Il vino

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Il Vino MITO E STORIA L’azione del bere vino non risponde ad una semplice esigenza naturale. Rispetto ad altri prodotti, come i cereali o la produzione orticola, il vino non si colloca nello spazio del necessario e quindi del quotidiano, ma piuttosto in quello del superfluo e pertanto del festivo. Il vino è protagonista di molti racconti mitologici vicino-orientali: il dio ugaritico El era vittima dell’abuso di vino, il patriarca biblico Noè era anch’egli in preda ai fumi dell’alcol, in un testo egizio del Nuovo Regno si narrano le conseguenze di un esotico banchetto “alla siriana” nell’antico Egitto. La vigna piantata da Noè è il primo atto culturale compiuto dal patriarca all’uscita dall’arca, una sorta di rito di fondazione che separa il prima – la discendenza di Adamo annientata dal diluvio – dal presente di Noè e dei suoi. Il consumo del vino che provoca l’ebrezza di Noè fissa come conseguenza indiretta una gerarchia all’interno della discendenza del vecchio patriarca, gerarchia che diventa un discrimine culturale nelle relazioni tra i discendenti dei tre figli di Noè: Sem, Iaphet e Cam. In questo modo vite e vino si rivelano dei marcatori culturali che individuano il popolo di Israele rispetto al passato ma anche al presente. Nell’antica Grecia il vino era offerto come dono dal dio Dioniso. I doni di Dioniso (il vino) e di Demetra (i cereali) hanno rappresentato per l’immaginario dei Greci il segno concreto e visibile


della loro identità culturale, della vita civilizzata, in opposizione alla barbarie, allo stato selvaggio e alla brutalità ferina. Nel mito il dono divino implica una radicale trasformazione delle forme dell’esistenza umana. Nelle tradizioni mitiche il dono della vite pare seguire due grandi direttrici: l’accoglimento o il rifiuto di Dioniso. Nel testo “Inno omerico a Dioniso” – risalente probabilmente all’VIII o VII secolo a.C. – il dio si manifesta attraverso azioni prodigiose che sconvolgono i pirati dai quali era stato rapito; terrorizzati si tuffano in mare e diventano delfini. È l’atteggiamento umano nei confronti del dio che determina l’accoglimento o il rifiuto. Non riconoscere la divinità e rifiutarne il culto hanno come conseguenza la perdita irreversibile dei connotati umani, un viaggio senza ritorno nei territori della bestialità: i pirati, infatti, diventano delfini! Riconoscere la divinità di Dioniso, accoglierlo e accettarne il dono equivale a compiere una scelta culturale. Tuttavia anche là dove il dio è oggetto di ospitalità, il suo ingresso produce uno sconvolgimento del sistema familiare. Se il dono del vino deve essere fatto circolare, come avevano fatto gli abitanti di Chio dopo che la coltivazione della vite era stata introdotta nella loro isola, anche la famiglia si deve aprire allo scambio che nella prospettiva dei riti dionisiaci è lo scambio matrimoniale. In questa prospettiva si situa la vicenda mitica di Oinopione, figlio di Dioniso che ha appreso dal padre l’arte della vinificazione, al quale Orione, ubriacatosi, seduce o violenta la figlia, ma dopo che Oinopione si era rifiutato di onorare il pattuito contratto matrimoniale. La vicenda lascia trasparire una latente conflittualità tra il sistema culturale centrato sulla coltivazione della vite, rappresentato da Oinopione, e la caccia, incarnato da Orione, un eroe cacciatore. Il mostruoso Ciclope, che vive in una caverna e pratica il cannibalismo, incarna il selvaggio abitatore della non-cultura, della natura non addomesticata alla quale la sbornia da vino può condurre. Il Ciclope è sconfitto da Odisseo con il vino di Ismaro, un prodotto della cultura, frutto della manipolazione dell’uva, donatagli da Marone, sacerdote di Apollo, che mescolava quel rosso vino con venti misure d’acqua. Ma il Ciclope non conosce gli effetti della profumata bevanda e ne rimane vittima. Sono i Greci invece che sanno bere il vino, tagliandolo con l’acqua, miscelandolo con il miele o con l’acqua di mare che non provoca ebrezza. Il vino rappresentava un canale di rapporti sociali che sottraeva l’uomo all’isolamento. Il campo d’azione di Dioniso, che si identificava con il succo spremuto dall’uva, era il codice attraverso il quale il mondo greco comunicava.


Platone riteneva che gli abitanti della sua città ideale dovessero consumare vino con moderazione per godere di una vita lunga, pacifica e in buona salute. La cultura del vino affonda le sue radici in un passato insondabile e difficile è stabilire il momento in cui l’uomo cominciò ad addomesticare la vite e a produrre vino. L’uomo mediterraneo, non più condizionato dall’ecosistema ma proteso alla sua conquista, ha presto avuto la vite e il vino come suoi compagni di viaggio attraverso la storia. Il Vicino Oriente e l’antico Egitto avevano elaborato raffinate tecniche di produzione del vino. I re assiri amavano questa bevanda al punto da pretendere sistematicamente dalle periferie conquistate vino di prima scelta. Il vino si configura come marcatore di status sociale. Nell’Egitto ellenistico il vino era riservato alle classi abbienti mentre i poveri dovevano accontentarsi della birra. Catone distingueva il vino per gli schiavi, ottenuto aggiungendo acqua allo scarto rimasto nelle presse, da quello per i padroni. Nell’Europa settentrionale, durante il Medioevo, il vino della “festa” era la bevanda delle élite sociali. Tipica era la distinzione, nella Francia del XVIII secolo, tra Grand Crus e vins populaires. La vite e il vino divennero un principio di identificazione per la civiltà mediterranea, grecolatina prima e poi cristiana, rispetto ai barbari e uno strumento di conquista adottato dai monaci che, nella loro opera di diffusione del cristianesimo, introdussero nell’Europa centro-settentrionale la coltivazione della vite. Marco Aurelio Probo, imperatore tra il 276 e il 282 d.C., in soli sei anni ha ridisegnato la geografia enogastronomica del mondo antico e posto le basi di quella moderna. I suoi legionari avevano il compito di piantare viti in tutti i territori conquistati al fine di produrre in loco il vino per le truppe e tagliare drasticamente i costi del trasporto. In questo modo la Pannonia, l’Illiria, la Dalmazia, la Gallia, l’Iberia diventarono degli chateaux al servizio dell’imperatore. Che tutte le grandi bottiglie del vecchio continente discendano dai gloriosi tralci quiriti lo confermano i loro nomi: dall’etichetta Romanée Conti, che prende l’appellativo dal fazzoletto di terra che i borgognoni chiamarono romana per mostrarsi grati all’imperatore Probo, al Mersault, che non è altro che il muris saltus il salto del topo. Lo Champagne invece deriva dalla parola campus, la stessa da cui viene Campania, terra del Falerno, del Cecubo, del Surrentinum e della falanghina, il vino di pronta beva per le falangi, come dice la parola stessa. Nei Gesta Romanorum (una raccolta medievale di novelle datata al 1300 circa), al Patriarca venne attribuita la scoperta della Labrusca, dai labra, i bordi di campi; tale vite funzionava come separatore e indicatore di margini e confini. Così la cultura “enoica” si distingueva dalla civiltà


della birra e della carne e continuava a perpetuarsi attraverso il cristianesimo che aveva adottato la metafora della vigna per identificare la comunità dei fedeli e la Chiesa stessa e quella del vino per designare il sangue del suo fondatore.

ENOLOGIA E USI TRADIZIONALI Nell’antica Grecia il vino era classificato con nomi che coincidevano con il luogo fisico di produzione. Già Omero, parlando del vino con cui Odisseo sconfigge il Ciclope, lo individua attraverso il luogo di produzione, la città di Ismaro, sulla costa tracia dell’Egeo settentrionale, e chiamava per nome il vino di Pramno, il più antico dei vini per i Greci. Nel suo “Filosofi a banchetto” Ateneo di Naucrati (II secolo d.C.) ripartisce la bevanda in vino nuovo, preferito dagli uomini, e vino vecchio, gradito dalle cortigiane, seguendo quindi una denominazione che si riferisce all’età; vini neri, bianchi e paglierini, con riferimento al colore; vini raggruppati per aree geografiche che comprendono l’Italia, le isole dell’Egeo, il territorio sirio-palestinese, la costa settentrionale dell’Africa. Ai vini italici Ateneo assegna uno spazio superiore perfino a quelli greci. Il primo a comparire nella sua carta dei vini è il Falerno, «pronto per essere bevuto a partire dal decimo anno e nella piena maturità tra il quindicesimo e il ventesimo anno; al di là di tale tasso di tempo provoca cefalea e attacca il sistema nervoso». Il Falerno era un territorio della Campania, il suo vino era di due tipi: uno dolce e uno secco. Quello dolce era particolarmente nero e diventava tale se al momento della vendemmia soffiavano i venti del sud; quello secco era di color paglierino perché la vendemmia non era stata condotta sotto i venti meridionali. Il vino di Alba, omonima città laziale, era pronto solo dopo quindici anni di invecchiamento. Il vino di Sorrento si poteva bere solo dopo venticinque anni perché, essendo molto secco e senza sostanze grasse, faticava a maturare e anche dopo un così lungo invecchiamento poteva essere bevuto solo da chi vi aveva l’abitudine. Tra i più importanti era considerato il vino Statano, forse dal nome di una città della Campania ovvero dal nome di Statulino, divinità che presiedeva ai primi passi dei bambini, non molto forte ed analogo al Falerno, benché più leggero. Vi erano poi il vino di Bussento, oggi Policastro, quello di Velletri, ottimo da bere e buono per la digestione, e il Babia, molto secco che prendeva forse il nome dalla città meridionale di Montalto.


Nella festa si realizzava il connubio tra luogo fisico e spazio simbolico, il carattere eccezionale del vino erompeva nel prodigio. Era il caso del vino prodotto dalle viti effimere del Parnaso, monte dell’Eubea, che al mattino del giorno di festa mettevano le foglie, a mezzogiorno davano il grappolo e a sera il vino. A loro volta le viti di Ege, sempre in Eubea, producevano i grappoli mentre le donne danzavano nel corso delle feste in onore di Dioniso. Ad Andro, nelle Cicladi, durante la festa annuale in onore di Dioniso, il santuario del dio diveniva una fontana di vino. A Felloe, in Arcadia, nel santuario di Dioniso, durante le feste in suo onore, davanti ai pellegrini giunti a celebrare le cerimonie religiose si sigillavano tre lebeti di bronzo vuoti che, riaperti, si mostravano ricolmi di vino. Eppure mai i Greci hanno parlato di viti sacre o di luoghi sacri legati al vino. La viticoltura è il frutto della sapienza umana, dell’addomesticamento della natura, dunque dell’azione umana che si sottrae al sacro. Solo la vigna dell’isola di Icaria, oggi Nicaria, era detta “sacra”, ma essa era così chiamata solo davanti agli stranieri mentre gli abitanti del luogo la chiamavano “dionisia”, e cioè di Dioniso, dalla quale si ricavava il vino Pramno, il più antico vino conosciuto dalla tradizione greca. I Greci avevano elaborato degli espedienti per bere il vino senza “danno”. Tra gli accorgimenti più diffusi vi era il mangiare del cavolo. A questo scopo i Sibariti mangiavano cavolo prima di bere vino e spesso si aggiungevano semi di cavolo alle pozioni preparate per togliere l’ebrezza. Anche presso gli egiziani il cavolo veniva fatto bollire e servito prima degli altri cibi per tenere lontani i fumi del vino. A chiusura del banchetto e prima di dare avvio al simposio, si levava un brindisi in onore di Zeus Sotér, Salvatore, il garante dell’ordine cosmico che si invocava contro il rischio della regressione nella barbarie e nella follia che portava sempre con sé il dono di Dioniso.


PIRAMIDE UNIVERSALE DELLA DIETA MEDITERRANEA Il vino è collocato alla base della Piramide universale della Dieta Mediterranea. È il simbolo della convivialità, uno dei sette comportamenti sociali pilastri della Dieta Mediterranea.


SALUTE E BENESSERE Il vino è una miscela di diverse centinaia di composti tra cui acqua (86 %); etanolo (12 %); glicerolo e polisaccaridi o altri oligoelementi (1 %); diversi tipi di acidi (0,5 %); e composti volatili (0,5 %) [1]. Come sappiamo, i vini possono essere classificati in Rossi, Bianchi e Rosè, in base alla fermentazione, maturazione ed al tipo di uva [2]. Il vino rosso, a differenza del bianco, viene prodotto attraverso una vinificazione che prevede la macerazione delle bucce degli acini insieme al succo ottenuto dalla loro spremitura. Le bucce degli acini conferiscono al vino rosso un’importante proprietà: esso infatti possiede una quantità di composti fenolici, sostanze con un’azione protettiva sulla salute umana, 10 volte maggiore rispetto a quella del vino bianco [3], e la quantità totale di polifenoli nei vini rossi è stata stimata tra 2000-6000 mg / L [4]. I principali composti polifenolici presenti sono flavanoli, flavonoli, antociani e resveratrolo [5]. Queste sostanze apportano numerosi benefici al nostro organismo: attivano meccanismi antiossidanti e anti-infiammatori; sono fattori protettivi nei confronti delle malattie cardiovascolari; hanno un ruolo nella riduzione della proliferazione cellulare e sono quindi fattori anti-tuomrali; in esperimenti in vitro hanno mostrato una potenziale azione di riduzione dell’invecchiamento cellulare [6, 7]. Tra tutti i polifenoli presenti, il Resveratrolo ha acquisito, con il tempo, sempre più importanza: ha un’azione regolatrice sull’espressione genica e la modulazione della proliferazione cellulare, diventando così in un importante componente anti-infiammatorio e anti-tumorale; inoltre agisce sulle cellule staminali attivando processi rigenerativi tissutali [8, 9]. Ovviamente bisogna ricordare che il vino è costituito per il 12% da Etanolo, quindi un elevato consumo può comportare l’insorgenza di numerose patologie come cirrosi epatica, e cancro [10]. E’ stato dimostrato però che un moderato consumo di alcol può portare qualche beneficio come l’aumento delle proteine HDL o colesterolo buono e la diminuzione di quelle LDL, favorendo così una riduzione del rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari [11]. Quindi il vino, in particolare quello rosso, grazie alla presenza dei composti polifenolici e dell’etanolo, risulta essere un buon componente di una sana alimentazione, apportando numerosi benefici al nostro organismo.


Bibliografia Moro Elisabetta, La Dieta Mediterranea. Mito e storia di uno stile di vita, Il Mulino, Bologna, 2014 Niola Marino, Non tutto fa brodo, Il Mulino, Bologna, 2012 Niola Marino, Si fa presto a dire cotto, Il Mulino, Bologna, 2009 Scarpi Paolo, Il senso del cibo, Sellerio, Palermo, 2005

Bibliografia Salute e Benessere 1. Sumby KM, Grbin PR, Jiranek V. Microbial modulation of aromatic esters in wine: current knowledge and future prospects. Food Chem. 2010;121:1–16. 2. Ribéreau-Gayon P, Dubourdieu D, Donèche B, Lonvaud A. Handbook of Enology: The Microbiology of Wine and Vinifications. Vol Volume 1. 2nd ed. Chichester: John Wiley & Sons; 2006:497. 3. Xiang L, Xiao L, Wang Y, Li H, Huang Z, He X. Health benefits of wine: don’t expect resveratrol too much. Food Chem. 2014;156:258–263. 4. Quideau S, Deffieux D, Douat-Casassus C, Pouysegu L. Plant polyphenols: Chemical properties, biological activities and synthesis. Angewandte Chemie (International ed. in English). 2011;50:586–621 5. Vallverdú-Queralt A, Boix N, Piqué E, et al. Identification of phenolic compounds in red wine extract samples and zebrafish embryos by HPLC-ESI-LTQOrbitrap-MS. Food Chem. 2015;181:146–151. 6. Xia E-Q , Deng G-F, Guo Y-J, Li H-B. Biological activities of polyphenols from grapes. Int J Mol Sci. 2010;11(2):622–646. 7. Tanigawa T, Kanazawa S, Ichibori R, et al. (+)-Catechin protects dermal fibroblasts against oxidative stress-induced apoptosis. BMC Complement Altern Med. 2014; 14:133. 8. Tillu DV, Melemedjian OK, Asiedu MN, et al. Resveratrol engages AMPK to attenuate ERK and mTOR signaling in sensory neurons and inhibits incisioninduced acute and chronic pain. Mol Pain. 2012;8:5 9. . Schaun MI, Eibel B, Kristocheck M, et al. Cell therapy in ischemic heart disease: interventions that modulate cardiac regeneration. Stem Cells Int. 2016;2016: 2171035. 10. . Shield KD, Parry C, Rehm J. Chronic diseases and conditions related to alcohol use. Alcohol Res. 2013;35(2):155–173. 11. Agarwal DP. Cardioprotective effects of light-moderate consumption of alcohol: a review of putative mechanisms. Alcohol Alcohol. 2002;37(5):409–415.


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