Nei tanti modi di cambiare strada Enrico Martinelli Natale 2018
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l rosone strappa le anime al fasto della Chiesa e le getta a terra, sulla pietra. Le cattura al caldo incenso e le spalma fra gli odori gelati della campagna che sale sul monte. Anche lei si arrampica per festeggiare la venuta del Salvatore. Sul selciato che va a congelarsi, in festa con la notte, osservo muoversi i colori delle vetrate. Burattini mossi dal sacerdote che immagino adagi il bimbo nella mangiatoia, ora che i canti salgono sempre più intensi verso il cielo e le note tentano di intrufolarsi nei vasi di fiori, fra gli spifferi e sotto le lenzuola del paese. Quando la Santa Messa ha inizio, le strade intorno celebrano il silenzio e le candele annegano nel vischio appeso alle finestre. Sono l’unico, tralasciando qualche malato, a non essere in Chiesa. L’unico, al contrario dei malati, a non essere gradito. Oramai sono lo strano, la delusione, l’imbarazzo.
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i hanno processato a febbraio e da allora ho scoperto in quanti modi si può cambiare strada. Non mi hanno condannato, non potevano del resto, non ce ne era motivo, ma ne sono uscito spogliato. Io della mia ambizione di essere compreso, di trascinare con passione la mia famiglia verso il calore e l’allegria che mi avviluppa il cuore; gli altri della supponenza di poter cambiare un uomo spaventandolo, spingendolo sull’orlo di quello che per loro è baratro e per me è un salto. Si sono spogliati della biancheria sporca sperando di lavarla al fiume o forse addirittura di annegarla sotto acqua e gelo. Ma di dosso hanno sfilato solo un figlio. Se io ho cambiato strada con repentino moto d’orgoglio, altri hanno cambiato e cambiano strada in senso molto meno metaforico. Appena scorgono da lontano la mia voce o intravedono dietro l’angolo il suono dei miei passi. E si può cambiare strada abbassando lo sguardo, infilandosi in un portone, rifiutando un saluto, ignorando la mano che tendo verso di loro. Quando si cambia strada perdi alcuni compagni di viaggio, non eviti più le buche di cui conoscevi la precisa ubicazione, ma incontri anche facce nuove, i passanti cambiano maschera o volto; trovi gatti che preferiscono quei sassi per cacciar lucertole e trovare cibo. Lei, per esempio, non sapevo chi fosse. Mentre andavamo alle feste ci guardava proprio da quell’altro lato della strada. E nei suoi occhi non scorgevo il riflesso di un giudizio riguardo il baccano che ci portavamo dietro. Mi è sempre parso più uno sguardo di incomprensione, come un’armonia che osserva un assolo stonato. Oggi è la mia unica amica. Mentre pensava dormissi in un vicolo, mi ha portato una coperta. Mi lascia sempre un pane caldo se la trovo a tornar
dal forno e soprattutto mi rivolge gli occhi e il saluto. Interpreta la mia benedizione a mezza voce come un invito alla gioia e non una formula magica o un maleficio. L’ho intravista anche poco fa, mentre nell’ombra osservavo l’ingresso alla cattedrale in cerca della mia famiglia. Sotto le vesti della festa ho intravista l’orlo lacero di un grembiule, e ho sorriso. È un tocco di ingenuità, ma soprattutto di un cuore che anela all’oltre. Nel primo giorno di primavera cantavo in un campo e lei tornava dal mercato. Si è fermata ad ascoltarmi dietro un ulivo per poi chieder conto di quella gioia. Parlando del mondo e di ciò che ci aspetta, mi ha raccontato che veste sempre quel grembiule sotto i vestiti comprati dalla sua famiglia. Lo indossa per ricordare che vi è sempre molto altro aldilà di un decoro. Che vi è contrasto nella vita di ciascuno. L’ho vista entrare in Chiesa fra gli ultimi e i miei ancora non si vedevano. Ero lì per augurare loro buon Natale, ma non volevo metterli in imbarazzo. Devo essermeli persi nella ressa e ora non ho più occasione di prenderli in disparte. Come posso fare? Posso passare più tardi da casa, quando tutti saranno a cena, e lasciar loro un biglietto sulla porta. Ma il cane potrebbe riconoscermi e abbaiare. Mio padre si allerterebbe e rischierei di trovarmelo davanti.
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a guerra mi ha cambiato. Il suo odore mi ha cambiato. È entrato là dove dovrebbe stare il vento e tutto il mondo che si porta dietro. Si è messo quieto, fra le pieghe e i crepacci. Ed è rimasto immobile per molto tempo, perché l’odore della guerra sa di poter aspettare, conosce la quiete come risultato di confuse forze che si annullano. Ho vissuto per qualche mese in mezzo a quelle violente spinte per poi finire prigioniero, scordato nell’angolo di una cella, nella sporcizia di un mucchio di altri angoli come me, sconfitti e dimentichi di umanità. Lì ho scoperto qualcosa a cui, sul momento, è stato difficile dare un nome. Nella mia testa calibrata da giovani pensieri era chiaro lo scopo di essere un soldato: avrei combattuto e quindi sfiorato la gloria per poi afferrarla di slancio mentre mi sarebbe inevitabilmente passata accanto. E non ero solo, ero con altri eroi che andavano a proteggere chi resta. Per farsi attendere, per farsi disperatamente attendere. Potevo percepire le lacrime asciugarsi sulla seta dei fazzoletti. Erano di giovani donne. Il rumore delle parole ammirate. Erano di amici. Le promesse sbandierate nel suono delle fanfare. Erano dei potenti. Ho capito dopo che era un modo… che anche quello era il mio strano modo di diventare il capo della banda, il principe della festa, di guadagnare il centro dell’attenzione, del palco, della scena. Da ragazzi lo
si faceva indossando il vestito più ricco, originale e alla moda, ballando meglio degli altri, ridendo più forte degli altri, ideando sempre nuovi scherzi, divertimenti, trovate per tirar tardi ed essere gli ultimi ad andare a dormire, così che il paese riconoscesse i nostri schiamazzi. Ed eravamo felici, pieni di vita… della santità dell’effimero. Ho capito dopo che, da uomo, quella nebbia avrebbe coperto la conquista di nuovi territori, la vittoria di battaglie e quindi guerre, il distinguersi nella selva di spade. Non avevo considerato che la bruma si sarebbe sollevata e avrei conosciuto Federico, oltre a qualche topo con cui lottare per il cibo. Che avrei tremato non per la musica, la danza e il ballo dopo la vittoria, ma per l’avvicinarsi spaventato della morte, mentre in bocca mi si infilava paglia sporca e ne usciva malattia sotto forma di tosse e spasmi. Federico era di un paese accanto e, allora, non mi spiegavo il motivo per cui rinunciasse alla sua parte di cibo raffermo per darla a me. Perché mi cospargesse di acqua gelata quando i tremori della febbre si facevano incontrollati. Ero troppo debole per domandarglielo. Mi ha tenuto in vita con le sue cure e soprattutto con le parole di speranza: “Ci verranno a prendere, ci tireranno fuori di qui”. E quando i miei genitori hanno pagato il riscatto io sono fuggito dalle sbarre, lasciandolo là dentro. Mentre la barella faceva ombra sulle celle, passando per l’aria fresca del cortile, l’ho visto piegato a curar le ferite del nuovo arrivato. Se l’odore della guerra mi ha lasciato addosso quella putrefazione su cui il mondo cammina con equilibrio precario, la gratitudine per Federico mi ha sconvolto la mente. Era la sua voce a pronunciare il bisbiglio del mio nome di notte, per accertarsi che fossi ancora vivo e il buio non avesse vinto. Il colore della sua voce è la nota che si infila nella serratura e spalanca la porta di una stanza in cui c’è solo luce. Dove stavo io lo spazio era colmo di mobili, di stoffe ben allineate, vi era gente che entra ed esce, una cassa piena di soldi da proteggere. Nella stanza di Federico vi era solo luce, ovunque. E quella luce non doveva piegarsi sulla superficie ruvida degli armadi, non veniva assorbita dalle decorazioni di lana increspata e non le era impedito alcun luogo nascosto in cui proteggere denaro e ricchezza. Era luce, solo luce. Diretta, senza scorciatoie, intoppi, schermaglie. Fragile luce ovunque. Non gioia da grattar via ai giorni, ma gioia con cui addobbarli. Non pittura con cui dipingere sorrisi, bensì sorrisi con cui colorare case, strade, cattedrali, cielo e stelle. Vorrei che mio padre leggesse il calore di quella luce sul mio sorriso mentre gli auguro Buon Natale.
Forse il cane non riconoscerà più il mio odore di mendicante, ma il legno del fondaco potrebbe scricchiolare e allora mio padre potrebbe pensare ai ladri in negozio e correre alla pistola. Non farei in tempo a far sfilare il biglietto sotto la porta che mi troverei a dover correre via evitando proiettili, insulti e grida d’allarme. Come posso fare?
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n questi mesi ho fatto il muratore. Ho chiesto cibo. Ho cantato. Sono rimasto molto in silenzio. In paese si parla ancora di quel giorno di febbraio, del processo nell’austero Palazzo di Giustizia. Ma mi sono ripromesso che sarà l’ultima volta che parlano di me, che mi mettono al centro, che mi guardano. Voglio sparire. Voglio che d’ora in poi, se ancora qualcuno guarderà i miei occhi non mi riconosca, ma veda solo quella luce, fioca o fulgida per quanto posso. Che dimentichino il mio nome, ma non il suono allegro della mia voce. Che sorridano quando soffrono, perché anche io avrò imparato a pronunciare il loro nome con la giusta dolcezza, per svegliarli nella notte e controllare che siano vivi e non malati, stanchi, disorientati o persi. In questi mesi ho incontrato malati e poveri. Quelli che vivono in periferia e da sempre scansavo e ignoravo. Sto imparando a prendermi cura di loro e soprattutto cerco di capire come farli stare meglio senza che si sentano in debito. Voglio amicizia, non cerco gratitudine. Voglio sparire nella loro vita, non esserne ancora una volta il centro. E così vorrei essere per la mia famiglia. Essere figlio e non aspettativa. Essere amato e non desiderato. Essere felicità e non felice. È deciso, perciò. Aspetterò la quiete ben oltre la mezzanotte, quando le ultime candele di questa Chiesa non avranno più fumo da sbuffare, le ombre di questo rosone saranno suolo un ricordo per la memoria del gelo e andrò verso casa per la strada dei gradini, la più nascosta. Lascerò la mia lettera e se la porta dovesse aprirsi… Dirò loro: non temete, sono solo Francesco. Vi voglio bene.
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l giorno di Natale starò nella mia piccola chiesa a cui manca ancora il tetto. Solo a quel piccolo Bambino confesserò ciò in cui credo e andrò cantando per il resto dei miei giorni. Troverò modi e luoghi sempre diversi, fuori e dentro le sagrestie, a chi ha e a chi è stato tolto. Forse proverò a coinvolgere gli uccelli nascosti fra le fronde o i lupi bramosi di cibo. Ancora non so se avrò amici, sorelle, sogni. Se rivedrò Federico, un giorno. Anche perché ora so che nome ha ciò che per lui mi ha salvato. Nascosto nella luce di quella stanza, cambierò strada ogni giorno.