Quaderno
Fiesole, giugno 2016
Progetto grafico e impaginazione: Studio Emo Risaliti Stampa: Litografia I.P. - Firenze Comunicazione: Sara Bertolozzi
Indice
Introduzione di Barbara Casalini.............................................................................................. pag. 4 I miei primi 50 anni di M. Sperenzi, R. Salvadori, C. Talanti, G.M. Rossi............................... pag. 5
1966 1967 1968 1972 1973 1974 1979 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016
I Maestri Luchino Visconti di Marco Pistoia............................................................................... pag. 12 Roberto Rossellini di Giovanni M. Rossi..................................................................... pag. 13 Michelangelo Antonioni di Aldo Tassone................................................................... pag. 14 Luis Buñuel di Giovanni M. Rossi................................................................................. pag. 15 Sergej Michailovič Ejzenštejn di Franco Vigni.......................................................... pag. 16 Orson Welles di Claudio Carabba................................................................................ pag. 18 Alfred Hitchcock di Claudio Carabba.......................................................................... pag. 19 Renato Castellani di Marco Vanelli.............................................................................. pag. 20 Stanley Kubrick di Chiara Tognolotti........................................................................... pag. 21 Ettore Scola di Chiara Tognolotti.................................................................................. pag. 22 Paolo e Vittorio Taviani di Franco Vigni...................................................................... pag. 23 Akira Kurosawa di Aldo Tassone................................................................................. pag. 25 Ermanno Olmi di Luca Mazzei..................................................................................... pag. 26 Ingmar Bergman di Gabriele Rizza.............................................................................. pag. 27 Alberto Lattuada di Aldo Tassone............................................................................... pag. 28 Wim Wenders di Giovanni Bogani................................................................................ pag. 29 Robert Altman di Stefano Socci.................................................................................. pag. 31 Mario Monicelli di Daniela Pecchioni........................................................................... pag. 33 Theo Anghelopoulos di Gabriele Rizza....................................................................... pag. 35 Peter Greenaway di Giovanni Bogani......................................................................... pag. 36 Arthur Penn di Gabriele Rizza...................................................................................... pag. 38 Marco Bellocchio di Giovanni M. Rossi...................................................................... pag. 39 Harold Pinter di Chiara Tognolotti................................................................................ pag. 40 Costa-Gavras di Edoardo Semmola............................................................................ pag. 41 Bernardo Bertolucci di Stefano Socci........................................................................ pag. 42 Ken Loach di Edoardo Semmola................................................................................. pag. 44 Francesco Rosi di Tommaso Gurrieri.......................................................................... pag. 45 Aki Kaurismäki di Gabriele Rizza................................................................................. pag. 47 Spike Lee di Giovanni M. Rossi.................................................................................... pag. 49 Nanni Moretti di Franco Vigni...................................................................................... pag. 50 Bertrand Tavernier di Tommaso Gurrieri.................................................................... pag. 52 Gianni Amelio di Chiara Tognolotti............................................................................... pag. 54 Jean-Pierre e Luc Dardenne di Caterina Liverani..................................................... pag. 55 Toni Servillo di Giovanni M. Rossi................................................................................ pag. 57 Terry Gilliam di Edoardo Semmola.............................................................................. pag. 59 Giuseppe Tornatore di Marco Luceri......................................................................... pag. 61 Dario Argento di Claudio Carabba.............................................................................. pag. 62 Stefania Sandrelli di Giovanni M. Rossi...................................................................... pag. 63
Premio Fiesole ai Maestri del Cinema 1966-2016 Cinquant’anni d’autore Nel cinquantesimo anniversario del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema, sentiamo di dovere molto ad un appuntamento che negli anni si è sempre distinto per l'originalità, l'eccellenza dei suoi protagonisti e il calore del pubblico. Anche quest'anno il Premio vede schierati in campo, insieme all'Amministrazione Comunale, la Fondazione Sistema Toscana, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e la Fondazione Teatro della Toscana, con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Una vera e propria festa del Cinema che, premiando per la prima volta una donna, Stefania Sandrelli, dimostra la sua capacità di crescere ed evolversi, mantenendo però la sua cifra distintiva di occasione di incontro ravvicinato, quasi confidenziale, tra l'artista premiato e il pubblico. Ripercorrere i nomi dei registi e degli attori intervenuti in questi cinquant'anni vuol dire ripercorrere la storia del cinema e anche un po' la storia di tutti noi. È dunque con particolare piacere e anche con un certo orgoglio che festeggiamo oggi questo significativo traguardo.
Barbara Casalini Assessore alla Cultura del Comune di Fiesole
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I miei primi 50 anni Non è facile oggi far comprendere in tutta la sua portata che cosa significò, nel 1966, la fondazione del «Premio Città di Fiesole ai maestri del cinema italiano», perché sarebbe necessario descrivere e analizzare la situazione dell’epoca nel settore della cultura cinematografica. L’unica istituzione culturale di prestigio era la Mostra di Venezia che, però, era ormai diventata più una parata di prodotti che le cinematografie forti intendevano lanciare sul mercato internazionale che la sede di una reale scelta sulla “qualità” culturale dei film presentati. Nel 1966 la Mostra veneziana veniva ritenuta già ampiamente superata e si avviava verso quella contestazione che due anni dopo esplose in forme inattese. Nel 1963 un gruppo di persone, unite dal comune interesse per il cinema di idee, aveva costituito a Firenze il Centro studi del Consorzio toscano per le attività cinematografiche (struttura legata soprattutto al movimento associativo), con l’intento di diffondere il cinema di qualità promuovendo cicli di proiezioni, seminari, pubblicazioni, dibattiti. Fu in questo ambito che nacque l’idea di dar vita a una manifestazione cinematografica che si affiancasse a quelle musicali e teatrali dell’Estate Fiesolana che il Comune di Fiesole organizzava ogni anno nel Teatro Romano. Dopo appassionanti discussioni fu proposto all’allora sindaco di Fiesole, Adriano Latini, e all’assessore alla cultura, Fernando Farulli, l’istituzione del «Premio Città di Fiesole ai maestri del cinema italiano». L’originalità dell’iniziativa consisteva nel fatto che, oltre ad introdurre per la prima volta il cinema nel Teatro Romano, si proponeva di dedicare annualmente un ciclo di film a un autore italiano, organizzando contemporaneamente un convegno di studi sul regista prescelto. Malgrado le gravissime difficoltà di ordine economico che si sarebbero dovute affrontare, si decise di dar vita al Premio nell’estate 1966 con promotori il Comune di Fiesole, il Centro studi del CTAC, l’Azienda del turismo di Fiesole e l’Istituto per il film e le arti dello spettacolo. Fu così che nel corso dell’autunno-inverno 1965 si svolse la prima e, probabilmente, più ampia consultazione mai effettuata nel mondo della cultura italiana per la designazione del “maestro” a cui attribuire il Premio. Risposero in tanti, poeti, scrittori, critici d’arte, critici letterari, scultori, pittori, musicisti, e la designazione largamente maggioritaria fu per Luchino Visconti.
Mario Sperenzi
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Visconti, il primo amore, la sfrenata voglia di misurarsi con un grande Maestro da tutti osannato; l’incontro con questo gigante del cinema italiano vissuto con ansia, proibiti gli interventi non concordati, nessuna voce si alzava a contestare alcunché. Rossellini il secondo premiato, allora (1967) amatissimo autore di film neorealisti e nello stesso tempo incompreso creatore di un cinema che rappresentava la tragedia e la comédie humaine con stilemi scarni e sintetici, aperture intellettuali sul mondo. Michelangelo Antonioni (1968) entrò nella sala consiliare del Comune di Fiesole con insolita timidezza e signorile riserbo; in quegli anni forse neppure ci rendevamo conto di quanto fastidioso dovesse essere per un autore ancora attivo partecipare alla propria celebrazione. Esauriti i Maestri italiani - con clamorose esclusioni: Fellini e De Sica - vi furono anni di ripensamento, poi ci buttammo a capofitto sui grandi autori stranieri, in una vorace ricerca di emozioni e passioni. Buñuel (1972) incarnò la prima scelta, una sorta di attrazione fatale, un amore ossessivo per il fascino di un intellettuale che aveva attraversato mille esperienze artistiche con la violenza e l’impeto di un titano. Il convegno diventò il palcoscenico di un lento ma irreversibile divorzio tra la critica rigidamente marxiana e un gruppo che assaporava il vento dell’ovest, cercando nuovi criteri estetici per la valutazione dei film. L’anno successivo (1973) con Sua Maestà Ejzenštejn si giunse quasi allo scontro fisico tra gli opposti schieramenti e a riprova di ciò nel 1974 il Premio fu assegnato ad Orson Welles, che la giovane critica riteneva un autore “cult” la cui rilettura apriva spazi critici stimolanti. Dopo l’edizione del 1975 dedicata ai grandi documentaristi (Flaherty, Grierson, Ivens) - un tuffo nel cinema della realtà che ha generato influenze narrative di grande rilievo - per tre anni il Premio Fiesole andò in vacanza, forse per esaurimento di uno spirito critico militante che ormai omologato e reso accademico, aveva perso quella spinta propulsiva che lo aveva reso interessante nel panorama culturale del nostro Paese. Nel 1979 il Comune di Fiesole decise di ridar vita al Premio e con Claudio G. Fava fu organizzata una rassegna e un convegno di studi dedicato ad Alfred Hitchcock, in absentia. Che dire di quella edizione, forse le cifre traducono le emozioni nel vedere code sterminate davanti al botteghino: medie mai viste di spettatori, oltre le 1500 persone per sera.
Roberto Salvadori
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Dopo altri tre anni di assenza, il Premio riprese con una certa regolarità (1982-1989) sotto la guida prestigiosa di Gian Piero Brunetta e molti registi importanti, anche se non tutti presenti di persona, tornarono a essere i veri protagonisti delle serate e dei dibattiti fiesolani: Renato Castellani, Stanley Kubrick, Ettore Scola, Paolo e Vittorio Taviani, Akira Kurosawa, Ermanno Olmi, Ingmar Bergman e Alberto Lattuada. La felicità creativa, l’intelligenza e la maturità delle opere dei registi trattati apparivano come manifestazioni significative di un patrimonio capace di agire da elemento propulsore di un cinema proiettato verso il futuro, in un periodo, come quello degli anni Ottanta, che collocava il cinema italiano di fronte a una delle crisi più profonde di tutta la sua storia. Negli anni Novanta la collaborazione della Mediateca Regionale Toscana con la Provincia di Firenze e la forte personalità del critico Fernaldo Di Giammatteo hanno tentato di risuscitare la manifestazione che si era interrotta a causa delle difficoltà economiche dell’Ente Teatro Romano. Wenders, Altman, Monicelli, Anghelopoulos, Greenaway, Penn, sono stati i protagonisti dell’evento fiesolano e di nuove operazioni editoriali. Dai primi volumi di Atti, pubblicazioni che assumevano tutto il loro valore nell’essere l’istantanea di un dibattito, attraverso i Quaderni della Mediateca, i momenti di studio del Premio hanno saputo trasformarsi in una collana di veri e propri testi, grazie anche alle opere più recenti del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.
Carlotta Talanti
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Il Gruppo toscano del Sncci, rafforzato da innesti giovanili, nonostante il declino inesorabile della funzione della critica s’interrogava, nel finire degli anni Novanta, sull’affievolirsi a Firenze e dintorni della spinta culturale delle principali manifestazioni di cinema, a cominciare proprio dal Premio Fiesole con tutta la sua storia gloriosa e intermittente e le sue potenzialità ancora aperte. Fu così che fu proposto al sindaco Pesci la disponibilità del Sncci a collaborare in modo stabile, come gruppo d’idee, per rilanciare una formula che negli ultimi anni stava perdendo smalto, immagine e pubblico. Nacque in questo clima l’edizione 2000, con pochi mezzi e molto entusiasmo, e un Marco Bellocchio che riaffiorava alla ribalta con la voglia di comunicare ancora cinema e passioni. Si voleva sconfiggere l’ovvio, cercare tra quanti, maestri senza maiuscole, giovani o meno giovani, contribuivano ancora ad allargare l’orizzonte del cinema e delle sue qualità civili. L’occasione del 2001, fianco a fianco con il Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Firenze, rimarrà negli annali: non solo per la presenza carismatica di un uomo di penna e di spettacolo come Harold Pinter, drammaturgo, sceneggiatore di rango, autore e futuro Nobel; ma per i riflessi inattesi che la sua statura etica e politica scatenò su certa stampa dopo l’apocalisse dell’11 settembre. Era anche questo un segno che il Premio Fiesole colpiva nel vivo. Così come l’anno successivo, il 2002, la scelta di un cineasta d’impegno come Costa-Gavras avveniva - ma non a rimorchio - nel pieno delle polemiche sul manifesto del suo ultimo film, Amen, targato Oliviero Toscani. Ancora un cinema, e un autore, che scuoteva i potenti, le chiese, gli integralismi, ripescando tra i fatti e i misfatti della Storia. Che dire poi della serata del luglio 2003, quando un Bernardo Bertolucci fresco di Dreamers, sofferente negli arti ma raggiante nell’anima, raccolse il tributo, l’affetto e l’esilarante comparsata a sorpresa di Roberto Benigni, folletto scatenato per la gioia dei mille presenti sulle scalinate del Teatro Romano. Fiesole era riuscita a ritrovare quell’atmosfera indescrivibile che unisce la stima diretta, personale, all’incontro collettivo, il calore del pubblico al farsi libro della ricerca critica, qualcosa che resta inciso nella memoria e sugli scaffali. Così come nella memoria e nel cuore rimase impressa la figura esile e vibrante di quel piccolo grande uomo che è Ken Loach, Maestro del 2004, maestro di una vita spesa in cinema e nel racconto degli umili e degli oppressi, con forza, semplicità, fiducia che riesce a trasmettere anche nelle ore più buie. Il Premio Fiesole ha inteso restituire al cinema la sua centralità fra le arti e nella vita civile. Lo ha ancora una volta ricordato Francesco Rosi, Maestro 2005, che credevamo forse un po’ distante dalle vibrazioni contemporanee e che invece a Fiesole, a contatto con la curiosità affettuosa dei giovani, seppe riaffermare l’importanza, anche in Italia, di un cinema che affronti i nodi del reale, senza rinunciare alla specificità del linguaggio, senza farsi pamphlet, ma anche senza abbandonare il coraggio della denuncia. A confortare questa linea di scelte ha contribuito anche un autore severo, scomodo e appartato come il finlandese Aki Kaurismäki, Premio 2006, che con il suo humour abituale affermò di «non ritenersi Maestro, ma se lo dite voi di Fiesole, comincio a crederci anch’io». Con qualche fatica e incertezza, ma anche con il sostegno rinnovato del Mibac, Fiesole ha continuato a navigare a testa alta esplorando il panorama nazionale e internazionale con sempre maggior flessibilità, cercando di abbandonare l’“usato sicuro” per individuare anche strade nuove e nuove figure in grado di allargare la nozione un po’ logora di “Maestro”. Ecco, allora, in sequenza serrata, sfilare sul palco di Fiesole il combattivo campione del “cinema nero” Spike Lee (2007), professionale e caustico dietro i suoi occhialoni da vista; il poco maneggevole, rigoroso e spigoloso Nanni Moretti (2008), insolitamente prodigo di sé e delle sue lezioni morali con un pubblico adorante; il maestoso Bertrand Tavernier (2009), inesauribile fonte di aneddoti e di emozioni; il tenero Gianni Amelio (2010), tenace combattente nel riaffermare lo sguardo filmico sull’uomo sotto ogni cielo; gli entusiasti, giovanili fratelli Dardenne (2011), vincitori di Palme d’oro con la stessa serena umiltà dei debuttanti; poi la coraggiosa
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svolta con Toni Servillo (2012), attore di teatro e di cinema tra i massimi, che ha infranto per la prima volta il mito pluridecennale della politique des auteurs; quindi il “grande incantatore” Terry Gilliam (2013), che ha smosso l’aria fiesolana con le sue fantastiche favole e voli immaginifici; Giuseppe Tornatore (2014), con il suo affascinante percorso dalla memoria della sua Sicilia alla nostalgia per un secolo di cinema che non c’è più alle più recenti fughe nel mondo del mistero e della psiche; l’inquietante Dario Argento (2015), dal “cuore di tenebra”, che è stato capace di riscrivere con stile la grammatica estetica del terrore; e infine un’altra svolta epocale, Stefania Sandrelli (2016), la prima donna a entrare nell’albo di Fiesole, con la leggerezza e il fascino di chi ha attraversato oltre cinquant’anni di storia del cinema italiano regalandoci una galleria sorprendente di ritratti femminili. Una tappa importante per il Premio, segnale festoso per un nuovo inizio.
Giovanni M. Rossi
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I Maestri
1966 Luchino Visconti Visconti ha rappresentato un caso raro di regista ‘totale’ nello spettacolo del Novecento. Regia cinematografica e regia teatrale - nella doppia direzione del teatro di prosa e di quello musicale - sono state il terreno per elaborare una ‘forma-regia’ entro la quale confluissero molteplici modelli - letterari, teatrali, musicali, pittorici, estetici - ed elementi della messa in scena. Visconti considerava il melodramma come la forma più completa di spettacolo, poiché vi vedeva confluire la componente drammaturgica e quella musicalespettacolare, ma si direbbe che sia stato il cinema la forma attraverso la quale la sua idea di regia si è realizzata nella maniera più piena e compiuta. Una regia polimorfa, nella quale la pratica - teatrale - della messa in scena e del lavoro con gli attori e su di essi ha offerto linfa per soluzioni che, di volta in volta, erano legate alla storia-narrazione, a temi e ambientazioni specifiche di un determinato film, ma sottoposte a molteplici stratificazioni e suggestioni. Già la sua opera-prima, Ossessione (1943), insinua in una storia ‘popolana’ una combinazione di generi - il noir e il mélo - e una modellizzazione dei personaggi secondo un principio di sdoppiamento: il sostrato realistico-mimetico è articolato attraverso il filtro di un modello teatrale-musicale - quello verdiano - quale ‘messa in abisso’ o elemento di ‘secondo livello’ grazie al quale porre lo sguardo sulla realtà dello spazio e dei personaggi che in quello si muovono. Da quell’opera esemplare in poi, il suo cinema ha mantenuto - attraverso una serie di complesse varianti - quel principio: sottoporre la superficie della rappresentazione a una sua doppia articolazione, cosicché quel che si vede sia l’effetto di una realtà ‘ricreata’ piuttosto che ‘documentata’, come a suo modo Visconti disse dopo l’uscita di Le notti bianche (1957), opera che egli vedeva di superamento dei confini neorealisti. Anche il rapporto con le altre arti è stato fondato non su un principio di mera ‘mimesi’ di un certo modello, ma sull’incidenza di quel modello ai fini della rappresentazione, cosicché anche gli abituali nodi sui quali spesso si è soffermata la critica - ad esempio neorealismo e realismo, ricostruzione e ambientazione ‘esatte’ - debbono essere risolti vedendo nell’opera di Visconti un ‘universomondo’ costituito in modo polisemico e talora in conflitto tra le sue variegate componenti. Un maestro di fatto inimitabile, poiché figura troppo composita e originale per formazione, cultura e gusto.
Marco Pistoia
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1967 Roberto Rossellini Si fa presto a dire un secolo, cent’anni, quasi tutta la storia del cinema e del Novecento. Rossellini ce lo avevano consegnato già santificato, da museo delle cere rispettate e sepolte. Per molte generazioni di cinefili Roma città aperta è stato come il Potëmkin, vangelo apocrifo di un neorealismo mal digerito nei cineforum degli anni Sessanta, in parrocchia come nelle case del popolo, ma a pochi saltava in mente di liberarsene fantozzianamente sussurrando “è un melodramma pazzesco”. Fu il compianto Pio Baldelli, tra i primi, a spostare l’obiettivo, con uno spiazzante movimento di macchina e di idee, sul Rossellini della guerra alla ricerca della costruzione di uno sguardo votato al realismo, delle macchine, dei volti e delle anime quotidiane. Paisà ci spalancò la complessità e il dolore del paesaggio ritrovato, sventrato dalle bombe e dall’odio, dove ombre e luci di un’epica veramente corale non risparmiavano né la giustizia sommaria del cecchino fascista sul selciato di una via fiorentina né la morte per acqua dei partigiani massacrati sul delta del Po. Quella era la nostra storia, il sacrificio di una nazione divisa, la speranza sfuggente di un riscatto, quello era cinema che c’inchiodava alla lezione del vero, sfrondando il rosa e il superfluo. Fu un altro caro estinto, Marco Melani, a indicarci anzitempo come la cinepresa di Rossellini indagasse anche oltre la superficie del reale e non si arrestasse neppure di fronte alla rappresentazione del mistero della morte (Viaggio in Italia). Perfino ci appresero ad apprezzare il suo sforzo onesto di voler ringiovanire in India il cristallino di uno sguardo stanco d’occidente. Cominciammo a sentire indispensabile la sua lezione di cinema, la curiosità per l’umano, l’ansia di conoscere per trasmettere conoscenza, depurata nell’austerità espressiva dell’immagine, lo slancio generoso verso ogni forma di sperimentazione tecnica e linguistica. Il “coraggio di essere lenti” di fronte all’accelerazione dissennata della visione, segnava l’utopia di un cinema d’istinto e ragione capace di penetrare nella verità delle cose e di ritrasmetterla, con onestà, senza infingimenti, perché “per trovare la verità bisogna anche avere una posizione morale”. E a noi che istintivamente diffidavamo del piccolo schermo, Rossellini ha saputo comunicare anche la voglia di nobilitare l’oggetto domestico trasformandolo in uno strumento didattico, di introduzione al sapere attraverso l’atto umile e lucido di voler fotografare la Storia senza orpelli spettacolari. Grazie Maestro, ti vogliamo ancora nella scuola e nella vita dell’obbligo.
Giovanni M. Rossi
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1968 Michelangelo Antonioni A Michelangelo da Ferrara (classe 1912) non è stato facile imporre la sua personalità (un artista senza compromessi) e il suo stile inconfondibile. Ma già prima del suo film rivelazione (L’avventura, 1959) aveva realizzato opere memorabili come Le amiche, Il grido. (Tra gli altri capolavori a venire citiamo La notte, L’eclisse, Il deserto rosso, Blow up, Professione: reporter. Peccato che gli abbiano lasciato girare così pochi film!). Cineasta intellettuale, algido, estetizzante? Affatto. Senza mai posare a filosofo della cosiddetta “incomunicabilità”, Antonioni è essenzialmente un artista istintivo, un poeta-pittore (alla Piero della Francesca) che ci comunica la sua passione ossessiva per l’immagine e la bellezza (Resnais parla di “immagini ipnotizzanti”). Impareggiabile creatore di atmosfere, l’Esteta Antonioni è un occhio acutissimo che osserva, e scruta in profondità, le pieghe della realtà contemporanea che trasfigura in sogno. Avete notato come il mondo moderno supertecnologico, malato nei sentimenti, ha finito per somigliare ai film di Antonioni? Curiosamente le sue opere si riscaldano con il tempo. Dotato di una tempra morale eccezionale, Antonioni non è mai sceso a compromessi; riprendendo l’eredità di Dreyer e Bresson, è diventato un insuperato maestro del cinema dell’interiorità: “Nell’indagine dei sentimenti è sceso a profondità insondabili”, ci diceva Kurosawa. Questo “genio assoluto del cinema” (Monicelli), questo “artista raffinatissimo che ci ha insegnato a guardare la verità” (Valerio Zurlini) “ha lasciato tracce su centinaia di registi contemporanei”, diceva giustamente Coppola (vedi tra gli altri Wong Kar-wai). Ce lo meritiamo Michelangelo Antonioni? L’invito dell’edizione 1968 del Premio Cinema
Aldo Tassone
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1972 Luis Buñuel Cominciamo dall’inizio. Quell’occhio spalancato in primo piano e tagliato da una lama di rasoio è una metafora della visione che fa ancora sobbalzare. Un chien andalou, El perro andaluz, visto quando ancora sapevo poco di surrealismo e di avanguardie, è stata la rivelazione del potenziale devastante dell’immagine, l’introduzione al sogno e all’inconscio senza le nuvolette rosa o il flou o le note a piè di schermo. Assemblando delle sequenze in apparente libertà, Buñuel era riuscito a ricostruire in cinema il meccanismo irrazionale della divagazione onirica, le associazioni insolite di oggetti, le iterazioni, le angosce di movimenti incompiuti, le cadute nel vuoto, le mutilazioni, le trasformazioni a vista quando anche un libro può diventare un’arma da fuoco. E nell’abbaglio di un seno nudo o di una mano invasa dalle formiche e schiacciata dentro una porta avvertivi tutta la pulsione di un eros ancora imbavagliato, compresso da morale, estetica e religione, un pianoforte, due frati e gli asini putrefatti. Ancora l’amour fou serpeggiava nell’Âge d’or, manifesto violento di un surrealismo eterno che traboccava contro ogni forma di repressione, dio, patria, famiglia e società, travolgendo di metafore lucide e dissacranti vescovi, borghesi, suore, nobili e militari. L’oggetto della passione, donna o uomo che fosse, scatenava l’istinto sessuale più rimosso, la trasgressione all’ordine costituito, ma la caccia e l’appagamento erano costantemente rimandati, deviati dalle presenze ostili più retrive, dall’impaccio dei corpi e forse dall’impotenza stessa di un Io ancora acerbo per una definitiva resurrezione della carne. Anche il Cristo-Sade usciva invecchiato e stanco dall’orgia estrema, al suono estenuante di un paso doble. Solo lo sguardo, libero, infuocato, emanava lo struggimento del desiderio anche oltre lo schermo, nel buio della sala e del sogno. Dove lo spettatore, inquieto, ipnotizzato non dalle immagini ma dagli abissi che le sottendono, rimane come incagliato nella camera obscura, prigioniero consensuale di quell’angelo sterminatore che ha serrato le porte. Questo era Buñuel, il grande e sornione incantatore, che scomponeva le certezze logiche della narrazione per insinuare il dubbio sull’apparenza stessa di quella realtà quotidiana che mostrava, con il suo bestiario inquietante di scorpioni, cammelli, vacche, struzzi e maiali, insinuando in colui che guarda di essere come Simón, lo stilita del deserto che trasfigurava in diavoli incarnati le più colpevoli frustrazioni. Il rasoio nell’occhio fende anche la coscienza.
Giovanni M. Rossi
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Copiato, plagiato, citato, parodiato, mitizzato, venerato. A quasi centodieci anni dalla sua nascita e a quasi sessanta dalla sua morte, Ejzen ˇstejn rimane uno dei numi tutelari della Settima Arte, l’Autore-Teorico per antonomasia con la cui idea di cinema e la cui visione complessiva del fatto artistico si è confrontata una non esigua schiera di registi e teorici. È una storia singolare e irripetibile, quella di Ejzenštejn, leggendaria e circonfusa di un alone di “santità”, eppure complessa, controversa e contrastata: la storia di un cineasta che è stato anche un grande studioso di fatti artistici, e che sistematicamente accompagnava e integrava la sua concreta pratica registica con una riflessione teorica sottoposta a continue rielaborazioni. La storia di un autore corteggiato e in pari tempo osteggiato, ammirato ma sovente umiliato in quella Russia post-rivoluzionaria del cui humus culturale, sociale e politico si era nutrito. La storia di un regista considerato geniale e rivoluzionario fin dai suoi esordi nel mondo artistico ma che ha avuto spesso difficoltà a fare film, e al quale le pellicole, appena finite, sono state sovente sottratte di mano, censurate, sottoposte a tagli, cambiamenti o rifacimenti. La storia di un pensatore eclettico e appassionato, creatore di un’opera imponente e profondamente innovatrice e innervata da un incessante proliferare di nuove soluzioni e proposte, tanto celebre quanto, in realtà, poco conosciuta, relegata nell’ambito della programmazione cineclubbistica di un tempo o fatta famigeratamente oggetto di studio di corsi universitari. Il “mito” che negli anni si è venuto creando attorno a Ejzen ˇstejn, inserito e iscritto nel più grande e fascinoso mito del cinema sovietico post-rivoluzionario, pur avendo in un certo periodo contribuito, in Italia, a creare in un largo fronte di intellettuali una nuova coscienza critica e a aprire nuovi orizzonti culturali, tuttavia non ha mai assunto valenza popolare e connotati di “massa”: è stato un mito, quasi, nella “misura dell’assenza”. Un’assenza che è iniziata negli anni del fascismo, quando quel mito era più che altro costituito e alimentato da proiezioni clandestine o, dalla seconda metà degli anni Trenta, dalla visione, nelle salette del Centro Sperimentale, delle uniche copie esistenti di La corazzata Potëmkin e di qualche film di Pudovkin. Un’assenza che è proseguita anche nel periodo del dopoguerra e negli anni Cinquanta, a seguito di un irrigidimento della pratica censoria e di un restringimento di quei canali culturali attraverso i quali si rendeva possibile la visione e la conoscenza dei film dei maestri sovietici e, in particolare, di Ejzen ˇstejn. È solo negli anni Sessanta che, con il relativo attenuarsi della censura amministrativa, i film di Ejzen ˇstejn e, più in generale, il cinema sovietico, hanno avuto in Italia una più ampia diffusione, divenendo sovente il cavallo di battaglia di associazioni culturali, organizzazioni politiche di sinistra, cineclub che hanno consentito, nei confronti dell’autore dell’Aleksandr Nevskij, un più popolare e vasto “incontro ravvicinato del terzo tipo” attraverso l’organizzazione di cicli di proiezioni e di (talvolta insostenibili) dibattiti. Ma, alla stregua degli altri vessilli della politica culturale adottati dall’associazionismo negli anni della sua massima attività, anche Ejzen ˇstejn, trascorsi gli anni Sessanta, sparisce quasi del tutto dalla programmazione dei decenni successivi, a fronte, tuttavia, di una vigorosa rinascita di interesse (scientifico più che amatoriale), attuata soprattutto attraverso la pubblicazione della vastissima silloge dei suoi scritti. È una strana storia, quella di Ejzen ˇstejn: la storia di un grande autore-scrittore-pensatoreteorico, di una figura tra le maggiori dell’intera storia del cinema ma che bisogna continuamente riscoprire, “sottrarre all’oblio - come ha notato Jacques Aumont - e a un vago senso di noia”.
Franco Vigni 16
Il manifesto dell’edizione 1973 del Premio Cinema
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1974 Orson Welles La notte di Vienna era buia e minacciosa, le strade deserte. Solo un gattino passeggiava miagolando e si fermava davanti a un portone. L’uomo nascosto nell’ombra si accendeva una sigaretta, e la fiammella illuminava il suo volto, cattivo e sorridente. Fu con quella scena-madre del Terzo uomo (1949) che scoprii il fascino sconvolgente di Orson Welles, irresistibile Harry Lime, lo spavaldo trafficante destinato a morire due volte. Certo può sembrare strano (superficiale) cominciare il ricordo di uno dei più grandi autori del cinema moderno da un film non suo, da un noir diretto da un altro regista (l’inglese Carol Reed) assai bravo, ma non geniale come lui. Eppure se ripenso alle eccelse opere di Welles, da quel Citizen Kane (Quarto Potere), che nel ‘41 sconvolse il linguaggio (e l’etica) di Hollywood, alle irripetibili visioni delle tragedie di Shakespeare, rilette come disperate allucinazioni (la nera maschera di Macbeth, i bianchi lenzuoli che avvolgono Otello), mi torna sempre in mente la presenza incombente di Orson, la sua fisicità prepotente. Forse soltanto nell’angosciata messa in scena del Processo di Kafka, il ruolo di Orson (avvocato cinico e distratto) è importante ma non indispensabile. Ma è un’eccezione che conferma la regola. Al di là delle rivoluzionarie invenzioni Il manifesto dell’edizione 1974 del Premio Cinema stilistiche, una parte capitale del cinema di Welles è legata al suo corpo e al suo volto bellissimo, spesso stravolto dal trucco (pensate al naso posticcio nella nera allegoria da ultimo confine dell’Infernale Quinlan). Superbo “Cagliostro” della macchina da presa, genio generoso e al tempo stesso egoista, capace di distruggere gli amici sceneggiatori e le attrici più amate (Rita-Gilda, fatale e sventurata “signora di Shanghai”), Welles non ebbe mai paura di affogare nel fiume di progetti falliti, perché, come lo scorpione di una favola da lui molto amata (vedi alla voce Rapporto confidenziale), doveva seguire il suo talento e la sua natura. Così, fra un film realizzato e mille idee buttate via, diventò a poco a poco il personaggio immaginario di romanzi e leggende. Peter Bogdanovich, che gli fu accanto nell’indomita senilità per scrivere una bellissima biografia (Io, Orson Welles, Baldini&Castoldi), lo rammenta come un gentile fantasma danzante in un viale vuoto, sotto la luna di Beverly Hills. Ma forse era la reincarnazione del marinaio O’Hara, miracolosamente uscito dalla labirintica galleria degli specchi.
Claudio Carabba 18
1979 Alfred Hitchcock Le prime cose che contano sono i dettagli e gli oggetti dimenticati: un tic rivelatore, un bicchiere di latte, un paio di occhiali perduti al Luna Park, una cassapanca coperta da una tovaglia, un paio di forbici sulla scrivania; e naturalmente l’acqua della doccia che scorre insieme al sangue versato, che sembra rosso, anche se la fotografia è in bianco e nero. Da questi particolari, non di rado apparentemente insignificanti, parte il meccanismo dell’emozione e del sospetto. Per quelli della mia generazione, cresciuta nel decennio Cinquanta, fu facile capire la grandezza di Hitchcock, non avemmo i dubbi davanti al “genere” e al “colore” (“il giallo e il nero”) che avevano frenato i nostri padri (della critica). Già nel 1954, guardando Rear Window, il giovane Truffaut aveva intuito che il cortile su cui si affacciava l’infermo James Stewart era il mondo; e “il fotoreporter era il cineasta, il binocolo la cinepresa con i suoi obbiettivi”. La strada insomma era aperta; bastava seguirla. Le regole di “Hitch” sono chiare e trasparenti; il colpevole è sovente rivelato nelle prime scene; l’eventuale pretesto narrativo (il maestro lo chiamò “Mac Guffin”) dichiarato senza imbarazzo. L’emozione dello spettatore nasce quasi sempre dalla consapevolezza totale; sapendone di più del protagonista (preferibilmente giovane e innocente) trasale quando lo vede fare una mossa sbagliata. Restano però alcuni interrogativi insolubili. Ad esempio, se vedessi per Il manifesto dell’edizione 1979 del Premio Cinema la prima volta Psycho con occhi inconsapevoli, a che punto della storia capirei che Norman Bates (Anthony Perkins forever) e la mamma assassina sono la stessa persona? Dietro all’ombra del dubbio e del pericolo, sempre incombenti, forse è sottovalutata nel cinema di Hitch l’importanza dell’amore: la coniugale fedeltà che spinge Joan Fontaine a rischiare molto per il bel Cary Grant nel Sospetto; il delirio per la devastante Alida Valli che sconvolge l’avvocato Gregory Peck nel Caso Paradine; la gelosia vertiginosa e vendicativa che spinge l’irato Stewart e la bionda Kim Novak, condannata a morire due volte, sulla cima del campanile di Vertigo. Come una divinità distaccata e un po’ crudele, Hitchcock (“L’uomo da cui ci piace saperci odiati”) gioca con la paura e i desideri di chi guarda. Se nessun delitto è davvero perfetto, tutti, anche gli innocenti, possono ordire congiure e intrighi, familiari o internazionali. Senza dimenticare (lo insegnava la fremente dottoressa Bergman allo stordito Gregory Peck in Io ti salverò) che la logica (la materia) dei film è simile alla logica dei sogni. I quali si accavallano in una successione di forme minacciose e strane. Come in un incubo, probabilmente.
Claudio Carabba 19
1982 Renato Castellani “Le sceneggiature dei miei lavori, tranne due o tre, sono assolutamente mie, quindi quel che c’è di buono o di cattivo è tutto merito, o demerito, mio”. Così affermava Castellani in un’intervista del 1982, quando la sua carriera era nella sorprendente fase conclusiva. Con quelle parole si assumeva la responsabilità creativa dei suoi film, ponendosi sul piano autoriale della regia, e non certo su quello meramente esecutivo. Eppure il nome di Castellani, ancora oggi, stenta ad essere incluso tra quelli che hanno fatto la storia del nostro cinema: di altri si celebrano le ricorrenze, si restaurano i film, si analizza l’opera. Lui sembra dimenticato. Peccato, perché il percorso creativo di questo regista schivo, vincitore di Cannes nel 1952 (ex aequo con Orson Welles) e di Venezia nel 1954, ha attraversato in modo personale tutte le fasi del cinema italiano. Il suo esordio risale all’epoca del “calligrafismo”, con Un colpo di pistola (1942) e Zazà (1944), dove si dimostra assai meno accademico rispetto al formalismo congelato dei vari Poggioli, Soldati o Lattuada. In seguito aderisce al neorealismo con un taglio del tutto personale, penalizzato da un giudizio ingeneroso che lo definisce “rosa”. In realtà la sua trilogia popolare (Sotto il sole di Roma, 1948; È primavera, 1949; Due soldi di speranza, 1952) non è meno impegnata dei lavori neorealisti di impianto drammatico, e soprattutto il primo film, vero e proprio romanzo di formazione, si rivelerà nel tempo modello di riferimento per molti (come dimostra il Virzì di Ovosodo). Nel 1954 stupisce il cambio di registro operato da Castellani con la raffinata e dolente trasposizione shakespeariana di Giulietta e Romeo. È lo stesso anno di Senso, cui verrà preferito, probabilmente per motivi politici, dalla giuria veneziana. Entrambi si possono considerare la prima incursione espressiva nel colore del cinema italiano; entrambi rompono i legami col neorealismo per tentare nuove strade di realismo storico. Però oggi si ricorda solo il capolavoro di Visconti, trascurando colpevolmente il bel film di Castellani dove, accanto a John Gielgud, recita, sotto pseudonimo, anche Elio Vittorini. Negli anni successivi il regista tenta strade diverse: il dramma intimista, le trasposizioni letterarie, la commedia all’italiana. Alcuni risultati sono notevoli (I sogni nel cassetto, 1957; lo sfortunato e coraggioso Il brigante, 1961, dal romanzo di Berto), altri di routine (Nella città l’inferno, 1959, dominato dalle mattatrici Masina e Magnani; Questi fantasmi, 1968, da De Filippo). Il vero colpo d’ala, in vecchiaia, Castellani lo dà con la televisione: seguendo l’esempio rosselliniano, realizza due magistrali sceneggiati di impianto didattico che a tutt’oggi restano tra gli esempi maggiori raggiunti in Italia sul piccolo schermo: La vita di Leonardo da Vinci (1972) e Verdi (1982).
Marco Vanelli
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1983 Stanley Kubrick A pochi anni dalla morte - avvenuta nel 1999, il montaggio di Eyes Wide Shut non ancora terminato - l’opera del regista nato a New York (ma emigrato presto in Inghilterra, in un percorso à rebours rispetto alla ricerca del successo e della visibilità hollywoodiana) è tra le più ammirate e mitizzate della storia del cinema. Al di là delle molte - forse troppe interpretazioni, letture, mitologie che brulicano intorno a Kubrick, il suo lavoro appare come un percorso intellettuale e visionario dentro l’essenza stessa del cinema. I suoi film adottano l’orizzonte dei generi: il film di guerra (Full Metal Jacket, Orizzonti di gloria, Il dottor Stranamore), di fantascienza (2001: Odissea nello spazio, ma anche Arancia meccanica), storico (Spartacus, Barr y Lyndon), letterario (Lolita, Eyes Wide Shut), poliziesco (Rapina a mano armata), horror (Shining). All’apparenza Kubrick si muove dentro i cliché dell’industria hollywoodiana: ma ne sta anche fuori, ne adotta i modi in apparenza e poi li ribalta mettendone in gioco la logica interna; gioca sulle crepe, sulle fratture che si aprono nei meccanismi della “fabbrica dei sogni” e ne porta alla luce le contraddizioni, gli ossimori Il manifesto dell’edizione 1983 del Premio Cinema stridenti, che sono poi quelli della condizione umana: natura/cultura, civiltà/violenza, ferinità/saggezza sono solo alcune delle opposizioni che strutturano l’universo kubrickiano. Cinema della riflessione acuminata sul pensiero occidentale e sui suoi meccanismi di autoconservazione (la guerra, la violenza, la repressione), l’opera di Kubrick è costruita su un’altissima capacità visiva (l’uso dello zoom, dei movimenti della mdp, dell’illuminazione), su un dominio assoluto di tutte le componenti del film e su una sintesi estetica di letteratura, pittura, teatro, musica che solo poche volte è stata raggiunta nella storia del cinema.
Chiara Tognolotti
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1984 Ettore Scola Ripercorrendo la filmografia di Ettore Scola è difficile sottrarsi al fascino dei titoli più celebrati, legati alle atmosfere grottesche e non di rado cupe della commedia all’italiana, specchio dei (molti) vizi e delle (poche) virtù del popolo italico. La Roma livida e guerresca che ospita Hitler nel maggio del ’38 (Una giornata particolare); l’amicizia altalenante tra un Gassman avvocato arrivista e senza scrupoli, un Satta Flores intellettuale vacuo e ingenuo e un Manfredi infermiere comunista e forse sincero (C’eravamo tanto amati); ancora il Manfredi patriarca imponente e la sua corte di familiari incarogniti di Brutti, sporchi e cattivi; e poi, negli ultimi anni, i ritratti di padre e figlio di Che ora è, la squallida Italia contemporanea di La cena, la società conformista e acquiescente degli anni Trenta richiamati in Concorrenza sleale sono solo alcuni delle figure e dei mondi gretti e avidi evocati dal regista in un cinema sarcastico che solo di rado si apre a parentesi più affettuose (La terrazza, Passione d’amore, La famiglia). Ma da ricordare sono anche le evasioni più lontane nel tempo e nella storia: Ballando ballando è una danza che corre lungo mezzo secolo di storia francese, dal Fronte popolare al Maggio; Il viaggio di Capitan Fracassa è un road movie nella Francia del Seicento al seguito di una troupe sconclusionata di artisti ambulanti; e Il mondo nuovo ripercorre la fuga, romantica e inutile, di Luigi XVI e Maria Antonietta, osservata con lucido distacco da un anziano Casanova, in cui, forse, il regista ha rivisto se stesso, osservatore disincantato della decadenza di un mondo.
Chiara Tognolotti La locandina dell’edizione 1984 del Premio Cinema
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1985 Paolo e Vittorio Taviani Il volto di una bambina - così ha inizio Fiorile, tredicesimo lungometraggio dei fratelli Taviani rischiarato dai tenui bagliori intermittenti delle luci artificiali, assopita sul sedile posteriore di un’auto che percorre un tunnel. Allargando il campo e carrellando verso sinistra, con lievi correzioni panoramiche, la macchina da presa scopre, progressivamente, gli altri componenti della famiglia a bordo dell’auto: il piccolo fratello, anch’egli dormiente, la madre e, alla guida, il padre. La donna, spossata per il lungo viaggio, distende le gambe su quelle del marito. L’auto, ripresa adesso dall’alto, nella parte inferiore dell’inquadratura, sfreccia veloce all’interno dell’oscura galleria. Il bambino, in primo piano, si sveglia e guarda davanti a sé; qualcosa, lontano, attrae la sua attenzione. “Cos’è quella luce laggiù?”, chiede. Gli risponde il padre (fuori campo): “È la Toscana”. Sul tetto dell’auto si riflette adesso un chiarore, che diviene sempre più intenso e diffuso via via che l’auto si approssima all’uscita del tunnel. Quel tunnel nella cui immagine pare condensarsi ed essere simbolicamente enucleata la dinamica da cui il cinema dei Taviani, pur nella mutevolezza dei registri adottati e nella compresenza di continuità e innovazione, appare mosso e innervato: la dialettica tra Storia e Leggenda, il passaggio dal dato realistico a quello immaginifico, lo spostamento dalla realtà alla favola, il trapasso dal tempo presente a quello preterito, il tragitto che dalla cronaca porta alla fantasia. All’interno del tunnel scorre il flusso della memoria, quella rimembranza che sovente, nel cinema dei Taviani, dà impulso alla narrazione, illuminando eventi, accadimenti, oggetti, persone, ambienti e luoghi, e che fa traslare la dimensione concreta in quella fiabesca. Attraverso suggestioni fantastiche e accensioni emotive è filtrata e decantata la realtà, in un allontanamento dall’immediato finalizzato non alla sua alterazione o al suo nascondimento, ma a una migliore sua focalizzazione e a uno scandagliamento della forte tensione ideale che la sostiene. Di riflessi epici e mitici scintillano le vicende e le situazioni, le quali trovano sviluppo e visualizzazione seguendo il filo poetico e ondivago della rimembranza che - pur non occultando le tensioni, le violenze, gli orrori, le maledizioni, i torti, i drammi di cui la Storia, passata e presente, è gravida - le trasforma in evocazioni leggendarie. Di accenti lirici e fascinosi rifulge l’elemento paesaggistico, così spesso identificato con quella toscana terra della quale i Taviani si pongono come cantori e in cui affondano le loro radici culturali e creative, nel catturamento e nella restituzione della sua poesia e della sua ambiguità, dei suoi sogni e delle sue contraddizioni, delle sue ombre e della sua “luce”. Ritratti nel loro fulgore cromatico e in una pittorica morbidezza che ne evoca ora l’armonia ora l’ostile alterità, i paesaggi conferiscono alle storie una fisicità densa e al contempo impalpabile e sfuggente, contribuendo alla compiutezza espressiva delle opere, illuminandole di attimi sublimi e bagliori elegiaci. Gli ubertosi prati, le folte e rigogliose boscaglie, i collinari declivi dai sinuosi profili, gli aurei campi di grano, l’irreale magnificenza delle piazze di medievali paesi, una natura bagnata al contempo di pioggia e di sole, accolgono i desideri e le disillusioni, gli aneliti e la disperazione, gli slanci e i ripiegamenti, le attese e le inquietudini, la vita e la morte. Di un’aura mitologica sono circonfusi i protagonisti, personaggi di rivoluzionari, idealisti, ribelli, sognatori, visionari. Uomini da bruciare, fuorileggi del matrimonio, naufraghi dell’ideologia, insurrezionalisti, partigiani, figli che cercano di affrancarsi ed emanciparsi dai padri padroni, giovani delusi che rinunciano al “sogno di una cosa” o si lasciano morire d’amore e di “rabbia”, umiliati e offesi alle prese con la miseria, figli di toscani capomastri che inseguono in America orgoglio e speranza, nobili alla ricerca della verità e di una santità impossibile o che perseguono il progetto di far coincidere razionalità e sentimento, Benedetti e Maledetti arricchiti e dannati, esseri perseguitati dai fantasmi dell’inconscio o dalla malvagità e dalla crudeltà altrui. Personaggi che si battono contro un destino avverso e contro le maledizioni o le brutalità della Storia, coltivatori 23
di un desiderio di radicale modifica dell’uomo e delle cose, portatori di un’utopia continuamente rinnovata. Quell’utopia - vero e proprio filo rosso che attraversa e unisce emblematicamente tutte le opere dei Taviani - collocata forse alla fine di quel tunnel all’interno del quale sfreccia l’auto nell’incipit di Fiorile, e che può esistere solo nel territorio rarefatto ed evanescente dei sogni, in fatati e segreti boschi, nel regno magico e incantato della favola o del cinema, a cui i due autori affidano, della trasformazione dell’esistente e di un mondo altro e diverso, il loro nostalgico e immaginifico vagheggiamento.
Franco Vigni
Il manifesto dell’edizione 1985 del Premio Cinema
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1986 Akira Kurosawa Per uno strano gioco del destino, la rivelazione veneziana di Rashomôn (la sua opera undici, 1951) giovò più al cinema giapponese che al suo autore: per un ventennio, di Kurosawa ‘l’imperatore’ (discendente da una famiglia di samurai, è nato a Tokio nel 1910) verranno distribuiti in Occidente solo i film di samurai, nessun distributore osò ripescare i suoi capolavori ‘ re a l i s t i ’ d e l l ’ i m m e d i a t o dopoguerra (Non rimpiango la mia giovinezza, Cane randagio, L’angelo ubriaco, L’idiota, Vivere); questi e altri inediti dell’imperatore li vedremo in Italia solo nel 1986 (in occasione di un memorabile ciclo Kurosawa ideato e curato dal sottoscritto per Rai 1). Se li avessimo scoperti prima, ci saremmo accorti che nessuno come Kurosawa ha saputo raccontare l’evoluzione della società e della cultura giapponese del dopoguerra, altro che ‘occidentalismo’! Saranno gli occidentali a fare dei fortunati remake di film dell’imperatore (L’oltraggio, da Rashomôn, I magnifici sette, Per un pugno di dollari). Artista rinascimentale aperto voluttuosamente a tutto, Kurosawa ha realizzato un’originalissima sintesi tra le culture. Grande umanista, profondo lettore di Dostoevskij, Il manifesto dell’edizione 1986 del Premio Cinema Shakespeare (Trono di sangue dal Macbeth e Ran da Re Lear), ma anche di Pirandello e degli scrittori noir (Anatomia di un rapimento), spaziando da un genere all’altro, Kurosawa ha saputo trattare dei temi universali: il senso dell’esistenza (Vivere, I sette samurai), la lotta contro la miseria e la corruzione (I cattivi dormono in pace, I bassifondi, Barbarossa, Dodes’kaden), l’iniziazione alla vita (Sugata Sanshiro, Sogni), la bomba atomica (Vivere nella paura, Rapsodia d’agosto), persino l’ecologia (Dersu Uzala). Eccelso montatore, maestro di contrasti, in uno stile realistico-espressionista, si è creato un cinema di un dinamismo spettacolare coinvolgente, di una forza emotiva ineguagliata. Ha saputo creare sullo schermo dei caratteri di una prodigiosa vitalità: il millantatore Toshiro Mifune è diventato una maschera del cinema mondiale.
Aldo Tassone
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1987 Ermanno Olmi Pochi registi nel cinema italiano possono vantare una carriera così lunga e anomala quale quella ostentata da Ermanno Olmi. Innanzitutto perché Olmi è uno dei pochi, se non l’unico, fra i “grandi” del dopoguerra (l’altro è forse Pasolini) a non essere approdato al cinema tramite la via obbligata della scuola professionale o del praticantato. I primi film li ha girati tutti da solo, con finanziamenti un po’ concessi e un po’ estorti alla ditta per cui era impiegato e con l’unico ausilio di una troupe efficacissima ma quasi improvvisata, tutta fatta da altrettanto poco esperti colleghi d’azienda. Due le risorse culturali presenti allora nel suo portfolio: un esperimento giovanile ed interrotto all’Accademia d’arte drammatica con Strehler (un bagaglio che tornerà solo dopo con Cantando dietro i paraventi) ed un’attenta visione dei capolavori del neorealismo, Rossellini e De Sica soprattutto. Nient’altro. Eppure, confessano ancor oggi i suoi colleghi di allora, quando girava ha sempre avuto le idee chiare, tanto nelle riprese dal basso di un pilone di una teleferica di servizio, quanto sulle piane d’alta montagna innevate, dove teneva personalmente, a spalla, una pesante macchina da presa 35 mm. Eppure, forse questo, la vicinanza cioè con temi e motivi del migliore neorealismo, accostamento suggellato nel 1961 dall’uscita di Il posto, ha tenuto Olmi per anni - e parliamo qui di anni d’oro della sua carriera, quelli di I fidanzati (1963), E venne un uomo (1965), Un certo giorno (1968), dei Recuperanti (1970) e La circostanza (1973) - lontano da buona parte della critica e forse anche del pubblico italiano, che con quell’esperienza del neorealismo, vuoi per nostalgie, vuoi per rifiuto di un passato troppo sofferto, difficilmente riuscì a fare i conti. Fu difficile insomma riconoscere in quell’uomo fuori dai giochi, il “maestro” indipendente di cui il cinema italiano aveva bisogno. Già, “indipendente”, perché i suoi film, fallita un’esperienza pilota con la Titanus, che nel 1962 doveva finanziare un suo Sergente nella neve, continuò poi a produrseli tutti da solo. Forse per questo, fu difficile riconoscere in Olmi, nel momento della sua maggiore celebrazione mediatica - la premiazione nel 1978 a Cannes di L’albero degli zoccoli, baciato poi da un gran successo di pubblico - le sue “antiche” qualità progressive. A Venezia invece, il primo Leone d’Oro arrivò ulteriormente in ritardo, nel 1987, segnalando un film incompleto e mal riuscito (uno dei pochi della sua carriera) come Lunga vita alla signora. Impossibile che poi non lo si attendesse al varco del fallimento con altri film più misurati e personali, ma comunque discutibili, arrivati negli anni immediatamente successivi: La leggenda del santo bevitore, Il segreto del Bosco Vecchio, Genesi. Olmi, però, in quegli anni continuava ed approfondiva, poco osservato, il suo cinema anche nel campo del documentarismo, con risultati a volte davvero eccellenti (Milano ’83, Artigiani Veneti) a volte comunque rilevanti (Lungo il fiume, Mille anni, la stessa costituzione della scuola Ipotesi cinema). E continuava soprattutto la sua ricerca visiva con quella capacità d’isolamento e di straniamento cortese dal resto del mondo cinematografico (mai odiato, ma neanche pedissequamente seguito) che doveva portare alla sua nuova, e purtroppo nuovamente “inattesa”, stagione di rinascita, con Il mestiere della armi e Cantando dietro i paraventi. Olmi, si dice, una volta finito un film brucia letteralmente nel camino tutti i materiali di lavoro, per andare avanti più leggero verso una nuova esperienza cinematografica. Se qualcosa i suoi film hanno da dire, lo devono fare da soli, con le loro gambe. La critica italiana dal pari suo ha spesso bruciato anche il ricordo dei suoi film. Spesso è difficile essere “maestri”.
Luca Mazzei
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1988 Ingmar Bergman Partiamo da Fårö, l’isola rifugio. Il buen retiro. Luci del nord. Trasparenti e rifrangenti. Bergman dialoga col suo “piccolo mondo” aperto sull’orizzonte estremo della sua lanterna magica. Fårödokument 1979 arrivò in Italia al Festival dei Popoli: fermo immagine b/n nella saletta Agis di via Fiume dove fu proiettato in anteprima per gli amici. Per gli amici sulla sua isola, qualche anno prima, Bergman aveva proiettato il suo Flauto magico: “Il pubblico era formato da collaboratori, vicini di casa, figli e nipoti. Sul mare si specchiava una fetta di luna. Bevemmo champagne, accendemmo lanterne colorate e qualche piccolo fuoco d’artificio”. Pare vederli. Come in uno specchio fra i sorrisi di una notte (scespiriana) di mezza estate. Frammenti di un discorso amoroso che taglia di traverso, come uno squarcio fontaniano, lo schermo bianco delle nostre emozioni. E che dopo memorabili partite a scacchi e introvabili posti delle fragole, silenzi abissali e rituali teatrali, sussurri grida matrimoni e marionette, favole gotiche e racconti immorali, si ricompone incandescente e mozzafiato nei girotondi sontuosi e vertiginosi di Fanny e Alexander (1982), film summa, antologia espansa del sapere e magistero cinematografico. Un mosaico che Il manifesto dell’edizione 1988 del Premio Cinema sempre qui, alla Pergola, nella mai troppo rimpianta Rassegna dei Teatri Stabili, troverà una diagonale sismica, rovente e bellissima in Amleto, metrica epocale, un eroe nuovo, spiazzante e turbinante nella nera avventura di una vita di morte (ieri oggi sempre). Questo Bergman “fiorentino” resta (almeno per noi) indimenticabile e colloquiale bussola per addentrarsi nel maremoto di un cinema che recita la menzogna e rivela la verità. Cinema sinfonico per grandi orchestre e complessi da camera, per voci e coro, cinema doppio che si maschera e traveste, un volto dopo l’altro, una messinscena dopo l’altra, una confessione dopo l’altra. La magia della lanterna sono ombre minacciose e disordine lineare. Sono passaggi nella memoria, misteriosi inseguimenti per flashback, allucinazioni, orrori amori erotismi peccati delitto e castigo. Bergman “cattivo maestro” che ci spia. Lo scandalo e la sensualità del cinema. Un occhio impuro e menzognero, tacito e enigmatico che però conosce molte “cose” di noi, altre e selvagge, e disarmoniche, quanto a tratti riconciliate dalla fanciullesca armonia mozartiana e dal baluginante chiarore lunare di una notte di mezza estate.
Gabriele Rizza
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1989 Alberto Lattuada Cineasta ‘eclettico’, ‘formalista’: questi fuorvianti qualificativi di comodo non servono a definire la complessa personalità del milanese Alberto Lattuada scomparso a 92 anni nell’agosto 2005. Formatosi alla grande scuola del cinema classico americano e francese dei Duvivier-Renoir, era molto fiero di aver proiettato in anteprima italiana La grande illusione alla Cineteca di Milano da lui creata (sfidando la rigida censura fascista). Eclettico lo era sicuramente nella scelta dei soggetti: Il cappotto (Gogol, 1952), La tempesta (Puskin, 1958), La steppa (Cechov, 1962), La mandragola (Machiavelli, 1965), I dolci inganni (Piovene, 1960), Cuore di cane (Bulgakov, 1970), La lupa (Verga, 1953), Il delitto di Giovanni Episcopo (D’Annunzio, 1947). Non allineato politicamente, narratore robusto dotato di una raffinata cultura letteraria e figurativa, ironico e polemico scrutatore del costume, in quarant’anni di carriera il cineasta milanese si è sempre mosso con grande bravura ed estrosa professionalità da un genere all’altro: film di denuncia, melodrammi di successo (Anna, 1951), film in costume, gialli (L’imprevisto, 1961; Mafioso, 1962, irresistibile caricatura dei metodi di Cosa Nostra), commedie, film di guerra (Fräulein Doktor, 1969). Dopo aver partecipato attivamente alla grande stagione neorealista (Il bandito, Senza pietà, Luci del Il manifesto dell’edizione 1989 del Premio Cinema varietà, codiretto con Fellini che gli deve il suo debutto nella regia nel 1951), l’eclettico Alberto ci ha offerto alcuni memorabili adattamenti letterari: Il mulino del Po, 1949 da Bacchelli, è il primo grande affresco storicosociale italiano dell’Ottocento, cinque anni prima di Senso; Il cappotto, graffiante satira della burocrazia. Con raffinata eleganza, ma anche con ferocia, il “libertino” Lattuada (ma Tinto Brass non è riuscito ad imitarlo) ha saputo raccontare da par suo il risveglio dell’istinto nelle adolescenti (Guendalina, 1957; I dolci inganni, 1960) e la sessualità del maschio italiano: Gli italiani si voltano (episodio di Amore in città, 1953), Don Giovanni in Sicilia (1967), Venga a prendere il caffè da noi (1970). Ce ne fossero di narratori eclettici come l’architetto Lattuada (così lo chiamavano sul set), ahimè sottovalutatissimo.
Aldo Tassone 28
1994 Wim Wenders Le curve della strada che va su fino a Fiesole. Imboccarle con una vecchia Vespa, una Vespa nata nel 1976. A ogni curva intravedere, giù, la valle di Firenze e tutte le vite che ci sono dentro, e il tempo che abita lì. E a ogni metro, in ogni minuto, essere parte di quella strada, di quel mondo. Essere parte dell’universo. Come quei due tipi che attraversano la Germania, in un film di Wenders girato proprio nell’anno in cui nasceva quella Vespa, il 1976. L’attraversavano in camion, la guardavano dalla provincia. Eppure, c’era la vita, lì dentro. C’erano le persone vere, quelle che vivono ai bordi della storia, ai bordi delle mode. Quelle che magari tengono aperto un cinema di provincia. Che finché ci sarà un film da proiettare, io lo terrò aperto, dicono nel film. E finché ci sarà qualcosa da guardare, io terrò gli occhi aperti, pensavo io. E la strada si alza, una curva ampia, di là ci sono delle cave di pietra, di qua si vede tutta la valle di Firenze, e anche più in là. Come in quel film di Wenders, Alice nelle città. Che alla fine, l’immagine mostra un uomo e una bambina al finestrino di un treno, poi si alza, e si vede tutto il treno. E si alza ancora, e si vedono i campi, le colline, le forme geometriche delle coltivazioni, e i fiumi, e la striscia sottile della ferrovia che s’infila nello spazio, e ancora colline, e colline, e siamo ormai altissimi. “Io, veramente, volevo che da quella inquadratura si vedesse tutta la Germania”, aveva detto Wenders in una intervista. Perché è così, il cinema. Si sta addosso a due facce, due vite, due storie. E poi da quelle due storie viene fuori un senso più grande, e si comincia a indovinare un disegno più vasto. Tutto un paesaggio, tutto un mondo. E dentro quel mondo ci sono anche le nostre vite, la mia e la tua, e quelle di tutti. Questo è il cinema, non importa da quali volti comincia a salire. Wim Wenders, tedesco di Düsseldorf, nato nel 1945 quando la guerra finiva, Hitler si suicidava nel bunker e la Germania diventava un nuovo West per gli americani, con il loro chewing gum e il rock and roll, ha sempre fatto questo. Con un cinema tutto di sguardo. Sguardo meravigliato addosso alle cose, che viste da un certo angolo sono sempre più misteriose, più belle, più inquietanti e rivelatrici. E sguardi sulle persone. Sguardi puntati addosso, anche e soprattutto nei momenti in cui non ci sono parole, non ci sono gesti eclatanti, non ci sono bei dialoghi da sfoggiare, ma soltanto la verità, nuda e cruda, dell’esistere a questo mondo. Il volto di Nick Ray rarefatto dalla malattia, quello della bambina Alice perduta nelle città di un’Europa in bianco e nero, il volto di Nastassja Kinski dentro la prigione di un peep show, quello di Bruno Ganz, angelo senza ali, che guarda l’umano soffrire, che sorveglia i pensieri i desideri degli umani, dal cielo sopra Berlino, e alla fine ha troppa voglia di diventare uno di loro. Non basta guardare. Bisogna anche mettersi in gioco. Accettando di invecchiare, di morire, di amare e non essere riamati, e tutte quelle cose che fanno degna la vita mortale.
Giovanni Bogani
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Il manifesto dell’edizione 1994 del Premio Cinema
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1995 Robert Altman “Chi vuole vivere libero, deve saper morire per la libertà”. Questo insegna un avvocato al protagonista di McCabe & Mrs Miller (I compari, 1971); una frase semplice che tuttavia nasconde un destino e un inganno: se pensi di vivere libero, sei già sconfitto in partenza. Altman, rivelatosi autore nel 1970 con la Palma d’oro per M.A.S.H., realizza variazioni sul tema della libertà in tutto il suo decennio migliore, proponendola come misura dell’amore (That Cold Day in the Park, 1969) o apologo surreale dedicato alla ribellione giovanile (Brewster McCloud, 1970), come puro delirio (Images, 1972), quale nemesi del tradizionale detective chandleriano (The Long Goodbye, 1973), in forma di ironica consacrazione musicale della patria (Nashville, 1975) o come rilettura critica e mediatica del western (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, 1976). Nato nel 1925 a Kansas City, Missouri, negli anni Settanta il regista ha già l’età dei padri, nonostante che i suoi film narrino - con amarezza, sarcasmo e sofferto vigore - storie di genitori mancati o di precoci antieroi. Considerato il più “indipendente” fra i cineasti americani dell’ultimo trentennio, esordisce come sceneggiatore dirigendo poi, con l’aiuto di Hitchcock, numerosi serial televisivi; da queste esperienze deriva probabilmente la sua capacità di metaforizzare gli eventi minimi della vita quotidiana, o il saper ricondurre a un’identica matrice cupamente umana gli ambiziosi traguardi raggiunti da alcuni personaggi: succede in The Player (I protagonisti, 1992), una satira spietata dello show business, che segna il suo rientro a Hollywood dopo gli sfortunati anni Ottanta, e accade con accenti di assoluta genialità in Short Cuts (America oggi, 1993), memorabile collezione di frammenti verosimili, o schegge di vite ordinarie, ispirata ai racconti di Carver. In queste due opere magistrali affiora il fantasma o, meglio, la parafrasi dello stesso concetto ideale: chi vuole vivere libero, deve saper uccidere in nome della sua libertà. Acuto e graffiante, Altman riesce a trasformare il giallo in cronaca sociale e, viceversa, la piccola cronaca in un thriller esasperante che infrange le barriere morali e le fragili convenzioni di una società narcisista, opulenta e viziata. Così una scena può “crescere” diventando un emblema potente, valga per tutte quella di Short Cuts, dove alcuni elicotteri spruzzano dei pesticidi volando su Los Angeles: normale routine antiparassitaria o allusione a un “grande fratello” etereo cui niente sfugge e che tutto avvelena? Non stupisce che per il regista i rimanenti anni Novanta coincidano con un secondo esilio, sia esso indotto o voluto, nel tossico lieve della commedia (Cookie’s Fortune, 1999; Dr T & the Women, 2000); fino al rilancio, degno di un grande giocatore, e al successo di Gosford Park (2002) che, forse ispirato dal grottesco A Wedding (1978), analizza con raffinata perizia un microcosmo inglese in cui servi e padroni dividono i segreti più cruenti. Dopo la leggera scivolata di The Company (2003), suo quarantesimo film, nel 2006 giunge tardivo l’unico Oscar, alla carriera.
Stefano Socci
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Il manifesto dell’edizione 1995 del Premio Cinema
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1996 Mario Monicelli Monica Vitti, Aldo Giuffré e Stefano Satta Flores imperversavano per le già trafficate strade londinesi diretti da Mario Monicelli in La ragazza con la pistola quando io venni messa al mondo. Ma nel 1968 la carriera di Mario Monicelli era già una lunga lista di titoli che non mi sarei potuta permettere di vedere in sala: si era già consumata, infatti, tutta la sua magnifica vena collaborativa con Steno e Totò, così come erano già passati alcuni dei maggiori capolavori della cosiddetta commedia all’italiana da lui creati, da I soliti ignoti a La grande guerra a L’armata Brancaleone. Fortuna ha voluto, però, che la longevità di quel simpatico signore viareggino, classe 1915, unita alla sua instancabile vena creativa, mi permettessero di non limitare la mia conoscenza alle sole videocassette o a qualche residuo intelligente di palinsesti televisivi. Molto ancora, infatti, dopo il ‘68, aveva da venire… E se per Amici miei, uscito nel ‘75, non ero ancora in grado di recarmi in una sala da sola, nel 1982, all’uscita dell’atto II, finalmente c’ero anch’io e le battute, le ‘meravigliose cattiverie’, le mitiche scene destinate a restare scolpite nell’immaginario di almeno tre o quattro generazioni appartenevano anche a me (in tempo reale)! Il 1986, alla vigilia della maturità, fu la volta di Speriamo che sia femmina: altre immagini, altre frasi scolpite, indissolubili nella mente. Alcune delle quali così vicine a quelle che erano le situazioni, gli stati d’animo di un’adolescente quale ero in quel momento. Nel 1992, a un passo dalla tesi, arrivò Parenti serpenti: un tripudio di esilarante crudeltà che solo tra toscani può, credo, essere totalmente compresa… “La cattiveria si usa poco nella comicità - dichiara Monicelli in un’intervista - ma, quando si sa usarla, funziona in maniera straordinaria. In Italia viene dalla commedia dell’arte, dalle marionette, la commedia all’italiana ha solo ripreso una tradizione. Il pubblico all’estero impazzisce, perché non riesce a capire come possiamo divertirci sulle nostre stesse turpitudini”. Non appartengo, ribadisco, alla sua generazione, ma faccio parte di una generazione che lo ha amato molto e che lui ha amato a sua volta. Non a caso ha dato voce (rigorosamente fuoricampo) al fantomatico nonno Gino, figura straordinaria e poetica, nel Ciclone di Pieraccioni: segno chiaro di un sodalizio tra diversità unicamente anagrafiche. A più di novant’anni, infatti, Monicelli è ancora un giovane regista in vena di sperimentazione. Se nel 1966 ancora avevo da venire (come si dice da noi in Toscana), ciò non toglie che L’armata Brancaleone vanti, nella frequenza delle mie rivisitazioni cinematografiche, una quasi parità con Hollywood Party di Blake Edwards e Monty Python - Il senso della vita di Terry Jones. Perché ci sono immagini, battute, situazioni, che non si smetterebbero mai di vedere e di ricordare. Ogni volta si ride come la prima. Anzi, ancor di più. E se un corregionale sorride quando, dopo avermi offeso i natali per qualche manovra azzardata con l’auto, io gli rispondo… “con st’ignobile epigramma… tu chiamasti in causa a mamma!!!” … ho una certezza: i film di Monicelli se li è visti più di una volta anche lui. E gli sono piaciuti.
Daniela Pecchioni
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Il manifesto dell’edizione 1996 del Premio Cinema
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1997 Theo Anghelopoulos Era il 1975 (o forse un po’ dopo) quando O thiasos arrivò sui nostri schermi trionfatore alla Quinzaine di Cannes (Prix internationale de la Critique). Scoprimmo un’idea di cinema che allora (più giovani noi) non sapevamo bene. Folgorati sulla via di Micene e sulle polveri d’Epiro bruciammo gli occhi a seguire quella Storia di storie e controstorie e cantastorie che incrociava le traiettorie e sbranava i sensi, che si spingeva sul visibile e solcava l’invisibile con inaudita intraprendenza formale e suggestione narrativa, avvolgeva la politica dei tempi e decantava l’illusione dei giorni, marchiava il privato, gestiva registrava decantava e “recitava” i fatti avvolgendoli in un flusso sensuale onirico metaforico, ma soprattutto spazzava le regole del gioco con una grandeur (anche tecnica e illusionista) che non apparteneva per tradizione e palmarès alla “piccola” Grecia cinematografica. Fantastico groviglio di passaggi (paesaggi) temporali, di carrelli lenti e panoramiche inesorabili, di ellissi morbide e di piani sequenza come flessuose folate di vento, bellissime creature fatte di sogno come epigoni scespiriani, fra inseguimenti mentali e spiazzamenti geografici, fili finissimi che imbrigliavano le (con)sequenze e sprizzavano utopia creando a vista i tempi brechtiani della memoria e i ritmi melodici dell’ascolto. Fuori dal kronos e dentro il mythos, fra i fasti dell’epos che lì nei secoli sulle petracee arene slanciate sul mare si era via via formato innervando la nostra polis d’occidente. Maestro europeo per Il manifesto dell’edizione 1997 del Premio Cinema eccellenza e acclamazione, isolato e inimitabile, dunque riconoscibilissimo al primo fotogramma, Theo Anghelopoulos (Atene 1936, studi all’Idhec parigino) “recita” coerente e lucido la storia di un continente spezzato e che continua a dividersi, isola fluttuante e mosaico galleggiante, solcato da nuove frontiere, memorizzato in qualche scampolo di pellicola giacente da qualche parte in qualche remota cineteca, invaso dall’acqua e diviso dai fiumi, barriere e vie di fuga, itinerari su cui scivolano ormai scaduti i simboli e le illusioni (politiche) di una volta, costruendo di volta in volta una pietas globale e clandestina in bilico sul crocevia di un cinema autunnale e nebbioso, clima piovoso e magnetico, squarci di luce mediterranea, bandiere al vento, cinema arcano e sospeso, in cerca di padri e radici, distillato di alchimie poetiche e struggenti liturgie dello sguardo che guarda oltre i margini dello schermo, in quel terrain vague e sfuggente dove più sottile è la distanza dall’illusionismo della memoria e maggiore la consapevolezza della propria appartenenza al dinamismo della (propria) storia.
Gabriele Rizza 35
1998 Peter Greenaway Non so che anno fosse. Peter Greenaway aveva diretto, qualche tempo prima, I racconti del cuscino, il suo film più bello e più “facile”, più pop: una storia folle di scritture sulla pelle, di libri che al posto delle pagine hanno i corpi nudi dei personaggi, coperti di ideogrammi orientali. Con il volto bello di Ewan McGregor a sguazzare in mezzo a questa follia. Peter Greenaway, dritto come un albero, con lo sguardo azzurro puntato sempre verso un punto lontano: me lo ricordo vestito di nero, come sempre, stagliato contro il verde del giardino di un hotel fiesolano. La luce benevola della primavera bagnava tutto. Lui, imperturbabile di fronte a questa sinfonia di bellezza, raccontava del film che aveva in mente di fare. La storia di un bordello di lusso in mezzo alla Svizzera. Che, in omaggio a Fellini, si sarebbe chiamato Otto donne e 1/2. L’avevo conosciuto anni prima. Sullo schermo, dieci anni prima. Quando un mio amico tedesco mi parlava, favoleggiando, di un thriller meraviglioso, dove gli indizi erano disseminati nei quadri che un pittore dipingeva. E che si chiamava I misteri del giardino di Compton House. Era il 1982, era il mio primo anno di università, tutto aveva il sapore della meraviglia, e di mondi lontani. L’avevo conosciuto di persona, Peter Greenaway, quando - quella curiosità iniziale era continuata - avevo desiderato scrivere un libro su di lui. Il Castoro cinema, una monografia piccola da maneggiare, ma difficile da scrivere. Almeno per me. Quando il libro era pronto, lui venne a Firenze, a presentarlo insieme a me. Non gli sarò mai abbastanza grato. Arrivò, all’aeroporto di Pisa. Stringeva, in una mano, la cassetta Betacam del suo film, I racconti del cuscino, ancora inedito. Il distributore italiano del film mi aveva diffidato dal proiettarlo, aveva minacciato azioni legali. “Peter, ma non avrai mica il coraggio di proiettarlo?”, gli chiesi. “Il film è mio, e se voglio lo proietto quando mi pare. Dai, Giovanni, andiamo”. Non ero mai stato tanto felice. Nel panorama degli ultimi vent’anni del cinema mondiale, Peter Greenaway è stato quello che più ha spostato i confini del visibile. Forse non tutti gli esperimenti di Greenaway, pittore barocco, disseminatore di metafore e di enigmi, profeta della simmetria e del chiaroscuro, sono andati a buon fine. Forse nessuno ha proseguito con tanto coraggio nella linea del suo cinema, dell’immagine che si frantuma e si moltiplica, del suo cinema che non ama gli attori e vorrebbe non averne bisogno, che non ama l’emozione, la narrazione. Ma lui, imperturbabile, non se ne preoccupa. “Il cinema è morto”, dice senza muovere un muscolo del viso. “Anzi, non è ancora nato”. Ed è pacificamente sicuro che, se il cinema nascerà, sarà soltanto grazie a lui. Che per il momento insegue, più modestamente, l’opera d’arte totale.
Giovanni Bogani
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Il manifesto dell’edizione 1998 del Premio Cinema
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1999 Arthur Penn America in “penn” volendo essere gustosi e giocosi a tutti i costi. Ma davvero il continente universal madeinusa frena la sfacciata macchina imperiale davanti al cinema schermo di Arthur Penn. Che la canta, l’America, da disincantato e senza candore. Con poca poesia e molta violenza senza catarsi e possibile redenzione. Non è l’ultimo spettacolo di malinconico benessere a venire in bianco e nero (un ciclo tira l’altro) è l’occhio privato che scivola dentro la storia con la sua pupilla mdp incandescente e proteiforme. È di Penn l’America rurale e della depressione che guarda a ovest senza padri e alla ricerca di padri come il debuttante Billy the Kid. America di antieroi e ordinary people, sceriffi onesti, banditi febbricitanti e bounty killer nevrotici, indiani hippy disadattati tutti perdenti, emarginati dalla società e dalla natura matrigna, ciechi e che hanno perduto la vista, ladri di cavalli e ladri di donne, emigranti vagabondi. Mosaico di individui ghermiti dalla “vague/vaghezza”, vacua e vagante, della solitudine. L’universo di Arthur Penn (Filadelfia 1922, esordi televisivi e teatrali, linguaggi che non abbandonerà mai del tutto, passato per il mitico Actor’s Studio di Strasberg, una carriera robusta e altalenante senza sprecarsi troppo, una quindicina di film in 40 anni, ancor più diluiti negli ultimi dopo Il manifesto dell’edizione 1999 del Premio Cinema un abbrivio sostenuto) è una grande giostra multicolore che insegue l’America lungo paesaggi geografici e mentali (ieri il West oggi il Vietnam) roteando su generi e codici espropriati fin da subito dei loro perni di riferimento ma non del loro vocabolario di segni/sogni, squilibrati e pur sempre ballabili come graffianti avventure in jazz/blues. Lo stile di Penn è controllato e alterato insieme, col suo touch in bilico fra Hollywood e New York, Usa e Europa, cinema spezzato e godardiano (Truffaut il suo autore preferito), esplosivo e non riconciliato, eversivo e già in anticipo sui tempi, per questo sempre più defilato e “contrario”. Idealista senza ideali, radical pessimista che non rinuncia alla caccia ai valori sul set di un paese che sempre più va facendosi dislessico e spanoramico, Penn ritma il suo sognononsogno americano come una ballad di frontiera, piena di echi e crepitii, ma iscritta nella cornice rarefatta e sospesa di Edward Hopper. La parte dove stare (dove guardare) è l’ottica costante dei suoi film. È la fine dell’utopia che attraversa il suo personalissimo modo di guardare dentro e oltre l’America, i suoi miti, le sue ferite, le sue (le nostre) contraddizioni.,
Gabriele Rizza 38
2000 Marco Bellocchio Ha avuto la fortuna di essere per noi come un fratello maggiore, classe 1939, e di attraversare con rabbia, stile e coerenza 40 anni di vita e di cinema con i pugni dentro e fuori le tasche e quel sorriso tirato e coinvolgente. È stato il manifesto, allora inconsapevole, del sentimento di frustrazione e di rivolta di un’intera generazione, prima del ’68, contro le madri, i padri, gli zii, le autorità, la cultura logora e ripetitiva, la religione stantia, ma anche dentro l’Io malato di narcisismo, le ombre e le penombre che comprimevano la libera crescita degli individui. Ha saputo smascherare in anticipo le ipocrisie di un possibile compromesso politico a sinistra, più vicino alla realtà italiana che alla Cina; si è fatto provocatore ironico e dissacrante nel cuore stesso dell’università agitata dalla contestazione; ha aggredito la scuola e l’educazione religiosa, con venature iconoclaste dai colori espressionisti; ha denunciato il potere occulto e reazionario della stampa; ha avvicinato con sdegno e poesia le fabbriche ancora attive della follia; ha sezionato spietatamente i meccanismi coercitivi dell’istituzione militare; si è sbarazzato dolorosamente dell’oppressione morbosa e soffocante dei legami familiari e del passato; ha intrapreso un percorso coraggioso alla scoperta delle pulsioni liberate, della luce, della donna, soffermandosi sulle fantasie e i misteri sepolti della psiche femminile e su quel labile confine tra desiderio e violenza; ha recuperato per fulgide visioni il linguaggio alogico e lirico dell’inconscio; ha riscoperto con Kleist la sottile parete che divide il sogno dalla realtà, la normalità dalla follia; ha indagato, con Pirandello, il nucleo primario degli affetti, sociali e naturali, con tutte le sue contraddizioni irrisolte; ha proclamato ad alta voce il diritto moderno alla laicità dello spirito; ha scavato con pudore e onestà nel gorgo del crimine politico La locandina dell’edizione 2000 e della nostra storia rimossa; ha stilato un bilancio del Premio Cinema sofferto sul mestiere del cinema che non depone le armi e affida ancora allo sguardo la leggerezza dell’essere e del narrare. Marco Bellocchio è autore, artista, maestro anche nei passi falsi, negli scarti d’umore, quando l’irruenza generosa del discorso polemico ha rischiato di prevalere sulla coerenza delle forme, quando la parola gridata ha lievemente appannato il nitore delle immagini. Ma anche per questo il suo cinema è vivo e respira profondo.
Giovanni M. Rossi
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2001 Harold Pinter Sceneggiatore e attore di cinema oltre che scrittore per un teatro da Nobel, Harold Pinter è una figura poliedrica eppure sempre coerente, autore di una drammaturgia che affronta i nodi e le fratture dell’esistenza con piglio tagliente e in un linguaggio ruvido, asciutto, essenziale. Dalle pièces degli anni Sessanta (The Dumb Waiter, The Caretaker), fino alle più recenti Ashes to Ashes e Celebration, la scrittura di Pinter, inquieta e ironica, disegna un universo segnato da riti e istituzioni sociali, assurdo e artificiale e sempre percorso da un’atmosfera di minaccia latente, di insicurezza sottile. I personaggi che lo popolano - ora vittime imbelli, ora carnefici arroganti e spavaldi tornano nelle figure pensate per il cinema, in una filmografia composita ed eccellente che va da Elia Kazan (Gli ultimi fuochi) a Karel Reisz (La donna del tenente francese), da David Jones (Tradimenti) a Jerry Schatzberg (L’amico ritrovato); e che culmina senz’altro nei capolavori scritti per la regia di Joseph Losey. La gelida Londra invernale e la casa spoglia che in Il servo fanno eco alla relazione ambigua tra il severo maggiordomo Barrett e il fragile aristocratico Tony; l’apparizione della giovane e bellissima Anna, che porta alla Il manifesto dell’edizione 2001 del Premio Cinema luce le correnti distruttive mascherate dalla retorica delle convenzioni in L’incidente; il filo sottile che lega il tempo della memoria e del sentimento in Messaggero d’amore sono figure, momenti, suggestioni intense che fanno della scrittura per lo schermo di Pinter un segno forte e indelebile che resta negli occhi e nel ricordo dello spettatore.
Chiara Tognolotti
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2002 Costa-Gavras Come Ercole con il mostro Idra, così Costa-Gavras: dove il Potere, vivisezionato dalla lente d’ingrandimento della Storia, si rigenera e si rinforza in una sfida continua ed implacabile. Konstantinos Gavras, conosciuto come Costa-Gavras, autore greco ma francese d’adozione, possiede un’arma segreta: maestro di passioni, di indignazione, di sgomento e ribellione, i suoi film generano nello spettatore sensibile una tempesta di sentimenti di raro impatto e suggestione. Maestro di coscienza attraverso l’occhio penetrante di una macchina da presa. Insomma, “Maestro del cinema”. Pellicole indimenticabili come Z - L’orgia del potere (1969), La confessione (1970), L’amerikano (1972), Missing (1982), con il quale vince la Palma d’Oro a Cannes, e il recente Amen (2002), sono la più limpida e tagliente testimonianza di un autore grande come il sogno di un mondo migliore. Sono la carta d’identità di un regista, ma prima ancora di un uomo, che ha donato la propria arte all’analisi spietata e appassionata delle dinamiche del Potere così come è stato coniugato lungo tutto il Novecento. Dai colonnelli greci al golpe di Pinochet in Cile, dall’oppressione del regime sovietico alle trame occulte della Cia in America Latina, passando per le colpe e le connivenze del Vaticano durante Il manifesto dell’edizione 2002 del Premio Cinema l’Olocausto. Ma l’efficacia narrativa di Costa-Gavras sta tutta nel suo “approccio privato” a questi grandi nodi storici e politici. C’è sempre un uomo, o una donna, prima e sopra a tutto. C’è sempre una storia, individuale, dolorosa, ma esemplare, universale. Spesso un caso giudiziario o un’investigazione, una ricerca. Mentre la ricerca ultima è quella dell’umanità, delle sue colpe e delle sue speranze. La ricerca di un’anima anche nel buio più profondo (come in Music Box e Betrayed, suoi film minori). Costa-Gavras è uomo e cineasta profondamente “coinvolto”: le sue storie sono autopsie di un mondo malato e terribile, ma alla fine lasciano sempre la speranza che qualcosa possa cambiare. Ciò che invece gli manca - e per fortuna! - è qualsiasi appartenenza aprioristica, qualsiasi fede, politica o religiosa. E là dove non c’è fede, l’occhio critico e indagatore si fa più libero di compiere la sua missione. La missione di Costa-Gavras è di fare del cinema uno “strumento di giustizia”. Costa-Gavras è autore libero come nessun altro.
Edoardo Semmola
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2003 Bernardo Bertolucci Figlio di un poeta, alla fine degli anni Cinquanta segue la famiglia trasferendosi da Parma a Roma, dove è aiuto di Pasolini sul set di Accattone. Ha ventuno anni quando esordisce nella regia con La commare secca (1962) e nella poesia vincendo il Premio Viareggio. Nel secondo film, Prima della rivoluzione (1964), si allontana dallo stile di Pier Paolo per avvicinarsi a Godard. I suoi maestri - fra cui Renoir, Ophüls, gli autori della nouvelle vague - gli insegnano il radicalismo o l’arte della contestazione sottile, a declamare (Partner, 1968) e a ricordare (Strategia del ragno,1970). Gli accenti crepuscolari infatti si legano a una singolare vis polemica in una delle opere migliori, Il conformista (1970), da Moravia, in cui il giovane autore riassume i suoi codici più importanti: duplicità, mimetismo, la Storia vissuta come un incubo o un palcoscenico, un complesso di citazioni e riferimenti che irretiscono lo spettatore offrendogli talvolta una falsa pista, la ricerca delle radici psicologiche e spirituali, un paesaggio su cui fluttua, come fantasma sovrano, lo spettro del padre. Se i film realizzati sul crinale tra gli anni Sessanta e Settanta sono sostanzialmente edipici, e un destino capriccioso incorona con il dubbio amletico gli ambigui protagonisti, giovani e ribelli ma pur sempre borghesi prigionieri di se stessi, in Ultimo tango a Parigi (1972) Bertolucci recupera il complesso e il mito di Elettra. Marlon Brando, interprete di questo film tanto discusso, poi condannato e più tardi assolto, diventa l’emblema di una generazione che è cresciuta senza evolversi: un figlio in età da padre si invaghisce fatalmente di una ragazza che potrebbe essere sua figlia. L’affresco ambizioso di Novecento (1976) parla anche dello stesso cerchio stregato, della prigionia psichica capace di trasformare ogni evento politico in racconto privato. Con il filo tagliente della memoria sono confezionati La luna (1979) - illustrazione dell’eterno conflitto familiare in una cornice da melodramma - e La tragedia di un uomo ridicolo (1981) che tragedia non è, bensì apologo comico-grottesco in cui un industriale parmense, ingannato dall’erede, rinuncia alla verità e decide di non sapere. L’ultimo imperatore (The Last Emperor, 1987), Il tè nel deserto (The Sheltering Sky, 1990) e Piccolo Buddha (Little Buddha, 1993), definiti “trilogia dell’altrove”, sono premiate produzioni internazionali e segnano un rinnovamento nella continuità. Un bambino cinese di tre anni improvvisamente sale al trono e crescendo non sa stare alla pari con la sorte, un’americana si perde nel Sahara e forse si ritrova, un piccolo wasp scopre di essere destinato al vertice della gerarchia del buddismo tibetano: agli eroi di queste opere costose e raffinate la vita appare come sempre un sogno, e l’identità altrui sfuma nella distanza, è poco più di un film, di uno specchio scuro. Un brivido di estetica melanconia sfiora anche i protagonisti di Io ballo da sola (Stealing Beauty, 1996) e L’assedio (Besieged, 1999), votati alla ricerca di qualcosa che gli altri non possono dare: la vergine Lucy s’illude che incontrando suo padre possa capire se stessa; il povero ma privilegiato Jason scambia per realtà la disperata bellezza dell’africana Shandurai. Il loro riscatto affoga in un volto: così il “Maggio” francese, ricostruito nel 2002, si gioca tra quattro pareti in un film dal titolo emblematico, The Dreamers.
Stefano Socci
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Il manifesto dell’edizione 2003 del Premio Cinema
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2004 Ken Loach Con lui dietro la macchina da presa, la classe operaia è finalmente andata in paradiso. Ken Loach, all’anagrafe Kenneth Loach, cineasta inglese dall’impegno e dalla dedizione incrollabili, ha portato alla storia del cinema un contributo di 42 film, tra cinema e televisione, in poco più di 40 anni di carriera. Quarant’anni che si possono riassumere in tre parole: dolcezza, carattere, ideale. Dolcezza con cui condisce ogni suo sguardo, sia esso rivolto al cinema, sia esso rivolto alla realtà - sociale, politica, storica - da sempre sua meta ultima e punto di riferimento finale. Quella stessa dolcezza che lo rende un interlocutore amabile, umile e attento, malinconico ma mai triste nel senso deteriore del termine. Un perfetto gentiluomo inglese con un chiodo fisso in testa: raccontare il proletariato e le sue storie, così come si presentano allo sguardo, senza compromessi. Il carattere è il segno distintivo del suo cinema: quello di una coerenza intellettuale, di una decisione e precisione da combattente. Sia sul piano internazionale (si pensi a Terra e Libertà sulla guerra civile spagnola) che su quello interno, con la forte opposizione che lo vide in prima linea negli anni della Thatcher e ancora nell’era di Blair. E infine Il manifesto dell’edizione 2004 del Premio Cinema l’ideale: il suo è infatti un cinema “morale”, anche per questo rigorosamente minimale (con rare eccezioni), militante in senso marxista, senza mai pentimenti. In perfetta sintonia con la tradizione del Free Cinema inglese. Ken Loach può vantare al suo attivo due piccoli capolavori, Riff-Raff (1990) e My Name is Joe (1998), e una serie interminabile di ottime pellicole, a partire dal poetico lungometraggio d’esordio giovanile Kes (1969), passando per Piovono pietre (1993), che segnano una linea di continuità in quantità e qualità grazie alla quale a buon diritto può essere chiamato “Maestro”. Come pochi altri ha saputo guardare agli ultimi e ai deboli, distinguendosi per un grande rispetto dell’uomo nella sua dimensione storica e sociale. Come pochi altri è un autore al servizio del cinema e della sua funzione di strumento di conoscenza e di miglioramento del mondo.
Edoardo Semmola
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2005 Francesco Rosi Quel bianco e nero straziante e violento di Salvatore Giuliano, il linguaggio acido e spezzato del Caso Mattei, il rumore del caldo e la forza di Tre fratelli, i silenzi sommessi e stupiti di Carlo Levi al confino in Cristo si è fermato a Eboli, la miseria di una città umiliata dall’arroganza volgare e mafiosa in Le mani sulla città, il colore abbagliante della sua Carmen. Fin da quando ho iniziato ad amare il cinema, ho avuto negli occhi e nella mente i film di Francesco Rosi. E ho sempre pensato che il suo non fosse soltanto un cinema “civile” o “politico”, ma fosse piuttosto e più semplicemente un “grande cinema”, quello che emoziona e fa pensare, che ti trascina e ti fa capire. E ho avuto da sempre in mente anche il suo volto, severo e intelligente, con nello sguardo un misto di ironia e scetticismo, di lucida profondità e di utopica speranza, con quei Ray-Ban e la coppola, il sigaro e il sorriso amaro. L’anno scorso a Fiesole ho avuto la grande fortuna di conoscerlo, Francesco Rosi, venuto a ricevere il Premio ai Maestri del Cinema. E alla prima inevitabile emozione è seguita immediatamente la conferma di quella presenza che da sempre mi aveva accompagnato. Rosi ci ha fatto entrare senza diffidenze nel suo mondo e nei suoi pensieri, nella sua cortesia. Ho incontrato un uomo intelligente, sensibile, gentile, affettuoso, e ho conosciuto un artista profondo, capace, lucido, indignato contro un’Italia impoverita, umiliata, banale e volgare. In quei giorni abbiamo “sentito” perché Rosi è uno dei Maestri del nostro cinema. Perché ci ha spiegato, insegnato, appassionato e emozionato, semplicemente con le parole. Con una coscienza forte di come il mondo dovrebbe essere. Per questo credo che il suo cinema sia arte, perché questa passione, questa civile coscienza di sé e del mondo non hanno mai prodotto film superficialmente “indignati”, con la presunzione di dire quello che in fondo già tutti sappiamo, ma fortunatamente film che raccontano, con il linguaggio del cinema, le storie e la realtà dell’Italia. Questa è, credo, la più grande forza di Francesco Rosi. Rosi ha parlato di politica, di cinema, di scuola, di un attore straordinario e troppo poco celebrato come Gian Maria Volonté, dell’oggi e del futuro, con la forza e la passione di un giovane idealista pieno di speranze e insieme con la saggezza di un uomo che ha attraversato da protagonista tutto il nostro dopoguerra. Alla fine del suo discorso, Rosi ha detto che è una vergogna che i nostri ragazzi non conoscano il cinema di Rossellini e De Sica, che nelle scuole si dovrebbe insegnare il cinema come si insegna la matematica o la geografia. Siamo perfettamente d’accordo, con una sola aggiunta: quello che si dovrebbe conoscere e vedere è anche, e forse prima di molto altro, il cinema di Francesco Rosi.
Tommaso Gurrieri
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Il manifesto dell’edizione 2005 del Premio Cinema
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2006 Ari Kaurismäki Aki prima: «Il cinema è morto nel 1962 ucciso dalla televisione. Per trovare un maestro oggi bisogna pescarlo in una discarica. Allora uscivano due capolavori la settimana ora se va bene uno ogni dieci anni. Il futuro del cinema è nel digitale quindi nella sua negazione, la magia della pellicola è destinata a scomparire, possiamo batterci solo per salvare la memoria del cinema sul grande schermo perché le giovani generazioni possano capire cosa è stato». Aki seconda: «Uno che fa dei film a basso costo, fatalmente non commerciali, sui problemi del lavoro, la solitudine, la disoccupazione, problemi che gravano sul suo paese e sul nostro futuro, credo possa definirsi impegnato. In realtà oggi solo Ken Loach racconta la realtà sociale e registra la nostra memoria che non può essere delegata alle biblioteche nazionali». Aki terza: «Nanni Moretti ti obbliga a guardarti nello specchio. L’insieme della sua opera fa una grande impressione, di coerenza e coraggio. Quanto ai francesi hanno due difetti: parlano troppo e giocano male al calcio. Con qualche eccezione, Bresson e Melville». Arrivava dalla Finlandia Aki Kaurismäki, classe 1957. E dieci anni fa sbarcò a Fiesole. Freddo, tundra, laghi, grandi bevute, immensi spazi. E il sole a mezzanotte. In verità Aki è mediterraneo dentro, gran bevitore e nottambulo incallito. Tant’è vero che si è trasferito in Portogallo a produrre vino. Continuando a fare il “suo” cinema. Fuori da ogni schema Kauriskmäki rilegge la forza immaginifica della “presa diretta”: ovvero storie e individui che pescano realisticamente nella grande letteratura (da Shakespeare a Dostoevskij) come nel quotidiano disorientamento della modernità. Visioni scarne e periferiche. Marginali, in tutti i sensi. Immagini fredde, tagliate da poche parole e da molta musica, straniate e vagabonde, segnate da una frugalità stilistica unica nel panorama contemporaneo. Si profilano, e defilano, sullo schermo figure rarefatte e malconce. Stralci di malinconia e assenze giustificate. L’umore è nero, rubacchia, qua e là, fra una birra e l’altra, scorci remoti di speranze. L’espropriazione del carattere diventa una carrellata d’ombre, la solitudine avanza e la notte è notte. Fonda, plumbea. Ma pure scanzonata, vagamente surreale. L’esistenza scorre via povera e abbandona la terra d’origine per diventare, con consapevolezza estetica e rigore cinefilo, marchio di un cinema “altro”. Colto e raffinato. Riconoscibile. In questa umanità dolente, metropolitana, che si tinge amleticamente di sarcasmo e rasenta l’afasia del discorso amoroso quando non persegue la sbrindellata cromatura di un rokkeggiante on the road, Kaurismäki si muove sul filo della indeterminatezza, alla ricerca di una inedita identità. In un terrain vague in cui si giocano le trame dello smarrimento di chi non ha passato e non sa immaginare un futuro. Perché nella scarna profilatura dei paesaggi che le avvolgono di poche luci e molte ombre, le creature kaurismakiane, siano di derivazione letteraria, onirica, realistica, musicale, legittima o illegittima, hanno bisogno per riconoscersi (e farsi riconoscere) di quelle continue trasfusioni mimetiche, scarti e dissolvenze, che solo il cinema può dare. «Perché il cinema è sempre vivo a differenza dell’umanità». La sua, di umanità, parte dalla Finlandia, paese giovane (l’indipendenza data 1917 con la dissoluzione dell’impero zarista), di frontiera e lunare isolamento, luogo di transito, per approdare non si sa dove. Comunque altrove. I suoi film (a partire dal 1981, i primi condivisi col fratello Mika) riflettono la lezione di un cineasta cinefilo che, come Bresson e Dreyer, come Ozu, come Mizoguchi non trasgredisce mai la dignità e l’umanità dei suoi personaggi. Imperfetti e randagi. E in questa transumanza di anime un ruolo cruciale lo gioca Helsinki, crocevia kafkiano e capitale da terzo millennio. Un giornale titolò: «Aki di vino”. Perfetto nella sua sintesi da dopo gara per un finlandese venuto dal Sud.
Gabriele Rizza
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Il manifesto dell’edizione 2006 del Premio Cinema
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2007 Spike Lee Figlio di un musicista jazz, che ha contribuito a gran parte delle colonne sonore dei suoi primi film, l’ormai quasi sessantenne Spike Lee ha sbalzato a colpi di mazza da baseball (una delle sue tante passioni sportive) una filmografia esemplare, scalando il successo inter nazionale senza mai rinunciare alle proprie, esplosive tematiche legate ai vari ambienti urbani e sociali delle comunità africano-americane. È stato pressoché l’unico regista all black ad essersi conquistato il diritto alla composizione della troupe (quasi sempre la stessa) e al final cut all’interno del sistema produttivo americano, a cominciare dal primo, audace lungometraggio, Lola Darling (1986), incentrato sulla ricerca di emancipazione anche sessuale di una giovane donna di colore della middle-class. E poi eccolo ancora alle prese con le tensioni, i pregiudizi e il razzismo latente tra i neri e gli italo-americani di Brooklyn nello splendido e contestato Fa’ la cosa giusta (1989); i dolorosi spunti autobiografici di Mo’ Better Blues (1990), dominato dal rapporto totalizzante con la musica jazz; Jungle Fever (1991), sui miti maschilisti e i contrasti etnici e sessuali a Manhattan; il monumentale profilo biografico di un’icona controversa ma coinvolgente del movimento politico africanoamericano, Malcolm X (1992); Il manifesto dell’edizione 2007 del Premio Cinema lo struggente ritratto di famiglia in un interno distillato dalle memorie dell’adolescenza (Crooklyn, 1994); l’impietoso Clockers (1995), sullo spaccio al minuto del crack e la guerra per bande nei quartieri di New York; e ancora la furia omicida e le intolleranze interetniche nell’inferno del Bronx (S.O.S. Summer of Sam, 1999). Per arrivare alle più recenti, mature prove di stile e complessità narrativa di La 25a ora (2002) e Inside Man (2006), senza dimenticare l’impegno documentario nel ricostruire episodi di violenza razzista del passato americano (4 Little Girls, 1997), nel ritrarre campioni dell’immaginario nero (A Huey P. Newton Story, 2001; Jim Brown: All-American, 2002) o nell’indagare sul posto le cause e gli effetti dell’uragano Katrina che aveva sommerso New Orleans, città nera, e travolto la protezione civile, sostanzialmente bianca, insieme alla credibilità dell’amministrazione Bush (When the Levees Broke, 2006). Un autore che ha saputo crearsi uno stile e un’etica riconoscibili, non dal colore della pelle ma dalla profondità dell’animo e dell’intelligenza.
Giovanni M. Rossi
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2008 Nanni Moretti Da «Forse ho sbagliato ideologia» (Io sono un autarchico) a «D’Alema, di’ una cosa di sinistra, di’ una cosa anche non di sinistra... di’ qualcosa» (Aprile): molte sono le battute emblematiche e memorabili dei film di Nanni Moretti. Battute fulminanti, espressioni frantumate, frasi sminuzzate, slogan ripetuti, parole spesso svincolate da una reale comunicazione, in un disomogeneo e parodistico magma verbale e in un dialogare che assume piuttosto la forma di un collettivo monologare. Locuzioni urlate intrise di un’ironia e di un sarcasmo talvolta feroce e dolente da cui trapelano sempre la nevrosi, i malesseri, le contraddizioni, gli inappagamenti, le ambiguità, le sofferenze dell’individuo. Nella cui coscienza il cinema morettiano si struttura come un itinerario, in un percorso artistico di spiccata originalità ispirativa e comunicativa, e in cui l’autobiografismo diviene il punto focale di una disamina di un’intera generazione e di un’intera società. In un intreccio e in una sovrapposizione di accenti personali e ritratto sociale, il cinema di Moretti è delineato da una precisa architettura di segni, di idee, di motivi, di stile, di atmosfere, di immagini che specificano e ribadiscono l’unità poetica e l’identità autoriale. I dolci, le scarpe, il telefono, le pallette, le canzonette, le memorie infantili, la nostalgia di un’età e di un’innocenza perdute, la Vespa, il cinema, il senso di impotenza, lo straziante confronto con la morte e l’elaborazione del lutto: oggetti, fatti, circostanze, situazioni che intervengono a delineare, nella loro continua riproposizione ed esibizione, il cinema morettiano. Che è costituito, appunto, di una serie di luoghi e figure narrative ricorrenti sui quali trova ordito il tessuto dei diversi film, tasselli di un discorso poetico coerente e personalissimo che ha come nucleo centrale il conflitto tra individuo e realtà, la dissonanza tra il soggetto e il mondo. Un mondo che assume sovente le sembianze di un immenso acquario: un’enorme piscina, quasi proiezione ingigantita di quella in cui lentamente riaffiorano e prendono forma le schegge di memoria, e le irresoluzioni e i disincantamenti del pallanuotista-politico di Palombella rossa, e in cui sovente le coordinate temporali e spaziali si sgretolano e si liquefanno. In tale mondo-acquario, dove attutiti si propagano i suoni e le parole il cui senso si decompone fino a svanire, i personaggi morettiani sembrano fluttuare, calati in una perenne apnea espressivo-comunicativa, accomunati dall’impaccio di un reciproco scambio, da un simile inappagamento nel rapporto con se stessi, sia che si tratti del personaggio di Michele Apicella nelle sue diverse identità e nei suoi differenti “mascheramenti”, o di Nanni/Giovanni nelle sue diverse sfaccettature, che delle altre tante figure di minore o maggiore spessore che - quasi sorta di “doppi” dei protagonisti - si abbandonano al flusso delle loro parole solitarie e ai loro comportamenti inadeguati e cacofonici rispetto alla vita sociale e al mondo. Spettatori della vita e della comédie humaine, i personaggi morettiani, in una modulazione di ridicolaggine e disperazione, umorismo e tragicità, tendono alla conquista di una comunicazione che tuttavia si sfrangia in un groviglio di parole sprecate. Tutti, in fondo, come il Michele Apicella di Bianca, potrebbero esclamare «continuiamo così, facciamoci del male».
Franco Vigni
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Il manifesto dell’edizione 2008 del Premio Cinema
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2009 Bertrand Tavernier Lunedì 1° agosto 2005. Alle 16.30 ci troviamo con Aldo Tassone per andare all’aeroporto di Pisa a prendere Bertrand Tavernier, che consegnerà il premio a Francesco Rosi, vincitore quell’anno del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema. Ho pulito la mia macchina, il meglio possibile, togliendo quasi tutti i “souvenir” di mio figlio Rocco e dando una passata con l’aspirapolvere. Mentre andiamo Aldo mi racconta cose meravigliose, alcune delle tante che ha nella sua testa. Arriviamo a Pisa e dopo una lunga attesa vediamo arrivare Bertrand, con il suo giaccone cammello e la inconfondibile sciarpa, in questo caso di seta, visto il caldo. Ha accanto una dolce e gentile ragazza che ci presenta: Sarah, la sua nuova moglie. Ci rimettiamo in macchina, destinazione Fiesole, e nel viaggio Bertrand si siede dietro, insieme ad Aldo, mentre Sarah è davanti, accanto a me, ed è in quel breve viaggio sulla FI-PI-LI che inizia la nostra profonda e mai interrotta amicizia, che poi si allargherà anche a “Big Bert”, come lei lo chiama. La sera, a cena, mi trovo seduto accanto a due dei più grandi registi della storia del cinema: Tavernier e Rosi, che ho adorato fin da ragazzo. E poi Aldo, e il fratello di Rosi. È una serata meravigliosa, che però condivido soprattutto con Sarah, se non altro perché abbiamo in comune il fatto di avere almeno vent’anni meno degli altri e di dover uscire ogni tanto dal ristorante per fumare. Il giorno dopo pranziamo con Bertrand e Sarah, a Firenze. E ancora il giorno dopo. Poi i due francesi ripartono. Ci rivedremo in novembre, a Parigi, dove ho la fortuna di entrare nella casa più bella che abbia mai visto, nel Marais, adesso sostituita dal nuovo bellissimo appartamento a Opéra. E ci frequenteremo e conosceremo soprattutto nell’estate successiva, quando Bertrand e Sarah vivono per quasi due mesi all’Impruneta, nella villa del produttore Fitzgerald, dove Tavernier deve scrivere la sceneggiatura del suo In the electric mist insieme ai coniugi Kromolowski, già autori dello script di La promessa girato da Sean Penn. In quei due mesi condividiamo cene, domeniche, gite, pizze cotte nel forno, pomeriggi e lunghe serate di chiacchiere. E la passione infinita per il cinema, che Tavernier è tra i più esperti al mondo nel raccontare, come ha fatto adesso per il suo documentario “scorsesiano”, mai uscito purtroppo in Italia. A lui devo una migliore conoscenza della commedia all’italiana e soprattutto di Dino Risi, il suo regista preferito. A lui devo il miglior paté de foie gras che abbia mai mangiato e un’anatra all’arancia che mi ha fatto annusare il paradiso, mentre sorseggiavo uno champagne della sua cantina. A lui devo un’amicizia strana ma profonda e sincera. Perché Bertrand è un curioso, ed è intelligente, appassionato, gentile. E ha il cinema dentro.
Tommaso Gurrieri
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Il manifesto dell’edizione 2009 del Premio Cinema
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2010 Gianni Amelio Il cinema desiderato, agognato e realizzato. La parabola d’autore di Gianni Amelio passa per questi tre momenti: dalla scrittura critica che rilegge i film degli altri trovandovi assonanze ed eco del proprio (la raccolta Un film che si chiama desiderio, 2010), al lungo tirocinio cinematografico e televisivo - i lavori come assistente alla regia negli anni Sessanta, i film per la RAI nei Settanta, con almeno un capolavoro come Il piccolo Archimede (1979) - fino al cinema sul grande schermo: da Colpire al cuore (1981) a Il ladro di bambini (1992), da Lamerica (1994) a La stella che non c’è (2006), fino al più recente L’intrepido (2013). È un itinerario lineare e profondo quello del regista calabrese: uno scavo attento e complesso, talvolta severo, più spesso malinconico, mai superficiale o prevedibile, nella storia e la geografia italiane. Così sono grandi e piccole storie a innervare i suoi racconti per immagini: grandi temi come il terrorismo, le migrazioni, la povertà, la delocalizzazione del lavoro non rimangono nebulose astratte da affrontare come teoremi ma scendono nelle esistenze quotidiane apparentemente insignificanti e che sono invece segno di un’epoca, di un modo di vivere, di un paese quale è l’Italia slabbrata e sfilacciata, che talvolta resiste e più spesso cede, degli ultimi quattro decenni. Sta in questo la lezione dei maestri del Il manifesto dell’edizione 2010 del Premio Cinema neorealismo che Amelio sa rileggere e reinterpretare: l’attenzione, che era di Zavattini, agli umili, senza pietismo ma con tenace empatia; e lo sguardo affilato, che gli viene da Rossellini, sul paesaggio di una nazione ferita da un’idea malintesa di sviluppo e da una geografia che da bene comune diviene bene di consumo. E, sempre, dietro a tutte le storie raccontate da Amelio sta un filo rosso sottile e intenso, quello della relazione tra padri e figli che, se emerge con dolcezza prepotente in Le chiavi di casa (2004), appare con maggiore o minore evidenza in tutti i film, portando con sé tracce di autobiografia ma parlando soprattutto di un mondo in cui le relazioni umane - scomposte, fragili, ambigue - rimangono sempre al cuore delle cose.
Chiara Tognolotti 54
2011 Jean-Pierre e Luc Dardenne Una ragazza alla disperata ricerca di un lavoro, un bambino rifiutato dal padre, una lavoratrice che si batte per avere giustizia. Sono solo alcune delle storie che Jean-Pierre e Luc Dardenne (classe 1951 e 1954), i fratelli simbolo del cinema belga di impegno civile, hanno saputo raccontare con i loro film. Il cinema documentario, che ne ha segnato i primi passi già dalla fine degli anni Settanta, si evolve in cinema di finzione continuando indefessamente a raccontare la realtà. La famiglia uno dei temi trainanti, con una particolare attenzione al rapporto tra genitori e figli. Se i primi vivono la loro condizione subendola o rifiutandola in modo brusco e distaccato fino a manifestare la totale assenza di qualsiasi principio morale, i secondi assumendo un atteggiamento di protezione o giustificazione si dimostrano sempre migliori e portatori di quella umanità ed empatia assenti nei loro congiunti. Da qui la protagonista di Rosetta che tenta invano di aiutare la madre alcolista, il piccolo Cyril (Il ragazzo con la bicicletta) che consegna la refurtiva di una rapina a un genitore che non lo vuole più vedere e Igor che in La promesse è disposto ad aiutare la vedova di un uomo morto lavorando in nero per il padre. Altro caposaldo il lavoro, cercato (Rosetta) o rifiutato (L’Enfant - Una storia d’amore), svolto con impegno ed onestà (Il matrimonio di Lorna, Due giorni, una notte) o occasione per delinquere (La promesse). Filmata nei suoi dettagli, spesso con piani sequenza che ne sottolineano la fatica e la ripetitività, l’occupazione dei protagonisti è insieme espressione della loro personalità e canale di interazione con l’altro, basti pensare al personaggio di Olivier, il falegname che in Il figlio insegna il mestiere a ragazzi dal passato difficile, alla sua dedizione e a come la meccanicità di quei gesti diventi l’unico modo di comunicare con il giovane allievo nel quale ha riconosciuto l’assassino del figlio Il passato dei protagonisti sempre accennato, ma mai indagato con insistenza, continua a seguirli proprio come la cinepresa dei due registi da dietro le loro spalle anche se raramente condiziona le azioni che essi commettono nel tempo presente, che sono piuttosto generate dalla interazione con altri personaggi, anche loro con un proprio fardello. Il Festival di Cannes, luogo d’elezione per presentare le loro pellicole, ha riservato loro la Palma d’Oro per ben due volte senza dimenticare di riconoscere la bravura dei volti simbolo del loro cinema: Jérémie Renier e Olivier Gourmet che insieme a Fabrizio Rongione hanno impersonato, sempre con grande versatilità, diversi ruoli. I finali dei film costituiscono il vero climax di tutte le storie, quando il destino di un protagonista sembra già scritto, ma non si esclude mai del tutto un nuovo scenario.
Caterina Liverani
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Il manifesto dell’edizione 2011 del Premio Cinema
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2012 Toni Servillo Toni Servillo, napoletano, classe ’59, di professione attore. Dopo aver dominato la scena teatrale come interprete e come regista sotto il segno di Eduardo De Filippo e averne rinnovato la tradizione con una continua, intelligente ricerca ancora in pieno svolgimento, nell’ultimo quindicennio ha progressivamente invaso con il suo volto, le sue rughe significanti, la sua voce, la sua camminata, la sua maturità espressiva, anche la parte migliore del cinema italiano, lavorando con autori importanti come Mario Martone, Antonio Capuano, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Andrea Molaioli, e poi con Daniele Ciprì, Marco Bellocchio, Roberto Andò. Dove è riposto il segreto di questa sorprendente esplosione di un attore che in breve tempo ha conquistato la stima e l’affetto del pubblico e della critica nazionale e internazionale? La voce, certo, quella di fuori e quelle eduardiane di dentro, perché ogni personaggio portato sullo schermo esce sempre da un groviglio di pensieri, parole e gesti che è un Metodo attoriale ma anche l’adesione critica e convinta, incondizionata, alle storie, alla vita degli altri, assunta con l’umiltà di chi si pone al servizio del soggetto da rappresentare e rendere autentico. In fondo, si chiedeva Stanislavskij, «che cosa vuol dire recitare “nel modo giusto”? Vuol dire pensare, volere, desiderare, agire, esistere, sul palcoscenico, nelle condizioni di vita di un personaggio e all’unisono col personaggio, regolarmente, logicamente, coerentemente e umanamente», e soprattutto credere nella sua vita immaginaria, nelle sue commozioni, rendendole verosimili sulla scena come sullo schermo. La sua statura scenica, il suo lavoro “artigianale”, le immersioni nella galleria poliedrica di caratteri come la “giusta distanza” da un eccesso di immedesimazione, la sua intelligenza creativa, la scintilla benefica che ha saputo propagare nel modo stesso di fare cinema, hanno fatto di Toni Servillo un’icona irraggiungibile nel panorama italiano ed europeo. Da Tony Pisapia (L’uomo in più, P. Sorrentino, 2001) a Titta Di Girolamo (Le conseguenze dell’amore, P. Sorrentino, 2004), dal commissario Sanzio (La ragazza del lago, A. Molaioli, 2007) al cinico Franco (Gomorra, M. Garrone, 2008), da Giulio Andreotti (Il divo, P. Sorrentino, 2008), da Gorbaciof (S. Incerti, 2010) a Rosario Russo camorrista in Germania (Una vita tranquilla, C. Cupellini, 2010), da Nicola Ciraulo (È stato il figlio, D. Ciprì, 2012) ai gemelli Oliveri (Viva la libertà, R. Andò, 2013), da Jep Gambardella (La grande bellezza, P. Sorrentino, 2013) al monaco certosino Salus (Le confessioni, R. Andò, 2016) Servillo ci ha regalato un mosaico di ritratti del nostro tempo che resteranno a lungo nel nostro immaginario.
Giovanni M. Rossi
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Il manifesto dell’edizione 2012 del Premio Cinema
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2013 Terry Gilliam Un cattivo maestro. E forse per questo il migliore dei maestri possibili: anche se non diventerà mai popolare e acclamato come Steven Spielberg, di culto come Tim Burton o una leggenda da cineteca come Roman Polanski - tanto per citare alcuni dei maggiori esponenti del cinema fantastico e onirico a cui appartiene - Terry Gilliam passerà alla storia come quell’indemoniato dispettoso folletto nato disegnatore comico e sbocciato in istrionico regista che più di chiunque altro ha saputo usare il cinema per insegnarci ad apprezzare tutte quelle cose che dai banchi di scuola alle università, dall’educazione familiare a quella delle parrocchie, i “bravi maestri” ci hanno sempre detto essere sbagliate e diseducative. Un cattivo maestro, appunto. E dunque meraviglioso. Ci ha mostrato come sconfiggere la morte semplicemente traslocando in una diversa realtà dove la morte non esiste e ci ha convinto che non c’è verità più vera, e più bella, di quella che ti crei da solo, fosse anche una palese bugia o una fantasia fanciullesca (Brazil, 1985; Le avventure del Barone di Munchausen, 1988; Parnassus, 2009). Ci ha consolato dimostrandoci che si può ridere di tutto, anche del dolore, della morte, della violenza più efferata (dall’esperienza con i Monty Python a Jabberwocky, 1977; La leggenda del re pescatore, 1991; Paura e delirio a Las Vegas, 1998; I fratelli Grimm, 2005). E soprattutto che le regole - tutte, anche quelle della fisica, della natura, della ragione, anzi soprattutto queste ultime - hanno senso nel momento in cui le infrangi, e poi magari le sbeffeggi come di nuovo ci mostra magistralmente in Brazil, Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie e il Re pescatore, i suoi capolavori. Ma il suo retaggio va oltre una manciata di film, una decina in quarant’anni, nessuno dei quali dotato della forza necessaria per reggere il confronto con mostri sacri del calibro di Orson Welles e Scorsese: è l’aver creato un mondo fatto di tanti mondi (im)possibili, dove la fantasia applicata alla narrazione poetica prende a schiaffi la brutalità della guerra, l’ingiustizia della morte, la stupidità dell’arroganza, e dove la sublimazione artistica della bellezza della menzogna - la letteratura nel suo senso più lato - si erge a baluardo in difesa dalla banalità del reale. Un retaggio che arriva a noi attraverso la visione complessiva della sua opera, in un processo continuo e inarrestabile che si nasconde tra le pieghe di ogni suo lavoro. Questo è ciò che lo rende unico nel panorama cinematografico del secondo Novecento. Un retaggio che lui stesso esplicita, attraverso il suo alter-ego Barone di Munchausen campione della fantasia al potere, nell’avvertimento finale del film: «Chiudiamo le nostre menti e condanniamo a morte la fantasia; nei momenti difficili niente distrugge tanto un uomo quanto l’ignoranza, la monotonia e il conformismo».
Edoardo Semmola
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Il manifesto dell’edizione 2013 del Premio Cinema
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2014 Giuseppe Tornatore Per molti è semplicemente “Peppuccio”, con quel misto di malcelata confidenza e affettuosa familiarità con cui si guarda al suo cinema. Giuseppe Tornatore, siciliano, italiano, figlio di una terra cinematografica che sta nel mezzo del Mediterraneo, ma che da nido di migranti guarda alle stelle dell’America, è l’«uomo dei sogni», il ragazzo di Bagheria cresciuto dentro il cinema Paradiso, luogo di vita, idee, anime, che tutto contiene e tutto trasforma in immagini grandi e irraggiungibili. Nato (artisticamente) in uno dei decenni più desolanti (e desolati) della storia del cinema italiano (gli ’80), Tornatore ha lavorato con l’unico strumento disponibile per chi, come lui, si muoveva su un campo di macerie: la memoria. Guardarsi indietro per cercare di vedere avanti, attraverso i miti del Novecento, riplasmati con l’occhio del cinema. Hitchcock e Leone, Rosi e Morricone, l’epos e la musica, la Sicilia e l’America, il passato e il presente, i sogni e la realtà, la seduzione e la tragedia, la psiche e il sentimento, il cinema e la vita: tutto indissolubilmente legato da un fil rouge che è la passione per un’arte (il cinema, of course) che non vuol decidersi a morire e che anzi deborda nel nuovo secolo, più piccola forse, stretta d’assedio, ma più che mai necessaria per orientare ancora il nostro sguardo. E così se il folgorante esordio di Il manifesto dell’edizione 2014 del Premio Cinema Il camorrista (1986) dimostra già di che pasta è fatto il ragazzo sarà l’inaspettato successo internazionale di un film-mondo in forma di elegia come Nuovo Cinema Paradiso a proiettare Tornatore nell’empireo dei grandi autori nazionali, segnato tuttavia da un fatale sentimento di nostalgia per un cinema e un secolo che non ci sono più. Sarà proprio questa capacità di riplasmare il vissuto ad animare quei film (L’uomo delle stelle, La leggenda del pianista sull’Oceano, L’ultimo Gattopardo) che più degli altri fanno un bilancio della (nostra) storia, singolare e collettiva, come si addice ai grandi affreschi. E se è proprio dalla terra natìa che si parte per i viaggi più lunghi e imprevedibili (Stanno tutti bene), lasciandosi alle spalle l’incanto e il ricordo (Malena, Baarìa), è la fuga nel mondo “nero” del mistero e della psiche a rivelarci come le forme del suo cinema possano farsi più complesse e affascinanti (Una pura formalità, La sconosciuta, La migliore offerta, La corrispondenza). Un cinema, last but not least, che ha quasi sempre viaggiato sulle note di Ennio Morricone, a ricordarci di quanto parole, immagini, suoni e visioni siano per il mondo di Peppuccio un nodo indissolubile. Come la Storia e la Memoria. E il Cinema.
Marco Luceri
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2015 Dario Argento All’inizio fu il piacere dell’intreccio, il dettaglio da mettere a fuoco per arrivare alla soluzione del caso, alla scoperta dell’assassino o più spesso dell’assassina. Perché le donne (le madri) spesso sono molto pericolose. Poi con slittamenti progressivi Dario Argento fu affascinato dal colore del sangue, si avviò negli abissi profondi del rosso, arrivò sino alle porte segrete dell’inferno. Sono passati 46 anni dalla sua fulminante opera prima (L’uccello dalle piume di cristallo). E ormai possiamo dirlo con sicurezza. Dagli anni Settanta in poi Argento, insieme agli amici americani della sua generazione (Romero, Craven, Carpenter…) ha contribuito ad aprire e ribaltare il codice dell’horror, inteso non più come un genere narrativo, ma come uno dei modi possibili di leggere il mondo e i fatti della morte e della vita. La rivoluzione è già evidente nella scelta dei panorami e negli interni. Non più i castelli gotici, le antiche cripte piene di polveri secolari o i cimiteri notturni con i cancelli cigolanti, ma le metropoli moderne, gli spaventosi “non luoghi” della nostra vita (gli ipermercati, o ancor meglio gli aeroporti) in cui è così facile perdersi senza neppure rendersene conto. O ancora il quartiere Coppedè e l’Eur a Roma, gli austeri palazzi di Torino o una strada, vicina a un laghetto, di New York. È lì che ti avvolgono le tenebre e la paura sale, i colori dell’inquietudine sono quelli dei sogni (degli incubi), come nelle Il manifesto dell’edizione 2015 del Premio Cinema allarmanti piazze metafisiche dipinte da De Chirico. Certo, dopo aver declinato le regole della nuova modernità, si può tornare ai classici, al gatto nero e alla casa in fiamme di Poe, alla solitudine del fantasma del palcoscenico o alla sete eterna del principe Dracula. L’importante è rischiare sempre. Mescolare gli effetti e i generi, spingersi un po’ più in là alla ricerca di uno stile sempre più ardito, senza aver paura di lanciarsi dall’alto del trapezio in un doppio salto mortale.
Claudio Carabba
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2016 Stefania Sandrelli Viareggina, classe 1946, Stefania Sandrelli ha iniziato giovanissima a trasferire d’istinto sul set quella bellezza di ragazza di provincia, ora ingenua ora maliziosa, ora vittima ora seduttrice, che la impose da subito nel cuore e nei desideri ancora candidi degli spettatori italiani degli anni Sessanta: dopo una fulminante comparsa insieme a Ugo Tognazzi nel Federale di Luciano Salce (la ladruncola Lisa che cerca di sopravvivere negli anni di guerra), fu Pietro Germi a lanciarla nel fortunato dittico della gelosia e dell’onore in terra siciliana: Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964), ma la sua figurina, la sua sensualità trasparente, il suo sguardo dalle innumerevoli sfumature tra il sorriso e il pianto incantarono ben presto, tra gli altri, registi come il francese Jean-Pierre Melville (Lo sciacallo, 1963); Antonio Pietrangeli, che ne fece la protagonista assoluta e tragica di Io la conoscevo bene (1965), impietoso ritratto di donna negli anni del boom economico; Bernardo Bertolucci, che dopo una prima prova nello sperimentale Partner (1968) la volle attrice a tutto tondo nel Conformista (1970) - la giovane moglie desiderabile e vanerella del protagonista Trintignant, che pure risalta, con il proprio, travolgente candore, come l’unica forza vitale in una Parigi anni Trenta solcata da intrighi politici e presagi di morte - e in Novecento (1976) - la maestrina rivoluzionaria, moglie di Olmo Dalcò, che guida la protesta delle contadine della Bassa contro le prepotenze degli agrari e dei fascisti; il compianto Ettore Scola, che in C’eravamo tanto amati (1974), malinconica fotografia di una generazione sconfitta e di un’epoca al maschile, la scelse come decisiva presenza femminile, per poi rilanciarla, più matura e battagliera, nei successivi La terrazza (1980), La famiglia (1987) e La cena (1998). Impossibile citare gli anelli più saldi e le svolte di una carriera complessa, mai superficiale, affrontata - come è stato scritto - “con il corpo e con la testa” e con il cuore. Basti ricordare ancora, tra le sue “avventure” filmiche apparentemente contraddittorie, un passo nella militanza femminista con Io sono mia (1977) di Sofia Scandurra e l’affondo erotico a sorpresa con La chiave (1983) in compagnia di Tinto Brass; la figura di amante giudiziosa del conte nel coro graffiante di donne in Speriamo che sia femmina (1986) del navigato Mario Monicelli; o la dolce madre svagata nell’opera di esordio di Francesca Archibugi, Mignon è partita (1988); l’imprenditrice senza scrupoli e freni, Conchita, nell’apologo estremo di Bigas Luna Prosciutto, prosciutto (1992) o la splendida, battagliera mamma al tramonto, in lotta con il tarlo della vita, in La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì. Nell’arco di oltre mezzo secolo Stefania Sandrelli, attrice magistralmente unica, ha saputo prestare il proprio talento naturale, la propria sensibilità, il proprio corpo a infinite figure di donna che hanno attraversato e ancora attraversano la storia del nostro Paese, fornendo tante sommesse e penetranti lezioni di cinema e di vita.
Giovanni M. Rossi
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Stefania Sandrelli (foto Marco Rossi)
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