Memorie

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Dedico questa mostra alla memoria di Nella Versari. E.L.



Meldola CittĂ 1862-2002 Comune di Meldola - Ass. alla Cultura Accademia degli Imperfetti

Enrico Lombardi

MEMORIE

Opere inedite di collezioni private

Testo Silvia Lagorio Scritti e Pitture Enrico Lombardi


Una sera a cena da amici. Nonostante - direi - il piacere della conversazione e la sua discreta ma calda intimità, il mio sguardo continua a essere afferrato da un quadro appeso alla par ete che in realtà posso soltanto intravvedere. Le luci non sono forti e lui è scuro. Eppure questa operazione - vedere un po’ e un po’ immaginare -m’impegna fino a quando non decido di alzarmi per guardare. Al fine di descrivere la particolare forza di attrazione che le dimore di Enrico Lombardi posseggono, quella forza captativa che ha determinato l’esperienza appena descritta e dunque il mio essere presente qui in qualità di testimone, vorrei provare a indagare due effetti da esse intensamente suscitati, costitutivi, mi pare, della cifra complessiva dell’opera di Lombardi: uno è legato alla simultaneità di vicinanza/lontananza, l’altro è relativo al silenzio. Sia che incombano sia che si trovino, piccole piccole, in un punto della tela, le dimore che Lombardi ci presenta sono vicine e lontane allo stesso tempo e si situano su una soglia, “stanno nella soglia” -come si intitola appunto un quadro significativo –, parlano cioè di un terzo spazio che non ha a che fare con la realtà esterna ma neppure con quella che definiamo interna. Come la psicoanalisi ci ha insegnato, una certa dimestichezza con questa soglia ci soccorre nel corso della vita ricomponendo in continuazione le fratture e le discrepanze che segnano il faticoso e mai concluso processo di raffronto tra i desideri e le pretese della realtà, tra ciò che vorremmo fosse e ciò che è. Per questa ragione, la soglia ha un valore sacro e stare nella soglia corrisponde

al tentativo sempre perseguito di salvare qualcosa del mondo, attraverso un paziente e duro lavoro di conoscenza e di confidenza con quegli oggetti sfuggenti che sono i simboli. Le tele di Lombardi ci dicono poi che lo stato d’animo che attraversa per eccellenza il nostro legame con il luogo di provenienza è la nostalgia (Home is where we start from è il titolo di una raccolta di testi di Winnicott tratto dai Quattro quartetti di Eliot: La casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo / Il mondo diventa più strano, la trama più complicata / Di morti e di vivi. Non il momento intenso / Isolato, senza prima né poi, / Ma tutta una vita che brucia in ogni momento / E non la vita di un uomo soltanto / Ma di vecchie pietre che non si possono decifrare. / C’è un tempo per la sera a ciel sereno / Un tempo per la sera al paralume / (La sera che si passa coll’album delle fotografie). / L’amore si avvicina più a se stesso / Quando il luogo e l’ora non importano più. / I vecchi dovrebbero essere esploratori / Il luogo e l’ora non importano / Noi dobbiamo muovere senza fine / Verso un’altra intensità / Un’unione più completa, un’unione più profonda / Attraverso il buio, il freddo e la vuota desolazione, / Il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua / Della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio.) Vorrei citare tre quadri in particolare, una triade di punti chiave che costellano precisamente un discorso poetico sul tema della nostalgia dell’origine: “Vicino è lontano” (1998); “Congedo infinito” (1998); “Sradicati” (1995). I primi due rivisitano l’enigma della


soglia portando all’attenzione di chi guarda il peculiare punto di vista che si produce tra un fuori e un dentro, sottolineandone nel caso del primo una fase iniziale, sorgiva, una sorta di alba, nel secondo una fase cadente, serotina (C’è un tempo per la sera a ciel sereno). Nonostante la pacata e sublime compostezza che sembrano rappresentare, queste due tele sono per essenza perturbanti. Come ci ricorda Freud, perturbante è la simultaneità di vicino/lontano, nel senso appunto di non noto e insieme di assolutamente noto. La dimora crea una sensazione di spaesamento (lontananza) proprio per il suo essere all’istante riconosciuta (vicinanza). Un magnifico racconto di Mircea Eliade su un esperimento di uscita dal perimetro del tempo e dello spazio – Il segreto del dottor Honigberger – comincia non a caso con il riconoscimento immediato e folgorante di una casa estranea, misteriosamente passata indenne attraverso l’usura degli anni. Ci avvolge la nostalgia per qualcosa che pareva contrassegnato dall’estraneità. Questo movimento del volgersi indietro, del tornare narcisisticamente alla dimora nella quale abbiamo sofferto la prima separazione è tuttavia il nostro più vero radicamento, garantendoci la possibilità di procedere, di tollerare le vicissitudini della vita sostenendone creativamente lo scorrere. Non possedere questa risorsa – Enrico Lombardi ne è convinto – ci getta in uno stato di astrazione senza pensieri, nel quale la casa è una scatola chiusa (o una tomba volante) e gli alberi strappati dal suolo sospendono nel vuoto rami monchi e gelati (“Sradicati”).

Il secondo effetto generato da queste tele ha a che fare, come prima accennavo, con il silenzio: per dirla con Hillman cioè si è drawn, tirati dentro. Questa attrazione è intrinsecamente legata ai drawings (ai disegni, al disegnare), attraverso il lavoro dell’immaginazione. In questo senso le opere di Lombardi svolgono una funzione altamente terapeutica: la processione di tele sull’anima (non a caso commentate dalla parola dei poeti), così come l’insieme delle dimore non si limitano affatto a offrire una mirabile rappresentazione dello psichico. Esse consentono ben altro, invitando infatti la psiche a stare presso se stessa, permettendole di trovare il proprio posto tra le immagini e assicurandole così un riparo. La pittura di Enrico Lombardi non è solo dunque (come ci fa sapere) un monumento al congedo, non rappresenta soltanto quell’assoluta precarietà cui il morso del tempo instancabile condanna; essa schiude anche un desiderio di sospensione. Il silenzio domina questa condizione certamente simile a quella del sogno. Entrambi, per caso o per una specie di prodigio, ci restituiscono memorie inaccessibili, un tempo differente senza il quale la vita diurna sarebbe infinitamente più misera, le nostre case infinitamente più provvisorie. Silvia Lagorio


7° QUADERNO

Ogni vera arte di regime si affida essenzialmente alla tecnica che è sempre vuota, oscena e celebrativa. (26/8/95) L’artista non sa mai nulla prima dell’opera, né durante l’esecuzione può accedere ad alcuna conoscenza in senso proprio. Solo dopo, ad opera conclusa, interrogandola, può imparare qualcosa di sé e del suo stare fra le cose. Questo qualcosa per alcuni è una poetica, per altri, come me, una sorta di mistica. (26/8/95) La ‘mia’ è una pittura disorientata. (22/11/95) Armonizzare perfettamente e necessariamente le varie parti dell’opera senza che nessuna di esse perda la sua singolarità. La spazialità che ne consegue è quella vasta e rigorosa delle composizioni polifoniche. (8/2/96)

Sradicati 1995- cm.80x60 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



Il ‘mio’ quadro nasce sempre intorno ad un’idea compositiva, che però non è mai arido progetto di pesi e contrappesi, equilibri vari e quant’altro costituisce una composizione in senso stretto, ma fondazione di un luogo visivo. Gli elementi della composizione non sono mai pure astrazioni formali nella cui griglia inserire a piacimento gli elementi della rappresentazione, ma precisi segnali spaziali che indicano un rapporto col mondo. La composizione è quindi sempre fondazione del mondo. (13/2/96) La contemporaneità non può essere soltanto quell’aderenza al proprio tempo (come se, per l’uomo, potesse esservi un tempo sentito e vissuto realmente come proprio!) tanto predicata dalla modernità, ma l’appartenenza ad un ‘luogo’ in cui il tempo, nella sua totalità, si mostra tutto insieme nello stesso istante. Questa è la mia contemporaneità e questi sono i miei contemporanei: Rublev, Giotto, i maestri riminesi del ‘300, Vitale, Beato Angelico,

Piero

della

Francesca,

Il

Ghirlandaio, e Morandi, Carrà, Balthus, Casorati, Donghi. Questa appartenenza al tempo mi offre il privilegio di un’ottima compagnia e mi permette di evitare il salotto fatiscente di chi vive la contemporaneità come un destino di coazione e sudditanza alla storia. (16/2/96)

Vicino è lontano 1998- cm.120x50 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



La profondità di una pittura è direttamente proporzionale alla profondità del sentire. (18/2/96)

Congedo infinito 1998- cm.120x50 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



La prima cosa che mi interessa nella pittura sono le possibilità combinatorie di un’idea compositiva. Mi interessa, dunque, il potenziale spaziale (di organizzazione spaziale) contenuto in ogni schema compositivo. La mia felicità di artista è soprattutto individuare un’idea gravida di conseguenze, profetica. Poi, queste forme così felicemente vincolanti, si riempiono di un’altra gioia e di un altro stupore: il colore. Il colore è sovrana smemoratezza, dettatura dell’interminabile, anima del quadro, corpo ed eros, annegamento e perdita dell’identità. Il colore è quello specchio opaco in cui il sé è già sempre divenuto altro, ma senza che né il sé né l’altro esistano prima di esso. Il colore dunque fonda la relazione inconoscibile. Per questo è fonte di infinito stupore. L’idea compositiva è un piacere preliminare in cui il futuro è già tutto contenuto nell’attesa (un amore platonico) e il colore un godimento postumo, un orgasmo. Quando su di un’idea compositiva necessaria si innesta un cromatismo perfettamente irriconoscibile, sono così sorpreso dal risultato che è sempre come se non lo avessi fatto io, ma si fosse formato attraverso di me. Il risultato di questo abbandonarsi all’arte ci sbalza così lontano dall’opera da farne una magnifica sconosciuta e costituire, per questo, (solo per questo: per questa sorta di esilio in cui ci fa vivere rispetto ad essa; un esilio desiderante), l’oggetto di un’immensa fascinazione. Vivere con l’arte è tentare di ricominciare sempre questo processo di estraniamento che conduce al desiderio e alla fascinazione. (12/9/96)

Lo sguardo 1998- cm.120x90 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



8° QUADERNO

Il limite più grande della modernità è di leggere tutto alla luce della modernità. (26/7/97) Abbandonarsi è lasciare vuoto il luogo della presunta identità che non è altro che rappresentazione d’essere, immagine di sé. Questo vuoto dell’abbandono verrà lentamente colmato dalla vita che entrerà dal varco dell’attesa e dell’ascolto (attesa vana e vuoto ascolto). (14/12/96) Viviamo in una precarietà assoluta, nel congedo infinito. La ‘mia’ pittura ha fatto del congedo un monumento. (16/4/98) Il quadro è compiuto solo quando si lascia vedere. Quando ogni legame è spezzato. Quando ti espelle da lui. (25/4/98) Il luogo non è un pensiero: è ciò che viene prima di ogni pensiero, ciò da cui viene ogni pensiero, che lo rende possibile: l’assenza fondamentale. (21/5/98)

Andare da nessuna parte 1998- cm.130x100 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



Luce e ombra tematiche divorano oggetti e luoghi. (15/6/98) La soglia realizza visivamente il paradosso della condizione umana. Chi non accetta di scomparire nella soglia vive nel potere, che ha mille volti e mille travestimenti e si nutre di odio. La vera libertà dal potere non è ribellarvisi, ma vietarsi di esercitarlo, sempre, a qualsiasi livello e in qualsiasi forma. (15/6/98) La ‘mia’ pittura potrebbe definirsi un esercizio di paradossi visivi. (16/6/98) Un orizzonte che si mostra ha, nella lontananza, l’enorme profondità della nostalgia. Un orizzonte che si fa indovinare dietro un muro o una cortina d’alberi ha la profondità inaudita della profezia. (16/6/98) Una grande misura è il contenimento di una passione smisurata. (26/11/98)

Stare nella soglia 1998- cm.90x60 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



Ho prodotto, nella pittura, un linguaggio perfettamente articolato e consapevole, che prima non c’era. Un linguaggio inaugurale. Questa è la ragione della mia solitudine radicale e il prezzo che pago in pagine di silenzio. Tutte le espressioni contemporanee della pittura sono delle ripetizioni (anche se oneste e rispettabili). La dimensione della relazione fra uomo e mondo è rimasta invariata dal ‘500 sino ad oggi e così le soluzioni spaziali ad essa conseguenti. La ‘mia’ pittura inaugura una spazializzazione inedita edificata sul rovesciamento invisibile, sulla pratica del caos. Non è politica-polemica, non si contrappone a nulla, né ha la pretesa di anticipare, né si situa dentro la propria originalità, né balbetta di mondi nuovi. È semplicemente dominio di uno sguardo estraneo e normativo che realizza un’uscita definitiva e irrimediabile da ogni antropocentrismo, anche da quello più furbo. (29/12/98) Un artista è maturo quando sta nella propria profezia. Maturità è abitare la propria profezia. (27/1/99)

Meditazioni sul vuoto 1998- cm.130x100 acrilico su tela (Coll. Privata Forlì)



La ‘mia’ pittura è un visitare luoghi in ore tarde, ore di confine. Spesso è una sera che declina alla notte pur riverberando ancora, nella sua luce, un palpito di giorno sul margine inferiore delle nubi o in una vaga, indefinibile luminosità che anima il cuore delle ombre. Le luci elettriche sono accese. L’arancio dei lampioni taglia i muri ed esalta la profondità dei blu del cielo. Il luogo è disabitato. C’è come un’eco di voci disincarnate e una vaga memoria di vita. Le case stanno affacciate al tempo assoluto, eroicamente esposte, di fronte, ed il mio sguardo ne riflette l’enigma. Anch’io sono dove sono loro: affacciato ai secoli e a tutte le sere. La mia visita non finisce mai; ha la profondità di una preghiera immersa nel nulla e rivolta a nessuno. Il luogo, in realtà, non mi accoglie mai completamente; mi tiene con cura ai margini del suo senso, ma si appropria del destino del mio sguardo. Faccio un sogno, di quando in quando: sono in un cortile, lo conosco bene, c’è mia nonna (morta da tanto tempo), i muri intorno sono alti e le finestre chiuse. L’erba del piano è folta e c’è come un’aria di abbandono, di sgombero. Tutto è di colore grigio chiaro e da una parte c’è una fontana secca. Mia nonna mi precede sempre, senza parlare. Non succede mai nulla al di fuori di mute domande. Quando mi sveglio non so mai se quel cortile esiste veramente e l’ho visto quando ero bambino, oppure se l’ho visitato solo in sogno. Una cosa però è

Dimora di Fontaine De Vauclus 1999- cm.60x40 acrilico su tela (Coll. Privata Meldola)



certa: la sua assoluta realtà, la stessa dei luoghi che dipingo. Non so se l’ho visto realmente o se l’ho solo immaginato; se lo ricordo per averlo visto o inventato, se l’ho sognato soltanto o se l’ho desiderato, se è il ricordo di un sogno o di un desiderio. Non so neppure se vi sia una differenza sostanziale fra questi luoghi: esistono tutti solo nel linguaggio. Ed è proprio nella realtà del linguaggio la loro realtà. Eppure oltre la scena della rappresentazione, oltre la ferrea cortina del linguaggio che non può abdicare in nessun punto, oltre il racconto dell’ego, si sente respirare il mondo nella sua figura. Non siamo soggetti, siamo luoghi. Conteniamo il deserto e la montagna. Siamo la stanza vuota in cui si affollano i sogni. Il nostro pavimento è allagato. Gli alberi sorvegliano la soglia. (8/12/98)

Dimora della luce artificiale 1999- cm.60x40 acrilico su tela (Coll. Privata Meldola)



9° QUADERNO

Cerco una perfetta sproporzione che non si veda, ma si percepisca lentamente, come un presagio, che si insinui nella coscienza quasi inavvertitamente come un malessere oscuro, indefinito e indefinibile. Questa sproporzione non ha radici concettuali, né poetiche, né del desiderio; non ha fondamenti né esistenziali, né psicologici; non significa nulla, né vuole simboleggiare nulla; non è metafora, né allegoria. Forse è destino stilistico, nel senso che solo nell’apparire e nell’essere formalizzata, questa sproporzione trova il suo significato più autentico ed esso passa necessariamente attraverso di essa. C’è, dunque, un legame perfetto fra senso e sproporzione. La sproporzione, nel suo punto più alto, assoluto, irrazionale e insieme misurato, è il senso del ‘mio’ vedere formalizzato nella pittura. Questa sproporzione non la capisco mai prima, non riesco neppure a immaginarla, accade fatalmente e ineluttabilmente. Comincia ad esistere solo una volta divenuta forma, messa fuori, fatta accadere. La sproporzione è il primato della forma, il gesto sovrano d’astrazione, il piano della pittura pura. Quando guardo un’opera perfettamente sproporzionata (e quindi perfettamente destinale) devo interrogarmi, ma la risposta è uguale alla domanda. È come se incarnasse una figura escatologica. Paradosso di tutti i paradossi, la sproporzione, nella ‘mia’ pittura, sembra il segno della condizione umana nel suo senso ultimo, quello di un destino eminentemente linguistico. (27/4/99)

Trittico delle Dimore 1999- cm.86x48 acrilico su tavola (Coll. Privata Meldola)



Si potrebbe dire che essere consapevoli di qualcosa (come per me esserlo della sproporzione) già sottrae questa cosa dalla sfera destinale-irrazionale-necessaria, ma questa obiezione funziona solo in un ambito in cui i paradigmi di destino e di ragione siano rigidamente definiti. Nella ‘mia’ pittura la sproporzione viene prima di ogni paradigma, senza mai costituirsi come paradigma: sta all’origine del fare e del vedere stesso. Inoltre la cosa che si è affacciata alla consapevolezza dovrebbe esserlo una volta per tutte, bloccata in una sorta di monumento, e non dialetticamente sempre compromessa in un gioco di invenzioni e approfondimenti. Non ci sono mai dati acquisiti definitivamente se non in un sistema catalogatorio. La sproporzione sta alle spalle di ogni ‘mia’ consapevolezza e intimamente legata ad ogni mutazione: generatrice e insieme frutto di ogni metamorfosi. So che c’è, che ogni opera sarà sproporzionata, che essa sarà in azione in ogni opera, che ogni luogo così concepito sarà assolutamente inabitabile, ma non ho mai ceduto alla tentazione - così diffusa fra i miei contemporanei - di addomesticare questo demone originario in una cifra stilistica, né credo di poterlo mai fare per la natura stessa di questa sproporzione. La sua struttura profonda è quella dell’enigma, della cosa innominabile, del mondo come impossibilità. Non pratico la sproporzione quindi né come stilema, né come

Trittico delle Dimore 1999- cm.115x68 acrilico su tavola (Coll. Privata Meldola)



motore concettuale: la subisco come destino dello sguardo e del sentire, come segno di una relazione col mondo e con la morte che non può risolversi interamente innessuna ‘figura’. Ogni ‘mia’ figura è figura della sproporzione come categoria sovrana (linguistica) di interpretazione del mondo. (28/4/99) Nella ‘mia’ pittura la costruzione si rivela in ciò che resta del mondo-della-realtàesteriore; la composizione nella denuncia del ‘mio’ sguardo particolare su quel mondo (volontà ordinatrice); nel colore, invece, risiede l’abbandono, la sospensione del tempo, la possibilità di trascendersi, l’irruzione dell’altro, la catarsi erotica, la preghiera e il sogno. Queste tre componenti devono avere, nell’opera riuscita, lo stesso peso: devono bilanciarsi in un equilibrio paradossale, ma, a suo modo, perfetto. Laddove questo non accade l’opera si trascina, nel tempo, un’imperfezione che diventa mostruosa e irredimibile. Da qui la somma vigilanza. (4/6/99)

Trittico delle Dimore 1999- cm.86x48 acrilico su tavola (Coll. Privata Meldola)



Il mondo è inaccessibile e inabitabile. Noi stiamo nella relazione col mondo istituita e costituita dal linguaggio. Quello che abitiamo è il simulacro linguistico del mondo. (6/9/99)

La notte 2000- cm.110x85 acrilico su tela (Coll. Privata Meldola)



Il mondo non si mostra mai, tantomeno nella pittura illusionistica. Solo lo sguardo che sosta nell’evento del linguaggio, nell’apparire della figura, mostra qualcosa. Il reale nella pittura illusionistica è una caricatura. (6/9/99) La ‘mia’ pittura produce la meta-urbanistica della sparizione definitiva. (27/2/2000) L’unico vero oggetto della pittura è l’ossessione. (9/5/2000) Le mie opere non sono altro, in ultima analisi, che fatti compositivi. (9/6/2000) Nelle mie ultime opere si sta radicalizzando la sintesi fra le due polarità fondanti della ‘mia’ forma: l’astrazione decorativa e la realtà della figura. (6/2000)

Dimora dell’astrazione 2000- cm.150x70 acrilico su tela (Coll. Privata Forlì)



Bisogna imparare a guardare nel buio. (Ponza 14/7/2000) Intorno ai corpi non vi è atmosfera. Sono come ritagliati nella luce, senza una sbavatura, un’incertezza, un’ombra di sfuggenza. Questa luce non mostra, ma imprime le cose in uno spazio assoluto e così le cancella da ogni presente. Questa luce dà alle cose e alle persone una remota sostanza monumentale, obbligandole ad una solitudine senza riparo. (Ponza 15/7/2000)

Pala della Meditazione 2000- cm.110x80 acrilico su tela (Coll. Privata Forlì)



LA GRAZIA Se è possibile ancora la grazia nell’epoca del trionfo del progetto, essa è, per l’artista, la stessa di sempre. Da Lascaux ad oggi nulla è cambiato: la grazia è l’evento del linguaggio. Stare nella grazia è stare nell’evento del linguaggio che produce quell’astrazione definitiva che chiamiamo mondo. In essa non si creano nuovi nomi, né vengono ribaditi quelli già esistenti, ma si rende possibile l’apparire di ciò che non si può, né si dovrebbe mai vedere: l’originaria, fisiologica inabitabilità del mondo per l’uomo. Tutto lo sforzo del sapere per nascondere l’immane disagio che deriva da questa vista e ordinare il mondo come un possesso esclusivo e tranquillizzante del genere umano viene messa in discussione da un solo, definitivo colpo d’occhio. Lo sguardo né è accecato. Si può cominciare a vedere veramente. La forma di questo sostare nel linguaggio dell’avvento della grazia - è la figura del figurare, non l’oggetto affettivo e già codificato della rappresentazione, né il disordine programmato dell’espressione, ma la figura del tempo allo stato puro. Paradossalmente laddove lo sguardo è consapevole del proprio esilio - del fatto che il mondo gli è precluso - e ha la forza di resistere nell’evento del linguaggio - ovvero nella grazia - , laddove - nella separazione avviene la figura, appare ciò che del mondo l’uomo può vedere: la figura del mondo. Questa è la grazia. (6/9/2000)

Pala dello spazio assoluto 2000- cm.140x105 acrilico su tela (Courtesy Gall. Forni - Bologna)



Senza mondo l’arte non è che una macchina egocentrica. (23/10/2000) Costruisco astrazioni in cui spero rimanga impigliato qualche brandello di mondo. (23/10/2000) Esaurito da tempo il buon senso, non mi è rimasto che il senso. (25/11/2000) La ‘mia’ pittura è un attentato al principio di realtà e abitabilità del mondo, ad ogni teoria della percezione, ad ogni surrettizia certezza della rappresentabilità delle cose e della verità stessa del linguaggio. (22/11/2000) La differenza

Dipingo in uno stato di assoluta e perfetta cecità consapevole. (25/11/2000)

2000- cm.140x105 acrilico su tela (Courtesy Gall. Forni - Bologna)



Quando saremo tutti passati, scomparsi, inghiottiti dal tempo, non resteranno che queste quattro chiacchiere inutili, questi due giochetti di linee e colori a testimoniare la splendida vacuità e necessità di una vita, la sua verità, la sua giustizia, la sua realtà che così spesso, da vivi, ci è sembrata irreale. (12/12/2000) La tecnica è la consolazione degli incapaci. (5/1/2001) Non c’è fuori, non c’è dentro. C’è un margine fluttuante, un confine che si sposta continuamente, una soglia invisibile e non situabile. Noi siamo tutto ciò. Siamo il doloroso confine fra tutto e nome. Fra sostanza e

Teorema

interpretazione, fra mondo e soggetto.

2000- cm.140x105 acrilico su tela (Courtesy Gall. Forni - Bologna)

Tuttavia né il mondo, né il soggetto esistono al di fuori della loro relazione. Mondo e soggetto stanno in un potente, necessario, indissolubile abbraccio di senso, al di fuori del quale esistono solo come rappresentazione del sé e rappresentazione del mondo. La rappresentazione che il soggetto ha e dà di se stesso o è il frutto mutevole della relazione e quindi è inarrestabile (almeno sino alla morte che cancella ogni rappresentazione) e interminabile, oppure si costituisce e si fissa in un paradigma, una volta per tutte, divenendo così monumentale, mortifera e soggetta all’esercizio del potere. La rappresentazione che il sé dà del mondo, che è il mondo stesso - poiché il mondo, da



solo, essendo tale nella sua necessità, non dà di sé nessuna rappresentazione - è soggetta alla stessa polarità che ho descritto sopra: può essere ideologicamente fissata una volta per tutte, o soggetta al mutare delle condizioni della relazione che è il suo fondamento. Nel primo caso avremo un mondo gerarchicamente e dialogicamente ordinato, costruito ad immagine e somiglianza del suo creatore. Nel secondo caso, pur rimanendo nell’ambito del linguaggio e delle sue rappresentazioni, il simulacro del mondo conterrà, in qualche modo, l’intuizione , la percezione dell’alterità radicale del mondo stesso, lascerà trapelare come da una crepa la luce accecante dell’insensato, dell’inarrestabile e dell’irraffigurabile.

Astrazione

Una rappresentazione che conterrà la pro-

2000- cm.75x50 acrilico su tela (Coll. Privata Forlì)

pria negazione, la consapevolezza della propria finitezza umana, della propria fragilità e parzialità ed anche la coscienza che proprio in tutto ciò sta il suo unico senso: testimoniare della relazione avvenuta fra senso umano e insensatezza cosmica. Le immagini prodotte da una concezione ferma e ideologica del mondo saranno sempre, in qualche modo, anche nel sommo della loro bellezza, una specie di caricatura. Le altre, invece, quelle che, nel varco dell’abbandono, lasciano trapelare l’alterità irriducibile del mondo, la sua sostanziale inabitabilità, saranno sempre traccia di autentica relazione. Chi crede di riconoscere qualcosa nelle



immagini dipinte o vede ciò che si aspetta di vedere - e, facendo ciò, non esce dal circolo vizioso del sé -, o vede ciò che gli hanno insegnato a vedere in quel modo - e quindi non riconosce attraverso il proprio sentire un’altra esperienza del sentire e del rappresentare, ma solo l’ambito culturale visivo in cui è cresciuto -, oppure, e questo è il vedere che mette in relazione, non può fare altro che riconoscere in ciò che sta guardando una qualità della relazione col mondo che lo riguarda profondamente e che sta fuori, fisiologicamente, destinalmente, da ogni ordine del discorso, pur appartenendogli ineluttabilmente. Il vero vedere (se di vero vedere si può mai parlare) non può essere che riconoscenza e

Armonia

quindi partecipazione alla cecità di un sen-

2000- cm.70x40 acrilico su tela (Coll. Privata Meldola)

tire tradotto in immagini (come appunto quello della pittura). L’immagine, dunque, non contiene più soltanto il segno - la traccia - della relazione che l’artista ha avuto col mondo, ma tutte le possibili tracce che da quel punto, attraverso ogni sguardo, possono passare. Per questo l’immagine è il fondamento della Comunità. Ogni Comunità costruita al di fuori del suo fondamento immaginale è un atto coercitivo e di esercizio violento del potere che non potrà sopravvivere a lungo se non saprà produrre - come sanno bene i ministri della propaganda degli stati totalitari - un fondamento immaginifico che la rappresenti e la giustifichi. Ecco perché ho sempre sostenuto, contro



ogni estetismo totalizzante, la smo totalizzante, la profonda, inesorabile eticità e politicità delle immagini: sia che testimonino la libertà e necessità della relazione col mondo e quindi stiano sempre oltre ogni potere costituito e siano loro stesse costitutive della Comunità che vanno fondando col loro stesso mostrarsi; sia che avvalorino lo sguardo del potere riproducendo, in vari modi, il suo stesso sguardo sul mondo e le immagini che da esso scaturiscono. Sempre lontane dal poter essere autenticamente libere le immagini possono servire la libertà e fondare una Comunità etica, o assecondare ogni potere rinunciando all’unica libertà che consentono, quella dell’autentica testimonianza di relazione. Occorre dire, però, che non esiste realmente un confine così netto manicheo - fra queste due modalità di apparizione delle immagini. L’affermazione di una separazione netta e precisa sarebbe ideologica, se non frutto di disonestà intellettuale. Le immagini sono sempre mescolanza, impurità e destino. (2/2001)

Tenerezza 2001- cm.70x40 acrilico su tela (Coll. Privata Bologna)



L’ultima folata di vento ha sollevato una neve di pioppi. Nell’aria mossa, punteggiata di bianco, si allarga la cupa vibrazione di un aereo e il palpito remoto di una campana. I pioppi hanno un fremito, come li avesse sfiorati il gelo della morte e non l’alito tiepido della primavera. Hanno foglie argentate e splendide, aristocratiche posture. Cerco di leggere, ma nella perdita di attenzione a cui mi devo abbandonare c’è una profonda, sostanziale rinuncia all’identità, alla presenza. E mi distraggo in uno stillicidio di piccoli, enormi sonni ristoratori. (8/5/2001) Non si dipingono oggetti. Attraverso il loro simulacro si insegue vanamente il senso di una relazione impossibile. (8/5/2001)

Paesaggio vuoto di parole 2001- cm.70x40 acrilico su tela (Coll. Privata Forlì)



APPARATI CRITICI

FULVIO ABBATE . 1992 Nel lavoro del pittore, si sa, talvolta è compreso il dovere supplementare di ridare al mondo le ragioni del sublime, nonché salvaguardarne l’essenza iniziale; parlo di qualcosa che un filosofo francese irriducibilmente mistico, un filosofo del fuoco (un filosofo che scopro essere caro allo stesso Lombardi) ha individuato nella “metafisica dell’indimenticabile”. Ecco, credo di aver trovato, è alla metafisica dell’indimenticabile che fa ricorso per esistere la pittura di Lombardi. Se è vero che vuol essere, senza ombra di dubbio, una pittura della salvezza, ovvero una pittura che aspira a custodire il meglio del mondo e della sua memoria. È così, è da questo calcolo intellettuale, che in Lombardi appare il paesaggio. Un paesaggio pittorico in quanto tale. Quindi, nulla di più innaturale, nulla di più astratto, nulla di più virtuale. Un paesaggiopensatoio-sentimento presidiato dalla costante espressiva della malinconia geometrica, dove i volumi delle case s’affidano a una percezione assorta delle ere. In apparenza è il paesaggio italiano, ma in filigrana è un luogo che appartiene ai paesi che hanno dimestichezza col dopostoria. Dovrà pure, il pittore, nel finesecolo traballante e privo di difese, trovare un proprio rifugio ideale, che so, un luogo che mantenga intatto il sentimento dell’esserci nel mondo in nome dell’armonia? Ecco così un paesaggio solennemente composto - sia in senso formale sia in senso allegorico -, un paesaggio del tempo che custodisce e riafferma l’aspirazione al sublime.


CLAUDIO SPADONI . 1994 In questi luoghi si va soli. Non si può condividere con alcuno la vertigine di un pensiero della pittura che contraddice ogni buona norma di attualità, ogni ragione di un tempo che, le ragioni, le trova già confezionate alla bisogna e servite pronte all’uso. E certe scelte, forse, si fanno per sempre. Questi luoghi evocati da Lombardi sono luoghi della pittura mai definitivamente conoscibili, mai totalmente esperibili entro lo spazio della pittura, per chi come lui decida che essa è il mezzo e insieme il fine della propria ricerca. La pittura è lo spazio chiuso, l’ideale cerchio in cui tutto è inscritto e tutto tende a dilatarsi, a sfuggire. Più lo si cerca, il centro, il fondo di quei luoghi, e più lo si rinserra in uno spazio di scandagli, di riflessioni, di analisi lucide fino al maniacale, più esso adesca il pittore verso un miraggio ancor più denso di rimandi, di rifrazioni, di stordenti ambiguità. Lombardi lo sa bene, ed è appunto la consapevolezza di tale scelta, anzi di tale azzardo, a rendere il suo lavoro così, in apparenza, inattuale.

MARCO GOLDIN . 1996 Nobilmente invischiata nella causa stordente dell’uomo, è l’avventura umana e poetica di Enrico Lombardi, la cui pittura tocca punti di evidente richiamo a una dimensione conoscitiva non comune. Ma per la certezza che dà la pittura, nei suoi esiti migliori, di non essere parola ma immagine, Lombardi ha l’istinto di un vero poeta. Cerca il meraviglioso fuori e dentro di noi, percorre lo spazio non lasciandosene travolgere e neppure

dominandolo. Dà ai suoi quadri una misura classica che gli viene da una perlustrazione non solo fisica dello spazio, anche per quelle coordinate critiche che egli stesso ha stabilito, legate ai nomi di Beato Angelico e Giorgio Morandi. E già detti così, questi nomi, testimoniano di un desiderio di purezza e perfezione, di un muoversi verso l’immenso per la sola via possibile delle cose quotidiane. E’ quella metafisica del quotidiano che si apre poi in alcune immagini davvero bellissime, come in quel quadro emblematico del 1995 che è ‘Passare alto’. Vi si trova scritta e concentrata tutta la storia di Lombardi; la ruvidezza lapidea delle sue montagne levigate, il nulla del tempo al quale conducono, il nulla dello spazio davanti al quale stanno, la luce ora ombrosa ora accesa di un giallo cinereo, gli alberi solitari come l’invito a oltrepassare il confine, il confine che su ogni lato si mostra attraversabile. E il silenzio della solitudine, il silenzio dell’ora estrema, o forse no, appena sotto il segno della provvisorietà, del dubbio. Sono quadri che non accettano spiegazioni e vivono solo della loro incandescente purezza trasparente, del volgere delle luci sul paesaggio dell’anima, che è un’invenzione libera da vincoli di memorie. Natura come un corpo di cellophane, con gli alberi giotteschi e la stessa vetrosa equilibratura dei monti. Tutta percorsa da sentieri, invasa dall’acqua, accerchiata dalla dispersione della sera. Nessuno vi cammina, ma è una natura che accoglierà l’uomo come in una bara di cristallo, mantenendo inalterate le sue forme.


FRANCESCO GIARDINAZZO . 1997 Penso a questa pittura come ad una rivisitazione castamente romanica, dove tuttavia il sigillo del platonismo, del passaggio dal divino all’umano avvenga, come affermava proprio Florenskji, per osmosi fra divino e umano, un’arte della discesa, dal tempo fortemente teleologico, “un cristallo di tempo nello spazio immaginario” .

NICOLA MICIELI . 1997 Come collocare la pittura visionaria di Lombardi nel panorama delle tendenze attuali? Sicuramente in un ambito elettivo e direi aristocratico, nel senso di una qualità di visione che non può misurarsi con situazioni contingenti relative a movimenti effimeri del gusto. Siamo in un clima simbolista di peculiare ispirazione poetica cui va riconosciuta un’identità formale che trae da presupposti concettuali la ragione prima della propria inattualità, in quanto propone con squisita metafora figurale una meditazione filosofica sull’essere e le ragioni profonde del nostro viaggio di navicelle alla deriva nell’universo.

ALESSANDRO RIVA . 2000 Di questo continuo e inestricabile paradosso, anche i luoghi di Enrico Lombardi - sebbene formalmente lontani anni-luce dai nonluoghi di Augé – sono in qualche modo una metafora e un vessillo. Enrico ha infatti, in questo suo ultimo ciclo di lavori, letteralmente fondato un luogo (o una serie di luoghi) che, pur contenendo in sé la forma esasperata del viaggio, del

transito da uno spazio all’altro, porta in realtà il nome (e il senso) della dimora – che è, o dovrebbe essere, l’esatto opposto del transito (“Luoghi e nonluoghi si oppongono (o si evocano) come i termini e le nozioni che permettono di descriverli….noi possiamo opporre le realtà del transito..a quelle della residenza e della dimora”, scrive ancora Augé). Le dimore di Enrico sono infatti luoghi che contengono in sé, metaforicamente, il senso del paesaggio esterno e di quello interno, del fuori e del dentro, dello spazio dell’intimità e dello spazio dell’apparenza. Sono paradossi geometrici, zone di apertura psicogeografica che, come le città solcate dai folli (e lucidissimi) ricognitori situazionisti, vanno percorse senza certezze e senza paradigmi mentali, lungo direttive che sono allo stesso tempo passionali (la nostra e la sua memoria dei luoghi) e oggettive (la complessa sovrastruttura di idee, di leggende e di preconcetti che di quegli stessi luoghi abbiamo assunto nel corso del tempo). Quelli di Lombardi sono in realtà, se non dei nonluoghi, dei metaluoghi, spazi che rimandano all’idea di altri spazi che la nostra memoria ha conosciuto in passato, e che di questa idea, o di questo ricordo, conservano insieme l’idea del luogo chiuso (l’infanzia appunto) e del viaggio, del transito (il cammino che abbiamo fatto per arrivare fin qui), dell’ordine e del caos, della logica e del delirio, della realtà e dell’utopia. Sono paradossi psichici la cui mappa appare – volutamente – impossibile da tracciare, così come a prima vista sembrerebbe impossibile seguire, razionalmente, il percorso del famoso nastro di Moebius. E proprio in questa loro lucida, geometrica follia risiede la loro sottile ma inesorabile carica eversiva.


ROCCO RONCHI . 2000 L’architrave in muratura, che sulla tela di Lombardi fa esplodere la simmetria di un paesaggio, non è meno cornice di quanto non lo sia il modesto infisso di legno che delimita la figura. La cornice che materialmente racchiuse il quadro è infatti già una replica della soglia invisibile, che ogni raffigurazione di mondo presuppone. Ne è già un simulacro. In Lombardi tutta la costruzione del quadro, a partire dalla cornice fino alla sapiente composizione di piani tra loro incompossibili, si rivela allora una complessa operazione concettuale (e linguistica) che nulla ha a che fare con pretesi valori semantici o evocativi. Si tratta di portare ad espressione ciò che, senza essere come tale visibile, inaugura la visibilità del mondo. Dipingere è così un esercizio di memoria, ma di una memoria trascendentale: memoria della soglia, del suo nulla fecondo, memoria di ciò che nel significato espresso – case, cipressi, arcate – si cancella, insistendovi solo come la traccia perturbante di un passato che non è mai stato presente. I luoghi di Lombardi sono tutti simulacri di questa vuota origine. Per questo non potranno mai essere identificati. La loro astrazione è definitiva. Come accade quando si è in balia del déjà vu, di fronte ad essi si ha l’impressione disturbata di una somiglianza senza referente. Appare del passato, ma del passato in generale, senza data. E’ inutile interrogare l’autore per saperne di più in proposito. Vi risponderà che la sola realtà del luogo è linguistica: “Non so se l’ho visto realmente o se l’ho solo immaginato; se lo ricordo per averlo visto o inventato, se l’ho sognato soltanto o se l’ho

desiderato, se è il ricordo di un sogno o di un desiderio. Non so neppure se vi sia differenza sostanziale fra questi luoghi: esistono tutti solo nel linguaggio. Ed è proprio nella realtà del linguaggio la loro realtà (E. Lombardi, dal Quaderno ottavo).

FEDERICO LEONI . 2001 Ogni discorso sulla pittura di Enrico Lombardi deve prendere le mosse dalla constatazione che solo accidentalmente, solo apparentemente la sua è pittura figurativa. Essa mira altrove, in effetti: mira ad un luogo cui solo la figura può dare accesso, certo, ma che eccede essenzialmente la figura, e che la eccede in quanto sua origine. Questo luogo originario, questo eccesso che è all’origine e che è dell’origine, è lo sguardo. Ciò che guardi, guardando le tele di Lombardi, è il tuo sguardo colto nel mentre che vi si addentra, che vi indugia, vi inciampa; o vi tenta un altro tragitto, saggia un altro adito, e, inevitabilmente, vi si perde, restandovi come sospeso. Ciascuna di queste tele è, allora, uno specchio. Una macchina, cioè, elementare ed enigmatica, in cui il tuo sguardo penetra, o tenta di penetrare, vi si riflette e fa ritorno, trasformato, a te che guardi. Ma il tuo sguardo non è più tuo, ora. È lo sguardo di un altro, che non conosci.




ATTIVITÀ ESPOSITIVA


ENRICO LOMBARDI Enrico Lombardi, pittore e scrittore, nasce a Meldola (Fc) nel 1958. Da oltre trent’anni svolge un’intensa attività espositiva in Italia e all’estero, accompagnata da un’ininterrotta riflessione sullo statuto dell’immagine. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bologna, partecipa a numerosissime collettive fra cui ricordiamo la “Prima Biennale del Mediterraneo” a Barcellona e la”Biennale giovani” a Bologna (1985), due edizioni del “Premio Campigna” a S.Sofia (1987-1990), “Pitture. Il sentimento e la forma” a Treviso e Bologna (1996), la “Prima Biennale della figurazione fantastica e meravigliosa” al castello di Poppi (1997), “Sui Generis” al P.A.C di Milano (2000), “Figure del ‘900 (2)” a Bologna (2001), “Urban landscape” al Carrousel du Louvre a Parigi (2005). Allestisce numerose personali, tre delle quali con la Galleria Forni a Bologna e Milano (2000-2002-2006), due Antologiche alla Galleria Wimmer di Montpellier (1999) e alla Galleria delle Arti di Bologna (1997), “Distanze” ad Apt (2004), “L’oro della memoria” alla Art Bank Gallery di Londra (2005). Dal 2004 il critico Alessandro Riva lo invita a far parte del gruppo “Italian Factory” per la promozione della nuova arte italiana, con cui partecipa a “The new italian art scene” al Museo di Taipei (2007), a “Nuova figurazione...to be continued” alla Fondazione Borroni (2008), “Rumors” all’Arsenale di Torino (2008) e “No LandScape” alla Fondazione Bandera (2009). Nel 2006 esce “Voci nel buio”, il secondo volume de I Quaderni di Italian Factory, edito da Charta, con un racconto inedito di Edoardo Albinati. Nel 2007, in occasione della personale al Museo di Forlì, esce il volume monografico bi-

lingue edito da Electa “Il Grido Silenzioso”, curato dal filosofo Rocco Ronchi, con cui collabora da anni e a cui lo unisce una grande amicizia. Nel 2007 Sgarbi lo invita alla grande rassegna “Arte Italiana 1968/2007. Pittura” a sancire la continuità della sua presenza nella scena della nuova pittura italiana. I Musei di Conegliano, Ravenna e Forlì possiedono una sua opera. Numerosi critici e storici dell’arte italiani gli hanno dedicato testi e presentazioni (Marco Goldin, Michele Loffredo, Nicola Micieli, Claudio Spadoni, Marco Di Capua, Alessandro Riva, Vittorio Sgarbi, Chiara Canali). Fitta è anche la collaborazione con poeti e pensatori suoi contemporanei da alcuni dei quali ha avuto importanti testi interpretativi (Rocco Ronchi, Fulvio Abbate, Umberto Fiori, Silvia Lagorio, Federico Leoni, Edoardo Albinati, Antonella Anedda, Carlo Sini). Una scelta dei suoi scritti teorici compare nel volume “Al limite del mondo. Filosofia, estetica, psicopatologia”, curata da Federico Leoni e Mauro Maldonato (Dedalo Ed. 2002) e in numerosi suoi Cataloghi Monografici. Nell’autunno del 2009 Marco Goldin lo invita all’importante rassegna sulla nuova pittura italiana “Pittura d’Italia”, che si tiene a Rimini al margine dell’esposizione dei capolavori del Museo di Boston e alla mostra “Italia dipinta” all’Università IULM di Milano, curata da suoi allievi e testimoniata da un Catalogo Silvana Editoriale. A fine 2009 si tiene a Ravenna, patrocinata dall’Assessorato alla cultura e dal Museo d’Arte, la sua personale “Il tempo dell’ombra”, curata da Chiara Canali e presentata dalla poetessa Antonella Anedda.


Un ringraziamento particolare a Un ringraziamento particolare va all’Accademia degli Imperfetti, al Comune di Meldola, a Tonino Simoncelli, Silvia Lagorio, Lara Vitali,

RINGRAZIAMENTI

Gino (della Zincografica), e a tutti gli amici e collezionisti che hanno sostenuto con passione il mio lavoro rendendo possibile questo libro e questa mostra. E.L.



Progetto grafico: Lara Vitali Foto opere: Giorgio Liverani Selezioni: Zincografica - ForlĂŹ Catalogo riedito da versione del 2002 Finito di stampare nel mese dixxxx dalla Tipografia xxxxx


www.lombardienrico.it



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