BENEDETTO XVI
I MIEI ANNI SUL MONTE
DISCORSI LETTERE INCONTRI DEL PAPA EMERITO a cura di Luciano Garibaldi
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Anteprima
fotografie inedite
Progetto grafico Marco Sala In copertina: Benedetto XVI in compagnia di mons. Georg Gänswein. Foto ŠVatican Media Stampa e legatoria Casa Editrice Mimep-Docete via Papa Giovanni XXIII, 2 20060 Pessano con Bornago (MI) tel. 02 95741935 email: info@mimep.it www.mimep.it www.mimepjunior.it Copyright Mimep-Docete, 2019
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PREFAZIONE
UN PAPA UMILE E PROFETA + P. Manuel Nin* La pubblicazione della raccolta dei testi di papa Benedetto XVI, nel suo “ministero” come Papa emerito, ci offre la possibilità di leggere, e allo stesso tempo di riscoprire, quello che è stato ed è il pensiero teologico e spirituale di questo grande Papa. Egli ha avuto il coraggio e, oserei dire, il “grande coraggio”, amando sempre e fino in fondo la sua sposa, la Chiesa, di sapersi fare da parte nel momento in cui le sue forze umane cominciavano a diminuire. Iniziando così un nuovo modo di vivere il suo servizio nella vigna del Signore, un nuovo ministero vissuto nel silenzio, nella preghiera, come i primi monaci, con lo sguardo e la parola sempre attenti al mondo e alla Chiesa. Una parola nata dalla preghiera e dall’amore e per questo “più tagliente di ogni spada a doppio taglio” (Ebrei 4,12). * Vescovo titolare di Carcabia Esarca Apostolico per i Cattolici di tradizione bizantina in Grecia.
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Nei giorni successivi alla rinuncia di papa Benedetto XVI al ministero petrino (siamo nel febbraio del 2013), ci siamo posti tante domande. In quei giorni ci fu anche chi interpretò come un “gran rifiuto” la decisione di Benedetto XVI di abbandonare la cattedra di Pietro, giudicandola come un abbandono, addirittura uno “scendere dalla croce”. Sempre in quei giorni, di fronte a quello che io ritengo il “gran coraggio” del Papa, non ho potuto fare a meno di rileggere un testo liturgico della tradizione bizantina che precede la Quaresima e che corrisponde alla liturgia di quel fatidico febbraio del 2013. Il testo dice tra l’altro: “Facendo conto di rimanere presso il Salvatore crocifisso, o meglio di essere crocifisso insieme a Colui che per te è stato crocifisso, grida a Lui: ‘Ricòrdati di me Signore, quando sarai nel tuo regno’. Questo testo ci ricollega direttamente alle parole di Benedetto XVI nell’ultima udienza del suo pontificato: ‘Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso. “Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro”. Quando il 19 aprile del 2005 Benedetto XVI, da
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poco eletto alla sede papale, si presentò al popolo nella loggia della basilica vaticana, si definì “un umile lavoratore nella vigna del Signore”. Dopo quasi otto anni di quotidiano, faticoso lavoro, consegnò quella vigna arata, potata e curata con amore sponsale ad un altro che ne doveva continuare la coltivazione. In Benedetto XVI abbiamo visto quell’amoroso servizio che il profeta Isaia canta per la sua vigna: “Voglio cantare per il mio diletto un cantico d’amore alla sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna su un colle ubertoso. Egli la vangò, la liberò dai sassi e la piantò di viti eccellenti; in mezzo ad essa costruì una torre e vi scavò anche un tino; attese poi che facesse uva. Invece produsse uva aspra” (Isaia 5,1-4). È come se l’umile lavoratore Joseph Ratzinger, diventato per volontà di Dio ed il voto degli uomini l’umile pastore Benedetto XVI, non avesse voluto fare altro che rimanere fedele a se stesso e incarnare nel suo ministero pastorale di successore di Pietro, il canto del profeta Isaia sulla vigna. Un umile lavoratore della vigna diventato umile pastore. Lungo il suo pontificato Benedetto XVI volle in qualche modo sparire, farsi piccolo, discreto, e non per ostentazione ma per mostrare Colui
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PREMESSA
"DUM TACET CLAMAT" Perché un libro scritto a sei mani da persone che mai prima avevano pensato di poter scrivere qualcosa? Perché intraprendere una strada sconosciuta e anche irta di ostacoli? Solo per il grande affetto che ci lega a papa Benedetto, lui che da ragazzo era chiamato il “Bucher-Ratz”, il Ratzinger del libro, e che pertanto i libri li ha sempre amati; per essere ancora una volta vicine, con tutto il nostro cuore e la nostra simpatia, a ogni momento di questi anni trascorsi “sul monte” dal papa emerito Benedetto XVI; e per gratitudine verso colui che più di ogni altro noi possiamo definire “il nostro papa”, perché ci ha presi idealmente per mano e ci ha tirati fuori dalla nostra personale caverna, dalla nostra poca fede, o dalla nostra infelicità, facendosi per noi, come per milioni di cattolici, luce e faro. E, infine, per fare conoscere a un pubblico, speriamo grande, parole e immagini poco note di questi cinque anni passati “da autoclaustrato”, come ebbe a dire di lui papa Francesco. Forse per la prima volta si trovano riuniti in un’unica pubblicazione quasi tutte le parole pronunciate o scritte che papa Benedetto ha lasciato trapelare dalle
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mura del monastero Mater Ecclesiae in questi cinque anni del suo essere «semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra», anni in cui dum tacet clamat, mentre tace parla, come recentemente ci ha ricordato monsignor Georg Gänswein, con questa frase di Cicerone, che in una sintesi stringata ci chiarisce quanto sia eloquente il silenzio di papa Benedetto. E se il suo silenzio è eloquente, tanto più lo sono le poche parole che lo riescono a forare. Ognuna di esse sempre ci riporta al suo ultimo saluto, pronunciato alle ore 17 circa di quel 28 febbraio 2013, affacciato al balcone di Castelgandolfo: «Vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia». Papa Benedetto davvero ci vuole bene, a noi e a tutto il mondo, e tanto apprezza da sempre quell’anticipo di simpatia, che troppo spesso gli è mancato. Anche questo è il senso di questo libro: dire che la simpatia in realtà c’è stata, e c’è, anzi va aumentando di giorno in giorno, soprattutto nel popolo di Dio che poco conta nei media e tra i grandi di questo mondo, ma che certamente trova una collocazione importante in altri luoghi. Rita Capecchi, Anna Maria Conti, Alessandra Marra
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E’ il 28 febbraio 2013. L’elicottero con a bordo Benedetto XVI lascia il Vaticano per condurre Papa Ratzinger a Castelgandolfo dove rimarrà fino al 2 maggio, data del suo rientro “nel recinto di San Pietro”.
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on è stato un anno facile, è stato l’anno della grande novità. Abbiamo dovuto imparare tutto da zero, capire il profondo valore della presenza silenziosa di papa Benedetto “nel recinto di San Pietro”, ma tanto ci avevano colpito queste sue parole nell’ultima udienza generale del 27 febbraio, che proprio in questo modo – “Papa Benedetto nel Recinto di Pietro” – abbiamo chiamato il nostro primo gruppo sul social a lui dedicato. Ci è sempre apparso, già da allora, che proprio qui fosse il nucleo principale del passo compiuto dal Papa: rinunciare al munus petrino, rimanendo nello stesso tempo presente e operante con la forza della sofferenza e della preghiera, cioè “orando et patiendo”, come disse appunto papa Benedetto nella sua declaratio dell’11 febbraio, con cui rinunciava all’esercizio attivo del suo ministero. Qualche tempo dopo, monsignor Gänswein così definirà l’evento: «Nella storia della Chiesa resterà che nell’anno 2013 il celebre teologo sul soglio di Pietro è diventato il primo “Pontifex emeritus” della storia. Da allora il suo ruolo – mi permetto ripeterlo ancora una volta – è stato del tutto diverso da quello, ad esempio, del santo papa Celestino V, che dopo le sue dimissioni nel 1294 avrebbe voluto ritornare eremita, divenendo invece prigioniero del suo successore Bonifacio VIII (al quale oggi dobbiamo nella Chiesa l’istituzione degli anni giubilari). Un passo
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L’anno della svolta
come quello compiuto da Benedetto XVI fino ad oggi non c’era mai stato». E’ stato difficilissimo non sentire, ad ogni appuntamento abituale, all’Angelus della domenica come all’Udienza del mercoledì, le parole e la voce di papa Benedetto, che ogni giorno ci invitava alla gioia, anzi alla “cioia”, ma la gioia quella vera, quella che nessuno di noi può produrre o confezionare da sé, e perciò nemmeno togliere. E’ stato difficilissimo, perché ben sapevamo che egli non era morto, ma viveva, e comunque ci stava accompagnando con la sua preghiera. E così, da allora, ogni giorno, abbiamo intrapreso il nostro modesto impegno di riproporre brani teologici e di magistero, nella nostra pagina Facebook, attirando sempre più amici che condividevano quotidianamente il nostro percorso. Un gran senso di vuoto ha caratterizzato questo inizio. Non ci si poteva proprio rassegnare a non vederlo e non sentirlo. Avremmo voluto tutti diventare fotoreporter, o uccellini, e catturare almeno qualche immagine. E così abbiamo provato una grande gioia alla vista della prima “paparazzata”, realizzata mentre egli passeggiava recitando il rosario in compagnia di monsignor Georg, nei giardini di Castelgandolfo, nei primi giorni di marzo. E poi la visita di papa Bergoglio, il 23 marzo, i saluti, gli abbracci, la preghiera e infine quegli scatoloni di carte su un tavolo, probabilmente i documenti su Vatileaks – abbia-
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2013 mo pensato – che passavano da un Papa all’altro. Passano i mesi, e il 2 maggio finalmente papa Benedetto, terminata la ristrutturazione del monastero Mater Ecclesiae, rientra in Vaticano. E così arrivano le immagini ufficiali: il Papa emerito rientra “nel recinto di San Pietro” non soltanto inteso come luogo “teologico”, che non ha mai lasciato, ma proprio in modo fisico. Lui è tornato per restare lì, nella sua nuova dimora in cima al colle Vaticano. Un paio di mesi dopo, il 5 luglio, un altro avvenimento segna lo scorrere del primo anno di questa nuova tappa di vita ritirata di Joseph Ratzinger, e così ancora una volta lo possiamo vedere in immagini “ufficiali”. E’ per l’inaugurazione, insieme a papa Francesco, nei giardini Vaticani, della statua di san Michele Arcangelo, statua da lui fortemente voluta, e che reca sul basamento i nomi di entrambi i pontefici. Lo rivediamo con il suo sorriso di sempre, dolce e paterno, in mezzo a una piccola folla, tanti bambini e ragazzini che lo vogliono salutare, felice che quest’opera cui tanto teneva fosse stata portata a compimento. Il 5 luglio è lo stesso giorno della pubblicazione dell’enciclica Lumen Fidei, l’enciclica a quattro mani, che reca il nome di Francesco, ma che in realtà era a un ottimo punto di preparazione, quasi pronta per la stampa – si dice – quando intervenne la rinuncia: in pratica, la quarta enciclica di
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Il monastero Mater Ecclesiae, nuova residenza di Benedetto XVI dopo il suo ritorno in Vaticano il 2 maggio 2013. L’edificio sorge sul punto più alto della Città del Vaticano.
papa Benedetto, che conclude il ciclo delle virtù teologali, dopo le encicliche sulla carità e sulla speranza. Arriviamo al 1° settembre, e ancora una volta lo rivediamo in pubblico, seppure un pubblico ristretto, di pochi amici fedeli, alla Messa per la conclusione dei lavori dello Schülerkreis, il circolo dei suoi ex allievi, che ogni anno, dal 1977, si riunisce in una settimana di fine estate, per discutere insieme al maestro, cioè il professor Ratzinger, su un tema teologico deciso insieme nell’anno precedente. La consuetudine era continuata anche dopo la sua elezione a Papa nel 2005, solo spostando la sede dei lavori dalla Germania a Castelgandolfo. In questo 2013 il tema scelto è stato “La questione di Dio sullo sfondo della secolarizzazione”. Quest’anno segna
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2013 però una svolta, perché per la prima volta Joseph Ratzinger non partecipa attivamente ai lavori teologici, ma solo invita tutti i partecipanti in Vaticano alla fine delle giornate di lavoro, per celebrare la Messa conclusiva della riunione nella Chiesa del Governatorato, pronunciando, a braccio, e in tedesco, l’omelia in cui, commentando il Vangelo del giorno, ci spiega qual è il posto giusto da occupare nella vita: «Chi in La statua di San Michele Arcangelo inaugurata da Papa questo mondo e in questa storia Francesco e da Papa forse viene spinto in avanti e arriva Benedetto XVI il 5 luglio 2013 ai primi posti, deve sapere di essere in pericolo; deve guardare ancora di più al Signore, misurarsi a lui, misurarsi alla responsabilità per l’altro; deve diventare colui che serve, colui che nella realtà è seduto ai piedi dell’altro, e così benedice e a sua volta diventa benedetto. Penso che tutto questo deve passare attraverso i nostri cuori quando contempliamo Colui che è il primogenito della creazione, ma è nato nella stalla e morto sulla Croce. Il posto giusto è quello vicino a Lui, il posto secondo la sua misura. E qualunque luogo la storia ci possa assegnare, è nostra responsabilità verso di Lui, amore, giustizia e verità che sono cruciali».
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L’anno della svolta
Questa omelia ci è giunta completa, attraverso una registrazione e una traduzione dal sito Kath.net e così la possiamo riportare interamente. Non sarà così purtroppo per quelle del 2014 e 2015. Sempre in settembre lo possiamo nuovamente leggere, questa volta su un importante quotidiano, precisamente “La Repubblica”, che pubblica una lunga lettera inviata dal Papa emerito al matematico Piergiorgio Odifreddi, in risposta al suo libro “Caro Papa ti scrivo”, che Odifreddi, il quale si definisce pubblicamente ateo, gli aveva inviato in lettura all’inizio di marzo, subito dopo la sua rinuncia, durante il suo periodo di residenza a Castelgandolfo, e mai avrebbe sperato in una risposta così puntuale, completa e articolata. Una risposta caratterizzata soprattutto da completa schiettezza: «Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è in sé stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione». Ritroviamo tutto Joseph Ratzinger, il suo metodo, i suoi argomenti, la sua scienza e la sua fede, e siamo ovviamente molto grati e rincuorati per questo fatto, e in un angolo del nostro cuore si accende il desiderio che sia solo il primo di una lunga serie di nuovi scritti. Non avevamo ancora capito completamente il grande valore del silenzio. Per concludere l’anno, ecco le immagini della visita di
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Benedetto XVI con i coristi di Collemaggio (L’Aquila). All’indomani del terremoto, nel 2009, Papa Ratzinger aveva deposto sull’urna di Celestino V, a Collemaggio, il suo primo pallio da Pontefice.
papa Francesco al Mater Ecclesiae, il 23 dicembre, per portare personalmente gli auguri di Natale al Papa emerito, e così mostrare al mondo questo nuovo modo di essere fratelli. Ed è sempre datata 23 dicembre, anche se uscirà solo dopo qualche settimana, la lettera indirizzata ai partecipanti al Congresso di Morogoro, in Tanzania, dedicato alla figura di Gesù. Il Congresso, previsto per il mese di marzo 2014, comprendeva una parte dedicata ai tre volumi di Joseph Ratzinger dedicati alla figura di Gesù. In proposito, il Papa emerito volle precisare che i tre volumi non costituivano parte del suo Magistero, ma rappresentavano solo una «possibilità di una vicinanza più profonda a Gesù offerta dalla moderna teologia», una teologia veramente cattolica, che parte dalla fede.
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DOCUMENTI “Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.”
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2013 NON C'E' LUCE SENZA LA FEDE Riportiamo i punti più significativi della enciclica “Lumen Fidei”, diramata il 5 luglio 2013 da Papa Francesco, che l’aveva ricevuta dalle mani del suo predecessore e l’aveva sottoscritta. Avrebbe infatti dovuto essere la quarta enciclica di Papa Benedetto XVI. L’enciclica è indirizzata “ai Vescovi, ai Presbiteri e ai Diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici”.
1. Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta. 4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro
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con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a San Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”. Proprio di questa luce della fede vorrei parla-
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2013 re, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce. 16. La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr. Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr. Gv 19,37): «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (cfr. Gv 19,35). Fëdor Dostoevskij, nella sua opera “L’Idiota”, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la
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fede a qualcuno». Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo. 23. «Se non crederete, non comprenderete» (cfr. Is 7,9). La versione greca della Bibbia ebraica, la traduzione realizzata in Alessandria d’Egitto, traduceva così le parole del profeta Isaia al re Acaz. In questo modo la questione della conoscenza della verità veniva messa al centro della fede. Nel testo ebraico, tuttavia, leggiamo diversamente. In esso il profeta dice al re: «Se non crederete, non resterete saldi». […] 24. Il testo di Isaia porta a una conclusione: l’uomo ha bisogno di conoscenza, ha bisogno
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2013 di verità, perché senza di essa non si sostiene, non va avanti. La fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci. Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo, alla variabilità dei tempi, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita. Se la fede fosse così, il re Acaz avrebbe ragione a non giocare la sua vita e la sicurezza del suo regno su di un’emozione. Ma proprio per il suo nesso intrinseco con la verità, la fede è capace di offrire una luce nuova, superiore ai calcoli del re, perché essa vede più lontano, perché comprende l’agire di Dio, che è fedele alla sua alleanza e alle sue promesse. 25. Richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo. Nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia: è vero ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza, vero perché fun-
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ziona, e così rende più comoda e agevole la vita. Questa sembra oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si può discutere e impegnarsi insieme. Dall’altra parte vi sarebbero poi le verità del singolo, che consistono nell’essere autentici davanti a quello che ognuno sente nel suo interno, valide solo per l’individuo e che non possono essere proposte agli altri con la pretesa di servire il bene comune. La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto. Non è stata forse questa — ci si domanda — la verità pretesa dai grandi totalitarismi del secolo scorso, una verità che imponeva la propria concezione globale per schiacciare la storia concreta del singolo? Rimane allora solo un relativismo in cui la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più. È logico, in questa prospettiva, che si voglia togliere la connessione della religione con la verità, perché questo nesso sarebbe alla radice del fanatismo, che vuole sopraffare chi non condivide la propria credenza. Possiamo parlare, a questo riguardo, di un grande oblio nel nostro mondo contemporaneo. La
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2013 domanda sulla verità è, infatti, una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro “io” piccolo e limitato. È una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la meta e così anche il senso della strada comune.
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ALLA RICERCA DEL POSTO GIUSTO (Dall’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 1 settembre 2013 ai suoi ex allievi dello Schülerkreis, registrata e tradotta a cura di «Katolische Nachrichten»)
Cari fratelli e sorelle, all’inizio del pasto festivo nella casa del fariseo, il Signore osserva come la gente stia cercando i posti migliori, e questo accadimento diventa per Lui una parabola: per la storia, per la vita dell’uomo e nel tutto. Ciascuno cerca il posto buono nella storia, ciascuno vuole trovare la sua propria buona posizione nella vita. La domanda è solo: quale è il posto buono e quale è il posto giusto? La parola del Signore dell’ultima domenica mi viene in mente in questo senso: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Un posto che può sembrare molto buono può rivelarsi per essere un posto molto brutto. E noi sappiamo che questo non accade solo nell’ultimo Giudizio, ma anche piuttosto spesso nel mezzo di questo mondo. Noi stessi
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2013 abbiamo potuto vedere negli ultimi decenni come i primi siano stati rovesciati e improvvisamente siano diventati ultimi e l’apparente posto buono si sia rivelato un posto sbagliato. Gesù ritorna allo stesso problema durante l’ultima Cena. I discepoli stavano discutendo tra loro su chi fosse il più grande. Così lo stesso sta succedendo qui: la spinta verso l’alto, verso i posti apparentemente buoni. Gesù dice loro: «Chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve?». «Quello che è a tavola, naturalmente», gli rispondono. «Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve», replica Gesù. In questo modo ci dice: il vero buon posto è al fianco di Gesù e accettando la sua grandezza.[…]. Chi in questo mondo [… ] viene spinto in avanti e arriva ai primi posti, deve sapere di essere in pericolo; deve guardare ancora di più al Signore, misurarsi a lui, misurarsi alla responsabilità per l’altro, deve diventare colui che serve, quello che nella realtà è seduto ai piedi dell’altro, e così benedice e a sua volta diventa benedetto. Penso che tutto questo deve passare attraverso i nostri cuori quando contempliamo Colui che è il primogenito della creazione, ma è nato nella stalla e morto sulla
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Croce […]. Nel Vangelo di oggi il Signore non usa l’immagine di primo e ultimo, ma di esaltazione e di umiliazione: «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». In questo noi percepiamo l’inno cristologico che ci ha tramandato nella Lettera ai Filippesi: Cristo, essendo in forma di Dio, si umiliò e quindi Dio l’ha esaltato al posto più alto e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome. La discesa di Gesù dal posto più alto di Dio all’umiliazione dell’uomo è l’atto d’amore in cui si dona liberamente. E’ dunque in questa “discesa” che la natura stessa di Dio si manifesta. Noi siamo sulla via di Cristo, sulla giusta via, se tentiamo di umiliare noi stessi come Lui ha fatto. E’ solo in questo modo che siamo in grado di salire a vera grandezza, la grandezza di Dio, che è la grandezza dell’Amore. San Giovanni ha anche dimostrato questo nel suo Vangelo, descrivendo la Croce come esaltazione. La croce, nella storia, è l’ultimo posto e il crocifisso non ha nessun posto, è un non-posto: è stato spogliato, è un nessuno. Eppure Giovanni nel Vangelo vede questa umiliazione estrema come la vera esaltazione.
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2013 Così, Gesù è il più alto; è all’altezza di Dio perché l’altezza della croce è l’altezza dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stesso e la dedizione agli altri. Così, questo è il posto divino, e noi vogliamo pregare Dio che ci doni di comprendere tutto questo sempre di più e di accettare con umiltà, ciascuno a modo proprio, questo mistero dell’esaltazione e dell’umiliazione. Un secondo ammonimento di Gesù è quando Egli parla degli inviti […]. Gesù dice: «Invitate coloro che non possono invitare: gli zoppi, i ciechi, gli storpi, i poveri, i mendicanti». Lo fece Lui stesso. Egli ci invita alla tavola di Dio e per questo ci dice che il dare gratis, la gratuità, è di vitale importanza per la nostra vita. La vita della nostra società si basa sul “do ut des”, e in effetti l’economia ha bisogno di giustizia, ha bisogno della “iustitia commutativa”. La dottrina sociale della Chiesa descrive questa “iustitia commutativa” come definire il modo giusto di trattare l’uno con l’altro e l’uno per l’altro […]. Senza la gratuità del perdono nessuna società può crescere; le più grandi cose della vita, cioè l’amore, l’amicizia, la bontà, il perdono, non
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le possiamo pagare, perché sono gratis, nello stesso modo in cui Dio si dona a titolo gratuito. Così, pur nella lotta per la giustizia nel mondo, non dobbiamo mai dimenticare la gratuità di Dio, il continuo dare e ricevere, e dobbiamo costruire sul fatto che il Signore dona a noi, che ci sono persone buone che ci donano gratis la loro bontà, che ci sopportano a titolo gratuito, ci amano e sono buone con noi gratis; e noi, a nostra volta, dobbiamo donare questa gratuità per avvicinare così il mondo a Dio, per diventare simili a lui, per aprirci a lui. Infine abbiamo bisogno di contemplare ancora la seconda lettura. Che parla della liturgia e dice: la nostra liturgia non è come una potente tempesta, come il Sinai con un fuoco ardente, con l’oscurità e forti venti. La liturgia cristiana è umile all’esterno, ma la sua grandezza si nasconde dentro l’umiltà del suo aspetto esteriore, in quanto con la liturgia ci avviciniamo al “monte Sion, alla città del Dio vivente, con migliaia di angeli in quella solenne assemblea”. Sì, dove si celebra la liturgia vi è il monte Sion, vi è il monte del Signore, che l’umanità in qualche modo sempre ricer-
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2013 ca, l’altezza dove raggiungiamo la luce e Dio stesso. Dove si celebra l’Eucarestia e vi è Gerusalemme, la città santa. In questo momento entriamo nel mistero escatologico, entriamo nella Città Santa di Dio. […] Il sangue di Gesù, che è al centro dell’Eucarestia, è la presenza di Dio che ci conduce a Sion, ci dà accesso alla gloria della festa di Dio. In quest’ora ci inchiniamo in adorazione davanti a questo mistero in cui Egli è presente, attraverso il suo Sangue versato, come colui che dona, e dove quindi la montagna del Signore è presente. Siccome noi stiamo nella Santa Gerusalemme, chiediamo a Lui di farci sempre più compiutamente capire e vivere questo mistero. Amen.
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SOMMARIO Prefazione
p. 5
Premessa
p. 16
2013 L’anno della svolta
p. 17
La parola a Benedetto XVI
p. 27
2014 L’anno della piazza
p. 50
La parola a Benedetto XVI
p. 61
2015 L’anno delle uscite pubbliche
p. 93
La parola a Benedetto XVI
p. 105
2016 Sessantacinque anni di sacerdozio
p. 122
La parola a Benedetto XVI
p. 135
2017 Verso il novantesimo compleanno
p. 186
La parola a Benedetto XVI
p. 201
2018 In pellegrinaggio verso casa
p. 222
La parola a Benedetto XVI
p. 227
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«Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta» «La causa più profonda della crisi che ha sconvolto la Chiesa risiede nell’oscuramento della priorità di Dio nella liturgia» «Cristo ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così ci ha dato e ci dà ogni giorno il pane della vera vita» «La Chiesa ha bisogno di pastori convincenti che sappiano resistere alla dittatura dello spirito del tempo, con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca sta per capovolgersi»
ISBN 978-88-8424-447-5