La Dieta Mediterranea made in Basilicata
COSA MANGIAMO
Gli effetti prodotti dal cibo che mangiamo sull’ambiente e sulle persone
e-nutrition... ...consiste nella realizzazione di uno strumento «web based» di divulgazione scientifica in ambito nutrizione. Temi del progetto sono la nutraceutica (studio di alimenti che hanno una funzione benefica sulla salute umana), la valorizzazione dei beni culturali e commercializzazione dei prodotti enogastronomici, mediante l’utilizzo della dieta mediterranea quale filo conduttore. La Fondazione Eni Enrico Mattei, soggetto attuatore del progetto, è affiancata MedEatResearch - Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, e da SAFE - Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari ed Ambientali dell’Università Degli Studi Della Basilicata.
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Indice 9
Cibo e effetto serra
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Cibo da lontano
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Cibo locale
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Cibo fuori stagione
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Cibo che inquina
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Cibo di scarto
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Cibo imballato
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Cibo in estinzione
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Cibo OGM
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Cibo Biologico
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Cibo e Salute
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Cibo equo
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Cibo per muoversi
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Cibi e culture
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Sai cosa mangi?
introduzione Dalla materia prima al prodotto finito Quanto influisce un pomodoro sullo stato dell’ambiente? E una fetta di prosciutto? Qual è il percorso che compiono gli alimenti che arrivano sulle nostre tavole? Per scoprirlo occorre pensare al cibo come ad un prodotto con un suo specifico “ciclo di vita”, in cui bisogna considerare le materie prime e l’energia necessarie alla produzione, alla lavorazione e alla distribuzione dell’alimento finale. Ad esempio, la bistecca di carne di manzo deriva da un bovino che ha vissuto per qualche anno in un’azienda agricola ed è stato nutrito con cereali e foraggio; questi ultimi sono stati coltivati direttamente dall’allevatore o acquistati da coltivatori che hanno seminato, irrigato, fertilizzato e protetto la coltura con insetticidi ed erbicidi prodotti artificialmente da aziende chimiche che a loro volta hanno consumato energia e prodotto sostanze inquinanti per l’ambiente.
Il cibo non è solo cibo! E’ un intreccio di cause e conseguenze, dove un pomodoro ha impatti sull’ambiente che non derivano solo dal settore agricolo, ma anche dall’industria chimica, poiché ogni aspetto riguardante la produzione e il consumo di un alimento è interconnesso agli altri. Questo diventa più che mai vero se l’intensità con cui l’uomo sfrutta le risorse naturali per produrre cibo è maggiore della capacità dell’ambiente di attutire gli impatti negativi: il 25% delle riserve marine di pesce è sovrasfruttato, negli ultimi 20 anni il 35% delle foreste di mangrovie è andato perso, un quarto di tutte le terre emerse è stato trasformato in campi coltivati, in 30 anni l’uso di fertilizzanti di sintesi si è triplicato. Il 30% delle emissioni di gas ad effetto serra è direttamente o indirettamente collegato a come l’uomo produce, distribuisce e consuma cibo: fertilizzanti, pesticidi, carburanti per trattori e pescherecci, trasformazioni, refrigerazioni, trasporti. Questo non significa che per tutelare l’ambiente e la salute umana non bisogna consumare più cibo, piuttosto che serve mettere in atto un consumo intelligente, dove non si pretende di mangiare le zucchine in pieno inverno e si acquistano le ciliegie di Vignola senza farle volare dal Sud America.
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cibo effetto serra L’effetto serra e il cibo che mangiamo Le filiere agroalimentari richiedono energia per produrre i cibi di cui ci nutriamo. Gli animali che alleviamo e le piante che coltiviamo consumano, come l’uomo, risorse naturali ed emettono nell’ambiente sostanze di scarto. Questi processi possono contribuire ad aumentare l’effetto serra e, quindi, a surriscaldare il pianeta. L’effetto serra è dovuto alla presenza in atmosfera di diverse sostanze, normalmente presenti in natura in basse concentrazioni, ma prodotte in elevate quantità dall’attività dell’uomo, soprattutto negli ultimi decenni. Questo succede, ad esempio, a seguito della combustione dei carburanti per spostarsi e per far funzionare macchinari, per produrre energia elettrica e, indirettamente, anche attraverso le attività necessarie a produrre alimenti.
Di quali sostanze parliamo? Tra queste sostanze emesse in atmosfera alcune hanno un’influenza maggiore sull’effetto serra, come il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), altre, come l’anidride carbonica (CO2), hanno un effetto minore, ma vengono prodotte in grandi quantità dall’uomo.
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La produzione animale e agricola contribuisce alle emissioni di gas effetto serra, soprattutto per quanto riguarda il settore zootecnico, in crescita esponenziale negli ultimi decenni, responsabile del 18% delle emissioni globali di gas serra, detti anche GHG (Green House Gases), addirittura superiore alle emissioni di GHG generate dai trasporti in tutto il mondo!!
Animali per terra, inquinamento per aria Allevare animali significa, in particolare, che i reflui zootecnici, ossia il letame e il liquame prodotto dai capi di bestiame, e i fertilizzanti applicati sui suoli coltivati per nutrire gli animali allevati rilasciano in atmosfera il 65% del protossido d’azoto complessivamente introdotto dall’uomo in atmosfera. Il settore della zootecnia è, però, responsabile anche del 37% del metano complessivamente prodotto dalle attività dell’uomo: questa quota è emessa per lo più dai ruminanti e dalla fermentazione della cellulosa che avviene nei loro stomaci. Infine, l’allevamento produce il 9% delle emissioni globali di anidride carbonica, soprattutto in conseguenza di cambiamenti di uso del suolo come la deforestazione causati dall’estensione dei pascoli e delle terre coltivate. Dietro ad una fetta di carne ci sono, quindi, risvolti complessi che riguardano l’ambiente e la salute stessa dell’uomo: tra tutti gli alimenti la carne (intesa anche come salumi) è la più determinante nell’incrementare l’effetto serra e quindi il surriscaldamento del pianeta, soprattutto perché negli ultimi decenni se ne consuma in grandi quantità (più del naturale fabbisogno proteico) e il numero di animali allevati deve crescere continuamente per soddisfare la richiesta.
Prodotti in viaggio A questi impatti sull’atmosfera legati a specifici processi produttivi va aggiunto poi il peso delle emissioni di anidride carbonica dovute al trasporto del cibo, su gomma, via mare e per via aerea. Ogni alimento deve essere, infatti, trasportato dal luogo in cui viene prodotto e confezionato a quello in cui viene distribuito. Vi siete mai chiesti quanti chilometri percorrono i cibi che trovate sulla vostra tavola ogni giorno?
Lo sapevi? I fertilizzanti a base di azoto contribuiscono indirettamente al cambiamento climatico e all’effetto serra: la produzione e il trasporto di un Kg di azoto contenuto in un fertilizzante rilascia in atmosfera 3,7 Kg di anidride carbonica!
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cibo da lontano Alimenti giramondo Da molti secoli ormai l’uomo commercia cibo da un capo all’altro del mondo. Uno degli effetti della globalizzazione e del progresso riguarda, però, la possibilità di commerciare prodotti alimentari in tutto il mondo in poco tempo e in grandi quantità. Se in un certo senso questo consente di apprezzare la cultura alimentare di popoli lontani stando seduti alla propria tavola, d’altro canto genera forti pressioni sull’ambiente, soprattutto sull’atmosfera, con l’aumento esponenziale delle emissioni di gas ad effetto serra (GHG – Green House Gases). Negli ultimi decenni una sempre crescente quantità di cibo è stata commercializzata in tutto il mondo. Oltre alla produzione, anche il trasporto di cibo è aumentato. Ma tutto ciò non è dovuto solo ad un aumento della produzione, piuttosto all’aumento della percentuale di prodotti che vengono fatti circolare sui mercati internazionali. Coldiretti – la Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti - ha recentemente stilato una classifica dei cibi consumati in Italia ritenuti più inquinanti per l’atmosfera e, a ben vedere, sono tutti alimenti che arrivano da lontano, molti dei quali possono essere facilmente sostituiti da cibi nostrani poiché prodotti anche in Italia.
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I cibi trasportati per via aerea sono quelli che generano maggiori emissioni di GHG, a parità di Km da percorrere, tuttavia l’aereo è oggi la modalità preferita per il trasporto alimentare poiché consente di ridurre ulteriormente i tempi di consegna dei prodotti. Spesso non si presta attenzione alla provenienza degli alimenti che acquistiamo, dando magari per scontato che siano stati prodotti poco distante da noi. Ecco, quindi, che si comprano prugne cilene e vino australiano, che si trovano ai primi posti, insieme alla carne argentina, nella classifica dei cibi che sprecano più energia e contribuiscono all’emissione di gas ad effetto serra. Anche il mango dal Perù, l’anguria da Panama, la carne dal Brasile, l’aglio dalla Cina, l’uva da tavola dal Sud Africa, i meloni dal Guadalupe e il riso dagli Stati Uniti sono cibi che devono percorrere distanze nettamente superiori ai 10 mila chilometri prima di giungere sulle nostre tavole, quando potrebbero essere sostituiti quasi sempre da alimenti di origine nostrana.
Food miles Gli anglosassoni utilizzano il termine “Food Miles” per indicare l’impatto ambientale del cibo che mangiamo ogni giorno, basato sul chilometraggio dei prodotti, ossia sui chilometri percorsi dal prodotto per arrivare nei nostri piatti. Oggi esistono diversi siti internet che mettono a disposizione dei software per calcolare quanta anidride carbonica ha emesso l’ananas che stai mangiando, o i cavolfiori che hai acquistato: puoi visitare i siti di Organic Linker e i Mercati del contadino. Il vino proveniente dall’Australia, ad esempio, per giungere sulle tavole italiane deve percorre oltre 16mila chilometri, con un consumo di 9,4 chili di petrolio e l’emissione di 29,3 chili di anidride carbonica; le prugne dal Cile devono volare per 12 mila chilometri con un consumo di 7,1 kg di petrolio che liberano 22 chili di anidride carbonica; la carne argentina viaggia per 11 mila chilometri bruciando 6,7 chili di petrolio e liberando 20,8 chili di anidride carbonica attraverso il trasporto aereo.
A livello globale è stato calcolato che un pasto medio percorre più di 1900 chilometri, trasportato da camion, nave o aeroplano, prima di arrivare sulla nostra tavola e spesso ci vuole più energia per consegnare il pasto al consumatore del valore nutrizionale del pasto stesso. La distanza tra il produttore e il consumatore si è, quindi, estesa notevolmente e le catene di fornitura sono diventate più lunghe e complicate, tanto che i consumatori spesso non riescono a scoprire con certezza la provenienza dei cibi che mangiano, né tanto meno hanno idea delle condizioni dei lavoratori che lo hanno prodotto o degli impatti ambientali generati dalla produzione, dalla trasformazione, dall’imballaggio e dalla distribuzione del cib
Lo sapevi? Alcune aziende europee di distribuzione applicano un aeroplanino sulle confezioni di frutta e verdura che sono importate da altri continenti, per segnalare a chi acquista l’elevato impatto ambientale del prodotto.
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cibo locale Prodotti che viaggiano molto Ciò che viene prodotto vicino a casa non deve essere trasportato per lunghe distanze, per arrivare sulle nostre tavole come, invece, accade solitamente al cibo proveniente dalla produzione industriale: dai pochi e grandi stabilimenti posti sul territorio nazionale il cibo viene distribuito per migliaia di chilometri, con appropriati imballaggi che proteggano il prodotto, su camion e aerei costantemente refrigerati per conservare le proprietà nutrizionali degli alimenti. Quando andate al supermercato, noterete che molti cibi sono impacchettati in vaschette di plastica ermeticamente sigillate da pellicole, o sono confezionati in grossi contenitori a loro volta suddivisi in piccoli pacchettini di plastica mono-dose. Uno dei motivi più frequenti di questi imballaggi è che i cibi venduti dal supermercato spesso arrivano da lontano: anche se vivete in una zona ricca di aziende agricole e di stalle, non sarà facile trovare sui banconi del vostro supermercato cibi del vostro territorio, piuttosto potrete acquistare senza difficoltà carne proveniente dalla Francia e frutta che ha volato dal Centro America.
Brevi tragitti Se, invece, entrate nella latteria vicino a casa sarà più probabile che il negoziante vi venda qualche formaggella locale, o addirittura che abbia il distributore del latte fresco appena munto! Questo accade anche perché il piccolo commerciante è in un certo senso orientato verso il cibo locale dal risparmio economico che trae “accorciando” la catena dal produttore al consumatore e limitando le spese connesse al trasporto del cibo (confezionamento, imballaggio, refrigerazione, etc.).
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I vostri genitori e i vostri nonni facevano la spesa in questo modo probabilmente, quando erano giovani, e oggi molte persone stanno cercando di ripristinare quelle abitudini, poiché sentono di aver perso il contatto con il proprio territorio e perché pensano che la già fragile condizione ambientale del nostro pianeta verrebbe aggravata da ulteriori impatti sulla qualità dell’aria, sul clima e sulle risorse naturali. Le piccole realtà produttive, come fattorie e aziende agricole, hanno, inoltre, maggiore interesse a preservare le risorse e l’ambiente: a differenza delle grandi imprese, se inquinano o sfruttano eccessivamente le terre, non possono trasferire agevolmente la propria attività in un’altra zona ancora incontaminata. In più, i prodotti alimentari di agricoltori e contadini locali sono spesso biologici, senza che un certificato ufficiale lo attesti e senza che loro stessi lo sappiano, poiché attuano le pratiche tradizionali di un tempo allo scopo di ottenere un buon cibo con i ritmi e le caratteristiche naturali della terra che lavorano. La presenza della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), diventata negli ultimi anni sempre più competitiva rispetto ai produttori locali, ha, invece, istituito un canale preferenziale con la produzione industriale (economicamente più vantaggiosa), impedendo ai produttori locali di vendere direttamente senza intermediari.
Chilometro zero In Italia, Coldiretti - la Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti - sta cercando di favorire questi meccanismi, promuovendo il cibo a Km zero. Mangiare a “chilometri zero” significa, infatti, risparmiare e preferire cibi locali e di stagione che non subiscono troppe intermediazioni e che non devono percorrere lunghe distanze prima di giungere sulle tavole. Pensate che in Italia l’86% dei trasporti avviene ancora su gomma e che i costi della logistica arrivano ad incidere per addirittura un terzo del prezzo di frutta e verdura!
Inoltre, le produzioni locali creano un mercato basato sulla distribuzione di piccole quantità di cibo, in rapporto alle loro stesse capacità produttive: questo fa sì che le quantità prodotte corrispondano quasi sempre alla richiesta locale, a differenza di quanto accade nella produzione industriale e nella GDO, dove abbonda il cibo di scarto.
Lo sapevi? Se vuoi mangiare formaggi, frutta e verdura prodotti vicino a casa tua puoi visitare direttamente le cascine e le aziende agricole della tua zona, oppure puoi recarti al mercato agricolo di Coldiretti della tua città, dove settimanalmente o mensilmente gli agricoltori vendono direttamente i loro prodotti, senza intermediari per il confezionamento e per la distribuzione. Ecco qualche informazione in più: Coldiretti - Vendita diretta di Aziende agricole in Lombardia Farmers’ Market
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cibo fuori stagione Cresciuti nelle serre Mangiare cibo locale significa riscoprire in quale stagione matura un frutto, in quali mesi dell’anno cresce una verdura, o in quale periodo si usa fare un tipo di formaggio, a differenza di quanto accade acquistando cibo nei grandi supermercati dove, per soddisfare le esigenze di tutti i clienti, vengono importati cibi fuori stagione provenienti da lontano, o si acquistano cibi in serra, come la frutta e la verdura coltivati per tutto l’anno. La serra è un sistema agricolo molto complesso, ve ne sono di molti tipi in base a ciò che si deve coltivare, al mercato a cui la coltivazione è rivolta e alle condizioni climatiche che occorre ricreare all’interno della serra. Per la presenza di strutture che coprono le coltivazioni, la serra si dice anche coltura protetta con cui si intende la produzione che si esegue in ambiente protetto, influendo sul controllo dei fattori ambientali che condizionano la crescita della pianta. Le protezioni impiegate vanno dal semplice tunnel in plastica, posto sulla singola fila, ai più ampi tunnel in film plastico, fino alle serre in vetro con struttura in ferro o in alluminio. Le colture protette, in Italia, rivestono una notevole importanza economica sia per la loro estensione sia per la produzione, destinata all’esportazione, di prodotti freschi a largo consumo. Le serre interessano prevalentemente la coltivazione di ortaggi, in cui prevalgono pomodori, patate, peperoni e melanzane (appartenenti alla famiglia delle solanacee), cocomeri, meloni, cetrioli, zucche e zucchine (appartenente alla famiglia delle cucurbitacee).
Le conseguenze sull’ambiente Quello che occorre in una serra riguarda il riscaldamento, la ventilazione, l’irrigazione, l’illuminazione e l’ombreggiamento, tutte pratiche che richiedono molta energia e acqua con conseguenti impatti sull’ambiente.
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La serra è, infatti, una coltivazione forzata che, per definizione, non rispetta i ritmi della terra e cerca di riprodurre costantemente condizioni climatiche simili alla stagione estiva. Se un tempo le serre venivano utilizzate per proteggere i prodotti invernali più delicati dalle gelate, oggi servono per produrre cibo che va al di là delle stagioni e per poter rispondere con costanza e rapidità alle richieste del mercato, della grande distribuzione e dei consumatori.
Quali stagioni? Ormai il consumatore acquista in base a ciò che trova sul banco, in base a ciò che propone la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), ossia tutto e sempre. E’ anche per questo che non conosciamo più con precisione quali alimenti in natura siano prodotti in una data stagione e riusciamo a dedurre che sono cibi fuori stagione solo leggendo la provenienza sull’etichetta della confezione. Forse si potrebbe ritornare ai calendari culinari, dove ad ogni mese erano associati cibi e ricette di quella stagione: i cavolfiori in inverno, le ciliegie in primavera, i pomodori e i peperoni in estate, gli agrumi dall’autunno all’inverno e così via. Da anni, ad esempio, i pomodori, nelle numerose varietà esistenti, entrano nelle nostre case per tutti e 12 i mesi, senza che nemmeno ci chiediamo come sia possibile. Stessa sorte per zucchine, cavolfiori e fagiolini. Le serre e l’importazione dall’altro emisfero ci hanno assuefatto ed abituato a non collegare più il clima a diversi tipi di cibo: non dovremmo forse sorprenderci se vediamo un peperone in vendita a dicembre?
Sprechi di cibo E ancora di più dovrebbe sorprenderci sapere che i produttori di ortaggi in serra buttano via i propri prodotti nel momento in cui maturano naturalmente quelli di campo: quindi, le serre in cui si coltivano cibi estivi hanno un picco di attività durante i mesi invernali per poi decrescere tanto più ci si avvicina al momento della maturazione naturale. Un produttore italiano di cavolo rapa, ad esempio, che vende il suo prodotto di serra in Germania come prodotto fuori stagione, da febbraio in poi non raccoglierà più i suoi cavoli rapa perché il costo della raccolta supererebbe il guadagno che può ottenere dalla vendita. Questo accade perchè da febbraio in poi il prodotto di serra dovrà avere un prezzo competitivo con i cavoli rapa prodotti nei campi. Lo stesso avviene per i pomodori di cui parlavamo prima: quelli coltivati in serra verranno raccolti e venduti da aprile a metà giugno, finché ci sarà margine di guadagno per il produttore, ma nel momento in cui matureranno i pomodori da campo e i prezzi caleranno il produttore lascerà marcire nelle serre tutti i pomodori: raccoglierli sarebbe solo un costo! Non coltivare tutto in serra e importare minori quantità da lontano sono pratiche che possono limitare i numerosi impatti ambientali, semplicemente perché si sceglie di seguire i ritmi della terra e del clima: mangiare cibo proveniente dall’altro emisfero, come frutta esotica e caffè, è un lusso che l’uomo soddisfa da secoli, ma trasportare per lunghe distanze lo stesso cibo che la propria terra produce localmente suona forse come una forzatura, così come consumare energia per riscaldare le serre che simulino la stagione estiva per mangiare a gennaio le primizie estive. Comprare cibo di stagione in certi casi agevola anche l’economia locale, rendendo la filiera agroalimentare più corta e portando profitto direttamente a chi produce nella zona in cui voi acquistate.
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cibo che inquina Sostanze che fanno male all’ambiente Ogni sistema di produzione alimentare esercita una pressione sull’ambiente, utilizzando risorse naturali e producendo sostanze di scarto che vengono liberate in atmosfera, nel suolo e in acqua. Quando i sistemi naturali non sono più capaci di assorbire, trasformare e riutilizzare le sostanze riversate dall’uomo nell’ambiente, si inquinano i terreni che coltiviamo, l’aria che respiriamo, le acque sotterranee da cui preleviamo acqua per bere e gli oceani in cui peschiamo. La maggior parte del cibo che inquina proviene dal settore agricolo, ma anche la zootecnia e la pesca influenzano negativamente l’ambiente circostante. Gli allevamenti industriali di suini, ad esempio, producono così tanti liquami che non ci sono campi sufficienti su cui distribuirli come concime e devono essere, quindi, smaltiti come rifiuti per evitare che attraversino il terreno e arrivino ad inquinare le acque sotterranee. Anche in mare, dove vengono allevati e nutriti i pesci come le spigole e le orate, a volte si creano zone troppo ricche di sostanze organiche (cibo in eccesso, deiezioni, farmaci, etc.) che possono alterare gli equilibri di fauna e alghe circostanti e possono rilasciare in acqua sostanze dannose, come antibiotici e metalli pesanti.
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Per aumentare la produttività dei suoli coltivati occorre dare alle piante nutrimento, con i fertilizzanti, e proteggerle dall’attacco di insetti che se ne nutrirebbero e di piante che crescerebbero nello stesso terreno, attraverso insetticidi ed erbicidi, ossia distribuendo pesticidi (o fitofarmaci).
Cosa sono i pesticidi? I pesticidi sono sostanze chimiche sintetizzate in laboratorio distribuite sui campi coltivati spesso attraverso dei nebulizzatori insieme all’acqua e, per questo, si depositano non solo sulle piante e sui frutti che poi mangiamo, ma anche sul terreno, nell’acqua piovana che si ricongiunge poi ai fiumi, ai laghi fino al mare e nelle acque sotterranee della falda freatica. La salute umana viene, quindi, messa a rischio dai pesticidi non solo perché questi contaminano gli alimenti vegetali e animali che consumiamo, ma anche perché possono trovarsi nell’acqua che beviamo. Ad eccezione dei terreni agricoli coltivati secondo i principi dell’agricoltura biologica, tutti gli altri campi ricevono, spesso in misura eccessiva, pesticidi per aumentare le quantità di frutta e verdura prodotti. I pesticidi, oltre ad essere tossici per i parassiti contro cui vengono utilizzati, hanno effetti nocivi e letali per tutti i sistemi biologici e gli organismi viventi, uomo incluso. Un pesticida è, quindi, molto dannoso per la salute umana e per la biodiversità degli ecosistemi, poiché è tossico e riduce la varietà delle specie animali e vegetali che naturalmente vivrebbero nelle zone limitrofe alle coltivazioni, uccidendo anche quegli animali e quelle piante che potrebbero aiutare l’agricoltore, come ad esempio gli insetti impollinatori, come le api, le siepi e i filari.
Molte di queste sostanze, prodotte artificialmente dall’uomo, non possono essere “digerite” dai microrganismi perché questi non le sanno riconoscere. Gli animali che assumono accidentalmente pesticidi, non potendo “digerire” queste sostanze, si difendono, quindi, “accumulando” le molecole tossiche nel proprio organismo per non farle più circolare. Questo fenomeno è noto come bioaccumulo e ha degli effetti negativi esponenziali via via che si risale la catena alimentare fino all’uomo. Per questa ragione, un pesticida, che a causa del dilavamento del terreno o attraverso uno scarico agricolo finisce in un corpo idrico (come un fiume o un lago), può entrare nella catena alimentare acquatica fino ad arrivare all’organismo umano, per esempio attraverso il consumo di pesce.
.. e i fertilizzanti? Per arricchire le colture di sostanze nutritive, vengono utilizzati fertilizzanti di sintesi, oltre ai concimi naturali provenienti dalle deiezioni degli animali da allevamento. Entrambe le tipologie contengono azoto (N) e fosforo (P), sostanze già presenti naturalmente nel suolo, che l’uomo però somministra in quantità elevate sulla superficie coltivata nel tentativo di velocizzare la crescita delle coltivazioni e quindi di aumentare la produzione agricola annua. Tuttavia, ciò non garantisce una crescita vegetativa proporzionale: infatti, circa la metà dei fertilizzanti che oggi vengono applicati alle colture resta sui terreni e poi finisce nelle acque sotterranee e superficiali, poiché le piante coltivate non ne possono assorbire nei propri tessuti più di una certa quantità.
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Quando una larga percentuale dei fertilizzanti si disperde nell’ambiente si verificano danni sia per l’ambiente che per la salute umana. Una volta disciolti nelle acque superficiali, questi composti continuano a costituire dei nutrienti per le piante e le alghe, siano essi in un fiume, in un lago o in mare, dando origine al fenomeno dell’eutrofizzazione. I corpi idrici sono abitati da molti tipi di alghe e di piante acquatiche che, avendo a disposizione grandi quantitativi di nutrienti, crescono molto velocemente, causando le cosiddette “esplosioni algali”. I pesci e altri organismi si nutrono delle alghe senza però riuscire a consumarle interamente. Le alghe in eccesso muoiono e vengono decomposte dai microrganismi utilizzando grandi quantità di ossigeno disciolto in acqua, lo stesso ossigeno che serve a tutti gli organismi acquatici per respirare. L’acqua povera di ossigeno porta, quindi, alla morte molti animali, piante e microrganismi. Oltre che i fiumi, i laghi e i mari, i fertilizzanti possono raggiungere le falde acquifere dove scorrono le acque sotterranee inquinando l’acqua con i composti sintetici a base di azoto presente nei fertilizzanti. Questo comporta rischi per la salute umana per la presenza di nitrati nell’acqua che possono trasformarsi in nitriti, tossici per l’organismo umano. La presenza di nitrati nelle falde acquifere è misurata e controllata da normative europee e nazionali, ma in molti casi supera i limiti imposti dalla legge. In Italia l’area più colpita è la Pianura Padana, ma anche gli abitanti di altre zone dell’Italia centrale, come la media e bassa valle del Metauro, a causa dell’alta concentrazione di nitrati
non possono bere l’acqua di falda, se non miscelata con altra acqua a più basso contenuto di nitrati (spesso acqua superficiale depurata). Non esiste a tutt’oggi un metodo economicamente ragionevole per rimuovere i nitrati dall’acqua. Solo dopo anni di pratiche agricole sostenibili si può sperare di assistere ad un abbassamento dei valori dei nitrati.
Lo sapevi? Alcuni studi hanno stimato che solo lo 0,1% dei pesticidi applicati raggiunge l’obiettivo desiderato; il restante 99,9% si disperde nell’ambiente. Tra gli alimenti a maggiore concentrazione di pesticidi residui si trovano mele, pesche, lamponi, ciliegie, spinaci, lattuga e patate. Per limitare l’apporto di pesticidi nel tuo organismo puoi sbucciare la frutta, lavare abbondantemente la verdura, oppure puoi acquistare cibi provenienti da agricoltura biologica, dove si usano solamente mezzi naturali per nutrire le piante e per contrastare insetti e erbe infestanti.
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cibo di scarto Quante volte ci è capitato di aprire il frigorifero e trovare un paio di uova e uno yogurt scaduti da qualche giorno, un ciuffo di insalata ormai appassito, mezza bottiglia di una bevanda sgasata, un cartone del latte aperto da troppi giorni…almeno così ci indica la confezione. Passati alla dispensa troviamo una confezione di spaghetti cinesi comprata anni prima dopo aver frequentato un corso di cucina orientale, un pacco di farina scaduta, preso quando pensavamo di sostituire le merendine confezionate con una torta fatta in casa, alcune patate con i germogli ormai pronte per la semina. Qual è la fine di questi alimenti, che ormai consideriamo immangiabili? La spazzatura, ovviamente! Al cibo che buttiamo in casa dobbiamo poi aggiungere gli avanzi che lasciamo al ristorante, al bar, nella mensa aziendale e così via…Tutto questo si traduce in spreco alimentare: ogni anno ogni cittadino europeo getta nella pattumiera circa 95 kg di cibo! Andiamo a vedere in dettaglio come, quanto e dove si sperpera cibo e a capire come possiamo ridurre gli sprechi alimentari.
Cos’è lo spreco alimentare Quando si parla di spreco di cibo, bisogna distinguere tra perdite (food losses) e sprechi alimentari (food waste). Per perdita alimentare si intende la perdita di massa o qualità nutrizionale del cibo originariamente destinato al consumo umano, solitamente causata da inefficienze nella filiera. Quando invece il cibo viene scartato presso il punto di vendita e di consumo finale si parla di spreco alimentare1. Qualunque sia il nome che usiamo per parlare degli alimenti che finiscono nella spazzatura, bisogna sapere che questo cibo ha richiesto energia, terra, acqua, carburante, risorse naturali, lavoro umano e denaro per essere prodotto, trasportato, trasformato, confezionato, conservato, venduto, acquistato, nuovamente trasportato e conservato a casa.
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La produzione alimentare, inoltre, ha un impatto sull’ambiente in quanto comporta emissioni di CO2 in atmosfera, che contribuiscono al cambiamento climatico, e l’immissione di sostanze inquinanti nei diversi comparti ambientali, ad esempio i fertilizzanti, che inquinano i suoli e le acque. E non finisce qui! Il cibo sprecato, infatti, si trasforma in rifiuti, che richiedono ulteriori risorse per essere gestiti e smaltiti. 1
FAO. 2011. Global food losses and food waste – Extent, causes and prevention.
I numeri dello spreco Ogni anno circa un terzo di tutto il cibo che viene prodotto nel mondo viene sprecato: si parla di 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti che, invece di finire dove dovrebbero, ovvero nei nostri piatti, vengono buttati in pattumiera.
Grafico 1 - Fonte: FAO 2011. Global food losses and food waste – Extent, causes and prevention.
Come si può osservare dal grafico sulle perdite e sugli sprechi di cibo pro capite, gli abitanti del Nord America e dell’Oceania sono quelli che sprecano più cibo (circa 300 kg/ anno) seguiti subito dopo dagli europei (280 kg/anno). Quanto cibo hanno inizialmente a disposizione americani ed europei, prima di sprecarlo? Gli americani dispongono mediamente di 900 kg di cibo all’anno: di questi ne mangiano 600 kg e ne sprecano 115 kg, comprandoli per poi buttarli in pattumiera. E i 185 kg mancanti all’appello? Quelli si perdono per strada, nella lunga filiera che va dal produttore alla distribuzione, senza che neanche ci si renda conto dell’entità dello spreco. Lo stesso accade per gli abitanti dell’Europa, che hanno a disposizione 840 kg di cibo all’anno, di cui solo 560 kg vengono mangiati, mentre 95 kg finiscono tra i rifiuti dopo l’acquisto e i restanti 185 kg persi lungo la filiera.
In Africa e nel Sud Est asiatico il cibo a disposizione per ogni abitante è molto meno, circa 460 kg all’anno: nonostante ciò spariscono tra i rifiuti rispettivamente 120 e 170 kg a testa all’anno. Di questi rispettivamente 6 e 11 kg sono sprecati dal consumatore finale, mentre i restanti si perdono lungo la filiera. La percentuale di spreco alimentare rimane altissima anche nei Paesi in via di sviluppo, con la differenza che in questi Paesi lo spreco si concentra lungo la filiera, non al momento del consumo, cosa che invece accade nei Paesi industrializzati. Nei Paesi industrializzati, infatti, si spreca perché si produce e si acquista troppo cibo, che spesso viene gettato via prima ancora che si deteriori. Nei Paesi in via di sviluppo, invece, il cibo si spreca per mancanza di infrastrutture, strumenti per la conservazione del cibo e mezzi di trasporto adeguati.
Dal campo alla tavola: la filiera dello spreco Lo spreco nei campi Dove iniziamo a sprecare? Sin dall’inizio! Lo spreco, infatti, comincia sul campo, sin dalle prime fasi della filiera agroalimentare. Spesso il cibo non viene raccolto o non riesce ad arrivare sulle nostre tavole. Perché? Le ragioni sono molteplici. Sicuramente i fattori climatici e ambientali, la diffusione di malattie e i parassiti sono una delle cause di perdite alimentari in questa prima parte della filiera. Per continuare ad analizzare le cause delle perdite, bisogna poi fare una distinzione tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, dove le diverse tecniche di preparazione del terreno, semina e coltivazione determinano rese completamente differenti, che rappresentano la prima causa di perdite.
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Nei Paesi in via di sviluppo le perdite di cibo sono da attribuire a un’agricoltura spesso poco efficiente: l’agricoltore si trova ad affrontare un intenso lavoro nei campi e a ottenere basse rese perché mancano le competenze tecniche e le disponibilità finanziarie, le pratiche di raccolto sono spesso inefficienti e arretrate, le infrastrutture disponibili spesso sono inadeguate e la scarsa disponibilità di mezzi di trasporto rende difficoltoso lo spostamento delle derrate alimentari. Inoltre la mancanza di strutture adeguate per l’immagazzinamento e la conservazione degli alimenti raccolti comporta il deperimento del cibo o l’attacco da parte degli insetti. Nei Paesi a più alto reddito, invece, la migliore dotazione tecnologica, le infrastrutture più efficienti, le competenze agronomiche e le tecniche agricole più avanzate, le condizioni ambientali spesso più favorevoli fanno registrare un livello di perdite nettamente inferiore. Nonostante ciò spesso accade che gli agricoltori lascino sul campo, o decidano di destinare all’alimentazione animale, le coltivazioni originariamente finalizzate al consumo umano. Perché? Le motivazioni sono diverse:
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l’offerta è superiore alla domanda;
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non vengono rispettati gli standard qualitativi per il consumo umano, imposti dalla normativa nazionale e internazionale o definiti dai distributori (tendenzialmente dalla grande distribuzione)
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non sono soddisfatti i requisiti estetici, inerenti la forma e la dimensione dei prodotti agricoli, richiesti dalla clientela. Si parte dal presupposto che nessuno comprerà mai una mela un po’ ammaccata da una grandinata o una melanzana bitorzoluta…i prodotti, quindi, restano sul campo, poiché verrebbero comunque scartati nelle successive fasi della filiera.
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l’invasione del mercato da parte di prodotti di bassa qualità venduti a prezzi bassi fa concorrenza agli altri prodotti, che devono quindi adeguarsi a un prezzo che non ripagherà i costi di produzione. Di conseguenza frutta e verdura restano nei campi.
Lo spreco dell’industria alimentare La seconda tappa del viaggio che il nostro cibo compie prima di arrivare sulle nostre tavole è l’industria. Il cibo passa prima dalle industrie di trasformazione poi da quelle di confezionamento. Entrambe contribuiscono allo spreco alimentare, vediamo in che modo. Prima di tutto si spreca a causa della lontananza delle industrie di trasformazione rispetto ai luoghi di produzione: il lungo trasporto degli alimenti dai campi può comportare il deterioramento delle derrate alimentari, che vengono così scartate prima del processo di lavorazione. Durante la lavorazione dei prodotti, si spreca ad esempio perché il mercato richiede solo alcune parti di cibo, ad esempio i filetti di pesce o le cosce e i petti di pollo. Nei Paesi in via di sviluppo (ma in parte anche nei Paesi industrializzati) la dotazione tecnologica spesso è insufficiente e non sempre in grado di garantire la corretta conservazione dei prodotti alimentari, soprattutto per quanto riguarda i cibi freschi. Infine, errori durante le procedure di trasformazione alimentare causano difetti in termini di peso, forma o confezionamento del prodotto. Nonostante questi difetti non influiscano sulla sicurezza o sul valore nutrizionale dei prodotti, questi vengono scartati. Nella fase di confezionamento il danneggiamento della confezione, per qualunque motivo, quasi sempre comporta lo scarto dell’intero prodotto, soprattutto quando si tratta di succhi, marmellate, yogurt, conserve varie. Vengono poi scartati tutti quei prodotti che non rispettano gli standard estetici richiesti dal mercato. A produzione ultimata, infine, i prodotti sono soggetti a controlli di qualità: se non superano l’esame, diventano rifiuti.
Lo spreco nella fase di distribuzione e vendita Trasporto, distribuzione e stoccaggio non sono certo esenti da sprechi. In questa fase si spreca a causa di ordini inappropriati e di previsioni errate della domanda di prodotti alimentari, si tratta, infatti, di operazioni molto complesse, influenzate da molteplici fattori, quali il clima, la stagione, il lancio di nuovi prodotti, promozioni e festività. La conseguenza è l’accumulo dei prodotti negli scaffali, dove poi scadono o vanno incontro al naturale deperimento (principalmente nel caso di frutta e verdura).
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Si aggiungono poi:
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i limiti della tecnologia impiegata per la conservazione dei prodotti, in particolare quelli freschi;
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i danni riportati sul prodotto e sul packaging in fase di trasporto e stoccaggio, che li rendono non conformi alla vendita;
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la scarsa formazione professionale degli addetti alle vendite, i quali a volte non espongono la merce in maniera adeguata sugli scaffali e non seguono le dovute procedure di rotazione degli stock;
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le campagne di ritiro di alcuni prodotti dal commercio, conseguenti alla verifica della non corrispondenza a determinati livelli qualitativi e di sicurezza;
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gli standard di vendita, che escludono dalla distribuzione i prodotti che non soddisfano i requisiti estetici o che presentano difetti del packaging;
Inoltre, alcune strategie di marketing, come le opzioni “prendi due paghi uno” o “prendi tre paghi due”, che hanno lo scopo di vendere i prodotti vicini alla scadenza o di ridurre gli stock di magazzino, determinano lo spostamento del problema, perché lo spreco passa dalla distribuzione al consumatore finale. Quanto detto finora per questa fase della filiera vale per i Paesi industrializzati. Nei Paesi in via di sviluppo, infatti, la distribuzione all’ingrosso è assente o comunque spesso inefficiente. Gli sprechi, quindi, sono riconducibili alle caratteristiche dei mercati: piccoli, affollati, con scarse condizioni igieniche e con apparecchiature di raffreddamento e conservazione del cibo inefficaci.
Lo spreco nella fase di consumo domestico e ristorazione E quando il cibo è arrivato nelle nostre case, lo spreco continua. Perché? Le cause dello spreco alimentare domestico sono molteplici e sono legate:
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alla mancata pianificazione degli acquisti, che a volte induce ad acquistare eccessivi quantitativi di alimenti per cogliere offerte promozionali;
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alla scarsa conoscenza dei prodotti, ad esempio il consumatore compra cibi che poi non sa come preparare oppure non sa come creare piatti con gli avanzi o gli ingredienti disponibili;
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all’inadeguata conservazione dei prodotti, che porta al deterioramento prima del tempo;
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alla confusione sulle indicazioni riportate sull’etichetta riguardo alla scadenza dei prodotti. Infatti, c’è una bella differenza tra la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro” (riferita alla qualità dell’alimento) e “da consumarsi entro” (riferita alla sicurezza dell’alimento): la presenza o meno dell’avverbio “preferibilmente” cambia le cose e di grosso. Se c’è significa che dopo quella data l’alimento è ancora commestibile e mangiandolo non si rischia alcun mal di pancia. Certo potrebbe aver perso gusto, aroma, colore, consistenza e l’apporto di nutrimenti potrebbe essere diminuito, ma il cibo rimane sicuro.
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scarsa consapevolezza dell’entità degli sprechi che ognuno produce e del loro impatto economico e ambientale.
Per quanto riguarda gli sprechi che si generano nel settore della ristorazione (come hotel, ristoranti, mense, ecc.), le cause dello spreco sono più o meno le stesse, ma hanno effetti ancora più rilevanti:
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l’eccessiva dimensione delle porzioni di cibo servito che in parte viene lasciato nel piatto;
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la difficile pianificazione degli acquisti alimentari, che si complica ulteriormente nel caso del servizio a buffet (che usualmente comportano la preparazione di un maggior quantitativo di cibo rispetto a quello necessario);
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la scarsa diffusione delle pratiche che consentono ai clienti di portare a casa gli “avanzi” del proprio pasto.
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E non finisce qui: gli impatti dello spreco alimentare sull’ambiente Le enormi quantità di cibo prodotto, non consumato e gettato in pattumiera hanno forti impatti sull’ambiente che ci circonda. Quando buttiamo nella spazzatura un vasetto di yogurt scaduto, infatti, non sprechiamo solo cibo e denaro, ma anche preziose risorse, come ad esempio il suolo e l’acqua. Come riportato all’inizio di questo speciale, il cibo ha richiesto energia, terra, acqua, e risorse naturali per essere prodotto. Nonostante le pesanti conseguenze dello spreco alimentare siano riconosciute, nessuno studio ha ancora analizzato e quantificato con precisione gli impatti dello spreco alimentare da un punto di vista ambientale.
Secondo la FAO l’impronta di carbonio (emissioni di gas clima-alteranti) del cibo prodotto e non consumato è stimata in 3,3 gigatonnellate di CO2: lo spreco alimentare diventa così la terza fonte di emissioni al mondo, dopo gli stati Uniti e la Cina. Oltre alla CO2, enormi quantità d’acqua sono necessarie a produrre il cibo che mangiamo ogni giorno. Si stima che l’impronta idrica a livello globale sia pari a 250 km3, tre volte il volume del Lago di Ginevra. Per quanto riguarda il suolo, lo spreco alimentare comporta un consumo di terra pari a 1,4 miliardi di ettari, ovvero quasi il 30% dell’area coperta da terreni agricoli nel mondo.
Alimenta le buone abitudini Allora che si fa? Ricordiamoci che, prima di essere consumatori, siamo cittadini e che con le nostre scelte possiamo cambiare le tendenze. Possiamo provare a ridurre i nostri sprechi modificando il nostro stile di vita, ponendo più attenzione ai nostri gesti quotidiani, anche quando facciamo la spesa. Si tratta di cambiare il nostro modo di acquistare cibo…come possiamo farlo? Di seguito qualche consiglio:
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Prima di andare a fare la spesa, facciamo una lista di ciò che effettivamente ci serve e compriamo solo quello! Non facciamoci attirare da offerte a prezzi imbattibili e da prodotti al 3X2…se compriamo di più con l’idea di risparmiare ma poi finiamo per gettarne via la gran parte, infatti, ci ritroveremo ad aver speso di più. Limitando i nostri acquisti a ciò che realmente ci serve riusciremo a tenere sotto controllo i prodotti in frigorifero, riducendo così i nostri sprechi.
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Preferiamo i produttori locali e l’agricoltura sostenibile e di piccola scala. L’agricoltore che vende direttamente al consumatore, infatti, non getta via i prodotti solo perché non soddisfano gli standard estetici del mercato. Inoltre, chi produce in modo sostenibile e su piccola scala usa meno risorse (acqua, concimi, ecc.) e produce solo ciò che sarà in grado di vendere. Loro non sprecano e di conseguenza neanche noi consumatori che decidiamo di acquistare i loro prodotti! Un esempio sono i Mercati della Terra.
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Compriamo più ingredienti e meno cibi pronti, trasformati e lavorati. In questo modo, oltre a sapere esattamente cosa mangiamo, contribuiremo a ridurre gli sprechi dell’industria alimentare.
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Impariamo a cucinare con ciò che consideriamo un avanzo. Tutte le cucine del mondo prevedono ricette anti spreco, basti pensare alle polpette, le frittate, i timballi, ecc., che uniscono gli “avanzi” di cucina in gustosi piatti.
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Riponiamo ogni alimento nel posto giusto in frigorifero: frutta e verdura nei cassetti, pesce e carne cruda al primo piano; carne cotta al secondo; affettati e formaggi più in alto; conserve aperte e uova ancora più su. In questo modo gli alimenti si conserveranno più a lungo.
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Congeliamo gli alimenti che avanzano scrivendo sul contenitore la data. Ricordiamoci, inoltre, che gli alimenti scongelati e poi cotti possono essere ricongelati.
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Prima di buttare via qualcosa, apriamo, odoriamo, assaggiamo e poi decidiamo se è veramente il caso di non mangiarlo.
Per ridurre gli sprechi occorre inoltre promuovere interventi di educazione e informazione rivolti ai consumatori, con particolare riferimento alla cultura alimentare, alla preparazione del cibo e alle corrette modalità di conservazione degli alimenti.
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Iniziative antispreco Food sharing, campagne di sensibilizzazione, corsi di cucina con gli avanzi. Fioriscono ovunque le iniziative contro lo spreco alimentare, che coinvolgono amministrazioni, associazioni ed esercizi commerciali, dalla grande distribuzione al singolo bar o ristorante per evitare lo spreco di cibo: ecco in rassegna alcune idee già messe in atto nel mondo per ispirarci, magiare meglio e non sprecare.
Last Minute Market Last Minute Market (LMM) è una società spin-off dell’Università di Bologna, nata nel 1998 come attività di ricerca e dal 2003 diventata una realtà imprenditoriale presente su tutto il territorio nazionale, con progetti volti al recupero dei beni invenduti (o non commercializzabili) a favore di enti caritativi.
I Food Share In Italia è attivo ormai da tempo I Food Share, una piattaforma on line che permette la condivisione del cibo in eccedenza. Chiunque può donare prodotti agroalimentari e metterli in condivisione per evitarne lo spreco. Possono aderire cittadini, grande distribuzione, piccoli esercenti, panificatori e aziende agricole.
Inglorious Fruits and Vegetables L’anno scorso Intermarché, la grande catena di supermercati francese, ha messo in piedi la campagna The Inglorious Fruits and Vegetables con lo scopo di salvare dal bidone della spazzatura frutta e verdura che non corrispondono al canone di acquisto oramai preponderante del “bello = buono” .
Queste sono solo alcune delle iniziative che ci sono per ridurre gli spechi alimentari. Cerca quella che fa per te e inizia subito a ridurre i tuoi sprechi!
Fonti • FAO 2011. Global food losses and food waste – Extent, causes and prevention • WWF – One planet food • Slow Food. Il nostro spreco quotidiano • Barilla Center for Food and Nutrition. Lo spreco alimentare: cause, impatti e proposte
cibo troppo imballato Vaschette di plastica al ripieno di verdura Una volta tornati a casa dopo aver fatto la spesa, provate a prestare attenzione a tutte le vaschette di frutta e verdura che in genere si buttano dopo aver riposto il loro contenuto nel frigorifero oppure ai sacchettini di plastica, a quelli di carta, alle confezioni di cartone che contengono la pasta e così via.. Al supermercato la frutta e la verdura sono spesso imballate in vaschette a volte più voluminose e pesanti di quello che contengono! Intere corsie con vaschette di plastica ripiene di frutta e verdura! Uno spreco di risorse, in termini di energia e materia prima, impiegate per produrre gli imballaggi che, una volta diventati rifiuto, si trasformano in un problema da smaltire. Escluse rare eccezioni, tutti i prodotti immessi sul mercato vengono confezionati e imballati. L’imballaggio è diventato parte integrante del prodotto e la struttura della nostra società e della nostra economia non fanno che incrementare il suo utilizzo nella distribuzione dei beni. L’introduzione degli imballaggi ha prodotto effetti sociali significativi, soprattutto nel settore alimentare. Infatti, la comparsa dei prodotti alimentari confezionati ha rivoluzionato i regimi alimentari della società industriale, aumentando il tempo di vita dei prodotti, facilitandone il trasporto e la distribuzione e permettendo il moltiplicarsi della varietà dei prodotti in vendita.
A cosa servono gli imballaggi? L’imballaggio primario ha lo scopo di proteggere e conservare l’integrità del prodotto (ad esempio la scatoletta di acciaio della conserva di pomodoro o bottiglie per bevande), mentre gli imballaggi secondari e terziari hanno la funzione di razionalizzazione gli assemblaggi e di protezione dei prodotti durante il trasporto (es. scatole di cartone in cui sono contenute le latte di pomodoro). La confezione, inoltre, rappresenta la “carta d’identità” del prodotto, che garantisce a chi lo acquista le caratteristiche del contenuto (es. data di scadenza, ingredienti). Oggi però sembra che la principale funzione dell’imballaggio sia quella pubblicitaria. In una società industriale, dove è presente la grande distribuzione, è l’imballaggio che assume il ruolo di promozione del prodotto e che induce il consumatore ad acquistare una merce piuttosto che un’altra. Tutto questo ha comportato un aumento del volume degli imballaggi, che crea notevoli problemi di gestione, con forti impatti sull’ambiente
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cibo in estinzione Che cos’è la biodiversità? L’uomo, in quanto onnivoro, si nutre di vegetali, di animali e dei loro derivati. In giro per il mondo, lo stesso apporto di calorie, di grassi e di proteine si può ricavare in tanti modi quasi quante sono le specie vegetali ed animali presenti in quell’area: questo grazie alla numerosissima varietà di piante e di animali che popolano la Terra e che gli scienziati hanno finora calcolato essere circa 1,4 milioni di specie, a cui quasi ogni giorno si aggiunge una nuova scoperta. Questa varietà delle forme di vita, chiamata biodiversità, è essenziale per gli esseri umani. La biodiversità è come un grande serbatoio da cui l’uomo può attingere pescando nei mari, raccogliendo i frutti della terra e nutrendosi degli animali. Dipendiamo, infatti, da essa per il cibo, per le sostanze curative come i farmaci, per l’acqua, per l’energia e per molti altri “servizi” che gli ecosistemi con la loro complessità ci offrono. Gli ecosistemi, nel loro insieme di organismi animali e vegetali che interagiscono con l’ambiente, contribuiscono, infatti, a migliorare la produzione delle risorse naturali, garantendo ad esempio la fertilità dei suoli, l’impollinazione delle piante e la decomposizione di vegetali e animali. Essi aiutano anche a purificare l’aria e l’acqua, attutiscono le variazioni del clima e regolano le precipitazioni piovose e gli altri eventi ambientali climatici. Le foreste ostacolano le inondazioni e limitano l’erosione. Le paludi e gli stagni filtrano gli agenti inquinanti. Ecosistemi integri negli oceani aiutano a mantenere stabili ed in buona salute le risorse ittiche, garantendo, quindi, anche alle generazioni future la possibilità di continuare a pescare.
Biodiversità in pericolo La biodiversità degli ecosistemi e delle specie è, tuttavia, sempre più minacciata dalla pressione esercitata dall’uomo, che cresce molto velocemente in numero, consumando le risorse naturali, e si espande alterando l’ambiente che lo circonda e degradando gli ecosistemi. Molte specie selvatiche rischiano, infatti, l’estinzione se gli habitat in cui vivono vengono insidiati da inquinamento, urbanizzazione e deforestazione. Questo processo distruttivo può essere accelerato da una cattiva gestione dell’agricoltura, delle foreste e delle risorse ittiche. Le liste rosse stilate dall’IUCN - Organizzazione Internazionale per la Conservazione delle Risorse Naturali - parlano chiaro: su 73.600 specie analizzate, tra anfibi, uccelli, mammiferi, farfalle, piante ecc, moltissime risultano minacciate: il 41% degli anfibi, il 33% dei coralli, il 34% delle conifere, il 25% dei mammiferi, il 13% degli uccelli.
Ad esempio, il delfino bianco (Lipotes vexillifer) del fiume Yangtze, in Cina, è considerato estinto, dopo 20 milioni di anni di esistenza della specie, a causa della pesca illegale, dell’intenso traffico fluviale e del degrado degli habitat fluviali necessari per la sua sopravvivenza (a causa della costruzione dell’imponente Diga delle Tre Gole). Senza andare troppo lontano, nei nostri mari e nei campi coltivati delle nostre regioni si verificano analoghi processi di degrado degli habitat che costringono molte specie animali e vegetali a vivere in aree frammentate e disturbate, rendendole vulnerabili e mettendone in pericolo l’esistenza. La perdita di biodiversità riguarda anche le foreste, che sono forse il più importante deposito di diversità biologica, di cui ogni anno perdiamo, però, migliaia di ettari. Gli oceani, i laghi e i fiumi del pianeta brulicano di vita, ma lo sfruttamento eccessivo e i metodi di pesca dannosi per l’ambiente minacciano anche la biodiversità acquatica. Nel Mar Mediterraneo la pesca intensiva di alcune specie ittiche sta riducendo la capacità riproduttiva delle popolazioni di pesci: l’uomo cattura, infatti, anche gli individui più giovani che non si sono ancora riprodotti e che mai più potranno contribuire a mantenere numerosa la propria popolazione.
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crediti: http://www.arkive.org/baiji/lipotes-vexillifer/image-g122268.html Il tonno rosso (Thunnus thynnus) è un triste esempio delle pratiche di pesca insostenibili portate avanti negli ultimi decenni. Esso compie ogni anno una lunga migrazione dalle coste statunitensi al Mar Mediterraneo attraversando l’intero Oceano Atlantico (più di 5 mila Km!). I banchi di tonno si dirigono nei nostri mari alla ricerca di temperature più miti per riprodursi con successo, ma da quando i pescherecci si appostano nell’Oceano Atlantico per catturare i tonni, mentre nuotano tutti insieme, la pesca è diventata ancora più efficace e la specie è sempre più minacciata. Questo tipo di pesca è alimentato anche dalla crescente richiesta di carni di tonno rosso, soprattutto dal Giappone, primo consumatore mondiale di questo grosso predatore che può arrivare fino ad una lunghezza di 2 metri e le cui carni sono perfette per le preparazioni di sushi e sashimi.
Quante specie mangiamo? La FAO - Food and Agriculture Organization - ha calcolato che dal 1900 ad oggi circa il 75% della diversità genetica mondiale delle colture agricole è andata persa. Delle oltre 350.000 specie di piante conosciute, oltre 10.000 sono commestibili, ma solo circa 150-200 sono state coltivate dall’uomo. Di queste, più della metà costituiscono le specie fondamentali per la sicurezza alimentare della maggior parte dei paesi del mondo. Oggi infatti, il 90% delle calorie che assume la popolazione mondiale deriva da sole 20 specie agricole, di cui solamente 3 ne apportano oltre il 60%, si tratta di riso, mais e grano. Si stima che durante la storia dell’umanità, siano state utilizzate circa 10.000 specie per l’alimentazione umana e l’agricoltura, e che su 50.000 specie animali conosciute, 40 siano state addomesticate (con circa 6.500 razze individuabili). Di queste, solo 14 contribuiscono per oltre il 90% alla produzione di alimenti di origine animale. Le migliaia di varietà perse non si recupereranno mai più.
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Per ricavare proteine animali, infatti, l’uomo si basa su un numero davvero ridotto di specie, sia per quanto riguarda gli organismi acquatici, sia per quelli terrestri. In Messico, invece, un piatto di larve di farfalla gigante sostituisce frequentemente una bistecca di manzo, in Finlandia il prosciutto si fa con la renna più che con il maiale, in Sud Africa le insalate sono di formiche e vermi, mentre in Australia gli spiedini si ricavano da coccodrilli e canguri.
Al di là dei giudizi morali e dei gusti a cui ogni cultura è abituata, la biodiversità è davvero una fonte inesauribile di cibo, a patto che essa venga tutelata e conservata nella sua complessità. Per questo qualsiasi sia l’animale o la pianta da cui l’uomo ricava energia sotto forma di cibo, ciò che conta è che non esaurisca tale risorsa, né che distrugga altre specie per coltivare e allevare una specie soltanto.
La biodiversità agricola Anche in agricoltura la biodiversità è in pericolo.
Gli esseri umani per il cibo dipendono infatti da un numero sempre più ridotto di prodotti agricoli e questo riduce la possibilità che alcune delle piante coltivate e degli animali allevati sappia adattarsi a cambiamenti ambientali drastici. La biodiversità agricola è rappresentata da una quantità innumerevole di piante che servono a nutrire e curare gli esseri umani. La si trova nelle varietà di colture con caratteristiche nutrizionali specifiche, nelle razze di bestiame che si sono adattate ad ambienti ostili, negli insetti che impollinano i campi, nei microrganismi che rigenerano il suolo agricolo.
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Il suolo, grazie al lavoro silenzioso e continuo di insetti, batteri, funghi e vermi, diventa fertile e gli agricoltori possono coltivare gli alimenti. I funghi e i microrganismi scompongono il materiale organico, trasferendo gli elementi nutritivi al terreno. Formiche ed altri insetti tengono sotto controllo i parassiti. Api, farfalle, uccelli e pipistrelli impollinano gli alberi da frutta.
Circa 10 mila anni fa, gli esseri umani, a partire dalla biodiversità che esisteva in natura, hanno iniziato a raccogliere semi e piante selvatiche e a coltivarle, scegliendo le varietà più produttive o quelle più resistenti ad avverse condizioni climatiche. Più o meno nella stessa epoca, hanno cominciato ad addomesticare gli animali, sfruttando la loro forza, mangiandone la carne e bevendone il latte. Oggi quella diversità genetica rimane essenziale affinché la produzione agricola mondiale possa continuare ad essere sostenibile. La diversità genetica delle piante, detta diversità fitogenetica, è, infatti, fondamentale per avere colture che producono più cibo e con un più alto valore nutrizionale.
I rischi delle monoculture Oggi, quattro specie – grano, mais, riso e patate – forniscono da sole più della metà delle calorie vegetali della dieta umana. La spinta per un aumento della produzione agricola e dei profitti ha, infatti, orientato la scelta su un numero limitato di varietà di piante ad alto rendimento. Molti agricoltori, invece di coltivare un’ampia varietà di piante come nel passato, si sono concentrati su un’unica coltura da reddito, chiamata monocoltura, che ha ridotto sensibilmente la biodiversità agricola nel mondo. Le piante da monocoltura sono spesso varietà ibride di una specie tradizionale, ossia non sono capaci di riprodursi e l’agricoltore deve annualmente acquistare nuova semente dalle imprese, ma hanno una resa maggiore, così il contadino non si preoccupa più di piantare la varietà vecchia, che lentamente sparisce. Con l’avvento della monocoltura, le pratiche agricole tradizionali sono state per questo in gran parte abbandonate e un elevato numero di varietà di piante e di razze animali locali sono silenziosamente scomparse, ossia si sono irreversibilmente estinte.
Se le poche produzioni agricole di oggi non riescono ad adattarsi ai mutamenti dell’ambiente, ai cambiamenti come il riscaldamento globale, o a nuove malattie e nuovi insetti nocivi ci potremmo trovare veramente in grave difficoltà. Gli agricoltori, come custodi della biodiversità del pianeta, hanno la possibilità di coltivare e mantenere le piante e gli alberi locali e di riprodurre gli animali autoctoni, assicurandone così la sopravvivenza. Per i contadini, la biodiversità può essere inoltre la migliore difesa contro la fame: infatti, nelle regioni del mondo dove la sfida è sopravvivere, i contadini hanno bisogno di colture che crescano al meglio in condizioni climatiche difficili avverse, più che di varietà con un buon rendimento in condizioni favorevoli, e hanno bisogno di animali più resistenti alle malattie, anche se di taglia più piccola.
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I servizi offerti dalla biodiversità: un bene comune Anche i consumatori, sia dei paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo, traggono beneficio dal disporre di un’ampia varietà di piante ed animali, perché ciò contribuisce in modo decisivo ad una dieta nutriente: spesso le comunità rurali hanno un accesso limitato ai mercati e diventa indispensabile la disponibilità della più ampia gamma di alimenti locali.
Quello che spesso noi consumatori non sappiamo è che il cibo che mangiamo è “creato” dalle poche aziende multinazionali che dominano il mercato dei prodotti agricoli e di quelli zootecnici: i semi di soia, di mais e delle altre colture che i contadini acquistano sono tutti della stessa varietà e non sono fertili, cioè non si riproducono (o molto poco), costringendo gli agricoltori a rifornirsi l’anno successivo dalla stessa multinazionale per poter continuare nel tempo a produrre.
Lo sapevi? Il 99% dei tacchini allevati negli Stati Uniti appartiene ad una varietà che sviluppa un petto molto ampio, da cui l’industria alimentare ricava la fesa di tacchino. Il petto è così ingombrante che impedisce ai tacchini di riprodursi: solo l’inseminazione artificiale fatta dall’uomo può garantire la sopravvivenza di questa specie, mentre in natura solo l’1% è capace di riprodursi da solo. Nel 1840 l’Irlanda aveva scelto di basare la propria economia su un’unica varietà di patata, ma quando un fungo attaccò le coltivazioni distrusse tutti i raccolti del Paese, generando una situazione di carestia in tutta la nazione.
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cibo da OGM Cosa sono gli OGM? Per produrre maggiori quantità di alimenti e per migliorarne la qualità nutrizionale, negli ultimi trent’anni i laboratori di biotecnologie di tutto il mondo hanno lavorato per creare degli organismi geneticamente modificati (OGM), detti anche organismi transgenici. Un OGM è un organismo nel cui corredo cromosomico è stato inserito, grazie a tecniche di ingegneria genetica, un gene estraneo preso dal DNA di un organismo di specie diversa. In questo modo l’organismo che riceve la nuova porzione di DNA acquista le caratteristiche dell’organismo “donatore”. Questo intervento ha permesso di modificare le colture agricole per conferire loro principalmente due caratteristiche: la resistenza agli erbicidi e la resistenza agli insetti. Anche per alcuni animali allevati sono stati sviluppate sperimentazioni di ingegneria genetica, per renderli più produttivi o più resistenti alle infezioni, ma la complessità degli organismi animali ha limitato l’applicazione rispetto a quanto avvenuto in agricoltura.
Buoni o cattivi? Gli OGM rappresentano una delle più discusse biotecnologie ad oggi utilizzate nel settore agricolo. Sulla potenziale dannosità degli OGM è, infatti, in corso un acceso dibattito tra chi ritiene che i vantaggi per la società siano maggiori rispetto ai possibili effetti sull’ambiente
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e sulla salute umana e chi, invece, afferma che si sappia troppo poco per poterli utilizzare e che l’ambiente risentirà dell’inquinamento genetico con numerose conseguenze: le piante infestanti diventeranno anch’esse resistenti agli erbicidi, quindi, se ne dovranno usare maggiori quantità perché siano efficaci, i parassiti si evolveranno diventando capaci di attaccare anche le colture GM (Geneticamente Modificate) e si tornerà ad applicare gli insetticidi in ingenti quantità, per cui scompariranno, insieme ai parassiti, molte altre specie di insetti e la biodiversità si ridurrà ulteriormente.
Dove si coltivano i cibi OGM? Nel 1996 erano 1,7 milioni di ettari. Nel 2015 quasi 180 milioni. Sono cresciute di cento volte in vent’anni le coltivazioni biotech sebbene, per la prima volta, nel 2015 la crescita della coltivazione OGM abbia rallentato. Dopo aver raggiunto il picco dei 181,5 milioni di ettari coltivati nel 2014, nel 2015, infatti, si è avuto un piccolo calo, scendendo a 179,7 milioni di ettari. Un diminuzione di circa l’1%. A guidare la lista delle coltivazioni biotech sono la soia, mais, cotone e canola, mentre per i paesi la classifica è dominata da Usa, Brasile, Argentina, India e Canada. In particolare, gli Stati Uniti continuano a guidare la produzione biotech con 70,9 milioni di ettari (39% del totale), con un decremento di 2.2 milioni di ettari rispetto al 2014. Il Brasile si conferma al secondo posto con 44,2 milioni di ettari (25% del totale) con un incremento di 2 milioni di ettari rispetto al 2014. Al terzo posto si trova l’Argentina con 24,5 milioni di ettari; poi l’India con 11,6 milioni di ettari ed il Canada con 11 milioni di ettari (circa -5% rispetto al 2014). L’International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications (Isaaa) fornisce tutti I dati e le informazioni sulle coltivazioni geneticamente modificate. http://www.isaaa.org/default.asp
Contro gli insetti Il 68% degli OGM coltivati sono stati “costruiti” in modo che siano in grado di sopravvivere all’irrorazione degli erbicidi, mentre il 19% determina la morte di quegli insetti che si nutrono della pianta stessa, “esprimendo” la proteina Bt, che attacca l’apparato digerente dei parassiti e ne determina la morte. Questa proteina è prodotta dall’OGM poiché è stato in esso inserito il gene Bt proveniente dal batterio Bacillus thuringiensis. Questo batterio, che vive nel terreno, produce una proteina che diventa tossica solo nell’intestino dell’insetto e ne determina la morte. La proteina non è tossica per l’uomo o per altri animali, infatti, prima dell’invenzione di queste sofisticate tecniche di ingegneria genetica, veniva utilizzata come insetticida naturale, in particolare in Canada, per proteggere le foreste dall’attacco degli insetti.
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Questa tecnologia consente nelle piante di mais di ridurre gli insetti dannosi e la contaminazione da parte di batteri, virus e funghi che possono produrre micotossine cancerogene. Infine, il 13% di tutti gli OGM coltivati è composto da piante che presentano entrambi i caratteri di resistenza ad un erbicida o di resistenza ad insetti.
Resistere agli erbicidi La resistenza agli erbicidi, in particolare al glifosato e al glifosinato, è conferita agli OGM con la stessa tecnica con cui si inserisce il gene Bt contro gli insetti.
In questo modo si possono sterminare tutte la piante infestanti utilizzando erbicidi biodegradabili, innocui per l’uomo e per gli animali, senza ulteriori trattamenti con prodotti chimici altamente dannosi per l’ambiente e per la salute.
La tendenza attuale della ricerca internazionale sembra essere maggiormente orientata verso la creazione di OGM resistenti a organismi patogeni, come i virus, più che agli erbicidi, e verso l’individuazione di geni portatori di qualità e resistenti a stress ambientali.
Chi produce i semi OGM?
Già prima dell’arrivo degli OGM, le principali industrie produttrici di sementi selezionavano, con metodi tradizionali (cioè per incroci successivi), le piante più adatte ad assorbire fertilizzanti o più resistenti ai pesticidi. Con l’avvento dell’ingegneria genetica, le multinazionali dell’agrochimica che producono fertilizzanti e pesticidi, come Bayer, Monsanto, Syngenta, BASF e Dupont, hanno esteso le loro attività anche alla produzione sementiera con l’obiettivo di creare coltivazioni OGM funzionali all’uso di input chimici. In questo modo si vendono semi transgenici corredati di prodotti che aumentano la produttività delle coltivazioni, come gli erbicidi, senza danneggiare le colture. L’esempio più noto è quello della Monsanto, multinazionale agrochimica che ha investito nella ricerca biotecnologica per sviluppare sementi che resistessero al suo principale prodotto: l’erbicida Round Up. Il brevetto sul suo principio attivo, il glifosato, è scaduto nel 2000 esponendo la Monsanto alla concorrenza di altre aziende. La risposta della multinazionale sarebbe dovuta essere quella di ridurre il prezzo del Round Up e di rinunciare ad una parte dei profitti, per continuare a garantirsi un livello alto di vendite. Gli Ogm “Round Up Ready” (resistenti al glifosato) sono stati una soluzione ottimale: chi avrebbe acquistato le sementi Monsanto sarebbe stato vincolato all’utilizzo dell’erbicida “abbinato”. In questo modo la concorrenza non avrebbe trovato spazi di mercato da occupare.
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Semi: un patrimonio comune Le leggi di molti Paesi permettono di brevettare i semi GM trasformandoli, quindi, in un prodotto di proprietà dell’azienda. L’azienda che vende agli agricoltori i pacchetti “OGM-pesticida” guadagna, quindi, in tre passaggi diversi: nella vendita del pesticida, nella vendita della coltura transgenica resistente al pesticida e nell’applicazione dei diritti sul brevetto (royalties), che si concretizza con un sovrapprezzo rispetto alle sementi tradizionali. In particolare, l’azienda può esigere che gli agricoltori ricomprino i semi ogni anno, o che paghino i diritti sulla tecnologia della semente transgenica quando utilizzano una parte del raccolto precedente per la nuova semina. D’altro canto i contadini non sono convinti che sia giusto riconoscere questi diritti speciali alle aziende che vendono i semi GM: è vero che esse hanno messo a punto delle caratteristiche nuove nei loro prodotti, ma è anche vero che la materia prima di partenza, il DNA delle specie viventi, è un patrimonio comune, frutto di centinaia di milioni di anni di evoluzione naturale e interazioni anche con l’uomo, specialmente con gli allevatori e i contadini di migliaia di generazioni. Tuttavia, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1980 ha stabilito che un microrganismo che “mangiava il petrolio” poteva essere brevettato (il brevetto appartiene all’industriale Chakrabarty), come se fosse stato un ritrovato tecnologico “frutto dell’ingegno umano” e non un essere vivente. Da quel momento tutte le aziende sementiere, e poi agrochimiche, hanno cominciato a rivendicare diritti sulle piante ottenute in laboratorio, come se fossero semplici manufatti. Fino all’arrivo degli OGM ogni contadino poteva conservare una parte del raccolto per riseminare alla stagione successiva senza dover niente a nessuno. Invece, da quando comincia a produrre coi semi “inventati” e brevettati dai biotecnologi di un’industria, ad ogni semina dovrà pagare una quota, anche se l’industria non fa più nessuno sforzo. Un po’ come comprare una mucca, curarla ed alimentarla a proprie spese e dover pagare una tassa a chi ce l’ha venduta tutte le volte che la mungiamo.
Gli OGM in europa Per quanto riguarda gli OGM, l’Unione Europea ha adottato un approccio precauzionale che impone un’autorizzazione prima di poter introdurre sul mercato un qualsiasi organismo OGM, e un monitoraggio ambientale successivo all’immissione in commercio di qualunque OGM autorizzato. Questo approccio garantisce un elevato livello di protezione della salute umana e animale e dell’ambiente. L’organo preposto alla valutazione dei possibili rischi conseguenti all’introduzione di un OGM è l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), in collaborazione con gli organismi scientifici degli Stati membri, che deve valutare che, nelle condizioni di impiego previste, il prodotto è sicuro per la salute umana e animale e per l’ambiente. La legislazione impone inoltre un monitoraggio dell’ambiente successivo all’immissione sul mercato di ciascun OGM autorizzato; ciò consente alla Commissione e agli Stati membri di adottare le misure necessarie qualora si verifichino effetti nocivi non previsti. Vengono infine imposti obblighi di tracciabilità e di etichettatura per tutti gli OGM autorizzati con l’obiettivo di informare i consumatori garantendo la loro libertà di scelta. Per quanto riguarda la normativa, è il regolamento (CE) n. 1829/2003 relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati che stabilisce una procedura per l’adozione di decisioni volte a rilasciare o rifiutare l’autorizzazione all’immissione sul mercato di alimenti e mangimi geneticamente modificati, nonché alla coltivazione di piante destinate alla produzione di alimenti e mangimi. Attualmente in Europa si coltiva per scopi commerciali un tipo di granturco GM, il “MON 810”. La modificazione genetica di questo prodotto mira a proteggere le colture da un dannoso parassita - la piralide del granturco - ed è stata autorizzata nel 1998. Il MON 810 è coltivato in cinque Stati membri con una copertura totale (nel 2013) di quasi 150 000 ettari (di cui 137 000 ettari in Spagna), vale a dire meno dell’1,5% della superficie totale dell’UE coltivata a granturco. Nel 2013 la coltivazione di OGM copriva 175 milioni di ettari di terreno a livello mondiale (soprattutto soia, granturco, colza e cotone). Va ricordato che nel 2010 una patata da fecola GM, nota come patata “Amflora”, è stata autorizzata a fini
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di coltivazione e trasformazione industriale nell’UE. Tale organismo non è più autorizzato nell’UE. Oltre alla coltivazione, anche l’immissione sul mercato dell’UE degli OGM e l’uso dei loro prodotti derivati nella catena alimentare umana e animale sono soggetti a un’autorizzazione dell’UE, che viene rilasciata in seguito ad una valutazione esaustiva, effettuata dall’Autorità
europea per la sicurezza alimentare in collaborazione con gli organismi scientifici degli Stati membri, dalla quale risulti che non vi sono rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente. Ad oggi sono 58 gli OGM autorizzati nell’UE a fini di alimentazione umana ed animale (tra i quali granturco, cotone, soia, colza, barbabietola da zucchero). L’elenco delle piante geneticamente modificate autorizzate e l’esatta portata della loro autorizzazione sono disponibili nel registro UE degli alimenti e dei mangimi geneticamente modificati, consultabile al seguente indirizzo: http://ec.europa.eu/food/dyna/gm_register/ index_en.cfm
OGM per ridurre la fame nel mondo Secondo la FAO, l’obiettivo delle biotecnologie moderne e convenzionali (non solo finalizzate alla produzione di OGM) dovrebbe essere riorientato, così da riuscire a portare benefici ai contadini poveri dei paesi in via di sviluppo e non solo ai contadini ricchi dei paesi sviluppati. L’eccessiva competitività tra multinazionali, infatti, ha innescato meccanismi viziati da esigenze commerciali ed economiche, portando in secondo piano i benefici concreti che gli OGM potrebbero apportare in condizioni di denutrizione e povertà. Le biotecnologie non hanno finora avuto un impatto positivo sulle condizioni di vita delle popolazioni della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, poichè nella maggior parte
di questi paesi mancano le tecnologie appropriate, le politiche, le capacità tecniche e le infrastrutture necessarie per il loro sviluppo. Sempre secondo la FAO, le nuove tecnologie dovrebbero dare il loro contributo anche tramite un incremento dell’efficienza ed una migliore gestione dei fattori produttivi e della biodiversità, cosa che ancora non avviene. Per realizzare questo obiettivo saranno necessari un maggiore coinvolgimento dei contadini, delle istituzioni e delle comunità locali, politiche favorevoli, sostegno istituzionale, investimenti in capitale umano e fisico e nella costruzione delle capacità a livello di paese. La comunità internazionale, infine, deve avere un ruolo chiave nel sostenere i paesi in via di sviluppo promuovendo partenariati, fornendo un quadro regolamentare per la cooperazione internazionale e supporto finanziario per la creazione, l’adattamento e l’adozione di biotecnologie appropriate.
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cibo biologico Coltivare in modo sostenibile Significa promuovere la biodiversità , tutelare l’ambiente, prediligere le produzioni locali, garantire il rispetto dei diritti umani dei lavoratori, tutelare le comunità e garantire la sostenibilità economica del sistema agricolo senza dimenticare i piccoli produttori!
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L’agricoltura sostenibile Questo tipo di agricoltura nasce in risposta ai problemi ambientali provocati dalla “rivoluzione verde” e dai suoi metodi produttivi ad alto impatto ambientale (intenso utilizzo di acqua, di pesticidi e fertilizzanti chimici); proprio per evidenziare il contrasto tra questi due metodi produttivi, il movimento mondiale verso l’agricoltura sostenibile è stato definito “la vera rivoluzione verde”. Per poter arginare gli impatti ambientali delle moderne produzioni agricole e per poter quindi rendere l’agricoltura più sostenibile, una delle soluzioni adottate è il ritorno ai tradizionali metodi di coltivazione, come, ad esempio, l’agricoltura biologica. Esistono vari metodi per poter coltivare in modo sostenibile e l’agricoltura biologica è uno di questi. Essa differisce dagli altri tipi di agricoltura per molti aspetti: favorisce le risorse rinnovabili e il riciclo, restituendo al suolo i nutrienti presenti nei prodotti di rifiuto. Per il controllo delle malattie e degli insetti nocivi si rispettano i meccanismi naturali dell’ambiente e si evita l’impiego di fitofarmaci di sintesi, fertilizzanti, ormoni della crescita, antibiotici o manipolazioni genetiche. In alternativa, gli agricoltori biologici fanno ricorso ad una serie di tecniche che contribuiscono al mantenimento degli ecosistemi e che riducono l’inquinamento.
L’agricoltura biologica non è un sistema innovativo, poiché prima dell’invenzione dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, era l’unica tipologia di coltivazione utilizzata al mondo! In molti dei paesi del mondo in cui la “rivoluzione verde” degli anni ‘60 non è arrivata, ancora oggi si coltiva in modo del tutto biologico! Basti pensare che l’80% dei coltivatori dei paesi in via di sviluppo non dovrebbero cambiare in alcun modo i loro sistemi di produzione se decidessero di essere certificati “biologici”! Secondo le più recenti indagini, sono attualmente coltivati a biologico circa 43,7 milioni di ettari, pari all’1% dei terreni agricoli mondiali, e le aziende che coltivano prodotti biologici hanno raggiunto quota 2,3 milioni. Il continente con l’estensione maggiore di superfici coltivate a biologico, pari al 40% del totale mondiale, è l’Oceania; al secondo posto si colloca l’Europa (27%) seguita dall’America Latina (16%); in Asia, Nord America e Africa le superfici coltivate a biologico hanno un’estensione inferiore al 10%. Il Paese con la maggiore superficie coltivata a biologico è l’Australia, con 17,3 milioni di ettari. (fonte dati: IFOAM, Annual Report 2015, https://www.ifoam.bio/en/our-library/annual-reports) E’ anche possibile allevare in modo biologico: esistono degli impianti di acquacoltura biologici e anche degli allevamenti biologici. Quindi è possibile trovare sul mercato sia pesce biologico che carne e prodotti derivati del latte con la certificazione biologica!
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Oltre al biologico... Oltre all’agricoltura biologica, vengono praticate anche l’agricoltura integrata, quella conservativa e quella biodinamica. L’agricoltura integrata si propone di garantire un minor impatto ambientale, di tutelare la biodiversità e di ridurre i rischi per la salute dei lavoratori agricoli e dei consumatori, riducendo al minimo l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (come pesticidi e fertilizzanti) e prediligendo, al loro posto, prodotti naturali. Inoltre questo sistema cerca di utilizzare l’acqua in modo razionale, previene i fenomeni erosivi e garantisce la fertilità del suolo, praticando l’avvicendamento colturale oltre che la pratica del “sovescio” che consiste nell’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno.
L’agricoltura conservativa consiste in una serie di pratiche agronomiche che permettono una migliore gestione del suolo, limitano gli effetti negativi sulla sua composizione, sulla struttura, sul contenuto di sostanza organica e sull’entità del processo di erosione e conseguente degradazione. Alcune tecniche che caratterizzano l’agricoltura conservativa sono: la semina diretta su terreno non lavorato o lavorato al minimo, senza bruciatura o interramento dei residui colturali e l’instaurazione di una copertura vegetale costituita da specie erbacee annuali in successione o da specie arboree pluriennali e da specie forestali. I vantaggi di questo sistema produttivo sono molteplici: si passa dalla riduzione del consumo di energia, dovuto al modesto impiego di macchine agricole, alla conseguente riduzione di emissioni di CO2 in atmosfera. Inoltre altri benefici consistono nella riduzione dei costi di produzione e, in un’ottica etica, nella salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali per le generazioni future.
Infine, vi è l’agricoltura biodinamica che utilizza le rotazioni agricole, i preparati biodinamici, il calendario lunare e planetario per le semine e per le altre operazioni colturali, le lavorazioni non distruttive del terreno, la tecnica del compostaggio e la concimazione di qualità attraverso sovesci particolari.
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cibo e salute Non c’è più la verdura di una volta! L’industrializzazione dei processi di produzione e distribuzione alimentare ha comportato, negli ultimi decenni, l’introduzione di pesticidi, conservanti, antibiotici, ormoni e sostanze artificiali a sostegno di sistemi sempre meno connessi alle caratteristiche del territorio. Oltre a ciò, gli alimenti stessi hanno perso molti dei valori nutrizionali per cui l’uomo ha iniziato a cibarsene. Spesso le lunghe distanze che percorrono i cibi richiedono che essi vengano raccolti dal terreno prima che giungano a maturazione, per poter arrivare sulle tavole dei consumatori ben conservati. Se gli alimenti non arrivano da lontano ma sono cibi fuori stagione, quindi, coltivati in serra, ancora una volta si presenta la possibilità che l’alimento non contenga le sostanze nutritive che naturalmente svilupperebbe. Ad esempio, il pomodoro coltivato in serra viene raccolto ancora verde, per questioni di distribuzione su ampia scala, e matura “artificialmente” nel periodo di tempo tra la raccolta e la vendita. I pomodori che acquistiamo a gennaio sono, quindi, rossi, ma non contengono, a differenza di quelli raccolti già maturi dai campi, quelle sostanze benefiche (i polifenoli e i flavonoidi) che la medicina ci dice di assumere per combattere l’invecchiamento della pelle e per ridurre le probabilità di insorgenza di tumore. Lo stesso vale per le carote che al supermercato sono già lavate, pulite e tritate: esse hanno perso molti dei carotenoidi che le rendono un ottimo cibo per la salute dell’uomo! Possiamo dire, quindi, che sia la filiera lunga (cibo da lontano), sia il cibo fuori stagione, sia il cibo pronto sono tipologie di alimentazione che contribuiscono, per la loro stessa natura, a far perdere molte delle sostanze organolettiche proprie degli alimenti e a introdurre sostanze
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chimiche estranee per migliorare la conservazione dei cibi e per aumentare la qualità esteriore ed estetica del prodotto.
Intrusi nel piatto Per le verdure si devono applicare fungicidi per portare sui banchi di vendita dei cibi in perfette condizioni e per la carne occorre somministrare coloranti che ne invoglino l’acquisto. Prima ancora di arrivare al prodotto finito dobbiamo, però, riflettere sui processi produttivi veri e propri: i pesticidi presenti sulla buccia della mela che stiamo per mordere scompaiono con un po’ di acqua del rubinetto? E dove vanno a finire gli ormoni e gli antibiotici che vengono mescolati ai mangimi utilizzati per nutrire gli animali da cui si ricavano, poi, hamburger di manzo, petti di pollo e fettine di vitello? Studi scientifici dimostrano che esiste una correlazione tra alcune patologie e la presenza di sostanze chimiche negli alimenti: gli effetti sulla salute umana sono, quindi, dovuti alle connessioni che esistono tra i composti chimici che le piante assorbono durante la loro crescita e i frutti che producono, tra le sostanze che assumono gli animali e gli alimenti che derivano da essi, come la carne, il latte, il formaggio, le uova.
Mucche pazze La mucca pazza (BSE – Encefalopatia Spongiforme Bovina) è uno degli esempi di come la salute umana sia stata messa in pericolo da un’alimentazione non controllata in cui gli allevatori hanno ripetutamente nutrito i bovini con farine animali di capi infetti, trasmettendo la malattia anche agli animali pronti per essere macellati.
Poiché la malattia si manifesta dopo molti mesi di incubazione, i capi infetti, divenuti numerosi, sono stati messi in commercio prima che si registrassero dei sintomi e la malattia ha raggiunto l’uomo: la molecola proteica portatrice dell’infezione si trova nelle ossa e nel midollo osseo e sopravvive anche alle elevate temperature di cottura della carne.
Benessere degli animali Anche le condizioni di stress in cui crescono gli animali allevati possono contribuire a “inquinare” la carne, poiché gli animali producono acido lattico che ne facilita l’attacco da parte dei batteri. Questo richiede a sua volta la somministrazione di conservanti per consentire la commercializzazione del prodotto. Dall’analisi di prodotti zootecnici provenienti da piccoli allevamenti è emerso che lo stato di benessere degli animali contribuisce ad aumentare la qualità delle carni, poiché le elevate concentrazioni di glicogeno prodotte dagli animali le rendono più morbide e saporite e meno soggette all’attacco di batteri. Lo stesso vale per un suolo ricco di sostanza organica e di sali minerali, che è capace di nutrire le colture in modo da produrre ortaggi con elevate proprietà organolettiche (come odore e sapore) e sostanze nutritive sviluppate in riposta alla naturale maturazione al sole.
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cibo equo Cos’è il commercio equo e solidale? Il cibo che mangiamo a volte proviene da molto lontano, prodotto nei paesi in via di sviluppo dove il lavoro minorile è molto diffuso e dove le condizioni di lavoro sono critiche in termini di compensi, salute, sicurezza e di diritti umani. Inoltre spesso le condizioni di scambio tra paesi occidentali importatori e paesi del sud del mondo, che esportano le proprie materie prime, sono poco vantaggiosi per questi ultimi. Il Commercio Equo e Solidale (Fair Trade) è un approccio alternativo al commercio convenzionale: nato da oltre 60 anni per battersi contro le ingiustizie e le iniquità del sistema economico mondiale, ha come scopo principale quello di promuovere la giustizia sociale ed economica e lo sviluppo sostenibile, attraverso il commercio e altre azioni.
Il Commercio Equo e Solidale risponde a importanti linee guida:
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Garantire ai piccoli produttori nel Sud del mondo un accesso diretto e sostenibile al mercato, al fine di favorire il passaggio dalla precarietà ad una situazione di autosufficienza economica e di rispetto dei diritti umani
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Rafforzare il ruolo dei produttori e dei lavoratori come primari stakeholders (portatori di interesse) nelle organizzazioni in cui operano
•
Agire ad ampio raggio, anche a livello politico e culturale, per raggiungere una maggiore equità nelle regole e nelle pratiche del commercio internazionale.
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Rispetto di buoni principi Tutti i prodotti del commercio equo e solidale, che siano prodotti alimentari o prodotti d’artigianato, rispettano i seguenti criteri:
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Pagamento di un prezzo equo. Il prezzo d’acquisto delle materie prime viene accordato direttamente con il produttore: si tratta di un prezzo che non copre soltanto i costi sostenuti per produrre una determinata materia prima ma che rende possibile una produzione rispettosa dell’ambiente, dei lavoratori e delle comunità.
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Equità di genere. Il lavoro delle donne non è soggetto a discriminazioni ma è remunerato come il lavoro degli uomini.
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Migliori condizioni di lavoro. Commercio equo vuol dire garantire condizioni di lavoro dignitose, migliori compensi e un ambiente di lavoro sicuro e salutare.
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Lotta al lavoro minorile. Le organizzazioni che promuovono il commercio equo rispettano la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia così come le leggi e le norme sociali locali: in questo modo assicurano che, nel caso in cui i bambini partecipassero ai processi produttivi, questo avvenga senza che il lavoro metta in pericolo la loro sicurezza e soprattutto nel rispetto del loro bisogno di giocare e del loro diritto ad un’istruzione.
•
Rispetto dell’ambiente. Il commercio equo incoraggia produzioni rispettose dell’ambiente.
•
Migliori relazioni commerciali. Il commercio equo non cerca di trarre il maggior profitto dagli scambi commerciali gravando sui piccoli produttori dei paesi in via di sviluppo da cui acquistano le materie prime. Le relazioni che vengono instaurate sono dirette (quindi evitano intermediazioni speculative), durature (consentono ai produttori di programmare le proprie attività) e basate sulla solidarietà, sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
Oggi grazie al Commercio equo e solidale vivono più dignitosamente circa 7 milioni di persone nei paesi del sud del mondo, tra produttori e rispettive famiglie. Tra i prodotti alimentari del commercio equo, che si possono trovare in molti supermercati e nelle botteghe del mondo, ci sono: caffè, miele, cioccolata, muesli, succo d’arancio, banane fresche, tè, spezie. Tra i marchi che contraddistinguono questi prodotti, solo in Italia, ricordiamo: Fairtrade, Ctm Altromercato, Commercio Equo.
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Le organizzazioni del commercio equo e solidale Le organizzazioni del Fair Trade (FTOs - Fair Trade Organizations) che aderiscono a WFTO (World Fair Trade Organization), la federazione mondiale del Commercio Equo e Solidale, sono coinvolte attivamente nell’assistenza tecnica ai produttori, nell’azione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni e nello sviluppo di campagne volte al cambiamento delle regole e delle pratiche del commercio internazionale.
WFTO definisce gli standard, ovvero i criteri generali che gli operatori di Commercio equo ad essa accreditati sono vincolati a rispettare, e un codice di condotta condiviso, in un’ottica di verifica del corretto operato di tali organizzazioni e di trasparenza verso i consumatori e gli altri interlocutori.
cibo per muoversi Coltivare cibo per produrre carburante Il mondo è alla ricerca di nuove fonti energetiche che possano sostituire il petrolio e che allo stesso tempo possano mitigare gli effetti del riscaldamento del pianeta. Ecco perché una sempre crescente percentuale di coltivazioni agricole è dedicata alla produzione di biocarburanti. I biocarburanti si ricavano da tutte quelle materie biologiche che contengono amido, zucchero o grasso/olio. Attualmente i biofuel (biocarburanti) più utilizzati sono quelli di “prima generazione”, come il biodiesel e il bioetanolo, ricavati da piante, come la palma, la canna da zucchero, il mais, e utilizzati principalmente nei mezzi di trasporto: Stati Uniti, Brasile, Germania, Cina e Argentina sono i maggiori produttori di biocarburanti.
Vantaggi e svantaggi La produzione di biocombustibili ha dei vantaggi ma anche dei limiti. In uno scenario energetico futuro, in cui le scorte di petrolio saranno sempre più difficili da raggiungere e utilizzare, i biocombustibili sarebbero una valida alternativa di energia rinnovabile, visto che basta coltivarli: le automobili potrebbero continuare a muoversi ad alcool! Chi si dice favorevole all’utilizzo di biocarburanti adduce come ulteriore vantaggio la capacità dei biocarburanti di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, assorbendo l’anidride carbonica presente in atmosfera che è responsabile dell’effetto serra.
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Tuttavia, la stessa quantità di anidride carbonica assorbita viene prodotta durante la lavorazione dei raccolti e, successivamente, anche durante la combustione del biocarburante stesso. Fattore altrettanto importante è la sicurezza alimentare (ossia la possibilità per tutti di avere accesso al cibo) che già oggi è messa in discussione dal crescente impiego di biocarburanti, poiché l’utilizzo di terreni agricoli e di acqua per la coltivazione di piante destinate alla produzione di biocombustibili avrebbe, secondo molti esperti del settore, contribuito all’aumento dei prezzi dei cereali che si sta verificando recentemente. Inoltre, occorrerebbe convertire vaste superfici del pianeta a questo tipo di coltivazione per ottenere le stesse quantità di energia disponibili oggi, distruggendo molti ecosistemi preziosi, come le foreste tropicali, riducendo quindi la biodiversità.
Un piano B Per fortuna abbiamo un piano B! Sono oggi in commercio i biocarburanti di “seconda generazione”, prodotti a partire da materiali non commestibili di origine vegetale, come piante erbacee e legnose, che possono crescere su suoli non agricoli, oppure a partire da residui agricoli e forestali o rifiuti urbani e industriali: tutto ciò è già disponibile sulla terra in grande quantità! La ricerca sta già lavorando a biocarburanti di “terza generazione”, cercando di creare materie prime capaci di fornire più energia, come, ad esempio, alberi di pioppo con bassi contenuti di lignina per rendere il processo di lavorazione più facile. Ma si parla anche di “quarta generazione” di biocarburanti, basata su microrganismi geneticamente modificati in grado di catturare grandi quantità di CO2 e di produrre combustibile utile all’uomo come prodotto di scarto.
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cibo e culture Un’introduzione all’antropologia dell’alimentazione Dopo un viaggio in luoghi lontani, dopo aver soggiornato per molto tempo in comunità, famiglie, città con abitudini alimentari diverse, al ritorno i nostri amici o genitori ci chiedono spesso cosa abbiamo mangiato, come e con chi. Non bisogna andare per forza al di là del Pacifico per trovare cibi e pietanze diversi dalle nostre, basta solo muoversi in Europa. Perché viaggiare significa conoscere persone e popoli diversi e uno dei primi contatti è rappresentato dal cibo. Sedersi (quando ci sono le sedie e i tavoli) insieme ad altre persone e assaggiare i piatti autoctoni sono azioni che ci introducono alle esperienze locali di vita collettiva. Questo aspetto, che sembra così banale e scontato nella nostra quotidianità, assume sfumature di divertimento, di paura e di difficile comprensione quando ci troviamo in contesti diversi dai nostri. Chi è stato all’estero e decide di mangiare in un ristorante, in una trattoria, o viene invitato a condividere un pasto, deve capire una grammatica fitta di regole composta dal saper scegliere un determinato cibo (ma cosa sarà quella cosa che c’è nel piatto?), saperlo chiedere (ma cosa ci sarà scritto sul menù? E se poi non c’è il menù e devo chiederlo da solo?), sapersi relazionare con i propri commensali (ma dove mi dovrò sedere? E come? Quale mano devo usare per prendere il cibo? Posso sedermi vicino a uomini e donne o è meglio se rimango vicino a persone del mio genere? Posso parlare mentre mangio o è meglio se sto zitto?), sapere gestire il dopo pranzo/cena (ma gli orari sono quelli in cui mangio io?), occuparsi dell’adeguatezza degli indumenti e dell’igiene personale e infine, anche se non ultimo affatto, conoscere i precetti religiosi che ogni pasto può evocare (sono invitato a una festa religiosa? Se in questa festa sono vietati alcuni cibi o le persone digiunano, come mi devo comportare?). Tutte queste domande affollano la mente degli antropologi quando vanno a lavorare sul campo per mesi o anni mentre cercano di imparare a comportarsi secondo le pratiche comuni delle comunità per esserne accettati. È chiaro che i contesti dove si soggiorna possono presentare singole specificità e, risiedere a New York sarà sicuramente diverso da un piccolo paese lappone o da qualche isola della Melanesia. Ma pur nella molteplicità delle situazioni, le domande che ricorrono sono spesso quelle
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proposte. Ciò che risulta chiaro, quando usciamo dalla nostra cultura, è che niente è scontato e bisogna imparare da capo regole e pratiche.
Le correnti principali Nel Novecento diversi antropologi si sono occupati di nutrizione contribuendo a svincolare la nozione di “cibo” dalla sua mera accezione di “nutrimento”, inteso come soddisfacimento di un bisogno fisiologico, per evidenziarne la natura di costruzione culturale, elaborata dalle comunità umane nel corso dei secoli. Ciò che mangiamo è il frutto della storia della specie umana, che ha imparato a usare il fuoco, a sperimentare tecniche di cottura, a riconoscere i cibi velenosi, a elaborare pietanze in modo articolato e a muoversi sul territorio, esportando gusti e ingredienti in luoghi diversi. L’antropologia storica ci ricorda l’importanza delle cosiddette piante di civiltà, ossia le basi alimentari per lo sviluppo di culture complesse, come il grano in Europa e nel vicino Oriente, il mais in Messico, la patata nelle Ande e il riso in Asia.
L’evoluzione delle pratiche di alimentazione umana è un processo storico di lunga durata, in cui l’insieme delle conoscenze ed esperienze relative all’approvvigionamento (caccia, pesca, raccolta, allevamento, agricoltura ecc.) e alle prassi trasformative dei generi alimentari si accumula e si radica nelle prassi sociali umane nell’arco di generazioni. Gli alimenti, così come i procedimenti che ne plasmano la commestibilità e la fruibilità, divengono così il fulcro di relazioni culturali estese, plasmate da dinamiche economiche, sociali e politiche interne a processi storici determinati.
Gusti e disgusti: tesi a confronto Le tesi di alcuni studiosi analizzano il disgusto versi certi cibi, o le preferenze verso altri con il primordiale timore di essere contaminati da organismi patogeni oppure dalla paura di assumere le caratteristiche del cibo mangiato. Questa corrente si differenzia in due prospettive: una che ha una matrice igienico-sanitaria e si basa sul concetto moderno di malattia per cui si mangiano determinati alimenti in base alle loro caratteristiche nutrizionali. L’altra corrente invece richiama un pensiero magico-religioso che James Frazer, nel Il ramo d’oro, articola secondo due leggi di magia simpatica: la legge della somiglianza e la legge del contatto. Nella legge della somiglianza alcuni popoli decidono di eliminare determinati cibi dalla loro dieta e in contemporanea anche altri, che hanno caratteristiche simili. Nella legge del contatto si afferma che quando si entra in contatto con un determinato cibo se ne assume l’essenza. Quest’ultimo caso è particolarmente attinente quando si mangia la carne. Se ci si ciba di determinati animali si potrebbero acquisire caratteristiche fisiche o mentali derivanti dalla
sua carne, e perciò bisogna prestare una particolare cautela. L’uso del metodo etnografico, ovvero la pratica di risiedere nelle comunità che si studiano per molto tempo, proposto da Bronislaw Malinowski aiuta a contestualizzare, nelle ricerche, il consumo alimentare all’interno delle collettività di appartenenza. Il cibo non è quindi solo una modalità di sostenersi biologicamente ma un atto rituale che venendo incorporato in processi più ampi permette di costruire relazioni sociali tendenti all’equilibrio e alla stabilità. Tra le figure che promuovono questi studi Alfred Reginald Radcliffe-Brown afferma che tra gli abitanti delle isole Andamane, l’attività sociale più pregnante è la ricerca del cibo. È attraverso questa ricerca che emergono i sentimenti sociali più forti che si esplicano in cerimonie che affermano l’aderenza dei singoli a tale società. Evidenziare il ruolo sociale del cibo come catalizzatore di energie e di tensioni tese all’equilibrio all’interno delle comunità è un tema dominante dell’approccio funzionalista dell’antropologia britannica. L’attenzione viene posta più sui processi di produzione, accaparramento e consumo del cibo che sul significato simbolico dell’alimentazione. Procedendo da un punto di vista storico, l’analisi delle abitudini alimentari è stata associata al nome di Claude Lévi-Strauss con la sua ricerca sulle strutture mentali e lo studio dei miti. Mentre l’approccio funzionalista era maggiormente interessato alla natura delle istituzioni sociali, LéviStrauss mette in luce che un cibo serve soprattutto a soddisfare un appetito simbolico. In particolare l’interesse dello studioso per l’alimentazione si trova in testi come Il crudo e il cotto o Le buone maniere a tavola, dove sviluppa il tema della presenza nelle culture delle categorie universali del crudo, del cotto e del putrido, il cosiddetto “triangolo culinario”. Nei suoi lavori sui numerosi miti amerindiani Lèvi-Strauss pone la sua attenzione sul fuoco come elemento di trasformazione del cibo, un processo che fa emergere il passaggio dalla natura alla cultura. Il cibo, da elemento naturale, viene trasformato attraverso l’opera culturale dell’uomo con le tecniche del fuoco. Seguendo le orme del maestro, l’antropologa Mary Douglas ha lavorato nel corso degli ultimi anni, sul significato simbolico dei cibi. La studiosa ha infatti operato la decifrazione di un pasto preparato da massaie inglesi nel saggio Decifrare un pasto. In questa prospettiva, il pasto è visto come un codice in grado di mettere in evidenza i rapporti sociali che in esso si concentrano come i diversi gradi gerarchici, le classi di potere e la divisione dei generi. Mary Douglas utilizza una prospettiva emica, ovvero parte dalle categorie cognitive del proprio interlocutore, chiedendosi il perché in una determinata famiglia si utilizzano alcuni cibi rispetto a altri, si mangia seguendo un determinato ordine, ci si siede sempre al solito posto, si cena sempre alla solita ora ecc. L’analisi descrive la sequenza dei pasti in una settimana, iniziando dalla prima colazione al
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bicchiere della sera, fino al cibo del lunedì rispetto a quello del martedì e così di seguito fino alla domenica. La catena che unisce i singoli eventi dà significato all’intera sequenza e il significato di un pasto, quindi, si trova in un sistema di analogie ripetute. Ogni pasto contiene qualcosa del significato di altri pasti: ogni pasto è un avvenimento sociale strutturato che ne struttura altri secondo la propria immagine. La tesi di fondo che soggiace a queste logiche culturali legate al cibo, si può riassumere nel fatto che prima di riempire uno stomaco vuoto, il cibo deve nutrire una mente collettiva. Posizione sicuramente che trova un degno oppositore in Marvin Harris che nelle sue ricerche ha sottolineato come le proibizioni e le preferenze alimentari siano derivanti dall’intera organizzazione produttiva del cibo. In uno dei suoi lavori più noti, Buono da mangiare, analizza le scelte alimentari come conseguenze determinate da un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi conseguenti i rapporti con la struttura economica e il territorio. I vari regimi alimentari presenti nelle culture sono quelli che si sono affermati perché più pratici ed economici e perché vi sono condizioni climatiche e territoriali adatte. Ad esempio, le cucine che ricorrono all’uso di molta carne hanno una densità demografica minore, spazi adatti all’allevamento o tecnologie in grado di allevare in modo intensivo gli animali. L’analisi di Marvin Harris se da un lato ci ricorda costantemente il ruolo fondamentale che la materia riveste nella nostra vita sociale, dall’altro enfatizza, forse eccessivamente, una certa razionalità che soggiace alle logiche culturali. Riassumendo in modo piuttosto essenziale il suo pensiero, si potrebbe utilizzare la frase ormai celebre: “il buono da mangiare è in realtà quello che è più conveniente mangiare” Una prospettiva affine a quella della teoria proposta, è quella che si dipana a partire dal concetto di potere, che è diventato parte dell’apparato teorico dell’antropologia contemporanea, grazie al pensiero di Michel Foucault. Tale concetto si è rivelato uno strumento analitico prezioso per analizzare gli schemi di comportamento legati al cibo, modelli ripresi anche da una corrente antropologica post-coloniale e di genere che ha evidenziato il potere esercitato dai paesi ricchi nei confronti di quelli poveri e dagli uomini sulle donne nella società e in famiglia. Questo strumento si collega a un filone di analisi proposto da Jack Goody che nel suo Cooking, Cuisine and Class focalizza il cibo come strumento di rivendicazione sociale e di ostentazione dell’identità etnica. L’analisi comprende anche lo studio del cibo industriale e lo sviluppo di una cucina mondiale, slegata dai vincoli nazionali. Questa prospettiva, che alimenta gli studi sulla globalizzazione applicati al cibo, si innesta in un filone più che mai attuale che tenta di trovare risposte ai bisogni di tutela delle diverse “cucine locali” che cercano affannosamente di mantenere spazi nei cambiamenti sociali
legati ai gusti. Queste rivendicazioni trovano risposte nelle tutele politiche che gli stati pongono ai loro prodotti. Non a caso l’Italia è uno degli scenari in cui si tenta di mantenere vive tali rivendicazioni attraverso una serie di iniziative che coinvolgono piccoli produttori, presidi e istituzioni. Un convegno recente dell’AISEA, Associazione italiana per le scienze etno-antropologiche, tenutosi a Roma ha posto al centro del suo interesse l’antropologia dell’alimentazione con una rassegna che va dagli studi classici di Piero Camporesi sulle tradizioni alimentari italiane al ruolo delle biotecnologie legate al cibo che si presentano come una parte integrante del nostro futuro alimentare.
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sai cosa mangi? Indovina chi viene a cena Quanta attenzione poniamo al giorno d’oggi al cibo che mangiamo: c’è chi controlla le calorie, chi mangia solo “biologico”, chi mangia vegetariano o addirittura chi si sottopone alla dieta “vegan” (cioè oltre a non mangiare carne, rinuncia anche a tutti i prodotti di origine o derivazione animale), ma siamo proprio sicuri che conosciamo davvero gli ingredienti di tutto quello di cui ci nutriamo e quante insidie per noi e per l’ambiente sono nascoste nel nostro invitante piatto?
Batteri a colazione L’uomo utilizza i batteri da migliaia di anni, ma solo da poco più di un secolo ne fa un uso consapevole. Gli alimenti preparati grazie all’intervento dei batteri sono moltissimi. L’azione dei microrganismi modifica le materie prime alimentari e le trasforma in prodotti nuovi con caratteristiche chimico-fisiche, sensoriali e nutritive differenti. Questi alimenti presentano inoltre una maggiore conservabilità e talora anche un più alto grado di sicurezza d’uso. Grazie all’azione di diverse specie batteriche otteniamo il formaggio, lo yogurt, il pane, il vino, persino i salumi e le conserve. I batteri lattici, come lo Streptococcus thermophilus e il Lactobacillus bulgaricus, sono tra i microrganismi maggiormente sfruttati dall’industria alimentare. Questi batteri, a forma di bacillo o di cocco, sono anaerobi (non richiedono ossigeno per vivere) e trasformano gli zuccheri semplici (glucosio e lattosio) in acido lattico mediante un processo metabolico chiamato fermentazione. L’acido lattico altera le caratteristiche chimiche e fisiche del latte trasformandolo in un nuovo alimento: lo yogurt. Anche la produzione di burro necessita dell’intervento di alcuni microrganismi: il caratteristico sapore di questo alimento è dovuto alla presenza di diacetile, una sostanza liberata dai batteri lattici che si sviluppano durante la fase di maturazione della crema di latte. Altri batteri sono in grado di produrre sostanze, come le batteriocine e le nisine, che hanno una funzione antibiotica, ovvero sono attive contro i batteri nocivi che possono contaminare i formaggi. In alcuni formaggi, come l’emmenthal e il gruviera, si sviluppano particolari batteri, detti “proponici”, capaci di produrre grandi quantità di anidride carbonica. Il gas crea degli spazi vuoti nella pasta del formaggio che, al termine della maturazione, presenta i famosi “buchi”. I batteri lattici trovano impiego anche nella preparazione di molti prodotti da forno, come il panettone, il pandoro e i cracker. Questi alimenti, grazie all’azione batterica, acquistano un sapore e un aroma migliori.
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Anche nella produzione di vino, specie per i vini rossi destinati all’invecchiamento, vi è l’intervento di alcuni batteri che, trasformando l’acido malico in acido lattico, migliorano il sapore del vino. Nella preparazione dei salumi insaccati intervengono diversi batteri appartenenti ai generi Lactobacillus, Pediococcus e Micrococcus. Questi microrganismi producono sostanze antibatteriche che aumentano la conservabilità dei prodotti e liberano molecole che ne migliorano il sapore. I micrococchi, in particolare, trasformano i grassi contenuti nella carne e consentono una corretta maturazione dell’insaccato.
Aiuto, uno squalo nel mio hamburger! Quando pensiamo alla parola “squalo” ci vengono sempre in mente le classiche immagini che hanno reso popolare lo squalo bianco con il famoso film “Lo squalo”. In realtà la pessima reputazione di mangiatori di uomini che si sono guadagnati gli squali, è una distorta informazione data dai media. Negli ultimi cento anni in Mediterraneo sono avvenuti solo 18 attacchi all’uomo, di cui cinque in Italia. Sembra invece che siano loro il piatto principale di noi uomini e che siano in serio pericolo di estinzione.
Le varie popolazioni delle isole del Pacifico da sempre utilizzano la pelle, i denti e le carni di questi animali, ma il problema della pesca è un problema relativamente recente, che riguarda la moderna industria della pesca colpevole dell’eccessivo sfruttamento di questa risorsa. I prodotti derivati dagli squali sono moltissimi, ma in particolare è utilizzata la carne a scopo alimentare, anche in conseguenza della diminuzione di pesci spada e tonni. Tradizionalmente la carne di squalo veniva utilizzata essiccata o affumicata; oggi si è affermata sul mercato del pesce fresco, dove spesso viene chiamata con nomi che confondono il consumatore sulla reale identità del prodotto (il palombo è uno squalo!). Anche tu avrai sicuramente mangiato uno squalo senza saperlo, infatti, in quasi tutti i fishburger sul mercato è presente la carne di squalo (pensaci la prossima volta che mangi in un fast food!).
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Le varie popolazioni delle isole del Pacifico da sempre utilizzano la pelle, i denti e le carni di questi animali, ma il problema della pesca è un problema relativamente recente, che riguarda la moderna industria della pesca colpevole dell’eccessivo sfruttamento di questa risorsa. I prodotti derivati dagli squali sono moltissimi, ma in particolare è utilizzata la carne a scopo alimentare, anche in conseguenza della diminuzione di pesci spada e tonni. Tradizionalmente la carne di squalo veniva utilizzata essiccata o affumicata; oggi si è affermata sul mercato del pesce fresco, dove spesso viene chiamata con nomi che confondono il consumatore sulla reale identità del prodotto (il palombo è uno squalo!). Anche tu avrai sicuramente mangiato uno squalo senza saperlo, infatti, in quasi tutti i fishburger sul mercato è presente la carne di squalo (pensaci la prossima volta che mangi in un fast food!). Molto spesso capita anche che, al posto del trancio di pesce spada ordinato al ristorante,
vi venga servita una qualche specie di squalo, come ad esempio il palombo. Il palombo ha una carne molto meno pregiata e ovviamente meno costosa rispetto al pesce spada. Come fare a non farsi imbrogliare allora? E’ molto semplice: il palombo è uno squalo e come tale ha una pelle ruvida per la presenza dei numerosi dentelli (pensate che la pelle veniva utilizzata come abrasivo), a differenza del pesce spada che, essendo un pesce osseo, ha la pelle liscia ricoperta dalle classiche scaglie che tutti conosciamo. Con le pinne dorsale e pettorali degli squali viene prodotta la famosa zuppa di pinne di pescecane (shark fin soup), considerata una prelibatezza culinaria. E’ un antico piatto cinese, diffuso ormai in tutto il mondo. In questa zuppa vengono utilizzate le fibre di collagene presenti all’interno delle pinne di squalo, che, in realtà, hanno ben poco sapore e danno più che altro maggior corposità alla zuppa; per questo motivo devono essere aggiunti altri ingredienti saporiti, come pollo, granchio e molluschi.
Anticamente questa specialità era riservata alle classi più ricche, poiché i costi di produzione erano elevatissimi. Certo non era facile procurare gli squali in grande quantità e anche la lunga lavorazione delle pinne risultava difficoltosa per l’epoca. Purtroppo oggi le moderne tecniche di pesca permettono di pescare grandi quantità di squali in poco tempo. Il valore commerciale delle pinne degli squali è molto più elevato di quello della carne del corpo e questo ha creato un’inutile crudeltà: quando lo squalo viene catturato e issato a bordo, gli vengono tagliate solo le pinne mentre è ancora vivo e poi viene ributtato in acqua per morire soffocato o di fame (finning).
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Quindi il 95-99% dell’animale va sprecato, perché per chi pratica questa pesca, è più conveniente riempire le stive di sole pinne o lasciare il posto per pesci più pregiati come tonni e pesci spada, piuttosto che tenere i corpi degli squali che sono commestibili ma di poco pregio. Secondo l’IUCN - l’Organizzazione Internazionale per la Conservazione delle Risorse Naturali - la percentuale di squali del Nord Est Atlantico e del Mediterraneo inserita nella lista rossa di specie in pericolo, è la più alta al mondo. Di tutte le specie che sono state esaminate, circa un terzo sono minacciate di estinzione a causa:
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del loro lento accrescimento,
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del ridotto numero di neonati, partoriti dopo gestazioni o incubazioni molto lunghe,
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dell’abitudine di molte specie di aggregarsi in grossi gruppi nel periodo riproduttivo (che li rende soggetti allo sfruttamento da parte della pesca),
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della presenza di “nursery areas” (dove gli squali vanno a partorire), suscettibili al degrado e inquinamento ambientale.
Tutte queste caratteristiche della loro biologia e del loro comportamento, contribuiscono a fare di questo gruppo di pesci, sopravvissuti a milioni di anni di storia, un gruppo di animali a rischio.
Niente piu’ truffe al ristorante! Capita spesso nei ristoranti che l’astice venga confuso con l’aragosta. Appartengono invece ad infraordini distinti (quindi l’astice non è neppure il “marito” dell’aragosta!). Le aragoste sono completamente prive di chele, mentre l’astice ha le prime tre paia di zampe toraciche provviste di queste, in particolare quelle del primo paio presentano uno sviluppo davvero notevole! Inoltre il valore economico dell’astice è minore di quello dell’aragosta; attenzione quindi agli imbrogli, soprattutto se al ristorante vi portano la pinza per aprire le chele!
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Pane alla CO2! Il regno dei miceti comprende tutti gli organismi che sono comunemente conosciuti come funghi (vasto gruppo di organismi pluricellulari al quale appartengono anche i funghi mangerecci), lieviti (organismi unicellulari che possiedono la capacità di fermentare) e muffe (organismi di dimensioni microscopiche come il Penicillium di colore verde). Questo regno è costituito da organismi eterotrofi, che si nutrono assorbendo le sostanze organiche che sono presenti nell’ambiente circostante.
I miceti infatti producono delle molecole, chiamate enzimi digestivi, che vengono utilizzate per degradare la materia organica in modo da renderne possibile l’assorbimento. I miceti sono organismi prevalentemente pluricellulari costituiti da masse di filamenti e diffusi praticamente in tutti gli ambienti. Un gruppo dei miceti, che è comunemente conosciuto con il nome di lieviti, comprende organismi unicellulari come ad esempio il Saccaromyces cerevisiae.
I lieviti vengono utilizzati nella produzione del vino, della birra, e del pane. Un ascomicete, Saccaromyces cerevisiae, quando viene mescolato all’impasto del pane, produce CO2 che causa il processo di lievitazione. Nella produzione di vino o birra, lo stesso lievito coltivato in assenza di ossigeno, effettua fermentazione trasformando in alcol gli zuccheri a disposizione.
Altri funghi sono importanti per la preparazione dei formaggi, come il gorgonzola e il taleggio. Il Brie e il Camembert derivano da formaggi freschi sottoposti a stagionatura in modo da favorire una crescita fungina in superficie che conferisce loro aromi particolari alla pasta.
Una palla mortale Alcuni pesci chiamati pesci palla, hanno la capacità del tutto unica di gonfiarsi come palloni, ingoiando acqua, per allontanare i predatori.
A seguito di questa “trasformazione” il predatore rimane spaesato e non solo: provate ad azzannare un pallone, non è di certo facile, la forma rotonda impedisce di addentare facilmente il pesce! Le viscere e le gonadi del pesce palla contengono un veleno neurotossico micidiale, la
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tetrodotossina che, se ingerito, uccide anche un uomo in pochi minuti. Questo veleno è eliminabile solo con complicate e non sempre efficaci tecniche gastronomiche. In Giappone è ritenuto una vera prelibatezza e viene chiamato “fugu”.
Per poter cucinare questo velenosissimo pesce, occorre seguire una scuola specializzata che rilascia una sorta di patentino che certifica che la carne del pesce non è più velenosa. Nonostante tutte queste precauzioni, in Giappone ogni anno muoiono decine di persone dopo aver digerito il famoso fugu! Noi occidentali ci chiediamo sicuramente perché mai si deve rischiare la vita per gustare un pesce, ma forse mangiare un piatto così “pericoloso” per i Giapponesi è come giocare alla “roulette russa”, non sai mai se ti alzerai vivo dal tavolo!
Ogni riccio un capriccio Alzi la mano chi non ha mai gustato un riccio di mare? Il riccio di mare è una vera prelibatezza e rappresenta una sorta di “sfizio gustoso” in grado di soddisfare la golosità dei palati più raffinati. Alcuni “esperti del gusto” dicono che il suo aroma racchiuda le percezioni olfattive sprigionate dalle alghe dei fondali marini. Il riccio di mare di interesse alimentare è il Paracentrotus lividus, volgarmente detto riccio femmina, in contrapposizione a Arbacia lixula, detto riccio maschio. In realtà questa denominazione è estremamente errata perché entrambe le specie sono ermafrodite (cioè presentano entrambi i sessi contemporaneamente).
Il riccio può essere gustato estraendo l’interno con un cucchiaino e associandolo a prodotti locali (in Salento ad esempio si mangia con pane e taralli), oppure come condimento di paste tipiche (in Sardegna sono famosi i “fusilli ai ricci di mare”), o ancora può guarnire i piatti più sofisticati per palati più raffinati, grazie anche alle sue vivaci colorazioni (rosso corallo, arancio e giallo ocra). E’ sicuramente una prelibatezza a cui non è facile resistere, ma vi siete mai chiesti cosa sia quella cosa arancio-giallastra così gustosa che si estrae dal riccio? Se continuerai a leggere forse non gusterai più questo piatto con lo stesso entusiasmo... Non sono le uova del riccio marino quelle che si mangiano, come tanti credono, bensì le gonadi, ovvero tutto l’apparato riproduttore che peraltro, essendo un organismo ermafrodita, produce sia spermatozoi sia uova.
Un brindisi all’insetto Se ti offrissero un piatto di insetti, quasi sicuramente rifiuteresti, ma senza saperlo ne hai mangiati tanti! Un aperitivo rosso brillante e un dolce dal colore invitante ci fanno venire l’acquolina in bocca, ma solo perché non sappiamo quali sono gli ingredienti nascosti... L’Alchermes, ad esempio, è un tipico liquore rosso brillante che viene molto utilizzato nel settore dolciario e sembra che abbia un’origine molto antica.
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Alchermes Crediti:Wikipedia
Verso la fine del ‘400, infatti, a Firenze alla corte di Lorenzo il Magnifico, era la bevanda più apprezzata durante i ritrovi di artisti, pittori e poeti. Preparato nell’Officina dei Frati di Santa Maria Novella era definito “elisir di lunga vita”. La regina Caterina dei Medici portò la ricetta in Francia, dove divenne noto come “liquore de’ Medici”. Ancora oggi è molto utilizzato e lo si trova in dolci come la zuppa inglese, i tortelli di carnevale della Toscana e a volte si usa zucchero mescolato ad Alchermes per brinare il bicchiere di alcuni cocktail. Il colore caratteristico di questo liquore e un colorante naturale che si trova anche in tantissimi altri prodotti alimentari, come le bevande bitter (di colore rosso appunto), mostarda di frutta, confetti rossi, conserve di frutta rossa, surimi, senape, vini aromatizzati; ma è anche utilizzato nei prodotti cosmetici come fard e tantissimi rossetti. Ma esattamente come si ottiene questo bellissimo rosso brillante? Forse vi sorprenderà sapere che viene da un insetto, chiamato cocciniglia, che si nutre della linfa di alcune piante (in particolare delle piante grasse).
Le specie di cocciniglia di dimensioni più grandi, tipiche di zone equatoriali, sono allevate su pale di comunissime specie locali di opuntia (il fico d’india). Il colore rosso carminio, chiamato Carminio di Cocciniglia e indicato come E120 o anche E124, si ottiene dal corpo essiccato degli esemplari femmine. La cocciniglia si difende dai predatori secernendo una sostanza farinosa che somiglia alla cera. Questo materiale avvolge l’insetto e gli serve da dimora, ma facilita la localizzazione dell’animale quando c’è la raccolta. Soltanto le femmine possiedono il pigmento rosso (acido carminico) e quelle gravide ne hanno la massima concentrazione. Per avere, quindi, la qualità migliore di tinta, il raccolto deve avvenire prima che depongano le uova. Gli insetti vengono staccati dalla pianta con una lama smussata, poi sono essiccati, puliti e ridotti in polvere. In seguito vengono trattati con ammoniaca o con una soluzione di carbonato di sodio. Con il filtraggio si elimina la parte solida e il liquido che rimane è così purificato. Per avere sfumature di color porpora si può anche aggiungere della calce. Considerando che le cocciniglie sono parassiti che recano danni alle piante, ben vengano gli aperitivi rossi! E pensare che qualcuno dice che siamo ciò che mangiamo!
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Birra fredda che scotta: la ciguatera Una paradisiaca spiaggia bianca e palme da cocco sono la cornice di una vacanza che tutti sogniamo, all’insegna del relax e della buona cucina esotica. Nei paesi tropicali è necessario, però, fare molta attenzione nel consumare pesce e frutti di mare. Mangiando, infatti, quei bellissimi pesci colorati della barriera corallina, anche se appena pescati, si può, a volte, rimanere intossicati. Responsabili di questa intossicazione, chiamata ciguatera, sono alghe (dinoflagellati) come il Gambierdiscus toxicus. I pesci che si nutrono di queste alghe accumulano nel loro corpo la sostanza tossica (la
Crediti: https://www.flickr.com/photos/iwoolf/12047437786 (scaricando la foto mi ha inserito anche questa cartella Gambierdiscus Toxicus _ The microalgae that causes Ciguatera… _ Flickr_files, non so se vi serve)
ciguatossina) e a loro volta pesci predatori vengono contaminati mangiando questi pesci più piccoli, che entrano nella catena alimentare. Più grande è il pesce, maggiore la quantità di tossina accumulata. I pesci che più comunemente sono associati alla intossicazione sono i groupers (Mycteroperca venenosa), i barracuda, gli snappers (Lutianidi), i jacks (Amberjack o Seriola ialandi), il mackerel ed il triggerfish (Pesci balestra, Balistes spp.). Tipicamente la malattia si verifica dopo il consumo di pesce pescato tra il 35° di latitudine
nord ed il 36° di latitudine sud, ma sporadici casi sono stati descritti dopo il consumo di carni pescate anche al di fuori di queste coordinate. I sintomi, che solitamente iniziano da 15 a 30 minuti dopo aver mangiato il pesce contaminato, includono dolore addominale, nausea, vomito, diarrea, intorpidimento della lingua e della faringe, dolore ai denti, difficoltà a camminare ed altri ancora.
Una peculiarità della Ciguatera è l’inversione della percezione di temperatura: una birra fredda scotta, una doccia calda fa venire i brividi di freddo. Inoltre, bere acqua naturale può dare la sensazione di bere acqua gassata o un senso di scossa elettrica in bocca. Le vittime possono presentare condizioni assai gravi, fino allo shock, già dopo pochi minuti dall’intossicazione. La Ciguatera è piuttosto comune nei Caraibi e nelle aree tropicali dell’Oceano Indo-Pacifico, e raramente mortale. Si stima che nel mondo ci siano circa 50.000 casi all’anno. La Ciguatera non può essere prevenuta con analisi del pesce o sul paziente, e non esiste un trattamento standard. Sfortunatamente, molti dei sintomi più fastidiosi, anche se non pericolosi, possono persistere anche per settimane e mesi. Il trattamento è essenzialmente sintomatico e non esiste alcun antidoto conosciuto.
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Quattro tuffi in padella Delfino per pranzo? No, grazie ci verrebbe da rispondere inorridendo! Ormai nella cultura occidentale il delfino è considerato un simpatico animale intelligente al pari dei nostri “amici domestici”, grazie a recenti ricerche che ce lo dipingono come un essere dotato di straordinaria intelligenza, capace di instaurare complessi rapporti sociali con i propri simili. L’utilizzo del delfino a scopo alimentare in molte parti del mondo, però, non deve stupire più di tanto, infatti, in Italia in passato se n’è fatto largo consumo. In Liguria e in Sardegna il musciame (chiamato anche mosciamme o musciamu) di delfino era un piatto tradizionale molto diffuso.
Si trattava di una sorta di filetto essiccato, costituito appunto, da parti di delfino che veniva ucciso a fucilate e poi lasciato affondare. Questo piatto tipico era in uso già nel XII secolo a bordo delle galee (navi da guerra e commercio utilizzate nel Mar Mediterraneo) dove era consumato con gallette, bagnate in acqua e aceto e con verdure. Fortunatamente oggi in commercio si trova una versione di musciame a base di tonno e di altri pesci, perché ormai la pesca dei delfini in Italia è vietata e così i nostri “amici” delfini possono continuare a nuotare liberi nei nostri mari. Nonostante questo, ci sono ancora ristoranti in Italia dove i divieti sono ignorati. Non acquistare questo piatto e rifiutare di mangiarlo nei ristoranti dove vengono offerti è un atteggiamento responsabile che dovrebbe essere assunto da ognuno di noi! Questo è un chiaro esempio di come la civiltà possa essere espressa anche attraverso le abitudini alimentari!