La Dieta Mediterranea made in Basilicata
NEI GIORNALI DI UN TEMPO Cronaca dei prodotti di un tempo
e-nutrition... ...consiste nella realizzazione di uno strumento «web based» di divulgazione scientifica in ambito nutrizione. Temi del progetto sono la nutraceutica (studio di alimenti che hanno una funzione benefica sulla salute umana), la valorizzazione dei beni culturali e commercializzazione dei prodotti enogastronomici, mediante l’utilizzo della dieta mediterranea quale filo conduttore. La Fondazione Eni Enrico Mattei, soggetto attuatore del progetto, è affiancata MedEatResearch - Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, e da SAFE - Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari ed Ambientali dell’Università Degli Studi Della Basilicata.
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Indice 7
Introduzione
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Le testate giornalistiche
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Gli asparagi
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L’arancia
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Il macello di Milano
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Lo zucchero
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Le spezie
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Il sale
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Il pesce
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L’olio
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Il pane
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Gli spinaci
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La frutta
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L’allevamento di maiali
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Il caffè
introduzione I giornali sono lo specchio di una società, riflettono nel bene e nel male caratteristiche e peculiarità del paese in cui appaiono, costumi e modi di pensare dei ceti sociali che li mettono in piedi e mentalità di chi li scrive 1 . (Nicola Tranfaglia) Leggere un articolo in un periodico di un’altra epoca ci permette non solo di accedere ad informazioni su un particolare evento, ma anche di entrare in contatto con una altra realtà, quella dell’epoca in cui il quotidiano è stato pubblicato. Scorrere gli articoli di cronaca, i brani di costume, le recensioni culturali, teatrali e bibliografiche, i pezzi di economia domestica, così come analizzare le prime pubblicità, l’impostazione grafica scelta agli albori del giornalismo e del marketing, aiuta lo studioso a capire più a fondo quali fossero i gusti, le mode, i pregiudizi di un’opinione pubblica e di un’intera nazione che si rispecchiava nei giornali e nelle testate dell’epoca. Questo è il fascino segreto della storia del giornalismo: scoprire lo stile di vita di un’epoca storica grazie alle testimonianze che i periodici ci hanno trasmesso, e questa scoperta può avvenire a partire dagli albori del giornalismo, nel XVII secolo, fino ai nostri giorni (e forse anche fino alle aspettative di un futuro prossimo a venire). Riviste e quotidiani diventano allora per chi le consulta e le analizza un diario di com’eravamo e di come siamo, del percorso compiuto come individui e come comunità attraverso i conflitti e le conquiste dei diritti civili, i ritardi e i progressi, permettendoci di capire molto di noi stessi e degli altri.
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le testate giornalistiche il giornale agrario del lombardo-veneto e continuazione degli annali universali di agricoltura, di industria e d’arti economiche (1826-1859) Il “Giornale agrario del Lombardo-Veneto e continuazione degli Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche” è un periodico, a carattere tecnico-scientifico, e in particolare agronomico, che comprende anche scritti di economia, con articoli e saggi accurati e specifici destinati ad un pubblico selezionato (alcuni testi sono in francese). È certamente la più completa pubblicazione lombarda di agronomia della prima metà dell’Ottocento, anche se in essa manca qualsiasi spunto di analisi sociale. L’ispirazione in senso lato illuministica del periodico è rinvenibile in numerosi dei suoi scritti; nei vari fascicoli è più volte patrocinato un valido e diffuso insegnamento delle arti economiche per contribuire al loro sviluppo. Collaborano alla rivista studiosi, accademici, coltivatori e innovatori, anche inglesi e francesi. Lo schema del giornale comprende rubriche fisse di agricoltura, cronaca agraria, commerciale e rurale, bibliografia ed economia rurale. Il Giornale agrario Lombardo-Veneto prende nel 1853 il nome di “Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche”.
il caffè Il caffè aperto da qualche mese a Milano da un greco originario di Citera, sui cui tavoli si trovano a disposizione dei lettori «fogli di Novelle Politiche», avrebbe suggerito il nome per “Il Caffè”, giornale che esce ogni dieci giorni nella città lombarda, quasi negli stessi anni della “Frusta letteraria” di Baretti: tra il 1764 e il 1766. Così come la bevanda aromatica è in grado di risvegliare l’«uomo il più plombeo» e di farne un «uomo ragionevole», così il giornale si propone «il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere di utili cognizioni fra i nostri Cittadini divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addisson [sic], e Pope, ed altri», come si legge nel primo numero. Raro frutto di un lavoro collettivo, conclude la sua esperienza proprio perché si guastano i rapporti nel gruppo che lo realizza: i fratelli Pietro e Alessandro Verri e Cesare Beccaria, nucleo intorno al quale si raccoglie una piccola «piccola Società d’Amici»: l’Accademia dei Pugni. Primo periodico politico-culturale, esso si propone nel programma di diffondere «utili cognizioni» in uno stile semplice e rapido. Tratta articoli di attualità nel settore economico, giuridico, dell’educazione, della medicina, delle scienze naturali nella prospettiva di una politica riformatrice. Quest’ultima investe anche l’annosa questione della lingua. Significativa fu la scelta de “Il Caffè” contro il purismo e contro il Vocabolario della Crusca a favore di una lingua moderna, più attenta alle cose che alle parole e aderente alle esigenze di un pubblico idealmente esteso a tutta l’Italia. L’importanza storica della rivista non sta solo nell’opera di sprovincializzazione culturale
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svolta. Essa inaugura un’esperienza da parte degli intellettuali: il tentativo di creare una specie di partito autonomo e di intervenire, tramite una rivista politico-culturale, nella vita civile in nome dei comuni valori culturali.
letture della domenica “Letture della domenica” è un settimanale illustrato pubblicato all’inizio del Novecento. Si tratta di una rivista estremamente eterogenea e di stampo cattolico, che presenta una serie di rubriche fisse: notizie dal mondo, effemeride (notizie su ogni giorno della settimana, feste, santi, compleanni, ecc.), la buona semente (trascrizione di testi religiosi, ad esempio le lettere di San Paolo), invenzioni e scoperte, igiene, note storiche, proverbi e massime, consigli pratici (soprattutto sugli alimenti e la loro conservazione), previdenza e provvidenza (temi di natura sociale, per esempio l’emigrazione, l’educazione per le classi operaie), passatempi (anagrammi e giochi di questo genere).
la lettura “La lettura” è stata dal 1901, e per tutta la prima metà del Novecento, una rivista mensile pubblicata dal “Corriere della Sera”. I temi principali da essa trattati sono le novelle letterarie, le poesie, articoli su questioni d’attualità, economia domestica, igiene, rassegne bibliografiche, gastronomia e curiosità varie. Si tratta di una pubblicazione di intrattenimento che allo stesso tempo fornisce al lettore anche informazioni dettagliate sui temi più disparati, siano essi notizie sull’estero, cronache, poesie, novelle, o presentazione di cibi e gustosi alimenti. Gli articoli sono illustrati.
giornale dell’ingegnere architetto ed agronomo Il “Giornale dell’ingegnere architetto ed agronomo” è una rivista pubblicata a Milano tra il 1853 e il 1868; ispirata alla francese “Les Annales des Ponts et Chaussées” e all’inglese “The civil Engineer and Architect’s Journal”, vuole porsi come opera specialistica all’interno di un panorama editoriale ancora carente di pubblicazioni esclusivamente dedicate al settore dell’ingegneria civile, dell’urbanistica e dell’economia. Costituita da fascicoli rilegati, corredata da grafici e tabelle, qua e là venata da orgogliose affermazioni di spirito risorgimentale, la rivista tratta gli argomenti più vari: dalla matematica alla geometria, alla statica e alla fisica, alle questioni di diritto, economia, agricoltura, pubblica igiene. Approfondisce il tema dei mezzi di trasporto e comunicazioni di terra; del sistema delle strade, soprattutto ferrate; dei metodi di locomozione e trasmissione; di mostre ed esposizioni, italiane ed estere, industria ed agricoltura; di archeologia e restauro. Annovera una rubrica bibliografica, una di notizie e una di brevi biografie; riprende anche articoli degli omologhi inglese e francese, oltre che dalla stampa locale e specializzata italiana. Alla fine di ogni anno, pubblica un indice degli articoli ordinati per materia. Numerosa è la schiera dei collaboratori, anche stranieri. L’agronomia è uno tra gli argomenti che trova maggiore spazio nella rivista: gli articoli ad essa dedicati mirano allo sfruttamento ottimale del territorio, presentano le novità tecnologie impiegate nell’agricoltura e nuovi prodotti.
il politecnico. giornale dell’ingegnere architetto civile e industriale Conclusasi, nel 1865, l’esperienza de “Il Politecnico” fondato da Carlo Cattaneo 2, l’anno successivo il matematico Francesco Brioschi, insieme ad un gruppo di studiosi dà vita ad una seconda serie della stessa rivista, divenendone il primo direttore. La nuova redazione, pur inseguendo il successo della prima serie, introduce alcune novità: a partire dal primo anno di pubblicazione la rivista viene venduta divisa in due fascicoli, uno dedicato all’ambito letterario, che vede l’apporto di nomi prestigiosi, e uno dedicato agli studi tecnici volti a erudire il lettore con le novità in campo tecnologico, industriale e scientifico. A partire dal 1869, la rivista si fonde con il “Giornale dell’ingegnere architetto civile e meccanico” e assume il titolo di “Il Politecnico. Giornale dell’ingegnere-architetto civile e industriale”. È in questa occasione che abbandona ogni interesse per l’approfondimento letterario, per ricondurre al cuore della pubblicazione i progressi scientifici, industriali e ingegneristici. “Il Politecnico” diviene così organo del progresso nazionale, sua cassa di risonanza delle migliorie via via introdotte in Italia, prima fra tutte l’estendersi della rete ferroviaria nazionale, elemento fondamentale per la crescita economica e industriale del paese. Nel primo Novecento la redazione segue con attenzione gli avvenimenti che si succedono in Italia e in Europa: così durante la grande guerra vengono pubblicati articoli di tecnologia militare, mentre dopo la conclusione del conflitto ci si occupa di ricostruzione. Con la dittatura fascista appaiono alcuni contributi atti a enfatizzare l’opera del regime e la rivista entra in una fase di crisi. Nel gennaio 1928 riprende il titolo “Il Politecnico”. La sua pubblicazione cessa nel 1937.
biblioteca italiana ossia giornale di letteratura scienza e arti la “Biblioteca italiana ossia Giornale di letteratura scienza ed arti” è una rivista mensile pubblicata a Milano tra il 1816 e il 1859. Tra i suoi direttori ricordiamo Giuseppe Acerbi, Robustiano Gironi e Francesco Carlini. All’interno della rivista vengono equilibrati i due campi d’interesse principali che, come suggerisce il titolo, sono la scienza e la letteratura. Tra le sue pagine si possono trovare contributi inerenti a filologia classica, traduzioni, trattati su temi archeologici, storici, letterari, oltre ad articoli di economia, diritto, botanica, scienze, spesso accompagnati da allegati e tavole.
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gli asparagi una breve introduzione Il pezzo che segue porge al lettore un esaustivo contributo su una primizia, gli asparagi, che vengono considerati come uno dei migliori prodotti offerti dalla stagione primaverile. In un linguaggio ammiccante ma al contempo chiarissimo, vengono fornite informazioni su questa verdura, sulla tipologia di coltivazione che le è dedicata, e sui modi più invitanti in cui può essere cucinata. Interessante è il modo con cui l’autore dell’articolo dedica numerose righe alla descrizione della morfologia della pianta dell’asparago, dei climi e dei vari terreni in cui può essere coltivato: tale è la delicatezza e la leggerezza nell’uso delle parole, che quasi si potrebbe affiancare questo contributo a un articolo sulla moda, evidenziando l’abilità dei compilatori di una rivista dai gusti eclettici come “La lettura”. Tratto da “La lettura” (fasc. 6, giugno 1933)
asparagi, delizia primaverile Veramente la ghiottoneria contemporanea non sopporta limitazioni stagionali e la scienza orticola s’è messa da un pezzo a sfidar la natura, sovvertendo le leggi e imponendole anticipazioni e ritardi. Come tra vitigni precoci e vitigni tardivi s’è già arrivati a portar sul desco uva fresca per otto mesi dell’anno e, maturate su una coltre di cascami, le fragole sull’imbandigione natalizia, così anche gli asparagi possono esser serviti tutti i giorni. Se non bastano gli accorgimenti scientifici, con la civiltà che ha soppresso le distanze e le
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frigorie che impediscono ogni corrompimento, gli orti dei due emisferi, con l’ausilio delle motonavi, dei grandi espressi e persino dei velivoli, si son messi a scambiarsi prodotti per la gran soddisfazione di sopprimere, almeno a tavola, gli attributi delle stagioni. Ma la piena efflorescenza e la fragrante dovizia degli asparagi si hanno durante la primavera metereologica, tra aprile e giugno. Allora sui campi delle più diverse latitudini, per estensioni smisurate, è tutto un occhieggiare di teneri virgulti, pieni di saporose promesse, che metton fuori della terra il piccolo capo bianco per rinverdirlo al sole ed è come se dicessero all’umanità ghiottona: eccoci qua, siamo pronti, coglieteci e deliziatevi… Singolare pianta questa, della famiglia delle liliacee, che la generalità del pubblico non conosce se non allo stato imperfetto di sviluppo, quando i virgulti, chiamati turioni, hanno ancora tutte le foglioline aderenti al gambo come squame, cioè nella fase della loro più perfetta commestibilità. A lasciarla crescere si effonde in rigogliose ramificazioni che arieggiano le felci, sboccia in piccoli fiori bianco-giallastro o verdastro, dà frutti che son bacche globulari, a completa maturazione, d’un bel rosso vivo. I botanici ne conoscono un centinaio di varietà a carattere ornamentale, ma quelle mangereccie sono poche, con qualche lieve differenza nella colorazione del turione, o biancheggiante o verde o violaceo, o carnicino; e quanto alla grossezza e al sapore, è tutta questione di composizione geologica del terreno e della generosità del coltivatore nel correggerlo e risanarlo con le concimazioni. Attecchisce, d’altronde, sotto i più diversi climi; ne coltivano i paesi nordici d’Europa e ne coltivano gli abissini, che li consumano dopo averli abbrustoliti a lento fuoco, facendo loro acquistare un vago sapore di nocciola. In tutti i casi gli asparagi maturano la ghiotta sapidità nell’ombra più discreta del sottosuolo e molto lentamente, con saggezza epicurea decisamente contraria alla fretta. Infatti, il seme gettato in primavera non dà frutti, ossia turioni mangerecci, che quattro anni dopo. E quante cure e quante sollecitudini occorrono all’agricoltore prima che se li veda spuntare turgidi, polposi, profumati. Bisogna che la terra sia ricca e leggera, perché la leggerezza, la bontà. Se quelle qualità non sono naturali come accade in certe fortunate plaghe di Lombardia e di Romagna o in quelle famosissime di Argenteuil, ove si vedono spuntare asparagi persino nelle praterie, bisogna ricorrere ai suggerimenti dell’agronomia e della chimica, che consigliano persino di mescolare alla terra troppo grassa dei calcinacci. La germinazione dura quattro mesi, da primavera ad autunno. Le piante vanno allora scelte accuratamente per eliminare quelle non abbastanza gagliarde, e poi tagliate in tutte le ramificazioni. Quel che rimane, le “zampe”, è interrato alla profondità di tre o quattro centimetri e ogni anno successivo ricoperto da un nuovo strato di limo vegetativo, finché gli “occhi” dei turioni si levano dalle zampe, crescono al tepore della coltre riscaldata dal sole della quarta primavera e vanno a cercare la luce, ove l’agricoltore li attende al varco per troncarne la vita alla giusta misura, affastellarli, legarli a mazzi e mandarli al mercato. In America, naturalmente, si sono inventate macchine che si impadroniscono dei turioni, li nettano, li uguagliano, li contano, li legano e danno mazzi bell’e pronti; da noi non si è ancora giunti a tanto, ma l’ammazzamento è fatto ugualmente con molta rapidità dalle espertissime operaie delle nostre ortaglie, che si valgono di certi elementari ordigni a semicerchio per formare il fascio di steli. […]
Gli asparagi mangerecci crescono naturalmente anche allo stato selvaggio, ma son piccoli e filiformi per quanto molto saporiti. […] Un autorevole ghiottone nostrano sentenziò che la loro giusta morte è affogati nel burro. Una degna morte a cui la ghiottoneria nostrana aggiunge spesso il contorno del parmigiano grattato, che nell’estremo momento avvince amorosamente i turioni […] e delle uova fritte che fanno da morbido cuscino. È un cibo leggero, digeribilissimo e se ne possono fare impunemente delle scorpacciate. Non è il caso di fare gli schifiltosi neppure per le sue conseguenze diuretiche piuttosto maleodoranti perché con qualche goccia di trementina è perfino possibile mutare il puzzo in profumo di violette. […] Un proverbio gastronomico ammonisce infatti che i piselli vanno mangiati alla mensa dei ricchi (perché i più buoni sono i primaticci, cioè i più cari), le ciliegie da un povero (perché le più sapide sono quelle della stagione inoltrata, quando appassiscono) e gli asparagi a tutte le tavole, perché son buoni sempre. La civiltà odiernissima, come si sa, ha aggiunto alla posateria tradizionale certe pinze o morse per afferrare lo stelo nella parte dura e portarlo delicatamente alle labbra; ma il buongustaio autentico non rinunzierà mai al piacere di servirsi delle mani e di mangiar gli asparagi alla stessa guisa di un’ala di pollo. Appunto perché non danno mai […] grattacapi allo stomaco, gli asparagi suscitano, tra i consumatori, dei veri fanatici. Il più celebre dei quali resta tuttavia quel filosofo che aveva invitato alla sua mensa un alto prelato dopo aver discusso a lungo con lui se gli asparagi andavan mangiati all’olio o al burro. Il filosofo era per il burro, il prelato per l’olio, e l’anfitrione, per compiacenza, ordinò al cuoco che ne preparasse metà nell’uno e metà nell’altro modo. Ma ecco che sul punto di andare a tavola gli recano notizia che l’ospite è morto. E l’altro si precipita in cucina con la voce strozzata dalla commozione: «Fateli tutti al burro», ordina. Non aveva saputo trovare altro elogio funebre […]. (C. Poggiali).
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l’arancia una breve introduzione Il pezzo che segue è scritto da un medico, il quale tuttavia nello scriverlo ha abbandonato il tono scientifico; il frutto d’oro, come qui viene definita l’arancia, è decantato in un modo oltremodo poetico. Sia per quanto riguarda la descrizione delle origini del frutto, sia per ciò che concerne le sue qualità fisiche, il testo è ricco di termini e formule che si più adatte alla forse alla descrizione di una donna che di un prodotto della terra. Anche nell’elencare le sue proprietà chimiche ed i benefici che ne derivano, l’autore non utilizza termini realistici, ma lascia trapelare una forte ammirazione per questo alimento coltivato nel meridione del nostro paese, ma che viene maggiormente apprezzato, come egli suggerisce, nel settentrione. Tratto da “La Lettura” (fasc. 3, marzo 1934)
i nostri frutti d’oro I primi naviganti che sono sbarcati, e i primi mercandanti che, colle loro carovane, son giunti nelle terre di Cina, hanno trovato, oltre a genti dalla costumanze più strane, e a templi, a monumenti, a mura ed a giardini dai più fantastici aspetti, anche dei grossi frutti che brillavano fra il verde cupo di certe foglie. Quando poi hanno scoperto il soavissimo profumo che emanava da quei frutti e anche dalle loro foglie, e soprattutto dai loro fiori (che sono bianchi, carnosi e stellati)…quando, tolta ai frutti la grossa buccia (ch’è cosparsa di gocce di essenza), hanno trovato anche gli spicchi tutti vescichette rigonfie di succo dolce, fragrante e leggermente acido […] ne hanno avuta una tale
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gioiosa meraviglia che, assieme alle porcellane istoriate, alle sete ricamate, agli avorii traforati, alle giade incise, alle armi gemmate, hanno voluto caricare sui loro muli e accatastare nelle stive dei loro velieri anche semi e virgulti di quelle esotiche piante; e così… Così, sfidando ogni pericolo di terra ed ogni furia di mare, virgulti e semi son giunti fin qua. E qua, seminati i semi, e interrati i virgulti proprio là, ove più caldo sempre ride nei nostri giardini il sole, e dove più tiepida sempre spira la brezza del mare, i semi sono germogliati; i virgulti sono attecchiti; i rami sono fioriti; i fiori sono diventati frutti: e il frutto – ch’è l’uno dei tanti doni che, con la sua orientale larghezza, ci ha porti la Cina – è così diventato anche il frutto nostrano; il frutto caldo del nostro mezzodì. “Citrus aurantium” è stata battezzata dai botanici la pianta; cioè cedro aureo; cedro d’oro; frutto d’oro. È infatti l’auranzio, l’arancio, un oro vivo; un oro tanto prezioso, quasi quant’è prezioso l’oro metallo; e come uno è simbolo di ricchezza, è l’altro simbolo di quella ricchezza ancor più grande ch’è la salute; e, al par dell’uno, anche l’altro ha sempre invitato, e sempre chiamato, e sempre attratto a sé le genti, è quel misterioso e magico potere che ha sempre avuto e che mai non perderà, la possente calamita che ha nome: oro. Fin dai tempi più lontani, c’è sempre stata, infatti, della gente che, almeno una volta nella vita, prima che le nebbie si stendessero fitte sui prati, abbandonava o il cupo castello che s’ergeva sulle rive d’un malinconico lago di Scozia, o la vetusta casa protetta da una gotica chiesa che il Danubio o il Reno lambiva […] che, su di un veliero e fra lo scampanellar delle sconquassate vetture di posta, trottava e navigava, e ancora trottava attraversando borgate raccolte, e città popolate, e terre desolate […] che valicavano il Sempione e il Brennero ammantellati nelle loro nevi eterne […] e che finalmente scaricava i bagagli e si fermava là, ove nei sempreverdi aranceti vedeva ammiccare l’oro vivo dei nostri aranci. […] Frutto quasi quanto l’oro, prezioso è l’arancia perché i suoi zuccheri, i suoi sali vegetali ed i suoi aromi fanno di essa un frutto sommamente squisito, che molto più che non lo sia dovrebbe sempre abbondare su tutte le nostre tavole. Perché in esso è gran ricchezza di vitamine, e specie delle vitamine A, B, C, che tanto facilitano, nei piccoli bimbi, l’assimilazione del calcio, del fosforo, del magnesio e di tutti gli altri elementi indispensabili al consolidamento delle ossa e alla formazione di tutti gli altri nostri tessuti. Perché, contenendo l’abbondante suo succo, acido malico, citrico, zuccheri, albumina, e abbondante vitamina anti-infettiva, esso rappresenta un possibile alimento per i malati costretti a rigorosa dieta e perché, per il suo citrato sodico, è anche la bevanda più indicata a calmare la sete durante le malattie febbrili e infiammatorie. Perché […] mille e mille vescichette rigonfie di essenze tengono dalla sua buccia lontani gli insetti in cerca di nidi per le loro uova; perché la sua polpa succosa non conosce così lo strisciare e il rosicchiare dei vermi; e perché ad occhi chiusi ognuno può pertanto succhiar i frutti che son l’emblema della salute, nella certezza di trovarne sempre sana, pura la polpa. Perché la buccia del frutto, seccata e polverizzata, è veramente vermifuga e febbrifuga e perché l’essenza ricca di limonene, che da essa si distilla, fa veramente della stessa buccia un ottimo eupeptico, stomachico e stimolante. Perché le foglie dell’arancio (che sotto la lente appaiono tutte cosparse di cristalli d’ossalato calcico e di ghiandole oleifere) hanno veramente quelle proprietà sedative che le nostre donne decantano, e le hanno anche dopo d’esser state seccate. Perché l’acqua che si distilla dai fiori d’arancio (flores naphae) è un eccellente cosmetico; e dell’essenza degli stessi fiori (essenza di Nerol), per i suoi eteri acetici, il suo linalolo, il suo nerolo, si fa largo usano infatti in ogni nostra profumeria.
Eppure, nonostante tutti i suoi pregi, è più spesso sulle tavole del Nord che sulle nostre, che brilla l’oro delle nostre arance! […] È motto più spesso lassù che si trova, ogni mattino, una arancia presso alla scodella del latte! […]È molto più lassù che viene apprezzato il preziosissimo oro vivo dei nostri aranceti! […] Perché? Perché, purtroppo, meno suol apprezzare il bene chi di bene abbonda! (Dott. Amal).
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il macello di milano una breve introduzione L’articolo riportato qui di seguito apre una finestra inconsueta sull’organizzazione della macellazione a Milano nei primi del Novecento illustrando i vari tipi di carne presenti sul mercato, così come i diversi processi che sono legati alla loro produzione. Vengono altresì fornite cifre sulla consumazione dei vari tipi di prodotti, cifre che sono utili a comprendere quanto la carne fosse un elemento centrale nell’alimentazione italiana. Nell’articolo vengono poi analizzate chiaramente le modalità con cui, in base all’animale, era condotto il procedimento di trattamento delle sue carni, e come a questo procedimento fosse collegata una tipologia particolare di struttura del macello stesso. Si noti come fosse prevista anche una diversa categoria di macellazione, dedicata ai consumatori di religione ebraica, e un trattamento per le carni malate, e ancora per gli scarti, che nella maggior parte dei casi venivano utilizzati come concimi nelle campagne. Tratto da: “Letture della domenica” (vol. 3, fasc. 46, novembre 1910)
il macello di milano Una visita al macello di Milano è non solo impressionante, ma assai significativa. Il macello di Milano è certamente tra i più importanti e grandiosi d’Italia. La grande città lombarda ebbe tardi un edificio destinato alla macellazione. Fino al 1871 si macellava nelle botteghe e magari sulla pubblica via, mentre già nel 1807 il gran Napoleone dotava Parigi d’un mattatoio e Leone XII inaugurava in Roma nel 1824 il primo macello italiano. Il primo macello di Milano non era però, e non poteva essere altrimenti, che il nucleo di quel che
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sarebbe divenuto poi l’edifico col successivo ampliarsi della città. Oggi l’estensione di questo complesso di fabbricati si avvicina a quella d’una minuscola città. Ed infatti qualche cifra di raffronto può persuaderci della necessità d’un ampliamento. Nei primi anni si macellavano ogni anno 7.500 buoi: oggi quasi il doppio: i vitelli cadevano sotto l’ascia in numero di 33.000, oggi se ne immolano 70.000. I nostri padri non mangiavano in un anno che 4.300 vacche, mentre i macellai d’oggi ne appioppano ai consumatori ben 30.000. Invece è stazionario il consumo dei capretti e triplicato quello degli agnelli e montoni, quadruplicato quello dei suini. E quasi ciò non bastasse oggi consumiamo in più due tipi di carne ignoti quarant’anni or sono al palato dei cittadini milanesi è la carne di toro (2.500 capi) e la carne di cavallo (7.000) capi. Quest’enorme esercizio di quadrupedi viene ucciso ogni anno al macello e dà luogo ad una infinità di pratiche igieniche e industriali, le quali appunto tendono a render sempre più estesi ed ingombranti gli annessi del mattatoio. Tralasciamo, per amor di brevità, di dire degli uffizi di amministrazione, di quelli daziari, della stalla di sosta degli animali, del mercato del bestiame che pur è annesso al macello, per accennare invece agli ammazzatoi, la parte – passi il bisticcio – vitale del macello, dove gli animali, previa visita di un veterinario, vengono uccisi. Per i bovini s’hanno tante celle quanti sono i macellai, i quali vi compiono le operazioni d’uccisione, scuoiamento, confezione delle carni e possono lasciarvi gli animali morti affinché, come suol dirsi, le carni infrolliscano. Una cella è riservata alla macellazione ebraica, la quale, come si sa, deve effettuarsi senza spargimento di sangue. Invece gli ovini, i suini, gli equini affrontano la morte a schiere: in grandi cameroni vengono introdotti gli animali e in un’ora un centinaio – una vera ecatombe – viene fatto a pezzi. In una mattinata si macellano fino a 500 suini e non a dire quanto impressionante riesca tanto spargimento di sangue tra le strida delle povere bestie e l’odor acre che si diffonde per l’aria. Ma non tutte le carni vengono riscontrate adatte per l’alimentazione. Vi sono le carni di animali tubercolotici, e le carni suine grandinate che vengono cotte in appositi apparecchi e sterilizzate. Le prime vengono confezionate in scatole di conserva, le altre vengono trasformate in salami. Altre carni invece non possono servire all’alimentazione neppure se cotte e sterilizzate e vengono inviate alla Sardigna, dove insieme a tutti gli altri animali morti nel Comune vengono ridotti in una poltiglia che si usa per la concimazione. Anche il sangue viene trattato con speciali apparecchi, separandolo dal siero che si usa in tintoria, ed essicandolo per usarlo come concime. Vi sono poi locali per la lavorazione delle trippe, per la lavatura delle budella e per altri servizi accessori: e in mezzo a questi una popolazione di impiegati, inservienti, medici, veterinari ecc. Al di là dei cancelli è Milano che lavora e Milano che mangia. Guai se l’attività del macello s’arrestasse! I grandi magazzini dove si conserva la carne nei refrigeranti e che possono rifornire per qualche giorno la città sarebbero presto esauriti: e poi?
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lo zucchero una breve introduzione Quello che segue è un tipico esempio di articoli dal taglio informativo-descrittivo dedicato interamente a un prodotto molto diffuso, lo zucchero, e alla pianta da cui viene estratto. Interessante è notare come vengano selezionati e presentati dal compilatore informazioni e dati di diversa natura, sia di botanica, di agronomia, ma anche di storia, per raccontare il modo in cui questo prodotto giunge in Europa. Tratto da: “Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche in continuazione del Giornale agrario Lombardo-Veneto”, (vol. 5, fasc. 1-6, giugno 1856).
lo zucchero, e la canna d’onde si estrae Lo zucchero di cui oggimai si fa così grande consumo nei bisogni domestici è una sostanza che si estrae da’ vegetali; quasi tutte le specie di quel Regno ne contengono per ciò che entra nei componenti organici. È nella classe di quegli che si chiamano non azotati, per ciò che esso pure si compone di una metà d’ossigeno, quasi d’un’altra metà di carbonio e un po’ d’idrogeno. Per questa ragione non è sostanza delle più nutritive come le composte d’azoto, eppure non toglie che sia di un uso grandissimo e che entri in più della metà dei cibi e delle bevande dell’economia. Quasi tutte le piante abbiamo detto ne contengono, ma in quantità da dar profitto alla sua estrazione, e di quella qualità di zucchero che è cristallizabile, come dicono i chimici, in due sole sin qui principalmente, nella canna detta per ciò da zucchero e nella barbabietola.
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La canna, Saccharum officinarum L., è una pianta vivace della famiglia delle Gramigne che Linneo pose nella sua classe Triandia-Diginia, appunto una specie di canna, come il suo nome lo indica, propria dei paesi caldi e di luoghi umidi. Di codesto genere ce ne sono molte specie tanto in que’ climi, quanto in altri più temperati che hanno diversi nomi, ma tutte di una natura, tutte di un aspetto eguale; quella che è più usitata e più utile per estrarne lo zucchero è la prima che abbiamo detto originaria delle Indie, e di là trasportata ne’ secoli a noi più vicini nelle Isole e nel Continente Americano meridionale, dai quali paesi oggi si manda in Europa la maggior quantità dello zucchero che si consuma, milioni e milioni di libbre ogni anno. Questa sostanza ora tanto comune era ella conosciuta dagli antichi? Molti dicono di no, dicono che conoscessero il miele, le altre sostanze sciroppose e zuccherine che si estraggono dai frutti e che non sono cristallizzabili, ma il vero zucchero bianco che noi adoperiamo, no. Pare leggendo attentamente alcuni passi deli antichi scrittori, che conoscessero anche questo: quello che molti chiamano Miele delle canne, Sal delle canne, Saccharon, o Saccharum non deve essere altra cosa che il vero zucchero. […] In un conto dell’anno 1333 della famiglia del Delfino della Vienna , Omberto, vi si fa cenno
dello zucchero bianco, come altrove se ne parla pure nell’ordinanza del Re Giovanni del 1353. Si conservano nella Biblioteca reale di Parigi alcune poesie manoscritte di Eustacchio Deschamps, morto nel 1420, nelle quali il poeta parla dello zucchero, e lo mette nel numero delle spese maggiori che possa fare una famiglia agiata. Codesta sostanza era allora, come è naturale, di un prezzo elevato assai per ciò che veniva solo dalle Indie per la via d’Alessandria, ed i Veneziani ne avevano l’esclusivo monopolio, come quelli che si tenevano quasi tutto il commercio dell’Oriente. Passò in seguito ai Portoghesi allor quando s’aprì il passaggio a quel Continente dal Capo di Buona Speranza, e l’Europa ne fu più abbondantemente fornita per l’una e per l’altra via[…].
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le spezie una breve introduzione L’articolo che segue tratta della coltivazione di una spezia, lo zafferano, che trova largo impiego nella produzione di formaggio nella zona del lodigiano. Viene descritto nel dettaglio il modo in cui venne perfezionata in Italia la coltivazione della pianta dello zafferano dall’interramento dei suoi bulbi, fino alla raccolta dei pistilli dai quali vengono ricavate le polveri coloranti utili in campo alimentare. Tratto da: “Biblioteca italiana ossia Giornale di letteratura scienza ed arti” (vol. 52, novembre 1828)
coltivazione dello zafferano in lombardia Grandissimo è fra di noi il consumo dello zafferano massime pei formaggi nel territorio di Lodi chiamati impropriamente parmigiani; grandissima quindi la somma del danaro del quale andiamo tributarj ai paesi donde tale droga ci viene trasmessa. Benemerito noi dunque diremo della patria e dello Stato chiunque ne’ paesi nostri facciasi a coltivarla in modo di sottrarci a si fatto tributo. Né tale coltivazione essere può di pregiudizio a quella già per se stessa fra noi sovrabbondante de’ grani, giacchè essa può circoscriversi a piccolo spazio di terreno, e suole anzi prosperare in quelle terre che meno si prestano ad ogni altra coltura. Né ha pure bisogno di molte braccia, potendosi nella raccolta de’ fiori e nell’estrazione de’ fili o delle stimate impiegare i fanciulli dell’un sesso e dell’altro. L’esperienza poi ha dimostrato che lo zafferano lombardo meglio che lo straniero riesce
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nell’uso che far se ne suole pei suddetti formaggi, dando loro un più bel colore e rendendoli e più aromatici e più saporiti. A ciò si aggiunge la quantità della ricolta che i fatti ci provano non essere minore di quella che in eguale spazio si trae negli altri paesi, perciocchè un’ajuola, lunga milanesi braccia 19, larga 2 diede un’oncia di purissimo zafferano ridotto alla più grande secchezza; sicchè da una pertica se ne potrebbero ricavare ben 20 once. L’egregio signor dottore fisico don Ajcardo Castiglioni d’Angera fu in Lombardia il primo che rivolto siasi alla coltivazione dello zafferano, a farne commercio, ed a diffonderne i bulbi. Egli ottenuti ne aveva nel 1810 sei bulbi dall’orto agrario di Pavia; ma non potè giovarsi che di cinque, perché l’un d’essi già putridito erasi nel viaggio: egli li piantò prima in vasi, in terra da orto smunta, e da più di un anno non concimata. I bulbi fiorirono, e moltiplicaronsi al nº di 15. Nell’anno susseguente ne fece cinque vasi, e i bulbi si moltiplicarono nelle medesima proporzione. Egli continuò a trapiantarli in vasi ogni anno finché non gli riuscì di averne ben 600, dei quali i più voluminosi erano della grossezza d’una nocciuola. Fattosi quindi coraggio li trapiantò in un’ajuola del suo orto, dopo d’averla prima ben concimata e diligentemente purgata degl’insetti: ne ottenne sei grani di zafferano, e i bulbi moltiplicaronsi sani e vigorosi. Nel terzo anno ne ebbe un’oncia, e le giovani cipolle che ne trasse, bastarono per cinque ajuole alla prima uguali. Nel 1818 ne triplicò la coltura, e ne trasse tal numero di bulbi da poterne somministrare anche agli amici ed a chi ne lo chiedeva. Ad imitazione di lui e coi bulbi che da lui aveva ricevuti, diedesi nel 1820 alla medesima coltura il signor dottor Comolli I.R. Medico provinciale di Como. Questi in pochi anni ne ebbe una messe si fatta da poterne distribuire i bulbi a varie persone in quella provincia, e trasmetterne anche all’orto agrario di Pavia, dove i sorci e le talpe fatto ne avevano grandissimo guasto. Nozioni preliminari – Lo zafferano, di cui parlasi, è l’autunnale, crocus sativus, di Linneo; ha un bulbo grosso come una nocciuola, un po’ compresso, e coperto di una pelle bruna e filamentosa. Dalla sua parte inferiore escono più fibre lunghe che penetrano assai profondamente nella terra. Il fiore od i fiori nascono dalla parte superiore del bulbo ed appajono in ottobre molto tempo innanzi delle foglie: queste sono di colore grigio lino o di porpora azzurrognola. Il tubo è assai lungo, senza picciuolo, diviso dalla sommità in sei segmenti ottusi, ovati ed uguali. Al fondo del tubo trovasi l’ovaja che è rotonda. Il suo stelo è coronato da tre stimate allungate di colore d’arancio, divise e stese da ciascun lato. Dalle stimate vien formato il così detto zafferano, producendo esse sole la materia colorante ed il principio aromatico contenuto nel fiore. Le foglie ed il frutto non appajono che in primavera: l’embrione rimane dunque per tutto l’inverno nel seno della terra. Le foglie sono cilindriche, lunghe, strettissime e nella loro lunghezza divise da una linea bianca. Il frutto è rotondo, a tre lobi, a tre celle, a tre valvole. Cresce per otto mesi, ed il suo crescere è segnato mese per mese dalle linee circolari che formansi sotto il suo esterno inviluppo. La vegetazione di questo croco compiesi generalmente nel corso di otto mesi, dalla metà circa
di settembre alla metà di maggio, ai gradi d’un calore atmosferico decrescente da 10 a 0 del termometro di R. Al di sotto di tal grado i suoi bulbi rimangono come letargici. I bulbi pervenuti alla grossezza di una noce comune danno dai tre ai cinque fiori, le stamine di sei o sette di essi fiori produr possono un grano di zafferano. Alla coltura dello zafferano perniciosi sono i vegetabili d’altra specie, particolarmente poi una pianta parassita, che talvolta alligna sui bulbi, detta da Persoon selerozio, specie di fungo analogo al tartuffo, scoperto da Duhamel e descritto da Bulliard nella sua opera sui funghi. Esso però non è fra noi conosciuto, e quindi non è da temersene verun danno. Guardisi il coltivatore dall’ammaccare anche leggermente i bulbi; essi marciscono ben tosto. Gli insetti sono tutti più o meno dannosi allo zafferano. Abbiasi quindi la cura di ben purgare la terra prima di farne la piantagione, e di concimarla con letame già ridotto a terriccio. Ma i più formidabili suoi nemici sono le talpe e i sorci. Anche il porco ne divora avidamente i bulbi. L’umido soverchio lo fa marcire, ed intaccandone le gemme fa si che queste abortiscano sottoterra[…]. Coltivazione e raccolta – Lo zafferano si moltiplica per mezzo de’ suoi stessi bulbi, specialmente se questi lasciansi sottoterra per due o tre anni senza che vengano scompigliati. Abbiansi cura di non levarneli se non quando la pianta ha perduto le foglie. Ciò avviene dalla metà di maggio a tutto agosto. Possono anche conservarsi sino alla trapiantagione sepolti o riposti in luogo fresco, non troppo umido e non ammucchiati. Le cipolle o i germi pongonsi nella terra tanto col loro inviluppo, quanto senza di esso. Si vanghi il terreno alla profondità d’otto once milanesi; si purghi da ogni altro vegetabile; si concimi, poscia si eguagli col rastrello; solchinsi a rette linee le ajuole; si costruisca uno strumento di legno largo due once e lungo un braccio e mezzo che nell’estremità inferiore abbia un manubrio diviso come una V; e nella sua superficie varj piuoli distanti due once l’uno dall’altro, lunghi once tre e terminanti a punta di diamante, dal diametro di mezza oncia. Segninsi sull’ajuola sei linee parallele, distanti l’una dall’altra quattr’once. Si ponga sopra le linee il suddetto strumento, e vi si comprima col piede in modo che tutti i piuoli vi si profondino per tre once: si lasci quindi cadere in ciascun buco un bulbo colla punta rivolti all’in su, e così si continui l’operazione per tutta l’aiuola; col rastrello si uguagli poscia il terreno, e si riempiano i buchi[…]. I fiori dello zafferano si raccolgono a tutto ottobre, nel mattino, dopo dissipata la rugiada; poco importa che siano tuttora socchiusi: è d’uopo coglierli con porzione del tubo, in guisa però che non se ne stacchino anche le foglie, il che sarebbe di danno, alla pianta. Pongansi a mano a mano in ceste, e da queste, quando sono ripiene, si versino sui cannicci in luogo aperto ed ombreggiato. Terminata la raccolta, si levino da’ fiori le sole stimate fin dove il colore chermisi comincia ad impallidire. Queste distese poi su grandi fogli di carta emporetica si ripongano sopra tavole o cannicci in luoghi vasti, asciutti e dal vento riparati, e meglio ancora in istufe non troppo calde, ove si lascino finché siano diseccate. Si ammassino quindi le stimate e fortemente compresse in vasi di latta, terra o majolica, ed in essi coperte da un corpo pesante, che però non le tocchi, si conservino a piacere. Le stimate o i fili si riducono in polvere col nuovamente stenderle ben disciolte su fogli di carta bibula, che poscia chiusi espongonsi al sole o ad un ben asciutto calore di stufa.
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Giunte all’aridità pestansi nel bronzo finchè ridotte siano in minutissima polvere. In questa operazione lo zafferano perde alquanto del suo colore, ma subito lo riacquista, se esposto venga all’aria umida, molto più se questa sia pregna di gas acido-carbonico, e a poco a poco lo riacquista pure da sè stesso, e senza alcun sussidio. Tale polvere si ripone poi in vasi di latta, di majolica od anche di vetro, coll’avvertenza che i vasi di vetro debbono conservarsi in luogo oscuro, onde alla troppa luce non ne venga danneggiato il colore, e questo ancora meglio si conserva quando la polvere sia ne’ vasi compromessa[…].
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il sale il sale Nell’articolo che segue viene descritto il sale in ogni suo aspetto. L’autore si sofferma così sulla sua composizione chimica e sulle sue proprietà se aggiunto ai cibi e quando ingerito, e ancora ne descrive la produzione in Italia, nelle zone in cui viene ricavato dalle acque del mare, e da lì trasportato in tutto il paese. Da “Letture della domenica” (vol. 4, fasc. 41, ottobre 1911) Il sale (cloruro di sodio – sale marino – sale da cucina) è il condimento delle vivande per eccellenza. Esso è indispensabile alla nutrizione dell’uomo, poiché una alimentazione senza sale provocherebbe delle malattie. Tutti le parti dell’organo umano contengono una parte di sale marino essendo esso necessario alla composizione dei nostri tessuti. Il sale toglie l’insipido ai cibi, eccita l’appetito, facilita la digestione producendo una salutare eccitazione sui visceri addominali. Il nome di Sale è antichissimo, fu esteso dai primi chimici a tutte le sostanze che assomigliavano al sale marino perché solubili in acqua, cristallizzabili e di sapore non acido. Il sale marino è un cloruro di soda, ossia un composto di cloro e soda. Egli ha sapore fresco e vivo, è solubilissimo in acqua, cristallizza in cubi. Il sale si incontra in natura in masse enorme, poiché è come lo indica il suo nome, esso fa parte dell’acqua del mare ogni litro della quale ne contiene oltre 30 grammi. Lo si trova pure allo stato di minerale nelle viscere della terra ove forma strati immensi e si chiama allora sal gemma.
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In Italia le miniere di sal gemma in esercizio sono quelle di Lungro in Calabria di Cattolica Ciamiana, Nicosia e Leonforte in Sicilia. La Sicilia dà annualmente duecento tonnellate di sale. Però le più celebri miniere di sal gemma sono quelle di Cordova in Spagna e quelle di Polonia. In Italia vi sono poi anche sorgenti saline importantissime come quelle di Salsomaggiore che danno ogni giorno 300 ettolitri di acqua e quelle di Volterra che danno 12.000 tonnellate di sale all’anno. Però la maggiore quantità del sale che si consuma proviene dall’acqua del mare, mediante evaporazione. Nei paesi meridionali il cocente calore del sole basta a concentrare l’acqua del mare ed a far cristallizzare il sale marino, in altre regioni invece si ricorre al fuoco per eseguire tale evaporazione. Sulle coste del Mediterraneo e Adriatico l’evaporazione spontanea dell’acqua del mare si fa sopra vaste estensioni di terreno chiamati stagni salati. L’acqua viene introdotta in un primo bacino e tenuta in riposo vi deposita le materie eterogenee che tiene in sospensione quindi per alcuni canaletti essa passa in una serie di bacini più piccoli e comunicanti tra loro. Nel primo bacino essa deposita dei composti salini contenenti del solfato di calce, negli altri l’acqua concentrandosi depone i cristalli di sale propriamente detto o cloruro di sodio. Il sale commerciale si distingue in bianco e bigio a seconda della maggiore o minore purezza. Il primo ha potere salino assai più forte del secondo contrariamente alla credenza di molti. Introdotto nello stomaco, il sale eccita l’appetito e la sete. Antichissimo è l’uso del sale ed è probabile che i primi uomini sopperissero a questo bisogno bevendo il sangue degli animali. La storia parla di Amo Marzio che donò al popolo seimila misure di sale. Era pregiudizio degli antichi che il sale si formasse sotto l’influsso della luna, poiché nei climi caldi per la evaporazione enorme e rapidissima al mattino trovavasi il sale là dove la sera non vi era che acqua marina. (E. Corbellini).
i condimenti - il sale da cucina Come nell’articolo precedente, anche in questo il sale è protagonista; in particolare, in questo caso, l’autore si sofferma sui metodi della sua produzione, descrivendo con precisione le varie fasi in cui viene ricavato dall’acqua e fornendo anche diverse cifre a corredo di quanto detto. Da “Letture della domenica” (vol. 7, fasc. 12, marzo 1914) Col nome di “Sali” la chimica intende quei composti che si formano quando un acido si combina con una base, quindi il Carbonato di calce (marmo) è un sale risultante dalla combinazione dell’acido carbonico con la calce, il Solfato di ferrò è un sale derivante dalla combinazione dell’acido solforico col ferro e così via. I sali si comportano in vari modi col calore. O crepitano (come il sale da cucina) per l’acqua che contengono, oppure fondono o volatilizzano. L’acqua, agendo sopra i sali talvolta li scioglie e la sua proprietà sovente cresce col crescere della temperatura. Quando l’acqua ad una data temperatura contiene tutta quella quantità di sale che può sciogliere allora si ha una soluzione satura.
Mescolando un acido con un sale il più delle volte la base si scinde in fra i due acidi formando due sali. Se l’acido forma un sale insolubile questo precipita sotto forma di sale. Infine mescolando due sali fra loro che siano prima sciolti in acqua, essi si decompongono ossia l’acido dell’uno si impadronisce della base dell’altro e viceversa a meno ché non si formi un sale doppio il che è assai raro. Nella formazione dei sali mediante il trattamento di un acido, si manifesta sempre produzione di calore e talvolta produzione di gas. Fra i sali organici che più interessano la nutrizione del nostro organismo, il più importante ed il più necessario è il sale comune o cloruro di soda volgarmente detto sale da cucina. Il sale comune è il condimento per eccellenza perché indispensabile alla digestione, esso stimola la fame e la sete, favorisce l’assorbimento dei materiali nutritivi e fornisce allo stomaco l’acido necessario per digerire. Questo sale è abbondantissimo in natura, sciolto nelle acque del mare, in certe sorgenti e disseminato o accumulato in blocchi od in giacimenti talvolta immensi sulla superficie o nell’interno del suolo. L’acqua del mare contiene circa 27 chilogrammi di sale per ogni metro cubo di acqua; per estrarlo si usano le Saline che sono specie di grandissime vasche dove il sale dell’acqua marina evapora in causa del calore solare e vi depone il sale. L’acqua del mare è dapprima portata dalla marea in un vasto serbatoio ove depone quasi tutte le materie che tiene in sospensione e vi diventa perfettamente limpida. Quando l’acqua vi è rimasta il tempo necessario si fa passare in una serie di compartimenti separati fra loro da arginelli e sentieruoli e fra loro riuniti. Nel percorrere questo spazio l’acqua riscaldata dal sole e sotto l’azione dissecante del vento, a poco a poco evapora. Dopo un paio di giorni la concentrazione è sufficiente affinché la maggior parte del sale si deponga sotto forma di cristalli di colore grigio. Il sale ricavatone va in commercio sotto varie specie: a) di sale ordinario; b) di sale raffinato in pani; c) di sale pastorizio; d) di sale refrigerante. L’Italia è ricchissima di saline, la più antica è quella di Volterra (Pisa), la cui produzione annua supera i 110 mila quintali, le più importanti però sono quelle di Sardegna, di Cagliari e di Carloforte, che producono insieme 1.400.000 quintali annui di sale. Seguono per importanza le saline di Margherita di Savoia presso Barletta che producono oltre mezzo milione di quintali di sale annuo. In Italia nella quale come è noto, all’infuori della Sicilia e della Sardegna, il sale è monopolio dello Stato, esistono anche varie miniere di sal gemma e precisamente in provincia di Cosenza il cui deposito di Lungro è coltivato dallo Stato. Il Governo poi tiene in appalto anche le saline di S. Felice e di Salsomaggiore provenienti dalle acque salse dette di sorgenti. La produzione di sale in Italia in questi ultimi anni è di circa «due milioni e mezzo di quintali annui». La produzione mondiale ascende a circa 13 milioni di tonnellate annue. Lo Stato concede a prezzo ridotto il sale per le industrie, per la pastorizia e per refrigerante ma lo adultera con aggiunte di sostanze che lo rendono inservibile per la nutrizione. Questi adulteranti o sofisticazioni sono: ossidi di ferro, nero fumo, ecc.
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il pesce pesca lombarda Nell’articolo riportato di seguito viene brevemente presentata la pesca nell’area lombarda: dopo l’introduzione dedicata alla pesca in generale, considerata come materia da annoverare nell’agricoltura perché ricava prodotti dalla natura, delinea la situazione delle acque della zona e della loro pescosità. Vengono fornite cifre a corredare lo scritto, il quale riconosce l’utilità dell’importazione del pesce di mare dalle zone costiere, ma allo stesso tempo elogia i prodotti dei numerosi canali, fiumi e laghi della Lombardia. Tratto da: “Giornale agrario del Lombardo-Veneto e continuazione degli Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche” (fasc. 7, luglio 1849) “Fino dall’infanzia del mondo degli uomini si occupavano dei campi, degli armenti, della pesca, della caccia: erano le prime arti, e saranno certamente le ultime. Noi che pacificamente attendiamo a queste patriarcali abitudini nate e cresciute coi secoli non siamo né i primi, né gli ultimi: meditando sui costumi di quelli che ci precedettero sulla scena, lasciamo ai nostri nepoti quello che abbiamo operato noi nei pochi giorni che viviamo. L’industria che si procaccia i prodotti della natura, sicchè questi emergano spontanei, siacchè dalle mani del lavoratore si ottengano, è appellata a ragione industria agricola, o agricoltura. Ammesso un tale principio, che ci sembra affatto ovvio e consentendo ai lumi della scienza contemporanea, ne viene di conseguenza la più diretta, che debbansi classificare coll’industria agricola tutti i lavori che hanno per iscopo di trarre dalla natura quelle materie, qualunque esse siano, che possono servire ai nostri bisogni, e quindi anche quelle le quali non suppongano la
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coltivazione del suolo: sono di tale specie le cure del cacciatore, quelle del pescatore, i quali s’impadroniscono degli animali, che non sono stati allevati colle loro mani: del minatore, che cerca nelle viscere della terra quei minerali, che là posavano prima ch’egli se ne occupasse. Sebbene gli uomini non abbiano fatto nulla direttamente per la formazioni dei pesci, dei volatili in generale, e dei minerali, tuttavolta non sono prodotti, di essi si possa usare gratuitamente, asserisce un benemerito economista. Costano il valore delle cure, che abbisognano per trarre questi oggetti dal luogo, ove li ha alloggiati la natura, per metterli nelle mani del consumatore. Così il prezzo di alcuni pesci di mare, sulle sue spiaggie, non è altro che il rimborso delle spese di produzione, spese occorse per condurre alla riva questi animali. Come il prezzo dei cavoli, o dei pomi di terra è il rimborso dei dispendii di produzione sostenuti per mettere queste leguminose sui mercati. In Lombardia la pesca è un ramo d’industria agricola d’assai importante, ove si vogliano considerare tanto i prodotti, che diventano elementi di materia commerciale, quanto quelli che rappresentano la consumazione privata, la quale alla campagna principalmente è d’assai considerevole, e quasi incalcolabile: dacchè ogni campagnuolo in certi giorni principalmente della settimana diventa pescatore. Ove poi si parli di quella classe di campagnuoli che vivono sulle costiere dei nostri bei laghi, o lungo i nostri fiumi, i nostri torrenti, l’industria della pesca è certamente più rimarchevole. L’area della Lombardia, abbiamo accennato in altra scrittura, essere di milioni 31,881,946 pertiche censuarie, cioè 20,704 chilometri quadri. In questo bellissimo paese sono le acque così incantevoli dei nostri laghi, si ammirano le limpide correnti de’ nostri fiumi, de’ nostri torrenti: in pochi luoghi si riscontrano i paduli, che rapidamente vanno a scomparire d’anno in anno, di mese in mese, si può dire, di giorno in giorno. L’estensione coverta dalle surreferite acque è calcolata di pertiche censuarie 656,593. qui non sono calcolate tutte le acque d’irrigazione, che arrivano certamente a somma rilevante, ma che difficilmente si potrebbero estimare stante gli intricatissimi serpeggiamenti dei diversi canali piccoli e grandi, e l’immensa divisione delle acque irrigatorie sui campi delle nostre basse. La pesca propriamente detta però, ossia quella che vien esercitata in grande, può considerarsi avvenire precisamente nei laghi e nei fiumi o torrenti. L’altra che certamente non è meno profittevole, e che si esercita nei canali d’irrigazione, è la piccola pesca, cioè quella che si versa per la minor parte nel circolo commerciale, e pel resto a profitto di chi la esercita. Sonvi certe epoche, che ritornano diverse volte in un anno, in cui buona parte dei campagnuoli delle basse vivono per delle settimane, e talvolta per qualche mese esclusivamente della pesca: e questi periodi tornano, quando vengono asciugati i canali d’irrigazione onde operarvi gli spurghi, e le riparazioni occorrenti, o quando torna la stagione dell’asciugamento delle risaje. In Lombardia il prodotto della pesca è in grande e calcolato in massa di libbrei metriche circa un milione e 200,000, e rappresentato da un valore pecuniario d’un milione circa, cifra che certo è al di sotto alquanto del vero. Ove si volesse la cifra speciale per ciascuna provincia avremo per la provincia comasca lire 270,000 circa; per Lodi e Crema 160,000; per Mantova 130,000; Cremona 95,000; Bergamo 80,000; Brescia 66,000; Milano 50,000; Pavia 50,000; Sondrio 20,000. Queste cifre approssimative rappresentano un valore che diremo commerciale, certamente inferiore al vero, come dicemmo, non mai maggiore.
A questa somma di più d’un milione di rendita sarebbe d’aggiungersi un’altra, la quale dovrebbe rappresentare la consumazione di tutte le famiglie dei pescatori di professione, e di tutti gli altri che per bisogno, o per divertimento esercitano la pesca: e questa altra cifra noi non la supponiamo minore della già espressa di circa un milione. […] Noi lombardi non abbiamo paese che serva di costiera ai mari, e quindi manchiamo di pesce marino; per cui siamo debitori ad altri dell’importazione di questo ricercato commestibile. Però se confrontiamo la nostra pesca d’acqua dolce, con quella identica d’altri paesi, abbiamo argomento di consolarci, mentre si trovavano gli altri certamente al disotto di noi, e nella quantità di pesci, e nella qualità squisita, proprietà che sembra riservata alle nostre acque. […] Le nostre acque, le scaturigini delle quali si rinvengono nel sistema delle patrie montagne, si distinguono in potabili o dolci e non potabili. Le acque che servono all’uso comune degli animali si derivano dai fiumi, sia chiusi, come nella città, nelle borgate i pozzi servienti all’uso domestico ed all’abbeveraggio degli animali. Queste acque, torbide più o meno, pregne di sostanze animali o vegetabili quasi sciolte si adoperano pure alla generale irrigazione della nostra campagna; e queste hanno maggiore o minor valore a seconda delle loro intrinseche proprietà, e delle terre e dei vegetabili cui debbono alimentare. […] La pesca nostrale è più o meno preziosa, più o meno apprezzata in confronto delle buone o cattive prerogative delle acque. Le stesse specie di pesci tolte dalle acque dei nostri fiumi, dai limpidissimi torrenti, o dai nostri laghi hanno maggiore valore che non quelle prodotte dai cavi delle nostre basse, ove frequenti fanghiglio ed avanzi di animali e vegetabili vi si tramescolano. […] Le specie dei pesci che vivono nelle nostre acque dolci vantano le più ricercate proprietà per la loro squisetezza sulle più doviziose mense del paese e fuori. Le principali sono: gli storioni che vivono nei principali nostri fiumi e laghi (sturio), le trotte (trutta), il lucio (lucius), il persico (perca luviatilis), l’agone (clupeo alosa major), celebrità del lago di Como; sardella (clupeo alosa minor), l’anguilla (murena anguilla); temolo (thymallus); la tinca (cyprinus tynca); il barbo (barbus), la scardova (ruttilus), la lampreda (petromyzon). Molte altre specie abbiamo passato sotto silenzio, dacchè sono di minor momento. Abbiamo fiducia di aver annunziate cose interessanti per nostro paese; vorremo però pregare i nostri pescatori, i nostri dilettanti di pesca e rassegnarci quelle notizie ulteriori che non ci fossero note ancora o che concorressero ad illustrare vieppiù la nostra Lombardia.”
il pesce affumicato L’articolo che segue tratta in modo semplice ma efficace il processo di affumicazione del pesce, descrivendone i vari stadi e gli utensili impiegati e introducendo il lettore a un tipico piatto della città di Kiel. Tratto da “Letture della domenica” (vol. 4, fasc. 14, aprile 1911). “La città di Kiel – il famoso porto di guerra prussiano, teatro della non meno famosa settimana di regate - è il centro dell’affumicamento del pesce; e di questo, come d’un cibo di stagione, vogliamo occuparci oggi, lasciando da parte i grassi prosciutti, le lombate e le salcicce di maiale. L’azione conservatrice del fumo sulla carne è data dal contenuto di creosoto – proprio il creosoto, il medicamento che a questa sua particolarità deve anche il nome, composto da kraos, carne, e sozein, salvare – che è nel fumo stesso; dall’antica forma primitiva, consistente nell’appendere semplicemente nella cappa del camino la carne da affumare, s’è svolto poi, coll’andar del tempo, il sistema moderno, pel quale il fumo, prodotto in focolai post nelle
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cantine, si raccoglie in una camera sul solaio; dal camino, il fumo entra nelle camere per un condotto lungo e stretto, posto in basso, e per un altro, aperto in alto, ne esce; alle volte, sopra questa prima camera da affumare ve n’ha un’altra; nella prima stanza il fumo è tiepido, nella seconda è quasi freddo. Date le due aperture, il fumo circola continuamente, cosicchè la carne ne riceve ad ogni momento di nuovo, e quello che è carico d’umidità e che potrebbe produrre fuliggine se ne va dal tubo di scarico. Come la carne, prima d’essere affumata, dev’essere salata, così anche i pesci; a questo fine, s’immergono in una soluzione di sale, la cui densità è determinata empiricamente col gettarvi una patata: quando la patata galleggia, la soluzione è forte abbastanza. In questa soluzione il pesce resta per qualche ora, talvolta anche un giorno intero, poi si sala ancora e quindi s’espone all’azione del fumo per cinque o sei ore. Dato il breve tempo di fumigazione richiesto dai pesci – in confronto colle carni, che devono stare nella camera d’affumamento da una a dieci settimane, secondo la grossezza dei pezzi – per questi s’usano camere speciali, molto più piccole e vicinissime al focolaio generatore del fumo. Quando il pesce è ben affumato, lo si dispone in iscatole o barili per la spedizione; le scatole sono riservate al pesce piccolo come gli sprotten – una specie d’aringa, clupea sprattus, che misura dai 10 ai 15 centimetri e vive nel mare del Nord e nel Baltico – gustosissimi a mangiarsi insieme col burro; le aringhe – che affumate prendono il nome di Bucklinge – si spediscono in casse, e le più ricercate sono quelle di Kiel.”
il pesce al posto della carne Grande attenzione è posta, in questo articolo, al risparmio: incentivare il consumo di pesce, soprattutto d’acqua dolce, al posto della carne il cui costo è nettamente superiore. Tratto da: “La lettura” (febbraio 1936). “Fu detto: «Bisogna convincersi di questo, che tutti i popoli i quali si sono dati a rispettare il pesce, a coltivarlo e a moltiplicarlo, sono riusciti a risolvere l’arduo problema della vita a buon mercato, essendo l’acqua, per chi ne abbia cura, molto più produttiva della terra». Naturalmente ciò si riferisce alle così dette acque interne, perché per i mari la questione è più complessa. Ma abbiamo volutamente accennato alla pesca non marina che è la più trascurata presso di noi, perché è da essa, forse più che dai mari, che l’Italia può trarre un immediato vantaggio per la sua economia alimentare. Esaminando le statistiche vediamo che le popolazioni le quali consumano poco o punto pesce sono quelle dell’Italia continentale. I miseri tre chilogrammi in media di pesce (contro i diciotto di carne bovina) mangiati dai quarantaquattro milioni d’Italiani si riducono a meno di uno nelle regioni dell’Emilia, del Piemonte, dell’Umbria. Due fatti principali determinano lo scarso uso del pesce nel Regno: il suo costo troppo elevato e il cattivo modo di presentarlo in vendita nelle città secondarie e nei piccoli centri. Ricordiamo che fino a ieri noi abbiamo importato, tra fresco e conservato, più di un milione di lire di pesce al giorno. Lasciamo stare quello conservato (del quale parleremo in seguito) ma che l’Italia importasse pesce fresco dalla […] Svizzera, Francia, Olanda, Norvegia, è incomprensibile. Incomprensibile per noi, non per il commercio il quale ubbidisce alle leggi della concorrenza.
E se Basilea mandava […] a Genova il pesce di mare è perché gli alberghi, le trattorie, i privati stessi trovavano la loro convenienza ad acquistare pesce fresco e ottimamente presentato da così lontano piuttosto che al mare di casa loro. Il trasporto del pesce richiede mezzi celerissimi e attrezzatura particolare. In tutti i Paesi più progrediti in fatto di pesca oggi non si vende altro che pesce vivo. Il nostro pubblico non esige tanta raffinatezza ma desidera che il pesce sia almeno fresco e fragrante. Nei grandi mercati ciò si è ottenuto, ma nei centri secondari no. Le botteghe, e specialmente i banchi a vento delle piccole città non sono certo i più acconci ad invogliare la gente all’uso del pesce. Peggio i paesi dell’interno, dove, anche se si trovano due o tre beccherie, il pesce è affatto sconosciuto. Si noti che le popolazioni lontane dal mare non è vero che rifuggano dall’alimento ittico, anzi sembrerebbero l’opposto se si consideri che, appena pongono piede sul litorale, gradiscono e gustano in modo tutto particolare i saporosi e stimolanti manicaretti di pesce. Primo dovere, in quest’ora severa della Patria, è quello di far giungere il pesce fresco e a buon mercato in tutti i centri dell’interno, anche i più piccoli e remoti. Nei paesi dove esiste un beccaio e non lo spaccio di pesce, il macellaio dovrebbe avere obbligo, nei giorni in cui gli è vietato di vendere carne, di sostituirla con i frutti delle acque. Nelle grandi città, accanto al mercato del pesce, devono sorgere friggitorie dove le rimanenze possano venire utilizzate subito. Altre friggitorie ambulanti porteranno intorno, all’ora dei pasti, il loro caldo e dorato carico a cui la nostra gente fa sempre ottima accoglienza. Ma sopra tutto bisogna dare alle popolazioni dell’interno la loro pesca, quella delle acque dolci. I laghi, i fiumi, i canali, gli stagni, le risaie, le paludi, occupano 1.567.200 ettari di superficie d’Italia. L’elemento liquido che dovrebbe rappresentare una incalcolabile ricchezza ittiologica è, dobbiamo confessarlo, sterile o quasi. La Germania, non molto più copiosa di acque dolci della Penisola, avrebbe potuto vivere un anno con i soli prodotti delle sue acque. Noi, avendo trascurato nel passato questo ramo dell’attività sociale, ci troviamo oggi a non potere fare che un minimo assegnamento sui prodotti ittiologici. La pesca di frodo, gli inquinamenti industriali, le razzie e le devastazioni compiute quasi impunemente da persone di tutte le condizioni, hanno finito per distruggere una ricchezza della quale solamente ora si rileva l’importanza. Pensate che dalle scaturigini alla foce tutti i corsi d’acqua danno ricetto a una quantità incalcolabile di pesci commestibili, il cui valore nutritivo, ricco di sostanze azotate e di grassi, è superiore a quello della carne bovina. Dai salmonidi del tratto superiore dei fiumi, al cavedano e alla carpa del tratto medio, alle anguille, agli storioni del corso inferiore, è tutta una vita acquatica che comprende una infinità varietà di animali. Non parlo dei laghi, veri serbatoi e vivai di pesci anche di grossa mole e di qualità pregiate ed elette, delle valli dove l’industria più importante è quello della pesca. I canali, le rogge, i fossi, qualunque rigagnolo potrebbe albergare pesci e rappresentare per le popolazioni del luogo un’inesauribile fonte a cui attingere gratuitamente da vivere. Le risaie e le paludi, seminate di carpe, tinche e anguille, fornirebbero tanto cibo da arricchire i mercati di intere regioni. La carpa, questa vera macchina da carne, che può crescere di mezzo chilo in un anno e che
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dà fino a 250.000 uova, era già stata introdotta nelle nostre risaie ed aveva preso un notevole sviluppo. Ma, qualunque altra impresa ittica, essa fu abbandonata per il semplice fatto che le carpe allevate dall’agricoltore venivano regolarmente razziate dai pescatori di frodo, i quali, prosciugando le piane, cagionavano un doppio gravissimo nocumento. Nessuno, se non quelli che hanno profonda pratica di pesca e di piscicoltura, s’immagina il
danno enorme e talvolta irreparabile procurato dal pescatore clandestino. L’avvelenatore, l’inquinatore, il prosciugatore del torrente e del fiume distruggono in una sola notte quintali di pesci, rovinando il fondo, fanno strage di uova e avannotti, rendendo sterili talvolta per lungo tempo vasti tratti del corso d’acqua. Tutti i provvedimenti che in quest’ora gli enti pescherecci, i consorzi, le cooperative, le associazioni sindacali saranno per prendere al fine di dare nuovo incremento alla pesca delle acque interne riusciranno inutili se prima e sollecitamente non si cercherà di debellare la pesca di frodo. […] Dicevamo che la gente dell’interno, gli abitanti dei piccoli centri e delle campagne, non consumano pesce perché non hanno comodità di acquistarlo, mentre la carne la trovano dovunque a portata di mano. È con la pesca delle acque dolci che si rimedia a questo inconveniente. Se tutti i nostri bacini fossero ricchi, come dovrebbero, di fauna, le nostre popolazioni troverebbero il pesce abbondante e a miglior mercato della carne ogni giorno della settimana. […] La pesca delle acque interne era tanto scaduta nel suo valore che oramai non veniva più considerata che un pretesto di riporto e di svago. Pescatore non era altro che un perdigiorno il quale andava con la canna o la rete a insidiare il solitario pesciolino. Al punto che oggi, in un momento tanto importante per la nostra economia, c’è ancora chi non presta fede al valore delle pesca di mestiere nei bacini interni. La canna e la bilancia sono bellissimi ordigni per chi è amante della vita sana e libera in tempi normali, ma ora è alle grandi reti, ai mezzi di forti prese, alle cooperative pescherecce che noi dobbiamo rivolgere le nostre speranze perché rechino ai mercati la maggior quantità possibile dei prodotti delle acque. Tutti gli impacci che furono creati per favorire il dilettante a scapito talvolta della pesca professionale devono cadere di fronte alle condizioni straordinarie del momento attuale. […] Un altro lato importante del problema è la propaganda peschereccia. I tre chilogrammi in media di pesce che noi consumiamo, se non potranno salire ai 73 che si consumano in Germania o ai 130 in Norvegia, potranno e dovranno essere almeno triplicati. Come dicevamo, la migliore propaganda si ottiene con le friggitorie. Far gustare al pubblico un cibo ben preparato, stimolante, leggero, e a buon prezzo, è il mezzo più pratico e convincente per introdurre il pesce nella nostra cucina. […] Anche il dottor Natalius e sua moglie in una recente manuale «dedicato alle modeste mense italiane» abbinano i due più sani frutti delle acque, pesce e riso. Le loro 635 ricette sono ciò che di più semplice ed economico si possa immaginare, e noi vorremmo che le nostre donne, massaie e cuciniere, imparassero quanto varie, impensate ed ingegnose saranno le maniere per far apprezzare il pesce ai loro familiari. Un’altra forma efficacissima di propaganda potrebbe essere il cinematografo. Pellicole che mostrassero al pubblico tutta la vita che si svolge attorno alla pesca, da quella atlantica alle tonnare, dalla caccia al pesce-spada con la fiocina nei mari siculi all’insidia a traino del dentice, dalle spaderme ai palamiti, dalle reti a strascico alla modesta canna; l’industria della conservazione, della salagione, dell’affumicatura, dell’essicazione; i trasporti celeri per acqua, terra, cielo; l’arrivo ai mercati, la distribuzione, la vendita, infine la dimostrazione pratica del modo di condizionare il pescato e di servirlo in tavola, riuscirebbero interessantissime e utilissime al pubblico italiano il quale ha il dovere, per la sua salute fisica e morale, di fronte a se stesso e al mondo incivile dei sanzionisti, di sostituire alla carne bovina quella più sana, vitale e nazionale del pesce. (Eugenio Barisoni)
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l’olio raccolto delle olive - olii orientali ed occidentali L’articolo che segue tratta della coltivazione di un prodotto generalmente attribuito a climi mediterranei, come l’ulivo, ma impiantato in Lombardia. Il frutto viene trattato sia a livello della pianta, sia del prodotto, ossia l’olio che dai frutti dell’ulivo è ricavato, da usarsi come condimento e come carburante. L’olio si presenta ai produttori e ai consumatori di colore, odore e densità differenti, e ciò è dovuto non solo al tipo di clima a cui la pianta è stata esposta, ma anche alle malattie che ha subito e alle diverse lavorazioni a cui il prodotto è stato sottoposto. Tratto da: “Giornale agrario del Lombardo-Veneto e continuazione degli Annali universali di Tecnologia, di Agricoltura, di Economia rurale e domestica, di Arti e Mestieri ” (vol. 5, fasc. 1, gennaio 1846). “Nello scorso anno annunziavamo essere meschino il raccolto delle olive lombarde e per le spesse grandini cadute, e per la soverchia quantità delle piogge, e per l’eccesso delle nevi. Le nostre speranze si trovarono deluse anche nel ricolto di quest’anno. Dove il soffiar importuno dei venti impetuosi, dove la state non abbastanza calda, dove cause morbose ci lasciarono con un prodotto ben scarso. Nei nostri paesi gli ulivi avevano poco sviluppo, i fratti riuscirono tardivi assai: pochi gli olii, e di qualità non troppo soddisfacente. Per la verità nei luoghi dove la coltivazione degli ulivi riesce, come luogo la riviera de’ nostri laghi, su pei colli della nostra Brianza, grande ne è il vantaggio, ed i coloni si occupano di
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buon animo della confezione degli olii dacché nei campi si fa poco o nulla in questa stagione. Generalmente i nostri olii sono ottimi come commestibili: apprestano però un po’ di colore, né sono così delicati e trasparenti come quelli detti d’occidente, e principalmente della bellissima costiera di Nizza, ma hanno sapore gustosissimo, e colle vivande si accomodano pure assai bene. Questi olii però sono in così poca dose a confronto dei consumatori, che appena sono sufficienti a provvedere gli abitanti di quelle contrade, dove si fabbricano. Così succede al lago di Como, Maggiore, di Garda, d’Iseo, e nei dintorni degli altri laghetti. Le piante oleifere coltivate in Lombardia suppliscono in poca parte pel consumo come commestibili, e nel resto come combustibili; la camellina e giorgiolina che alcuni dei nostri negozianti importano specialmente dall’Ungheria, servirono talvolta così bene all’intenzioni degli speculatori, che se ne ritrasse gran profitto, massime in questi ultimi tempi, in cui il prezzo dell’olio è salito altissimo. […] Gli olii d’occidente, i quali si ritengono a ragione i più squisiti, in quest’anno sono assai ricercati. Ci si scrive da Nizza, centro del commercio di questi olii, nel litorale e nelle montagne, che per le rovine prodotte dalla malattia del verme, la raccolta di quest’anno trovasi diminuita un quarto. Gli olivi hanno pure sofferto, ed il frutto ha patito, come dicemmo, una malattia detta in quelle contrade la morfea. La fabbricazione degli olii è cominciata colà coi primi di novembre del prossimo passato anno. Da noi due mesi dopo o più. Gli olii fabbricati fin qui hanno tutti un gusto di verme abbastanza pronunciato. Si fa osservare però che degli olii con quest’odore sono migliori quelli di buona annata, che non quelli di cattiva. Non avverrà, così si scrive, che verso il quindici di gennaio che si cominceranno a fabbricare alcuni olii fini e soprafini. Quantunque con questo difetto questi olii verranno preferiti ai vecchi a causa della loro freschezza. Nel mese di febbraio in commercio compariranno alcuni olii fini e soprafini. Le prime qualità non saranno messe in commercio che in marzo, aprile e maggio. I raccolti della Provenza, e della riviera di Genova, sono nella stessa condizione di quelli di Nizza e suoi dintorni: gli olii d’oriente sono pure incariti. La Toscana e Napoli ne comprovano il fatto. Ultimamente però gli olii principalmente del napolitano hanno acquistato un po’ di merito per la perfezionata maniera, con cui si procede nella fabbricazione. […] Terremo dietro a questa bella industria quanto più potremo, e ne informeremo i nostri benevoli lettori. (Dossena)”
olio d’oliva Nel breve articolo che segue sono riportate una serie di informazioni che costruiscono un ricco quadro relativo all’olio d’oliva: vengono descritti i frantoi, il modo con il quale l’olio si ricava dai frutti, le diverse tipologie di prodotto che si possono trovare sul mercato e la loro denominazione. Anche le sue caratteristiche fisiche sono dettagliatamente presentate al lettore, così come le qualità che ne differenziano la natura rispetto alla provenienza geografica. Tratto da: “Letture della domenica” (vol. 4, fasc. 38, settembre 1911)
“L’olio d’oliva si estrae mediante pressione del frutto dell’olivo (olea europea). La frantumazione delle olive si effettua nei frantoi i quali, a seconda dei mezzi di cui dispone il produttore, variano da semplici e primordiali macine, come per buona parte delle Puglie, Calabria, Sicilia, ecc., a veri opifici industriali con macchinario prefetto e ciò in Liguria, Lago di Garda, ecc. In questi ultimi con cilindri potentissimi d’acciaio si estrae fino all’ultimo contenuto delle olive. Quando le olive sono ridotte ad una pasta, essa viene posta in piccoli cestelli di vimini circolari che ammucchiati sotto un torchio vengono pressati fino a dare tutto il contenuto in olio. Così se ne ricava l’olio il quale, a seconda delle fasi di spremitura, assume vari nomi: Olio vergine: è quello di prima pressione, di qualità finissima, di colore giallo dorato o verdognolo, di sapore dolce e di grato odore, che ricorda il frutto; Olio fino di seconda pressione che pur è limpido, di colore un po’ più carico del primo, di qualità fine ma di odore meno delicato; Olio di terza pressione che è torbido, ha sapore piuttosto sgradevole e serve all’industria. L’Italia ha grandissima produzione in olio d’oliva, e quasi in tutte le sue regioni, l’olivo, come la vite, alligna e cresce magnificamente. Se ne tolgano solo le regioni alpine ed appenniniche elevate. Ottime sono in generale le qualità dei nostri olii d’oliva, rinomati quelli di Liguria, Toscana e Puglia. L’olio d’oliva è un liquido di peso specifico da 0,914 a 0,917. Esso congela a ÷ 2 gradi C. Abbandonato per molto tempo alla luce e all’aria perde il suo bel colore e irrancidisce. L’olio d’oliva puro ha reazione neutra, non acida, è quasi insolubile in alcool, invece è solubile in etere. Dovendo l’olio d’oliva puro essere di colore giallo-verdognolo e piuttosto grasso, è grande errore del consumatore, come succede sovente a Milano, il richiederlo bianco di colore, fluidissimo e poco grasso. È questa richiesta che spinge i rivenditori ad adulterare il vero olio d’oliva puro con olii di altri semi di minor valore. Sofisticazioni – Poiché grandissimo è nel nostro paese l’uso dell’olio dell’oliva come alimento, giacché nella massima parte d’Italia l’olio d’oliva è molto più in uso che non il burro, dove questo sarebbe carissimo di prezzo, così assai frequentemente l’olio d‘oliva viene adulterato con aggiunta di altri olii di semi di minor valore (sesamo, cotone, arachide, colza, ravizzone, ricino, lino, ecc). L’aggiunta di questi olii dovrebbe essere resa pubblica dal rivenditore con cartelli esposti nei luoghi di vendita, come prescrive la legge, ma purtroppo sovente si sfugge a questo obbligo. Il sapore e i caratteri generali servono in parte a svelare l’adulterazione, però vi sono metodi facili e sicuri per riconoscere le aggiunte illecite […]. (E. Corbellini).”
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il pane pane bianco e leggerissimo per mezzo del bi-carbonato di soda L’articolo che segue è un breve testo che presenta al pubblico una novità straniera, come spesso si usa nelle testate dell’Ottocento, quando una sezione della rivista era dedicata esclusivamente alle notizie provenienti dai paesi europei e americani, con particolare riguardo verso Francia e Inghilterra, un esempio da seguire per gli agricoltori del LombardoVeneto. Tratto da: “Giornale agrario del Lombardo-Veneto e continuazione degli Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche” (vol. 10, fasc. 7-8, agosto 1838) Un fornaio di Londra ha presa ultimamente una patente per un processo di fabbricazione di pane leggiero, le cui qualità non sono l’effetto né del lievito, né della levatura (lievito di birra). Egli sostituisce a queste sostanze del bi-carbonato di soda e dell’acido idro-clorico, in quantità conveniente perché l’acido s’impossessi della soda e formi così del vero sale ordinario, mentre l’acido carbonico si sprigiona, gonfia la pasta, e le dà quell’apparenza spugnosa che caratterizza il pane leggiero. Ecco la maniera di operare: a 7 libbre di farina di frumento si mescolano 350 a 500 grani (di 20 a 27 gramme circa) di bicarbonato di soda, e circa una bottiglia e mezza di acqua distillata.
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In un vaso a parte a circa una mezza bottiglia d’acqua si mescola la quantità d’acido necessario (ve ne vogliono ordinariamente da 400 a 460 grani d’acido muriatico del commercio). È indispensabile di bene stemprare la pasta colla soluzione di soda, e quando tutto è così ben preparato, si versa l’acido.
cultura del grano saraceno L’articolo che segue riporta una serie di caratteristiche tipiche dei pezzi che nel “Giornale agrario del Lombardo Veneto” vengono pubblicati per presentare un prodotto, in questo caso il grano saraceno. Sono quindi reperibili notizie sui tipi di terreno e climi che più si adattano al cereale, le varie specie che è possibile trovare in natura e i suoi usi più vantaggiosi per l’agricoltore. È facile immaginare come uno degli obiettivi di maggior importanza del giornale fosse di suggerire agli agricoltori i prodotti che potessero apportare facili guadagni a fronte di spese relativamente basse. Tratto da “Giornale agrario del Lombardo-Veneto e continuazione degli Annali universali di Agricoltura, di Industria e d’Arti economiche” (vol. 11, fasc. 5-6, giugno 1839) A tutti quelli, che si occupano di agricoltura, è noto che il grano saraceno somministra al coltivatore diversi ed assai utili vantaggi. Questo meglio adattasi che qualunque altra qualità di sementa alle terre magre, sassose e frigide. Il suo seme per i majali è assai più nutritivo dell’orzo, per i cavalli della vena; od è adattissimo per nutrire i polli avendo la prerogativa di ingrassarli in pochissimo tempo. Segato dunque, e in fiore, e non molto disseccato, somministra un ottimo foraggio. La sua precoce vegetazione le fa rendere presto libero il terreno, e dar campo ad altra sementa che più tardiva non avrebbe il tempo necessario per dare il maturo frutto. – i suoi fiori poi sono per le api, e per molto tempo, una preziosa risorsa. Un’altra specie di grano saraceno ordinario, conosciuto sotto il nome di grano saraceno di Tartaria, o di Siberia, o di grano saraceno fruttescente, unisce alle qualità del grano anzidetto varie altre più vantaggiose ancora. Portando questo grano dalla Russia in Francia da un Ufficiale francese vegeta in tutte le terre ed in qualsiasi esposizione; il suo seme è più grosso, pesante, produttivo, precoce e resistente; egli non paventa il crudo gelo, resiste alle brine, ed il suo seme che ha passato tutto l’inverno sotto terra, trionfa delle stagioni le più rigide, e prestissimo germoglia. Può essere ancora seminato ai primi di marzo, e raccolto nel mese di giugno; così dà luogo al coltivatore di fare una seconda sementa per aver poi di questa il raccolto nel prossimo settembre. Bisogna però osservare, tostochè il suo seme è maturo, di mieterlo, altrimenti continuerebbe a gettare degli steli. (Laurent).
processo di panificazione diretta del grano senza macinatura L’articolo che segue è tradotto dalla lingua francese e presenta al pubblico un nuovo processo di panificazione; questo viene spiegato nei minimi particolari, dividendo il procedimento in modo schematico e offrendo una serie di dati numerici che possono efficacemente far comprendere i vantaggi che le operazioni descritte comportano per i produttori.
Tratto da: “Il politecnico. Giornale dell’ingegnere architetto civile ed industriale� (vol. 2, fasc. 11, novembre 1870) Il grano di frumento non contiene che il 4 o 5 per cento di pellicola epidermica non digeribile. Tutte le altre parti del grano mescolate fra loro sono molto atte a fare un pane oltremodo nutriente. Il sistema adottato sinora per trasformare il grano in pane, passando per la riduzione in farina, non permette di utilizzare nel pane bigio che l’80 per cento, equivalente a 112 chilogrammi di pane bigio per 100 chilogrammi di grano. Il Signor Sezille col suo sistema che sopprime la macinatura, crede ottenere 145 a 150 chilogrammi di pane bigio ogni 100 chilogrammi di grano, rendimento che supera del 33 per
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cento l’ordinario e che permetterebbe di economizzare per la sola Francia 23 milioni di ettolitri di grano, e quindi renderebbe impossibile in avvenire le crisi commerciali provenienti dalla scarsità del raccolto dei cereali e principalmente del frumento. Il modo di procedere è il seguente: Prima operazione – Si versa dell’acqua in una vasca o in un altro recipiente qualunque, e vi si immerge il grano che si agita per qualche minuto con una pala. Se vi sono dei grani guasti o troppo magri, galleggiano e si possono togliere. Con questa operazione si leva anche la polvere e tutte le altre impurità che si disciolgono nell’acqua; dopo mezz’ora si fa uscire l’acqua che è molto torbida, anche con i grani più puliti, e dopo aver lasciato gocciolare il grano lo si fa passare in un cilindro di lamiera munito all’interno di piccole punte, che toglie rapidamente e senza difficoltà il 2 a 5 per cento della prima pellicola epidermica che è la più grossolana; quanto alla seconda pellicola e a quella che si trova nella scanalatura longitudinale del grano, non sorpassa il 2 per cento, e siccome si trova alla fine dell’operazione mescolata in 150 chilogrammi di pane, non ha importanza dal lato nutritivo. Seconda operazione – La seconda operazione consiste a mettere il grano (200 chilogrammi) al quale è stata levata una parte dell’epidermide, in una vasca piena d’acqua a 20 o 25º C. per modo che vi sia una certa quantità d’acqua al disopra del grano. Dapprima, e questo è il punto capitale del sistema, si mescolano in quest’acqua 1 chilogrammo di lievito e mezzo secco e 150 a 200 grammi di glucosio; allora la materia fermentescibile in dissoluzione nell’acqua agisce a poco a poco sul grano, lo penetra e dopo 20 a 24 ore di immersione, secondo le specie di grano e la temperatura, esso ha assorbito il 50 al 70 per cento d’acqua ed è atto alla fermentazione. Allora si decanta immediatamente l’acqua, che è rossastra in causa della materia colorata che si trova sotto l’epidermide del grano e che è disciolta forse dall’azione del fermento (ciò che contribuisce a fare del pane bianco), e si passa alla terza operazione. Terza operazione – Lasciato sgocciolare il grano, lo si mette in una tramoggia che mediante un distributore lo fa passare fra uno o due paja di cilindri. Il grano che è molle ed ha la consistenza quasi del formaggio di Gruyère, si riduce facilmente in pasta. Questa operazione ha per iscopo di ridurre in parti eccessivamente sottili la porzione della pellicola rimasta, onde mescolarla intimamente col rimanente. La riduzione in pasta essendo terminata, si prende la quantità di sale necessaria per dar sapore al pane e la si scioglie nell’acqua, poi si versa la soluzione sulla pasta, si danno due o tre colpi di mano per riunire e ben mescolare tutte le parti della pasta, e si procede del resto come all’ordinario, dividendo la pasta in piccoli pani, lasciando compiere la fermentazione e passandola poscia al forno. Il grano appropriandosi il 50 al 70 per cento d’acqua secondo la specie del grano e la temperatura, è evidente che quando non ne riceve che il 30 non ne ha sufficiente per panificarsi, e converrà aggiungere l’ulteriore 15 a 20 per cento, secondo che si crederà conveniente, e questa aggiunta non esigerà verun lavoro di più, dovendosi impastare qualche po’ a mano per mescolare il tutto; l’assorbimento dell’acqua dal glutine si fa molto rapidamente anche in questo modo.
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gli spinaci una breve introduzione Nel pezzo che segue viene descritta una nuova pianta, gli spinaci della Nuova Zelanda, spiegando in quale modo è giunta fino in Europa e fornendo informazioni utili per la sua coltivazione. Tratto da “Giornale dell’ingegnere, architetto e agronomo” (vol. 1, fasc. 15-16, febbraio 1854)
coltivazione ed usi degli spinaci della nuova zelanda I botanici ed i viaggiatori ben di sovente ci fanno ricchi di un gran numero di nuove piante, dalle più lontane regioni trasportandole, non senza gravi stenti. Ma non di rado accade che molte di esse, utili nel loro paese nativo, vengono tra noi dimenticate; malgrado che non tralascino di conservare tutte le loro proprietà, ed il nostro clima sia conveniente alla loro coltivazione. Tra queste devesi senza dubbio annoverare lo spinace della Nuova Zelanda, trasportato in Europa sino dal 1772 dal celebre Giuseppe Bancks, e da quell’epoca coltivato in diversi giardini, ed assai poco negli orti. Raccomandato questo come un vegetabile alimentare e antiscorbutico dal capitano Cook, dal conte Ouerches ed altri dotti, non è certo coltivato quanto meriterebbe di esserlo, potendo fornire in estate abbondanti raccolte, e resistere a’ più ardenti calori, in un’epoca in cui gli altri comuni spinaci induriscono, e troppo rapidamente s’innalzano per fiorire e fruttificare. Da molti viene anche preferito per il sapore più grato che vi trovano; e noi pure lo gustammo, e ci parve buonissimo. Il capitano Cook dice che lo spinace della Nuova Zelanda cresce naturalmente in tutte le stagioni, nei campi e sugli scogli delle isole del Mar del Sud; e che gli abitanti di quei luoghi vanno a staccarne le foglie ed i giovani germogli per prepararli e cibarsene, bolliti come facciamo noi con gli spinaci, sia in insalata che in minestra. Lo si coltiva pur allo stesso fine nei giardini di quelle isole. Al pari del maggior numero delle piante ortensi, varia la sua coltivazione secondo la diversa temperatura locale. A Parigi, per avere questi spinaci in primavera, li seminano d’inverno sopra un letto caldo, formato da otto a dieci metri di letame fresco di cavallo e due di terra sovrappostavi. Tra noi si possono seminare in marzo, ed in giugno farne la prima raccolta. Si collocano i semi ad un piede circa di distanza; e quando le piante hanno tre o quattro foglie, oltre le seminali, o circa venticinque giorni di vita, si zappano: in tal guisa rinvigoriscono e gettano fuori molte foglie. Allora è tempo di farne uso. A qual uopo si tagliano queste insieme col caule, al disopra della quinta o sesta foglia. E siccome ben presto ne spuntano delle altre, così si continua a tagliare: ripetendosi tale operazione ogni quindici giorni, finché la temperatura divenendo fredda cessano di vegetare. Quando nascono per la caduta spontanea dei semi, oppure perché siano stati sparsi troppo fitti, in allora giunte le piante all’altezza di tre oncie devonsi diradare, trapiantandole, se si vuole, in altri siti, come si fa coi cavoli. Del resto la coltivazione di questi spinaci per nulla differisce da quella delle piante ortensi.
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la frutta una breve introduzione Il trafiletto che segue offre al lettore un breve compendio delle virtù che la frutta comporta all’interno di un’alimentazione mista ed equilibrata, che non preveda un eccesso di carne e dunque di proteine di origine animale. Per meglio illustrare tali doti, l’autore ha compilato una lista esplicativa con i tipi di frutta maggiormente diffusi nel panorama agricolo del paese e che possono facilmente raggiungere le tavole dei lettori. Per ogni prodotto viene fornita una descrizione delle sue doti oltre a qualche dato sulla storia della pianta da frutto, sul suo sapore e sulla sua coltivazione. Una perfetta alimentazione deve essere “mista” ossia deve essa ricorrere al regime carneo commisto frequentemente, anzi giornalmente al regime vegetariano. L’uso esagerato ed esclusivo della carne non è assolutamente sano e solo conviene per individui estremamente indeboliti in seguito a gravi malattie. Giova invece moltissimo l’uso abbondante di vegetali, siano essi erbaggi o siano frutti debitamente cotti o anche crudi. La frutta poi debbono essere sane e ben mature, né mai bisogna abusarne specie se crude. Vario è il loro grado di potenza nutritiva e di digeribilità come vedremo nella seguente rassegna. Tratto da: “Letture della domenica” (vol. 6, fasc. 37, settembre 1913)
frutto a nocciolo intero (rosacee ed amigdalee). Prugna – Le varietà più stimate sembrano provenire dall’Oriente. Plinio crede che la importazione delle prugne in Italia venga da Damasco. Innumerevoli sono queste varietà, vari sono i colori, varia la forma. In generale sono di aroma fino e delicato, di sapore gustoso, zuccherino, sono frutti sanissimi, rinfrescanti e lassativi. La prugna si usa anche farla disseccare al sole e queste sono al tempo stesso un alimento ed un medicamento. Si possono mangiare crude e cotte. Ciliegia – È il frutto del cerasus vulgaris. Questo albero venne portato da Cerasunte a Roma da Lucullo 68 anni prima di Cristo dopo le sue vittorie su Mitradate. In Italia i suoi frutti furono assai apprezzati e la sua coltura si diffuse largamente. Varie sono le qualità di questo frutto la cui carne è dolce ed un po’ acida. È frutto assai sano. Mandorla (amygdalus communis) – Albero indigeno dell’Africa, coltivato oggidì in quasi tutta l’Europa meridionale. Il frutto è verde, ovoide, allungato a punta. Contiene per nocciolo uno o due semi detti “mandorle”. Questi semi sono assai saporiti tanto verdi che secchi. Dai semi secchi si ricava un olio che si usa in medicina. Sono questi frutti assai indigesti, in causa dell’olio che contengono. Pesca (persicus vulgaris) – È un albero assai affine al mandorlo ma se ne differenzia per frutto la cui carne è spessa, carnosa, succulenta. Ve ne sono due varietà, una con la carne attaccata al nocciolo (pesca cotogna) gialla o rossa, l’altra la cui carne si disfà più
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facilmente e si distacca dall’osso o nocciolo (pesca violetta) di colore rosso violaceo. È frutto rinfrescante, gustoso ma indigesto, è meglio mangiarlo con zucchero o nel vino. I noccioli sono tossici perché contengono molto acido prussico. Albicocca (armeniaca vulgaris) – Ebbe il suo nome dall’Armenia sua patria. La polpa dell’albicocca è carnosa, però indigesta e perciò da mangiarsi con moderazione. Mela (malus communis) – È albero la cui coltivazione risale alla più remota antichità. Se ne conoscono moltissime varietà e prendono vari nomi secondo i paesi, la forma del frutto, il colore, ecc. Il frutto è tondo, liscio di buccia, sottile e colorata, si conserva benissimo anche in inverno.
È frutto sanissimo, e si mangia tanto crudo che cotto. Pera (pirus communis) – È il frutto d’un albero selvatico che mediante la coltivazione in frutteti ha assunto moltissime varietà. È frutto di forma allungata come una trottola, dolce, carnoso, profumato. Mela cotogna (cydonia vulgaris) – È originaria di Creta. È frutto che matura in autunno. Ha forte profumo e sapore aspro. Se ne fanno confetture, gelatine, sciroppi.
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l’allevamento di maiali una breve introduzione La rivista da cui è tratto l’articolo pone particolare cura nel presentare ai lettori notizie e saggi che facciano riflettere su nuovi tipi di colture, o allevamento, che erano poco impiegati, o del tutto assenti, dalle campagne. Questo è il caso dei suini, che secondo l’autore dell’articolo non rappresentavano un investimento abbastanza sfruttato dall’agricoltore medio, il quale si limitava ad allevare, seppur con successo, quasi solamente mandrie di vacche. Per convincere dunque il pubblico dei vantaggi che si potrebbero trarre dedicandosi all’allevamento dei maiali, non solo vengono forniti dati molto precisi relativi a diverse province sulla quantità di terra incolta che potrebbe essere invece impiegata per l’allevamento, ma viene anche fornita una precisa descrizione del suino: le sue abitudini, l’alimentazione, la riproduzione, le giuste cure che gli andrebbero fornite e gli stereotipi che sono legati a questo animale. Tratto da: “Giornale agrario del Lombardo-Veneto Annali universali di Tecnologia, di Agricoltura, di Economia rurale e domestica, di Arti e Mestieri ” (vol. 6, fasc.9, settembre 1851)
allevamento dei maiali Noi lombardi, che possediamo forse le più belle campagne del mondo, non abbiamo ancora ben ponderata l’importanza di aumentare il numero dei suini, animali di poca spesa, di molto lucro. Abbiamo belle e numerose mandrie bovine, importate specialmente dalla vicina Svizzera,
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per cui è alimentata una delle più ricche industrie, l’arte di fabbricare i formaggi: manchiamo però di accordare un giusto peso ad un’altra industria, la educazione dei suini: e noi abbiamo località, terre, opportuni mezzi quant’altri mai di provvedere ai bisogni, al più brillante sviluppo di queste razze, che moltiplicano a dismisura sotto il nostro bel cielo. Dei 32 milioni circa di pertiche di terreno che costituiscono il territorio lombardo noi sappiamo che appena 17 milioni circa sono ridotte a coltivazioni, lasciando una enorme quantità di aree ancora incolte, cioè numerosi e buoni pascoli, e boscaglie, e macchie, e paludi che fruttano pure qualcosa. Nella sola provincia di Sondrio, forte di oltre 6 milioni di pertiche di terreno fra colle e montagna, non se ne coltivano che pertiche 425,875. Nella provincia di Bergamo che ugualia il terzo di tutto il territorio lombardo, di cui più di 6 milioni in valle, e più di 4 milioni in montagna, non havvi che il quinto circa di terreno coltivato, cioè 2,295,578 pertiche. Quanta opportunità, quanta importanza potrebbero presentare queste enormi aree, quando si pensasse seriamente ad introdurre le educazioni dei suini. Quello dicevamo di queste due provincie, lo potremmo assicurare di alcune altre, anzi di tutte a seconda della maggiore o minor convenienza dell’industria in relazione alle condizioni speciali dei luoghi, dei proprietarj, dei coltivatori. Fra le nazioni nordiche più che da noi si attende alla educazione dei suini: eppure quei campagnuoli che coltivano questa industria, ne sentono i più manifesti vantaggi: domandate a quei contadini che sanno apprezzare l’allevamento dei suini, e sentirete di quanto vi sia a rallegrarsi delle cure che quotidianamente vi prodigano. Il male sta alla campagna generalmente poco o nulla si conosce sul modo più economico, più conveniente di educare questi bestiami: quali sarebbero adunque quelle cure che vieppiù saranno reclamate da questa industria, che vorremmo maggiormente propagata? È notissimo come alla campagna nonostante i grandi servigi prestati all’agricoltura da questo animale, tuttalvolta se ne ignorano dalla più parte i vari istinti, i gusti, l’igiene. Fra tutti gli animali domestici la educazione dei suini è la più trascurata, la meno studiata, e quel che è peggio si crede di far bene quando si fa più male. I campagnuoli credono che il porco ami acque sporche, siti tenebrosi, alloggi cattivi, trattamento il più trascurato: ecco lo sbaglio principale: invece, ove si voglia rendere più commerciale la sua qualità, ed aumentarne il prodotto, vuolsi buon aria, soleggiamento, i campi, i boschi, ed una igiene corrispondente al suo accrescimento ed alla sua maturanza. Sono queste condizioni necessarie, perché questa specie di animali utilissimi corra una vita opportuna allo scopo del paesano, il quale pare che operi tutto il contrario. Difatti appena nato comincia una vita la più deplorabile fino alla morte, mal nodrito, peggio alloggiato. Il suino ama alternare i suoi godimenti, e ne è insaziabile. La solitudine non gli garba affatto: non vive bene che in famiglia: gli è necessario un ricovero sano, dove possa ricevere luce ed aria: mangia di più quando si trova in compagnia d’altri che da solo: non vi ha che un’eccezione: è la femmina dopo il parto: questa allora rimane segregata fra i suoi nati, ed esce separatamente con essi. Nei primi tre o quattro mesi generalmente si fanno bevere in un’acqua grassa o nel siero mescolato a crusca: vi si aggiungono alcuni frutti caduti dagli alberi, alcune tuberose o legumi cotti: così beve e mangia: in questo tempo si verifica il suo aumento, e si allunga. Dopo quest’epoca occorre un nutrimento più sostanzioso; e si continua fino a circa dieci mesi: dopo comincia l’ingrassamento: si adoperano diversi alimenti, formentone pestato, legumi cotti, luini, crusca, orzo, patate, zucche, ecc. Il porco debbe essere strigliato e nettato almeno una volta al giorno. Questa nettezza fa la sua delizia, ciò che aggiunto ai bagni quotidiani, lo preserva dagli inopportuni pruriti che l’assediano continuamente, nel caso che simili cure igieniche vengano dimenticate. Di qui l’incessante sfregarsi che fa contro la terra, le piante, le pareti del proprio alloggio, per cui
le tante volte si vedono perfino a ferirsi, tanta è la noja dell’impolizia con cui è tenuto. Questo stato anormale gli procura un malessere, una febbre continua, ciò che influisce assai sulle cattive qualità delle carni. È per questo motivo, che privato d’acqua, non potendo rinfrescarsi il corpo, soffogato dalla pinguedine, gavazza entro paludi fangosi, e cerca le terre sabbiose per grattarsi. Non è per istinto, ma per necessità che ricorre a tale immondezza. Si dovrà incolpare adunque questo utile animale, o l’uomo che non sa comprenderlo? I campagnuoli che si istruiranno sulle norme più atte alla educazione dei suini, potranno ottenere dei capi di un eccellente qualità, e pesanti molto più dei comuni. Alcuni pochi fittabili da noi hanno compreso il vantaggio che si può ritrarre di questa industria: e quei pochi, sebbene convinti dell’utile che se ne trae, seguono ancora l’antica abitudine di far male. Noi raccomandiamo altamente le cure suesposte e la più numerosa educazione di queste mandrie: l’aria, la luce non si pagano, e quindi lasciate che ne godono a tutto agio: le cure igieniche, gli alimenti costano denaro: ma adesso non si spende? Noi riteniamo fermamente che la spesa non oltrepassi la comune, seguendo il buon sistema, dacché tutto si riduce ad avere buon senso e cura del proprio interesse […].
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il caffè una breve introduzione L’articolo presentato di seguito, il primo a essere pubblicato sul primo numero, è scritto da Pietro Verri e rappresenta il manifesto della rivista. In esso l’autore introduce un personaggio fittizio, Demetrio, un greco proprietario della bottega di caffè dove il giornalista si colloca e a lui lascia il compito di narrare un’esaustiva storia della bevanda, scritta sotto forma di racconto. Tratto da: “Il Caffè” (vol. 1, fasc. 1, giugno 1764)
il caffè Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoj. E sin a quando fate voi conto di continuare quest’Opera? Insin a tanto, che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anco dei trentasei foglj se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa.
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Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una agradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? e lo dirò, ma andiamo a capo. Un Greco originario di Citera, Isoletta riposta fra la Morea, e Candia, mal soffrendo l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengono tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella
Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione, e gli esempi, son già tre anni, che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse Città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi, che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tiepida, e profumata che consola; la notte è illuminata cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, chi vuole leggere, trova sempre i foglj di Novelle Politiche, e quel di colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e varj altri: in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’è di più un buon Atlante, che decide le questioni che nascondono le nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti, che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi, che vi ascolto degni di registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine varj, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè. Il nostro Greco adunque (il quale per parentesi si chiama Demetrio) è un uomo, che ha tutto l’esteriore d’un uomo ragionevole e trattandolo, si conosce che la figura che ha gli sta bene, nella sua fisionomia non si scorge né quella stupida gravità che fa per lo più l’ufficio della cassa ferrata d’un fallito, né quel sorriso abituale, che serve spesse volte d’insegna a una timida falsità. Demetrio ride quando vede qualche lampo ridicolo, ma porta sempre in fronte un onorato carattere di quella sicurezza, che un uomo ha di se quando ha ubbidito alle Leggi. L’abito Orientale, ch’ej veste, gli dà una maestosa decenza al portamento, cosicché lo credereste di condizione signorile, anziché il padrone d’una bottega di Caffè, e conviene dire, che vi sia realmente una intrinseca perfezione nel vestito Asiatico in paragone al nostro poiché laddove i fanciulli in Costantinopoli non cessano mai di dileggiare noi Franchi, qui da noi, non so se per timore, o per riverenza, non si vede che osino render la pariglia a i Levantini. Gli Europei, che si stabiliscono in quelle contrade vestono tutti l’abito o Armeno, o Greco, o talare in qualunque modo, né se ne trovano male, anzi rimpatriando risentono il tormento del nostro abito con maggior energia, in vece che nessun di casi, stabilendosi fra di noi nelle Città dove il commercio li porta, può risolversi a fare altrettanto[…]. Son pochi dì, dacché il nostro Demetrio ebbe occasione di parlar del suo mestiere, e ne parlò da maestro. Si trovavano nel Caffè un Negoziante, un Giovane studente di Filosofia, ed uno dei mille e
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ducento Curiali, che vivono nel nostro paese; io stava tranquillamente ascoltandoli, non contribuendo con nulla del mio alla loro conversazione. Il Caffè è una buona bevanda, diceva il Negoziante, io lo faccio venire dalla parte di Venezia, lo pago cinquanta soldi la libbra, né mi discosterò mai dal mio corrispondente; altre volte lo faceva venire da Livorno, ma v’era diversità almen d’un soldo per libbra. V’è nel Caffè, soggiunse il Giovane, una virtù risvegliativi degli spiriti animati, come nell’oppio v’è la virtù assaporativa e dormitiva. Gran fatto, replicò il Curiale, che quel legume del Caffè, quella fava ci debba venire sino da Costantinopoli! Qui Demetrio, il quale in quel punto era disoccupato, prese a parlare in tal modo: Storia naturale del Caffè. Il Caffè, Signori miei, non è altrimenti una fava, o un legume, non nasce altrimenti nelle
contrade vicine a Costantinopoli; e se siete disposti a credere a me, che ho viaggiato ed ho veduto nell’Arabia i campi interi coperti di Caffè, vi dirò quello che egli è veramente. Il Caffè, che noi Orientali comunemente chiamiamo Couhè, e Cahua, è prodotto non da un legume, ma bensì da un albero, il quale al suo aspetto paragonasi agli aranci ed a’ limoni quand’hanno le loro radici fisse nel suolo, poiché s’alza circa quattro o cinque braccia da terra; il tronco di esso comunemente s’abbraccia con ambe le mani, le foglie sono disposte come quelle degli aranci, come esse sempre verdi anche nell’inverno, e come esse d’un verde bruno; di più l’albero del Caffè nella disposizione de’ suoi rami s’estende presso poco come gli aranci, se non che nella sua vecchiezza i rami inferiori cadono alquanto verso il pavimento. Il Caffè cresce, e si riproduce con poca fatica anche nelle terre, le quali sembrerebbero sterili per altre piante; e in due maniere si moltiplica e col seme (il quale è quell’istesso che ci serve per la bevanda) e col produrne di nuove pianticelle delle radici.
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È bensì vero, che il seme del Caffè diventa sterile poco dopo che è distaccato dall’albero, ed alla natura deve imputarsi, non alle pretese cautele degli Arabi se ei non produce portato che sia da noi, poiché non è altrimenti vero che gli Arabi lo risecchino ne’ forni, né nell’acqua bollente a tal fine, come alcuni spacciarono. L’albero del Caffè finalmente s’assomiglia agli aranci anche in ciò che nel tempo medesimo vi si vedono e fiori, e frutti, altri maturi, altri no, sebbene il tempo veramente della grande raccolta nell’Arabia, sia nel mese di Maggio. I fiori somigliano i gelsomini di Spagna, i frutti sembrano quei del ciliegio verdastri al bel principio, poi rossigni, indi nella maturanza d’un perfetto porporino. Il nocciolo di esso frutto rinchiude due grani di Caffè, i quali si combaciano nella parte piena, e son nodriti da un filamento che passa loro al lungo, di che ne vediamo vestigio nel grano medesimo: si raccolgono i frutti maturi del Caffè scuotendone la pianta, essi non sono grati a cibarsene, si lasciano diseccare esposti al Sole, indi facendo passare sopra di essi un rotolo di sasso pesante si schiudono dopo i gusci, e ne esce il grano. Ogni pianta presso poco produce cinque libbre di Caffè all’anno, e costa sì poca cura il coltivarla, ch’egli è un prodotto che ci concede la terra con una generosità che poco usa negli altri. Nell’oriente era in uso la bevanda del Caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da’ Maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell’Europa non è più di un secolo da che vi è nota. La più antica memoria che sen abbia è del 1644 anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima bottega del Caffè aperta in Europa l’anno 1671. La perfezione della bevanda del Caffè dipende primieramente dalla perfezione del Caffè medesimo, il quale vuol essere Arabo, e nell’Arabia stessa non ogni campo lo produce d’egual bontà, come non ogni spiaggia d’una provincia produce vini di forza eguale. Il migliore d’ogni altro è quello ch’io uso, cioè quello che si vende al Bazar, ossia al Mercato di Betelfaguy, città distante cento miglia circa da Mocha. Ivi gli Arabi delle campagne vicine portano il Caffè entro alcuni sacchi di paglia, e ne caricano i Cammelli; ivi per mezzo dei Banian i forestieri lo comprano. Comprasi pure il buon Caffè al Cairo, ed in Alessandria, dove vi è condotto dalle Carovane della Mecca. I grani del Caffè piccoli e di colore alquanto verdastri sono preferibili a tutti. Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda nel modo di prepararla, ed io soglio abbrucciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polvo entro una Caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poiché lo vedo fumare copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicché la parte sulfurea e oleosa, appena per l’opera del fuoco si schiude della droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio riposare il Caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso, indi profumata altra Caffettiera col fumo del legno d’Aloe verso in essa il Caffè che venite a prendere, e che trovate sì squisito. Il Caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto, e che coltivano le scienze. Alcuni giunsero perfino a paragonarlo al famoso Nepente tanto celebrato da Omero; e si raccontano de’ casi nei quali coll’uso del Caffè si son guarite delle febbri, e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile, che ne accelera il moto, e lo dirada, e lo assottiglia, e in certa guisa lo ravviva.
Questa pianta animatrice, naturale per quanto sembra al suolo dell’Arabia, fu verso il fine dello scorso secolo dagli Olandesi trasportata nell’Isola di Java a Batavia, indi moltiplicatasi, ivi se ne dilatò dai medesimi la piantagione anche nell’Isola di Ceylan, poscia col tempo se ne portò in Europa; e in Olanda, e in Parigi per curiosità se ne coltivano le piante, le quali nelle serre riscaldate l’inverno reggono e producono frutti, e tanto sen è universalizzata la coltura presentemente, che nell’America, e nell’Indie Orientali se ne fa la raccolta, cosicché abbiamo Caffè di Surinam, dell’Isola Bourbon, di Cayenne, della Martinica, di S. Domingo, della Guadalupa, delle Antille, dell’Isola di Capo Verde. Il Caffè d’Arabia è il primo, quello dell’Indie Orientali vien dopo, il peggiore d’ogni altro è quello d’America. Così terminò di parlare Demetrio, ed io credetti al suo discorso, poiché lo trovai conforme a quanto ne aveva letto nelle Memorie dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi dell’anno 1713 in un Memoire del Sig. Jutricu, a quanto ce ne attestano i Viaggi dell’Arabia felice del Sig. La Roque, del Cav. Di Marchait, le Memorie del Sig. Garcin. Ma poiché ebbe terminato il suo ragionamento Demetrio, s’alzò il Curiale, e uscì dalla bottega ripetendo: Gran fatto, che quel legume del Caffè, quella fava, ci debba venire sino da Costantinopoli.
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Note: 1 - A. Magistà, L’Italia in prima pagina. Storia di un paese nella storia dei suoi giornali, Bruno Mondadori, Milano 2006. 2 - “Il Politecnico” (1839-1865). Periodico fondato nel 1839 a Milano grazie all’accordo stipulato tra padre Ottavio Ferrario, direttore della Farmacia dei Fatebenefratelli e cultore di chimica, il professor Giovanni Battista Menini e Carlo Cattaneo. Nel programma, Cattaneo illustra il suo ideale di un giornalismo moderno, civilmente impegnato; il giornale si pone come interprete e mediatore fra il mondo degli specialisti e il pubblico. Interpretando nel senso più ampio e comprensivo il concetto di arte, il mensile si colloca nel punto di mediazione tra ricerca e vita sociale. Esso si fa sostenitore della necessità di un riparto equilibrato tra investimenti agricoli e commerciali e di un industrialismo di carattere gradualistico, nel quadro di un’adesione decisa alle concezioni liberiste. I collaboratori esperti in varie discipline concorrono in modo decisivo al programma di rinnovamento tecnologico, individuato come obbiettivo fondamentale del periodico. Crediti immagini: 01 - Gli asparigi. Pubblico Dominio 02 - Arance 03 - Arancia, Nico Cavalloto. Licensed by Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic https://www.flickr.com/photos/nicocavallotto/2050927612/ 04 - Bovini . Pubblico Dominio 05 - Macello . Pubblico Dominio 06 - Zucchero . Pubblico Dominio 07 - Tacuina sanitatis (XIV century) 6-alimenti, zucchero,Taccuino Sanitatis, Casanatense 4182 By unknown master - book scan, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1638831 08 - Mulino da zucchero XVIII SEC. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=662762 09 - Le spezie. Pubblico Dominio 10 - Le spezie. Licenza Attribuzione Alcuni diritti riservati a Alessandro Bonvini 12 - Il sale. Pubblico Dominio 13 - Il pesce. Pubblico Dominio 14 - Il pesce azzurro . Pubblico Dominio 15 - L’olio. Pubblico Dominio 16 - Il pane. Pubblico Dominio 17 - La prima casa del pane di massa lombarda. Di Alessio Panighi - Opera propria, CC BY 3.0, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=5131622 18 - LicenzaAttribuzioneNon opere derivate Alcuni diritti riservati a Margaret River Busselton Tourism Association 19 - Scheda erboristica Prugna 20 - Scheda erboristica Pera 21 - Maiali. By Ehrgott & Krebs - This image is available from the United States Library of Congress’s Prints and Photographs division under the digital ID pga.03169. This tag does not indicate the copyright status of the attached work. A normal copyright tag is still required. 22 - Il caffe . Pubblico Dominio 23 - Di Internet Archive Book Images - https://www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages/20661921995/ Source book page: https://archive.org/stream/coffeeitshistory00thom/#page/n30/mode/1up, No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43659204 24 - Coffee; its history and also its remarkable growth in the world of commerce Identifier: coffeeitshistory00thom (find matches) Year: 1898 (1890s) Authors: Thomson & Taylor spice co. , Chicago. (from old catalog) Di Internet Archive Book Images - https://www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages/20668634251/ Source book page: https://archive.org/stream/coffeeitshistory00thom/#page/n35/mode/1up, No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43659192 25 - Coffee; its history and also its remarkable growth in the world of commerce Identifier: coffeeitshistory00thom (find matches) Year: 1898 (1890s) Authors: Thomson & Taylor spice co. , Chicago. (from old catalog) Di Internet Archive Book Images - https://www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages/20652726632/ Source book page: https://archive.org/stream/coffeeitshistory00thom/#page/n36/mode/1up, No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43659180 26 - Coffee; its history and also its remarkable growth in the world of commerce Identifier: coffeeitshistory00thom (find matches) Year: 1898 (1890s) Authors: Thomson & Taylor spice co. , Chicago. Di Internet Archive Book Images - https://www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages/20039356734/ Source book page: https://archive.org/stream/coffeeitshistory00thom/#page/n32/mode/1up, No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43659160
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