Per salire bisogna crederci

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ALFREDO TRADIGO

PER SALIRE BISOGNA CREDERCI Itinerari di fede e montagna

Introduzione di GIANFRANCO RAVASI ANTEPRIMA



A don Egidio Villani che mi ha portato sul Pizzo Scalino e a tutti i sacerdoti che hanno fatto amare ai giovani la montagna


Progetto grafico Marco Sala Contributi Fotografici Archivio Causa di Canonizzazione del Beato Teresio Olivelli Archivio Comunione e Liberazione Archivio Armando Aste Associazione Nazionale Alpini Archivi Scala Firenze Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico Eva Casini Fondazione Don Primo Mazzolari Francesco Gasparetti Fotolia Giancarlo Martini La giovane montagna Lino Zani Luigi Tardini Lorenzo Melzi, Enza Ricciardi, Andrea Fernandez Attilio Rossetti Pino Dellasega Pino Veclani Valerio Banal( Stanislaw Rybicki, Jerzy Ciesielski

Stampa e legatoria Casa Editrice Mimep-Docete via Papa Giovanni XXIII, 2 20060 Pessano con Bornago (MI) tel. 02 95741935 email: info@mimep.it www.mimep.it www.mimepjunior.it Copyright Mimep-Docete, 2018 ISBN 9788884244383


ALFREDO TRADIGO

PER SALIRE BISOGNA CREDERCI

Itinerari di fede e montagna

introduzione di GIANFRANCO RAVASI


SOMMARIO 8

UNA SCALA VERSO IL CIELO

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LA PICCOZZA DI FRASSATI

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I LUOGHI ALTI DELLA BIBBIA

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LA GIOVANE MONTAGNA

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I RILIEVI DEL VANGELO

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IL TEOLOGO DELLA MONTAGNA

50

IL CRISTO DELLE DOLOMITI

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LE CROCI DI VETTA


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SANTUARI EREMI SACRI MONTI

228

IL BUON SAMARITANO DELLE CIME

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STORIE E VOLTI D’ALTA QUOTA

242

LE SENTINELLE DELLE ALPI

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L’ALFABETO DELLA MONTAGNA

264

LA POESIA DELLE CIME

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LA MONTAGNA NELL’ARTE

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FOTOGRAFARE LA LUCE

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NOTA DELL’AUTORE

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BIBLIOGRAFIA



Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra Salmo 120


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Il cardinal Gianfranco Ravasi Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, vive a Roma ma è nato a Merate, in Brianza, con le montagne negli occhi: il Resegone e le Grigne. Ogni anno, d’estate, monsignor Ravasi torna per celebrare la Messa e benedire le barche dalla Madonna del Moletto, un piccolo antico santuario che da uno spuntone di roccia si affaccia sul lago di Lecco. Il luogo ricorda la chiesa di Tabga, sul lago di Tiberiade, dove Gesù disse a Pietro: sii mia roccia! Ravasi ama la roccia e tra le sue opere ricordiamo I monti di Dio (san Paolo 2001).

Una scala verso il cielo “

Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo, cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari…». Chi non ricorda questo struggente addio ai monti del Lecchese che Manzoni ci ha lasciato alla fine del capitolo VIII dei Promessi Sposi, mentre Lucia in barca sta lasciando alle spalle il paesaggio delle sue origini? Ora, la vetta di un monte costringe ad alzare lo sguardo verso l’alto; è come se fosse un indice puntato verso il cielo, è il rimando allo zenit e quindi alla luce, all’inaccessibilità, al mistero rispetto all’orizzonte in cui noi siamo immersi quotidianamente. Il monte, con la sua cima che sembra quasi perforare il cielo, ricalca la posizione eretta dell’uomo che si è alzato dalla brutalità della terra; è una specie di simbolo della vittoria sulla forza di gravità. Tutte le culture hanno ritrovato nel profilo verticale della montagna un’immagine della tensione verso l’oltre e l’altro rispetto al limite terrestre e tutte le religioni vi hanno letto un segno dell’Oltre e dell’Altro divino. È proprio seguendo questo sguardo verso l’alto, cioè verso il mistero celeste, l’infinito e l’eterno di Dio, che

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Alfredo Tradigo ha introdotto nelle pagine che seguiranno una duplice serie di figure che hanno vissuto l’amore per la montagna fisica come una parabola della loro stessa ascesa verso Dio. Pensiamo a san Giovanni Paolo II, da sempre attirato dalle cime innevate, a Pier Giorgio Frassati, il giovane piemontese che aveva già negli occhi quella corona alpina che avrebbe poi scalato concretamente, oppure a papa Pio XI che, quand’era ancora Achille Ratti, era un appassionato alpinista tanto da essere iscritto al Club Alpino Italiano e da aprire vie per scalate su diverse montagne (l’ultima sua impresa fu nell’ottobre 1913 sulla Grigna settentrionale, con una permanenza di ben quattro notti in rifugio). Noi ora vorremmo, sia pure in modo solo allusivo ed essenziale, evocare le presenze molteplici dei monti nelle pagine bibliche. In esse le montagne sacre non si ergono mai solo con finalità meramente “orografiche”, bensì con un valore simbolico e spirituale, sia positivo sia negativo. Se pensiamo, ad esempio, alle ziqqurrat, cioè ai famosi templi a gradoni della Mesopotamia, evidente riproduzione architettonica di un monte sacro (sul loro vertice si ergeva appunto il santuarietto-residenza delle divinità), riusciamo a comprendere la simbologia sottesa al sogno di Giacobbe narrato dalla Genesi: “Una scala poggiava sulla

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terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo. Ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa” (Genesi 28,12). Ebbene, un monaco che trascorse la sua esistenza nel monastero di S. Caterina al Sinai, uno dei monti biblici fondamentali, Giovanni Climaco, vissuto tra il 579 e il 649 circa, si affiderà proprio a questa immagine per intitolare e strutturare la sua opera La scala del Paradiso, opera che impose a lui il soprannome di “Climaco” (in greco climax è la scala coi suoi gradini). Come è facile intuire, il Sinai che quel monaco aveva davanti agli occhi diventava – sulla scia della visione di Giacobbe – la parabola dell’ascensione al cielo attraverso l’erta salita dell’ascesi spirituale. Parallela sarà l’esperienza proposta da un altro grande mistico, lo spagnolo san Giovanni della Croce (1542-1591), che però – a causa della sua vocazione di carmelitano – sceglierà come simbolo un altro monte biblico. La salita del monte Carmelo è, infatti, il titolo di una delle sue opere più note, composta tra il 1578 e il 1583. Attraverso un’ascesa irta di asperità, cioè attraverso una purificazione liberamente accolta e vissuta (la “notte attiva”, preludio della successiva “notte oscura” che sarà il tema di un’altra opera), si raggiunge la vetta della perfezione. Sulla scia di san Giovanni della Croce un notissimo autore

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mistico contemporaneo, Thomas Merton (1915-1968), convertitosi al cattolicesimo nel 1938 e vissuto nella trappa del Getsemani nel Kentucky (Usa), intitolò la sua autobiografia spirituale proprio La montagna delle sette balze (1948), uno scritto divenuto popolare e per molti versi affascinante proprio per l’immediatezza quasi diaristica di questa ascesa sul monte della contemplazione, vicenda sofferta e gloriosa al tempo stesso, proprio come accade nelle scalate lungo le rocce e i dirupi che conducono alla vetta. Come si diceva, i monti gettano la loro ombra su tutte le pagine bibliche: dall’Ararat su cui posa l’arca di Noè al Moria del sacrificio di Isacco, dal Sinai dell’esodo al Nebo della morte di Mosè, dal Carmelo di Elia al Sion del tempio gerosolimitano, dal monte delle Tentazioni di Cristo a quello delle Beatitudini, dal monte della Trasfigurazione al Golgota-Calvario sino al monte degli Ulivi che nell’ascensione di Gesù congiunge terra e cielo. Ma a questi monti santi e ad altri meno noti, che costellano la Bibbia e che non possiamo ora neppure citare tanto essi sono molteplici, vorremmo opporre alcune curiose montagne “negative”, segno non di elevazione ma di paradossale abbassamento e degenerazione. Sono le “alture”, in ebraico bamôt, sistematicamente

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denunziate dalla Bibbia come sedi di santuari idolatrici cananei, legati ai culti della fertilità (ma talora anche luoghi di culto israelitico). Sono centinaia i passi biblici in cui si condannano questi colli, divenuti sede di culto anche per gli Ebrei, a partire dallo stesso Salomone che dedicò un santuario al dio dei Moabiti Camosh e al dio degli Ammoniti Milcom “sul monte che è di fronte a Gerusalemme” (1Re 11, 7), imitato poi dai suoi successori e dai sovrani del regno settentrionale di Samaria. Noi ci accontenteremo ora di illustrare questo simbolismo negativo e idolatrico della montagna con un testo interessante e, a prima vista, neutro, anzi legato al monte santo per eccellenza, il Sion. Si tratta dell’avvio del secondo dei quindici salmi delle ascensioni, cioè di quella sorta di libretto di preghiere per i pellegrinaggi al tempio di Sion, contenuto nei Salmi 120-134. Il Salmo 120 inizia, infatti, così: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra”. L’orante leva lo sguardo implorante “verso i monti” e pronunzia una domanda: “Da dove mi verrà l’aiuto?”. Ebbene, molti biblisti pensano che in questa scenetta apparentemente scontata ci sia proprio un rimando polemico alle “alture” idolatriche. L’orante sarebbe tentato di rivolgere il suo appello (e i suoi piedi) verso i santuari dei colli pagani

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cananei ove si ergono pali e stele sacre, segni del dio Baal, la divinità della fecondità e della fertilità. Sarà forse lui a offrire l’aiuto atteso? La risposta del salmista è netta: “Il mio aiuto viene dal Signore”, il creatore del cielo e della terra, sorgente di ogni dono di vita. Si tratta di una professione di fede biblica di impronta liturgica (è entrata anche nella liturgia cattolica: Adiutorium nostrum in nomine Domini qui fecit caelum et terram) che rimanda implicitamente all’altro monte santo, l’unico vero per Israele, il Sion, “altura stupenda, gioia di tutta la terra…, capitale del gran re” (Salmo 48,3). La Bibbia, che oppone già due città simboliche, Gerusalemme e Babilonia, mette dunque in antitesi anche due monti ideali, quello dell’ascensione a Dio, alla luce, alla verità e quello dell’illusione e dell’inganno. Ancora una volta sta all’uomo scegliere su quale sentiero incamminarsi. E la vetta di Sion col tempio del Signore, come sogna il profeta Isaia (2,1-5) e come canta il Salmo 87, diventa la meta del pellegrinaggio di pace e di unità tra i popoli. Proprio per questo concludiamo la nostra premessa evocando i due testi luminosi appena citati. Isaia nel secondo capitolo del suo libro profetico rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre tenebre planetarie si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono

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processioni di popoli che hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono le pendici del monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono giunti sulla vetta del Sion, ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice: “Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia. Per inciso, possiamo osservare quanto il testo di Isaia sia attuale: sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono state striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni, per contese territoriali reciproche. Tutti i popoli hanno invece, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando al contrario trasformano i vomeri in spade e gli strumenti per lavorare la terra in strumenti bellici, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio. Nel Salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena affermato. Ci imbattiamo in una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione: jullad sham / jullad bah, “tutti là sono

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nati / in essa sono nati” tutti i popoli della terra. Questa espressione, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel Salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto. Si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che designa Babilonia: la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, cioè i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti: tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli, così diversi tra loro, si ritrovino spalla a spalla in Sion cantando e danzando, ripetendo la loro professione d’amore nei confronti del monte Sion, il monte del tempio: “In te sono tutte le nostre sorgenti”. È questo anche l’augurio che viene idealmente rivolto a tutti i pellegrini che si avviano ai santuari e ai santi monti. Là ritroveranno armonia, concordia e comunione tra loro e con Dio, e là rivolgeranno la loro preghiera e il loro sguardo verso il Dio eterno e infinito che dal suo cielo scende nel tempio – “la tenda dell’incontro” come lo chiama la Bibbia – per incontrarli e ascoltarli. Gianfranco Ravasi

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LA PICCOZZA DI FRASSATI Svetta come una croce nel bianco mare delle cime Per compiere il suo desiderio di salire sul Monte Bianco gli amici del CAI e della Giovane Montagna nell’agosto del 2006 hanno portato la piccozza del beato Pier Giorgio sulla vetta più alta d’Europa (4810 metri).


...ogni giorno che passa m’innamoro sempre piÚ delle montagne e vorrei, se i miei studi me lo permettessero, passare intere giornate a contemplare in quell’aria pura la grandezza del Creatore... Pier Giorgio Frassati, Pollone, 6 agosto 1923


PER SALIRE BISOGNA CREDERCI La piccozza di Frassati

Piccozza pipa e una santa allegria L’immagine usata in piazza san Pietro il 20 maggio 1990 per la beatificazione di Pier Giorgio Frassati. In basso l’Hotel Bellevue in val d’Ayas, dove Pier Giorgio passava le vacanze in famiglia.

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PER SALIRE BISOGNA CREDERCI La piccozza di Frassati

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’immagine più nota che viene alla mente parlando del beato Pier Giorgio Frassati è quella di un giovane robusto ed elegante, la pipa in bocca, appoggiato alla sua piccozza, sullo sfondo le cime alpine scintillanti di neve. Oppure quella del colto studente universitario di buona famiglia, cravatta e doppiopetto gessato, sorriso sempre pronto. Pier Giorgio nasce a Torino il 6 aprile del 1901. Dalla sua città, nelle giornate limpide, lo sguardo abbraccia la catena delle Alpi occidentali, dalla piramide del Monviso al monte Rosa, dalla Marmolada al massiccio del Bianco. All’origine della passione per la montagna Quando è libero dai suoi molteplici impegni di studio e di carità cristiana (studente al Politecnico, fondatore della Società dei tipi loschi, membro dell’Azione Cattolica, terziario domenicano), Pier Giorgio dedica il suo tempo libero alle escursioni in montagna, sua grande passione. Ma prima viene la Messa quotidiana, e per parteciparvi si fa svegliare alle quattro del mattino dal giardiniere di casa Pollone (residenza di famiglia) attraverso il marchingegno di una corda legata alla finestra. Cosa attrae Pier Giorgio verso la montagna? Il futuro beato vede nell’alpinismo una palestra dove si tempra anima e corpo e una manifestazione concreta, fisica, palpabile, del cammino ascetico della fede cristiana: “Vorrei passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria pura la grandezza del Creatore”. Nel luglio del 1923

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Carissimi giovani pellegrini, scoprite anche voi, come Pier Giorgio Frassati, la strada del Santuario, per intraprendere un cammino spirituale che, sotto la guida di Maria, vi porti sempre più vicini a Cristo.

24 anni vissuti in salita

Giovanni Paolo II Santuario di Oropa, 1989


Pier Giorgio scrive ad un amico: “Domenica è stata una di quelle giornate magnifiche e, dal ghiacciaio, il mio pensiero è corso agli amici lontani: li avrei voluti avere tutti qui per godere con me quello spettacolo meraviglioso”. Nel 1925, a 24 anni, scrive all’amico Bonini: “Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta continua per la Verità, non è vivere, ma vivacchiare”. Tra le tante cime alpine da conquistare, il sogno del giovane Frassati è quello di piantare la sua piccozza sulla vetta del Monte Bianco. Ma il padre ha paura, teme che gli possa accadere qualche disgrazia. L’8 agosto del 1923 Pier Giorgio scrive all’amico Antoni Severi: “Volevo andare in questi giorni sul Monte Bianco insieme a Delpiano e ad una socia di Biella, ma mio padre non vuole lasciarmi andare, perché dice che è troppo pericoloso: pazienza; vuol dire che starò a casa e i miei studi procederanno meglio”. La sua ultima ascensione, pochi mesi prima della morte improvvisa, sarà quella a Punta Lunelle, sopra Traves, in val di Lanzo. Nemmeno un mese dopo, il 4 luglio, Pier Giorgio Frassati viene a mancare, a soli 24 anni, a causa di una poliomielite fulminante, contratta probabilmente durante

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“Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna” Pier Giorgio di ritorno da una gita sul monte Mares (1635 metri) porta dei fiori a una ragazza a cui è mancata da poco la mamma. (6 maggio 1924)


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le sue visite ai poveri e agli ammalati della città di Torino. “Il giorno della morte sarà il più bello della mia vita”, aveva detto ad un amico. Nel 2000 Giovanni Paolo II, grande estimatore di Frassati e come lui appassionato di montagna, lo proclamerà beato. Partendo dall’ultima escursione di Pier Giorgio Frassati in val di Lanzo è nata tra le varie associazioni cattoliche e non (Club Alpino Italiano e Giovane montagna), l’idea di diffondere in Italia una rete di Sentieri Frassati dedicati alla fede e alla conoscenza della figura del nuovo beato. “Per incontrare Dio nel creato” è lo slogan che guida questi percorsi. Un desiderio che diventa realtà “Se la vita è una cordata, a volte può accadere che se uno non arriva in vetta altri compiano per lui l’impresa”. Pier Giorgio Frassati aveva scalato molte cime ma gli restò un desiderio incompiuto: quello di piantare la sua piccozza sul Monte Bianco, ma suo padre per paura non lo lasciò mai salire. Così alcuni membri della Giovane Montagna e del CAI (associazioni a cui Pier Giorgio era iscritto) decisero nel 2006 di compiere per lui l’impresa, chiedendo in prestito alla famiglia la piccozza di Frassati per piantarla a 4810 metri di quota, sulla vetta del Bianco, la più alta montagna d’Europa. Ci racconta l’ascensione Luigi Tardini, presidente della sezione milanese della Giovane Montagna.

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“Verso l’alto” è la frase - testamento di Frassati La scrisse su questa foto un mese prima della morte. (7 giugno 1925)


Preghiera a Pier Giorgio Frassati Signore Gesù, donaci il coraggio di volare in alto, di fuggire la tentazione della mediocrità e della banalità; rendici capaci, come Pier Giorgio, di aspirare alle cose più grandi con la sua tenacia e la sua costanza e di accogliere con gioia il tuo invito alla santità. Liberaci dalla paura di non riuscirci o dalla falsa modestia di non esservi chiamati. Concedici la grazia, che Ti domandiamo per l’intercessione di Pier Giorgio e la forza per proseguire con fedeltà sulla via che conduce “vero l’alto”. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.


Davanti alla neve immacolata Sembra quasi di fare violenza a calpestarla ma bisogna raggiungere la cima del Bianco per piantare la piccozza di Frassati.


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La cordata dei cinque alpinisti sulla via del Bianco L’ultimo del gruppo, Andrea Fernandez, porta sullo zaino la lunga piccozza di Frassati.

L’IMPRESA NEL RACCONTO DI LUIGI TARDINI*

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ravamo in Val Ferret con gli amici dell’associazione Pier Giorgio Frassati di Roma e del Centro Sportivo Italiano (CSI) di Milano, con i quali avevo collaborato all’organizzazione della salita al Monte Bianco per portare in vetta la piccozza di Pier Giorgio Frassati dalla via normale, quella francese. Purtroppo però, essendo convalescente da un piccolo intervento chirurgico, la mia salita al Bianco, così tanto desiderata, non è stata possibile. Così ho pensato che forse il Signore ha voluto farmi capire che i miei progetti non sono i suoi, che è giusto programmare tutto per bene, ma che alla fine è Lui che decide, secondo il detto: “l’uomo propone Dio dispone”. Ancora un po’ dolorante avevo comunque voluto essere presente in Val Ferret alla partenza di chi avrebbe tentato l’impresa di raggiungere la vetta, anche perché ci eravamo sentiti spesso per telefono con Emilio, dell’associazione Pier Giorgio Frassati e con Lorenzo del CSI, ma non ci conoscevamo ancora di persona. Una settimana di amicizia al “campo base” Sarebbe stato bello poter soggiornare presso il rifugio Natale Reviglio della Giovane Montagna di Torino, ma purtroppo ci siamo mossi troppo tardi e non c’era più posto. Abbiamo invece trovato alloggio, sempre in Val Ferret, a pochissima distanza dal Reviglio, presso la Casa per Ferie * Luigi Tardini, presidente Associazione Giovane Montagna sez. di Milano

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della sottosezione Cameri del CAI di Novara, una posizione incantevole, al cospetto del Bianco, con una vista che spaziava dalle Pyramides Calcaires alle Grandes Jorasses. Eravamo sei alpinisti dell’asssociazione Giovane Montagna, un sacerdote e un membro del CSI di Milano. Si è creato subito un clima amichevole e familiare, al di là di ogni aspettativa. Come ci ha detto don Pietro, durante la Messa dell’ultimo giorno a casa Frassati, a Pollone, questa unità è stata sicuramente merito di Pier Giorgio, che nella sua breve vita ha sempre cercato di unire gli amici, i parenti, tutte le persone che incontrava.

Come una reliquia la piccozza viaggia tra i bagagli Si attende il trenino del Bianco per raggiungere il rifugio Nid d’Aigle a quota 2372 metri (26 luglio 2006).

Un oggetto di 100 anni fa Gli amici romani avevano portato la piccozza di Pier Giorgio Frassati, ricevuta da Wanda Gawronska, nipote di Pier Giorgio, figlia della sorella Luciana. Si tratta di una piccozza come quelle che si vedono ancora nei musei di montagna, quelle di cent’anni fa, alta centoventi centimetri, col manico in legno e molto pesante da portare. L‘oggetto a valle ha suscitato subito l’interesse e la curiosità di tutti ma soprattutto, una volta in quota, partita l’impresa, ha attirato l’attenzione degli alpinisti che salendo il Bianco la vedevano spuntare altissima sopra lo zaino. Se Pier Giorgio non era mai salito in vetta al Monte Bianco, portando in vetta la sua piccozza sarebbe stato come se con noi ci fosse stato anche lui. Già l’anno scorso la piccozza di Frasssati era stata sul Bianco per la via normale italiana, quest’anno si voleva percorrere la via francese. Il tempo in quei giorni e nei giorni precedenti è stato sempre piuttosto incerto, il Bianco quasi sempre incappucciato e nel pomeriggio pioveva spesso. La salita era prevista per il 27 e il 28

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luglio, ma le previsioni per il 28 erano brutte. Avevamo tentato di prenotare il rifugio Goûter, ma era tutto esaurito e non c’era vincolo di prenotazione, si poteva salire quando si voleva, a patto di adattarsi a dormire per terra o sotto un tavolo. Decidiamo di anticipare di un giorno la partenza. Dopo una sgambata di poche ore, martedì 25 luglio sul Piccolo Monte Bianco, il giorno seguente mi sveglio anch’io alle 5, per assistere alla Messa, fare colazione insieme agli altri, salutarli e vederli partire alle 6.30 per esse-

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Attenti alle pietre del canalone Emilio Sanchez e Andrea Fernandez verso il rifugio del Goûter (3835 metri) affrontano la parte più pericolosa del percorso per la continua caduta di massi.


La luce dell’alba tinge di rosa la neve. la piccozza di Frassati è piantata sul punto più alto del Bianco. (27 luglio 2006)

re a Les Houches in tempo per la prima corsa della funivia. Il Bianco era già coperto, ma confidavamo in Pier Giorgio e nel suo desiderio che la sua piccozza arrivasse in vetta. Un intervento provvidenziale Arrivati a Les Houches gli amici si sentono dire che non solo il primo trenino delle 8.35 è pieno, ma anche quello delle 10.05. Si deve aspettare quello delle 11. Momento di panico. Non è possibile salire nelle ore più calde, attraversando il famoso canalone, pericolosissimo per le continue scariche di pietre e arrivare troppo tardi al rifugio Goûter.

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Ma a questo punto interviene il beato Pier Giorgio. “No, un momento – dice la signorina della biglietteria – ho controllato meglio, sei posti ci sono ancora!”. Proprio gli ultimi sei! Partono. Incomincia l’avventura. Li accompagno col pensiero per tutta la giornata, pregando che non succeda niente lungo la salita al rifugio Goûter, sicuramente la parte più pericolosa del percorso. Verso le 16 mi chiama Renzo dal rifugio: sono arrivati, il tempo è bello, alle 20 è previsto il coprifuoco e alle 1.30 la sveglia per la partenza. C’è stata un po’ di paura nell’attraversamento del canalone, perché le scariche erano molto frequenti, ma tutto è andato bene. L’elicottero è dovuto intervenire solo tre volte per soccorrere chi era stato colpito da qualche pietra durante la giornata. Una roulette russa. Possibile che non si riesca ad attrezzare un percorso meno pericoloso? Il giorno tanto atteso Il giorno dopo mi sveglio presto per vedere com’è la situazione sul Bianco, perché da questo dipende il successo dei miei amici, e perché le previsioni meteo avevano annunciato qualche perturbazione lungo la giornata. Mi affaccio alla finestra alle 6: il tempo è magnifico! Il Bianco splende della stupenda luce dorata dell’alba, e si manterrà così fino a pomeriggio inoltrato. Non c’è una nuvola in cielo, non c’è vento in quota, le condizioni ideali per la salita. Sotto la guida di Renzo saranno già in cammino da almeno tre ore e fra poco dovrebbero essere in vetta. Alcuni ospiti del rifugio mi dicono che alle 10 sopra il Pavillon verrà celebrata una Messa all’aperto, e mi invitano ad andare con loro. Accetto e prego per la buona riuscita della salita. Quando riaccendo il cellulare mi aspetto di trovare

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Il sole del mattino inonda il dormitorio vuoto Il rifugio del Goûter è meta d’obbligo per salire al Bianco dalla via normale francese.



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Tre uomini e una piccozza a ricordare la presenza del beato Frassati. In vetta al monte Bianco, da sinistra Andrea Fernandez, don Pietro Rescigno, Renzo Quagliotto, (27 luglio 2006).

un sms che mi annunci il compimento dell’impresa. Invece niente. Saranno impegnati nella discesa. Anche dopo pranzo non ricevo nessuna notizia. Ormai dovrebbero già essere da tempo al rifugio, e se ieri mi hanno telefonato dal rifugio vuol dire che il segnale c’è. Comincio ad avere qualche dubbio sulla riuscita, pensando che alcuni di loro non erano mai stati sopra i 4.000 metri. Enza poi aveva degli scarponi un po’ troppo leggeri, qualcuno avrà avuto il mal di montagna e saranno dovuti tornare indietro tutti. Alle 15 invio un sms a Renzo ma non ricevo risposta. I dubbi aumentano. Sono pessimista. Alle 17 invio un altro sms a Lorenzo e finalmente ricevo risposta: tutto bene, sono in auto sulla strada del ritorno. Mi diranno poi che al rifugio non c’era segnale. L’arrivo sul tetto d’Europa Alle 19 finalmente arrivano, stanchi ma felici. Sono giunti in vetta tutti tranne Enza che si è fermata a quota 4.500 metri, poco sotto la vetta. Renzo mi racconta che durante la salita, e in vetta, c’erano condizioni ideali, come rarissimamente gli era capitato di incontrare nella sua lunga carriera di esperto alpinista. Era stato sul Bianco parecchie altre volte – mai dalla via normale – ma questa volta gli sembrava di trovarsi su una qualsiasi montagnetta innevata delle Prealpi lombarde, e non sul tetto d’Europa, a 4.810 metri di altezza! Chi era lì da giugno mi dirà poi che è stata la più bella giornata della stagione! Un altro intervento di Pier Giorgio In vetta ci saranno state un centinaio di persone. Andrés ha piantato la piccozza nel punto più alto e, dopo le foto d’obbligo con la piccozza di Pier Giorgio, sono ridiscesi al

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La compagnia della piccozza Il giorno dopo si festeggia l’impresa. Da sinistra Emilio Sanchez, Lorenzo Melzi, don Pietro Rescigno, Enza Ricciardi, Luigi Tardini, Andrea Fernandez, Renzo Quagliotto (28 luglio 2006).

Nid d’Aigle per prendere il trenino. Stessa situazione dell’andata: il trenino è pieno, non c’è assolutamente posto, occorre aspettare quello successivo. Andrés e Emilio chiedono di controllare meglio, ma proprio sei posti non ci sono. Insistono, ma niente da fare. Stanno per andare via rassegnati, quando interviene ancora il beato Pier Giorgio. Il bigliettaio li richiama: ha controllato meglio e sei posti, gli ultimi, ci sono ancora! Neanche a farlo apposta, appena saliti sul trenino si scatena un tremendo acquazzone, che li avrebbe bagnati fino al midollo, visto che lassù non ci sarebbe stato assolutamente nessun modo di ripararsi! Ma Pier Giorgio ha fatto le cose per bene, tanto che ha smesso di piovere proprio quando il trenino si è fermato alla stazione di arrivo!

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PER SALIRE BISOGNA CREDERCI La piccozza di Frassati

Partecipazione corale All’arrivo in Val Ferret grande gioia e felicitazioni da parte di tutti i soggiornanti, che durante la giornata continuavano a chiedermi se avevo notizie dei miei amici. Una signora mi dice che era molto emozionata, e che quando ha saputo del successo le è venuta la pelle d’oca. È stata molto bella questa partecipazione corale alla nostra salita “commemorativa” da parte degli ospiti del CAI di Novara, questo tifare per la buona riuscita, e questa gioia genuina per il successo. Anche questo è stato un modo con cui Pier Giorgio ci ha voluto unire. Dopo la Messa di ringraziamento, cena e subito a letto per recuperare la notte precedente e la fatica di quei due giorni. Le insidie diaboliche dei canaloni Venerdì 28 chi è salito sul Bianco si concede un meritato riposo. Nel pomeriggio decidiamo di andare al Passo del Gran San Bernardo a visitare l’Ospizio, dato che alcuni di noi non l’avevano mai visto. Nella cappella dell’Ospizio don Pietro celebra la Messa. Durante l’omelia ci regala una bellissima meditazione che gli è venuta in mente pensando ai pericoli del famoso canalone, che occorre passare velocemente mentre gli amici sorvegliano le scariche e ti avvisano dei sassi in caduta. Le scariche di pietre, sottolinea don Pietro, sono come le tentazioni del diavolo, capitano nella vita, sono ineliminabili, ma si possono superare con l’aiuto degli amici che vegliano su di te e ti avvertono del pericolo. Grazie Pier Giorgio, nel cui nome abbiamo trascorso questi giorni insieme. Grazie don Pietro, Enza, Andrés, Emilio, Lorenzo e Renzo per la vostra compagnia e amicizia”.

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Un angolo della villa Frassati a Pollone con l’attrezzatura da montagna utilizzata da Pier Giorgio.


“Queste montagne parlano di Dio con la loro pacifica grandiosa maestosità” SAN GIOVANNI PAOLO II

www.mimep.it ISBN 978-88-8424-438-3


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