’altra lo cinge una siepe. Grandi alberi crescono qui rigogliosi, peri, melograni, meli dai frutti lucenti, fichi dolcissimi, olivi fiorenti. Non finiscono mai di dar 2. 3. 4. 5.

la SACRA BIBBIA, Ed. Dehoniane, Bologna 2009, Gen 3,9-15 OMERO, Iliade, XIV, 346-391 OMERO, Odissea, VII, 110-120 OMERO, Odissea, IX, 130 e 140

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Prometeo incatenato, Dick Van Baburen, 1623

frutto, per tutto l’anno fioriscono, d’inverno e d’estate per tutto l’anno e sempre il soffio di Zefiro fa nascere alcuni, altri matura4. Vi sono prati, lungo le rive del mare, morbidi e freschi; (…) In capo al porto, dentro una grotta, vi è una sorgente, limpida acqua vi scorre, intorno crescono i pioppi5. Dal paesaggio omerico gli autori posteriori hanno tratto alcuni motivi destinati a divenire i capisaldi di una lunga serie di schemi tradizionali: il paese dell’eterna primavera, sede di vita beata dopo la morte. Il giardino diventa l’angolo di terra in cui l’uomo può godere dei frutti della terra, riunendo insieme elementi altrimenti distribuiti in ampi spazi:


l’albero, la fonte, il prato, il bosco costituito da diverse specie di alberi, il tappeto di fiori. Tutto ciò rappresenta il paesaggio ideale in cui l’uomo, sentendosi al sicuro, può finalmente riposare sentendo soffiare una leggera brezza sulle gote. Il giardino è il tentativo dell’uomo di riprodurre l’ordine della natura e la sua armonia. L’intento è quello che generare il cosiddetto locus amoenus, uno spazio naturale integro e non contaminato dalla mano umana, la cui unica funzione sia il godimento. Sono spazi non coltivati per fini pratici, ma il cui unico scopo è la fruizione della natura. Questi luoghi vengono descritti fino al Cinquecento come angoli di natura belli e ombrosi, con la presenza di almeno un albero, un prato e una fonte o ruscello, a cui si possono aggiungere anche il canto degli uccelli, i fiori e una tenue brezza, come canta Saffo nella sua preghiera ad Afrodite (VI sec. a.C.). Verdeggia un delizioso bosco di meli/Acqua fresca mormora tra i rami dei meli/Fitta è l’ombra dei roseti/E un sussurro di foglie giù riversa malioso oblio/Prato dove pascano i cavalli/Primavera e brezze con fragranza di miele6. La natura è anche il luogo del pensiero, lo spazio vuoto a disposizione dell’uomo fuori dalla città. Subisce nei secoli un processo di laicizzazione, come vediamo ad esempio nella descrizione del Fedro di Platone (V sec. a.C.) La natura si evolve da elemento divino a spazio in cui fermarsi ad investigare l’animo umano. E’ uno spazio 6. 7. 8. 9.

da ammirare, ma da cui non si può imparare, non viene considerato come fonte di conoscenza. E’ in contrapposizione alla città, luogo in cui nasce la filosofia, luogo in cui Socrate insegna il dialogo con l’altro come fonte di conoscenza della verità. Platone riprende questo concetto, mostrando la natura come luogo utile all’uomo per sedimentare le conoscenza acquisite in ambito urbano. SOCRATE: Per Era! Bel luogo per fermarci! Questo platano è molto frondoso e alto; l’agnocasto è alto e la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è rende il luogo profumatissimo. E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima, con acqua molto fresca, come si può sentire col piede. (…)E se vuoi altro ancora, senti come è gradevole e molto dolce il venticello del luogo. Un dolce mormorio estivo risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più piacevole di tutte è quest’erba che, disposta in dolce declivio sembra cresciuta per uno che si distenda sopra, in modo da appoggiare perfettamente la testa. FEDRO: (…) Mi sembra che tu non esca affatto

Spoonriver and Cherry, Claes Oldenburg e Coosje Van Bruggen, Minneapolis 1986

SAFFO, fr.2 Voigt PLATONE, Fedro, 230 A-E PLATONE, Fedro, 232 M LUCREZIO, De rerum natura, II, 30-35

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dalla città, per recarti oltre i confini, e neppure per andare fuori le mura. SOCRATE: Io sono uno che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città, invece, sì.7

diamo infatti come Enea, nell’Eneide, si trovi ad attraversare un bosco antichissimo e sconfinato dove larici, querce, frassini, olmi dominano l’orizzonte; ma ricordiamo anche che alla fine del viaggio giunge all’Elisio, il luogo della bellezza.

Vedi laggiù quel platano imponente? Lì troveremo ombra ed aria ventilata ed erba su cui sedersi, o, volendo, distenderci.8

(…)giunsero nei luoghi ridenti e tra l’amena/ verzura dei boschi delle anime felici, e nelle sedi beate./ Qui un etere più ampio riveste i campi di luce/purpurea; conoscono un loro sole e loro stelle10.

La forma del platano riempie l’intera antichità; all’ombra del platano si può poetare, scrivere, filosofare. Comporre versi sotto gli alberi o su un prato, o presso una sorgente, diventa, nel periodo ellenistico, un motivo poetico autonomo: allontanarsi dal tumulto cittadino concede il tempo e l’agio per l’attività metafisica della mente umana. I latini prediligono nella descrizione della natura, il paesaggio coltivato. La relazione con gli dei prende una nuova connotazione, a partire dalla filosofia epicurea: gli dei esistono, ma vivono in un mondo separato dagli uomini. La natura resta permeata dal divino nelle descrizioni virgiliane, ma diventa principalmente il luogo in cui l’uomo ritrova un vivere più sereno che nelle costrizioni del lusso.

Uno dei più alti esempi di celebrazione della natura, lo abbiamo senza dubbio nello scritto di San Francesco d’Assisi, il Cantico di Frate Sole. Si tratta del testo poetico più antico della letteratura italiana, scritto nel 1224, due anni prima della morte del santo. Il Cantico è una lode a Dio che si snoda con intensità e vigore attraverso le sue opere, divenendo così anche un inno alla vita; è una preghiera permeata da una visione positiva della natura, poiché nel creato è riflessa l’immagine del Creatore: da ciò deriva il senso di fratellanza fra l’uomo e tutto il creato, che molto si distanzia dal contemptus mundi, dal distacco e disprezzo per il mondo terreno, segnato dal pec-

(…) quando tuttavia fra amici adagiati su molle erba lungo il corso d’un ruscello sotto i rami d’un alto albero con modesti agi ristorano gradevolmente le membra, soprattutto se il tempo sorride e la stagione dell’anno cosparge ovunque le verdeggianti erbe di fiori9. I temi che attraversano l’epica virgiliana si possono riassumere nel cosiddetto “boschetto” e nuovamente nel locus amoenus. Ricor10. VIRGILIO, Eneide, vv 638 ss 11. SAN FRANCESCO D’ASSISI, Cantico di Frate Sole

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Il mattino, Caspar David Friedrich, 1811


cato e dalla sofferenza, tipico di altre tendenze religiose. La creazione diventa così un grandioso mezzo di lode al Creatore. Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male. Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate11 Nella riflessione romantica la natura dopo secoli torna ad apparire grande, misteriosa, seducente,

terribile. Secondo Schelling la natura non è che un riflesso della propria interiorità, il luogo in cui ritrovare l’armonia perduta tra “dentro e fuori”. Il poeta romantico si sente attratto e respinto dal grande mistero della natura e riscopre e reinterpreta la condizione di creature desiderose di riscatto: i titani che combattono contro gli dei per impossessarsi dell’olimpo. Il rapporto tra l’uomo e la natura è contrastato, da una parte l’uomo ne è conquistato, dall’altra la natura si trasforma, come per esempio nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo (1796), da presenza materna a forza distruttiva. Sommo Iddio! Quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione? Tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere ed io l’ho guardata sovente con indifferenza12. La natura diventa luogo della contemplazione di un mistero, come mostra il celebre dipinto Viandante su un mare di nebbia di Caspar Davidi Friedrich. Il sentimento della Sehnsucht, della malinconia, della non conoscenza e al contempo del desiderio di un altro fuori da sé trova massimo compimento nella visione del Leopardi nel suo celebre idillio L’infinito (1818). Il paesaggio è ridotto a essenzialità assoluta: il colle, dove il poeta siede contemplativo, e la siepe, che limita quasi del tutto la visuale, l’ultimo orizzonte che fa vibrare l’immaginazione. La natura si riempie di silenzio, quiete, assoluta immobilità. Lo spazio chiuso nel quale si sente costretto si contrappone alla vastità illimitata, in quanto ignota. Il poeta valica tutti i confini superando il tempo e lo spazio, vive per un attimo l’ebbrezza di aver attinto ad una dimensione di totale alterità rispetto all’angusto qui e ora. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete

12. FOSCOLO U., Ultime lettere di Jacopo Ortis, 14 Maggio

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io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare13. Albero

GLI ELEMENTI NATURALI RICORRENTI Da questo excursus attraverso la letteratura, è stato possibile estrarre alcuni elementi naturali ricorrenti nella descrizione della natura attraverso la storia. La visione del giardino è permeata principalmente da 6 componenti fondamentali, che qui di seguito vengono descritte con i testi appena proposti, allo scopo di estrarre dei temi progettuali.

Fonte/ruscello

ALBERO FONTE/RUSCELLO ERBA/PRATO BOSCO FIORI VENTO

ALBERO

E’ bello stare sotto un vecchio leccio14 In mezzo al giardino vi erano anche l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male15 Questo platano è molto frondoso e alto16

Vedi laggiù quel platano imponente?17

Sotto i rami d’un alto albero18

• • Erba/prato

FONTE/RUSCELLO • • •

Bosco

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13. 14. 15. 16.

L’acqua scorre giù dai monti ripidi14 Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino e di là si divideva per divenire quattro corsi d’acqua15 In capo al porto, dentro una grotta, vi è una LEOPARDI G., L’infinito vd nota 1 vd nota 2 vd nota 7

17. vd nota 8 18. vd nota 9 19. vd nota 5 20. vd nota 11


• •

sorgente, limpida acqua vi scorre19 E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima, con acqua molto fresca, come si può sentire col piede16 Lungo il corso d’un ruscello18 Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta20

VENTO •

Primavera e brezze con fragranza di miele25

Senti come è gradevole e molto dolce il venticello26

Lì troveremo ombra ed aria ventilata27

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento32

E come il vento odo stormir tra queste piante31

ERBA/PRATO • • •

O sopra l’erba soffice21 Sotto i loro corpi la terra divina fece nascere un tenero prato22 Fuori dall’atrio, vicino alle porte, si apre un vasto giardino23 Vi sono prati, lungo le rive del mare, morbidi e freschi24

Prato dove pascano i cavalli25

La cosa più piacevole di tutte è quest’erba26

Lì troveremo ombra ed aria ventilata ed erba su cui sedersi, o, volendo, distenderci27

Quando tuttavia fra amici adagiati su molle erba28

BOSCO • • • • •

E l’Eterno Dio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli a vedersi29 Grandi alberi crescono qui rigogliosi, peri, melograni, meli dai frutti lucenti, fichi dolcissimi, olivi fiorenti23 Intorno crescono i pioppi24 Giunsero nei luoghi ridenti e tra l’amena verzura dei boschi30 E come il vento odo stormir tra queste piante31

FIORI • • • •

Del loto fresco di rugiada e crochi e giacinti, folti e delicati22 Nel pieno della fioritura com’è rende il luogo profumatissimo26 La stagione dell’anno cosparge ovunque le verdeggianti erbe di fiori28 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba32

21. vd nota 1 22. vd nota 3 23. vd nota 4 24. vd nota 5 25. vd nota 6 26. vd nota 7

27. vd nota 8 28. vd nota 9 29. vd nota 2 30. vd nota 10 31. vd nota 13 32. vd nota 11

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INQUADRAMENTO

Consistenza del verde Scala 1:10000

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INQUADRAMENTO

Sistema idrografico Scala 1:5000 fiume canali pozzi e sorgenti aree bonificate

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2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

tempio cosa rappresenta oggi?

tèmpio s.m. 1. Edificio consacrato al culto della divinità, spesso concepito come dimora del dio di cui custodisce l’immagine o il simbolo culturale (…). L’idea di abitazione e dimora della divinità, simboleggiata già nel tempio delle civiltà orientali, costituito da un vero e proprio palazzo tutto circondato di mura, si riscontra anche nel tempio classico, costituito essenzialmente da una cella rettangolare più o meno allungata, nella quale è collocata l’immagine cultuale della divinità., e generalmente Preceduta da un vestibolo rivolto ad oriente (pronao), ed ancor più nel Tempio di Gerusalemme, che, oltre al vestibolo e all’aula, comprendeva una parte ancor più recessa (Sancta Sanctorum), accessibile soltanto al sommo sacerdote, una volta all’anno, dove si conservava l’Arca dell’Alleanza, contenente le tavole della Legge, simbolo della costante presenza di Dio tra il suo popolo. 2. fig.Sede degna di rispetto o di venerazione, in quanto vi si svolga o accolga in sé qlcs. Di nobile, di sacro, di assolutamente grande. 3. estens. Dal sign. Di “spazio circoscritto del cielo” la volta celeste. LA RICERCA DEL CENTRO Il cerchio è forse la forma geometrica che meglio interpreta il rapporto dell’uomo con la natura, dell’uomo con l’universo che lo circonda, come totalità visibile. Circolare è l’occhio umano e circolare egualmente è la linea dell’orizzonte quando l’occhio la segue nella pianura o nel deserto1. Proprio su questa linea l’uomo ha iniziato ad interrogarsi e a comprendere le leggi cicliche della natura. Come abbiamo visto per il complesso di Stonehenge, laddove si cerca l’imitazione strutturale della natura, l’architettura inizia a rendere possibile, tra uomo e cosmo, l’attivarsi di un processo di ascolto, di interrogazione, di conoscenza e di conferma delle ipotesi avanzate dalla mente, dalla riflessione. L’idea della centralità trova un suo iniziale compimento nella croce a braccia tutte uguali, la cosiddetta “croce greca”. L’ortogonalità ha la sua ragione d’essere inizialmente nel rapporto che si crea tra l’orizzonte e il corpo umano eretto, anche se la

mente e di conseguenza l’architettura, hanno da sempre proiettato la croce su un piano orizzontale. Centro, cerchio e quadrato sono le forme geometriche che meglio interpretano il concetto di unità, ma la croce è sicuramente il simbolo più completo e più totalizzante, riuscendo a stabilire tra le altre forme una relazione dinamica. È simbolo di intermediazione, di comunicazione tra luoghi, spazi e tempi diversi. Centrifuga e centripeta allo stesso tempo, esprime contemporaneamente diffusione, emozione, riunione, ricapitolazione. L’architettura ha sempre utilizzato la croce come principio ordinatore e schema geometrico. Il concetto con il cosmo e la comprensione suggerito dalla combinazione di cerchio, croce e quadrato non rimangono solo nel sacro. Un esempio è il mandala indiano, proiezione geometrica del mondo, paradigma dell’evoluzione e dell’involuzione cosmica, fatto per ritrovare l’unità della coscienza e per scoprire il principio ideale delle cose.2 Si tratta di un grande disegno tracciato sulla terra, in un luogo scelto accuratamente, di

1.PORTOGHESI P., Natura e architettura, Ed.Skira, Milano 1999, pag.342 2.Ibid, pag.345

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Rappresentazione grafica di un Mandala

solito vicino alle rive di un fiume. In quel luogo avveniva un rito di iniziazione, in cui il neofita arrivava tramite un percorso al centro in cui avveniva la purificazione. Mircea Elide scrive che la prima cosa che il neofita conquista meditando su un mandala è il raccoglimento, la riunione, la concentrazione, l’unificazione degli stati di coscienza. Il mandala lo fissa nel reale. (…) Concentrandosi in un mandala, il neofita è difeso contro il caos esterno a lui, che cerca di riassorbirlo, di disperdere la sua attenzione, di sperperare le sue forze ingannandolo con illusioni e futili appelli. Il mandala è un centro e meditando su di esso, il neofita riesce a strapparsi dall’oceano della vita psicomentale e subliminale e a fissarsi nel centro della realtà3. Al di là degli aspetti culturalmente diversi, osservando il mandala con occhio occidentale, si ritrovano una serie di caratteristiche geometriche note e comuni ad edifici della tradizione occidentale. Jung riferisce che alcuni suoi pazienti costruiscono mandala senza conoscerli. Assi cardinali, disposizione ritmica degli elementi, senso di equilibrio e di esaltazione della centralità sono archetipi dell’uomo, alla ricerca del centro. La

centralità diventa nell’architettura un modo per esprimere unità, infinita essenza, uniformità. Anche nella celebre Rotonda del Palladio, l’armonia della centralità esprime il segno dell’equilibrio cosmico. L’obiettivo è quello di confinare il caos al di là del cerchio delle mura. A partire dal Rinascimento la centralità serve a trasportare nell’edificio religioso il senso di perfezione e assolutezza. Vengono passate in rassegna le strutture dei fiori e tutte le figure geometriche capaci di simmetria: quadrangolo, esagono, pentagono, specialmente in età barocca. L’architetto che in età moderna ha utilizzato in maniera più esplicita l’archetipo della centralità è Bruno Taut. Prese spunto dai modelli naturali della stella e del fiore, custodendone la forza simbolica di forma e colori e progettò, a partire da quest’osservazione, edifici costruiti su un sistema di sette assi. Sceglie il numero 7 come numero simbolico della perfezione ciclica: il settimo infatti è il giorno che Dio rivendica a sé dopo la cosmogonia e quindi simboleggia totalità e compimento.

LA FORMA DEL TEMPIO Fin dall’antichità l’uomo ha tentato di costruire un luogo capace di mostrare l’irruzione del sacro nella natura. Temenos, il termine greco che definisce il tempio, riconnette la parola latina templum a temnein (tagliare, separare) e suggerisce l’idea di recinto e luogo sacro, ancor prima di identificare il termine con l’edificio consacrato. Si tratta infatti prima di tutto di un lembo di terra circoscritto e vitalizzato dalla presenza divina. La Tenda dell’Alleanza, progettata da Dio stesso, non è solo un luogo di presenza del sacro, ma anche un luogo accogliente attorno al quale il popolo si riunisce, è un archetipo della comunità, vivente e protetta. La tenda, insieme all’arca, al tabernacolo, agli altari degli olocausti e dei profumi, e al recinto esterno, sono i simboli dell’alleanza tra Dio e gli uomini4. La descrizione della tenda è estremamente precisa.

3. ELIADE M., Immagini e Simboli, Ed. Jaca Book Spa, Milano 1981, pag.51 4. PORTOGHESI P., Natura e architettura, Ed. Skira, Milano 1999, pag.230

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Schematizzazione della Tenda dell’Alleanza

Dal libro dell’Esodo L’Eterno parlò a Mosè dicendo: (…) Mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro. Voi lo farete secondo tutto quello che io ti mostrerò, sia per il modello del tabernacolo che per il modello di tutti i suoi arredi. Faranno dunque un’arca di legno di acacia, lunga due cubiti e mezzo, larga un cubito e mezzo e alta un cubito e mezzo. (…) E nell’arca metterai la Testimonianza che ti darò. Farai anche un propiziatorio d’oro puro; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo e la sua larghezza di un cubito e mezzo. (…) Metterai quindi il propiziatorio in alto, sopra l’arca; e nell’arca metterai la Testimonianza che ti darò. Là io ti incontrerò. Farai anche una tavola di legno di acacia, lunga due cubiti, larga un cubito e alta un cubito e mezzo (…) E metterai sulla tavola il pane della presentazione, che starà nel continuo davanti a me. Farai anche un candelabro d’oro puro; il candelabro, il suo piede e il suo tronco saranno lavorati al martello; i suoi calici, i suoi pomi e i

suoi fiori saranno tutti di un sol pezzo. Dai suoi lati usciranno sei braccia: tre braccia del candelabro da un lato e tre braccia del candelabro dall’altro; (…) E vedi di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte Farai poi il tabernacolo di dieci teli di lino fino ritorto, di filo color violaceo, porporino e scarlatto, con dei cherubini artisticamente lavorati La lunghezza di ogni telo sarà di ventotto cubiti e la larghezza di ogni telo di quattro cubiti; i teli avranno tutti la stessa misura. Cinque teli saranno uniti assieme e gli altri cinque teli saranno pure uniti assieme. (…) Farai inoltre cinquanta occhielli sull’orlo del telo esterno della prima serie e cinquanta occhielli all’orlo del telo esterno della seconda serie del telo. Farai pure cinquanta fermagli di bronzo e farai entrare i fermagli negli occhielli e unirai così la tenda in modo che formi un tutt’uno. Della parte che rimane, il sovrappiù dei teli della tenda, la metà del telo in sovrappiù ricadrà sulla parte posteriore del tabernacolo; e il cubito da una parte e il cubito dall’altra parte che sono in sovrappiù nella lunghezza 83


ritorto, il lavoro di un ricamatore.

Ziggurat di Ur, 2000 a.C.

dei teli della tenda, ricadranno sui due lati del tabernacolo, uno da un lato e l’altro dall’altro per coprirlo. Farai pure una copertura per la tenda di pelli di montone tinte di rosso, e sopra questa un’altra copertura di pelli di tasso. Farai per il tabernacolo delle assi in legno d’acacia, messe per ritto.(…) Erigerai il tabernacolo secondo la forma esatta che ti è stata mostrata sul monte. Farai un velo di filo violaceo, porporino, scarlatto e di lino fino ritorto, con dei cherubini artisticamente lavorati. e lo sospenderai a quattro colonne di acacia rivestite d’oro, con i loro uncini d’oro, posate su basi d’argento. Appenderai il velo ai fermagli; e là, all’interno del velo, introdurrai l’arca della testimonianza; il velo servirà per voi da separazione fra il luogo santo e il luogo santissimo. Metterai quindi il propiziatorio sull’arca della testimonianza nel luogo santissimo. Fuori del velo invece metterai la tavola, mentre il candelabro andrà di fronte alla tavola sul lato sud del tabernacolo, e metterai la tavola sul lato nord. Farai pure per l’ingresso della tenda una cortina di filo violaceo, porporino, scarlatto e di lino

Farai anche un altare di legno di acacia, lungo cinque cubiti e largo cinque cubiti; l’altare sarà quadrato e avrà tre cubiti di altezza. (…) Farai anche delle stanghe per l’altare, stanghe di legno di acacia, e le rivestirai di bronzo. (…) Farai anche il cortile del tabernacolo; dal lato sud, il cortile avrà dei tendaggi di lino fino ritorto di cento cubiti di lunghezza per un lato, e venti colonne con le loro venti basi di bronzo; gli uncini delle colonne e le loro aste saranno d’argento. Così pure per la lunghezza del lato nord, ci saranno dei tendaggi di cento cubiti di lunghezza, con venti colonne e le loro venti basi di bronzo; gli uncini delle colonne saranno d’argento. E per la larghezza del cortile sul lato ovest ci saranno cinquanta cubiti di tendaggi con le loro dieci colonne e le loro dieci basi. La larghezza del cortile, sul lato est, sarà pure di cinquanta cubiti. Da un lato della porta d’ingresso ci saranno quindici cubiti di tendaggi, con le loro tre colonne e le loro tre basi; e dall’altro lato ci saranno pure quindici cubiti di tendaggi con le loro tre colonne e le loro tre basi. (…) Tutte le colonne intorno al cortile saranno congiunte con delle aste d’argento; i loro uncini saranno d’argento e le loro basi di bronzo. La lunghezza del cortile sarà di cento cubiti, la larghezza di cinquanta e l’altezza di cinque cubiti, con tendaggi di lino fino ritorto e con le basi di bronzo. (…) Nella tenda di convegno, fuori del velo che sta davanti alla testimonianza, Aaronne e i suoi figli terranno le lampade accese, perché ardano dalla sera al mattino davanti all’Eterno. Questo

5. la SACRA BIBBIA, Es 25-26-27 6. PIVA A. a cura di., La città multietnica: lo spazio sacro, Ed. Marsilio, Milano 2000, pag.109

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sarà uno statuto perenne tra i figli d’Israele per tutte le future generazioni5. Per la prima volta il tempio fu eretto, in base a questi principi, da Salomone nel 965 a.C. per custodire l’arca dell’alleanza con le tavole della legge. Non voleva essere dimora di Dio, ma il passo precedente, verso la più profonda comunione tra Dio e l’uomo. È un ponte in cui si incontrano l’uomo del passato e del presente, in cui si incontrano il mondo “basso” e quello “alto”. Dopo la distruzione nel 70 d.C. non fu più ricostruito dagli Ebrei del tempo. L’unica costruzione per il culto e la preghiera fu da allora per loro la Sinagoga, spazio vuoto che raccoglieva l’assemblea e nient’altro. Uno spazio vuoto che non significa abbandono o sterilità, ma convinzione che nessun luogo è sacro per sé e nulla può sostituire un incontro che si attualizza dentro la qualità vissuta del tempo6. Il tempio di Salomone, nelle sue ricostruzioni successive, a partire dalla descrizione fornita dal primo Libro dei Re (cap. 6 e seg.), esprime la mutevolezza e lo spirito del tempo, senza raggiungere una verità storica sulla struttura originaria. Due grandi colonne affiancavano i lati dell’ingresso, ma l’ambiente più interessante era senza dubbio la “Sala della foresta del Libano”, un porticato sostenuto da 45 colonne in 4 navate. Ma è forse nell’interpretazione cristiana del tempio, che comprendiamo il rapporto che si instaura tra l’uomo e Dio in questo spazio. I primi cristiani si distanziarono dalla Torah e svilupparono un culto concepito ed elaborato come trasformazione dell’Antico Testamento. Ed è proprio con la morte di Gesù che per i cristiani finisce quel tempo che separava Dio dagli uomini. Il cristiano, figlio di Dio dal momento del battesimo, è egli stesso tempio di Dio. Il tempio diventa quindi luogo di riunione della comunità, che con la celebrazione eucaristica, si fa essa stessa corpo di Cristo. Il tempio riproduce astrattamente non solo l’aspetto esteriore della figura

umana, ma la sua essenza funzionale e spirituale, i suoi organi, l’organizzazione che rende possibile la vita e la sua conoscenza diventa così un invito a riconoscere nel proprio corpo e nella propria interiorità il vero tempio inteso come casa di Dio, origine di ogni cosa creata7. In area mesopotamica, il tempio, lo ziggurat, tende a isolare lo spazio sacro dalla città degli uomini. L’edificio viene elevato e separato da grandi piattaforme rivolte al cielo. Nella cultura minoica inizialmente la reggia interpreterà il rapporto natura-tempio che invaderà tutta la cultura greca. Le tipologie di spazio sacro erano tre: i santuari in pietra sulla sommità delle montagne, le grotte con le stalattiti e gli ambienti di culto all’interno dei grandi palazzi. I primi templi greci erano radure rettangolari ricavate tagliando alberi nel cuore delle foreste. La natura sembra rieducata dalla presenza del tempio, che con le sue colonne racchiude e misura lo spazio. Il tempio greco si posiziona in modo tale da relazionarsi con il marker più evidente del paesaggio e da permettere al fruitore di vedere tempio e polo visivo contemporaneamente. Nella cultura Indù, le tipologie templari variano

Shanti Stupa, Bhikshu Gyomyo Nakamura, 1991

7. PORTOGHESI P., Natura e architettura, Ed. Skira, Milano 1999, pag.232

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a seconda delle epoche, ma possiamo riconoscere alcuni elementi ricorrenti, come il garcha-grha, la cella che concludeva un percorso iniziatico. Mentre il mandapa stava in rapporto diretto con il percorso ed era una sala di preghiera per i fedeli, mentre gli edifici erano racchiusi in un recinto. La copertura, inizialmente piatta, assume poi nel tempo una sagoma curvilinea a torre e il tempio acquisisce il profilo inconfondibile del sinkhara. Accanto al sinkhara, intorno al VII secolo, si afferma in India la tipologia dei vimana, templi a pianta quadrata con copertura a forma di piramide a gradoni. Nella religione buddista l’edificio sacro assume più tipologie a seconda della zona geografica. Lo stupa è una costruzione eretta nei luoghi sacri del buddismo. Si tratta di un volume emisferico senza spazio interno, simbolo del corpo del Buddha. Altro archetipo sono le torana, grandi portali composti da colonne che sostengono travi sovrapposte, e disposte attorno agli stupa. Sia in Cina che in Giappone il tempio buddista assume caratteristiche che lo avvicinano al tempio greco. Il tempio cristiano ha una storia controversa, Gesù sembra abolire il tempio (Gv 4,21-24), ma poi lo visita quotidianamente. Questo fa sì che i cristiani dei primi anni non conferiscano troppa importanza al “dove” del ritrovo, certi che Dio risiedesse nell’eucaristia. Perché è proprio la comunità cristiana ad essere il “corpo mistico” del Cristo. L’involucro può anche assomigliare ad un luogo profano come la basilica pagana. La grande differenza è quindi proprio il mutamento di interpretazione dello spazio più che del linguaggio. Durand de Mende paragona la pianta della cattedrale al corpo del Crocifisso: viene conferito valore ad una forma ereditata da una cultura tanto diversa come quella romana. Il culto islamico avviene nelle moschee, che, più che essere le case di Dio, riproducono l’archetipo della casa di Maometto a Medina. Si tratta di luoghi comunitari che riuniscono i fedeli nella preghiera. Per pregare basta un tappeto o un recinto di pietre costruito e orientato. La caratteristica fondamentale della moschea sta nel suo

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orientamento verso la Kaba, il vero luogo sacro dell’Islam. La Kaba è di forma cubica e nella sua semplicità riesce a far riflettere: essendo centro in senso spirituale, non può essere solo ciò che è circondato da infiniti punti, ma deve essere anche anche ciò che essa stessa circonda. La caratteristica fondamentale della moschea è quindi di essere eccentrica, ovvero di avere il centro fuori di sé, segnalato con discrezione dall’immagine di porta chiusa disegnata sulla quibla in direzione della Mecca.


2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

archetipi elementi del tempio_stanza, percorso e recinto

archètipo s.m. 1. Primo esemplare assoluto ed autonomo. In filosofia, modello primitivo delle cose, del quale le manifestazioni sensibili della realtà non sono che filiazioni o imitazioni (p. es. l’idea platonica). Le Corbusier inserì in “Verso un’architettura” una ricostruzione del Tabernacolo con al centro una grande tenda a sagoma triangolare definendola “tempio primitivo”. L’arca, la tenda e la dimora del convegno si inseriscono nello scenario naturale come un segno divino in cui si esprime l’alleanza e la inseparabilità del popolo di Israele dal suo Dio, tenda in mezzo alle tende, non luogo sacro in quanto non-luogo e non edificio, ma provvisoria separazione di uno spazio “altro” che viaggia insieme al popolo di Dio. Come progetto divino tuttavia la tenda è parte integrante della creazione, opera dedicata all’uomo ma che possiede lo stesso splendore degli organismi viventi, la violenza del colore, la luce preziosa delle materie più nobili, l’organicità di un essere vivente. Il riferimento naturalistico diventa puntuale e diretto nel progetto di uno degli elementi di arredo della tenda: la menorah, il candelabro a sette bracci, che, non tanto nella forma quanto nella logica, riproduce un albero, con i suoi rami, i suoi fiori e si pone come metafora della vita che scorre e brucia, come oggetto che occupa lo spazio ma lo trascende in quanto “vive” nel tempo8. La Tenda dell’Alleanza, come abbiamo visto, viene descritta nell’Antico Testamento, libro considerato sacro nelle tre religioni abramitiche. Questo spazio è dunque un luogo in cui l’uomo occidentale è capace di riconoscersi, in quanto parte del proprio bagaglio culturale. Nell’accuratissima

Tempio Primitivo, da “Verso un’architettura”, Le Corbusier

descrizione che Dio stesso fornisce a Mosè, ritroviamo la presenza di tre elementi archetipi. E’ rappresentata dallo stesso Le Corbusier nel suo tentativo di ricostruzione della tenda, e che descrive nel suo Verso un’architettura: guardate nel libro dell’archeologo: il grafico di questo santuario è la pianta di una casa, è la pianta di un tempio. È lo stesso spirito che si ritrova nella casa di Pompei. E’ lo stesso spirito del tempio di Luxor. Non c’è l’uomo primitivo, ci sono mezzi primitivi. L’idea è costante, in potenza dall’inizio9. Questi tre elementi, stanza, recinto e percorso sono archetipi. Cosa significa? L’archetipo, dal greco archetypon, composto da archè (principio)

8. PORTOGHESI P., Natura e architettura, Ed. Skira, Milano 1999, pag.234 9. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Ed. Longanesi e C., Milano 1986, pag.76

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Iconografia Campo Marzio, Piranesi, 1762

Field of dreams, Jeff Kipnis, Stephen Turk, and Jose Oubrerie, Biennale di Venezia 2012

e typos (modello) è il principio originale di ciò che appare, come l’idea platoniana, sulla quale si plasmano tutte le cose del reale. Ogni archetipo è capace di una grande forza evocativa, che esprime un senso di assoluto. Questi tre elementi, declinati in forme diverse, sono in grado di esprimere il contenuto universale dell’oggetto architettonico, mostrandosi riconoscibili da tutti. Il valore simbolico di stanza, recinto e percorso, composti in sequenza, è in grado di sostituire 88

l’apparato iconico tradizionale dei luoghi sacri, mantenendo invariato il centro, il fuoco dello spazio: il valore contemplativo. L’archetipo non è soltanto un modello trascendente, rappresenta anche un inconscio collettivo. Simboli e forme, come afferma la filosofia junghiana, sono in grado di esprimere una cultura e un sentire delle totalità degli uomini, questo è quanto accade con gli archetipi della tenda dell’alleanza. Più la composizione è semplice e più le forme sono riconoscibili, più è efficace l’espressione del carattere dello spazio in conseguenza della riconoscibilità degli archetipi. Sembra quasi che l’apparato iconico e ornamentale vada ad inficiare l’eloquenza della forza simbolica e archetipica. Le architetture del movimento moderno tentano un ritorno alle forme archetipiche, riducendo l’importanza delle icone dell’architettura tradizionale religiosa. Il rinnovamento nell’architettura corrisponde anche ad un rinnovamento nella religiosità dell’uomo moderno, nel suo approccio al sacro e alla dimensione contemplativa. Qui in seguito è riportata un’analisi specifica dei tre archetipi dominanti, per comprenderne la valenza intrinseca ad ogni uomo. Più avanti nel lavoro, si va invece ad analizzare la declinazione degli archetipi percorso-stanzarecinto nella composizione di una chiesa, una moschea e una sinagoga, per mostrarne analogie e differenze. Si crede infatti che uno spazio in grado di coniugare questi elementi archetipici comuni, sia in grado di creare un “sentimento” comunitario tra gli uomini che condividono quest’esperienza, senza voler eliminare le differenze culturali, religiose e personali.


2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

stanza l’arrivo al centro

stanza s.f. 1. Ciascuno degli ambienti delimitati da pareti che costituiscono l’interno di un edificio. Vd.camera s.f. 1. Stanza di dimensioni normali (non corridoio o ripostiglio) di un edificio. 2. Ambiente o spazio delimitato. 3. Luogo di riunione di corpi o collegi con potere deliberativo e anche l’otanismo stesso che vi si riunisce LA DIMENSIONE INDIVIDUALE Il concetto di stanza è legato a quello di possesso: lo spazio e il suo occupante compongono un’unità, che va a svanire nel caso in cui il soggetto sia assente. Il legame tra spazio e persona occupante definisce il luogo stesso. La stanza è il luogo associato al riposo1, il luogo in cui abita un mistero: sembra che questi interni si rivelino impregnati della vita segreta dei loro abitanti e di coloro che li hanno preceduti tra quelle pareti, e una finestra discretamente socchiusa, vista a volte solo grazie allo specchio che la riflette, fa penetrare l’esterno nella stanza2. Nella stanza, quando non è abitata, regna l’assenza, senza la presenza umana, tutto ciò che vi è contenuto perde valore interpretativo, e resta come una natura morta: la materia diventa indifferente. Il tempo della stanza è quindi un tempo interrotto, è un codice morse, che non individua i momenti in cui la stanza è abitata. Ciò che dà senso e vita alla stanza è lo sguardo del visitatore, una coscienza che percepisce lo spazio. Entrando in ambito pubblico, la stanza individua nella maglia

Tipi di stanza

cittadina un punto strategico, un’interruzione, una pausa in un percorso, un centro polarizzatore. E’ un punto di interesse, in cui si concentrano alcune caratteristiche. E’ un nodo, in cui l’esterno si separa dall’interno, in cui il percorso si ferma e l’uomo prende una decisione. Le stanze sono i luoghi in cui il tempo subisce una deformazione cambiando il suo incedere. A livello urbano possiamo parlare in senso lato di stazioni, incroci, aeroporti, ma anche di concentrazioni tematiche: spazi imbevuti da un tema specifico. E’ fondamentale che questo luogo abbia qualità singolare, continuità (…). L’esperienza di questo tipo di elemento è quella di essere un posto, distinto,

1. ESPUELAS F., Il vuoto: riflessioni sullo spazio in architettura, Ed. Marinotti, Milano 2004, pag.205 2. YOURCENAR M., Abbozzo di ritratto di Jean Schlumbreger, in “Il tempo. Grande scultore”, Ed. Einaudi, Torino 1986, pag.200 3. LYNCH K., L’immagine della città, Ed. Marsilio, Padova 1964, pag.87

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Celle prodotte dalle api

indimenticabile, non confondibile con alcun altro.3 E’ importante che sia un ambiente circoscritto, ma perchè vi sia una stanza, e cioè un luogo in cui fermarsi, in cui stare, è necessario che ve ne siano delle altre vicine in modo da poter scegliere, un termine differenziale quindi, e relativo che ha un suo sinonimo in “camera”, derivante dal greco kamara che vuol dire ambiente voltato, racchiuso quindi, e solidamente, non solo ai lati, ma anche sopra4. Anche nel mondo vegetale e animale la stanza trova una serie di somiglianze, anche se, come ha suggerito Karl Marx, ciò che differenzia l’opera umana da quella naturale e animale è la prefigurazione progettuale tipica della mente umana. Pensiamo ad alcuni casi, come ad esempio le conchiglie, in cui lo spazio interno è definito da una forma elicoidale, in cui il mollusco si può ritirare. I radiolari, piccoli organismi unicellulari, creano invece delle spazialità che non definiscono la stanza come spazio autonomo, ma sommabile e collegabile insieme. Ma le due specie animali capaci di realizzare le architetture più sorprendenti sono senza dubbio le termiti e i castori. Le

termiti costruiscono una serie di stanze collegate da gallerie, mentre dei castori bisogna citare le tipologie abitative composte da due stanze principali connesse. Quella umana è forse l’unica specie animale in cui non tutti gli esemplari sono in grado di costruire una stanza. Affidiamo quindi l’esempio ad un grande costruttore, Andrea Palladio. L’architetto teorizzava che le forme raccomandate per le stanze fossero sette: il cerchio, il quadrato, e 4 tipologie di rettangolo, in cui intercorrono diverse proporzioni tra i lati. Ma lo spazio più antico al quale possiamo attribuire il protagonismo dello spazio interno è la camera funeraria. È un luogo che resta sul limite dell’abitare, in un ambito immutabile, con un fine trascendente. Questo tipo di architettura destinata all’eternità comincia a proliferare a partire dalla fine del quarto millennio e la sua forma è rimasta immutata nel tempo. Si tratta di un recinto di pianta circolare al quale si accede tramite un lungo corridoio. Nell’area mediterranea assume una tipologia caratteristica: il tholos. Si tratta di una struttura composta da un corridoio

4. PORTOGHESI P., Natura e architettura, Ed. Skira, Milano 1999, pag.320

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che collega la stanza con l’esterno e dal quale si può accedere a delle eventuali celle minori. Celebre esempio di tholos è quello conosciuto come tesoro di Atreo (sec. XIV a.C.), opera micenea. Un corridoio di 36 metri conduce alla facciata della tomba. Sulla camera voltata affaccia una cella minore. Si tratta di uno spazio purissimo, in cui nessuna decorazione o elemento in aggiunta riesce a disturbare l’integrità. E’ un vuoto perfetto che restituisce il mistero della morte. Spostando l’attenzione sull’Egitto, notiamo come la stanza assuma un carattere sostanzialmente diverso: ha subito un processo di monumentalizzazione che ha ingrandito più i volumi esterni di quelli interni, che restano a misura d’uomo. L’esterno esprime invece il potere reale e la sua origine divina. Spostandoci in Etruria, osserviamo come il quotidiano investa le sfere dell’architettura funebre, anche se la tomba etrusca continua a prediligere la tipologia scavata a quella costruita. Nel movimento moderno l’idea di stanza ha subito una violenta contestazione da parte di Wright, van Doesburg e altri architetti. Viene particolarmente attaccato il concetto di “scatola architettonica”, uno spazio racchiuso, condannato all’inerzia spaziale. Scomponendo invece le facce attraverso un processo di slittamento, lo spazio fluidifica, passa dall’interno all’esterno e viceversa senza censure violente. La poetica della continuità spaziale si oppone diametralmente al modello degli appartamenti borghesi suddivisi in stanze allineate da una porta all’altra di un corridoio, protettrici di una privacy che da esperienza liberatoria si trasforma gradualmente in una condizione di isolamento individualistico.5 Per comprendere più a fondo il concetto di stanza, senza la pretesa di completezza, ci spostiamo

Sky is the limit, Didier Faustino, 2011

in oriente, dove l’interno dell’edificio, e quindi la camera, creano un omogeneo silenzio figurativo. Un interno vuoto di mobili ed oggetti, che parla di un altro vuoto, quello dell’assenza umana. Solo quando entra l’uomo, l’interno assume un significato, gli oggetti non si arrogano mai il protagonismo della scena. E’ uno spazio in cui non è possibile l’oblio, tutto denota attesa, vigilia. La cultura giapponese è forse quella in cui è più evidente la relazione di derivazione e di scambio tra la tipologia templare e quella domestica.

LA DIMENSIONE COLLETTIVA I diversi corpi che occupano lo spazio dell’aula sono chiamati a creare comunione, che allo stesso tempo è un presupposto (dal corpo ai corpi) e un compimento (dai corpi al corpo). I corpi definiscono un unico corpo, nel senso profondo di collocarsi

5. Ibid, pag.329 6. BUSANI G., CHAUVET L.-M., DEBUYST F., LACOSTE J.-Y., TAFT R.-F., WENIN A., e Aa. Vv., Assemblea Santa, forme presenze presidenza, Ed. Qiqajon, Magnano BI 2009, pag.48 7. Ibid, pag.49

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La camera di Vincent ad Arles, Vincent van Gogh, 1888

in un corpo a cui appartengono (passato) e di tendere ad un corpo verso cui camminano (attesa). All’interno dell’aula l’uomo è teso tra il passato e il futuro, interrogandosi sul presente (ricordiamo la domanda dove sei?). Grazie al proprio corpo l’uomo scopre l’alterità in sé stesso, scopre di non possedersi completamente e di non essere il centro inamovibile dell’universo. Nel rito, inteso come comportamento collettivo e significante all’interno dello spazio, i corpi non si distruggono, ma si riuniscono. Più esattamente i corpi si riuniscono in un corpo e grazie ad un corpo: si riuniscono in un corpo che è la comunità e si riuniscono grazie ad un corpo, di cui fanno esperienza sensoriale, ovvero l’aula. Il corpo ha quindi una duplice valenza: inteso come luogo fisico diventa luogo d’incontro, di movimenti e di azione. L’aula stessa non esisterebbe se non a contatto con i corpi che la abitano. Le persone che “abitano lo spazio” diventano un unico corpo con un’operazione di mìmesis: identificandosi con il luogo stesso. Allo stesso tempo i corpi sono anche attratti dall’eros: il desiderio o azione erotica che “condiziona l’ambiente contribuendo al suo sviluppo6. Nell’esperienza della condivisione non c’è solo un aspetto legato all’appartenenza, ma allo stesso esistere. C’è infatti uno stretto legame tra l’esprimere e l’esistere. “Esprimere” significa “premere fuori”, manifestare ciò che 8. Ibid, pag.50

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è dentro portandolo all’esterno, ed “esistere” significa “stare fuori”, uscire all’aperto, abbandonando il luogo chiuso dello stare in se stesso7. Nell’aula il fatto stesso di esistere, di esprimersi, di rivelarsi diviene quindi dialogico e comunionale. Questa esperienza di comunione e di espressione di esistenza l’uomo ha la necessità di viverla tattilmente, in quanto corpo. Il tatto è considerato tra i sensi quello più povero e impreciso: primitivo, esteriore e poco istruttivo. (...) Però ama andare fuori di sè, anzi, trascina l’io nella sua estetica follia8. E forse proprio per la sua primordialità il tatto è il senso più sincero e autentico. L’altro appare nel contatto come qualcuno che è eccedente rispetto a me e al mio corpo, che non si assoggetta ai miei movimenti e alle mie decisioni. Ma la condivisione di uno spazio con il medesimo intento rende i corpi riuniti in una sorta di “contatto rituale”, in cui ci si avvicina gli uni agli altri senza occupare lo spazio altrui, e rispettandone il “segreto” personale. Nell’assemblea riunita a scopo contemplativo, si occupa un tempo comune, di cui nessuno è padrone, in un luogo in cui il centro è la domanda dove sei? di cui nessuno detiene la risposta. L’aula rende possibile la vicinanza e la distanza, condizioni necessarie per la relazione, che possono però sfociare nell’indifferenza o nella fusione priva di identità individuale. Tale rischio viene annullato dalla simbolizzazione dello spazio con archetipi comuni, da tutti riconosciuti implicitamente, capaci di tenere quindi insieme vicinanza e distanza. In questo modo i corpi rimangono corpi identitari, ma formano un corpo a sua volta identitario. Le tre religioni monoteiste condividono l’espressione dello spazio dell’aula come spazio collettivo, definito in base a ritualità diverse e personali. Si analizzerà nello specifico nell’analisi di tre esempi architettonici appartenenti alle tre professioni religiose.


2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

percorso il cammino verso il centro

percórso s.m. La dimensione o la configurazione dello spazio relativa all’attuazione o alla durata di uno o più spostamenti. A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e si intersecano. Per andare da un posto ad un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la linea più breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zig-zag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s’aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti in barca e trasborda all’asciutto. (...) Combinando segmenti dei diversi tragitti sopraelevati o in superficie, ogni abitante si dà ogni giorno lo svago d’un nuovo itinerario per andare negli stessi luoghi. Le vite più abitudinarie e tranquille a Smeraldina trascorrono senza ripetersi1.

LA SPAZIALITA’ I percorsi sono delle linee identificate da qualità spaziali caratteristiche, in grado di rafforzarne l’immagine. Là dove i percorsi mancano di identità, l’osservatore appare disorientato e l’intera immagine spaziale del luogo entra in crisi. E’ quindi necessario che i percorsi, oltre ad essere ben identificati, siano anche continui, e soprattutto siano caratterizzati da una data direzionalità.

Tipi di percorso

I percorsi sono i canali lungo i quali l’osservatore si muove abitualmente, occasionalmente o potenzialmente2. Il percorso individua una linea di movimento, ma anche di ordinazione dello spazio. E’ quindi molto importante che vi siano degli attributi singolari capaci di identificare il percorso rispetto ai canali circostanti, rispetto alla molteplicità confusionaria di linee che disegnano lo spazio. In questo modo chi si sposta lungo il percorso osserva il luogo attraversato, accompagnato dagli altri elementi presenti, che si dispongono e si relazionano al tragitto. Un altro aspetto fondamentale è l’orientazione del percorso: percorsi con origini e destinazioni chiare e conosciute hanno più identità. Una strada assume infatti un significato ben diverso se viene

1. CALVINO I., Le città invisibili, Ed. Oscar Mondadori, Milano 2014, pag.87 2. LYNCH K., L’immagine della città, Ed. Marsilio, Padova 1964, pag.74

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PERCORSO

Sacromonte di Varese esperienza di arrivo

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Strada con cipressi e stelle, Vincent van Gogh, 1890

identificata come una cosa che va verso qualcosa. Il percorso è in grado di sostenere percettivamente questa sensazione attraverso dei punti terminali forti, come nel nostro caso la stanza, attraverso un gradiente comune. I gradienti più diffusi sono senza dubbio la pendenza, l’infittirsi di insegne o ancora la colorazione dell’alberatura. Ammesso che il percorso possieda direzionalità, possiamo indagare se esso sia allineato, se cioè la direzione data sia riferibile ad un più ampio sistema. Tutto ciò che arricchisce il percorso, senza inficiarne il protagonismo, rende l’itinerario più significativo, e lo trasforma in esperienza; elementi modulari, curve, svolte, discese e salite colpiscono l’osservatore e creano una memoria dell’itinerario. Anche le esposizioni visive del percorso ne rafforzano l’immagine. Quando la linea appare non solo orientata, ma anche modulata, l’itinerario acquista significato da una serie di eventi distinti e dal raggiungimento e

il superamento di un obiettivo intermedio dopo l’altro. Le Corbusier, dal canto suo, scriveva a tale proposito nel suo “Urbanistica”: Camillo Sitte sosteneva, venti o trent’anni fa, che la strada diritta era un’idiozia, quella a curve era la strada ideale. La strada rettilinea era il percorso più lungo tra due punti, quella curva il più diretto; la dimostrazione che si fondava sull’esempio delle tortuose città medievali era ingegnosa e speciosa. (...) La cruda realtà è meno entusiasmante se non si tenta nemmeno di dissimulare il disordine (...). Ci si può trovare facilmente d’accordo sui seguenti punti: La strada rettilinea è una strada di lavoro. La strada curvilinea è una strada da diporto. Aggiungiamo: la strada rettilinea offre un facile orientamento (per merito dei suoi profili ordinati). La strada curvilinea disorienta del tutto. E concludiamo: la strada rettilinea è elemento tipico dell’architettura. La strada curvilinea solo raramente rientra nell’architettura3. Anche le esposizioni visive del percorso e del suo obiettivo riescono a rafforzare l’immagine. Ciò può essere realizzato inserendo nel percorso elementi che ampliano la visibilità e aprono lo sguardo alla lontana silhouette della destinazione finale. Il percorso può anche essere interrotto da altri percorsi e formare con essi un incrocio. Si creano così dei luoghi di connessione e di decisione per chi è in movimento. Anche gli incroci collaborano a creare un’immagine vivida nella memoria del fruitore. In alcuni casi la presenza di un percorso che si interseca, può anche aiutare nella formazione dell’immagine orientata nello spazio, arricchendolo di chiare coordinate spaziali. Fondamentale resta però la semplicità del percorso, come caratteristica di riconoscibilità: gradienti di ampiezza, dettagli, differenziazioni

3. LE CORBUSIER, Urbanistica, Ed. Il saggiatore, Milano 2011, pagg.207-208

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“Arte sella”, Borgo Valsugana, 1986

devono necessariamente mantenere il senso progressivo del percorso, evitando di smorzare eccessivamente l’obiettivo finale dell’itinerario. La forma del percorso deve seguire una sequenza del tipo introduzione-sviluppo-culmine-conclusione, tenendo conto che l’esperienza del tragitto si sviluppa non solo in una linea spaziale, ma anche temporale.

LA VIA Il percorso nelle sue qualità spaziali è emblematico per la vita dell’uomo: percorso è infatti sinonimo di cammino, di via, di strada. Il percorso prevede un movimento, un guardare verso qualcosa; prevede la provenienza da qualche luogo e lo sguardo verso un orizzonte diverso dalla casa di origine. Il percorso è qualcosa di tipicamente umano, è espressione della conquistata libertà dell’uomo rispetto all’animale. Gli spostamenti di un animale sono condizionati dalla rigida gerarchia sociale del branco, dalle necessità alimentari e vitali, dai limiti caratteristici della sua specie. Il minimo movimento sconvolge l’animale, che preferisce sempre la stabilità, tutto ciò che è uguale a sé stesso giorno dopo giorno. Ogni 4. la SACRA BIBBIA, Gv 14,6

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suo spostamento è prevedibile, ogni mossa è l’effetto di una strategia e ha uno scopo preciso. Quando osserviamo un animale libero, vediamo come stagione dopo stagione percorra sempre le stesse strade, per le stesse ragioni. Per l’uomo è diverso. Per l’uomo il percorso è la ricerca di qualcosa, il cammino che porta a qualcosa di diverso, di ignoto, di sperato. Il cammino dell’uomo avviene attraverso delle tappe, dei punti evidenti del percorso che lo imprimono nella memoria. E’ una via che passa attraverso porte strette, supera ostacoli, non è costante nel tempo ma è sempre un cammino verso qualcosa che implica un cambiamento. Lo stesso Gesù Cristo diceva Io sono la via, la verità e la vita4, lasciando presupporre non soltanto di essere espressione di tre concetti contemporaneamente, ma sottolineandone anche il legame intrinseco. Ogni strada è una ricerca di qualcosa, ogni percorso modifica la vita dell’uomo, perché è un cammino libero, non dettato dalla necessità puramente corporea, come nel caso degli animali, ma dal desiderio di qualcosa che ancora non ci appartiene.


PERCORSO

Tratturo percorsi segnati dalla percorrenza

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2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

recinto la custodia del centro

recinto (lett. e pop. ricinto) s.m. 1. Spazio circoscritto e chiuso da elementi ben visibili di delimitazione e di protezione. 2. concr. Quanto serve a delimitare tale spazio. Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d’arrivo1. Il concetto di recinto in architettura rappresenta il momento originario in cui l’uomo si appropria di una parte della Natura, identificandola come “altra”, ponendo un margine tra ciò che è esterno e ciò che ora è interno.

GLI ELEMENTI Gli elementi fondanti del recinto sono: il perimetro, l’estensione e l’orientamento. L’orientazione del recinto nello spazio mostra il rapporto tra l’uomo e la natura, filtrato dalla ragione e dall’osservazione. Il modo in cui il recinto si rapporta allo spazio complessivo, non significa quindi solo una collocazione spaziale, ma anche temporale, nella ciclicità dei giorni e delle stagioni. Pensiamo ad esempio al misterioso e suggestivo recinto creato dalle pietre di Stonehenge, disposte secondo dei criteri pensati per l’osservazione

Tipi di recinto

del cielo e dei fenomeni astrali. Il recinto rappresenta quindi un confine tra due fasi, che in origine possono essere comparabili, ma che data la presenza del margine assumono una relazione di alterità. Il recinto ha una valenza tanto più forte e chiara, tanto più è visivamente preminente, continuo nella forma e impenetrabile al movimento trasversale. In qualche modo, la presenza di questo elemento nello spazio può portare alla frammentazione di un continuo, anche se non necessariamente costituisce una barriera isolante. Quando il recinto non frammenta, spesso orienta lo spazio e ne facilita la comprensione da parte dell’osservatore, che con lo sguardo cerca un

1. CALVINO I., Le città invisibili, Ed. Oscar Mondadori, Milano 2014, pagg.95-96

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Il recinto Santo, Sàndor Ritz, 1975

punto di riferimento nel tutto. Il recinto, per poter essere riconoscibile come tale, richiede una certa continuità di forma lungo il suo sviluppo. Spesso i lati esterno e interno del recinto risultano differenziati da un trattamento contrastante delle superfici e da una distinzione cromatica e delle caratteristiche visive in generale. Non è invece necessario che il recinto sia completamente chiuso, ma se risulta in parte aperto, è importante che gli estremi posseggano punti terminali definiti, in modo da creare una continuità figurativa.

delle più di 110 stanze e sale di piccole dimensioni che compongono il palazzo. Ed è proprio la grande dimensione insieme all’unicità del suo spazio a distinguere il recinto dal resto dell’edificazione e a sottolinearne il protagonismo. L’architettura a patio era comune nelle culture dell’area mediterranea e del Vicino Oriente, ma nei palazzi cretesi il patio assume un ruolo prioritario, come se fosse sorto prima e in modo indipendente rispetto al resto dell’edificazione. Il palazzo non era solo la residenza del principe, ma anche un centro produttivo, che ospitava funzioni amministrative. Si presume quindi che il grande recinto interno avesse carattere di spazio pubblico per gli atti religiosi e ludici. E’ un grande spazio vuoto, dove si ritrovano quei riferimenti che confortano, dopo tanta e tanto opprimente architettura. Ricordiamo infatti che, secondo il mito, Dedalo, artigiano ateniese, costruì un edificio volto a nascondere il frutto della relazione tra Pasifae e il toro Poseidone. Quell’essere Asterione, il Minotauro, rimane quindi indissolubilmente legato a quella inquietante edificazione: il palazzo delle Lybrys, il Labirinto, che divenne archetipo del disorientamento, ma che al contempo trova compimento nel recinto interno, in quello spazio vuoto capace di appagare e donare riposo.

IL PALAZZO DI CNOSSO Un celebre esempio di recinto è rappresentato dal centro del Palazzo di Cnosso. Il complesso del palazzo sorge attorno ad un patio centrale, che diventa l’origine generatrice dell’insieme dell’architettura che racchiude. Questo recinto interno, generato dalla pura accumulazione meccanica degli spazi, non è segnato da un muro uniforme, né da elementi omogenei che ne segnano il perimetro. Ciò nonostante il patio risulta essere un elemento prioritario nell’edificio, un recinto vuoto molto eloquente, che con i suoi 1460 mq si impone rispetto alla presenza frammentaria 100

Pianta del Palazzo di Cnosso, 2000 a.C.


IL LIMITE Il recinto rappresenta un limite, una linea terminale, divisoria, che sottolinea l’alterità tra noi e ciò che guardiamo. Il limite contrassegna il confine di un territorio rispetto ad un altro, e ne rappresenta contemporaneamente l’accesso: di fronte ad una linea che segna uno spazio l’uomo è chiamato ad interrogarsi su ciò che è fuori dai confini del proprio corpo. Prende poi consapevolezza che il mondo non termina in sé stesso, ma che il proprio corpo si può relazionare con altri corpi, diversi, separati, ma accessibili. E con questo stesso pensiero l’uomo si avvicina al centro, consapevole che ciò che sta raggiungendo non gli appartiene, che non può fagocitare l’Altro da sé portandolo entro i propri confini, ma quegli stessi confini sono morbidi, valicabili. Il recinto è quindi un luogo protetto, che accoglie, che si apre alla relazione. Il limite possiede una qualità che a prima vista può non essere riconosciuta e che possiamo definire sinaptica: la capacità di collegare, mettere in relazione, mediare due realtà spaziali

distinte. Il recinto sotto questa luce è quindi un maestro, che insegna all’uomo a contemplare, ad uscire da sé, ad interrogarsi.

Diagramma recinti, Sanaa

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2.ELEMENTI DELLO SPAZIO

tre esempi sinagoga, moschea e chiesa i luoghi contemplativi occidentali sinagòga s.f. 1. Nella religione ebraica, il luogo destinato alle riunioni per la lettura e la preghiera; estens., l’adunanza religiosa e il tempio in cui si svolgono le adunanze e si celebrano i riti. moschèa s.f. 1. Edificio caratteristico del culto musulmano, ora destinato alla preghiera e all’insegnamento religioso, ma in origine anche a scopi profani, come luogo di riunione dei fedeli, di discussione politica e giudiziaria, di contrattazione, di ricovero e di alloggio. chièsa s.f. 1. Edificio consacrato al culto cristiano. 2. Comunità di cristiani della stessa confessione religiosa. L’ASSEMBLEA AL CENTRO DELLO SPAZIO Chiesa, moschea e sinagoga declinano gli archetipi del sacro che abbiamo analizzato, in composizioni diverse, arrivando a creare tre spazi contemplativi con una radice comune. Il centro dello spazio è rappresentato nei tre casi dall’aula, il luogo in cui si raccoglie l’assemblea. Le forme assunte dall’aula nel tempo e nello spazio sono naturalmente molteplici, e sarebbe dispersivo in questo contesto andare a descriverne l’evoluzione, mentre risulta più interessante spostare l’attenzione dalla forma alla spazialità generata nell’aula dalla comunità. Il vuoto di partenza assume una forma significativa grazie all’assemblea. L’assemblea risulta quindi predominante rispetto all’aula. Pensiamo ad esempio al comportamento di un musulmano: il centro per il fedele dell’islam è la preghiera, e ogni luogo diventa moschea laddove lui si mette a pregare. Il tappeto che stende diventa il recinto, e la sua posizione rivolta verso la Mecca definisce il percorso. Qualcosa di simile avviene anche nell’ebraismo. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, l’ebreo non riconosce più il tempio nello spazio della preghiera, in questo caso nella sinagoga. Il culto ebraico si incentra sul libro e l’aula diventa quindi il luogo in cui

Momento di preghiera ebraica

la comunità si riunisce attorno al Libro. Il Libro è il centro dello spazio, là dove la memoria viene ricordata, il luogo del sacro. L’aula non ha valore evocativo fino a quando la comunità ebraica non la occupa per concentrarsi sul libro. L’unico luogo al mondo che gli ebrei riconoscono come tempio è di fatto il Muro del pianto, ovvero ciò che è rimasto del muro occidentale di contenimento del Tempio di Gerusalemme. Oggi è un tempio all’aperto, in cui l’aula non è a maggior ragione riconoscibile. 103


Dopo il Concilio Vaticano II il programma liturgico del culto cristiano è cambiato considerevolmente: mutava parallelamente la modalità di presenza nello spazio liturgico. Il nuovo assetto assembleare, che coinvolgeva la comunità durante la celebrazione eucaristica come parte fondamentale della stessa liturgia, è diventata l’immagine viva del nuovo modo con cui l’intera chiesa concepiva la propria presenza nella storia. Nonostante oggi l’assemblea liturgica postconciliare abbia trovato un suo assestamento in uno schema di prudenza che vive ancora nella memoria visiva dell’assemblea frontale definita dal Concilio di Trento, nelle assemblee si vive un processo di mobilitazione verso l’obiettivo dei corpi che formano un unico corpo: la chiesa formata dai fedeli attorno al corpo di Cristo. Nonostante le differenze e in alcuni casi le difficoltà, è comunque evidente che Islam, Ebraismo e Cristianesimo affermino nella loro evoluzione fino ai giorni nostri il protagonismo dell’assemblea sull’aula. L’aula è archetipo dello spazio pubblico, il luogo collettivo del riparo che risponde al bisogno degli uomini di riunirsi in uno spazio delimitato che sia espressione di “riti collettivi”, non necessariamente religiosi, ma anche culturali, istituzionali, ricreativi.

adoperò il termine corrispondente bē-kĕnīshtā, o semplicemente kĕnīshtā, “riunione”1. Non è possibile parlare di una particolare architettura delle sinagoghe. Le influenze assire, egizie, ellenistiche, romane erano profonde, data la posizione geografica della Palestina. Possiamo però individuare due fasi di evoluzione nella storia dell’architettura ebraica: la fase palestinese, e la fase della Diaspora. I primi esempi certi risalgono al periodo tra il III e il VI sec. d.C. Per queste sinagoghe è evidente l’influsso delle basiliche romane. Tre navate disegnano la sinagoga in pianta e davanti alla facciata si trova un porticato. Negli esempi più antichi la facciata era rivolta verso Gerusalemme e ospitava tre porte d’ingresso di cui la centrale più alta. Più avanti, pur rimanendo la forma basilicale, nella parete orientata verso Gerusalemme è ricavata un’abside e la facciata con gli ingressi viene spostata nel lato opposto. Attorno al IX sec. d.C. si andarono a diffondere le sinagoghe anche in Europa. Si tratta di edifici a stampo gotico, con un esterno dimesso, privo di monumentalità, simile ad un edificio civile. Durante il Rinascimento importanti sinagoghe sorsero il

LA SINAGOGA La sinagoga è forse, tra quelle descritte, la costruzione più semplice da un punto di vista compositivo. Il suo valore comunitario è già implicito nell’etimologia del termine. Il vocabolo greco συναγωγή significa infatti “riunione”, “assemblea” e veniva usato dal giudaismo ellenistico per designare le proprie riunioni e organizzazioni culturali. Il nome ebraico della sinagoga è dall’antichità fino ad oggi bēt ha-kĕneset, “casa della riunione”; in aramaico si

Momento di preghiera islamica

1. U.C., B.Fu., U.C., Sinagoga, in “Enciclopedia Italiana”, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1936

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Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, la maggior parte a pianta quadrata. Nonostante le differenze, vi sono alcuni elementi che devono avere una forma e una posizione stabilita. Prima tra tutti la tēbāh o ărōn ha-qōdesh, lo scrigno della Torah, che sta rialzata di alcuni gradini, addossata alla parete a est, spesso costruita in legno decorato e chiusa da una ricca tenda. L’Almenor, il podio per la lettura della Torah è il secondo punto focale, posizionato al centro dello spazio. Nel vestibolo è disposta una vasca d’acqua per le abluzioni rituali. I due elementi della Torah e dell’Almenor sono disposti in posizione reciproca, l’una sulla parete principale e l’altro al centro dello spazio. La sinagoga non è considerata la “casa di Dio” ma piuttosto la “casa della Comunità”. E’ una visione molto vicina a quella cristiana che individua nella comunità il vero e proprio tempio.

LA MOSCHEA La moschea è da sempre stato il luogo pubblico per eccellenza, lo spazio in cui ci si riuniva in tutte le occasioni importanti della vita comunitaria. Masgid, moschea, viene dalla radice araba Sagia-da, che significa prostrarsi, quindi in senso etimologico la moschea è il luogo della prostrazione. Si narra che la prima moschea fu costruita da Maometto quando approdò a Medina in seguito all’Egira, dopo essere scappato da La Mecca. Il primo modello nasce quindi in Arabia ed era un edificio semplice, privo di oggetti di culto, con una sala di preghiera e una corte aperta. All’interno si trova il minbar, il podio per le predicazioni e il mihrab, la nicchia per prostrarsi verso La Mecca. Cercando le origini architettoniche della moschea, è chiaro che, essendo la tipologia più recente, i costruttori delle sale ipostile abbiano preso molto del materiale da costruzione dai complessi precedenti, principalmente bizantini e

Momento di preghiera cristiana

romani. La ripetizione dell’irraggiungibile e incomprensibile è espressa nella moschea dall’impianto ipostilo che con la ripetizione quasi ossessiva del sistema colonnato, raffigura uno spazio sospeso ed astratto, che esclude, nella contemplazione, tutto ciò che non è Dio e raggiunge la massima comunione con Lui solo esaurendo ogni analogia con il creato. L’esperienza metafisica di Dio è rappresentata dalla matematica, dai rapporti di proporzione tra le parti e dai moduli iterati. Le tipologie di moschee sono varie e differenti, e sono compresenti. La tipologia a sala unica compare nella Turchia Ottomana del XV secolo, seguendo l’esempio della chiesa bizantina di Santa Sofia a Istanbul. Si tratta di un’unica aula coperta da una cupola, che prova a coniugare l’idea di colonnato libero con la sala centrale. Elemento tipico della moschea è la cupola, tipicamente convergente in un unico punto. Importante è anche il mihrab, una nicchia inserita nel muro orientato verso la quibla, il luogo da cui l’Imam conduce la preghiera congregazionale. Infine c’è il minareto, l’unico elemento verticale della costruzione, da cui i fedeli vengono chiamati alla preghiera con quello che conosciamo come il canto del muezzin.

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Sinagoga Hurva, Gerusalemme

LA CHIESA Nella chiesa, il significato primitivo dello spazio era quello di riunire i cristiani attorno al corpo e al sangue del Cristo. Ricordiamo infatti il primo significato di chiesa, dal greco ἐκκλησία, che identificava la cerchia dei cristiani, a prescindere dal luogo del ritrovo. I primi credenti che sul finire del I secolo celebravano insieme l’Eucaristia, si incontravano ai piani superiori delle case medio-borghesi durante l’Impero Romano. Le riunioni erano spontanee, quasi improvvisate, governate da personalità che emergevano per carisma. Non c’era alcuna enfasi spaziale. Dopo il 150 d.C. il ritrovo è ancora tra le mura casalinghe, anche se ruoli e posizioni cominciano ad essere disciplinati. Il modo di stare in assemblea in questo tempo parla di una fraternità accuratamente isti-

tuita ma non ancora istituzionalizzata, restituisce il clima di un cristianesimo concentrato nella cura dell’esperienza più preziosa che ha, un cristianesimo che non ha ragione di nascondersi, ma nemmeno il bisogno di esibirsi, uguale a tutti se lo si guarda dal di fuori, speciale se lo si conosce dal di dentro2. Il IV secolo apre il tempo della grande metamorfosi. Il cristianesimo entra in una dimensione di relazione con le forme politiche e di gestione del potere civile. Qui inizia l’era dell’architettura cristiana vera e propria. Inizialmente viene adottata la basilica come edificio di base e di appoggio, più per un’esigenza contenitiva che per riflessioni di carattere formale. Si tratta di

Moschea Blu, Istanbul

2. BUSANI G., CHAUVET L.-M., DEBUYST F., LACOSTE J.-Y., TAFT R.-F., WENIN A., e Aa. Vv., Assemblea Santa, forme presenze presidenza, Ed. Qiqajon, Magnano BI 2009, pag.61 3. Ibid, pag.64

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uno spazio liturgico che si sviluppa longitudinalmente, che imprime all’assemblea l’idea di un cammino, di un percorso. La posizione di altare e ambone comincia a definire una modalità di relazione tra la comunità e la parola. L’altare è normalmente insediato nell’abside. L’assemblea trova il suo posto nell’aula, vicino all’ambone e di fronte al sacerdote. In epoca carolingia l’imperatore fa della rinascita cristiana lo strumento del suo disegno di ricomposizione civile. Il papa al contempo interpreta la riforma gregoriana come libertà dai vincoli civili. Questa apparente contraddizione mostra la correlazione esplicita tra la civiltà europea e la tradizione cristiana. In quest’epoca storica sono molto importanti gli influssi dell’architettura monastica e sul modello del coro monastico, il presbiterio si trasforma in un’isola di gestione specialistica e corporativa della liturgia3. Sono spesso presenti due altari: uno per la celebrazione tra chierici e uno per la celebrazione condivisa con l’assemblea. In questa fase storica la fede è vissuta come una generica prestazione devozionale, e quindi lo spazio è organizzato per soddisfare quest’esigenza, a partire dalla deambulazione presso i luoghi di esposizione delle reliquie. Dopo la riforma protestante e la controriforma cristiana nasce l’idea idi riportare il cristianesimo all’ideale evangelico e nasce una sorta di gareggiamento per costruire le possibilità di una vita pienamente cristiana per il credente comune. In questi anni l’assemblea viene fortemente disciplinata e diventa pura presenza frontale di un rito. Come abbiamo visto, dopo il Concilio Vaticano II, lo spazio liturgico dell’assemblea non è più separato dall’altare, il ruolo della comunità e la sua partecipazione attiva all’Eucaristia diventano il nucleo principale della nuova liturgia, ritrovando il sentire antico dei primi cristiani. Pren-

Chiesa di San Pietro, Roma

de forma l’idea di allestire l’altare come punto centrale dello spazio, intorno al quale i fedeli possano raccogliersi. E’ stato scelto di analizzare concretamente tre esempi di spazi sacri appartenenti alle tre grandi religioni monoteiste. La scelta è ricaduta su tre architetture appartenenti alla medesima epoca storica e tutte costruite in ambito occidentale. Anche i progettisti dei tre luoghi di culto sono occidentali. Delle architetture viene indicata brevemente la storia, la composizione e ne vengono poi analizzate le parti archetipiche, al fine di estrarre i principi del luogo della contemplazione comuni alle tre esperienze e poterli riproporre in chiave attuale nel progetto specifico. Le tre architetture analizzate sono: SINAGOGA BETH SHOLOM, Frank Lloyd Wright MOSCHEA DI ROMA, Paolo Portoghesi CAPPELLA NOTRE DAME DU HAUTE, Le Corbusier

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SINAGOGA BETH SHOLOM, Elkins Park, Philadelphia, USA Frank Lloyd Wright 1953-1959

Vista della struttura

Pianta piano inferiore

Pianta piano superiore

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Il Rabbino Mortimer Cohen della Congregazione di Elkins Park, vicino a Filadelfia, scrisse a Frank Lloyd Wright di disegnare una sinagoga per la sua comunità, dietro suggerimento dello scultore Boris Blai. Wright, in quegli anni, stava vivendo il secondo “periodo d’oro della sua carriera, disegnando la Price Tower, il Teatro di Dallas e il Guggenheim Museum. Ricevette l’incarico ufficiale nel dicembre del 1953 e nel marzo dell’anno seguente aveva già terminato gli schizzi preliminari. Il progetto si sviluppò attraverso una stretta corrispondendza tra Wright e il Rabbino, che si impegnò nell’insegnare all’architetto le simbologie e le esigenze del mondo ebraico. L’edificio si distanzia dalle consuete costruzioni a sbalzo tipiche dell’architettura di Wright. Al loro posto si solleva una struttura a tripode su tre robusti elementi in cemento: una sorta di “cavo” cementizio, dinamizzato da punte acuminate. La struttura è costituita da scocche in rame riempite di cemento, nel quale sono immersi gli elementi d’acciaio strutturale. L’esterno delle mura è a doppio strato: la parte esterna in fibre di vetro e la parte interna è rivestita in plastica blu. La sinagoga si compone di un singolo e complesso volume piramidale, costituito da 3 lati e da una base di cemento e acciaio. La pianta, di forma esagonale, segna gli assi principali che orientano la Sinagoga nella direzione di Gerusalemme. L’edificio si sviluppa su due livelli: l’ingresso è posizionato a livello del terreno, a metà tra le due quote principali. Da entrambi i lati del vestibolo salgono delle rampe simmetricamente fino al piano superiore, mentre dei gradini scendono alla cappella del piano inferiore. A lato della cappella due grandi atri svolgono una funzione collettiva: accolgono la stanza guardaroba e la toilette. Accedendo alla sala principale il soffitto appare molto alto, ma la visione ne rimane ostacolata finchè non si giunge al livello della sala sopra-


elevata. A quel punto il soffitto sembra essere sospeso sopra l’osservatore. Wright definì l’edificio il luminoso monte Sinai. Al mattino la luce che entra all’interno è blu cristallo, alla sera è dorata. La notte, nonostante l’assenza di luce, la sinagoga sembra emanare una luce dall’interno. Quando progettò la sinagoga, Wright disse che voleva creare un tipo di edificio entrando nel quale la gente si sentisse come adagiata nelle mani stesse di Dio. La sinagoga doveva rappresentare nella forma la rupe da cui Mosè discese con le tavole della Legge. Il fedele aveva l’impressione di trovarsi all’interno di un cristallo splendente, il cui centro metaforico era la Parola di Dio. I piani del pavimento sono dotati di una leggera inclinazione da tre lati vero il Bema, il piedistallo dal quale viene letto la Torah. La sinagoga Beth Sholom è l’ultimo lavoro della carriera di Frank Lloyd Wright. Il suo percorso arriva con questo progetto alla smaterializzazione, distanziandosi però dai suoi contemporanei: la sua architettura continuava a conservare una profondità fisica, ma al contempo emanava una forte tensione spirituale. Il seme di questo progetto va ricercato in un progetto di Wright del 1926, la cosiddetta “Cattedrale di Acciaio”. Si trattava di un’immensa piramide di vetro e acciaio posata su strutture di cemento. Gli era stata commissionata da William Norman Guthrie, pastore della chiesa di St. Mark in The Bouwerie, a Manhattan. Doveva essere una vasta cattedrale aperta a più fedi, che comprendesse, sotto un solo tetto, sei chiese maggiori e alcune cappelle minori. Il progetto non fu mai realizzato, ma Wright ne riprese lo schema modificandolo. Il Rabbino Cohen scrisse “voi avete colto il momento supremo della storia ebraica, la rivelazione di Dio a Israele tramite Mosè sul Monte Sinai, e avete tradotto quel momento, con tutto il suo significato, in un progetto colmo di bellezza e devozione. In una parola, il vostro edificio è il Monte Sinai.” Wright morì a 91 anni, 6 mesi prima del completamento del progetto, nell’autunno del 1959.

Sezione trasversale_1

Sezione trasversale_2

Vista della copertura

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MOSCHEA DI ROMA, Monte Antenna, Roma, Italia Paolo Portoghesi 1974-1995

Pianta e sezione di moschea e centro culturale

Vista complessiva

Dettaglio della copertura

La moschea di Monte Antenna, a nord di Roma, realizzata su una superficie di 30000 mq, è la moschea più grande d’Europa. Gli elementi determinanti per l’approccio progettuale sono fondamentalmente il luogo fisico, un terreno ai piedi di due colline e ai margini del Tevere, e il luogo antropologico: la città di Roma e un sistema di luoghi. Non era sufficiente infatti inserire il progetto all’interno della maglia romana, ma si rendeva necessario connettere l’edificio con il sistema delle moschee di tutto il mondo orientate verso la Kaba. L’obiettivo e allo stesso tempo il problema principale di Paolo Portoghesi in questo progetto, era unire due tradizioni architettoniche molto diverse: quella romana e quella islamica. Sono due culture che appaiono diametralmente opposte: l’architettura romana è basata sull’espressione corporea delle forze vitali, mentre l’architettura islamica nega la sostanza fisica e trasforma la materia in disegni geometrici simboleggianti l’onnipresenza della luce divina4. Il dialogo tra due culture così diverse si trova negli archetipi comuni fondamentali: la colonna, l’arco libero, il conflitto tra centralità e modularità. Arco e colonna sono elementi trattati in modo profondamente diverso nelle due culture, nella Moschea di Roma si è tentato un sincretismo dei due tipi di approccio. Nell’architettura islamica archi e colonne supportavano la modularità dell’organismo, combinando in pianta su un traliccio ortogonale, cellule quadrangolari, e supportando allo stesso tempo la centralità, sollevando cupole al di sopra di archi e di muraglie. Nell’architettura occidentale invece, sotto l’influenza dell’eredità classica, archi e colonne erano gli elementi su cui si basava la gerarchizzazione dello spazio. Una forte differenza tra chiesa e mosche è infatti rappresentata dalla relazione tra ciò che è strutturale e ciò che non lo è, e quindi dall’evidenziazione dei fenomeni della gravità. Nell’architettura islamica e

4. NORBERG SCHULZ C., Architetture di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, Officina Edizioni, Roma 1982, pag.102

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bizantina si persegue infatti un intento di smaterializzazione e di indipendenza formale dalla struttura: i sostegni vengono esaltati nella loro gracilità e moltiplicati a dismisura, le strutture attraversate dalla luce, tanto che la struttura appare “mentale” e perfino libera da certe leggi della natura. Il paradosso statico culmina nel sistema degli archi liberi che si intrecciano nello spazio formando caleidoscopiche meraviglie5. La nervatura intrecciata, che nell’architettura romana non è mai elemento autonomo, diventa il più caratteristico dei segni del mondo islamico. La riproposizione delle nervature intrecciate nella moschea di Roma offre quindi agli osservatori un dialogo tra Oriente e Occidente. Allo stesso modo anche l’uso dei cerchi concentrici, che unisce la descrizione dei sette cieli citati nel Corano con l’immagine di Dante nella sua Commedia crea e riapre una relazione tra i due mondi. La serie dei cerchi concentrici è un’immagine naturale piena di forza e di seduzione per la corrente di metafore che induce nella nostra mente6. La scelta della gradonatura a cerchi concentrici delle 17 cupole della moschea è quindi un esempio di incontro tra le due culture: è una soluzione propria del mondo arabo, ma che dal periodo medioevale trova una sua collocazione anche in Occidente. Dall’ascolto delle due tradizioni derivano anche le scelte di materie e forme che vogliono indurre sia nell’abitante romano che nell’osservatore islamico, un certo effetto di familiarità. Tra queste scelte, ad esempio, l’accostamento tra il mattone color sabbia e il travertino, l’uso di elementi geometrici estratti dalla tradizione islamica, l’uso delle costolature esterne delle cupole proposto da Michelangelo e adottato poi nel Barocco. Il luogo per eccellenza della moschea è la sala di preghiera. In questo luogo il fedele entra in contatto diretto e intimo con la divinità, che si offre sotto forma di Luce. La XXIV sura del

Vista sul cortile interno del centro

Vista della copertura della moschea

Vista sul colonnato

5. PRIORI G. a cura di, Paolo Portoghesi, Ed. Zanichelli, Bologna 1985, pag.189 6. Ibid, pag.190

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Dettaglio della copertura

Dettaglio costruttivo del cortile

Ingresso al centro culturale

Corano recita infatti: Dio è la Luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada e la Lampada è in un Cristallo, e il Cristallo è come una Stella lucente, e arde la Lampada dell’olio di un albero benedetto, un Olivo nè orientale nè occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. E’ Luce su Luce7. La luce assume un molteplice valore: indicatrice di una presenza privilegiata (la Kaba) e sistema di riflessioni luminose che canalizza la luce specchiandola senza mostrare le fonti dirette. Portoghesi decide quindi di alleggerire ogni elemento architettonico della propria materialità, fino a far prevalere i vuoti sui pieni, e la luce sulla materia. Procede con una serie di forature disposte ad altezza d’uomo sulla quibla, la parete rivolta verso La Mecca, in cui sono inserite vetrate tenuamente colorate. Lungo tutto il perimetro della sala sono disposte le colonne portanti della sala di preghiera. Quattro elementi prefabbricati formano un pilastro con un capitello sopra il quale un grande anello svolge al contempo funzione strutturale e decorativa. La forma dei pilastri richiama il profilo della palma, l’albero sacro ai musulmani. In prossimità dell’ingresso si sviluppano due ali laterali, ospitanti servizi sociali, alle quali si accede da due ampie scalinate. Sull’ingresso si erge il Minareto, unico elemento verticale della costruzione, che ricorda all’uomo come egli non viva soltanto sulla terra ma anche sotto il cielo8. I due corpi laterali sono fiancheggiati da un porticato, tra i due volumi si sviluppa un largo percorso scoperto, utilizzato per la raccolta e la preparazione dei fedeli. La moschea è organizzata secondo uno schema regolare ortogonale e immette un elemento di ordine generale nell’insediamento labirintico. Portoghesi, soprattutto nella definizione in pianta della sala di preghiera, giocò sull’interazione di due forme fenometriche pure e fortemente sim-

7. Il CORANO: NUOVA VERSIONE LETTERALE ITALIANA, Ed. Hoepli, Milano 1976 8. NORBERG SCHULZ C., Architetture di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, Officina Edizioni, Roma 1982, pag.97

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boliche: il quadrato simboleggia la terra, mentre il cerchio rappresenta il cielo e la perfezione divina. Non potendo riprodurre nei luoghi sacri figure umane, animali e oggetti, la religione islamica ha assegnato alle forme geometriche la trasmissione dei concetti: viene così affermata nell’intreccio tra quadrato e cerchio, la centralità dell’uomo rispetto all’universo. La costruzione si trova immersa nel verde, a stretto contatto con la natura, principio generatore e ultimo della vita. Allo stesso modo, anche la grande sala di preghiera è stata concepita come una foresta. Poteva sembrare impossibile unificare la presenza plastica tipica dell’architettura romana, con le qualità astratte, smaterializzate dell’architettura islamica ,ma una vera opera di architettura può essere allo stesso tempo pesante e leggera, aperta e chiusa9.

Planimetria generale

CAPPELLA NOTRE DAME DU HAUTE, Ronchamp, Belfort, Francia Le Corbusier 1950-1955 Dopo la guerra fu chiesto a Le Corbusier di ricostruire sulla colline di Bourlèmont la cappella di Notre Dame du Haut. Gli scrisse il canonico Ledeur, nativo di Ronchamp, un villaggio ai piedi di una collina consacrata da sempre al culto, prima pagano, poi cristiano. Sorgeva sulla collina una cappella dedicata alla Vergine, storica meta di pellegrinaggio, rasa al suolo durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. L’architetto fu persuaso a progettare una chiesa che, a partire dalla sua esperienza con il “tempio della famiglia” eretto a Marsiglia, introducesse nell’architettura religiosa la modernità dell’arte. Nel Giugno del 1950, durante la prima visita per prendere conoscenza del terreno e degli orizzonti, Le Corbusier avanzò l’ipotesi di unire l’uomo ai cieli proprio come negli osservatori indiani che aveva scoperto in quei tempi. La collina era disegnata da quattro diversi orizzonti: a Est i “Ballons d’Alsace”; a Sud una valletta lasciata dagli ultimi contrafforti; a Ovest, la piana della Saona;

Pianta della cappella

Sezione trasversale della cappella

9. Ibid, pag.103 10. LE CORBUSIER, Ronchamp, Ed. di Comunità, Milano 1957, pag.89

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Vista esterna della cappella

Vista interna della cappella

Vista della parete interna 11. Ibid, pag.95

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a Nord, una valletta e un villaggio10. Date le caratteristiche specifiche del luogo, il progetto sarebbe andato via via definendosi, sempre più “site-specific”. Il terreno e il suo posizionamento erano senz’altro importanti elementi di partenza per l’idea progettuale, ma non erano i soli: l’idea fondamentale del progetto trova la sua radice in un guscio di granchio raccolto a Long Island, vicino a New York nel 1946. Proprio quella forma, così particolare, ha determinato la definizione del tetto. Basandosi su questa idea iniziale Le Corbusier costruì i successivi plastici in legno e filo di ferro, sui quali si basò infine il progetto definitivo nel 1952. La forma della membrana esterna del tetto ricorda l’ala di un aeroplano che poggia su muri indipendenti dalla copertura, e da essa separati da un sottile squarcio. I muri sono molto corposi e solidi, dentro di essi sono immersi pali di cemento armato. Il guscio poggia in alcuni punto sulla cima di quei pali, ma sempre senza toccare il muro. Tenendo il tetto sollevato come una vela, un getto di luce orizzontale di dieci centimetri di spessore susciterà meraviglia11. Il muro esposto verso sud è sia il più spesso che il più affusolato: il suo spessore è variabile tra i 3.7 m e i 1.4 m, con una punta di 50 cm. Strombi e vani si aprono nella parete squarciando l’interno e forando appena l’esterno. Il muro verso est ha funzione portante: inizialmente era stato pensato per essere così snello da assomigliare al picchetto di una tenda, ma durante il progetto subì una sostanziale trasformazione: una cappella dalla struttura simile ad un nido d’ape disegna la facciata esterna. Il tetto è un guscio in cemento armato impermeabile e il cemento domina la visuale in quasi tutta la cappella. La pavimentazione è in pietra nelle zone sacre, ma in cemento nella zona destinata al pubblico. Sempre in pietra sono gli altari e gli elementi


sacri. Bronzo e ghisa per i serramenti e la tavola per la comunione. La posizione degli altari governa il disegno dell’edificio, che mano a mano che il progetto va definendosi, diventa sempre più asimmetrico. Una statua del XVII esimo secolo rappresentante la Vergine Maria è posizionata nella cappella, come unica rimanenza della chiesa distrutta, in modo da risultare visibile sia all’assemblea che ai celebranti. Oltre alla conchiglia di granchio sono state anche altre le immagini che hanno alimentato l’inventiva di Le Corbusier: riferimenti provenienti dalle centrali idroelettriche, così come altri disegni provenienti da suoi schizzi precedenti. Gli assi luminosi che penetrano dai lati della cappella evocano il serapeum di Villa Adriana. Il sorprendente brisse lumier sul muro esposto a sud, con le sue cavità permeate da una trasparenza modulata di colori, evoca invece la Moschea di EL Attuef, visitata dall’architetto negli anni ‘30. Le diverse traiettorie che percorre la luce per entrare nella cappella creano un senso di mistero. Nelle facciate est e ovest la luce modula la sua intensità con il movimento del sole, ma nella facciata nord, l’illuminazione è costante. I campanilli si ergono come enormi periscopi, e disegnano in sezione la struttura. Il gioco tra le masse e le luci introdotto a Ronchamp irrompe nell’architettura razionalista degli anni ‘20, fatta di superfici lisce ed omogenee. Luci ed ombre diventano protagonisti dello spazio, e le facciate, che fino ad ora si arrogavano il ruolo di affermare la propria libertà dalla struttura, diventano invece i mezzi con cui disporre della luce e delle ombre, grazie allo spessore dei muri. La posizione dominante della cappella è essa stessa un elemento di attrazione, insieme alle tre torri, mentre le superfici concave e convesse proclamano l’identità dell’edificio. Il colore bianco dell’edificio aiuta a definire la forma dell’edificio, solida e rassicurante, che afferma uno spazio sacro e privato che deve essere penetrato.

Planimetria generale: percorsi

Analisi degli archetipi: sinagoga

Schema degli archetipi: sinagoga

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Planimetria generale: percorsi

Planimetria generale: percorsi

Analisi degli archetipi: moschea

Analisi degli archetipi: chiesa

Schema degli archetipi: moschea

Schema degli archetipi: chiesa

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LETTURA DEGLI ARCHETIPI

Schema generale sinagoga

Schema generale moschea

Schemi generali chiesa pre e post conciliare

I tre edifici analizzati mostrano una particolarità comune: ciascuno di loro è in un contesto che permette un avvicinamento graduale al centro. L’analisi parte quindi dal percorso. Nella sinagoga Beth Sholom le vie per giungere all’ingresso sono molteplici, ma convergono in una strada di larga dimensione antistante l’edificio. Il percorso si sviluppa poi internamente in due dimensioni: dall’ingresso il fedele è costretto a salire una delle due rampe che si sviluppano simmetricamente. Giunge quindi all’interno della sala, dove i percorsi non risultano più decisivi per la percorrenza fisica. A questo punto entra in gioco lo sguardo: la disposizione delle sedute fa convergere l’attenzione sull’Almenor, il luogo da cui viene proclamata la Torah. I percorsi mettono in evidenza la qualità spaziale dell’assemblea, che compone visivamente l’aula. La posizione reciproca tra l’Almenor e i tre blocchi principali che ospitano le sedute per la comunità, definisce chiaramente lo spazio e sottolinea l’importanza della reciprocità tra questi elementi. Il recinto è segnato da tre elementi fortemente materici della struttura, con funzione anche strutturale, che al contempo segnano i vertici dell’edificio e la posizione dell’assemblea. I tre vertici fondamentali del recinto segnano anche l’origine dei percorsi visuali. L’edificio è caratterizzato da una forte simmetria, da un disegno rigoroso in cui gli elementi sono facilmente riconoscibili. E’ stato scelto di analizzare il piano ospitante l’Almenor, perchè considerato più significativo ai fini della lettura degli archetipi. Nel complesso di Roma, Portoghesi lega due spazi con funzione profondamente diversa: il centro culturale e la moschea. Questa fusione crea un percorso in diverse direzioni fino a giungere all’ingresso della moschea. Il percorso definisce una sorta di viaggio all’interno di un mondo “separato” dall’esterno, culturalmente e tipologicamente, come se il fedele e il visitatore necessitassero di un filtro tra il mondo occidentale e il mondo islamico. Una volta giunti sulla soglia dell’ingresso lo spazio che si apre è etereo, quasi smaterializzato, omogeneo, continuo. 117


L’effetto è creato volutamente dalla ripetizione degli elementi, dalla selva di colonne, dal soffitto lavorato ma continuo. Lo spazio è definito da un perimetro rettangolare che disegna un recinto tra l’esterno e l’interno, ma che non coincide con l’aula vera e propria. La stanza è quello spazio in cui i fedeli si dispongono in modo del tutto sgerarchizzato e il più libero possibile, data l’assenza di sedute e l’omogeneità del luogo, simmetrico in due direzioni. La stanza creata ha un disegno reticolare e un perimetro perfettamente quadrato. Il compimento in verticale della stanza si trova nella cupola, elemento fondante dell’architettura islamica. All’interno della moschea i percorsi vanno disperdendosi, rendendo possibile l’attraversamento dello spazio in tutte le direzioni. Nonostante questa apparente libertà, di fatto, la ritmicità delle colonne e delle volte crea dei percorsi perpendicolari alle pareti principali della moschea, e definisce anche la disposizione con cui i fedeli si accomodano. La cappella di Ronchamp non è certo un esempio tra i più comuni nella tipologia ecclesiale, ma è particolarmente simbolica e la sua interpretazione apre spunti importanti di riflessione. La sua posizione in primis è molto significativa: sorge sulla cima di una collina, e con le sue forme tenta continuamente una relazione, un rapporto di non esclusione tra l’interno e l’esterno, invitando la natura ad entrare, a penetrare le mura. La presenza sul colle simboleggia quasi un golgota moderno, a cui i fedeli arrivano al termine di un pellegrinaggio attraverso un percorso di avvicinamento che parte da lontano, tra gli alberi, i cespugli, da cui si avvista soltanto l’imponente tetto in cemento armato. Arrivati sulla cima i fedeli si trovano in un recinto naturale, segnato dalla morfologia del terreno. Avvicinandosi all’edificio il percorso diventa incerto, la trasversalità dell’edificio è ruotata dalla presenza di due ingressi fuori asse presenti sui due lati corti dell’edificio. L’ingresso pone al visitatore la domanda spesso citata dove sei?. Dopo essere entrato è necessario un istante per prendere coscienza del cambio di direzione e cercare con lo sguardo la presenza dell’altare e del tabernacolo. All’assemblea è riservato un piccolo spazio per sedere 118

di fronte al Signore, ma l’assemblea è comunque chiamata a disporsi nella direzione dell’altare, e la reciprocità che si crea tra la presenza eucaristica e la comuni tà diventa il centro dello spazio, il luogo sacro vero e proprio. Anche quando è vuoto, quello spazio è permeato da una presenza: la luce invade da sud costantemente la cappella, creando dei fasci paralleli all’altare. La relazione tra stanza, recinto e percorso è metaforica: lo spazio contemplativo è uno spazio che insegna all’uomo come relazionarsi a ciò che è fuori di sè, a tutto ciò che è altro da lui. E l’approccio allo spazio è in vitro un approccio alla realtà. Pensiamo anche come nella conoscenza dell’altro sia necessario avvicinarsi con un percorso, che attraversa per prima cosa il recinto di protezione e che poi si avvicina, nel rispetto alla stanza centrale, al cuore.


3

analisi del contesto

contesto: il quartiere Veronetta storia: l’evoluzione di Campo Marzio 119


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3.ANALISI DEL CONTESTO

contesto il quartiere Veronetta

IL QUARTIERE L’area detta di Veronetta si può comprendere in un triangolo isoscele, con al vertice il colle di San Pietro, e ai lati la Valpantena, le Torricelle e la valle di Avesa. Questa regione è strutturata in tre dorsali collinari, intervallate da due valli, con il nome di Valdonega e San Giovanni in Valle. I primi insediamenti in questa zona risalgono addirittura all’epoca preistorica. Nel periodo di passaggio tra la già citata dominazione francese e l’arrivo degli Austriaci, Verona viene spartita tra repubblicani ed imperiali, ed è proprio in questo breve arco di tempo (1805-1811) che si afferma l’uso di designare con il nome di Veronetta il quartiere a sinistra d’Adige; pare sia stato un ufficiale francese a coniare il toponimo in senso dispregiativo. Come già detto, nel 1849 entra in funzione la stazione ferroviaria di Porta Vescovo, la prima della città. La presenza di questa fondamentale infrastruttura e dei depositi militari gioca a favore dell’economia del quartiere, che vede un incremento della popolazione, in special modo dei ricchi commercianti legati agli appalti per gli approvvigionamenti dell’esercito. Un clima di benessere generale che viene d’improvviso meno con la cacciata degli Austriaci da Verona nell’ottobre del 1866, che determina la perdita di importanza di Veronetta, la quale è gradualmente relegata ad un ruolo di secondo piano rispetto alla parte a destra Adige della città. La piena dell’Adige avvenuta tra il 15 e il 18 Settembre del 1882 segnerà l’inizio di una lunga fase di declino e comporterà la radicale trasformazione dell’area. I lavori di interramento dei canali e dei piccoli

Vista da Ponte Navi sui Monti Lessini

corsi d’acqua hanno spezzato quel secolare e vitale legame osmotico con il fiume e cambiato la destinazione delle attività della zona. Ad attraversarla sono ora un asse viario principale destinato ad assumere un’importanza sempre maggiore, quale l’Interrato dell’Acqua Morta. Chiudono le botteghe artigiane e solo in anni recenti sembra che sia stata raccolta la loro eredità dalle nuove attività legate alla mutata situazione sociale del quartiere. Dopo la fondazione della Libera Università degli Studi di Verona nel 1959, inizialmente legata all’università di Padova, e poi autonoma dal 1982, l’amministrazione comunale di Verona comincia a rivolgere la propria attenzione ai problemi di Veronetta e nel 1973 formula una proposta per un “Piano di salvaguardia e valorizzazione di Veronetta”. Attualmente una peculiarità del quartiere è il suo essere multicolore. Nella chiesa di San Tomaso alla messa tradizionale cattolica si affianca quella arricchita dai gospels, ai negozi comuni della tradizione veneta, come le osterie, 121


Scorcio sul quartiere

si accostano quelli più originali ed esotici, come le botteghe asiatiche e i minimarket africani. Nuovi servizi cercano di venire incontro alle esigenze dei nuovi cittadini di questa zona che negli anni è diventata multietnica e universitaria. L’integrazione sta ponendo una sfida importante al Comune. Gli attriti tra gli abitanti “storici” e i nuovi arrivati non mancano. Lo scopo è quello di unire le diverse culture e strati sociali, senza eliminare le differenze. Il rischio è quello che il quartiere divenga un ghetto moderno.

LA POPOLAZIONE La zona territoriale di Veronetta è caratterizzata da un forte fenomeno di urbanizzazione ed è densamente popolata. Il quartiere ha i valori più elevati di famiglie uni-personali (il 54,9% di 122

quelle italiane e il 65,4% di quelle straniere) e di cittadini stranieri residenti (1.885 su una popolazione residente di 10.423, pari al 18,1%). Oltretutto circa la metà dei cittadini stranieri residenti nel quartiere abitano in un’area urbana circoscritta che comprende una decina di vie. Sono tutti valori molto lontani dalla media comunale. Molti sono gli indicatori che diversificano Veronetta da tutti gli altri quartieri della città, li possiamo riassumere con: alto numero di single, ampiezza media dei nuclei familiari molto bassa, età media della popolazione autoctona tendenzialmente elevata, alta presenza di cittadini stranieri residenti, concentrazione di negozi gestiti da cittadini stranieri in un’area circoscritta. Se fino agli anni Ottanta Veronetta era il quartiere universitario per antonomasia, a partire dagli anni successivi è aumentata significativamente la presenza di cittadini stranieri, probabilmente richiamati dalla cospicua disponibilità di alloggi a basso prezzo, proprio per la particolare offerta di mercato immobiliare, dovuta alla numerosa presenza di studenti universitari. Nel 1997 gli stranieri residenti sul totale della popolazione nel quartiere erano il 10,8%, nel 2000 il 14,9 %, nel 2003 il 18,1%. I principali paesi di provenienza risultano essere Sri Lanka, Romania, Marocco, Nigeria e Ghana. Osservando la piccola realtà di questo quartiere, si può rilevare la medesima tendenza nazionale: ciò che contraddistingue l’immigrazione in Italia è la pluralità delle origini, delle culture e delle fedi religiose, a differenza di altri paesi in cui gli immigrati appartengono a realtà più circoscritte, e quindi più facilmente gestibili. Gli abitanti


storici della zona esprimono un forte disagio nei confronti della “nuova” popolazione con cui si trovano a condividere gli spazi. Degrado sociale, luoghi a rischio, sporcizia e microcriminalità sono i termini più usati per descrivere la situazione attuale. Il quartiere viene definito come la Casbah della città, un termine dialettale usato nei paesi del Maghreb che significa “città storica, cittadella entro le mura fortificate”. Questo termine ha iniziato a venire utilizzato, se pur impropriamente, per descrivere il degrado di un quartiere dove la presenza dei cittadini effettivamente provenienti da paesi arabo-musulmani è di 1 su 10 tra i residenti stranieri. La forte percezione di insicurezza è forse più dovuta ad un diffuso senso di abbandono del territorio che all’effettivo verificarsi di eventi di violenza. Dai dati forniti dalla questura infatti il numero dei reati non si distingue in termini percentuali dal resto della città. L’impressione di insicurezza è dovuta in maggior misura agli episodi di ubriachezza, molestie o disturbo della quiete pubblica che non ad effettivi riscontri di reato. I livelli di senso di appartenenza e di fiducia nelle istituzioni risultano minimi là dove si concentrano le aree critiche. In questa situazione di profondo mutamento sono cambiate nel quartiere anche le modalità di aggregazione, che raccontano la frammentazione della popolazione e la frequente mal sopportazione che aleggia. La comunità dello Sri Lanka è il gruppo straniero più numeroso del quartiere; viene celebrata la messa cattolica in una chiesa del quartiere da un sacerdote cingalese. Una parte della comunità frequenta anche un circolo culturale, luogo di aggregazione di un gruppo politico di orientamento filo comunista. Gli spazi del circolo culturale srilankese sono condivisi con una chiesa evangelica brasiliana, che riunisce circa 50 persone. A circa 200 metri di distanza si trova invece una chiesa evangelica africana, che riunisce soprattutto nigeriani. Risultano finora assenti luoghi di aggregazione di immigrati provenienti dall’est europeo. Parte di loro si ritrova in altre zone della città, dove la Diocesi ha messo a disposizione degli ortodossi rumeni una parrocchia. Gli islamici osservanti si ritrovano in una sala di preghiera ricavata da un magazzino-deposito a 20 minuti a

Momenti di vita quotidiana

piedi dal quartiere. Il centro comunale per anziani di piazza Santa Toscana, da pochi anni aperto nei locali della ex caserma austriaca “Principe Eugenio” e gestito da una onlus di servizi socio-sanitari, è punto d’incontro ed aggregazione per le numerose badanti straniere che accompagnano gli anziani. Vi sono infine due luoghi di aggregazione all’aperto, uno giovanile e l’altro di gruppi marginali di immigrati. Il primo si ispira, negli atteggiamenti visibili e nell’abbigliamento, all’hip hop ed è formato da giovani africani e sudamericani che si ritrovano in una piccola piazza. I gruppi marginali di immigrati si riuniscono invece in una zona circoscritta del quartiere, dove è visibile il degrado ed è diffuso il senso di insicurezza tra i residenti. L’unico riferimento significativo per gli immigrati residenti nel quartiere, non legato ad appartenenze etniche, nazionali o religiose, è un coordinamento costituito per la maggioranza da cittadini stranieri che svolgono servizi dedicati agli immigrati. Il quadro generale che emerge è la presenza di livelli significativi di capitale sociale di solidarietà, dove fondamentale è l’appartenenza ad un gruppo coeso in cui vi sia fiducia interna. Gli stranieri residenti tendono a privilegiare forme aggregative chiuse, strutturando reti fatte da legami forti che tengono uniti e coesi al loro interno i membri. Vi è una forte identificazione tra i membri del gruppo e un elevato grado di controllo sociale generalizzato sulle loro azioni, tipico di organizzazioni con legami e vincoli molto 123


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INQUADRAMENTO

Cinta Muraria scala 1:10000

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Momenti di vita quotidiana

stretti. Questo tipo di aggregazione ha tra gli obiettivi fondamentali quello di creare un luogo di accoglienza e di riconoscimento di sè in un contesto diverso da quello del paese di origine. Ma le ripercussioni di queste azioni sul quartiere sono scarsissime. Non esistono le premesse per la creazione di legami intergruppo. Il rischio è la ghettizzazione e l’esclusione. “La convivenza a VERONETTA è arrivata al limite. Le proteste ora si levano per l’atteggiamento e il comportamento dei residenti di colore, ma anche per quegli sbandati che hanno trovato in questo quartiere un rifugio sicuro. L’ultimo motivo di scontro sono le antenne dei televisori del condominio Embassy, in via Cantarane. Quello per intenderci che ha l’ingresso nell’ormai tristemente famosa galleria del cinema Ciak. Su quella galleria insistono due condomini, il Moderno, che è più alto, e l’Embassy, che è poco più basso e i cui appartamenti sono affittati a immigrati extracomunitari. Questi ultimi, secondo una denuncia presentata alla Guardia di Finanza dai dirimpettai, avrebbero installato le antenne dei loro televisori sul tetto del palazzo adiacente, per avere una visione migliore, facendo poi le derivazioni dei cavi. E i residenti sono decisi a procedere fisicamente allo sman126

tellamento. Proprio per evitare che davanti a una simile presa di posizione potessero scoppiare liti e risse, ieri i Baschi verdi della Guardia di Finanza erano di pattuglia in zona. Nei prossimi giorni, inoltre, i militari dovranno invitare i residenti in caserma per verificare se abbiano pagato il canone Rai. Ma questo è davvero l’ultimo dei problemi da affrontare in questa zona. In redazione piovono le lettere dei residenti di VERONETTA, stanchi di abitare in una delle zone più caratteristiche della città, ridotta a un Bronx. Le lettere denunciano lo stato di degrado, il disagio e la paura di abitare in zona. “Si ha l’impressione che questo sia un luogo di incontro anche per i clandestini”, dice l’ultima lettera in ordine di tempo, arrivata al nostro giornale con un centinaio di firme, “che dormono in vari luoghi assolutamente precari nelle vicinanze. Abbiamo visto fare di tutto in quest’area: spaccio di stupefacenti, prostituzione, commerci vari, violenze e aggressioni, intimidazioni ai residenti che protestano contro le forme di inciviltà. Ci chiediamo spesso come queste persone possano fare qui, liberamente ciò che altrove non potrebbero. Ci chiediamo anche chi dovrebbe intervenire tenuto conto che l’area è di pubblico passaggio e perciò soggetta a pubblica vigilanza”. Da L’Arena, martedì 2 marzo 2004

La ragione dei conflitti nel quartiere è spesso semplicisticamente ricondotta alla eccessiva presenza di stranieri sul territorio. In realtà non è così. La presenza di immigrati non è problematica in sé. A parità di presenza di immigrati rispetto alla popolazione locale, da quartiere a quartiere si riscontrano problematiche diverse e atteggiamenti differenti degli abitanti. Ad esempio in B.go Trento gli immigrati rappresentano il 19% circa della popolazione locale (dati 2011 da verificare) ma non si riscontrano le conflittualità sorte in


Immagini dal Piano della Cinta Magistrale

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altri quartieri quali Veronetta. Per quale motivo? Non è la concentrazione in sé a porre un ostacolo all’integrazione, ma le modalità dell’insediamento e le caratteristiche del luogo/quartiere dove gli immigrati vanno a vivere. I problemi possono nascere quando il loro inserimento nel quartiere non è una libera scelta, ma viene imposto da un mercato immobiliare che relega gli stranieri nelle aree dove è particolarmente numerosa la presenza di case vecchie, degradate, in attesa di una ristrutturazione. Il disagio abitativo, il conseguente ricorso a situazioni abitative precarie e ad un uso improprio degli spazi pubblici (che molto spesso riguardano immigrati con regolare permesso e con un lavoro), sono l’elemento principale di sofferenza degli immigrati e la causa più ricorrente di contrasto con la popolazione locale. Si consideri inoltre che i prezzi che gli stranieri pagano per gli immobili affittati sono frequentemente più alti rispetto al valore di mercato. Per assorbire questi costi spesso si creano delle coabitazioni particolarmente numerose, altra fonte questa di tensioni e conflitti. Le tensioni che si innescano a livello di quartiere sono comunque spesso riprodotte, alimentate e drammatizzate dai mass media. Il quartiere viene talvolta descritto come un “Bronx” dove la soglia di tolleranza è arrivata al limite. Si rafforzano quindi luoghi comuni e i cittadini non riescono a valutare con serenità e razionalità la vera dimensione dei problemi del quartiere. Nel 1996 è sorto un comitato di famiglie aperto a tutte le persone che indipendentemente dalle convinzioni ideologiche e personali, vogliono unire le energie e le esperienze maturate in questo particolare contesto sociale e ambientale per migliorare la qualità della vita del quartiere (dal documento di presentazione del gruppo). Tale gruppo, formato da famiglie veronesi residenti nel quartiere, si riunisce una volta al mese e l’incontro è aperto a tutti per discutere e confrontarsi sui problemi che caratterizzano il quartiere. Emerge dall’osservazione del contesto l’esigenza di un luogo di aggregazione capace di eliminare le differenze, di “restituire” lo spazio del quartiere ai residenti, italiani e stranieri, mostrando come uomini che condividono le medesime esigenze, sono in grado di arricchire il quartiere e la convivenza. 128


3.ANALISI DEL CONTESTO

storia l’evoluzione di Campo Marzio

ETA’ ROMANA Già dagli inizi del II secolo, Verona fu considerata per posizione geografica un importante nodo strategico per la difesa della penisola dalle incursioni provenienti da Nord attraverso la Valle dell’Adige. In quel tempo Roma estese il proprio dominio sul Veneto e sul Friuli. La città divenne municipium nel 49 a.C. e fu fortificata per la prima volta in età tardo repubblicana. Verona fu quindi interessata da un rapido sviluppo demografico ed economico e nel 6 d.C. divenne colonia onoraria. Nessuna opera di difesa, né i tracciati delle grandi strade interessarono minimamente l’area sud-orientale, in seguito chiamata Campofiore. Era un’area ricoperta di ghiaie e detriti fluviali, esterna alle mura e lontana dal raccordo stradale, tanto da non essere interessata né da costruzioni suburbane né da rurali nella suddetta area. La città divenne particolarmente florida durante il regno dei Flavi, centro manifatturiero e nodo di commercio di transito per via terrestre e fluviale. In occasione dell’irruzione degli Alamanni attraverso la Val d’Adige, la città tornò ad essere di importanza fondamentale. L’imperatore Gallieno cinse la città di nuove mura (265 d.C.) che inglobarono da un lato l’Anfiteatro e dall’altro il colle di San Pietro. Sono rafforzate da due salienti a Castelvecchio e a S.Fermo e

Verona in età romana imperiale

sottolineano il ruolo del centro urbano di porta d’ingresso per l’Italia verso la frontiera settentrionale e quella orientale. Il ruolo venne poi ripreso da Teodorico, re degli Ostrogoti, che dichiarando temporaneamente il centro veronese propria capitale, costruì nuove mura dinnanzi a quelle di Gallieno e trasformò il colle di san Pietro in un vero castrum (493-506 d.C.). Nemmeno queste vicende toccarono l’area del futuro Campo Marzio che rimase priva di costruzioni 129


e usata a pascolo. All’epoca era un’area consacrata al dio Marte, adibita ad esercizi militari e all’accampamento dell’esercito. Oggi è la zona che si estende da Ponte Navi fin oltre i limiti dei bastioni austriaci (bastione Campo Marzio, bastione Maddalene) e dalle mura sanmicheliane, fiancheggia il cimitero e prosegue verso est al limite del centro storico.

Evoluzione_periodo Romano-Repubblicano

Evoluzione_periodo Romano-Imperiale

Evoluzione_periodo Comunale

Evoluzione_periodo Scaligero

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ALTO MEDIOEVO ED ETA’ COMUNALE Tra il 568 e il 572 Verona, già sede di episcopato, fu eletta capitale del regno Longobardo e poi capoluogo di un ducato. Ma rimasero invariati sia la configurazione che l’assetto acquisiti nel periodo romano. Non cambiò molto dell’impianto durante il secolo franco o carolingio e rimase immutata anche nel periodo imperiale ed ottoniano. A metà dell’anno mille Verona è una città florida, in forte crescita demografica ed economica, abitata, nelle aree interne alle mura, da nobili proprietari fondiari e da numerose famiglie di mercanti, mentre nelle zone esterne, da molti artigiani legati alle attività fluviali, concentrati nei villaggi fondati e sostenuti sui terreni prestati dai monasteri benedettini di S. Zeno, S. Fermo e S. Maria in Organo. In questi anni il Campo Marzio assume la sua vocazione di area pubblica e di relazione. L’anno 1215 d.C. vide il trasferimento della fiera di S. Michele in Campagna all’area di Campo Marzio. Dietro a questa scelta ci fu la considerazione di aspetti pratici, essendo la zona confinante con l’Adige e quindi appropriata per lo scambio delle merci provenienti sia da Venezia che dalla Germania. Alla fine del XII secolo, in diverse fasi, la cinta muraria si allarga per inglobare i nuovi borghi, mentre si procede alla riorganizzazione del centro commerciale, politico ed amministrativo dell’antico Foro romano. Nella prima metà del XII secolo i terreni di Campo Marzio esterni al Muro Vecchio vengono progressivamente occupati dalla costruzione di complessi conventuali: il monastero di Santa Maria Maddalena (1211), il convento di San Cristoforo (1214), la Chiesa di Santa Marta (1223) e il Monastero


FASE 1 Metà XI secolo: fiera di san Michele nei pressi del monastero di san Paolo, fuori dalle mura comunali. Metà XIII secolo: area a pascolo e prato pubblico.

FASE 2 1328 - Campofiore confermata come area pubblica da fiera e pascolo. 1277-1325 - L’area di Campofiore viene inglobata nella cinta muraria scaligera, con porta Vescovo.

FASE 3 1521 - Completamento della “rondella” di S. Toscana a difesa di Porta Vescovo. 1527 - Costruzione del bastione delle Maddalene. 1517 - Delibera del Senato veneziano per creare una fascia “spianata”.

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di Santa Maria delle Vergini (1226). Nel 1254 la città era suddivisa in circa 50 contrade interne o esterne alle mura denominate dal titolo di una chiesa. Ss. Nazaro e Celso e S. Paolo con l’area pubblica a prato e a pascolo di “Campofiore” o del futuro Campo Marzio figurano ancora fuori del circuito difensivo.

ETA’ SCALIGERA Tra il 1277 e il 1325 fu realizzata da Alberto e Cangrande della Scala una nuova amplissima cinta muraria. Lasciando intatte le fortificazioni comunali, si presentava come una seconda linea di difesa più interna, incluse le chiese ed i monasteri con i circostanti sobborghi, isolati complessi rurali, pascoli e campi fino ad allora rimasti esclusi da qualsiasi opera di protezione permanente. Le mura scaligere sono riconoscibili da un importante tratto caratteristico: la tecnica costruttiva è fondata sull’uso di pezzame lapideo e di ciottoli di fiume di ridotta dimensione, immersi in abbondanti strati di malta, contenuti da paramenti relativamente più regolari. A destra dell’Adige le nuove mura si svilupparono tra due nuclei estremi costituiti dal borgo di S. Zeno e dal monastero della Trinità. A sinistra d’Adige il perimetro allargato iniziava dal borgo di S. Giorgio in Braida, risaliva le colline a nord della città fino a raggiungere il nuovo castello di S. Felice, fondato a difesa del castellum di S. Pietro. Le mura assorbivano in fine al proprio interno le urbanizzazioni nate intorno a S. Maria in Organo, ai Ss. Nazaro e Celso ed a S.Paolo, fino a raggiungere in piano la Porta Vescovo di nuova apertura, includendo e difendendo inoltre l’intera estensione di Campofiore, ancora area pubblica di fiera e di pascolo per animali o per i cavalli di proprietà dei militari al servizio dei Signori. Il circuito scaligero fu sufficiente a contenere per i successivi cinque secoli una ricca città in espansione.

Carta dell’Almagià, 1429 -1440

Pianta prospettica di Giovanni Caroto, 1540

Veduta di Paolo Ligozzi, prima metà XVII sec.

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FASE 4 1718-1722 - Costruzione della Fiera “da muro” proposta da Scipione Maffei Teatro e parco pubblico.

FASE 5 1837-1842 - Consolidamento dei bastioni con rafforzamento dei terrapieni e riposizionamento delle batterie in “barbetta”. Costruzione di una polveriera. Costruzione di una “caponiera”. Scavo di una galleria di contromina.

FASE 6 Stato pre-demolizioni.

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INQUADRAMENTO

Caserma Passalacqua scala 1:5000

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LA DOMINAZIONE VENEZIANA Dal 1405 a Verona iniziò il periodo di dominazione veneziana, con una progressiva ripresa economica e demografica. I veneziani in questi anni allargarono le costruzioni precedenti, appoggiandosi ad esse con un ingrossamento esterno, realizzato in laterizio, lievemente inclinato. Anche i bastioni, di nuova formazione, mostrano una cortina laterizia omogenea, con toro lapideo. Nel 1516, in seguito allo scontro con l’impero germanico, Venezia scelse di rinnovare la propria dotazione di difese permanenti che si era dimostrata vulnerabile. Il progetto di ristrutturazione ad opera dell’architetto Sanmicheli vide come prima opera la realizzazione di una “spianata”, una fascia continua adiacente al circuito delle mura ottenuta a mezzo di livellamenti, disboscamenti, demolizioni, per eliminare qualsiasi protezione offerta occasionalmente al nemico. Il vero piano difensivo progettato dal nuovo governatore generale Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino prevedeva tra le opere di maggior rilievo, l’introduzione di quattro nuovi bastioni sul fronte sudoccidentale. Inoltre era in progetto l’inserimento nell’angolo del fronte sud-orientale, dove sorge Campofiore, di un bastione “di terra” e murato, costituito da un involucro di spesse mura di mattoni a sostegno di un riempimento di terreno. Con questo bastione d’angolo da lui progettato in Campo Marzio (detto in seguito delle Maddalene e ancor più tardi “del Vescovo”) Francesco Maria della Rovere introduceva per la prima volta nella corona difensiva veronese il bastione a spigoli di pianta pentagonale in sostituzione della rondella. Il bastione poligonale constava di due casematte laterali indipendenti, di due sovrastanti piazze di tiro scoperte, di un nucleo centrale in terra a sostegno. Anche il bastione collocato dinanzi al tratto centrale della muraglia scaligera che chiudeva il Campofiore a meridione, rispettava questa struttura, ed era munito di postazioni per il fuoco. Nonostante la protezione muraria il Campo Marzio rimase pressoché immutato nella propria destinazione di pascolo ed “ortaglia” per tutto il ‘600. Nel 1718 il marchese Scipione Maffei, per promuovere e sostenere la ripresa dell’economia 136

della città, propose la costruzione nell’area di Campo Marzio più vicina all’Adige di una cittadella dello “scambio” e della “vendita” a disposizione degli imprenditori, dei commercianti, degli artigiani, degli agricoltori veronesi, costituita da padiglioni con negozi distribuiti in modo da formare quattro piazze nei quadranti disegnati da due viali ortogonali. Il mercato periodico di S. Michele divenne stabile e le attrezzature e architetture necessarie a questo scopo furono progettate seguendo esclusivamente l’ordine richiesto dalle funzioni, facendo sorgere costruzioni ripetitive distribuite in un suolo omogeneo e neutrale, in un perfetto “negativo” della città storica. Nei primi anni del 1700 l’area perse temporaneamente la sua connotazione militare, proprio a causa della costruzione della nuova fiera in muratura. L’importanza e l’utilizzo della fiera andarono però progressivamente diminuendo fino a quando, alla fine del XVIII secolo, con l’arrivo delle milizie francesi ed austriache, fu abbandonata a sé stessa.

L’AMMINISTRAZIONE ASBURGICA Nel 1801 Verona, dopo varie vicende storiche che la videro protagonista, risultava divisa in due parti: la destra dell’Adige segnava il limite della dominazione francese, mentre la sinistra quello del territorio governato dagli austriaci. Nel 1805 il controllo della città fortezza passò ai francesi, ma in seguito alla sconfitta con la Russia e la Germania, il 4 Febbraio 1814 le truppe tedesche entrarono a Verona. Dopo quasi nove anni di appartenenza al napoleonico Regno d’Italia, Verona venne a far parte del Regno Lombardo –Veneto dipendente dall’Impero d’Austria e il Campo Marzio dovette rispondere alle ragioni militari - difensive - logistiche - assegnate dal governo asburgico alla città. La consistente evoluzione dell’arte bellica rese necessario l’ammodernamento della cinta muraria. Se a destra dell’Adige (1832-1836) gli Austriaci ricostruirono le fortificazioni demolite dai francesi, in sinistra d’Adige consolidarono i bastioni esistenti completandoli dei terrapieni, eliminarono le piazze basse, innalzarono tutte le


INQUADRAMENTO

Rilievo Polveriera Asburgica 137


INQUADRAMENTO

Sezione A-A del Bastione Scala 1:500

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A

B

B A INQUADRAMENTO

Bastione Campo Marzio Scala 1:500

INQUADRAMENTO

Sezione B-B del Bastione Scala 1:500

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Campo Fiori, 1850 circa, K.A.Wien

Piano di ricostruzione, periodo post bellico

Pianta e prospetto Provianda S.Marta

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batterie collocandole in barbetta. In particolare, a Campo Marzio, essi rimodernarono il bastione roveresco delle Maddalene che fu attrezzato con un muro alla Carnot e con una caponiera a difesa del vallo verso l’Adige. Gli austriaci addossarono inoltre al perimetro difensivo scuderie e depositi di biade da Porta della Vittoria al termine del bastione di Campo Marzio. Il Campofiore, con l’occupazione asburgica, fu utilizzato come Piazza d’Armi e come luogo per grandi manifestazioni pubbliche. A seguito dei moti del ’48, la prima serie di opere distaccate fu incrementata da una seconda cintura più fitta ed avanzata costituita da forti con cinta non più circolare ma poligonale, aperta in gola verso la città, intorno ad un ridotto centrale a forma di tamburo. Nel 1850 fu inaugurata la tratta ferroviaria Vicenza-Verona e nel 1859 fu realizzata la nuova stazione ferroviaria di Porta Vescovo, primo arrivo in città della linea “Ferdinandea”. Il binario attraversava la porta di Campo Marzio e collegava la stazione di Porta Vescovo alla zona di Campofiore, dove erano situati magazzini, opifici militari etc. Dopo il ’59 Verona era divenuta il perno del “Quadrilatero” lombardo-veneto. Strettamente connesso a questo duplice ruolo, la fortezza di Verona fu chiamata ad assolverne un terzo: quello di base logistica e di rifornimento per le forze asburgiche delle province italiane, ovvero per un’armata di oltre 120000 uomini. Nell’area di Campo Marzio fu costruito tra il 1863 e il 1865 il complesso di edifici militari destinati alla lavorazione dei grani e alla produzione del pane di S. Marta, in un lotto affacciato su via Cantarane diretta a Porta Vescovo, tra i bastioni di Campo Marzio e delle Maddalene. La “Provianda” fu realizzata poco prima della perdita del Lombardo-Veneto su progetto dello stesso Andreas Ritter Tunkler ideatore dell’ampliamento del campo trincerato, coadiuvato dagli ingegneri Anton Naredi Rainer e Ferdinand Artmann. La creazione dello stabilimento rispondeva all’esigenza di alimentare quotidianamente le truppe di stanza nel Veneto aumentate considerevolmente di numero dopo il ‘59 e di rispondere a questo obiettivo con un dispositivo tecnicospaziale centralizzato che razionalizzasse tutte


STREET VIEW Via Cantarane

STREET VIEW Via San Francesco

STREET VIEW Via Santa Marta

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le fasi della produzione, sfruttando le tecniche e le conoscenze più aggiornate e la velocità assicurata dalla ferrovia, cancellando il sistema dispersivo delle forniture appaltate ai privati, del rastrellamento o della requisizione capillare dei prodotti. L’idea era quella di integrare l’arrivo delle scorte, il loro deposito e la loro conservazione, la loro lavorazione destinata ad usi di pubblica utilità, in uno spazio concentrato prossimo alla ferrovia e all’importante nodo d’arrivo stradale di Porta Vescovo. Tale spazio era vicino ad altri edifici di sussistenza, protetto dagli efficienti bastioni della cinta magistrale e da un valido forte del campo trincerato. Al termine della terza guerra d’indipendenza (1886) l’Italia dei Savoia e di Cavour acquisì il Veneto ed ereditò, quindi, la fortezza appena rinnovata di Verona in un quadro strategico, però profondamente mutato. La città perdeva la propria importanza di fronte ad un capovolgimento nella direzione d’attacco e si rivelava anche poco rilevante per arrestare la discesa dalla tanto temuta Val d’Adige di un’armata austriaca. Il Campofiore nel 1886 fu restituito al Demanio dello Stato continuando ad essere utilizzato per le esercitazioni di consistenti numerici di truppe, oltre che avere la funzione di area logistica per i reparti di artiglieria. Per l’Italia era, perciò, del tutto sconsigliabile fare della piazza di Verona il perno della propria difesa. Ciononostante i governi e i comandi militari decisero di mantenere intatte le fortificazioni, rinforzando di poco quelle rivolte a nord-est; la città divenne una piazza interna che concorreva soprattutto con le proprie attrezzature logistiche alla difesa delle frontiere nord-orientali. Per i comandi iniziò una 142

Planivolumetria Bastione Campo Marzio

lunga ed inerte politica di conservazione dell’esistente e per la “Provianda” di Santa Marta un lungo periodo di sopravvivenza, di aggiustamenti modifiche e di sempre più rari e sporadici interventi di manutenzione.

L’ARCHITETTURA DEGLI EDIFICI: LA PROVIANDA DI SANTA MARTA Lo stabilimento della “Provianda”, composto di tre edifici affiancati, sorse entro un lotto di forma rettangolare con un lato breve affacciato su via Cantarane diretta a Porta Vescovo. Il primo costituiva una specie di “propileo” d’ingresso a due piani destinato ad uffici e ad alloggi per il personale direttivo. Il secondo, in posizione decentrata rispetto all’asse d’entrata, era formato da due parallelepipedi affiancati quasi gemelli, con un corpo ad “L” staccato. Serviti a terra dallo stesso troncone ferroviario che penetrava nell’area intermedia scoperta, i due corpi di fabbrica erano due magazzini a silos completamente fuori terra e quindi ben lontani


STREET VIEW Via Torbido

STREET VIEW Via Torbido

STREET VIEW Via Campofiore

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La sezione Nord-Sud mostra la variazione morfologica del terreno, segnata dal passaggio del fiume, a Sud. A Nord le catene montuose segnano il confine della cittĂ , ponendo un limite verde sul quale si innestano le mura difensive.

INQUADRAMENTO

Profilo_1: contesto cittadino Scala 1:5000

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dalle falde freatiche. Un prisma semipoligonale in aggetto dal lato breve, simile ad un’abside sviluppata in altezza, ospitava, in ciascuno dei corpi, un vano scale. I fronti minori dei magazzini sono risolti con un profilo di compimento a gradoni e gli spigoli irrobustiti da contrafforti. Annesso al silos orientale i progettisti avevano previsto un edificio di un solo piano dotato di dispositivi meccanici per la pulitura e la macinazione: mole disposte su carrelli in ghisa ed azionate da macchine a vapore. Le massicce ossature murarie perimetrali sono composte da filari irregolari di blocchi poligonali di pietra arenaria locale, alternati a corsi laterizi. Bifore aperte lungo i fianchi e monofore sulle testate, ad arco a pieno centro illuminano i magazzini, con cadenza raddoppiata all’ultimo livello; molte bifore e monofore ora visibili nei piani intermedi appaiono inserite in tempi successivi. Il terzo edificio - il principale, di 3 e 4 piani fuori terra ed uno interrato, di circa 118 metri in lunghezza e di circa 49 metri di larghezza massima - era destinato alla cottura ed alla produzione delle gallette e del pane, mentre serviva anche da deposito di farine e di altre derrate, da ricovero e da officina di forni da campagna. Esso è articolato in tre corpi uniti e solidali, uno centrale maggiore e due laterali minori, ciascuno organizzato intorno ad un proprio cortile, con ballatoi di disimpegno tra i vani. Il corpo centrale è scandito, a settentrione, da tre aggetti con fronte a capanna. Lo spazio occupato da un forno è simile ad un “modulo” ripetuto all’infinito che si riflette con minimo scarto in ogni campata tra pilastri in pietra viva e volte a vela di laterizio; ritmo e spaziatura che si ripercuotono nelle infilate degli spazi superiori. I corpi minori ospitavano uffici e vani di deposito vario. Per equilibrare l’accento verticale dei tre aggetti, accentuato dalla presenza di trifore in asse, i progettisti hanno scandito il lungo prospetto con un ritmo di bifore regolarmente cadenzate, alternate a contrafforti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’area del Campo Fiore diventò di pieno utilizzo delle unità dell’Esercito Italiano ed assunse la denominazione 148

attuale in onore del Tenente Passalacqua, nato a Chiaravalle (Ancona) e Comandante di Compagnia carri M 13/40 del IV Battaglione carri, appartenente al 32° Reggimento carristi. La storia recente della Caserma “U. Passalacqua” (dal 1950 ai giorni nostri) è stata caratterizzata dalla costante presenza “militare”. Nel 2001, in considerazione delle sempre maggiori esigenze della comunità cittadina e della necessità di disporre di una vasta area per un funzionale ed armonico sviluppo del territorio comunale, fu stipulato un accordo fra l’Amministrazione della Difesa ed il Comune di Verona per arrivare alla cessione della Caserma “U. Passalacqua” alla locale amministrazione. Oggi tale accordo è stato concretizzato. Con la cessione al Comune di Verona, si conclude un percorso secolare di storia prevalentemente militare legato al luogo dove sorge ancora la caserma “U. Passalacqua”, oggi in via di demolizione.


C C

INQUADRAMENTO

Pianta della polveriera Scala 1:500

INQUADRAMENTO

Sezione C-C della polveriera Scala 1:250

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INQUADRAMENTO

Progetto per il Campo Marzio proposto dallo studio MPET Scala 1:2000

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Verso Nord la vista si apre sulla zona collinare, mettendo in evidenza il passaggio tra il pieno urbano e il pieno dato dalla ricca presenza di vegetazione ed alberi ad alto fusto. Alle spalle delle colline si sviluppano le prime catene montuose.

INQUADRAMENTO

Profilo_2: contesto cittadino Scala 1:5000

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elementi del progetto

incontrarsi: lo spazio contemplativo in città la scelta del luogo: i fondamenti della localizzazione un luogo silenzioso: il progetto natura: il parco incerto e contemplativo tempio: lo spazio dell’altro stanza: l’incontro con il sacro percorso: lo spazio di decostruzione recinto: da difesa a custodia 155


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4.ELEMENTI DEL PROGETTO

incontrarsi lo spazio contemplativo in città

incontrare v. tr. 1. Indica il verificarsi di una relazione di avvicinamento o di contatto, fortuita o volontaria, suscettibile di continuarsi o definirsi in un temporaneo o permanente rapporto di causalità o di reciprocità oppure in un ambito a fini specifici. intr. incontrarsi PERCHE’ LA CONTEMPLAZIONE IN CITTA’? La nuova Gerusalemme, la Città santa (...), è la meta verso cui è incamminata l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata.(...) Nella città, l’aspetto religioso è mediato da diversi stili di vita, da costumi associati a un senso del tempo, del territorio e delle relazioni che differisce dallo stile delle popolazioni rurali. Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso. Dobbiamo contemplarlo per ottenere un dialogo1. Queste le parole con cui Papa Francesco spiega il punto di vista della Chiesa Cattolica. Ma forse sono parole applicabili al nostro contesto sociale attuale. Nell’odierna città multietnica è possibile

Silenzio, Goffredo Radicati, 2008

pensare a una idea di «spazio sacro» quasi a prescindere dalla particolare comunità religiosa che lo frequenta? Sono individuabili dei caratteri architettonici che lo qualificano in maniera costante o ricorrente?2 Queste le domande che ci poniamo. Lo spazio sacro non è soltanto un momento di individuazione di una particolare comunità religiosa, ma è un momento di incontro con la più vasta popolazione urbana. Entrando in un luogo sacro delle nostre città veniamo invasi da un senso di tranquillità, silenzio, raccoglimento, ed è un sentimento non solo del credente che vi

1. PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2013, n.71-72 2. PIVA A. a cura di., La città multietnica: lo spazio sacro, Ed. Marsilio, Milano 2000, pag.15

157


158


INQUADRAMENTO

Spazi sacri scala 1:15000 chiese cristiane cimiteri altre religioni

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Il teatro del silenzio, Lajatico, Pisa

entra ma rappresenta una sosta nella frenetica vita giornaliera. Si tratta di spazi particolari, diversi dagli altri che frequentiamo durante la giornata. Diversa è l’illuminazione: vaste zone di ombra danno importanza alla luce che spesso penetra dall’alto, è uno spazio che parla a tutti, indipendentemente dal credo religioso, dalla nazionalità o dal ceto sociale. Si può quindi ipotizzare che lo spazio sacro nella città possa avere significato anche se non costituisce il punto di incontro di una specifica comunità religiosa, ma che possa configurare anche più in generale la cornice architettonica per un momento di ascolto, di riflessione, di concentrazione nella concitata esperienza urbana3. In seguito a questa affermazione va però sottolineata un’importante distinzione: lo spazio sacro è qualcosa di diverso dallo spazio liturgico, che esprime invece l’appropriazione e il possesso di quello spazio da parte di una particolare comunità con i suoi simboli, riti, immagini e specifici valori. 3. Ibid, pag.18

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USCIRE E RIENTRARE La proposta di riflettere sulla dimensione contemplativa della vita intende provocare implicitamente il recupero di alcuni valori che nei confusi e pur fecondi anni appena trascorsi hanno subito qualche scolorimento o qualche eclissi. Tali sono l’importanza religiosa del silenzio, il primato, nella persona umana, dell’essere sull’avere, sul dire, sul fare; il giusto rapporto persona-comunità. L’idea vuole essere quella di creare uno spazio in grado di dare risposta alla necessità di trovare un luogo capace di accogliere l’uomo nel silenzio, nel suo bisogno di ritrovare sé stesso e nel suo desiderio di stare a contatto con gli altri per condividere la bellezza della contemplazione. Si vuole proporre un percorso sensoriale, una siepe leopardiana (“...e questa siepe, che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.”), in grado di mostrare al fruitore, che oltre di essa c’è un infinito e un silenzio capaci di


Skulptur Interior Space-Silent Place, Rainer Fest, 1997

fare da sfondo alla necessità di contemplazione umana, nella ricerca di sé stessi e nella ricerca del benessere con gli altri. (vd. Appendici 2 e 3) Vuole essere uno spazio trasversale alla fede cristiana, uno spazio laico quindi, in grado di offrire al visitatore delle attività di evasione che siano salvifiche per il ritorno alla vita nella quotidianità e però non alienanti ma alternative alla stimolazione di tipo consumistico-materialistico. Ma il silenzio a cui guardiamo non è solo quello dell’assenza di suono, ma il silenzio della contemplazione e dell’assenza degli stimoli: un luogo dove le connessioni non siano wireless, ma umane. Le vacanze spirituali in convento stanno prendendo sempre più piede: stanchi della vita frenetica, infatti, sempre più italiani decidono di optare per una destinazione dove domina il silenzio. La parola d’ordine per chi decide di fare vacanze conventuali è “lasciate a casa tutto ciò che fa rumore”. In quasi tutte le città europee l’inquinamento acustico supera la soglia di guardia. Le campagne vengono divorate dal cemento al ritmo

di decine di migliaia di ettari l’anno. Il dilagare delle luci offusca le stelle. E questa trasformazione di buona parte dell’Europa in un grande cantiere rende le oasi di pace merce sempre più rara. E la tranquillità dei luoghi è uno degli ingredienti fondamentali del loro fascino. Il silenzio attira perché è l’altra faccia della musica: un formidabile catalizzatore di suoni, la pausa che consente alle note di emergere. Una moltitudine di luoghi sta attirando visitatori da tutto il mondo, nella ricerca del silenzio, della pace, di sé stessi, di uno spazio di contemplazione e di un rinnovato rapporto con la natura. (vd. Appendice 4) Il progetto è quello di creare uno spazio capace di rispondere a queste funzioni nel cuore delle nostre città, per ritrovare la dimensione contemplativa dell’uomo nella frenesia della vita quotidiana, per uno spazio aperto a tutti, vicino alle attività di ogni giorno. Un luogo di uguaglianza, e non di élite. 161


162


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

la scelta del luogo i fondamenti della localizzazione

Vocazione pubblica dell’area: volo d’uccello

VOCAZIONE PUBBLICA DELL’AREA In epoca romana Campo Marzio si presentava privo di costruzioni e veniva usato a pascolo. Era un’area consacrata al dio Marte, adibita ad esercizi militari e accampamento dell’esercito. Dal 1215 si trasferì la fiera di S. Michele, e divenne una zona di relazione e di scambio delle merci tra Venezia e la Germania. In età scaligera e veneziana l’intera estensione dell’area mantenne un valore pubblico di fiera e di pascolo per animali o

cavalli dei militari a servizio dei Signori. Scipione Maffei nel 1718 propose la costruzione nell’area di Campo Marzio di una cittadella di scambio e vendita a disposizione di imprenditori e commercianti. Il mercato periodico di S. Michele divenne quindi stabile. Con l’amministrazione asburgica il luogo dovette rispondere alle ragioni difensive, logistiche e militari assegnate dal governo alla città. Dal 1800 perse quindi progressivamente la connotazione di luogo d’incontro per divenire roccaforte militare. 163


IL SACRO AL CENTRO Fondamentale la volontà di creare un luogo per la contemplazione al centro del complesso cittadino. Il visitatore non deve essere intimorito dalle distanze, dalla difficoltà di raggiungimento o da altri fattori. Lo spazio contemplativo si lega e si inserisce tra i luoghi del quotidiano, così come quotidiano è il tempo dedicato al suo utilizzo nella vita dell’uomo. Il sacro al centro

VERDE E PARCO URBANO La dimensione di parco urbano crea un ambiente naturale all’interno della maglia cittadina, generando uno spazio di pace e di comunità. La presenza del verde è fondamentale nella creazione del vuoto urbano, nella prospettiva di un contatto con l’Altro. Il progetto del verde si inserisce in una visione a scala più ampia di riqualificazione dell’intero tracciato murario di Verona. Verde e parco urbano

PRESENZA DEL CIMITERO La presenza del cimitero richiama immediatamente ad una sacralità condivisa. Il cimitero monumentale ospita infatti non solo uomini di religione cattolica, ma di ogni professione religiosa. Il cimitero non è considerabile luogo di contemplazione, ma certamente ha una valenza sacra e richiama la mente ad ampliare il margine di riflessione oltre il contingente. Presenza del cimitero 33.2

PRESENZA ETNOGRAFICA MISTA

24.9 24.7

Presenza etnografica mista

164

4.9 UE

America

APE

Africa

Asia

12.1

0.1

La forte presenza di popolazione straniera nell’area è elemento fondante della scelta geografica. Un luogo in grado di creare un sentimento comunitario tra uomini di cultura e credo diversi è una sfida ancora più ampia in un quartiere dove su 10.400 abitanti, 2.100 sono stranieri. Si tratta del 19.7 %, senza dubbio la quota più alta all’interno del comune di Verona. Nel grafo sono rappresentate le diverse presenze straniere in relazione al totale.


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

un luogo silenzioso il progetto

INQUADRAMENTO

Le componenti del progetto scala 1:10000

PIENO E VUOTO: L’approccio progettuale parte dall’analisi dei pieni e vuoti urbani. Il vuoto urbano che si vuole creare deve necessariamente tenere conto della scala e della porosità esistente nella città, a partire dall’edificazione limitrofa all’area. Sono presenti diversi blocchi di edificato: la città antica, la zona industriale, le nuove edificazioni a sud, il polo universitario, la zona militare in via

di demolizione e infine il quartiere di Veronetta. L’andamento dell’edificato è determinato prevalentemente dal quartiere di Veronetta, costituito da isolati di medie dimensioni, delimitati dagli edifici. All’interno degli isolati si vanno a creare dei vuoti di diversa natura: in alcuni casi sono ospitate zone di uso pubblico, in altri zone verdi, in altri casi ancora il vuoti è soltanto un vuoto edilizio. Si sono quindi individuati 5 casi di definizione 165


I 5 livelli di pieno e vuoto

di vuoto e pieno: pieno urbano, pieno naturale, vuoto urbano, vuoto naturale acquatico, vuoto naturale terrestre. Il vuoto non è solo fisico, ma un’interpretazione dell’utilizzo dello spazio. Il verde diventa quindi elemento per costruire il vuoto, indipendentemente dalla sua consistenza.

LE MURA Un altro elemento fondamentale dello spazio sono le mura. Il disegno delle mura definisce un ambito urbano altro rispetto all’edificato cittadino. Il Piano per la Cinta Magistrale di Verona si prefigge la finalità di restituire alla collettività un insieme di opere di straordinaria rilevanza architettonica, urbanistica, paesaggistica e storica, avviando un processo di riconversione ambientale. L’andamento della cinta muraria definisce e racconta l’evoluzione e la storia della città di Verona, è quindi un elemento importante di cui tener conto nell’approccio progettuale. Lo spazio all’interno del bastione Campo Marzio è infatti interpretabile sia come spazio urbano che come spazio altro. La Cinta Magistrale si è quindi trasformata da limite della città a linea che, come un livello sovrapposto alla maglia edificata, disegna un nuovo spazio.

LA POLVERIERA La polveriera o santabarbara è una struttura o un fabbricato per la custodia di materiale esplosivo. Era il luogo dove venivano tenute le armi dell’esercito. Ogni singola struttura doveva prevedere un am166

biente asciutto e sempre ben areato, oltre ad un tetto ben protetto dai fulmini. Si inserisce come unico pieno urbano all’interno del bastione Campo Marzio, e risulta un elemento interessante a cui relazionarsi, sia per il suo pregresso uso anticontemplativo, sia per la sua attuale dimensione di rudere.


INQUADRAMENTO

Consistenza del verde Scala 1:20000

167


Vista autunnale del Parco Contemplativo

168


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

natura il parco incerto e contemplativo Vista primaverile del Parco Contemplativo

ALBERI ISOLATI: Due alberi isolati si contrappongono e attraggono l’attenzione del visitatore. Il primo si trova all’interno della polveriera esplosa: si tratta di un ulivo, che da sempre ha rappresentato la pace. E’ l’unico albero presente all’interno dello scavo, a simboleggiare il cuore contemplativo di questo spazio, che pone l’uomo di fronte alla consape-

volezza della guerra e della sua contrapposizione con l’uso attuale del luogo: la comunione tra le persone. Il secondo albero è un albero da frutto, un melo posto all’esterno del recinto: è l’albero della scelta. Da sempre l’uomo è chiamato a scegliere se fermarsi all’esterno e cogliere di questi frutti, o se privarsene ed entrare nel cuore dello spazio sacro, nel pieno della relazione con Dio. Di ogni albero del giardino puoi mangiare a sa-

1. la SACRA BIBBIA, Gen 2,16

169


prato gettato

alberi isolati

prato inglese

alberi sempreverdi

prato fiorito

alberi con sedute

ghiaia

alberi a foglie caduche griglia di distribuzione

170


PROGETTO

Elementi naturali scala 1:2000

171


zietà. Ma in quanto all’albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, poiché nel giorno in cui ne mangerai certamente dovrai morire1. L’albero del bene e del male è un simbolo dell’asse cosmico, elemento di collegamento tra il divino e l’umano.

ALBERI SEMPREVERDI E A FOGLIE CADUCHE: All’interno del giardino contemplativo si contrappone la presenza di alberi sempreverdi e a foglie caduche. Il platano, che nella stagione invernale perde le foglie, è l’albero attorno al quale sono pensate le sedute collettive. Rappresenta fin dal mondo antico l’albero sotto il quale gli uomini si rifugiavano per ripararsi dal sole, per rifugiarsi dal quotidiano. Sotto il platano avvengono le conversazioni tra i filosofi, gli scambi di opinione oziosi ed esistenziali. Tra gli alberi sempreverdi contiamo numerose magnolie. Sono distribuite nel giardino contemplativo, dove sorgono solitarie tra gli altri alberi.

INSIEME DI ALBERI:

allo svago. L’immagine simbolica di orto risale al Medioevo ed è direttamente collegata a quella di hortus conclusus dei monasteri, raffigurazione simbolica del Paradiso terrestre. Nato in virtù delle profonde esigenze religiose e culturali tipiche dell’uomo medievale, l’orto assume l’immagine di un luogo in cui trovare risposte ai grandi quesiti esistenziali, nonchè dove creare una relazione tra se stessi, la natura e Dio. E’ proprio in questo senso che definiamo questa zona a prato verde. Il verde si distingue tra quello a prato semplice e quello a prato inglese rasato, all’interno alle zone che accolgono le folies. La zona di transizione è in ghiaia.

PRATO FIORITO: Nel giardino medievale i fiori sono coltivati nell’herbarium, recintato a richiamare l’immagine di hortus conclusus. In questo piccolo giardino venivano coltivati gigli, rose, peonie. Le composizioni di fiori, dal Rinascimento, vengono posate all’interno di aiuole, delimitate nello spazio. Il contesto in cui i fiori assumono più rilievo è l’esuberanza decorativa del giardino vittoriano, dove si diffonde la pratica di coltivare colora-

Nel parco incerto, gli alberi si dispongono a gruppi, distribuiti secondo una griglia. L’insieme di alberi, per quanto costruito, vuole richiamare la simbologia del bosco. Già nella mitologia greco/ romana i boschi erano considerati luoghi sacri dove le divinità abitano alberi, rupi, ruscelli e fonti, a ognuna delle quali è tributato un particolare culto. Sono luoghi in cui l’uomo può venire a contatto con il divino. Tra gli alberi nel parco, in particolare sottolineiamo la presenza dei tigli e dei ginko biloba.

PRATO VERDE: Il prato è lo spazio prevalente del Parco Incerto. Con il termine hortus i romani intendevano indicare il terreno destinato alla coltivazione degli ortaggi, mentre il medesimo termine al plurale, horti, è riferito al giardino destinato per lo più 172

PROGETTO

Seduta collettiva scala 1:250


tissime aiuole anche con effetti dissonanti nelle forme e nei colori. All’interno del recinto, quando i percorsi tra gli alberi si sono persi e ritrovati, il progetto prevede una zona a prato fiorito in cui l’uomo può essere coinvolto sensorialmente. Il prato semplice lascia spazio a zone profumate, colorate, inebrianti.

ACQUA: Immagine archetipica del flusso primordiale, connessa alla creazione del mondo e sorgente di vita, ma nel medesimo tempo elemento di dissoluzione sotto forma di diluvio, l’acqua è una componente fondamentale del giardino. In qualunque giardino e in qualunque epoca la sua presenza custodisce un messaggio da decifrare, suscitando al contempo una particolare predisposizione d’animo. Il placido gorgogliare delle acque insieme al fresco dell’ombra invitano, come ricorda Socrate nel Simposio, all’attività speculativa. Dal ‘700 la fontana si spoglia delle sue valenze allegoriche per tornare ad esprimere tutta la sua naturalezza nell’immagine del ruscello, del lago e della sorgente. Ed è proprio questo l’elemento che abbiamo volu-

Ninfee, Claude Monet, 1905

to riprendere nella proposizione dell’acqua come elemento che attraversa il giardino per condurre l’uomo al centro dello spazio, all’origine della vita. E’ quindi presente un corso d’acqua che si allaccia alle risorse idriche del territorio. Il flusso accompagna il visitatore dal Parco Incerto al Parco Contemplativo. All’interno della Polveriera è infine pensata la presenza di una fonte d’acqua a specchio che segna il compimento del percorso fisico e umano.

PROGETTO

Allacciamento rete idrografica scala 1:10000

173


Il tiglio

Il prato

Il melo

La ghiaia

Il platano

La magnolia

174

I campi di lavanda

I campi fioriti


TIPOLOGIE ARBUSTIVE E STAGIONALITA’: Le principali tipologie arbustive presenti nel parco sono il tiglio, la magnolia, il platano e il melo.

TIGLIO Pianta arborea decidua originaria dell’Europa e del Caucaso, diffusa in gran parte dell’Europa; raggiunge i 35-40 m di altezza. Ha chioma tondeggiante, imponente, foglie ovali verde scuro sulla pagina superiore, verde chiaro sulla pagina inferiore. MAGNOLIA Appartenente alla famiglia delle magnoliaceae, è un albero dall’importante valore ornamentale. Apprezzata in modo particolare per la sua bella fioritura che risalta con la sua tonalità candida tra il mese di marzo e quello di giugno. PLATANO Pianta arborea decidua. Ha fusto eretto e chioma piramidale, che diviene tondeggiante negli anni, raggiunge un’altezza vicina ai 30 m e una larghezza pari all’altezza; i rami sono numerosi e spesso hanno andamento disordinato; la corteccia è liscia e sottile. MELO Il melo è un piccolo albero deciduo di 5-12 metri di altezza, con una chioma densa ed espansa e apparato radicale superficiale. Le foglie sono alterne e semplici, a lamina ovale, leggermente seghettate, con apice acuto e base arrotondata. 175


RINATURALIZZAZIONE Per fasi e per parti E’ possibile ricostruire con qualche approssimazione i termini della sequenza evolutiva: prato, zone fiorite, alberature, ma non si può fissarne il calendario con precisione e neppure la forma esatta. Il futuro del Parco Incerto è imprevedibile perchè risponde alle necessità di adattamento all’ambiente. Tuttavia si sono ipotizzate le seguenti fasi di rinverdimento e rinaturalizzazione del parco.

FASE 1_anno 2015 La rinaturalizzazione inizia dalla zona centrale del parco, la zona più vissuta in quanto la più vicina alla facoltà di Economia e alla nuova Biblioteca. Inizia la piantumazione del manto erboso e degli alberi. All’interno del Giardino Contemplativo viene piantumata l’erba, in attesa della fioritura.

PROGETTO

Rinaturalizzazione scala 1:10000-1:5000

176


FASE 2_anno 2020 Nel corso degli anni iniziano a tracciarsi i percorsi incerti. Le piante ad alto fusto crescono e si compie il processo di fioritura all’interno del Giardino Contemplativo.

FASE 3_anno 2025 Infine si vanno a definire completamente i percorsi ipotizzati, gli alberi giungono alla loro dimensione massima mentre il Parco Incerto è ancora in divenire.

177


178


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

tempio lo spazio dell’altro

LO SPAZIO DELL’ALTRO

PROGETTO

Lo spazio vuoto scala 1:5000

179


LO SPAZIO DELL’ALTRO In che senso lo Spazio dell’Altro? E’ il nome che ho desiderato attribuire allo spazio progettato. E’ uno spazio “bianco” che resta incastrato tra i pieni delle maglie cittadine: è chiuso a nord dalla città storica, mentre da sud è spinto dalle strutture industriali dei primi anni del secolo scorso. Resta un immenso vuoto, parte integrante della città. E’ il vuoto dell’Altro. L’Al-

tro è l’altro tempo che abbiamo a disposizione, come abbiamo visto, oltre le ore lavorative, che dà senso alla nostra vita. Ma l’Altro è anche colui che incontriamo nello spazio contemplativo, il diverso da noi perchè altro da noi. E’ colui che incontriamo perchè parte della comunità degli uomini. L’Altro infine è l’altra dimensione, la sfera spirituale alla quale ci avviciniamo contemplando, meditando, lasciando spazio e tempo, restando in silenzio.

IL PARCO INCERTO

IL PARCO CONTEMPLATIVO

PROGETTO

Lo spazio dell’altro scala 1:5000

IL PARCO INCERTO

IL PARCO CONTEMPLATIVO

Lo Spazio dell’Altro rappresenta l’intero sistema del parco. Al suo interno distinguiamo però tra due parti, l’una priva di senso senza l’altra. La prima parte è il cosiddetto Parco Incerto. Si tratta della zona esterna al bastione Campo Marzio. In questa zona avviene il cammino di preparazione all’ingresso al centro del sacro. Si sviluppano i percorsi semi-spontanei e si incontrano gli elementi delle folies. In questo parco la presenza degli alberi è gestita da una griglia e predomina la presenza del manto erboso. 180

Una folye funge da punto di passaggio tra il Parco Incerto e il Parco Contemplativo. In questa nuova zona del parco si perde ogni forma di percorso, con l’eccezione del corso d’acqua che accompagna il visitatore dall’entrata nel recinto del bastione, fino alla discesa nello scavo. Lo scenario quindi è cambiato: il manto erboso viene sostituito da un manto fiorito, presenza di erbe profumate. La griglia degli alberi è sostituita da un loro distribuirsi fluido nello spazio. In questa zona ci si arriva attraverso un cammino.


LE DIMENSIONI DELLO SPAZIO DELL’ALTRO

132800 mq

PARCO Parco Incerto Parco Contemplativo

x102

5000 mq

PIAZZA Spazio della Contemplazione Spazio dell’Incontro

x4

SPAZIO DELLA CONTEMPLAZIONE

325 mq

SPAZIO DELL’INCONTRO

700 mq

FOLIES

n.6 tot. 150 mq

ALBERI

n.250

VUOTO

132800 mq

Ma allora il vuoto qual’è in questo Spazio dell’Altro? Il vuoto è lo spazio che concede la fatidica domanda “dove sei?”. Tutto dunque all’interno del parco è pensato per essere un cammino verso il cuore della domanda. Il vuoto è dunque l’intero parco.

x102 181


PARCO INCERTO

PARCO CONTEMPLATIVO

182


FACOLTA’ DI ECONOMIA esistente

MUSEO STORICO esistente

PARCO INCERTO

BIBLIOTECA UNIVERSITARIA esistente

CAMPO SPORTIVO esistente

PARCO INCERTO

PARCO FUORI LE MURA

PROGETTO

Schema funzionale scala 1:2000

183


DA LUOGO DI GUERRA A LUOGO DI PACE Girando oggigiorno per le nostre città spesso ci imbattiamo in una chiesa sconsacrata, in una sinagoga riconvertita a nuovi usi. La maggior parte delle volte queste strutture vengono convertite in edifici commerciali, spesso si tratta di banche. Nel passato, i templi, venuto meno l’uso per cui

da Tempio a Deposito per le armi

venivano costruiti, spesso venivano riutilizzati come depositi per le armi, luoghi di appoggio per le funzioni di guerra. Da qui l’idea di riconvertire la caserma, e in particolare la zona del bastione Campo Marzio, oggi non più utilizzata, in un luogo “sacro”. La sua antica vocazione aiuta a fare memoria di ciò che divide e a sottolineare ciò che invece unisce: la pace.

da Deposito per le armi a Tempio

P

In periodo moderno il Partenone fu trasformato in chiesa cristiana e poi in moschea. Quando la Grecia fu conquistata dall’impero ottomano, i turchi utilizzarono il tempio quale deposito di armi e munizioni. Nel 1687 durante l’assedio veneziano alla città di Atene, un colpo di mortaio sparato da una nave colpì il tempio che ne rimase praticamente distrutto. In seguito si provvide alla ricollocazione delle parti superstiti, ricostruendo solo parzialmente il tempio, al quale tuttavia mancano numerose parti scolpite che nel XVIII secolo gli inglesi acquistarono dai turchi e trasportarono a Londra dove sono conservate nel British Museum.

184


ACCESSI E PARCHEGGI L’accesso all’area di progetto avviene da diverse aperture. Gli accessi sono posizionati lungo le mura di cinta che recintano lo spazio. L’accesso principale è situato di fronte al Polo Universitario Zanotto, e in corrispondenza con questo accesso è stata pensata la possibilità di parcheggiare la propria vettura. Si sfrutta inoltre la presenza dei parcheggi preesistenti, presenti nell’area e segnati nella grafica. Un altro accesso è posizionato direttamente sul bastione. Questo varco è pensato per facilitare l’accesso a coloro che fanno uso dello spazio per l’incontro interreligioso e per non obbligare all’attraversamento del parco per giungere all’edificio. Gli ultimi due accessi sono pensati dalla porta ad est dal bastione, dove attualmente passano i binari inutilizzati della ferrovia, e da via Cantarane, l’ultimo ingresso al parco. Infine, il parco è completamente permeabile dalla zona residenziale, che fonde il verde privato con il verde cittadino. Oltre ai due percorsi indicati, si sviluppano nel parco numerosi camminamenti: si tratta di tragitti ipotizzati, immaginando siano tracciati dal camminamento negli anni, come viene meglio spiegato

nella sezione relativa al percorso. Il parco rimane quindi interamente percorribile, senza vincoli di percorso. Nella zona del Parco Contemplativo, all’interno del bastione, sfuma ogni sorta di percorso, rimanendo ad indicare una percorrenza soltanto il flusso dell’acqua.

percorsi incerti percorsi principali parcheggi

P

accessi principali punti di permeabilità

P

P

P

P

PROGETTO

Accessi e parcheggi scala 1:5000

185


proiettori LED lampione LED colonne LED per montaggio su fondazione PROGETTO

Sistema di illuminazione

apparecchi di illuminazione rettangolare da incasso a parete

scala 1:5000 apparecchi di illuminazione circolare da incasso a pavimento VEDI Pianta 1:250

SISTEMA DI ILLUMINAZIONE Il sistema di illuminazione è un elemento fondamentale per la sicurezza nel parco, in particolare nelle ore serali. La supervisione del parco avviene principalmente grazie alla presenza del nuovo Polo Bibliotecario che resta aperto 24h su 24. Rimane comunque essenziale pensare ad un sistema di illuminazione per coloro che attraversano il Parco Incerto la sera. Sono stati disposti una serie di apparati luminosi in corrispondenza di ogni folye e in corrispondenza di ogni accesso al parco. Lungo tutti i percorsi è posizionata una serie di apparecchi di illuminazione a terra. Infine si è pensato anche di illuminare il percorso esterno alle mura, che conduce all’entrata nel bastione, rimanendo sotto quota rispetto all’asse stradale. Nel complesso contiamo tre diversi tipi di apparati luminosi, a seconda che si illuminino i camminamenti, le isole che ospitano le folies o che si tratti di illuminazioni ad ampio raggio. Non è stato svolto un preciso studio illuminotecnico, la disposizione degli apparecchi è quindi puramente qualitativa. 186

PROGETTO

Schema di illuminazione del muro scala 1:100


PROGETTO

Colonna LED per montaggio su fondazione scala 1:20

0.22

piastra di ancoraggio

0.39

viti di ancoraggio

lampada fluorescente

corpo in alluminio

0.75

1.18

viti per ancoraggio base di cemento

PROGETTO

Apparecchio di illuminazione circolare da incasso a pavimento scala 1:10

vetro temprato

lampada alogena

controcassa per la posa

corpo in acciaio

corpo in acciaio INOX

pressocavo in acciaio

0.15 0.20

0.19

materiale drenante

terra compatta

187


spazio dell’incontro 700 mq

camminamenti sotterranei

terrapieno

188


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

stanza l’incontro con il sacro

spazio della contemplazione 325 mq

piazza 3965 mq

polveriera 323 mq

muro della storia

scalinata

PROGETTO

Il centro scala 1:500

189


PROGETTO

Associazionismo scala 1:20000

ASSOCIAZIONISMO COME MODALITA’ DI GESTIONE DEL TERRITORIO L’associazionismo e il volontariato rappresentano una presenza significativa e concreta nella costruzione del parco delle mura cittadine. I cittadini e le loro organizzazioni, infatti, contribuiscono alla gestione dei bisogni del territorio, partecipando con le istituzioni alla creazione di interventi e risposte adeguate alle necessità della comunità veronese. Lo Spazio dell’Altro si inserisce in un progetto a scala più vasta che prevede di creare un parco lineare continuo attorno alla cinta muraria cittadina. Il parco deve risultare interamente percorribile, senza punti di discontinuità. La cinta muraria diventa il luogo in cui il cittadino può spendere il suo tempo libero, potendo scegliere tra una 190

gamma differenziata di utilizzi del parco. Il verde si tematizza, e i vari bastioni diventano luoghi destinati ad usi specifici. Ciò implica una più efficace gestione del territorio. Ogni sezione del parco lineare viene data in gestione ad un’associazione che ha il compito di amministrare l’area in questione. Lo Spazio dell’Altro ha come tema, come abbiamo visto, la contemplazione e l’incontro tra uomini e tra culture. A questo fine, viene appunto dato in gestione alla Diocesi di Verona, che si occupa di Ecumenismo e Dialogo Interreligioso, per ospitare nello spazio eventi per la sensibilizzazione alla diversità. Lo spazio resta inoltre a disposizione per gli incontri delle diverse comunità religiose e non. Parte della gestione del parco è inoltre lasciata all’Università. Resta infine sempre a disposizione di tutti una stanza per il silenzio e la preghiera.


FUNZIONI DEGLI SPAZI

PROGETTO

Funzioni degli spazi Le due strutture che affacciano allo scavo individuano diverse funzioni dello spazio. Distinguiamo in primis tra la struttura dedicata all’incontro per le varie comunità religiose ed etniche, e lo spazio dedicato alla contemplazione. I due spazi compenetrano le proprie funzioni. La polveriera, che occupa uno spazio privilegiato all’interno dello scavo svolge diverse funzioni simboliche. In primis il rudere della polveriera diventa frammento a ricordo dell’azione della guerra e della divisione tra gli uomini. Contemporaneamente ospita all’interno dei suoi vani gli elementi naturali, che riportano all’essenzialità e ai principi generatori della materia. all’ingresso, sulla sinistra un focolare sempre acceso simboleggia la presenza del fuoco. Parallelamente una stanza vuota è il luogo dell’aria. Proseguendo si trova una grande anfora d’acqua, che si contrappone alla presenza di un ulivo, che oltre a simboleggiare la terra, richiama anche alla pace.

scala 1:1000 spazio per l’incontro spazio per la contemplazione fuoco aria acqua terra

191


SERVIZI INGRESSO

BIBLIOTECA

SALA PER INCONTRI

SPECCHIO D’ACQUA

SPAZIO PER LA CONDIVISIONE

PIAZZA POLVERIERA

PROGETTO

Pianta spazio dell’incontro scala 1:250

192

SCALINATA


PROGETTO

Pianta spazio contemplativo scala 1:250

apparecchi di illuminazione circolare da incasso a pavimento

rovere chiaro

ghiaietto

AREE PER LA CONTEMPLAZIONE

pianta di ulivo

pianta di bamboo

tavole in legno composito PIAZZA

ampolla d’acqua

fuoco

lastre in ardesia

SPECCHIO D’ACQUA

dolomia

ghiaia bianca

193


LO SPAZIO CONTEMPLATIVO E LO SPAZIO DELL’INCONTRO All’interno dello spazio dello scavo affacciano dunque due strutture: uno spazio a disposizione per gli incontri delle diverse comunità religiose e non presenti in larga scala nella zona, e uno spazio che resta a disposizione di tutti, in cui vige il silenzio, per la meditazione e la contemplazione. Quest’ultimo spazio affaccia sullo scavo e guarda verso il rudere della polveriera. Lo spazio per l’incontro ospita al suo interno uno spazio bibliotecario, uno spazio per le conferenze e il blocco dei servizi. All’interno dello spazio per la contemplazione troviamo invece una serie di spazi ricavati come delle nicchie, in cui una lunga scalinata in legno chiaro ritma lo spazio.

194


PROGETTO

Sezione dello spazio contemplativo scala 1:100

195


196


Vista dello Spazio per la Contemplazione

197


198


PROGETTO

Sezione dello spazio dell’incontro scala 1:100

199


200


PROGETTO

Planivolumetria scala 1:500

201


PROGETTO

Fuoco

struttura in vetro adduttori camino in acciaio inox

202


PROGETTO

Ampolla d’acqua scala 1:20

ampolla in ardesia

0.70

ampolla in ardesia

1.13

protezione visiva

0.11

tubo in pvc di scarico tubo in pvc di adduzione

203


PROGETTO

Sezione spazio contemplativo_1 scala 1:50

VEDI Sezione spazio della contemplazione_2

VEDI Sezione spazio della contemplazione_3

204


205


copertina in alluminio

0.23

1.00

rivestimento in lastre composite in ardesia con sottostruttura alveolare polimerica VEDI Particolare prospetto silicone muretto in cls intonaco massetto

1.00

1.50

cordolo di chiusura isolante termico e acustico parete in cls intonaco

serramento in acciaio

0.14

0.09

brise soleil

206


PROGETTO

Sezione spazio contemplativo_2 scala 1:10

rivestimento in biancone sp.3 cm

0.10

terriccio ghiaietto drenante 0.20

malta di allettamento e collante da esterno vespaio in cupolex cls strutturale sabbia compatta

soletta in cls

isolante ad alta densitĂ

traveti latero cementizi

pignatte

cordolo in cls

cls alleggerito

0.25

0.07

0.10

0.65

0.17

0.30

207


PROGETTO

Particolare della pavimentazione esterna della piazza scala 1:10 lastre in ardesia a spacco

impasto di conglomerato cementizio massetto in cls

terreno

lastra in ardesia rettificata 50x50

0.10

massetto

barriera vapore

0.10

0.10

soletta per passaggio impianti

0.30

rete elettrosaldata

magrone con rete elettrosaldata

0.10

vespario in cupolex

fondazioni

tessuto non tessuto magrone terreno naturale

208

0.40

terreno pressato


PROGETTO

Sezione spazio contemplativo_3 scala 1:10

rivestimento in lastre composite in ardesia con sottostruttura alveolare polimerica muro in cls armato isolante termico alta densitĂ ghiaia drenante guaina bituminosa

0.50

guaina di protezione

1.10

209


EVOLUZIONE DELLA POLVERIERA •

Tra il XVIII secolo e il XIX secolo gli interventi asburgici producono il definitivo consolidamento della funzione esclusivamente militare dell’area di Campo Marzo. Tra gli edifici militari che vengono costruiti c’è anche la Polveriera per il tempo di guerra.

Nel corso del Novecento la superficie di Campo Marzio è ridotta, pur mantenendo l’importanza militare come centro di servizio logistico e sede di unità operative.

Durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti aerei danneggiano le strutture sopra descritte e al loro posto sorgono altre costruzioni militari.

Allo stato attuale, dopo lo scavo si ipotizza quindi il ritrovamento di uno stato danneggiato della polveriera, scoperchiata e sbrecciata.

Non ci è dato di conoscere una situazione più

Mappa della città di Verona, 1869

210

precisa. Per questo motivo il progetto di restauro non viene approfondito. IL RECUPERO DEL RUDERE Che bisogno c’è di progettare un restauro sul rudere esistente della polveriera? I motivi del progetto nascono dal configurarsi indistinto e dal coagularsi e manifestarsi poi, di una nostra insoddisfazione, inquietudine o senso di disagio di fronte all’edificio. Il dubbio di fronte all’architettura che decade è contradditorio: sorge il desiderio che resti com’è, perchè possa continuare ad esercitare su di noi il fascino legato anche al suo declino. Di fronte al rudere ci facciamo interpreti del bisogno di conservazione e manutenzione che la costruzione ci pone. Possiamo porci nel presente rispetto agli effetti del passato come riparazione di danni già subiti, o nel presente rivolto al futuro come prevenzione di danni possibili. L’istanza estetica del restauro così concepita deriva principalmente dal richiamo dell’opera di architettura all’idea di intergrità, di compiutezza


figurale. V’è una sorta di inerzia nell’immagine di una architettura quando per vari motivi risulta incompleta, che porta la nostra mente ad integrarla. L’idea di compiutezza e di integrità architettonica è cogente in un numero limitato di manufatti, in molti altri lascia spazio a quel presentarsi dignitoso che permette ad un’architettura di esprimere il proprio carattere, iniziale o acquisito. Nel caso della polveriera la percepibilità della storia vissuta dall’edificio costituisce il suo principale appeal, fondato su un sentire più complesso e articolato rispetto al vedere che si limita a paragonare l’oggetto con l’icona del suo stato integro. Il valore del rudere rappresenta il valore stesso dell’edificio. Il suo aspetto frammentato ne racconta il significato profondo, e mostra la ragione d’essere dello scavo e del suo ritorno alla luce. Ci apriamo dunque alle estetiche dei significati non solo storici, che attribuiamo all’oggetto. Ci sono forme di decadimento o di riduzione a frammento che portano l’opera ad una nuova compiutezza estetico-percettiva, e questa ci permette di distaccarci dall’idea di integrità e dalle aspettative che ne possono nascere. Ci interroghiamo su quale sia in quest’architettura il centro della sua bellezza, se coincida con ciò che è già di fronte ai nostri occhi o se debba essere spostata, e in che direzione e di quanto. La scelta in questo frangente è volta al rispetto dello stato ipotizzato in seguito allo scavo. Si ritiene essenziale conservare il manufatto nello stato frammentato del ritrovamento. Si sceglie di adottare il criterio del minimo intervento, che obbedisce sia alla volontà di agire con discrezione, utile a ridurre il gradiente di cambiamento, sia al principio di precauzione. Quest’ultimo vigila sulla nostra ricerca di efficacia sia a fini conservativi che per rispondere alle aspettative. Per un relitto come quello di fronte al quale ci poniamo questi interrogativi, l’architettura rischia di venire umiliata dal degrado, e la restituzione di dignità propria pur nella custodia del suo stato visivo diventa un modo di rafforzare l’oggetto restituendogli la capacità di autoproteggersi, allontanando il momento di una trasformazione radicale o della distruzione.

Riqualificazione di Salemi, Alvaro Siza, 1991-1998

Riqualificazione di Salemi, Alvaro Siza, 1991-1998 Salemi è un piccolo borgo italiano in provincia di Trapani. Nel 1968 un violento terremoto ha colpito l’Isola e gran parte del paese è andata distrutta. Alvaro Siza e Roberto Collovà hanno proposto una riqualificazione all’inizio degli anni ‘90. Il disegno del vuoto è tema fondamentale del progetto, delineato segnando la geometria delle pavimentazioni e il sistema dei dislivelli.

211


IPOTESI DI TRATTAMENTO DELLA SUPERFICIE MURARIA SBRECCIATA

In linea generale si potrebbe procedere in questo modo:

Non siamo in grado di valutare con precisione lo stato del rudere della Polveriera austriaca interrata nel Bastione Campo Marzio. Non conosciamo le superfici, le murature, nè tanto meno lo stato di degrado. Per questo motivo possiamo soltanto ipotizzare il comportamento da adottare nei confronti del manufatto. Ipotizziamo di intervenire consolidando il perimentro murario con materiali fibro rinforzati.

-pulitura della superficie muraria -applicazione del primer epossidico -applicazione di un primo strato di resina -applicazione dei nastri in carbonio -applicazione dell’overcoating: ulteriore strato di resina -verniciatura ed intonacatura dei nastri per la protezione da agenti atmosferici

regolarizzazione con malta tixotropica

paramento murario

PROGETTO

Schema di restauro degli sbrecci scala 1:10

L’isola dei morti, Arnold Bocklin, 1880

212

0.20 0.04

nastri in fibra di carbonio

0.26

0.20

0.20


Guernica, Pablo Picasso, 1937

FRAMMENTO E ROVINA L’immagine della rovina appare in ambito rinascimentale come invito a ricostruire un passato glorioso ormai scomparso. Più tardi la figura del rudere abbattuto dal tempo distruttore tende ad evocare riflessioni malinconiche in ricordo dei tempi passati, trasformando il giardino in un luogo di silenziosa contemplazione e meditazione. Nella rovina si celebra il tema del memento mori, della meditazione sulla caducità della vita, del decadimento irreversibile che porta alla disgregazione e alla morte. L’estetica delle rovine va quindi diffondendosi nel giardino paesaggistico attraverso la diffusione di ruderi, anche falsi e appositamente costruiti. Il rudere della polveriera che qui si presenta, mostra sé stesso frammentato. Il frammento, come nell’opera di Piranesi, si mostra come un infranto non ricomponibile. Il passato non offre insegnamenti e non trasmette messaggi se la curiosità non lo interroga e l’invenzione non lo interpreta. L’immagine del rudere sbrecciato crea un’esibizione indiretta, simbolica, di qualcosa di misterioso che ci unisce. Da qui il riferimento al celeberrimo quadro di Guernica. E’ un’opera che fin da quando fu esposta nel Padiglione Spagnolo dell’Esposizione Universale di Parigi nel 1937, destò nel mondo libero scalpore e commozione. Non c’è più colore, così come nel rudere non ci sono più decorazioni, abbellimenti. Tutto appare scomposto e confuso. Le bocche dei personaggi urlano digrignanti dolore e vendetta verso il cielo.

Allo stesso modo la polveriera, che deteneva armi e esplosivi, urla verso il cielo, esponendosi sbrecciata lungo tutto il perimetro superiore e grazie all’esplosione della sua copertura si mostra come una bocca spalancata. Il rudere vuole rappresentare un manifesto contro ogni forma di violenza, di guerra, di discriminazione, mettendo in evidenza, come nell’opera di Picasso, l’irrazionalità della sofferenza che colpisce indistintamente, senza distinguere nemmeno tra animali e persone. Ed è proprio l’intento di spostare il significato semantico del rudere che ha guidato la scelta di approccio rispetto alla morfologia del terreno. Non si è scelto infatti di riportare alla luce la polveriera tentando di ricostruire l’andamento del terreno precedente alla costruzione delle Caserme Passalacqua. Questo avrebbe significato restituire al rudere la sua antica valenza, riportarlo in una semantica significante il suo antico utilizzo. Scegliere invece di incidere il terreno con uno scavo, crea un taglio con il passato, e ripropone il manufatto nella sua nuova valenza: l’espressione del frammento prodotto dalla guerra. La ricostruzione filologica non risulta a questo fine interessante da riproporre. Ed è proprio questo frammento, portato alla luce con l’incisione, che diventa punto attrattivo della contemplazione.

213


muro della memoria

rivestimento facciata in ardesia

PROGETTO

Prospetto_1 scala 1:250

2

1

sezione spazio per l’incontro

214

finestra scorrevole

soglia 17 cm


soglia 17 cm

finestra scorrevole

sezione spazio per l’incontro

PROGETTO

Prospetto_2 scala 1:250

rivestimento facciata in ardesia

rampa di discesa allo scavo

sezione spazio per la contemplazione

215


4

PROGETTO

Sezione spazio contemplativo_4

setti rivestit in ardesi

scala 1:250

5

PROGETTO

Prospetto spazio contemplativo_5 scala 1:250

rampa di discesa allo scavo

216

finestra scorrevole

rivestimento facciata in ardesia


ti a

scala in cls

soglia 17 cm

scalinata per la contemplazione

muro della memoria

mura storiche

217


0.70 1.00

LASTRA DI LISTELLI DI ARDESIA Lastra preformata di listelli di ardesia, di dimensione complessiva 100x70. I listelli sono aggregati per facilitarne la posa. Le lastre vengono poi posizionate una accanto all’altra e fissate ad un pannello di poliuretano alveolare. Il tutto viene ancorato alla parete tramite incollaggio e fissato con dei profili metallici a Z.

218


ARDESIA L'ardèsia (detta anche pietra di Lavagna) è una particolare varietà di roccia metamorfica allotigena di origine sedimentaria. Si tratta di una varietà di scisti calcareo-argillosi facilmente divisibili in lastre sottili, piane, leggere, impermeabili e resistenti agli agenti atmosferici, derivanti da basso metamorfismo di rocce sedimentarie formate dalla deposizione di un limo finissimo (marna) dovuto all'erosione di antichi rilievi, l'ardesia è una roccia classificata come tenera o semi-dura. È una pietra molto carcarifica e compatta, di colore plumbeo-nerastra e facilmente lavorabile. L'ardesia tende a schiarirsi dal momento dell'estrazione fino ad assumere una pigmentazione grigio chiara, la tonalità scura essendo dovuta a residui carboniosi che volatilizzano una volta a contatto con ossigeno, umidità e radiazioni ultraviolette.

scossalina in rame lastre 100x70 realizzate con listelle in ardesia 5x10-40

pilastrino in cemento armato rasatura colorata

brise soleil in listelli di legno composito

soglia con rasatura colorata

PROGETTO

Particolare del prospetto scala 1:50

219


PROGETTO

Funzionamento pavimento flottante interno alla Polveriera

max 50 cm

moduli in legno composito per esterni

piano di posa con pendenza 1%

moduli in legno composito per esterni profilo metallico di montaggio

220


PROGETTO

Funzionamento del Brise Soleil

1,7 m

7 cm

muro esterno

14 cm

2 cm listelli di legno composito

profilo metallico fissato internamente

221


Nudo maschile seduto, Diego De Minicis, 1932

222


PROGETTO

Sezione scala interna scala 1:20

rovere chiaro

massetto

isolante termico alta densitĂ

soletta in cls armato

struttura in legno 5x5

223


224


Vista interna dello Spazio per la Contemplazione

225


PERCORSI INCERTI

PERCORSI FORSE

ZONA INFORMAZIONI

PERCORSO LUNGO LE MURA

ghiaino

policromo

ghiaia

tappeto erboso

226


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

percorso lo spazio di decostruzione

PARCO INCERTO

PERCORSI FORSE

SERVIZI IGIENICI PARCO INCERTO PERCORSI INCERTI

profili in legno

estruso

tracce

in dolomia

PROGETTO

Percorsi Incerti scala 1:500

227


cordolo in cls

profilo metallico

terreno naturale

sottofondo in ghiaione

pietra frantuma

allettamento in granello di

I percorsi, come abbiamo visto, sono ispirati dal semplice camminare. Tuttavia si pensa di tracciare dei percorsi, che abbiano questa valenza, per ispirare il visitatore nel procedere con lo stesso criterio. Si creano dunque dei segni leggeri sul territorio del parco, in cui la terra battuta finisce nel ghiaino.

ghiaino sparso

TRACCIAMENTO DEI PERCORSI

sottofondo in ghiaia compatta

0.11

0.34

0.15

0.12

0.05

1.50

PROGETTO

Sezione percorso scala 1:10

CAMMINARE PER SEGNARE IL TERRITORIO I percorsi nel parco sono pensati per sembrare prodotti dal solo gesto del camminare. In ogni tempo il camminare ha prodotto architettura e paesaggio, e forse è il primo segno che si è impresso sul territorio. Questa pratica è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli artisti. Le strade non attraversano soltanto paesi e agglomerati, ma

generano nuove forme di spazio. Le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse dei luoghi.1 L’uomo è sempre diviso: in quanto abitante della terra ama stabilirsi, fondare, mettere radici, imprimere il proprio segno, e la strada in questa prospettiva appare come una minaccia che potrebbe turbare l’ordine stabilito. In quanto animale politico però l’uomo tende anche a lasciare la propria famiglia e le proprie cose volgendosi

1. JACKSON J.B., A Sense of Place, a Sense of Time, Yale University Press, New Haven 1994, pag.190

228


a luoghi più stimolanti, per cimentarsi e agire. Di fatto l’essere umano è stretto tra due desideri: stabilirsi da qualche parte, appartenendo ad un luogo, e trovare altrove un nuovo campo d’azione. L’atto di attraversare lo spazio nasce dal bisogno naturale di muoversi per reperire il cibo e le informazioni necessarie alla propria sopravvivenza. Ma una volta soddisfatte le esigenze primarie, il camminare si è trasformato nella forma simbolica che ha permesso all’uomo di abitare il mondo. Attraverso il percorso, i territori del caos sono stati penetrati costruendovi un nuovo ordine. L’erranza primitiva prende vita dalla transumanza nomade e continua a vivere nella religione, in cui il percorso è interpretato come rito, e nelle forme letterarie, che vedono il percorso come narrazione. Si trasforma poi in percorso sacro, danza, pellegrinaggio, processione. Ora il percorso, svincolato da religione e letteratura ha assunto lo statuto di puro atto estetico. Oggi si può costruire una storia del camminare come forma di intervento urbano, che porta con sé i significati simbolici dell’atto creativo, primario. Il movimento Dada nel 1921 organizzò a Parigi una serie di visite e escursioni nei luoghi banali della città. I dadaisti scoprono nel camminare una componente onirica e surreale e definiscono questa esperienza come deambulazione, una sorta di scrittura automatica nello spazio reale, capace di rivelare le zone inconsce e il rimosso della città. Il camminare diventa un mezzo attraverso cui inventare nuove modalità per intervenire negli spazi pubblici metropolitani, per investigarli, per renderli visibili. E’ uno strumento estetico in grado di descrivere e modificare quegli spazi metropolitani che presentano spesso una natura che deve essere ancora compresa e riempita di significati, piuttosto che progettata e riempita di cose.2 IL PARCO INCERTO Prima dell’azione di Dada, l’attività artistica poteva inserirsi nello spazio pubblico attraverso operazioni di arredo quali l’installazione di oggetti scultorei nelle piazze e nei parchi. Da questa esperienza in poi, intervenire sul luogo non è necessariamente lasciarvi un oggetto o prelevarne altri, ma visitare il luogo camminando, senza compiere alcuna operazione materiale. La deambulazione porta con sè l’essenza dello spaesamento, dell’abbandono, dell’inconscio, della

Line made by Walking, Richard Long, 1967 Una linea retta scolpita sul terreno semplicemente calpestando l’erba. Il risultato di questa azione è un segno che scomparirà al rialzarsi dell’erba. L’immagine dell’erba calpestata contiene in sé la presenza dell’assenza: assenza dell’azione, assenza del corpo, assenza dell’oggetto. Ma d’altra parte è inequivocabilmente il risultato dell’azione di un corpo ed è un oggetto.

volontà di un ritorno a spazi vasti e disabitati, ai confini del reale. Ad un differente uso dello spazio corrisponde poi anche un differente uso del tempo. Pensiamo a Caino ed Abele: il lavoro di Abele, che consisteva nell’andare per i prati a pascolare il bestiame, era un’attività privilegiata rispetto alle fatiche di lavoro di dover stare sui campi per arare, seminare e raccogliere i prodotti della terra. Mentre la maggior parte del tempo di Caino è dedicato al lavoro, ed è quindi interamente un tempo utile-produttivo, Abele ha una grande quantità di tempo libero da dedicare alla speculazione intellettuale, all’esplorazione della terra, alla contemplazione. Al camminare è associata già in origine la ricerca di qualcosa che va oltre l’utilità materiale dei bisogni primari, qualcosa di più simile all’arte, all’anima. Lo spazio sedentario è inoltre più denso, più solido e quindi più pieno,

2. CARERI F., Walkscapes, Ed. Giulio Einaudi, Torino 2006, pag.9

229


Genzano, Piero Dorazio, 1996

mentre quello nomade è meno denso, più liquido, quindi vuoto. In questa prospettiva diventa urgente preparare una rivoluzione fondata sul desiderio: cercare nel quotidiano i desideri latenti della gente, provocarli, risvegliarli e sostituirli a quelli della cultura dominante. Così facendo, l’uso del tempo e dello spazio sfuggono alle regole del sistema e ricostruiscono nuovi spazi di libertà. Un luogo della città diventa uno spazio da vivere collettivamente, dove sperimentare un comportamento alternativo, quello della contemplazione, dove perdere il tempo utile per trasformarlo in tempo umano. Si crea una sorta di Terrain Vague, un luogo vuoto, indeterminato senza limiti precisi, fuori dal circuito delle strutture produttive della città. Si mostra come la contro-immagine della città, nella quale i percorsi si prestano all’uomo per scoprire lo spazio. E’ lo spazio del possibile, che si pone come rivelatore di una relazione tra l’assenza di utilizzazione e il sentimento di libertà. I percorsi tracciati nel nostro spazio non sono determinati da un punto di partenza e un punto d’arrivo, sono percorsi di libertà, di scelta, di indeterminatezza. Rappresentano i tentativi degli uomini venuti prima di noi di trovare una strada.

Rappresentano il tracciato dei loro piedi. Come diceva Francis Bacon, siamo nani sulle spalle dei giganti, ovvero ripercorriamo le strade di chi è stato prima di noi per poter progredire e guardare oltre. Lungo questi percorsi è possibile perdersi. Perdersi significa che tra noi e lo spazio non c’è solo un rapporto di dominio, di controllo da parte del soggetto, ma anche la possibilità che sia lo spazio a dominare noi3. Lo spazio che ne deriva è una sorta di Parco Incerto, un luogo in cui predomina la natura, in cui i percorsi sono tracciati spontaneamente dai tentativi degli uomini passati prima di noi. I sentieri sono definiti dai passi, influenzati dalla sola presenza degli alberi, del sole e delle folies. Il solo strumento impiegato è il corpo, le sue possibilità di movimento. I percorsi vengono così ipotizzati con questo criterio, il corpo è strumento di misura dello spazio e del tempo. In questo modo il Parco Incerto diventa la rappresentazione estetica dell’esperienza del camminare e si trasforma in esperienza per coloro che ne solcheranno le tracce. Ogni uomo è alla ricerca di un medesimo punto, pur su cammini diversi, ma riconosce negli altri dei predecessori sui cui passi appoggiare i propri. Si definiscono quindi due tipi di percorsi: quelli tracciati dal progettista, che si presentano come dei solchi nella terra, e quelli tracciati con la semplice distribuzione di lastre irregolari, che segnano possibili attraversamenti dello spazio. MENHIR-FOLIES Fin dal 1700 il giardino pian piano si popola di una serie di edifici, architetture e padiglioni orientaleggianti volti a caratterizzare la scena del giardino stesso. Talvolta come puri elementi decorativi, ma spesso come latori di un preciso programma iconografico, a esprimerne l’aspetto più segreto. Ogni cosa nel giardino assume un significato proprio. L’innalzamento dei Menhir rappresenta la prima azione umana di trasformazione fisica del paesaggio. La rotazione a 90 gradi e il conficcamento nel terreno attribuisce al monolite un nuovo significato: istituisce un tempo zero che si prolunga nell’eternità e un nuovo sistema di relazioni con gli elementi del paesaggio circostante. Tra gli altri significati i menhir, quali elementi riconoscibili, rivelano la geografia del luogo.

3. LA CECLA F., Perdersi. L’uomo senza ambiente, Ed. Laterza, Roma 2005, pag.57

230


Nel disorientamento creato dai percorsi, i menhir avevano una relazione con le rotte del commercio, accompagnando a destinazione il viaggiatore. Le zone su cui si costruivano le opere megalitiche erano una sorta di santuari verso i quali le popolazioni dei dintorni si spostavano in occasione delle festività, ma anche luoghi di sosta lungo le vie di transizione. Lungo il viaggio, così come oggi lungo il percorso, gli elementi verticali contrapposti all’orizzontalità del cammino, attirano l’attenzione dell’uomo in cammino, per comunicare la presenza di fatti singolari e informazioni relative agli altri territori intorno, informazioni utili al proseguimento del viaggio. Allo stesso modo le folies progettate nel Parco Incerto diventano luoghi che rivelano e anticipano al visitatore l’esperienza del vuoto e dell’inefficienza del luogo lasciato come uno spazio senza tempo. Lo spazio vuoto diventa una tela bianca, al centro del quadro della città, su cui disegnare camminando. E’ un diario di viaggio condiviso. Il camminare, il peregrinare, il cercare un tempo umano nella città di oggi non è così semplice. I nostri piedi trovano una serie di interruzioni e di riprese, frammenti di città costruita e zone non costruite che si alternano in un continuo passaggio dal pieno al vuoto.

Caja Metafìsica, Jorge Oteiza, 1958

Il parc de la Villette, progettato da Bernard Tschumi nel 1991, rappresenta un importante cambio di scena nell’approccio alla progettazione dei parchi. Lavora per livelli, e i punti di sovrapposizione delle griglie sono segnati dalle folies: un sistema puntiforme di oggetti collocati all’intersezione di un reticolo ortogonale, che si sovrappongono in modo indifferente al sito. Si tratta di piccoli edificiscultura che, dal punto di vista del linguaggio, fanno riferimento esplicito all’architettura costruttivista. Folye, Parc de la Villette, 1991

Peine del Viento, Edouardo Chillida, 1952

231


PROGETTO

Zona ristoro scala 1:250 Al centro del parco, vicino al Polo Universitario, è situata la Folye che ospita la zona ristoro. Si tratta di una delle sei isole presenti nel parco. La struttura è in cemento bianco, due vetrate aprono sulla piazza. La zona servizi del bar è posizionata al centro della struttura.

ghiaino policromo

tappeto erboso

A A giardino inglese

profili in legno composito estruso

ghiaia

232


PROGETTO

Sezione A-A della Zona ristoro scala 1:80

233


PROGETTO

Vista della Zona informazioni

234


PROGETTO

Funzione e posizione delle Folies scala 1:5000

FUNZIONE DELLE FOLIES Sono state individuate alcune funzioni da attribuire alle Folies, per migliorare la gestione del parco e la sua supervisione, ma anche per educare il visitatore all’utilizzo del luogo che sta attraversando. La loro posizione nel parco è pensata per rendere visibile le strutture a coloro che fruiscono visivamente dello spazio dai punti limitrofi.

area informazioni zona lettura ristoro ingresso al Giardino Contemplativo vuoto servizi igienici

235


A

-0.4

236

A

PIANTA

5.0

SEZIONE A-A

0.0

-0.2

ghiaia

giardino inglese

composito estruso

profili in legno

tappeto erboso

ghiaino policromo


PROGETTO

Ingresso scala 1:250 L’ingresso al Giardino Contemplativo avviene attraverso una struttura che prende come riferimento la pianta delle antiche tombe minoiche. Si tratta di una Folye di 5 metri d’altezza, in cui la luce penetra da uno spiraglio sulla cima. La pianta è studiata in modo che chi entra non intravede ciò che avviene dall’altra parte dell’ingresso. Questa folye si distingue dalle altre per suscitare nel visitatore la domanda che poi troverà compimento all’interno del Giardino Contemplativo.

Tomba Minoica di Nea Roumata, Creta

acqua

237


PROGETTO

Vista zona servizi igienici

238


4.ELEMENTI DEL PROGETTO

recinto da difesa a custodia

PROGETTO

Schema del recinto scala 1:5000

I DUE RECINTI Come abbiamo visto, il tempio è composto da questi tre elementi imprescindibili: la stanza, il percorso e il recinto. Se per i primi due è stato necessario pensare ad un modo per progettarli, nel caso del recinto è sorto inizialmente spontaneo leggerne la presenza nel territorio. Il primo recinto che si individua è appunto quello della cinta muraria, che circonda la città sin dalla sua fondazione. Si tratta di un recinto protettivo, costruito allo scopo di difendere la città e di fortificarla. Questo primo recinto definisce a sud la zona di progetto e chiude a nord il Parco Contemplativo, definendo la distinzione tra la zona segnata dai percorsi e la zona più meditativa. Questo il recinto che ricorda i confini esterni

dell’area del tempio descritto nel libro dell’Esodo. Si è poi resa necessaria un’ulteriore riflessione quando all’interno del recinto del bastione si è scoperta la presenza di un rudere interrato. Da qui l’idea di scavare e riportare alla luce le antiche vestigia, creando un secondo recinto. Quest’ultimo definisce uno spazio che interroga, in quanto interrato, in quanto non immediatamente leggibile. Ed è proprio in questo spazio che si trova la stanza: un ambiente definito dalle mura dello scavo, su cui affacciano le due strutture ipogee dell’incontro e della contemplazione. Questo secondo recinto definisce un luogo in cui il tempo si ferma, in cui non entra nemmeno la natura, ma resta soltanto un rudere al centro, ad interpellarci. Possiamo quindi dire che il recinto assume un nuovo ruolo, quello della custodia. 239


Vista delle mura dall’esterno del bastione

Vista dalla cima delle mura

240


IL LIMITE Nel corso del Medioevo il muro di cinta del giardino evoca la separazione tra la terra coltivata e la terra selvaggia, irta di pericoli. Non solo, il giardino recintato richiama alla mente l’immagine di un altro recinto, quello del Paradiso terrestre, da cui vennero cacciati Adamo ed Eva. E poiché la Vergine Maria, tramite tra uomo e Dio, incarna l’immagine del giardino chiuso, il recinto assume anche il significato di purezza e assenza del peccato. Nel corso dell’epoca rinascimentale e barocca il recinto cessa di porsi in contrapposizione alla natura, rimanendone separato. Tra l’uomo e la natura, tra il giardino e il territorio circostante, non vi deve essere più alcuna barriera: il giardino deve aprirsi sul paesaggio e deve poterlo comprendere nella sua visuale. Il recinto rappresenta per noi l’archetipo di ciò che segna il confine dell’avvicinamento fino al cuore dello spazio. Sono due gli elementi del progetto che ne definiscono le proprietà: prima di tutto le mura scaligere presenti con una volumetria molto consistente, che descrivono l’area del Giardino Contemplativo. In secondo luogo il muro attorno allo scavo, che definisce la zona del sacro. Sul muro attorno allo scavo affacciano gli ambienti dedicati alla preghiera, da una parte, e i luoghi destinati agli incontri interreligiosi dall’altra.

Il santuario della Verna, Arezzo

Black Square, Kazimir Malevich, 1915

LO SCAVO DI ROCCIA Nel capitolo 2 del libro del profeta Daniele, nella Bibbia, si parla di una statua abbattuta da una pietra. La statua è fatta dalle mani dell’uomo, mentre la pietra non è mossa da mano di uomo. La piccola pietra gettata contro la statua si trasforma in montagna. Sono evidenti qui due simbologie: la statua pur bella e preziosa, è di fatto instabile, rappresenta l’illusione umana, la caducità; infatti cade, crolla, va in frantumi. La pietra, al contrario, ha la caratteristica della solidità, ha la qualifica di essere un fondamento. Dio nell’Antico Testamento è qualificato come la Roccia. Come altrove si dice che egli è fuoco o che è acqua, così si dice anche che è roccia. A livello simbolico, quando si parla di “pietra”, si allarga lo sguardo a tutta la realtà solida, non solo al sasso, ma alla roccia, alla montagna e a quello che con le pietre si può costruire. La roccia richiama simbolicamente la grotta, che è una realtà scavata, è la fessura nella roccia. Le rivelazioni, le visioni, i luoghi della divinazione avvengono in genere in anfratti nella roccia. Si pensi ad esempio alla grotta di Lourdes, o ancora alla Verna, il santuario roccioso per eccellenza: la rivelazione del Cristo a San Francesco avviene in mezzo alla roccia. Sulla grande parete c’è addirittura un’insenatura che viene spiegata come un avvallamento della roccia che si ammorbidisce per proteggere Francesco affinchè non cada nel vuoto. Anche il sepolcro di Gesù era scavato nella roccia. Questa immagine della roccia accogliente che fa spazio per abbracciare l’uomo è 241


PROGETTO

Sezione dello scavo_1 scala 1:500

-3.8

242


il luogo dell’incontro, della trascendenza, della contemplazione. Non si tratta di una rivelazione, di una teofania, ma di un’esperienza di interiorità. Con riferimento al Mito della Caverna di Platone, possiamo dire che la caverna è il luogo del passaggio dalla non-conoscenza alla conoscenza, le roccia è come il seno della madre da cui parte la nostra esistenza, ha il significato di sorgente della vita. La pietra al contempo ha anche il significato della verticalità. Mettere una pietra in posizione verticale, fare una fila di pietre, richiama l’altro aspetto, assume il ruolo simbolico di verticalità cosmica. La montagna, in ambito simbolico, è la terra che si protende verso il cielo, è il desiderio di elevazione. Dio è ovunque, però simbolicamente alziamo lo sguardo verso il cielo. Il libro dei Numeri, al capitolo 20 narra l’episodio dell’acqua dalla roccia. La roccia da cui esce l’acqua di vita è Cristo, che accompagna il popolo nel cammino; l’acqua è il simbolo della vita. La scelta dello scavo si pone in questa prospettiva: riportare la polveriera alla luce custodendone la struttura, ma senza restituirle l’antico splendore del suo utilizzo. Al contempo, lo scavo ha lo scopo di riportare l’uomo al centro, in un “anfratto” nella terra, dove può cercare il Cielo.

Testa delle mura interne

IL GIARDINO CONTEMPLATIVO Si giunge quindi al Giardino Contemplativo: si tratta di una sorta di “giardino dell’Eden”, in cui le zone fiorite prevalgono sulle zone verdi e gli alberi restano fluidi nello spazio. All’interno del giardino si trova lo scavo che custodisce il cuore dello Spazio Contemplativo.

Vista delle mura interne dal bastione

0.0

-4.0

243


PROGETTO

Sezione dello scavo_2 scala 1:500

0.0

-3.8

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IL MURO DELLA STORIA La parete dello scavo direttamente a contatto con il terrapieno è interamente definita da un muro che si alza di due metri dalla quota esterna allo scavo. Il muro è l’unico elemento dello scavo immediatamente visibile a chi entra nell’area del Parco Contemplativo e che in qualche modo anticipa al visitatore il senso del luogo che sta per visitare. E’ prima di tutto un luogo di memoria, uno spazio in cui contemplare il mistero della propria esistenza, partendo dall’osservazione di ciò che c’è, di ciò che ci ricorda l’orrore della guerra, di ciò che separa anziché unire. Da qui l’idea di creare un memoriale. Memoriale indica, nella liturgia ebraica e cristiana, l’atto liturgico di far memoria di un avvenimento importante della storia della salvezza. Tale memoria è ritenuta attualizzante: il fatto ricordato è reso presente, e i suoi frutti resi disponibili per i partecipanti al rito. Il muro ha quindi lo scopo di avvicinare l’uomo che è arrivato fino a questo punto del cammino, al fare memoria di ciò che rende l’umanità divisa, schiava. Su questo muro sono rappresentate in forma di bassorilievo delle scene di guerra, che restano indistinte e universali, seguite dall’incisione dei nomi dei caduti nei conflitti dell’ultimo secolo, nel mondo.

Porta di Lampedusa, Mimmo Paladino, 2008

Memoriale della Shoah di Parigi, Roger Diener, 2012

-2.8

245


PROGETTO

Vegetazione sul terrapieno scala 1:100

arbusti

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TIPOLOGIE VEGETATIVE SUL TERRAPIENO Il terrapieno del bastione Campo Marzio ospita diverse tipologie arboree e arbustive. Il criterio adottato per la distribuzione del verde tiene conto delle pendenze e del verde originario. La zona interna alle mura ospita nella zona pianeggiante alberi ad alto fusto, in particolar modo tigli, betulle e magnolie. Scendendo lungo il pendio prendono posto gli arbusti di ginepro. All’esterno delle mura, dove il terrapieno è molto scosceso, il terreno è ricoperto solamente da un tappeto erboso.

alberi ad alto fusto

tappeto erboso

247


PROGETTO

Sezione della scalinata scala 1:100

248


conclusioni lo spazio concede la domanda?

Dove sei? E’ la domanda che ha dato vita a questo progetto di Tesi di Laurea. Il desiderio era quello di progettare un luogo, uno spazio, dove questa domanda potesse essere ascoltata. La riflessione è proseguita definendo i concetti fondamentali alla base di questa spazialità. Si sono quindi investigati i temi del vuoto, come generatore dell’architettura contemplativa; della contemplazione, come attività fondante dello spazio; del tempo libero, come il tempo di ricostruzione dell’uomo in quanto tale; e infine della comunità, come destinataria della domanda, come entità che si riconosce attorno all’umanità più profonda. Il lavoro è quindi continuato ricercando i canoni spaziali nelle esperienze antiche del costruire contemplativo. L’analisi è partita dall’osservazione del Tempio più antico: la Tenda dell’Alleanza, descritta nel libro dell’Esodo. Dal ridisegno della tenda sono emersi tre caratteri architettonici che sono risultati essere archetipi delle strutture per la contemplazione. Si tratta di stanza, percorso e recinto, che combinati insieme danno vita a dei luoghi che inducono all’atteggiamento contemplativo. La localizzazione scelta per il progetto corrisponde ad un ambiente in posizione centrale rispetto alla città, custodito dal recinto delle vestigia murarie. Si tratta di uno spazio su cui sorgeva una caserma, motivo per cui la sua conversione in luogo contemplativo risulta ancora più simbolica e suggestiva. Ora dovremmo chiederci se il luogo progettato risponda veramente a questa esigenza

di fermarsi, fare silenzio, ascoltare una domanda. A questo interrogativo non so dare una risposta: credo soltanto l’utilizzo da parte dei visitatori potrebbe darci la certezza di ciò che abbiamo creato. Eppure questo dubbio non riesce a minare la mia fiducia nel progetto. Sono convinta infatti che tra l’uomo e lo spazio vi sia un dialogo sempre aperto, e che, se da una parte lo spazio potrà aiutare l’uomo nell’atteggiamento contemplativo, dall’altra sarà l’uomo stesso con la sua presenza e con il suo utilizzo a trasformarlo in luogo di pace. Non è forse vero che in una biblioteca dove migliaia di studiosi hanno passato il loro tempo, ci appoggiamo sul loro studio per dare forza al nostro? Non è forse vero che alcuni luoghi in cui si è pregato tanto ci riempiono di stupore? Ecco, io credo che ciò che è stato fondamentale in questo lavoro non sia tanto il risultato “tecnico” finale del progetto, quanto piuttosto la domanda che l’ha generato, perchè è in quella domanda che si cela la sua veridicità, perchè se l’uomo ascolta quella domanda, anche lo spazio ne verrà segnato.

249


250


5 appendice la parola alle comunitĂ :

in ascolto di chi vive la realtĂ comunitaria

la ricerca del silenzio i luoghi del silenzio l’ascolto del silenzio 251


252


5.APPENDICE

la parola alle comunità in ascolto di chi vive la realtà comunitaria

QUALI SONO I PRINCIPI DI UNA COMUNITA’? 1.

Quali caratteristiche distinguono un soggetto appartenente alla comunità da un soggetto esterno?

2.

I membri della comunità sono legati da un background culturale e sociale comune o comparabile?

3.

I membri della comunità parlano tutti la stessa lingua?

4.

I membri della comunità assumono nel tempo delle caratteristiche individuali comuni, capaci di farli distinguere da persone esterne alla comunità?

5.

I soggetti appartenenti alla comunità hanno una relazione individuale l’uno con l’altro?

6.

La relazione tra la comunità e la società esterna è di esclusione o di inclusione?

7.

Vi è una reciprocità e una disponibilità alla cooperazione tra gli individui appartenenti alla comunità, a prescindere dalla relazione personale?

8.

E’ possibile affermare che gli appartenenti alla comunità vivono un sentimento di fiducia reciproco?

9.

Come definirebbe il sentimento di appartenenza alla comunità?

10.

Quali sono le prevalenti attività che vengono svolte nella comunità?

11.

L’ambiente esterno che relazione ha con la comunità stessa? Ne trae in qualche modo giovamento?

12.

E’ previsto un tempo in cui tutta la comunità si riunisce per la medesima attività?

13.

E’ previsto un tempo in cui tutti i membri della comunità svolgono la medesima attività in spazi individuali?

14.

Vi è una regola di vita condivisa da tutti?

15.

Vi è uno spazio collettivo capace di ospitare tutti gli appartenenti?

16.

In questo spazio le persone sono disposte gerarchicamente?

17.

Gli spazi individuali sono uguali per tutti i membri della comunità?

18.

E’ importante per una comunità condividere il medesimo spazio?

19.

Possiamo affermare che il sentimento di appartenenza alla comunità è capace di far sentire l’uomo meno solo?

20.

E’ possibile, a suo parere, formare una comunità “provvisoria”, capace di ricrearsi con elementi umani diversi ogni volta?

253


MONTE OLIVETO, VERONA

Comunità terapeutica per il recupero dalla tossicodipendenza “CEIS”

Intervista al dott.Fabio Ferrari, delegato cooperativa, in data 6.11.2013 1. Appartiene alla comunità chi decide di affrontare un problema di tossicodipendenza. L’ingresso di ogni membro alla comunità è formalizzazto e ritualizzato con un “contratto”. 2. Il background comune ad ogni membro è la ricerca della sostanza. Questa ricerca, per i meccanismi che ogni soggetto è costretto a mettere in atto per trovare le risorse necessarie all’acquisto del “farmaco”, crea un vissuto anteriore simile. 3. I membri della comunità parlano tutti italiano, anche gli extra comunitari, ma sono anche accomunati da uno slang tipico della tossicodipendenza. 4. La comunità ha lo scopo di reinserire i membri nella comunità cittadina “esterna”, viene quindi condiviso uno stile di vita paragonabile a quello esterno. 5. I soggetti sono portati ad avere relazioni tra l’uno e l’altro e anche tra l’uno e gli altri. 6. La relazione tra società interna ed esterna è quindi inclusiva: la comunità è aperta, non nel senso che chiunque possa visitarla, ma che i soggetti sono ospitati allo scopo di potersi reinserire. 7. I soggetti sono educati all’ascolto reciproco e all’empatia. Sono portati a riscoprire la dimensione relazionale della vita. 8. Il sentimento di fiducia reciproco è uno degli obiettivi: viene imparato in vitro in comunità, per poi applicarlo all’esterno. 9. Gli appartenenti alla comunità, al termine del processo di guarigione, si ritengono persone che hanno scoperto la bellezza della relazione, e si trovano a ringraziare anche per aver vissuto l’esperienza della droga, senza la quale, con tutta probabilità, non avrebbero scoperto nulla oltre il vuoto che conoscevano. L’appartenenza è anche legata al sentimento di vuoto di senso e di amore che accomuna tutti i membri. 10. Le attività svolte nella comunità sono volte a creare pretesti relazionali e spingere la persona ad avere un’altra bussola per governare la vita. 11. L’ambiente esterno corrisponde in questo caso alla “società sana”, ed è in una relazione di apertura con la comunità: i membri sono spinti ad uscire con un modo diverso di vivere. 12. Sono previsti diversi tipi di gruppi in cui i membri vengono riuniti, di carattere organizzativo e terapeutico. Una costante in ogni incontro e in ogni gruppo è il feedback sull’attività: i soggetti sonoportati a parlare di ciò che vivono. Da come ne parlano, e dal vissuto che portano, si possono comprendere le ferite e le motivazioni del loro disagio. 254


13. Ci sono momenti di attività individuali, ma non sono strutturati. 14. Vi è un vero e proprio regolamento. 15. C’è, ed è noto ai membri come la “Giostra”. 16. In questo spazio le persone sono disposte in un cerchio, in cui anche gli operatori sono allo stesso livello, occupando sporadicamente funzione di catalizzatore. 17. Gli spazi individuali sono comparabili, anche se sono molto rari i casi di spazi dedicati alla singola persona: si predilige la relazione anche in questo caso. 18. E’ fondamentale. 19. E’ vero per quanto riguarda la solitudine legata alla disperazione e all’abbandono. 20. E’ difficile, ma se ci sono gli strumenti adatti, è possibile.

255


NOMADELFIA, GROSSETO Comunità di cattolici praticanti fondata da don Zeno Saltini

Intervista a Sefora, giovane appartenente alla comunità, in data 21.11.2013 1.

Le caratteristiche che distinguono un soggetto appartenente ad una comunità da un soggetto esterno è LA SCELTA. Nel caso della comunità di Nomadelfia è anche la risposta ad una vocazione (non consacrata). La motivazione che spinge una persona a farsi Nomadelfo è di volere vivere una vita radicalmente fondata sul Vangelo, disponibili ad accogliere figli in affido, a lavorare senza essere pagati, ad essere “poveri” secondo lo spirito del Vangelo.

2.

Non necessariamente. Dal 1931 (nascita della comunità di Nomadelfia) ad oggi diverse generazioni si sono susseguite,quindi sono rappresentate un po’ tutte le età. Diverse sono le provenienze come diverse sono anche le estrazioni sociali.

3.

Allo stato attuale i membri della comunità parlano tutti la stessa lingua

4.

Questo può succedere, sia nel modo di muoversi che nel relazionarsi con le persone.Spesso se si è in ambienti vicini alla comunità viene chiesto: “ma siete di Nomadelfia? “

5.

Certo.

6.

La relazione tra la comunità di Nomadelfia e la società esterna può essere sia di esclusione che di inclusione. Esclusione per tutto ciò che la comunità non condivide a livello educativo, comportamentale, di relazione, economico ecc. Di inclusione per tutto ciò che di buono la società propone. Nomadelfia si presenta all’esterno come un piccolo popolo comunitario. Ci sono rapporti con l‘esterno legati alle attività lavorative o amministrative. In particolare si collabora con i Servizi sociali e i Tribunali per i Minorenni per quanto riguarda l’accoglienza di figli in affido. Inoltre, qualsiasi Nomadelfo può avere rapporti personali di amicizia e collaborazione liberamente con chiunque.

7.

A Nomadelfia non esiste disoccupazione. Tutti hanno un lavoro, un impegno, un incarico secondo le capacità e secondo le necessità della comunità. Ma sempre disponibili. I figli si dedicano allo studio, ma collaborano anche a qualche attività, come ad es. la raccolta dell’uva o della frutta, alla cura degli orti nei vari gruppi familiari… Anche gli anziani continuano a dare il loro contributo nei limiti delle loro possibilità. Vi è sicuramente una disponibilità alla cooperazione.

8.

Si, c’è reciproca fiducia tra gli appartenenti.

9.

Un sentimento di libera scelta, di condivisione della fede e di adesione totale.

10.

Tutti i Nomadelfi sono impegnati nelle aziende, negli uffici, nelle scuole, nelle attività della comunità. Ci sono un’azienda agricola con allevamenti di animali, caseificio, edilizia, elettrotecnica, falegnameria, officina meccanica, carpenteria, magazzini per la distribuzione di vestiario, viveri… Uffici vari (amministrazione, rapporti con l’esterno…), archivi, edizioni di Nomadelfia, tv interna, ambulatorio

256


medico. Le aziende lavorano per le necessità interne o per l’apostolato verso l’esterno, attraverso pubblicazioni, prodotti multimediali, Internet, incontri, accoglienza e ospitalità di visitatori (10.000 ogni anno), e spettacoli itineranti specialmente durante l’estate. Per evitare che pochi siano addetti ai lavori ripetitivi (non specializzati), tutti partecipano ai “lavori di massa”, come ad es. alla raccolta dei prodotti della campagna, alle pulizie generali…Non c’è proprietà privata, non circola denaro, tutti i beni sono in comune. 11.

Molti sono i visitatori durante l’anno: alcuni apprezzano, altri criticano. Nessuno, però resta indifferente di fronte a questa testimonianza. E venendo in contatto con noi sono nate piccole esperienze comunitarie che si ispirano a questi ideali e mantengono con noi un rapporto di amicizia. Esiste sia un giovamento morale e in alcuni casi di aiuto materiale.

12.

Sono previsti svariati tempi in cui la comunità si riunisce per la medesima attività, lavorativa, culturale o spirituale. Ci possono essere quelli che noi chiamiamo “i lavori di massa” che nascono per risolvere il problema dei lavori stagionali (come la potatura, la vendemmia, la raccolta delle olive), pesanti (come lo spietramento dei campi, la manutenzione delle strade), e ripetitivi dove tutta la popolazione partecipa. Esiste “la cultura”. Ogni giorno, dopo il lavoro, i Nomadelfi si radunano in una sala comune per un’ora di studio e di riflessione. Per approfondire la propria missione si riascoltano specialmente i discorsi di don Zeno (padre e fondatore della comunità), ai quali seguono riflessioni comunitarie. A volte si studiano i problemi della società attraverso documentari o conferenze di personalità esterne.

13.

Si quando i Nomadelfi lavorano nelle aziende, nei laboratori, negli uffici, e nelle scuole della comunità.

14.

Nomadelfia è un piccolo popolo con una sua costituzione. Per lo Stato italiano Nomadelfia è un’associazione civile, organizzata sotto forma di cooperativa di lavoro. Per la Chiesa è una parrocchia. Internamente vige una Costituzione: l’Assemblea elegge le cariche costituzionali, prende le decisioni più importanti e approva i programmi della Presidenza. Tutte le votazioni sono confermate con un voto di unanimità.

15.

Si, esistono più spazi collettivi in grado di ospitare tutti gli appartenenti (chiesa e sala incontri).

16.

No, non c’è gerarchia nello spazio.

17.

No, si tiene conto del numero dei componenti di una famiglia e delle necessità di ognuno.

18.

Si, è importante. Ad esempio a Nomadelfia le famiglie vivono in 11 “Gruppi familiari”, ciascuno composto da 4 o 5 famiglie per una media di 25 componenti, con una casetta in comune comprendente sala da pranzo, cucina, laboratori… mentre ciascuna famiglia ha le camere in casette separate. Ogni tre anni i gruppi vengono ricomposti dalla Presidenza, così ogni famiglia verrà a trovarsi con nuove famiglie in un nuovo gruppo.

19.

Si, possiamo affermare che il sentimento di appartenenza alla comunità è capace di far sentire l’uomo meno solo. Nomadelfia è un popolo fondato sulla libertà di scelta, sulla comunione fraterna dei beni, sulla fede e sulla generosità di chi accetta di vivere una vita per gli altri, obbedienti alle disposizioni degli organi competenti e disponibili a qualsiasi iniziativa, lavoro o spostamento.

20.

Penso che una comunità di persone che collaborino in alcune attività sia possibile, ma se per comunità intendiamo una profonda condivisione della vita, la scelta definitiva è un elemento di forza fondamentale.

257


SERMIG, TORINO

Fraternità di famiglie e consacrati nata nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Oliveiro

Intervista a Rosanna Tabasso, responsabile Sermig, Torino, in data 28.11.2013 1.

La nostra comunità (Sermig - Fraternità della Speranza) è formata da tre “rami”: maschile consacrato, femminile consacrato, famiglie. Abbiamo sede all’Arsenale della Pace di Torino e altredue case a San Paolo in Brasile e Madaba in Giordania. L’ingresso in comunità avviene dopo un tempo di preparazione e discernimento, d’accordo con i responsabili della comunità. L’appartenenza alla comunità è contraddistinta da un sì definitivo a Dio, che si impegna ad essere concreto aderendo ad un progetto di vita comune, un progetto non più MIO ma NOSTRO (anzi, per quanto ci riguarda, crediamo che ci sia donato da Dio) racchiuso nella Regola “La gioia di rispondere sì”.

2.

Per la maggior parte di noi si tratta di un background cattolico. Ci sono però anche persone che provengono da un ambiente e famiglia non credente. Il background sociale di provenienza invece è molto diversificato, ma questo non costituisce un problema, bensì una ricchezza.

3.

No. Per il momento si parla italiano, portoghese e arabo. Ma speriamo che altre lingue verranno.

4.

Desideriamo che non sia un abito, una tessera o un “titolo” a distinguerci, ma la bontà, lo stimarci tra noi, il saper chiedere perdono, la fiducia totale nel Gesù dei Vangeli, il far vivere la speranza coni fatti, il metodo della “restituzione” (vedi punto 6). Il nostro obiettivo non è distinguerci ma essere lievito dentro il mondo per una trasformazione positiva della società. Sicuramente la lunga frequentazione tra di noi forma un modo di esprimersi e un sentire comuni. Ma le differenze individuali sono considerate una ricchezza e rimarranno sempre. Così come è un impegno di tutti fare in modo che nulla ci distanzi dalle persone esterne, restando “avvicinabili” da tutti, in particolar modo dai più poveri.

5.

La nostra comunità vive lo spirito di una famiglia. Ogni appartenente ha perciò relazioni con tutti gli altri. Ma lo scopo ultimo del nostro stare insieme non è “far amicizia” tra noi, bensì aiutare ciascuno a raggiungere la sua pienezza e contribuire al progetto comune: il Regno di Dio in terra.

6.

Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) nasce da un sogno di inclusione: eliminare la fame e le ingiustizie nel mondo. Si fonda sul quotidiano coinvolgimento della gente comune nel dare il meglio di sé al servizio degli altri e del bene comune, là dove ognuno si trova. Noi la chiamiamo “restituzione” e riguarda tutto ciò che siamo ed abbiamo: beni, risorse, tempo, capacità… La restituzione è un metodo per crescere nella responsabilità e nella fratellanza, ed è la nostra principale fonte di finanziamento (93%). La proponiamo anche ai più giovani, che frequentano a migliaia le nostre case, come la via per scoprire le proprie potenzialità ed affrontare la vita da protagonisti.

7.

La stima reciproca e la disponibilità alla collaborazione verso tutti sono il fondamento della comunità. Se ciascuno si fermasse ai sentimenti personali di simpatia/antipatia e alla ricerca di

258


relazioni singole esclusive, la comunità in breve tempo si dividerebbe. 8.

Noi lo chiamiamo “patto di fraternità”: un patto di fiducia, lealtà e fedeltà nel quale ognuno si impegna a mettere in gioco il 100% di sé, 24 ore su 24, ogni giorno dell’anno. Sapere di poter contare sull’impegno e sulla forte motivazione di ogni altro è uno dei nostri punti di forza.

9.

Noi lo chiamiamo “comunione”: di fede, di valori, di missione, di priorità pratiche. Ma possiamo chiamarlo anche “fraternità”: ci accogliamo come fratelli o sorelle, per vivere come un’unica famiglia.

10.

Formazione dei bambini e dei giovani, attraverso strumenti formali ed informali. Sostegno all’integrazione sociale per categorie disagiate (stranieri, disabili, donne sole ecc.).Sostegno alle molte povertà delle nostre città, attraverso servizi di vario genere ed accoglienze.Sostegno allo sviluppo a favore delle popolazioni più povere del mondo, affiancato dallo studio e dalla predisposizione di soluzioni tecnologiche per problematiche specifiche. Attività culturali e di spiritualità finalizzate ad una formazione permanente, per crescere nell’amore e nella preparazione ad affrontare le sfide del nostro tempo.

11.

La comunità svolge il 90% delle proprie attività a servizio dell’ambiente esterno, in tutte le sue estensioni: il quartiere in cui hanno sede i nostri tre “Arsenali” – le città e la nazione in cui viviamo (Torino in Italia, San Paolo in Brasile, Madaba in Giordania) – il mondo. A sua volta la comunità svolge il 90% delle sue attività grazie alla collaborazione con il mondo esterno: persone singole con la loro “restituzione”, realtà ecclesiali e civili con cui collaboriamo stabilmente, altre agenzie formative, realtà imprenditoriali nell’industria, nell’agricoltura, nel terziario, nella cooperazione sociale. Il contatto diretto della nostra comunità con grossi numeri di giovani e di poveri ci permette altresì spesso di svolgere una funzione di osservatorio privilegiato rispetto ai segni dei tempi ed alle sfide che attendono le nostre società, suggerendo risposte possibili.

12.

La nostra giornata è scandita dalla preghiera comune: liturgia delle ore, celebrazione eucaristica, adorazione. Ci sono poi gli incontri settimanali di tutta la comunità e quelli dei singoli rami della comunità. Infine i momenti dei pasti.

13.

Il tempo del lavoro, su turni che coprono le 24 ore, accomuna tutti, benché svolto da ciascuno all’interno dell’attività e degli spazi che gli competono. Ci sono poi le giornate periodiche di silenzio e ritiro, che ciascuno trascorre in camera propria.

14.

Sì, la nostra Regola si chiama “La gioia di rispondere sì”. E prevede anzitutto che “il Vangelo è la nostra regola di vita”. Non vuol essere un programma fatto di norme ma una mentalità per crescere nell’amore. Perché per noi “regola” vuol dire “sapienza”. È una Regola che si conclude con delle “pagine aperte”, pronte ad essere riempite come il Signore ci indicherà.

15.

Ce ne sono diversi.

16.

No. Ci sediamo sempre in cerchio.

17.

Come spirito sì. Le stanze da letto personali, fatta salva la medesima essenzialità, hanno differenze dovute alla diversità delle strutture in cui si trovano (Italia, Brasile, Giordania). Per gli spazi lavorativi le differenze sono dovute ai servizi svolti (cucina piuttosto che accoglienza, segreteria, formazione dei giovani ecc.ecc.).

18.

È importante perché permette di incontrarsi, di essere “custodi” gli uni degli altri e di camminare insieme nel confronto e nel sostegno reciproco. L’occupare un medesimo spazio rende anche più visibili i limiti di ciascuno, permettendo di metterli in gioco in un cammino di crescita sostenuto da tutti. Per noi non è però essenziale essere sempre e tutti fisicamente insieme. L’apertura ad 259


altri Paesi del mondo e a servizi nella città esterni agli Arsenali ci permette di sperimentare la vera comunione, che non ha bisogno della compresenza fisica e del contatto verbale continuo ma si mantiene nel cuore, nella preghiera e nella condivisione di un ideale comune. 19.

La fragilità più grande della nostra società è l’assenza di un “tessuto sociale” stabile e coeso, all’interno del quale ognuno trovi “casa, famiglia”, sostegno e contenimento nei momenti di difficoltà. È venuta meno nella maggior parte dei casi la capacità di instaurare relazioni umane profonde e mature, la capacità di fraternità e di solidarietà all’interno dei raggruppamenti umani di base: condominio, ambiente di lavoro, scuola, quartiere, a volte purtroppo anche parrocchia. In assenza di ciò, è importante ricreare un tessuto di relazioni umane a partire da comunità elettive. Ed è fondamentale per la vita dell’individuo che all’interno di queste comunità venga riconosciuta amata e valorizzata la sua esistenza. In questo senso, l’appartenenza che si crea è uno strumento prezioso per rieducare la persona alla capacità di relazione, evitare che si perda nella ricerca di compensazioni al proprio vuoto interiore e portare ciascuno alla sua pienezza. Ma è altrettanto importante che queste comunità non vivano l’appartenenza come esclusività ed esclusione degli “altri”, bensì come sperimentazione e formazione degli individui a modelli di relazione replicabili all’esterno. Solo così il benessere che i suoi membri si donano reciprocamente potrà rivitalizzare anche i raggruppamenti umani di base, raggiungendo e “riscaldando” anche coloro che non sono capaci da soli di fare comunità.

20.

Sì, se il valore ricercato è comune. Per esempio, la preghiera, la solidarietà attorno ad un singolo progetto o in vista di un bene comune, o un tempo di servizio ad una determinata categoria di persone. La capacità di “fare comunità” attorno a questi elementi ridurrebbe di molto l’aggressività sociale e l’ingovernabilità del nostro Paese. Senza dimenticare però che la crisi che attraversiamo è prima di tutto crisi dell’uomo nella sua capacità relazionale e progettuale a lungo termine. Crediamo perciò che l’investimento più urgente sia verso PROGETTI COMUNITARI INCLUSIVI A LUNGO TERMINE.

260


CENTRO JACOPO LOMBARDINI, CINISELLO BALSAMO (MI)

Comune evangelica valdese fondata nel 1968

Intervista a Paolo Bogo, membro della comune, in data 30.11.2013 1.

Nessuna, se non quella di voler vivere assieme agli altri e non da soli o con una famiglia monocellulare.

2.

Ci sono delle affinità; da noi c’erano la comune appartenenza a un movimento politico (ovviamente di sinistra) e per alcuni a una fede (cattolici o protestanti)

3.

Eravamo tutti italiani eccetto gli ospiti che venivano dal Cile, dagli Stati Uniti, dalla Germania, ecc.

4.

No, all’esterno eravamo indistinguibili, a meno di non considerare un’etica protestante più marcata del solito.

5.

Da noi c’erano singoli e coppie sposate con figli.

6.

Relazione di inclusione, ovviamente.

7.

La cooperazione era indispensabile per l’efficacia delle azioni che si volevano intraprendere.

8.

Certamente c’era un sentimento di fiducia; ricordo che il gruppo era composto da 15 – 25 persone, variabili nel tempo.

9.

Appartenere alla Comune dava un senso di solidità, specialmente per i bambini che ovviamente essendo esonerati dall’ora di religione cattolica a scuola si trovavano alla Comune in un gruppo consistente di protestanti e ciò li rafforzava nella difficoltà di esporsi a scuola.

10.

Come già detto la Comune era un luogo in cui venivano organizzati gli interventi esterni; in più era un luogo adatto alle ospitalità: sono passati nel tempo circa 200 cileni; l’organizzazione interna – la spesa, la cucina, le pulizie, ecc. – era fatta per turni (maschi e femmine) e questo liberava le donne dall’incombenza domestica del preparare i pranzi e fare i ‘mestieri’.

11.

C’era un grande via vai con quelli che erano stati in contato con noi; avevamo la chiave sempre sulla toppa della porta per significare che la Comune era sempre aperta.

12.

I pranzi e le cene per chi c’era, ma soprattutto le riunioni organizzative.

13.

Non mi sembra.

14.

Il rispetto reciproco.

15.

La grande stanza da pranzo e quella delle riunioni. 261


16.

Non c’era nessuna gerarchia perché l’organizzazione e gli interventi venivano discussi insieme e le decisioni erano prese collettivamente. Ovviamente c’erano figure più ‘carismatiche’ che però avevano il buon senso di non prevaricare.

17.

Gli spazi erano proporzionati ai nuclei familiari.

18. 19.

Certamente è indispensabile vedersi tutti i giorni (alla sera per chi lavorava fuori) Certamente sì.

20.

Di fatto tutte le comunità sono ‘provvisorie’; ogni storia ha un inizio, una fase di pienezza e una conclusione; è successo così anche per noi: la Comune è durata circa 30 anni poi si è esaurita; sono cambiati i tempi, le sensibilità, gli obiettivi. Una vita così, piacevole, importante, ma faticosa può essere vissuta solo da giovani entusiasti; bisogna crederci e avere le energie perché la cosa funzioni.

262


VILLA VRINDAVANA, FIRENZE

Comunità Hare Krishna fondata da Bhaktivedanta Swami Prabhupada nel 1966

Intervista a Parabhakti (Mauro Bombieri), presidente, in data 9.12.2013 1.

La condivisione attiva di ideali, scopi, progetti.

2.

Assolutamente no.

3.

Se per lingua intendiamo lo stesso idioma, non necessariamente è quello del luogo geografico (nelle nostre comunità, proprio per l’internazionalità che le contraddistingue l’inglese è molto diffuso e si affianca alla lingua locale). I membri devono però condividere il linguaggio proprio dei valori per i quali si aggregano.

4.

La vita comunitaria rafforza ideali e configura stili di vita, che spesso sono alternativi a quelli stereotipati e diffusi nella società generale, quindi rendendo più facilmente identificabili, dal loro modo di proporsi e di parlare, i membri di una data comunità.

5.

Certo, spesso si collabora in gruppo per organizzare eventi, festival e momenti di aggregazione, lavorando insieme (non per motivi economici), le relazioni interpersonali si saldano fortemente dando origine a profonde amicizie che vanno al di là della semplice cooperazione.

6.

D’inclusione – che si concreta quando sono presenti reciproco rispetto e desiderio d’integrazione e non di assimilazione

7.

Certamente, la condivisione dei valori è talmente forte che la cooperazione tra individui non è prescindibile. Il raggiungimento degli obiettivi della comunità è un collante fondamentale e permette di solito di superare le eventuali difficoltà nei rapporti interpersonali.

8.

Sì ma ovviamente compatibilmente alla qualità delle relazioni interpersonali che potrebbero imitarne l’estensione solo ad alcuni campi.

9.

Relativamente alla nostra comunità: amore, fraternità, guida e sostegno reciproco.

10.

Pratiche spirituali, diffusione dei valori spirituali ed etici, studio, eventi di vario genere, accoglienza e cura degli ospiti, agricoltura.

11.

Frequenta, visita e secondo interesse partecipa alle varie attività proposte. I valori propri della tradizione vaishnava e della cultura vedica, diffusi dalle nostre comunità, assumono valore universale e sono di grande utilità per i ricercatori spirituali di qualsiasi appartenenza, come per la pace nel mondo e per l’equilibrio psico-fisico individuale.

12.

Il mattino per le pratiche spirituali.

13.

No, ma a proposito delle pratiche spirituali ci sono momenti della giornata più favorevoli per il loro svolgimento, è quindi possibile che siano eseguite in concomitanza anche quando non è possibile 263


farle insieme. 14.

Vi sono più regole condivise da tutti, per citare alcune: essere vegetariani – non assumere sostanze psicoattive (con l’esclusione dei medicinali) – evitare il gioco d’azzardo (inteso anche come rischio inutile).

15.

Se ci riferiamo alla comunità fisica quello principale è il tempio.

16.

No ,ma si mantiene divisione tra maschi e femmine, pur garantendo parità di spazi.

17.

Sono offerte maggiori facilitazioni a coppie e famiglie.

18.

Nel caso di una comunità spirituale come la nostra è importante condividere le pratiche spirituali che normalmente si svolgono in spazi dedicati.

19.

Si.

20.

Il numero dei membri, appartenenti alla stessa comunità virtuale, che decidono di vivere insieme per brevi o lunghi periodi, è in continuo aggiornamento. Ciò che si ritiene fondamentale è avere a sostegno del progetto un nucleo di persone che conoscano bene la filosofia che si sta applicando e che facciano da riferimento per i residenti temporanei.

264


VILLAPIZZONE, MILANO

Comunità di famiglie fondata da Bruno e Enrica Volpi nel 1978

Intervista a Tullio Cottatellucci e padre Silvano Fausti, in data 14.12.2013 1.

Spesso gli appartenenti alla comunità non sono riconoscibili, ogni individuo è chiamato a giocarsi come individuo al di là del proprio ruolo.

2.

Le famiglie di provenienza hanno storie diverse, ma il backgroung è comparabile: i valori condivisi sono quelli degli anni 60-70, e molti tra i membri della comunità hanno alle spalle esperienze di missione e di volontariato.

3.

I membri effettivi sì, ma non sempre le persone accolte parlano l’italiano.

4.

Gli stili delle persone rimangono diversi. Questo modello di comunità esalta l’individuo. La presenza dei gesuiti all’interno della comunità sottolinea questo aspetto: non ha una spiritualità, perchè il modello di ciascuno è l’individuo. La diversità crea armonia.

5.

La comunità è basata sulla relazione individuale quotidiana, ma libera.

6.

La relazione tra la comunità di Villapizzone e l’esterno è di grande inclusione: tutte le porte e i cancelli sono aperti, e spesso il parco incluso alla cascina si offre come piazza aperta alla cittadinanza

7.

Il tentativo è quello di non incentivare le relazioni esclusive tra le persone. Si cerca di non creare eccessiva intimità con un altro nucleo familiare a discapito degli altri. La relazione di coppia è quella prioritaria all’interno della comunità. Fondamentale è anche il sostegno tra famiglia e religiosi.

8.

La comunità è proprio basata su questo, la relazione quotidiana e fraterna, ma libera.

9.

Un sentimento di solidarietà, apertura. E’ una sorta di amicizia, ma forse più una fraternità, basata sulla “compassione”: include tutti, anche l’estraneo che entra a visitare la comunità. E’ importante non fare comunità con gli amici, ma al contrario basare la scelta comunitaria su interessi comuni da realizzare: la povertà unisce. La comunità è una perla preziosa, diventa importante per tutti custodirla e custodirne l’armonia. Affrontare le difficoltà insieme per far procedere la comunità è un fattore fondamentale.

10.

Ogni famiglia conduce la propria vita in autonomia. Tra le attività condivise fin dal principio v’è lo sgombero, che ha unito le persone come lavoro collettivo, ma ora la cooperativa non è più esclusiva, vi sono soci anche esterni e appartenenti ad un’altra comunità. Ognuno porta avanti il proprio lavoro. Un’altra attività condivisa è il recupero di alimenti e l’acquisto condiviso. Grandi impegni condivisi sono l’accoglienza e la testimonianza (circa 60 all’anno, con tanta richiesta ulteriore). L’accoglienza è rivolta soprattutto a persone disagiate, in modo informale, senza psicologia, la vita quotidiana diventa cura del “malato”.

11.

L’esperienza che l’esterno fa della comunità è senz’altro di giovamento: spesso il parco interno alla cascina ospita badanti con gli anziani che si fermano ad osservare i bambini che giocano, o mamme con 265


i figli che trascorrono il pomeriggio tra gli alberi. Il cortile è aperto, chiunque può entrare e sentirsi accolto. 12.

Non sono molti e non sono formali. Ogni mese ci si ritrova in una riunione tra tutti.

13.

Non sono previsti.

14.

Non v’è una vera e propria regola, ma sono state stilate delle “buone pratiche” a posteriori.

15.

I luoghi di condivisione sono la cappella, il salone e il parco.

16.

Non v’è gerarchia. C’è un presidente a rotazione, ma ha solo valore di coordinamento.

17.

Non c’è stato un piano razionale nella suddivisione dello spazio, ma vige il buon senso. La logica è che ciascuno abbia lo spazio necessario alle proprie attività, secondo la dimensione della famiglia. Si trovano degli accomodamenti nel tempo.

18.

E’ fondamentale. Ci sono stati tentativi di lontananza fisica in altre comunità sorte con gli stessi intenti, ma chi ha provato, ora vive insieme. Relazioni quotidiane e familiarità creano sentimenti fraterni altrimenti improponibili. E’ la fraternità a costruire la società.

19.

Certo. Ci si sente a casa ovunque si va. Sia la famiglia, sia la comunità dei gesuiti ha questo valore. All’interno della singola famiglia si avverte più solitudine che nella condivisione con altre famiglie.

20.

Per creare una comunità provvisoria è necessario che vi siano delle emozioni condivise. E’ possibile sentirsi in comunione, se la condivisione è interiore, in questo caso non sono emozioni che si auto consumano. Sono semi che cadono nel silenzio e il seme che scompare, è capace di portare frutto.

266


ISLAM, IMPERIA

Comunità Islamica di Imperia

Intervista a Hamza Roberto Piccardo, presidente e fondatore della comunità di Imperia e del Ponente ligure, in data 17.12.2013 1.

Si tratta di una comunità religiosa, qualunque musulmano è partecipe. Naturalmente al suo interno si distingue tra i praticanti, e coloro che non frequentano la Moschea.

2.

Sì, specialmente nella piccola realtà. il 95% dei membri della comunità è composta da immigrati, frutto di catene migratoria, tunisini o turchi di zone determinate. Tra le due etnie però non v’è particolare similarità.

3.

Parlano tutti l’italiano, che è la lingua veicolare, ma rimangono le differenze linguistiche.

4.

Si caratterizzano per la pratica religiosa, ma in alcuni casi, nonostante parte della comunità musulmana, i soggetti si identificano maggiormente ad altri tipi di comunità che frequentano.

5.

Generalmente sì, ma viene privilegiato il proprio contesto etnico, anche se il luogo religioso è condiviso.

6.

L’esclusione è più su base socio-economica. La discriminazione è su base di censo, non culturale/ religiosa. Il lavoro mancante in questo periodo di crisi sta disintegrando la convivenza. Forse l’unico contesto ancora in grado di conservare l’inclusività è la scuola.

7.

C’è un senso di appartenenza che favorisce la disponibilità. Ma la crisi migliora i migliori e peggiora i peggiori. Alcuni soggetti sviluppano particolari egoismi.

8.

E’ possibile, tra alcuni è così.

9.

E’ un sentimento visceralmente profondo. Nella concretizzazione non è però troppo coerente. Permane comunque una differenza su base etnica.

10.

Ogni individuo è a sè, tra i lavori più diffusi tra i musulmani nella realtà di Imperia, v’è sicuramente l’edilizia, anche se a causa della crisi, sta costringendo molti al ritorno nel paese d’origine. Tanti altri sono impegnati in servizi al turismo: pizzaioli, cuochi, badanti, artigiani.

11.

Non c’è una grande permeabilità e osmosi tra la comunità musulmana e quella esterna. La mancanza di lavoro crea differenza, e sottolinea la diversità sociale. Mancando i luoghi fisici d’incontro, è difficile creare condivisione.

12.

Ci sono tre appuntamenti importanti: il venerdì in Moschea, per la preghiera comunitaria, la festa della fine del ramadam, con la festa del Sacrificio ed infine il periodo del ramadam, in cui molti fedeli vivono un riavvicinamento alla comunità.

13.

La preghiera musulmana ha degli orari, e in quel medesimo orario è probabile che anche gli altri membri stiano pregando nel proprio spazio individuale. 267


14.

Vi sono alcune regole generali: ciò che è lecito e ciò che è illecito, ma dipende dalla coscienza individuale. Alcune regole di base sono il divieto sul consumo dell’alcool e la rinuncia ad alcuni elementi, come la carne di maiale.

15.

Dovrebbe esserci un luogo capace di contenere 1500 persone, ma non esiste. Ci sono quattro moschee, una scuola islamica e due luoghi di incontro per famiglie Sufi.

16.

Non c’è gerarchia. Tutti sono seduti per terra, l’unica differenza è per l’Imam.

17.

Sono molto diversi, dipendono dalla capacità economica delle famiglie.

18.

E’ irrinunciabile, fondamentale. La prima necessità degli immigrati è quella di formare un luogo di culto condiviso, che diventa anche un luogo di aggregazione e di informazione.

19.

Assolutamente sì.

20.

In qualche modo già esistono, attorno alle associazioni di volontariato ad esempio. Credo sia fondamentale che il culto rimanga a sè, vorrei però che la gente si incontrasse sul terreno del “fare”, nei problemi di ogni giorno. Dovrebbe essere uno spazio finalizzato ad un obiettivo comune, per fare qualcosa di preciso e di utile. Quando c’è bisogno, non importa CHI lo fa, ma che QUALCUNO lo faccia, e questo mette le persone sullo stesso piano.

268


BOSE, BIELLA

Comunità ecumenica monastica di uomini e donne

Intervista a Matthias Wirz, monaco della comunità, in data 3.1.2014 1.

Non ci sono distinzioni prefissate, se non che i membri della comunità si sono impegnati tra loro in una alleanza attraverso dei voti (celibato, vita comune); questa alleanza però rimane aperta a tutti, e la comunità accoglie anche non membri per brevi periodi di tempo.

2.

L’unica ragione della comunità è la volontà comune dei membri di seguire Cristo e l’Evangelo in modo per quanto possibile radicale.

3.

C’è una lingua comune, ma diversi membri parlano anche un’altra lingua.

4.

No, i membri della comunità non si distinguono esteriormente dagli altri uomini e dalle altre donne.

5.

È possibile, ma non necessario; e comunque queste relazioni non devono mai impedire le relazioni con tutti gli altri.

6.

Di accoglienza.

7.

Sì.

8.

Sì.

9.

Al di là del dato oggettivo dell’impegno attraverso dei voti, c’è un sentimento più soggettivo dato da una storia comune e da una pratica quotidiana condivisa, che non si lascia riassumere in parole, ma implica una reciprocità e una fiducia che sono sempre da ravvivare.

10.

Preghiera, lavoro (intellettuale e manuale) e accoglienza

11.

Non appartiene ai membri della comunità dirlo, ma oserei affermare di sì.

12.

Sì, più volte al giorno.

13.

Durante tutta la giornata gli orari sono comuni a tutti e a tutte. 269


14.

Sì.

15.

Sì.

16.

No, tranne per colui o colei che presiede all’unità.

17.

Prevalentemente sì.

18.

I medesimi spazi, sì.

19.

Sì e no: la comunità raduna delle persone alle quali offre un balsamo per la loro vita, ma non le toglie la fatica della solitudine legata alla scelta del celibato.

20.

Sì, se le regole comuni sono chiare.

270


MONASTERO SAN DAMIANO, BORGO VALSUGANA (TN)

Comunità di Clarisse, fondata nel 1984 dal Protomonastero di Assisi

Intervista a sr. Emmanuela, badessa del monastero, in data 25.1.2014 1.

L’appartenenza non è solo vicendevole, ma è un’appartenenza a qualcun’altro, la convocazione ad una vita comunitaria. La scelta è una risposta. Quello che abbiamo in comune è ciò che ci permette di camminare singolarmente. Il progetto è una via di crescita. Appartenenza, non come vincolo che chiude ma che apre.

2.

Non necessariamente, sia a livello religioso, che conoscitivo

3.

Attualmente sì.

4.

Certamente, l’abito. Si nota anche dal comportamento che non siamo abituate ad uscire.

5.

Sì, indubbiamente.

6.

La relazione è di inclusione. E’ vitale la relazione con la società esterna. Se siamo qui è anche per un messaggio efficace per chi sta fuori. Per la possibilità di mostrare che è possibile vivere delle relazioni diverse. E’ di inclusione sia come provvidenza, per l’esterno, sia per la preghiera per la comunità e per chi si rivolge a noi.

7.

La grazia di avere una regola aiuta nell’appartenenza. Appartenenza è un legame di progettazione. Sia la reciprocità spontanea che quella indotta sono aspetti salutari per la comunità. La comunità tende a strutturarsi, a strutturare le reazioni. Creare spazi di elasticità non è semplice, sia nelle cose quotidiane che nel resto.

8.

Sì, ma non è sempre così. Non è un dato iniziale, ma va costruito. Il background è variegato, va favorito il terreno umano.

9.

La fondazione del monastero, e della comunità quindi, risale a 30 anni fa. Avere una storia in comune, di fatica e di costruzione di una realtà che non esisteva, crea appartenenza. All’inizio eravamo divise in due gruppi: le fondatrici e le postulanti. Si è poi creata un’unità attraverso ricerca e momenti di difficoltà. Le relazioni fraterne non si esauriscono nello stare insieme. La storia comune porta il sentimento di continuità. L’appartenenza va al di là del limite. Sentire che sei dentro qualcosa che non hai iniziato tu. “La clausura è come il colore nero: serve a dar luce agli altri”. E’ importante sentire, conoscere chi ha generato la fede in quel luogo, chi c’era prima nel tempo e nella storia. L’appartenenza all’ordine non è facile data l’autonomia dei monasteri, ma la comunità non si esaurisce in sé stessa.

10.

Sartoria, cucina, bucato, cura della casa, orto, manutenzione ordinaria e straordinaria. Ci occupiamo anche del confezionamento delle particole e abbiamo un laboratorio artistico. Stiamo anche attuando 271


un lavoro di trascrizione dei testi di Giovanna Maria della Croce. Un’altra attività è il servizio formativo delle appartenenti alla comunità. La liturgia prende le ore principali della giornata insieme alla preghiera personale. Ci sono anche spazi per la relazione, come la ricreazione. 11.

La relazione reciproca e il legame anche con l’ordine dei frati minori e il Terzordine.

12.

Durante la liturgia, i pasti, i momenti di capitolo. Anche durante il lavoro: sartoria, laboratorio artistico e scriptorium sono nello stesso luogo, che riunisce quindi tutte le sorelle.

13.

La meditazione.

14.

Indubbiamente, la Regola di Santa Chiara e le Costituzioni generali, e la tradizione della comunità stessa per quanto riguarda la relazione con l’esterno. Ogni tre anni c’è il capitolo elettivo, in cui vengono individuati dei progetti e delle priorità condivisi.

15.

Il coro per la preghiera, il refettorio la biblioteca e la sala capitolare, dove si passa la sera.

16.

Solamente nel coro, ma l’utilità di questo è più pratica che gerarchica. Badessa e vicaria occupano un posto fisso, ma non è quello centrale, come nella regola benedettina.

17.

Sì, le celle sono identiche.

18.

Sì, è molto importante.

19.

Indubbiamente. La comunità non serve a quello però. La solitudine è ineliminabile, va abitata e solo allora è possibile vivere la comunità. Si presume uno spazio vuoto: o l’io fa da specchio a sé stesso, o l’io diventa paranoico, o ossessivo compulsivo o schizoide. Ma abitare presso di sé, e i propri limiti e apprezzarli è la strada per saper vivere in relazione anche con gli altri. Non si può appartenere alla comunità se non si fa esperienza del proprio limite redento, o peccato perdonato. Altrimenti si rischia di riversare sugli altri l’aspettativa del superamento del proprio limite. Occorrono confini chiari di non invadenza della vita comunitaria. Il confine è il luogo di passaggio: l’alterità è fondamentale per entrare e uscire.

20.

Non lo so. Credo che in questo progetto sarà cruciale il percorso. La via è un passaggio importante. L’umano dev’essere disarmato per essere vero. “Togliti i sandali”. Entrare a piedi nudi, senza arroganza sarà fondamentale, che l’elemento umano sia davvero umano.

272


EBRAISMO, VERONA

Comunità ebraica di Verona

Intervista a Davide Orvieto, membro della comunità ebraica, in data 17.2.2014 1.

Non esistono caratteristiche esteriori che distinguono un soggetto appartenente alla Comunità rispetto ad un soggetto esterno, questo perché alcuni indumenti di culto vengono indossati solo all’interno della Sinagoga o nei locali della Comunità. Alcuni degli uomini più religiosi ed osservanti indossano il tipico copricapo chiamato kippah anche all’esterno dei luoghi sacri.

2.

I membri della Comunità possono avere origini diverse, possono provenire da diverse città e nazioni quindi avere un background estremamente diversificato gli uni dagli altri. Il solo legame è quello religioso poiché, pur avendo musiche, usanze ed abitudini liturgiche differenti, alcune preghiere e lo studio della Torah sono universali e condivise da tutto il mondo ebraico ortodosso.

3.

Provenendo da realtà e nazioni differenti, ma vivendo in Italia, tutti parlano più o meno l’italiano; all’interno della Comunità però si parla anche l’ebraico oppure occasionalmente altre lingue.

4.

Generalmente questo non accade.

5.

Col tempo può succedere che si instaurino relazioni individuali di ogni genere, spesso accade in una Comunità più grande rispetto a quella di Verona.

6.

Assolutamente di inclusione, la Comunità non vuole isolarsi dalla società esterna, anzi cerca sempre il confronto e il dialogo nel massimo rispetto delle diverse posizioni. Inoltre chiunque può frequentare la Comunità e visitare i suoi spazi, nonché partecipare alle funzioni.

7.

Non sempre accade, o per lo meno non tra tutti gli individui che costituiscono la Comunità; alcuni però promuovono eventi collaborando tra di loro praticamente in ogni occasione per lo sviluppo e il coinvolgimento degli altri membri.

8.

Non credo che il fatto di vivere all’interno della Comunità generi automaticamente un sentimento di fiducia reciproco, che resta personale e da coltivare spesso individualmente.

9.

Il sentimento d’appartenenza risulta essere abbastanza intenso, ma non per tutti gli iscritti. In alcuni casi è molto sentito, alcuni dei membri storici sono legati alla Comunità di Verona, in altri si limita a fugaci apparizioni alle ricorrenze più importanti. Bisogna però ammettere che in periodi di tranquillità si percepisce meno il sentimento di appartenenza, quando si vivono momenti di tensione questo tende invece ad accentuarsi.

10.

Le prevalenti attività riguardano le ricorrenze religiose che portano le persone in Sinagoga o nei locali della Comunità a condividere feste e tradizioni legate al culto. Non mancano però attività di promozione culturale come dibattiti, incontri interreligiosi e lezioni di Torah. 273


11.

Si hanno ottimi rapporti con l’ambiente esterno come le istituzioni politiche o di altri credi religiosi, nel rispetto delle opinioni, della storia e delle differenze. Il giovamento è reciproco, la conoscenza aiuta la crescita all’interno della Comunità e viceversa per le altre istituzioni. Si cerca inoltre anche l’avvicinamento con le “persone comuni” tramite incontri culturali, nonché il dialogo con le scuole per sensibilizzare i ragazzi facendo conoscere la realtà veronese della Comunità Ebraica.

12.

Vi sono diverse occasioni ogni anno in cui l’intera Comunità si riunisce per alcune celebrazioni all’interno della Sinagoga, oppure appuntamenti sia culturali che della tradizione all’interno dei locali della Comunità.

13.

Non esiste un qualcosa di simile.

14.

Non ritengo che all’interno della Comunità esista una regola di vita condivisa da tutti gli iscritti, alcuni obblighi che impone la religione non vengono rispettati, questo perché ogni persona vive la religiosità secondo la propria indole. In ogni caso esisterebbero alcune regole di vita che, religiosamente parlando, dovrebbero essere rispettate.

15.

Esistono spazi in grado di ospitare tutti gli iscritti alla Comunità, dalla Sinagoga ai locali della Comunità.

16.

All’interno dei locali della Comunità non esiste una disposizione gerarchica, lo stesso discorso vale per la Sinagoga. In quest’ultima vi è una suddivisione tra uomini e donne, inoltre esiste una sorta di altare da dove il Rabbino o l’officiante recitano la funzione (ma non è precluso a nessuno salire e “guidare” la funzione o recitare le preghiere).

17.

Ogni persona siede al proprio banco e tutti i bancali sono identici. Esiste un matroneo al primo piano dove possono recarsi le donne (soprattutto le più osservanti) che risulta diverso rispetto ai banchi sottostanti.

18.

Non solo è importante ma lo definirei fondamentale, sia per una questione di preghiera sia perché alcuni momenti aiutano a consolidare lo spirito comunitario.

19.

Assolutamente sì, molte persone (se non tutte) hanno una propria vita al di fuori dell’ambito comunitario, però il sentimento d’appartenenza può aiutare sia materialmente che spiritualmente una persona ad evadere dalla solitudine abbattendo certi ostacoli.

20.

Secondo la mia esperienza esiste la possibilità di creare una comunità “provvisoria”; è capitato che la condivisione di spazi per un breve periodo di tempo, che fosse solo un weekend o una settimana, abbia consentito la creazione di una “comunità” tra persone provenienti da città differenti, oppure da differenti Paesi, spesso con background molto diversi tra loro, ma che trovandosi a condividere una medesima realtà, ed avendo almeno una caratteristica in comune, sono riuscite a dar vita al concetto di comunità provvisoria.

274


L’ISOLA, SASSO MARCONI (BO) Comunità politica di famiglie fondata nel 1978 e conclusa nel 1992

Intervista a Elia Comastri, membro della comune in data 6.4.2014 1.

La distinzione vera e propria non era dettata da segni esterni quali vestiario o simboli quanto dal desiderio di interrogarsi in maniera critica e di voler entrare nel vivo delle dinamiche sociali che governavano in paese senza aderirvi in maniera cieca. Nel tempo le diverse attività svolte dalla realtà comunitaria hanno avuto sempre maggiore rilevanza con l’esterno questo ha comportato una identificazione dei componenti stessi.

2.

La realtà comunitaria dell’«Isola» nasce in un contesto fortemente localizzato: i componenti erano in gran parte persone del paese. Il contesto sociale di provenienza pertanto era quello comune. Relativamente al contesto culturale, il gruppo era eterogeneo avendo al suo interno persone provenienti da famiglie di agricoltori e professori, famiglie fortemente schierate politicamente su entrambi i fronti.

3.

Tutti gli appartenenti alla realtà comunitaria erano italiani e (eccezione fatta per i puristi del dialetto) parlavano la stessa lingua. Credo sia però importante sottolineare che la differenza di linguaggio era comunque presente: le persone cresciute in ambiente parrocchiale cattolico usavano termini ed espressioni molto differenti da quelli utilizzati (ad esempio) da non credenti o da chi veniva da famiglie saldamente di sinistra.

4.

Direi che l’unica caratteristica che le persone appartenenti all’«Isola» divenuta comune sia proprio il non fermarsi davanti all’immediato e l’approfondire le problematiche sociali del quotidiano. La capacità e direi il bisogno di fare domande, di condurre analisi critiche nascono dal fatto che i componenti stessi per primi si ponevano in un’ottica critica e si interrogavano sulle proprie dinamiche.

5.

Tutti i soggetti erano posti in continua relazione gli uni con gli altri: la condivisione, il confronto erano pane quotidiano. A dimostrazione di questo basti pensare che a anni di distanza, ora che la realtà comunitaria è giunta a termine, i rapporti individuali sono rimasti forti e presenti.

6.

Direi di «invasione» nel senso che la realtà comunitaria è entrata senza preavviso e inaspettatamente nella società esterna con una forte componente di analisi critica. L’approccio non è stato accolto con benevolenza, soprattutto dalle forze politiche e dalle realtà parrocchiali del tempo venendo spesso indicato come elemento di disturbo più che di analisi.

7.

Tutte le attività venivano proposte e condivise da tutto il gruppo. In funzione della disponibilità personale ciascun membro metteva le proprie energie e possibilità a disposizione degli altri. L’esempio più evidente è la sistemazione del casolare «Isola» in cui le prime famiglie hanno iniziato a vivere assieme e nel quale il gruppo intero si trovava in alcuni momenti particolari: ogni membro ha contribuito sia economicamente che fornendo forza lavoro e progettazione 275


8.

secondo le proprie competenze (all’interno del gruppo vi erano architetti, ingegneri e geometri). È possibile ed è un aspetto che è rimasto nel tempo.

9.

Innanzitutto era una «casa» nel senso che la accoglienza e l’attenzione al singolo erano palpabili in particolare durante i momenti di riposo e dei pasti. Per la mia esperienza (ridotta visto che al tempo dell’«Isola» ero molto piccolo) quello che passava era il profondo senso di amicizia fondata non solo su simpatia ma su esperienze importanti e su qualche cosa che allora non riuscivo ben ad identificare, ma che oggi riporterei ai momenti di confronto e di analisi su temi profondi e seri.

10.

La comunità si è sviluppata negli anni passando da struttura con coltivazione di piante ed animali da portare nei mercati locali alla apertura di negozi. Per la parte sociale, credo che le attività più rilevanti siano state la serie di incontri organizzati all’interno delle sale comunali chiamando personaggi di rilievo con cui confrontarsi e far confrontare chiunque vi avesse partecipato. Inoltre venne avviata la redazione del giornale “Presenza” che rappresentava la sintesi del percorso fatto e proponeva al paese uno sguardo critico e pulito da ogni connotazione partitica sulle problematiche del quotidiano. Oltre a queste attività ci sono altre iniziative che hanno avuto origine nel percorso dell’«Isola» dalla presidenza del C.S.I. ai viaggi in Palestina con soggiorno nella casa di riposo di Ain Arik… Tutte le attività mantenevano un unico fondamento che si potrebbe ben riassumere con il motto di don Lorenzo Milani: «I care, a noi care tutto!!»

11.

Il giovamento è sorto in un tempo successivo, quando le iniziative proposte e soprattutto la tenacia dei partecipanti ha fatto presa sulle generazioni più giovani.

12.

C’era all’interno della struttura un ambiente chiamato «la capellina» in cui noi piccoli vedevamo scomparire gli adulti per tempi anche lunghi mentre noi rimanevamo a giocare assieme. Questi momenti erano di incontro, di preghiera e di confronto sia sulle attività in corso che sulle tematiche di base rispetto alle quali l’intera comunità era chiamata ad interrogarsi. Oltre a questi tempi erano presenti i momenti della cena durante i quali i singoli in un rapporto individuale si confrontavano su problematiche più inerenti il proprio quotidiano e i momenti necessari per la organizzazione delle diverse attività.

13.

La riflessione, la preparazione delle diverse attività venivano sviluppate secondo le esigenze e le tempistiche personali (in particolare per chi già lavorava) e quindi negli spazi individuali.

14.

?

15.

Il gruppo propose una auto tassazione per poter acquistare un edificio rurale con annesso campo da coltivare. Questo spazio venne acquistato nell’ottica di una vita condivisa. Alcune famiglie si trasferirono dopo il matrimonio direttamente nei locali che erano stati ricavati dalle diverse stanze mentre altri erano più spesso di passaggio fermandosi in alcune parti del giorno (pasti, dopo lavoro, dopo cena). All’interno di questi spazi si trovavano anche gli ambienti in cui si organizzavano le varie attività.

16.

La particolarità che ben mi ricordo di questi spazi è proprio che non sapevi mai dove sederti: non c’erano posti fissi né tanto meno posti gerarchicamente definiti… quasi naturalmente accadeva che le tavolate venivano divise fra maschi e femmine (regola questa mai scritta né detta eppure applicata anche oggi nelle occasioni di ritrovo). Alla stessa maniera anche nella capellina sia per i momenti di riunione sia per i momenti di preghiera, le panche erano disposte attorno alle pareti e quindi tutti vedevano tutti. Lo stesso don Carlo (guida del gruppo) era seduto fra gli altri eccezione fatta, ovviamente, per i momenti di celebrazione in cui presiedeva da dietro un tavolo attrezzato ad altare.

276


17.

Gli spazi individuali erano definiti in maniera autonoma e credo nessuno abbia mai posto un confronto fra le scelte in questo senso.

18.

Una realtà comunitaria ha bisogno di un punto fisico di riferimento: non per elezione del luogo o esclusione degli esterni, ma, ritengo, per avere un continuo richiamo al concreto. Le idee, le proposte che nascono in quel luogo non possono essere concetti astratti…si scontrano con il ruvido delle pareti che le contengono e se vogliono uscire devono divenire solide… Uno spazio fisico deve esserci anche solo per richiamare ai sensi il contesto in cui la comunità opera ed agisce. La mancanza di tale spazio crea, a parere mio, dispersione e non porta al vero incontro con l’altro che prima di tutto nasce dalla capacità di accoglienza in uno spazio in cui uno dei due è straniero.

19.

Credo che la solitudine dell’uomo, quella profonda inquietudine che caratterizza l’essere, non sia risolta dal senso di appartenenza, anzi alle volte ne viene esacerbata! Ciò che consente il sentirsi parte di una realtà comunitaria è la capacità di fare, il rendersi conto che i pensieri, le proposte possono assumere spessore, carta, inchiostro, cemento e quanto altro serve per divenire reali. La soltudine, direi, spirituale rimane perché è il luogo dell’incontro con il divino e questa non può essere messa a tacere, ma piuttosto viene rivelata per la sua reale dimensione: una solitudine in cui non sei solo perché mai sei abbandonato, un deserto in cui sei chiamato a camminare per uscire dalla schiavitù per usare termini vicini all’Esodo.

20.

Credo che una esperienza come una realtà comunitaria per sua natura debba avere un inizio ed una fine… Lo dico non per senso di rassegnazione, ma perché ogni esperienza che si accompagna alla vita personale non può non evolversi con essa, cambiare, crescere, morire rispetto alle sue origini per rigenerarsi con nuova forza. L’importante è che i componenti non si fossilizzino sulle dinamiche e sulle caratteristiche originanti la comunità stessa. Questo creerebbe nei nuovi elementi umani un senso di restrizione, di appartenenza adottiva e non naturale. Una comunità provvisoria potrebbe essere una giusta soluzione nella ipotesi di una struttura capace di ricrearsi ma soprattutto di evolversi con le persone che di volta in volta ne entrino a far parte. Sotto queste ipotesi credo sia possibile proporre una esperienza come quella descritta.

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5.APPENDICE

la ricerca del silenzio da GEO_Marzo 2011

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5.APPENDICE

i luoghi del silenzio

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bibliografia in ordine alfabetico

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ringraziamenti insieme si può

Al termine di questo percorso di studi tanti pensieri attraversano la mia mente. E’ stato un tempo molto faticoso, pieno di ore dedicate allo studio, pieno di dubbi, pieno di cambiamenti. Negli anni dell’università si cresce e si cambia, si evolvono gli interessi e il modo di pensare, e ora, come non avrei mai immaginato, mi trovo a desiderare soltanto di ringraziare.

Grazie di cuore alla mia relatrice prof. arch. Giovanna Massari. E’ stata un esempio di umanità e professionalità. La ringrazio per il tempo dedicato al mio lavoro, per l’incoraggiamento e la presenza sicura.

Ringrazio innanzitutto questa fatica, perchè è stata elemento essenziale di crescita, maestra di vita e di umiltà. Vivere tale fatica mi ha fatto comprendere la mia impotenza, la mia fragilità e la mia pochezza. Vivere tale fatica mi ha fatto realizzare il valore dell’aiuto fraterno, del trasformare un successo in una gioia condivisa, in un’occasione di relazione. Potrei scrivere un’altra tesi su questo, perchè è stato veramente il risvolto più importante e più bello di tutti questi anni di università. Ma l’Amore ha bisogno di nomi, e veramente non voglio dimenticare nessuno.

Un immenso grazie a Tomas appassionato e generoso!!

Il mio primo grazie va alla nonna Maria, a cui dedico questo mio lavoro. Ti ringrazio nonna perchè sei la persona che mi ha insegnato la comunione nel silenzio. Il tuo sguardo ha sempre detto ciò che la tua voce non era in grado di esprimere. Ringrazio poi con tutto il cuore i miei genitori che in tutti questi anni mi hanno sentito lamentarmi, disperarmi, esaurirmi, ma che non hanno mai dubitato che ce l’avrei fatta. Vi ringrazio, so che ci siete stati sempre al vostro meglio, con amore.

Grazie ai miei correlatori arch. Chiara Rizzi e arch. Marco Molon per la disponibilità e gentilezza in questo tempo. per

l’aiuto

Un altro grazie sentito va a mio zio arch. Remo Dorigati, che è stato vero motore di questa tesi. Gli incontri con te sono stati essenziali per comprendere i fondamenti del progetto e per apprezzare quanto la cultura può trasformarsi in architettura. Grazie per il tempo speso per il mio lavoro con grande disponibilità al prof. ing. Antonio Frattari e all’ing. Marco Sontacchi. Un grazie del più profondo del mio cuore va a suor Stefania e fra Giovanni. Senza di voi non avrei mai conosciuto l’Amore, principio generatore di questo lavoro. Non sarei mai riuscita a trasformare l’aridità in cui si trovava il mio studio, nella bellezza che ne è emersa. Grazie per il vostro sguardo di fiducia e di amore. Grazie anche a suor Maria Pia, suor Mariana e tutte le suore GB, la vostra famiglia è porto sicuro, la vostra preghiera mi ha accompagnato e confortato lungo tutto il cammino. 287


Un ringraziamento particolare va a Giorgia. Amica cara, sarebbe troppo poco ringraziarti per l’aiuto pragmatico che mi hai dato con il tuo tempo e le tue conoscenze grafiche. Sei stata preziosissima. Ma soprattutto ti ringrazio per la profondità della tua amicizia, che non ha bisogno di troppe parole, lo sai. Ringrazio poi Anna, amica belllissima. Anche se non mi hai invitato alla tua laurea eheh. Grazie, la tua amicizia è stata ed è linfa vitale, camminare con te è un grandissimo dono. Grazie. Grazie al carissimo Francis, testimone fin dall’inizio di questo mio lavoro, tutor, aiutante, consigliere, ma soprattutto amico. Grazie davvero per tutto il tempo passato insieme, dalla saspu

immensa fatica Ari e Ire. Non so nemmeno quante ne abbiamo passate insieme. Mamma mia. Grazie per esserci sempre state. Grazie a Gio Dal Monte, sei un amico importante. Un grazie importante anche ad Ali e Fede, senza la cui compagnia gli ultimi esami sarebbero stati un vero incubo. Siete stati ottimi compagni ed amici. Grazie con tutto il cuore a Serena e Riccardo, amici distanti, ma così vicini. Grazie a Olli, per la preziosa amicizia, per essere compagno di risate e chiacchierate infinite, hai davvero rasserenato tanti momenti. Grazie a Chiaretta, Ste, Anna, Saretta, Giadina e

della biblioteca ad ora.

Giorgina amiche sempre nel cuore, lo sapete.

Grazie di cuore a Fede, compagno costante di studi, ma soprattutto amico. Quanti passi fatti insieme, quanto sostegno reciproco, quante pause rigeneranti, quanti discorsi profondi, davvero grazie.

Grazie alla cara Lucy Scibby, sei sempre un grande dono di condivisione e amicizia.

Tanta gratitudine alla mia dolce amica Giulia Grigo. Pur nella distanza, che in un modo o nell’altro ci ha sempre separato, ho sempre sentito il tuo cuore vicino al mio, la tua preghiera, il tuo sostegno, la tua amicizia.

Un altro grazie, non meno importante, per la realizzazione di questo lavoro va a Toti. Grazie perchè le chiacchierate con te sono sempre state illuminanti e profonde.

Grazie a Eugi e Perbe, amiche di sempre. Quanti giorni condivisi sui libri, quante fatiche affrontate con voi. Vi ringrazio per esserci sempre. Grazie mille a Pietro, compagno di chiacchierate. Grazie per il tuo aiuto, la tua amicizia di sempre. Grazie a Pippo: mi hai reso un bellissimo servizio, è stato davvero un piacere confrontarsi con te su temi importanti. Grazie mille all’amico John White che mi ha aperto la porta del suo ufficio con generosità e disponibilità! E grazie anche a Zeno Bernardini, gentilissimo amico per i materiali concessi. Tanti grazie alle mie amiche e compagne di questa 288

Un grande grazie a tutti gli amici che mi hanno sostenuto sempre: Pava, Ali, Guelfo, Eli, Chiara, Lucy e tutti gli altri!

Grazie ad Andrea Bernardelli, per avermi dedicato il tuo tempo per il mio lavoro. Un sentito ringraziamento all’assessore Anna Leso per l’ascolto, l’aiuto, la disponibilità dimostrata nei miei confronti. Grazie all’arch. Giovanni Policante per la disponibilità del materiale e dell’ingresso in cantiere. Ringrazio inoltre il dott. Maurizio Ligozzi e tutta la Sarmar SPA per la concessione per la visita in situ. Grazie poi a tutti coloro che si sono messi a disposizione per rispondere al mio questionario. Ciascuno di voi è stato un volto fondamentale per questo lavoro.


Per prima ringrazio suor Emmanuela del monastero delle Clarisse di Borgo Valsugana, conosciuta con un’intervista, e ormai amica. Grazie di cuore per il sostegno e l’affetto.

Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile il termine di questa corsa, e il nuovo inizio che ne nascerà.

Un sentito grazie va poi a padre Silvano Fausti e Tullio Cottatellucci, e a tutta la sua famiglia, della comunità di Villa Pizzone. E’ stato un grande piacere incontrarvi, conoscere la vostra realtà, confrontarmi con voi. Grazie infinitamente per la vostra accoglienza.

Emilia

Un grande grazie anche a Davide Orvieto della comunità ebraica di Verona. E’ stato un grande piacere conoscerti, e conoscere una parte della vostra cultura. Grazie per la passione con cui mi hai risposto e ascoltato. Grazie a Mathias Wirz della comunità di Bose. E’ stato un dono incontrarti e conoscere la vostra comunità. Grazie per l’ascolto e la collaborazione. Un grazie particolare a Fabio Ferrari della comunità Monte Oliveto di Verona. Grazie per l’aiuto, la collaborazione e l’importante condivisione circa i temi della tossicodipendenza. Un grande grazie a Matteo Parisini e Elia Comastri dell’Isola di Sasso Marconi. Grazie per l’aiuto e l’entusiasmo dimostrato. Auguri per il vostro bellissimo film! Grazie poi sentitamente per la disponibilità a Rosanna Tabasso, del Sermig di Torino; a Sefora, della comunità di Nomadelfia; a Roberto Hamza Piccardo, della comunità islamica di Imperia; a Mauro Parabhakti Bombieri della comunità Villa Vrindavana di Firenze e a Paolo Bogo della comunità Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo (MI).

Ma non esiste un sinonimo di grazie? Ci dobbiamo lavorare. Intanto lasciatemelo dire soltanto un’ultima volta. 289


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