La Dieta Mediterranea made in Basilicata
I PRODOTTI DELLA STALLA
e-nutrition... ...consiste nella realizzazione di uno strumento «web based» di divulgazione scientifica in ambito nutrizione. Temi del progetto sono la nutraceutica (studio di alimenti che hanno una funzione benefica sulla salute umana), la valorizzazione dei beni culturali e commercializzazione dei prodotti enogastronomici, mediante l’utilizzo della dieta mediterranea quale filo conduttore. La Fondazione Eni Enrico Mattei, soggetto attuatore del progetto, è affiancata MedEatResearch - Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, e da SAFE - Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari ed Ambientali dell’Università Degli Studi Della Basilicata.
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Indice 7
Uomo e allevamento
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Allevare oggi
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Impatti ambientali
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Dalla mucca alla bistecca
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Il trasporto
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Allevamenti sostenibili
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Consumi sostenibili
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Il prosciutto
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Il prosciutto nella storia
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Il prosciutto: cronache di un tempo
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le ricette di un tempo
Uomo e allevamento Per alcune centinaia di millenni l’uomo preistorico ha condotto la sua esistenza uccidendo prede selvatiche per nutrirsi. Successivamente l’allevamento del bestiame e la coltivazione segnarono delle tappe rivoluzionarie nell’emancipazione dell’uomo. Il primo animale ad essere addomesticato fu la capra che con la pecora divenne la prima specie allevata in greggi. Seguì l’allevamento dei bovini e dei suini. Gli animali hanno costituito, fino all’invenzione dei motori a scoppio, la più importante fonte di energia e di forza lavoro, nonché gli unici (o quasi) produttori di concime organico. La stessa forza-lavoro animale era inoltre l’unica utilizzabile su larga scala anche al di fuori dell’agricoltura, per trasportare merci e persone, consentendo all’uomo spostamenti più veloci. Gli animali allevati garantivano, inoltre, una maggiore disponibilità di alimenti proteici, sia con le carni (ma, per i bovini e gli equini, la macellazione giungeva solo al termine della loro attività lavorativa), sia con i prodotti lattiero-caseari. Erano anche importanti fornitori di materie prime per attività industriali ed artigianali, come la lana e le pelli (con le quali si confezionavano abiti, scarpe ed altri articoli di pelletteria). Negli ultimi decenni, il ruolo degli animali e le modalità di allevamento sono profondamente cambiate allontanandosi di molto dalle tradizionali tecniche usate dall’uomo. Gli animali non sono più utilizzati come forza lavoro o come mezzo di trasporto fatta eccezione per alcune aree del mediterraneo, dove è possibile vedere muli e asinelli lavorare campi particolarmente scoscesi o trasportare persone; o per tropici dove i bovini, ancora oggi, contribuiscono ad arare circa il 60% dei campi.
Antichi equilibri Il rapporto tra produzione e consumo di alimenti di origine animale è cambiato nel tempo. Storicamente trasporti e comunicazione erano limitati rispetto all’attuale contesto di
Incisioni su pietra, animali da allevamento
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globalizzazione e il commercio di prodotti freschi, quindi deperibili velocemente, come carne, latte, uova era molto difficoltoso. Le richieste di questi beni alimentari venivano, perciò, soddisfatte localmente ma soprattutto l’allevamento di bestiame era legato alle disponibilità locali di risorse, come il mangime, i pascoli e l’acqua. Infatti il nesso tra agricoltura e produzione animale è sempre stato molto forte: bovini e ovini brucavano sui campi lasciati a pascolo durante la rotazione delle colture, cibandosi di foraggio, e il loro concime naturale veniva utilizzato per fertilizzare il terreno. Negli ultimi anni invece l’intensità della produzione animale non è più determinata dai limiti ecologici locali, ma può teoricamente crescere all’infinito, o almeno fino a quando l’ambiente sarà in grado di compensare in qualche misura i danni che l’attività antropica sta compiendo. Nello specifico, nei paesi dove l’allevamento intensivo ha preso il sopravvento, è accaduto che: •
I campi che venivano lasciati “a pascolo” sono stati in gran parte sostituiti da coltivazioni di mais e soia: a differenza del foraggio, questi alimenti fanno crescere l’animale molto più velocemente;
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Il bestiame utilizzato per il lavoro nei campi, è stato sostituito dai moderni macchinari, che utilizzano carburanti e producono sostanze inquinanti;
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Il bestiame è stato così raggruppato negli enormi recinti degli allevamenti industriali;
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L’elevata quantità di reflui zootecnici, ossia il letame accumulato negli stabilimenti industriali di allevamento, deve essere smaltita come rifiuto: in parte perché per fertilizzare i campi oggi vengono utilizzati concimi chimici, in parte perché i reflui vengono prodotti in quantità talmente consistenti che non basterebbero tutti i campi nelle vicinanze degli allevamenti industriali per assorbire le quantità di letame prodotto!
• La rottura dell’equilibrio tra agricoltura e allevamento ha comportato, in definitiva, un maggiore uso di risorse e una produzione di materie di scarto superiore alla capacità stessa dell’ambiente di assorbirle. Sarebbe necessario ripristinare gli antichi equilibri facendo in modo che il cibo provenga dalle fattorie, e non da fabbriche , connettendo l’allevamento alla terra.
Un sistema inefficiente per produrre cibo Nel libro Farmageddon - il vero prezzo della carne economica si legge che “in questo momento 60 milioni di italiani condividono il loro territorio con 136 milioni di polli, 8.7 milioni di suini, 6.1 milioni di bovini, 73.5 milioni di conigli e 25.2 milioni di tacchini. Oltre il 50% dei cereali prodotti nella Penisola è utilizzato per nutrire gli animali e il 36% del terreno finalizzato alla coltivazione dei cereali è utilizzato in ultimo per nutrire gli animali”. In questo contesto, il ruolo dell’allevamento animale rispetto all’approvvigionamento alimentare è duplice: da un lato le produzioni animali rappresentano una fonte alimentare fondamentale per nutrire il pianeta; dall’altro gli animali in produzione zootecnica possono entrare in competizione con l’uomo per il cibo, in particolare per i cereali. Le monocolture di cereali e soia, che da sé potrebbero nutrire miliardi di persone sono invece destinati al bestiame, causando deforestazioni e impoverendo per sempre gli habitat naturali. Questi aspetti rappresentano una sfida importante per il pianeta perché nutrire gli animali per nutrire gli uomini è un modo costoso per produrre cibo. Basti pensare che per poter nutrire la popolazione mondiale che nel 2050 sarà di 9,6 miliardi di persone, la produzione alimentare dovrà aumentare di circa il 60-100%. Se continueremo a considerare l’allevamento intensivo il cardine dell’industria globale del cibo ci saranno pesanti ripercussioni per gli animali, il Pianeta e l’uomo. E’ stato calcolato che se tutti i cereali prodotti ogni anno venissero divisi tra la popolazione mondiale, ognuno riceverebbe molto di più del cibo necessario per la sopravvivenza: la realtà è, però, molto diversa, infatti da un lato i consumi alimentari dei paesi sviluppati sono talvolta eccessivi, dall’altro 2 miliardi di persone soffrono di denutrizione cronica e 18 milioni di persone muoiono per malattie legate alla fame. La proposta avanzata dall’autore di Farmageddon è quella di “sostenere una produzione di cibo che sia in grado di rimettere gli animali all’aria aperta, al pascolo, anziché dentro capannoni; cibo più nutriente con metodi che risultano migliori sia per il territorio che per il benessere animale”
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Un sistema inefficiente per produrre cibo Vi siete mai chiesti come viene prodotta la carne che trovate al supermercato, ben impacchettata e ordinatamente disposta sugli scaffali? Se ripercorriamo al contrario la filiera possiamo scoprire molte informazioni interessanti su come vengono allevati gli animali e sui danni ambientali che derivano dalla produzione della carne, delle uova, del latte e dei formaggi che quotidianamente mangiamo. Per far fronte alle crescenti richieste di cibo da parte dei consumatori, ha preso piede un sistema di produzione intensivo, in grado di produrre tanta carne e in breve tempo. Gli allevatori trasformano una materia prima come i cereali, disponibili in grande quantità e ad un basso costo, nella carne che mangiamo. Si tratta di un sistema assolutamente inefficiente perché utilizza molto per produrre poco, infatti per ottenere 1 kg di carne di manzo sono necessari circa 7 kg di cereali e circa 15 mila litri di acqua! Inoltre per ogni cento calorie di raccolti utilizzati come mangimi per gli animali da allevamento otteniamo solo 30 calorie di carne e prodotti caseari; una perdita del 70%. Questo metodo però consente di diminuire i costi di produzione e parallelamente di aumentare la quantità di carne prodotta: in pratica consente di produrre di più in modo più economico e veloce! Questo consente di vendere la carne, che è sempre stato un bene che in pochi potevano concedersi il lusso di mangiare, a prezzi più bassi. Non bisogna farsi trarre in inganno però, infatti il costo della carne è basso solo per il consumatore, ma non lo è per l’ambiente, né tanto meno per gli animali, che scontano un prezzo molto alto: negli allevamenti spesso non viene rispettato il benessere degli animali e vengono prodotte sostanze inquinanti dannose per l’ambiente.
Allevare oggi Quanti tipi di allevamento esistono? Fattori come il clima (per esempio tropicale o desertico), come la conformazione dei terreni (per esempio pianeggianti o montuosi), come la disponibilità di risorse (per esempio l’acqua), ma anche elementi come le culture e le economie locali, fanno assumere ai sistemi di allevamento forme diverse sia per dimensione, sia per tipologia di tecniche utilizzate. Nel mondo le tipologie di allevamento sono molte e diverse tra loro, provate solo a pensare a quanto sono diversi gli allevamenti nomadi di cavalli e yak della Mongolia dagli allevamenti di bovini nelle nostre cascine! I diversi sistemi di allevamento esistenti al mondo possono essere classificati, secondo la FAO in due macro tipologie, in base allo scopo principale del sistema. Mentre nel passato vi era una simbiosi tra la coltivazione della terra e l’allevamento di animali, a partire dagli anni ‘50-’60 si è sviluppata in Europa (sulla scia di quanto avveniva negli Stati Uniti) la zootecnia intensiva, in cui gli animali vivono in grandi capannoni senza più alcun legame con la terra, e i mangimi vengono acquistati all’esterno, spesso anche da altri continenti. La prima tipologia è quella che riguarda tutti i sistemi di produzione misti, dove convivono, cioè, agricoltura e allevamento: in pratica l’allevamento che sia intensivo o estensivo, è praticato parallelamente alla coltivazione di terreni irrigui o non irrigui (alimentati cioè dalle precipitazioni piovose). Si allevano bovini, ovini, caprini, suini, polli o galline ovaiole. Le aziende agricole così strutturate, oltre a produrre cibo per il proprio consumo o per la vendita, producono anche il nutrimento per gli animali (sia in termini di foraggio che di scarti agricoli). L’allevamento del bestiame fornisce carne, uova, latte ma in alcune parti del mondo, come in Asia ad esempio, il bestiame offre anche un valido aiuto per il lavoro nei campi. Questi sistemi sono diffusi in alcune aree dell’America settentrionale, dell’Europa, dell’Asia meridionale e dell’Africa. Ne sono un esempio le aziende agricole a conduzione famigliare dell’Europa, pensate alle cascine della Pianura Padana. La seconda tipologia riguarda invece i sistemi di produzione esclusiva di bestiame, ossia tutti quei sistemi che non hanno altre finalità se non quella dell’allevamento. In particolare questo sistema è distinguibile come segue: •
Sistemi di allevamento intensivo “senza terra”. Si tratta di un sistema di produzione intensivo che funziona come un vero e proprio stabilimento industriale: gran parte delle uova e della carne che mangiamo vengono prodotti in questo modo. Gli animali allevati sono generalmente maiali, polli, galline ovaiole e bovini. Questi allevamenti “senza terra” sono principalmente diffusi nell’America nord-orientale, in Europa e in Asia, più in generale in aree ricche e molto popolate, dove la richiesta di carne è molto alta. Le tecnologie che hanno consentito questa trasformazione in allevamenti “senza terra” sono state: l’introduzione dei mangimi complessi e integrati, un’unica miscela di sostanze nutritive e farmaci; la realizzazione di strutture più razionali e igieniche; l’uso della chimica negli allevamenti, sotto forma di farmaci, vaccini, antiparassitari, che vengono somministrati agli animali non quando necessari, ma costantemente, come forma di prevenzione.
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Sistemi di allevamento estensivo “a pascolo”. Si tratta di un sistema di produzione estensivo, che, grazie alla presenza di vasti terreni non coltivati, consente agli animali di pascolare liberamente: con questo sistema vengono allevati principalmente bovini, per carne e latte, ovini e caprini. L’allevamento estensivo è principalmente diffuso in America centrale e meridionale, in particolare in Argentina, in Brasile e in Perù, ma anche in Australia e in Europa.
come funzionano gli allevamenti? Gli animali possono essere allevati in diversi modi, esistono infatti allevamenti intensivi, allevamenti industriali e allevamenti a pascolo detti anche estensivi. Vediamoli nel dettaglio.
allevamento estensivo o “a pascolo” In questo sistema il bestiame è libero di pascolare e di brucare l’erba. Se le temperature sono molto rigide gli animali hanno la possibilità di ripararsi nelle stalle dove vengono nutriti dall’uomo. E’ un sistema autosufficiente che possiede terreni per il pascolo o per produrre il nutrimento per gli animali, si tratti di fieno o di cereali. La densità di capi, ossia il rapporto tra il numero di animali e la porzione di terreno su cui vengono allevati, è bassa; i reflui zootecnici vengono utilizzati come fertilizzante naturale (concime) sui campi dell’azienda agricola, senza bisogno che vengano smaltiti come rifiuti. Pur essendo responsabile solo di un’esigua parte della produzione globale di bestiame, questo sistema di produzione occupa ben il 26% della superficie terrestre libera dai ghiacci, infatti la bassa densità di capi per superficie (meno di 10 capi per ettaro) richiede ampie superfici di terreno. Per poter soddisfare la domanda di carne e latte attualmente registrata, l’allevamento a pascolo determinerebbe, quindi, una forte competizione per il suolo (in termini di
Mucche al pascolo - allevamento estensivo
disponibilità e di usi) e per altre risorse naturali: insomma, non basterebbero tutti i terreni presenti, anche se convertiti a pascolo! In Italia, l’allevamento estensivo è diffuso principalmente nella zona centro-meridionale e nelle isole, dove la aziende che allevano bovini sono generalmente di piccole e medie dimensioni, con un numero medio, ad esempio di bovini, che si aggira attorno ai 10-20 capi di bestiame.
allevamento intensivo Nell’allevamento intensivo, invece, gli animali vengono cresciuti in ambienti confinati e la densità di capi di bestiame è piuttosto elevata. Con questo sistema intensivo si allevano per lo più bovini, da carne e da latte, e suini. Gli animali allevati secondo metodi intensivi possono essere cresciuti a stabulazione libera, il che consente all’animale di muoversi in libertà e di sviluppare le proprie masse muscolari, oppure a stabulazione fissa, un sistema ancora molto diffuso: in pratica l’animale viene legato alla propria postazione e in questo modo non gli è non consentita una piena libertà di movimento. A volte gli animali non possono comportarsi in modo naturale: i vitelli, ad esempio, vengono allontanati dalle madri a pochi giorni dalla nascita per essere cresciuti in postazioni individuali recintate in legno, separati dagli altri animali. Per ottenere una carne più tenera e bianca, che piace di più a noi consumatori, essi vengono nutriti solo con budini semiliquidi a base di latte artificiale, carenti in ferro perché questa sostanza nelle carni è normalmente responsabile del colorito rosa-rosso. L’alimentazione tipica dei bovini, invece, è a base di cereali, utilizzati perché fanno aumentare velocemente il peso dell’animale: grazie ad un’alimentazione a base di mais, granoturco e soia, infatti, un vitello aumenta di 15 volte il suo peso in soli 14 mesi mentre un tempo erano necessari circa 5 anni!! Per accelerare ulteriormente il processo di crescita in alcuni paesi non europei i mangimi per gli animali contengono farine animali ad alto contenuto proteico derivate da altri animali. L’Unione Europea ha proibito l’utilizzo di queste farine animali (fatta eccezione per quelle a
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base di pesce), vista l’elevata probabilità che si verifichino tra i capi di bestiame epidemie di malattie trasmissibili anche all’uomo (nel momento in cui ne consuma le carni): un esempio a tutti noto è quello della BSE, detto anche “morbo della mucca pazza”. Gli impianti di allevamento, che possono raggiungere grandi dimensioni, fino anche a contenere 800/2000 capi per azienda, hanno spesso bisogno di acquistare da altre aziende i cereali per il nutrimento animale e devono smaltire altrove gli scarti di produzione, come i reflui zootecnici. Questo sistema, in Italia, è concentrato nel bacino padano, tra Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, dove sono più numerosi gli allevamenti di piccole dimensioni (il 41% delle aziende ha un numero di capi inferiore a 10 capi). Qui si trova tra il 60 e l’80% di bovini, suini e avicoli allevati in tutta Italia. Nel bacino padano, infatti, è tipica la produzione di mais, uno dei componenti principali della dieta degli animali allevati in modo intensivo in quest’ area.
allevamento industriale “senza terra” Vi è infine l’allevamento industriale, definito un sistema zootecnico “senza terra” perchè può essere realizzato in modo completamente indipendente dal contesto geografico e climatico in cui si trova; si tratta di un sistema intensivo, utilizzato principalmente per la produzione di carne e di uova, che consente di produrre di più in poco tempo: negli allevamenti senza terra vengono allevati principalmente maiali, polli e galline ovaiole. Questi animali vengono cresciuti all’interno di grossi capannoni illuminati e areati artificialmente e nutriti con alimenti importati da altri luoghi. Spesso la loro possibilità di movimento è impedita dalle gabbie metalliche in cui vengono disposti: questo accade per i maiali, così come per le galline ovaiole e per i polli. Purtroppo questi allevamenti industriali sono anche noti per alcune pratiche che spesso non rispettano il benessere degli animali. In questi allevamenti, ad esempio, i suini hanno a disposizione una gabbia di 60 cm di larghezza e 2 metri di lunghezza; non possono grufolare né girarsi, vengono cresciuti su pavimenti di cemento, quindi non possono scavare buche per rinfrescarsi nel fango, come sarebbe proprio del loro comportamento: queste condizioni di forte stress (insieme ad altre pratiche che non riportiamo in questa sede, vista la loro crudezza) li porta ad esempio a mordersi la coda – che quindi viene preventivamente mozzata - e ad interagire in modo aggressivo. Anche per le galline e i polli, che vivono in gabbia in uno spazio vitale pari all’area di un foglio A4, vengono attuate pratiche che evitano aggressioni e ferimenti (viene, ad esempio, tagliato il becco per non farsi male). Inoltre, la concentrazione di animali in un unico luogo impone agli allevatori l’utilizzo di antibiotici per evitare che tra di essi si diffondano malattie.
allevamento senza terra di galline
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Impatti ambientali Allevamenti e ambiente L’analisi del ciclo di vita (life cycle analysis) degli allevamenti di bestiame dicono da anni che l’impatto ambientale di bovini, ovini, suini e avicoli è altissimo. Ma il settore dell’allevamento risulta anche tra i primi responsabili dei numerosi cambiamenti ambientali che negli ultimi decenni si stanno registrando sia a livello locale che globale. Gli animali d’allevamento sono davvero inefficienti come “macchine” per convertire proteine vegetali in proteine animali; di conseguenza, per produrre cibi animali vengono consumate molte più risorse rispetto a quelle necessarie per la produzione di cibo vegetale. Questo enorme spreco di risorse è una delle conseguenze meno pubblicizzate, ma la più devastante, della tanto decantata “Livestock revolution” (Rivoluzione del bestiame) La Fao prevede che il consumo di carne nel mondo sia destinato a crescere del 73% entro il 2050, raggiungendo i 463 milioni di tonnellate l’anno. Questo comporterà un ulteriore incremento dei sistemi di allevamento intensivo su vasta scala (rapporto Liverick 2011), con uno spaventoso impatto sull’ambiente. Il trend in grande ascesa è naturalmente legato ai consumi dei Paesi emergenti - India, Cina, Brasile - che adottano sempre più il nostro stile di vita e modello alimentare. Per la salute dell’ambiente questo rappresenta un pericolo. Per valutare in modo completo gli impatti che l’allevamento esercita sull’ambiente è necessario prendere in considerazione sia gli aspetti ambientali diretti, cioè strettamente correlati all’attività propria della produzione animale, sia quelli indiretti, legati ad esempio alle attività agricole necessarie per nutrire i capi d’allevamento. I processi di inquinamento legati alla produzione animale sono complessi e difficili da controllare, poiché, se da un lato l’allevamento industriale presenta forme di inquinamento “acute”, puntiformi e facilmente riconoscibili, le molteplici attività che ruotano intorno alla produzione animale (produzione agricola, industria chimica, produzione e gestione di rifiuti) sono in qualche modo fonti diffuse di inquinamento e generano impatti “cronici”, quindi individuabili solo sul lungo periodo. Gli impatti ambientali significativi connessi alla produzione animale riguardano: •
Inquinamento idrico, causato dai liquami sversati nei bacini idrografici.
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Piogge acide, causate dall’ammoniaca liberata nell’atmosfera dai liquami.
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Eccessiva acidità del suolo e delle acque, causata dalle piogge acide.
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Eutrofizzazione delle acque, lo sviluppo sregolato delle alghe in mare è dato dall’azoto contenuto nei liquami.
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Perdita di biodiversità
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Danni ambientali indiretti dati dalla coltivazione massiccia dei mangimi:
- effetto serra.
- consumo del suolo.
- deforestazione.
- desertificazione.
Vediamo nel dettaglio qual è la situazione attuale e quali sono gli impatti ambientali da ridurre.
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I cambiamenti del settore zootecnico La crescente domanda di alimenti d’origine animale ha determinato l’esigenza di avere sistemi di allevamento molto efficienti, in grado, cioè, di produrre molto, in poco tempo e in poco spazio. Si registra infatti una crescente tendenza verso l’allevamento intensivo e verso una produzione più industriale del bestiame, sebbene il pascolo estensivo occupi ancora vaste aree del pianeta. In questo processo ha giocato un ruolo decisivo anche la scarsa disponibilità di suoli, che ha generato la necessità di sviluppare sistemi zootecnici che richiedessero superfici inferiori a parità di produzione animale. Venendo meno i pascoli, cambiano anche le fonti di alimentazione destinate all’allevamento: circa l’80% della produzione di cereali mondiale, oggi, viene utilizzata come mangime negli allevamenti: i cereali, infatti, consentono agli animali di crescere più in fretta. Gli allevamenti industriali non producono cibo, lo sprecano. Per ogni 100 calorie di cereali commestibili utilizzati come mangime per il bestiame, otteniamo solo 30 calorie sotto forma di carne o latte; una perdita del 70%. Il Report sulla Sicurezza Alimentare delle Nazioni Unite riconosce che i “sistemi intensivi riducono l’equilibrio nella produzione di cibo” a livello mondiale. •
L’allevamento intensivo fa crescere i prezzi del cibo aumentando la domanda di alimenti di base come i cereali in un periodo in cui la capacità mondiale di approvvigionamento si sta riducendo.
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L’agricoltura industrializzata, responsabile della produzione di questi cereali, ha trasformato i terreni alterando i fragili equilibri che regolano i diversi comparti ambientali (suolo, atmosfera, acqua, etc.).
In questo contesto di rapida crescita della produzione animale, gli impatti ambientali si amplificano, poiché l’aumento di input all’interno del sistema zootecnico genera un corrispondente aumento di rifiuti, di emissioni inquinanti atmosferiche e di sfruttamento delle risorse, generando numerose fonti di inquinamento ad elevata intensità.
L’allevamento e l’uso del suolo Il settore zootecnico è il principale responsabile dell’uso del suolo e del suo progressivo inaridimento. Le coltivazioni di cereali utilizzate per l’alimentazione animale richiedono moltissimo terreno coltivabile. Se piantassimo in un campo tutte le coltivazioni utilizzate per alimentare gli animali da allevamento arriveremmo a coprire l’intera superficie dell’Unione Europea, o la metà degli Stati Uniti. L’agricoltura può contribuire alla desertificazione sia direttamente, tramite pratiche agricole dannose come la coltivazione intensiva e un uso smodato di acqua, sia indirettamente, quando la terra viene deforestata per creare nuove terre coltivabili per nutrire il bestiame. Il cambio di destinazione d’uso dei suoli è, infatti, un altro fattore determinante nell’alterazione degli ecosistemi: la deforestazione ha trasformato gran parte della foresta amazzonica dell’America Latina (un’estensione pari a due volte quella del Portogallo) in pascolo e in campi coltivati per nutrire i capi allevati. Ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà della Gran Bretagna, prevalentemente per coltivare mangime per animali e allevare bestiame. Dopo pochi anni di sfruttamento intensivo dei pascoli e dei campi creati, le aree deforestate vanno incontro a un processo irreversibile di desertificazione in cui la terra inaridita non produce più come prima. Le foreste del pianeta, tuttavia, risultano essere minacciate, più che dalla produzione di olio di palma, dalla coltivazione della soia e dagli allevamenti. Nel rapporto della New York Declaration on Forests, si legge che ogni anno svaniscono almeno 32 milioni di ettari di foreste. Di tutti i pascoli presenti sul pianeta circa il 20% registra oggi, in qualche misura, un impoverimento, soprattutto a causa del sovrapascolo: questo fenomeno consiste nel compattamento e nell’erosione del suolo, a causa del calpestio degli zoccoli di troppi animali e dell’azione delle mandrie di bestiame. Questo accade soprattutto nelle aree di pascolo caratterizzate dalla scarsità di acqua, che sono pari al 73% dei pascoli mondiali.
Clima e atmosfera L’effetto serra, fenomeno che comporta il surriscaldamento del pianeta, è dovuto alla presenza in atmosfera di diverse sostanze, normalmente presenti in natura in basse concentrazioni, ma prodotte in elevate quantità dall’attività dell’uomo, soprattutto negli ultimi decenni (combustione dei carburanti per spostarsi, per far funzionare macchinari, per produrre energia elettrica, etc.). Tra queste sostanze alcune hanno un effetto più forte, come il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), altre, come l’anidride carbonica (CO2), influiscono meno sull’effetto serra, ma vengono prodotte in grandi quantità dall’uomo. La CO2 viene utilizzata come parametro di riferimento per misurare il grado di impatto delle altre molecole sul surriscaldamento globale (Global Warming Potential, GWP): è come una moneta di scambio, dove l’effetto della CO2 sui cambiamenti climatici vale 1 e gli effetti di metano e protossido d’azoto sono dei multipli. Gli allevamenti sono responsabili del 14.5% delle emissioni mondiali, addirittura più dei trasporti, questo è quanto risulta dal report redatto da Chatham House – Istituto Reale di Affari Internazionali. Il settore della zootecnia è, però, responsabile di circa il 40 % del metano complessivamente prodotto dalle attività dell’uomo: questa quota è emessa per lo più dai ruminanti e dalla
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fermentazione della cellulosa che avviene nei loro stomaci. È da notare che il metano è 23 volte più potente dell’anidride carbonica nel surriscaldare la Terra. Inoltre, la produzione animale contribuisce per il 65% al protossido d’azoto che complessivamente l’uomo introduce in atmosfera (N2O ha un potenziale di surriscaldamento che è 298 volte più forte della CO2!). La maggior parte del protossido emesso dagli allevamenti deriva dai reflui zootecnici, ossia dal letame e dal liquame prodotto dai capi di bestiame, e dai fertilizzanti applicati sui suoli coltivati per nutrire gli animali allevati: infatti si può dire che la zootecnia sia responsabile del 75-80% delle emissioni agricole di N2O. L’allevamento produce, infine, circa due terzi dell’ammoniaca (NH3) antropogenica presente in forma gassosa in atmosfera. Il settore agricolo è responsabile del 94% delle emissioni di ammoniaca legate all’attività antropica, che causano piogge acide e acidificazione degli ecosistemi. In zootecnia, il passaggio in atmosfera dell’ammoniaca è in particolare provocato dall’applicazione del letame sui campi coltivati. Tra gli impatti ambientali provocati dal settore zootecnico, oltre alle emissioni di gas serra provenienti dagli allevamenti, occorre ricordare l’anidride carbonica emessa dai mezzi di trasporto utilizzati per commerciare carne e animali! Non bisogna poi dimenticare il peso giocato dal trasporto delle derrate alimentari utilizzate per nutrire gli animali.
I bovini contribuiscono all’aumento dei gas serra emettendo metano.
Acqua per allevare Entro il 2025 oltre il 60% della popolazione mondiale vivrà in condizioni di carenza idrica. La zootecnia e l’agricoltura sono i principali responsabili dello spreco di acqua sul pianeta: parliamo dell’irrigazione di immense monoculture, cresciute su terreni resi aridi dalla frequenza e dall’insistenza delle coltivazioni e quindi a loro volta impregnati di fertilizzanti per renderli comunque produttivi; dell’abbeveramento degli animali (200 litri/acqua al giorno per una mucca da latte, 50 per un bovino o un cavallo, 20 per un maiale e circa 10 per una pecora; all’acqua utilizzata in totale nella coltivazione di cereali destinati agli allevamenti e ancora ci riferiamo alla disinfezione delle stalle e dei macelli. Pensate inoltre che per ottenere 1 kg di manzo servono 15 mila litri d’acqua e per la produzione di 5 kg di carne bovina occorre la stessa quantità d’acqua che una famiglia media consuma in un anno. Per 1 kg di pollo, servono 3.500 litri d’acqua, mentre per la produzione di cereali di acqua ne serve di meno ossia 3400 litri per il riso, 2 mila per la soia, 1400 per il grano, 900 per il mais, 500 per le patate. Tuttavia nel report di sostenibilità in italia si legge che il water footprint è dato dalla somma di tre contributi in parte reali e in parte virtuali: Green water l’acqua di evapotraspirazione utilizzata dalle piante per vivere, Blue water l’acqua effettivamente utilizzata dai processi o per irrigare i campi Grey water l’acqua virtualmente necessaria a diluire e depurare gli scarichi. Per carni e salumi la componente di acqua verde è di gran lunga la più significativa delle tre, arrivando a costituire la quasi totalità dell’impatto e dimostrando come il valore effettivamente consumato è nettamente inferiore rispetto a quelli comunemente noti. La produzione animale rappresenta, inoltre, una delle maggiori fonti di inquinamento delle acque. I reflui zootecnici generano l’eutrofizzazione ; l’inquinamento chimico delle falde acquifere è provocato dall’eccessivo uso di fertilizzanti e pesticidi nelle coltivazioni utilizzate per nutrire i capi di bestiame.
La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia 2016
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Quando gli escrementi animali filtrano nei corsi d’acqua, azoto e fosforo in eccesso in essi contenuti alterano la qualità dell’acqua e danneggiano gli ecosistemi acquatici e le zone umide. Pensate che ben il 70-80% dell’azoto fornito a bovini, suini e galline ovaiole mediante l’alimentazione, e il 60% di quello dato ai polli “da carne” viene eliminato attraverso le feci e le urine e finisce nei corsi d’acqua e nelle falde acquifere sotterranee. Pensate che un maiale adulto produce 4 volte la quantità di feci di un essere umano e che in uno stabilimento industriale possono vivere circa 50 mila suini, con una produzione di deiezioni al giorno davvero elevata! Quando agricoltura e allevamento sono in equilibrio tra loro (come avveniva prima dell’allevamento intensivo, e in parte ancora avviene), si crea un ciclo in cui la produzione agricola è limitata dalla quantità di letame necessaria per fertilizzare i campi e il letame dipende a sua volta da quanto mangime è disponibile per nutrire gli animali. L’avvento dei fertilizzanti chimici ha permesso di svincolare agricoltura da allevamento e i ritmi della produzione industriale producono così tanti reflui che non bastano i campi agricoli presenti per accoglierlo: per questo le deiezioni in eccesso devono essere smaltite come rifiuti. Non dimentichiamoci, infine, che la zootecnia impedisce all’acqua di assolvere al ruolo importantissimo di penetrare nel terreno e ricongiungersi alle acque sotterranee (da cui l’uomo stesso attinge), poiché tale attività compatta il suolo, riduce la capacità di infiltrazione, prosciuga le zone umide e deforesta per introdurre le coltivazioni.
Allevamenti e biodiversità Viviamo in un’epoca di grande minaccia per la biodiversità, oggi infatti la perdita delle specie animali e vegetali è centinaia di volte più veloce rispetto ai secoli scorsi. Il secondo rapporto della FAO sulla diversità genetica degli animali di allevamento ci dice che l’uomo alleva quasi 4800 razze di animali ma ciò nonostante il rapporto lancia l’allarme sull’aumento dell’estinzione delle varietà. Quali sono gli aspetti dell’allevamento che influiscono più negativamente sulla biodiversità? Gli allevamenti frammentano, o addirittura distruggono, gli habitat naturali facendo fuggire o persino uccidere gli animali e i vegetali che ci vivono. Le forme di allevamento basate sul pascolo creano sicuramente dei conflitti con la fauna selvatica (ad esempio, sono fonte di disturbo e minaccia per predatori come lupi e volpi e per le aree protette limitrofe), ma il danno maggiore è legato all’incremento dell’attività agricola che, nei paesi sviluppati e in particolare in Europa, ha modificato l’uso del suolo e ha portato all’abbandono dei pascoli. La perdita dei prati, che avevano nei secoli reso possibile lo sviluppo di tanti diversi tipi di ecosistemi, ha determinato il declino di molti di questi ecosistemi. I numerosi studi svolti in questi anni per comprendere come tutelare la biodiversità hanno evidenziato che la zootecnia costituisce un impatto ambientale significativo: il WWF ha individuato l’allevamento tra le minacce di quasi il 40% di tutte le ecoregioni terrestri classificate; l’organizzazione Conservation International ha registrato che, su un totale di 25 zone ad elevata biodiversità (hotspots) in tutto il mondo, ben 23 subiscono effetti negativi per la forte presenza di attività zootecnica. Infine, un’analisi della Lista Rossa sulle specie minacciate (stilata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura - IUCN) evidenzia che la maggior parte delle specie minacciate vede i propri habitat ridursi per lasciare spazio alle attività legate all’allevamento, soprattutto alle coltivazioni di cereali per i mangimi. L’allevamento, in particolare quello intensivo industriale, spinge, quindi, l’agricoltura ad incentivare la monocoltura, di mais, grano, girasole e pochi altri cereali, indispensabile per
produrre grandi quantità di mangime. L’agricoltore un tempo coltivava, anche per il proprio consumo, numerose varietà di ortaggi (oggi letteralmente scomparsi) e garantiva la rotazione del terreno - tecnica che consente di evitare fenomeni di impoverimento. Oggi, invece, i campi vengono estesi il più possibile, vengono eliminati alberi e arbusti per consentire ai grandi macchinari di muoversi agevolmente, ma così facendo si toglie spazio ad ogni forma di vita animale e vegetale: siepi, ruscelli, piante e arbusti costituiscono infatti habitat fondamentali per moltissime varietà di uccelli e piccoli roditori, oggi nei campi di mais non trovano più la possibilità di vivere, o, anzi, vengono sostituite da specie alloctone che arrivano da altri climi, da altri continenti, ma che si adattano meglio alle nuove condizioni. Dunque la monocoltura, indispensabile a questo tipo di allevamento, ha come effetto la riduzione della biodiversità, oltre che la modificazione del paesaggio, un enorme consumo di acqua, l’impiego di prodotti chimici in quantità mai viste prima. In Italia il fenomeno è visibile anche nel paesaggio: il territorio è dominato dalle monocolture, in particolare mais, considerato il re dei cereali, e coltivato in pochissime varietà, le più redditizie.
Malattie negli allevamenti... e nei nostri piatti La produzione di alimenti animali su scala globale sta subendo una grande trasformazione che potrebbe comportare un incremento del rischio di trasmissione delle malattie dagli animali all’uomo (zoonosi). Negli allevamenti intensivi, molto spesso ritroviamo gli animali ammassati in condizioni che poco hanno a che vedere con il benessere animale. Per questo motivo, spesso vengono somministrate massicce dosi “preventive” di antibiotici, direttamente nell’alimentazione degli animali, per fare in modo che questi possano essere tenuti in vita abbastanza a lungo per essere macellati con un peso ragguardevole. Oltretutto, nei locali per animali confinati si accumulano grandi quantità di liquame e letame che possono contenere agenti patogeni in gran numero.
Trasmissione influenza suina
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In molti avrete sentito parlare di Escherichia Coli, MRSA (Stafilococco) e Salmonella che si diffondono attraverso la carne infetta, ma ci sono molte altre malattie pericolose che provengono dagli allevamenti intensivi e tutti dobbiamo esserne consapevoli. Ultimamente è tornata alla ribalta la notizia di diffusione dell’aviaria per i timori di un focolaio nel Midwest, Stati Uniti. I produttori di carne sono tenuti ad applicare le misure di biosicurezza di base; i siti produttivi non dovrebbero essere costruiti vicino agli insediamenti umani o alle popolazioni di volatili selvatici; le aziende dovrebbero essere pulite e disinfettate regolarmente e il personale addetto deve ricevere adeguata formazione sui temi inerenti la sicurezza degli alimenti. Oltre agli aspetti legati alle condizioni igienico-sanitarie con cui vengono allevati gli animali, è fondamentale sapere di che cosa essi si nutrono. La malattia detta della “mucca pazza” (BSE – Encefalopatia Spongiforme Bovina) è stata proprio causata da un’alimentazione non controllata in cui gli allevatori hanno ripetutamente nutrito i bovini con farine animali di capi infetti, trasmettendo la malattia anche agli animali pronti per essere macellati. I capi infetti sono stati messi in commercio prima che si registrassero dei sintomi e la malattia ha raggiunto l’uomo: la molecola proteica portatrice dell’infezione si trova nelle ossa e nel midollo osseo e sopravvive anche alle elevate temperature di cottura della carne. Non bisogna dimenticare, in tema di biosicurezza, l’utilizzo intenso di antibiotici a cui gli allevatori devono, spesso, ricorrere per contenere la possibilità di infezioni in animali fortemente stressati da condizioni di sovraffollamento dei recinti (in realtà gli antibiotici in piccole dosi fanno anche aumentare il peso del bestiame facendo risparmiare mangime). Questo comporta un aumento della resistenza ai farmaci da parte dei ceppi batterici presenti nel corpo degli animali, che rende, a sua volta, più difficile curare malattie alimentari nell’uomo trasmesse dal bestiame poiché gli antibiotici non hanno effetto sui batteri. Il Center for Disease Control, Istituto per il Controllo delle Malattie, stima che, ogni anno, un minimo di due milioni di malattie negli Stati Uniti siano il risultato di infezioni resistenti agli antibiotici, il 22 per cento delle quali può essere fatta risalire al cibo.
Dalla mucca alla bistecca La carne nella dieta mediterranea - storia La carne fa parte dell’alimentazione umana fin dagli albori della storia dell’uomo. Le prime tribù di cacciatori-raccoglitori si nutrivano con i prodotti della caccia e con dei vegetali che crescevano spontaneamente. Successivamente, con l’uso costante del fuoco per cuocere il cibo, l’uomo modifica il suo stile di vita: da nomade diventa stabile. Cambiano di conseguenza le sue abitudini alimentari e l’ambiente naturale in cui si insedia. Le pratiche di coltivazione si accompagnano alle prime forme di domesticazione degli animali. Si creano così i fondamenti di ciò che oggi è conosciuta come “Dieta Mediterranea”: un’alimentazione a base di pane ( primo alimento trasformato dall’uomo), cereali, frutta, verdure, pesce e carne. Con il passare dei secoli, le influenze romano-barbariche prima e medievali fanno del consumo di carne un requisito essenziale per una dieta sana. La carne rimane un alimento ambito e desiderato soprattutto dalle popolazione rurale che in condizioni di ristrettezze economiche relegavano il consumo di carne alle sole occasioni di festa e per minimizzare gli sprechi riutilizzavano tutti i tagli di carne, comprese le frattaglie. La scarsità di carne nell’alimentazione della popolazione rurale rimane costante fino ai primi del Novecento quando la crescita demografica e dei consumi alimentari determina un’intensificazione della produzione di carne. A partire dagli anni Ottanta i consumi di carne in Italia si stabilizzano, e a fronte di una sicurezza alimentare ormai consolidata si assiste ad una mutata sensibilità per tematiche di matrice etica, quali il benessere animale. La sfida che il settore delle carni deve affrontare oggi, è quella di un’offerta “sostenibile”, che sappia garantire una produzione efficiente, sicura, attenta all’ambiente e al benessere degli animali. Nella dieta mediterranea il consumo di una giusta quantità di carne ha effetti benefici per la salute e il benessere dell’organismo. Studi dimostrano come un corretto consumo di carne, dei tagli magri, può apportare benefici in ogni fase della vita, soprattutto per i ragazzi in crescita che hanno un maggior fabbisogno proteico e di ferro altamente assimilabile.
Joachim Beuckelaer, Macelleria, 1568, Napoli, Museo di Capodimonte
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La lavorazione nella carne L’uomo ha sempre cercato di modificare e contrastare i tempi naturali della produzione agricola, da un lato differenziando le colture in modo da poter avere tutto l’anno prodotti commestibili (pomodori d’inverno e cavoli d’estate), dall’altro elaborando metodi efficaci di conservazione dei prodotti animali e derivati. Nei secoli i metodi di conservazione più usati furono quelli dell’essiccazione, tramite l’utilizzo di sale (es. prosciutto crudo) o con l’ausilio del fumo (es. pancetta affumicata). Altre tecniche, come quella della fermentazione, consentirono all’uomo di inventare il formaggio e gli altri derivati del latte, i prosciutti e altri salumi che integrano la fermentazione con la salatura. L’impiego di un effetto protettivo di sostanze chimiche naturali (resine e balsami) era noto ai Romani (Vitruvio ricorda che dal cedro si ottiene un olio capace di conservare qualsiasi sostanza; il cuoco imperiale Gabrio Apicio nel suo “De re coquinaria” afferma di sapere conservare la carne con il miele, l’aceto, il sale e la mostarda) Non dimentichiamo poi i frigoriferi e i congelatori! Con la nascita dell’industria del freddo, che mise a disposizione i primi frigoriferi, si ebbe la svolta decisiva nel campo della conservazione degli alimenti, che oggi si mantengono a lungo senza che il loro sapore venga alterato. La catena del freddo consente, poi, il trasporto sulle grandi distanze della carne, del latte e dei prodotti derivati: questo come vedremo più avanti nel testo, ha notevoli impatti sull’ambiente e, in particolare, sull’atmosfera! La lavorazione del cibo, insomma, è un processo antico, ma solo con l’industrializzazione del XIX sec, grazie ai nuovi processi tecnologici e con l’avvento dei consumi di massa, hanno iniziato ad emergere le grandi imprese di trasformazione alimentare. Oggi sono numerose, in Italia e nel mondo, le grandi aziende che producono latte e i prodotti da esso derivati, quelle che producono carne in scatola e wurstel e, infine, i grandi salumifici industriali. Non bisogna, però, dimenticare le realtà artigianali e le piccole imprese agricole, biologiche e non, che producono salumi e formaggi di qualità.
La catena di “smontaggio” Dagli allevamenti in cui vengono cresciuti, nutriti e ingrassati, gli animali vengono trasportati fino al luogo dove le loro carni verranno preparate per la vendita. Grandi impianti di macellazione in grado di raccogliere e macellare ogni giorno centinaia di tonnellate di carne. Sul sito del ministero della Salute, si legge che in Italia sono presenti circa 1000 macelli , il settore è polverizzato e stiamo assistendo a numerose chiusure. Nei grandi macelli il processo di macellazione è articolato come una grande catena di montaggio, o per meglio dire di “smontaggio”, cioè ogni azione di lavorazione dell’animale è ben distinta da quelle successive ed è gestita da un addetto che compie solo quel determinato passaggio. Grazie a questo sistema alcune imprese sono in grado di macellare fino a 300 capi di bestiame all’ora! A seconda del tipo di animale, si susseguono operazioni come lo squoiamento, l’eviscerazione, il lavaggio e la pesatura. Ogni animale deve superare dei rigidi controlli sanitari prima di passare alla fase successiva, quella della lavorazione. L’animale viene quindi disossato e tagliato in mezzene o quarti, pronti per essere a loro volta tagliati nelle parti di carne che troviamo sul banco del macellaio o impacchettate al supermercato o insaccate. Le carni fresche che hanno subito la refrigerazione senza l’aggiunta di additivi e le carni trasformate ricorrendo all’ausilio di trattamenti termici quali la cottura, l’affumicatura o l’aggiunta di additivi chimici come sale, nitrati, polifosfati e solfiti. Durante il processo di macellazione il benessere degli animali è spesso a rischio, i cittadini sempre più consapevoli di ciò, in questi ultimi anni hanno mostrato una forte sensibilità verso le tematiche relative al benessere animale. L’Unione Europea a tal proposito ha aggiornato l’attuale normativa inserendo norme più rispettose del benessere animale anche in fase di macellazione.
Catena di smontaggio
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il trasporto Animali in viaggio Grazie alla facilità con cui oggi avvengono i trasporti e grazie alle innovazioni tecnologiche che l’hanno reso possibile, in un panorama di globalizzazione dei mercati, oggi in Italia mangiamo la carne proveniente dall’Argentina e, dall’altra parte del globo, giapponesi e australiani possono mangiare i nostri prelibati salumi. Ciò contribuisce alla grande sofferenza legata al trasporto di animali vivi e all’enorme consumo energetico necessario per il trasporto. La carne si compra ogni giorno dove il mercato è più conveniente, senza tener conto degli sprechi di risorse che questo comporta. L’Italia è il maggior importatore europeo di bovini vivi, ed è al terzo posto nell’importazione di carne bovina (cioè di animali già ammazzati). La carne è un prodotto globalizzato: ogni anno 44 milioni di animali, tra bovini, suini e ovini vengono acquistati e venduti in tutto il mondo, trasportati anche su lunghissime distanze, via mare, su strada o su rotaie. Molti sostengono che gli animali dovrebbero essere macellati vicino al luogo di produzione e che solo a quel punto dovrebbe avvenire il trasporto sulle lunghe distanze della carne già macellata. Inoltre si eviterebbero costi aggiuntivi: infatti il trasporto della carne è molto meno costoso del trasporto degli animali vivi. Nonostante questo la macellazione spesso avviene nel paese importatore, escamotage con cui la carne viene spacciata come “prodotta in patria” e quindi il consumatore è più invogliato all’acquisto. Il trasporto di animali vivi ha anche motivazioni culturali: ogni anno l’Australia, maggiore esportatore mondiale di ovini, esporta nel medioriente e nel sud-est asiatico circa 5 milioni di pecore e di capre vive. Il mercato locale asiatico richiede, infatti, che l’animale sia vivo, perché la sua macellazione deve avvenire nel rispetto della tradizione halal, secondo cui l’animale non deve essere stordito prima dell’uccisione. A volte poi si importano animali vivi perché le restrittive leggi contro l’inquinamento di alcuni paesi, come i Paesi Bassi, ad esempio, impediscono che gli animali vengano allevati in patria. Questo fa si che milioni di giovani maiali vengano esportati all’estero, dove crescono, ingrassano e… inquinano! Solo alla fine del processo di crescita vengono importati nuovamente in patria per essere macellati. Le condizioni di viaggio sono molto dure : in vetture sovraffollate, spesso non c’è sufficiente acqua per gli animali né una sufficiente ventilazione. Gli animali arrivano alla fine del viaggio disidratati, stressati e talmente stanchi da far fatica a rimanere in piedi. Soltanto in Europa circolano circa 2 milioni tra maiali, bovini, pecore e cavalli, destinati al consumo alimentare. In Italia arrivano cavalli e asini dalla Lituania e dalla Romania, maiali dai Paesi Bassi, manzi e vitelli dall’Irlanda. I viaggi di questi animali sono molto lunghi, durano tra le 40 e le 50 ore (in media dall’Inghilterra all’Italia sono necessarie 45 ore!), ma possono durare ancora di più: pensate che un cavallo proveniente dalla Lituania arriva in Sardegna dopo circa 90 ore di viaggio (quasi 4 giorni)! L’Italia è il secondo maggiore importatore mondiale di bovini (secondo solo dopo gli USA) e di ovini, a pari merito con il Kuwait, secondo solo dopo l’Arabia Saudita, e il 7% delle importazioni mondiali di suini giunge in Italia . L’Italia importa carne di manzo principalmente da Brasile, Francia e Germania, in quantità inferiore anche dall’Irlanda, dall’Argentina, dagli stati Uniti e addirittura dall’Australia! La carne di pollo arriva principalmente dal Brasile e dalla Francia mentre la carne di maiale proviene soprattutto da Francia e Germania, e in minima parte, da Cile e Stati Uniti.
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Allevamenti sostenibili Tra modernità e tradizione Per ridurre l’intensità degli impatti dell’allevamento sui diversi comparti ambientali, gli allevatori hanno oggi a disposizione diverse opzioni. Possono, infatti, adottare piccoli accorgimenti che migliorino il benessere degli animali, oltre che dell’ambiente, utilizzando la tecnologia, oppure decidere di convertire la propria produzione in allevamento biologico. Anche le imprese di trasformazione - siano esse piccoli o grandi caseifici e salumifici - e la grande distribuzione possono adottare degli strumenti utili per il miglioramento dei propri impatti ambientali.
L’allevamento biologico Il concetto di zootecnia biologica risale ad una decina di anni fa e si è sviluppata solo dopo che l’agricoltura biologica aveva preso piede in molti paesi europei come Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda. In Italia, fino alla fine degli anni ’80 non esisteva alcun prodotto che si potesse chiamare “biologico”: un primo riconoscimento si ebbe nel 1988 con una circolare del Ministero dell’Agricoltura e con la nascita dell’Associazione Italiana Agricoltura Biologica (AIAB). Solo allora si cominciò a pensare anche ad una regolamentazione per le produzioni animali, sulla base dei criteri definiti a livello internazionale dalla Federazione Internazionale dei Movimenti a favore dell’Agricoltura biologica (International Federation of Organic Agriculture Movements – IFOAM). L’allevamento biologico, in realtà, già era praticato dagli agricoltori biologici che crescevano normalmente nelle loro aziende buoi, polli, conigli, api, pecore e capre, ma ne è stata formalizzata l’esistenza solo con il Regolamento della Comunità Europea approvato nel 1999 (Reg. CE 1804, in vigore in tutti gli stati europei dal 24 agosto 2000). Secondo le norme IFOAM, da cui sono derivate appunto tutte le leggi ed i regolamenti sulla zootecnia biologica, gli animali sono una parte importante del sistema perché sono importanti per chiudere il ciclo ecologico dell’azienda biologica. L’allevamento biologico dovrà essere rispettoso dell’ambiente ,dell’animale, e del consumatore. Ambiente Gli animali possono utilizzare per il pascolo le aree agricole non destinate alle coltivazioni: lasciare aree a produzione di foraggio è, infatti, un buon sistema per evitare rotazioni molto frequenti delle stesse colture e per diversificare il sistema agricolo. Il letame prodotto è la fonte principale di materia organica ed è importante per la fertilità del suolo utilizzato per le produzioni vegetali. Animali Le tecniche di gestione nell’allevamento animale debbono tenere conto del benessere animale in termini di fabbisogni fisiologici ed etologici degli animali, allevando razze storiche o migliorate che ben si sono adattate all’ambiente pertanto più resistenti alle malattie. L’alloggiamento degli animali deve consentire loro di muoversi evitando così il sovraffollamento, di proteggersi dalle intemperie e di riposare (coperte con materiali
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naturali) e dovrebbe avere zone all’aperto con libero accesso all’acqua e al cibo adeguata densità degli animali. Sono vietate pratiche che determinino la mutilazione degli animali come il taglio della coda, la castrazione, il taglio dei denti, il debeccaggio, la tarpatura delle ali e altre pratiche che nell’allevamento convenzionale sono necessarie, visti i ridotti spazi e l’elevata densità degli animali nei recinti. La dieta deve essere bilanciata in accordo con le necessità nutrizionali degli animali e gli alimenti devono provenire da agricoltura biologica, ma è consentita l’utilizzazione di una piccola percentuale di alimenti provenienti da produzioni convenzionali. Non possono essere utilizzati alimenti di origine sintetica, trattati chimicamente, né addizionati con altri agenti chimici, coloranti, conservanti. Non sono ammessi sottoprodotti animali come la farina di carne per i ruminanti, né promotori della crescita. Quando necessario gli animali debbono essere curati da veterinari che pratichino la fitoterapia (l’uso, ad esempio, essenze, estratti vegetali - esclusi gli antibiotici), l’omeopatia (ad esempio, sostanze vegetali, animali o minerali), o altre medicine dolci. Consumatore I consumatori sono sempre più orientati ad acquistare prodotti biologici che garantiscano: qualità, sostenibilità, tutela dell’ambiente, conservazione della biodiversità e benessere animale. In Italia ben 18,4 milioni di famiglie acquista prodotti bio. Più che la carne fresca sono i prodotti secondari dell’allevamento (uova, latte, formaggi) a soddisfare le esigenze del consumatore di prodotti biologici. La tutela del consumatore e il controllo di tutto il processo di filiera ( sostenibilità e rispetto dei requisiti Bio) è affidato a specializzati enti di certificazione.
Migliorare il benessere animale e l’ambiente La sicurezza della catena alimentare è indirettamente influenzata dal benessere animale ed in particolare dai metodi di gestione umana. I fattori che possono influire sul loro benessere possono essere così riassunte: •
Il tipo di stalla Gli allevatori industriali di polli e galline ovaiole possono optare per sistemi di allevamento a terra o addirittura all’aperto: in questo modo gli animali non sono più costretti in gabbie, ma possono esplicare le loro naturali funzioni (sbattere le ali, beccare, etc.), con un miglioramento delle condizioni di vita. Anche gli allevamenti intensivi di bovini e suini possono prediligere sistemi a stabulazione libera se non addirittura optare, quando possibile, per allevamenti allo stato semi-brado.
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Lo spazio a disposizione e la densità dei capi Dovrebbe essere prevista una zona di riposo, una di alimentazione, una di esercizio e nel caso degli animali da latte una zona mungitura. Il numero di capi per impianto dovrebbe garantire una maggiore tranquillità degli animali, evitare problemi di schiacciamento o lesioni di vario genere.
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Le condizioni di trasporto Le condizioni di viaggio in alcuni casi possono essere molto dure: in vetture sovraffollate, spesso non c’è sufficiente acqua per gli animali né una sufficiente ventilazione. Gli animali arrivano alla fine del viaggio disidratati, stressati tanto da ammalarsi.
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I metodi di stordimento e macellazione, la castrazione dei maschi, taglio della coda L’intento è quello di ridurre al minimo dolore e sofferenza agli animali.
Le imprese zootecniche, di trasformazione e di distribuzione possono monitorare i propri impatti ambientali adottando dei sistemi di gestione ambientale, in linea con i requisiti delle norme ISO 14001 e EMAS. L’impronta ecologica associata alla zootecnia è definita “impronta animale” misurabile in termini di gas serra, acqua consumata, terreno utilizzato e biodiversità compromessa. Per poter ridurre l’impronta zootecnica è quello di tenere sotto controllo e impegnarsi a diminuire dove possibile, i propri input e i propri output: ossia le quantità di energia, acqua e materie prime utilizzate e le quantità di sostanze inquinanti emesse nell’ambiente, sottoforma gassosa, liquida o solida (rifiuti). La grande distribuzione, poi, può favorire e promuovere la diffusione di prodotti d’allevamento locali, riducendo le quantità di gas serra generate dal trasporto sulle lunghe distanze, e di prodotti biologici, sensibilizzando i consumatori sui benefici di questa tipologia di allevamento. Anche i ristoratori possono attuare questa stessa politica, privilegiando la filiera corta e rifornendosi presso allevamenti biologici e produttori locali: in questo modo i ristoratori, e indirettamente i clienti, sostengono l’economia agricola del luogo e contemporaneamente riducono in parte il proprio apporto di gas serra in atmosfera.
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Consumi sostenibili Quanta carne mangiamo? I consumi odierni di carne sono cresciuti molto rispetto al passato: la FAO ha calcolato che siano aumentati globalmente di quasi il 400% rispetto al 1961. Oggi nei paesi industrializzati il consumo di carne pro capite è di circa 80 kg. Analizzando i cambiamenti alimentari degli italiani nel corso di 100 anni emerge che il consumo di carne è passata dai 15,5 Kg pro capite l’anno (1900) a 80,7 Kg nel 2016. Globalmente il consumo di carne è destinato a crescere ancora, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove i redditi sono in costante aumento e i 30 kg di carne pro-capite che si consumano oggi diventeranno 36 kg nel 2020. Il consumo globale di carne è il seguente: 58 miliardi di polli, 2,8 miliardi di anatre, quasi 1,4 miliardi di suini, 654 milioni di tacchini, 517 milioni di pecore, 430 milioni di capre, 296 milioni di bovini. Sono dati dell’atlante della carne elaborati dalla fondazione tedesca Heinrich Boll e di Friends of the Hearth. Dunque carne uguale benessere. Come abbiamo visto, la produzione di carne, uova, latte e formaggi può generare forti impatti sull’ambiente e non sempre tutela il benessere degli animali, soprattutto se questi sono allevati in modo intensivo e industriale. Per capire, in qualità di “consumatori”, come scegliere prodotti meno dannosi per l’ambiente e per la propria salute occorre pensare ai diversi attori coinvolti nella filiera della produzione animale e individuare quali strumenti essi hanno a disposizione produrre in modo più sostenibile. I consumatori, infine, possono diminuire il proprio consumo di carne e ad attuare delle scelte d’acquisto sostenibili.
Fonte: Consumo di carne nel Mondo https://it.insider.pro/infographics/2016-09-08/il-consumo-di-carne-nel-mondo-un-grafico/ 35
Conoscere i propri consumi per modificarli Nel corso di Expo Milano 2015 il cui tema era “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, abbiamo avuto modo di riflettere su cosa significa alimentarsi in modo sostenibile e come è possibile farlo. Un’alimentazione sostenibile è rispettosa della biodiversità e dell’ecosistema, eticamente corrente, economicamente accessibile, sana e sicura dal punto di vista nutrizionale. La dieta mediterranea è un modello di dieta sostenibile. Più che dieta può essere considerato un sistema culturale sostenibile perché legato alla cultura del popolo, perché ricca in biodiversità e nutrizionalmente sana. Prestare attenzione a quanta carne mangiamo, sottoforma di bistecca piuttosto che di prosciutto (perché spesso non ci pensiamo, ma anche i salumi sono carne!) è il primo passo per dare avvio ad un percorso di sostenibilità alimentare. Non è necessario diventare vegetariani per alimentarsi in modo sostenibile, basta essere consapevoli che il consumo di cibo ha delle conseguenze sull’ambiente e agire di conseguenza. Modificare i propri consumi è l’unica soluzione per potersi alimentare in modo sostenibile. Vediamo in che modo possiamo modificare i nostri consumi di carne.
Mangiare meno carne e integrare nella dieta proteine di origine non animale Consumare meno carne fa bene non solo alla tua salute ma anche al pianeta: un chilogrammo di carne di manzo, infatti, è responsabile dell’emissione in atmosfera della stessa CO2 che emette una vettura media europea ogni 250 chilometri circa e brucia l’energia sufficiente a tenere accesa per 20 giorni una lampadina da 100 watt!! I nostri nonni davano grande importanza alla carne e a quella rossa in particolare, perché dicevano che “la carne fa sangue!” Presenta infatti molti benefici: è ricca di proteine di facile assorbimento e di elevato valore biologico , stimola sia l’aumento di energia dell’organismo sia della massa muscolare; contiene vari minerali e in particolare ferro, sodio, potassio e zinco. Tuttavia, secondo alcuni studiosi un eccessivo consumo di carne avrebbe degli effetti negativi sulla nostra salute: aumenterebbe, infatti, l’insorgere di tumori, di malattie vascolari, diabete e obesità. Le proteine di cui il nostro organismo ha bisogno si possono trovare anche in alimenti di origine non animale: è importante saperlo per poter sostituire a volte la carne con dei legumi (ceci, fagioli, lenticchie), oppure con altri alimenti prodotti con un costo energetico minore e dal limitato impatto ambientale, come la quinoa.
Mangiare prodotti locali Prediligere prodotti locali, o prodotti cosiddetti “a km zero” è una buona soluzione perché: I prodotti costano meno, la merce non deve essere trasportata, imballata e posta su uno scaffale (operazioni che fanno lievitare il prezzo dei prodotti) (link a video su risparmio imaballaggi sul milkmaps) È sostenibile:scegliendo i prodotti a Km 0 indirettamente vengono emesse in atmosfera minori quantità di gas serra. I prodotti sono più freschi. Potete rivolgervi alle cascine della vostra zona per acquistare la carne, i salumi, il formaggio o altri prodotti caseari della zona e di stagione. Potete anche ritirare il latte fresco dai distributori di latte crudo sparsi per le cascine e anche nelle nostre città e ricordarvi di portare la vostra bottiglia vuota da riempire!
Mangiare prodotti biologici Mangiare biologico consenta una vita piena per l’essere umano in un ambiente rigoglioso e ricco di biodiversità. Oltre a essere una soluzione rispettosa per il Pianeta è portatrice di un nuovo modello economico. Infatti, rispetto all’agricoltura convenzionale, non soltanto è più sostenibile in termini di costi ambientali e aziendali, ma è anche fonte di alimenti di qualità superiore perché non inquinati da sostanze nocive per la salute e con un valore nutrizionale e salutistico molto elevato. L’EPA, l’Agenzia statunitense per la Protezione dell’Ambiente, stima che i pesticidi inquinano la fonte idrica primaria di metà della popolazione americana. L’agricoltura biologica è la migliore soluzione al problema. Comprare biologico aiuta a ridurre l’inquinamento della nostra acqua potabile. La produzione di cibo biologico è una scelta sostenibile per il futuro. Le moderne pratiche agricole sono distruttive per l’ambiente a causa del vasto impiego di erbicidi, pesticidi, fungicidi e fertilizzanti, e che hanno portato a drastici danni ambientali in molte zone del mondo. Inoltre non è esposto al processo di maturazione artificiale con il gas, come lo sono invece alcuni tipi di frutta e verdura non biologica (come le banane). Tuttavia , la scelta di prodotti biologici è ancora oggi condizionata dal loro prezzo, più elevato rispetto agli alimenti tradizionali. Acquistare i prodotti biologici direttamente dal produttore, nei cosiddetti “farmers markets” o direttamente in fattoria, è una soluzione per aggirare il problema dei sovrapprezzi.
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Il prosciutto I maiali I suini, comunemente chiamati maiali, sono animali onnivori, che, come l’uomo, si cibano di ogni tipo di alimento, come carne, ortaggi e frutta. Per questo da sempre sono allevati in tutte le fattorie, nutriti con le rimanenze dei pasti dei contadini e con alimenti di basso valore economico come le patate, talvolta vengono anche condotti nei vicini boschi per consentir loro di mangiare ghiande e radici (come ancora oggi avviene in Corsica e nella Spagna meridionale). La “famiglia del maiali” è composta dal verro, il maschio, dalla scrofa, la femmina, e dai porcellini. Una scrofa impiega 3 mesi, 3 settimane e 3 giorni per dare alla luce i suoi piccoli, solitamente nel numero di una dozzina, e nell’arco di 2 anni può partorire fino a 5 volte! Se allevati all’aperto (detta anche a stabulazione libera), i maiali mostrano comportamenti diversi da quelli a cui si pensa comunemente. Sono animali curiosi: grufolano alla continua ricerca di nuovo cibo da fiutare con il loro potente naso (hanno, infatti, un olfatto acuto come quello dei cani!) e… giocano a palla! Da uno studio condotto in Germania si è, infatti, visto che, se lasciati soli con dei palloni in uno spazio ampio, essi li spingono con il grugno e che la costrizione in luoghi chiusi e affollati ha conseguenze negative sulla loro crescita, nonostante le abbondanti razioni di cibo. Inoltre, a dispetto di quanto si pensi, i maiali sono estremamente puliti e in natura si rotolano nel fango per rinfrescarsi e per eliminare i parassiti dalla loro spessa cute.
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Perché il prosciutto si chiama cosi’? Il prosciutto è un salume e per la sua produzione viene utilizzato un particolare taglio di carne, la coscia dell’animale. Il prosciutto per eccellenza è quello di maiale, ma ne esistono di diversi tipi, sia in base all’animale utilizzato (prosciutto di cinghiale, di cervo, di renna, etc.), sia per la tipicità del luogo in cui viene prodotto (prosciutto di Parma, prosciutto d’Aosta, prosciutto delle Ardenne, prosciutto iberico, etc.). La tecnica utilizzata per produrre il prosciutto, e che serve per conservare a lungo la carne, si chiama salatura e consiste, come dice la parola stessa, nell’aggiunta di sale alla carne. Questo metodo di conservazione degli alimenti è antichissimo. Già Catone il Censore nel De Rustica (II secolo a.C.) parlava di cosce intere di suino, asciugate dal sale e da una lunga stagionatura. Deriva dal latino medievale perexsuctus, cioè prosciugato, reso asciutto da salatura e stagionatura. Infatti, a seguito di ripetuti massaggi e strofinamenti il sale viene fatto penetrare nei tessuti per assorbirne l’acqua “prosciugando” la carne! L’assenza di acqua nei tessuti è fondamentale per arrestare l’attività enzimatica e per rallentare la maggior parte delle reazioni chimiche: in questo modo viene impedito ai microrganismi di proliferare e la carne si conserva a lungo.
C’è dell’altro? Nei prosciutti e in molti altri alimenti, come insaccati e carni in scatola, sono presenti anche nitriti (E249, E250) e nitrati (E251, E252), delle sostanze dette conservanti, che vengono aggiunte come additivi per favorire lo sviluppo dell’aroma e per svolgere un’azione antimicrobica e antisettica. Nitriti e nitrati vengono utilizzati anche per un’altra ragione: con l’aggiunta di queste sostanze la carne acquista un invitante colore rosato, non ha più, quindi, il colore grigio che la carne cotta e i salumi naturalmente avrebbero e che non farebbe certo venire l’acquolina in bocca!
Prosciutto San Daniele.
Per questo motivo il dosaggio di nitriti e di nitrati è spesso superiore rispetto quello necessario per la sola conservazione degli alimenti, con qualche conseguenza per la salute umana: infatti, se i nitrati, presenti in natura in alcune verdure come bietole e sedano, sono innocui, i nitriti, secondo alcune ricerche, provocherebbero alcuni danni alla salute, come difficoltà respiratorie. E’ preferibile, quindi, prediligere insaccati e salumi prodotti senza l’utilizzo di queste sostanze.
Se ne sentono di cotti e di crudi! Quello che differenzia il prosciutto cotto dal prosciutto crudo è quello che accade prima e dopo la salatura.Il prosciutto cotto infatti viene disossato, salato e poi cotto al vapore o in acqua. Il prosciutto crudo, invece, mantiene l’osso e, a seguito della salagione, viene fatto stagionare in ambienti ventilati che favoriscono una lenta disidratazione. A causa della disidratazione un prosciutto crudo arriva a perdere circa il 30% del proprio peso! Le particolarità di un prosciutto derivano in gran parte dal luogo in cui avviene la stagionatura, oltre che dalle modalità di lavorazione e conservazione delle carni. Attualmente in Italia, i produttori di prosciutto sono numerosi e alcuni si sono organizzati in consorzi che garantiscono la qualità del prodotto e il rispetto dei tradizionali metodi di produzione. Attualmente in Italia vengono prodotti diversi tipi di Prosciutto che possiamo definire tipico: il prosciutto di Parma, il prosciutto di San Daniele, il prosciutto di Carpegna, il prosciutto di Modena, il prosciutto toscano, il prosciutto Veneto Berico Euganeo, il Jambon de Bosses e il prosciutto di Norcia. Tutte questi tipi di Prosciutto sono delle produzioni a denominazione di origine protetta (DOP) mentre il prosciutto di Norcia è una produzione ad identificazione geografica protetta (IGP). Ogni anno in Italia viene prodotto circa 1 milione di tonnellate di salumi di cui 289 mila tonnellate di prosciutto cotto e 287 mila tonnellate di crudo (dati ASSICA ,2015) La maggior parte dei salumi che mangiamo proviene dai maiali prodotti in Italia, dove ogni anno ne vengono allevati circa 13 milioni di capi, ma una parte consistente proviene dall’estero: se ne importano, infatti, circa 967 mila tonnellate all’anno!
Allevamento biologico suini.
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Industriale o biologico? Ecco come si allevano i maiali Il maiale è un animale onnivoro e, come già detto, per questo è stato sempre presente in ogni fattoria, dove veniva facilmente allevato per qualche anno e abbattuto durante le stagioni fredde per consentire di conservarne al meglio la carne.
Allevamento industriale Dagli anni sessanta si è sviluppata una forma di allevamento di suini più organizzata (così come per polli e galline), in cui gli animali vengono raccolti all’interno di grandi capannoni illuminati, areati artificialmente e capaci di ospitare centinaia di capi. Intorno a questi impianti non serve che ci siano terreni agricoli poiché gli animali vengono nutriti, per comodità, con alimenti importati da altri luoghi: per questo è definito anche come un sistema di allevamento “senza terra”. Spesso, in queste strutture, la possibilità di movimento di ogni singolo animale è impedita dalle gabbie metalliche in cui vengono disposti: questo accade per i maiali, così come per le galline ovaiole e per i polli. Questo sistema di allevamento è estremamente specializzato: esistono, infatti, gabbie diverse per il parto, per la gestazione, per l’allattamento e per l’ingrasso. Purtroppo gli allevamenti industriali sono anche noti per alcune pratiche che non consentono agli animali di comportarsi in modo naturale. I maiali, che raggiungono anche i 180 kg di peso, hanno a disposizione una gabbia di 60 cm di larghezza e 2 metri di lunghezza; non possono grufolare né girarsi o muoversi, vengono cresciuti su pavimenti di cemento quindi non possono scavare le loro caratteristiche buche per rinfrescarsi nel fango: a causa di ciò sviluppano forme di comportamento aggressivo che li porta a mordersi la coda, che quindi viene loro mozzata. Inoltre, la concentrazione di animali in un unico luogo impone agli allevatori l’utilizzo di antibiotici per evitare che tra di essi si diffondano malattie.
Biologico D’altro canto, si sono sviluppati recentemente altri sistemi di allevamento, detti allevamenti biologici, che cercano di riprodurre le condizioni con cui anni fa venivano tradizionalmente allevati i maiali. A livello europeo una normativa apposita regolamenta l’allevamento biologico (Reg. CEE n. 2092/91) e ne definisce i criteri in merito al numero di capi per ettaro (al massimo 14 capi per ettaro), alla tipologia di alimentazione e al rapporto tra terreno e produzione animale. Questo sistema richiede un luogo coperto che funga da ricovero per gli animali, ma necessita anche di spazio per allevare gli animali all’aperto, senza che si crei sovraffollamento di capi: i maiali devono, quindi, potersi riparare sotto ad una tettoia o poter grufolare liberamente. Vista la diversità strutturale dei due tipi di allevamento, è difficile che un allevatore converta il proprio impianto industriale in uno biologico, ma è sempre più frequente veder nascere allevamenti biologici, che forniscono prodotti legati alle caratteristiche del territorio e fanno di questa tipicità un elemento di distinzione rispetto ai prodotti commercializzati dalla Grande Distribuzione.
Trasporto Il prosciutto italiano è una delle prelibatezze gastronomiche che in molti all’estero ci
invidiano. Ma quanto ne vendiamo all’estero? Ogni anno l’Italia esporta circa 100 mila tonnellate di salumi per un valore di 769 milioni di euro! In particolare vengono esportate circa 60 mila tonnellate di prosciutti e 11 mila tonnellate di prosciutto cotto. I paesi che ne comprano di più sono la Francia e la Germania. (dati Assica 2015).
Non proprio tutti lo mangiano Nelle diverse culture il cibo assume profumi e gusti differenti e determinati cibi predominano su altri, distinguendo cibi commestibili e non commestibili. I musulmani ad esempio non mangiano la carne del maiale (in arabo khinzir) perché nella religione islamica è un cibo esplicitamente proibito (haram) dal Corano. Infatti, nel libro sacro che secondo i musulmani è stato rivelato da Dio al profeta Muhammad, il divieto di consumare la carne di maiale è ribadito in quattro versetti. La carne suina è vietata, nel Corano, insieme ad altri tre alimenti considerati immondi: gli animali morti, il sangue e le vittime sacrificate a divinità pagane. Il maiale è proibito perché ritenuto un animale sporco e impuro, che riassume in sé caratteristiche profondamente negative. Con il passare dei secoli, l’astensione dal consumo di carne di maiale è diventata un forte elemento di identificazione culturale e religiosa per i musulmani.
Il prosciutto e’ amico dell’ambiente? I maiali vengono allevati per la maggior parte nei grandi impianti di allevamento intensivo “senza terra”, senza più l’equilibrio che un tempo esisteva tra agricoltura e allevamento. I prodotti coltivati nutrivano, infatti, gli animali e, viceversa gli escrementi degli animali (detti letame, colaticcio), servivano per concimare il terreno agricolo. Nelle zone di allevamento industriale, però, questi escrementi, detti reflui zootecnici, sono talmente consistenti, visto l’elevato numero di capi, che devono essere smaltiti come rifiuti pericolosi poiché non basterebbero tutti i campi circostanti uno stabilimento di allevamento intensivo per assorbire le quantità di letame prodotto! Questo è sicuramente uno dei maggiori impatti che l’allevamento di suini esercita
Lettiera maiali.
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sull’ambiente (oltre al forte odore che circonda gli stabilimenti per molti chilometri), con la conseguenza di rilasciare sui terreni elevate quantità di nitrati (nocivi per l’uomo) che la pioggia trasporta nei corsi d’acqua e in profondità fino ad inquinare le acque sotterranee da cui l’uomo attinge per bere. I maiali vengono allevati per la maggior parte nei grandi impianti di allevamento intensivo “senza terra”, senza più l’equilibrio che un tempo esisteva tra agricoltura e allevamento. I prodotti coltivati nutrivano, infatti, gli animali e, viceversa gli escrementi degli animali (detti letame, colaticcio), servivano per concimare il terreno agricolo. Nelle zone di allevamento industriale, però, questi escrementi, detti reflui zootecnici, sono talmente consistenti, visto l’elevato numero di capi, che devono essere smaltiti come rifiuti pericolosi poiché non basterebbero tutti i campi circostanti uno stabilimento di allevamento intensivo per assorbire le quantità di letame prodotto! Questo è sicuramente uno dei maggiori impatti che l’allevamento di suini esercita sull’ambiente (oltre al forte odore che circonda gli stabilimenti per molti chilometri), con la conseguenza di rilasciare sui terreni elevate quantità di nitrati (nocivi per l’uomo) che la pioggia trasporta nei corsi d’acqua e in profondità fino ad inquinare le acque sotterranee da cui l’uomo attinge per bere.
Quanto ne mangiamo? Se qualcuno vi chiedesse quanta carne mangiate in una settimana, contereste anche i salumi? Sembra banale dirlo, ma anche il prosciutto è carne! Quindi, oltre alla bistecca e al petto di pollo, dovreste prendere in considerazione i panini e le pizze farcite, in cui sono contenuti prosciutti e salami. Vedrete che sono più di quel che immaginate! Il consumo italiano di salumi è davvero notevole, basti pensare che nel 2015 il consumo di salumi è stato di 1,065 milioni di tonnellate! Ogni italiano ha mangiato in media 17,7 kg di salumi, con i due prosciutti crudo e cotto al vertice delle preferenze.
Lo sapevi che? Nel De medicamentis di Marcello Empirico (IV-V secolo), si consiglia di usare l’osso di prosciutto (pernae scrofinae os), bruciato e ridotto in polvere, come dentifricio. Sembra l’ennesima conferma, se ce ne fosse bisogno, che del maiale non si buttava proprio nulla!
Il prosciutto nella storia La salumeria in italia Malgrado una storia della salumeria, italiana e mondiale, ancora non sia stata scritta, molti sono gli elementi che inducono ad attribuirle un’origine prevalentemente mediterranea e in particolare italiana. Una forte testimonianza arriva dagli scavi di Forcello (V secolo a.C.), nel mantovano, dove furono ritrovati 50.000 resti di ossa animali, di cui il 60% di suini. Dal loro studio è emerso che appartenevano a maiali di circa due o tre anni di vita e che mancavano gran parte degli arti inferiori. Nasce forse allora il concetto di salume. Altri elementi che potrebbero aver permesso lo sviluppo della produzione di salumi sono il clima e il territorio dove vi è ampia disponibilità di sale marino o d’affioramento. Importante per la sua affermazione è stato inoltre lo sviluppo dell’impero romano e del commercio degli alimenti conservati, necessari al sostentamento sia delle popolazioni urbane (Roma sopra le altre città) sia degli eserciti romani, utilizzando una vasta, capillare ed efficiente rete viaria. Sulle rotte del Mare Nostrum e sulle vie consolari, accanto alle anfore contenenti vino, olio, frumento e fichi secchi, vengono trasportati carni secche (siccamen), prosciutti (perna), abbondante lardum, sulcia e insicia, salumi tra i quali sono particolarmente noti quelli della Lucania (lucanica). Col passare dei secoli l’allevamento del suino, ed il consumo dei prodotti da esso derivati, assumono progressivamente maggiore importanza. Basti pensare al periodo rinascimentale quando si sviluppa l’arte gastronomica e il suino cucinato compare come portata in sontuosi banchetti o al diciannovesimo secolo periodi in cui si diffondono i primi laboratori alimentari e le prime salumerie.
Jan Davidsz de Heem: Natura morta con aragosta. Di Jan Davidsz. de Heem (1606–1683/1684) - The Yorck Project: 10.000 Meisterwerke der Malerei, Pubblico dominio 45
Oggi, ogni regione ha mantenuto in vita preparazioni tradizionali, che hanno raggiunto forte notorietà sui mercati nazionali ed esteri, come testimoniato dalla crescita delle esportazioni. Il Professor Giovanni Ballarini, antropologo alimentare, ha recensito 666 salumi tradizionali nel libro “Piccola Storia della Grande Salumeria Italiana”. Gli elevatissimi livelli dell’arte salumiera, sono indirizzati non solo allo sviluppo delle caratteristiche gastronomiche, ma anche ad una sicurezza alimentare assoluta. Per proteggere la tipicità di diversi salumi, l’unione europea ha conferito a più di 40 salumi italiani riconoscimento DOP e IGP.
L’uso alimentare del maiale nell’antichità Il maiale, come animale selvatico (cinghiale) o semiselvatico o domestico, è sempre stato impiegato nell’alimentazione europea, dove non risultano esserci i divieti o tabù che invece riguardano altre aree culturali, tra le quali sono da ricordare quella egiziana per taluni periodi storici, ebrea e musulmana. Solo in epoca etrusca iniziano a prendere vita le prime forme di allevamento stabile, specializzato e finalizzato anche al commercio. Per quanto riguarda la nascita della salumeria parmigiana, importante è stato il ruolo degli etruschi, che secondo le fonti a disposizioni degli studiosi già nel V secolo a.C. trasformano le cosce di maiale in prosciutti e protoprosciutti, che poi vengono commerciati. In epoca romana dalla Gallia cispadana, partono per Roma grandi quantità di cosce di maiale salate. Sono note descrizioni precise delle tecnologie di produzione delle carni salate di maiale, di prosciutti (perna) e salumi tra i quali erano particolarmente noti quelli della Lucania (lucanica). Molti sono gli autori che attestano come presso i romani si operasse la trasformazione delle carni suine in salumi. Polibio, M. Porzio Catone, Ovidio, il celebre gastronomo Apicio sono solo alcuni tra coloro che citano nei loro scritti, prosciutto, mortadella, prodotti affumicati. Celebre è il capitolo che Catone,nel suo De agri cultura, dedica al prosciutto parlando di “un calla salatura, asciugatura e speziatura del maiale”, illustrando metodi utilizzati ancora oggi, e decanta, per il suo ricco sapore, il “porcus trojanus”, un maialino arrosto ripieno di uccelletti.
I salumi nel medioevo Se è vero che l’allevamento suino è praticato fin da epoche remote e in tutte le civiltà, per quanto riguarda l’Europa è col Medioevo che si diffonde in maniera capillare e stabile. Per tutto il millennio medievale le mandrie di maiali venivano allevati in stato di semilibertà nei boschi. I maiali del Medioevo erano però ben diversi da quelli attuali. Erano piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici; cinghiali. Dai documenti iconografici emergono numerosissime razze dai mantelli rossi, neri, bianchi, maculati o cintati. Risultano essere anche numerose le testimonianze iconografiche dell’uso di conservare il maiale sotto forma di insaccati. Nel medioevo era diffusa l’abitudine di tagliare il maiale a metà in senso longitudinale, costituendo due mezene, da cui il termine ancora diffuso di mezzena, che venivano conservate tramite salagione. Quando il maiale non veniva conservato intero, si salavano le parti più pregiate: coscia o prosciutto e gambuccio, scamarita (parte della schiena vicina alla coscia), spalla mentre le parti meno pregiate non venivano salate a causa dell’alto prezzo del sale. Il maiale é inoltre una preziosa fonte di grasso. Il lardo fin dal periodo longobardo era conservato tramite salatura; i muratori longobardi ricevono una quota fissa di lardo di circa cinque chilogrammi per il loro sostentamento prima di iniziare il lavoro stagionale Dal Medioevo ha inoltre origine la leggenda, ancora oggi diffusa, che associa il maiale a Sant’Antonio Abate.
Young man preparing a pig’s head after a sacrifice. Vase360-340 BC, National Archaeological Museum of Spain. By Tarporley Painter - Marie-Lan Nguyen (2008), CC BY 2.5 47
Tra medioevo ed eta’ moderna: le corporazioni Con la rivoluzione agraria dell’anno Mille, la pianura padana è disboscata e le acque sono regolate; si riduco o scompaiono gran parte degli animali che sfruttano l’incolto, non il maiale, che anzi trae vantaggio dal nuovo assetto. Tra i XII ed il XVII secolo si osserva un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni di maiale e nello stesso periodo compare la figura del norcino. Queste figure professionali si organizzano in corporazioni o confraternite. A Bologna sorge la Corporazione dei Salaroli, a Firenze, all’epoca dei Medici, la Compagnia dei Facchini di San Giovanni Decollato della Nazione Norcina. Papa Paolo V, con la bolla Pastoris aeterni (1615), riconosce la confraternita norcina dedicata ai santi Benedetto e Scolastica che, otto anni più tardi, il suo successore Gregorio XV eleva ad arciconfraternita alla quale, nel 1667, aderisce anche l’Università dei Pizzicaroli Norcini e Casciani e dei Medici Empirici Norcini. Bandi e statuti prescrivono norme precise per chi voglia esercitare l’arte di lardarolo e
Mastro salatore nella sua bottega di lardarolo. Codice Theatrum Sanitatis (sec. XIV), Carne salite sice http://www.roma-gourmet.net/dati/rice_papp.html
salcizzaro. Così, nel 1547, dopo essersi costituiti, non senza difficoltà, in corporazione autonoma da quella dei beccai (macellai), i salcizzari modenesi stabiliscono che «non si lascia fare salcizza alcuno che non sia stato gargione di salcizzaro per anni tre continui». Ancora, il Bando sopra le mortadelle stabilisce che non si possa «fabbricare mortadelle e salumi d’altra sorta di carne, che di porcina, e a chi ne avesse fabbricato, comprato od introdotto d’altra carne, benché minima di essa, vuole Sua Eminenza che in termine di otto giorni dalla pubblicazione del presente Bando debba denonciare». Perfetta qualità della carne, dunque, e provata competenza del norcino sono i requisiti richiesti per esercitare la professione.
I primi ricettari parlano di insaccati Un’ulteriore testimonianza della diffusione degli insaccati nella prima età moderna ci viene, oltre che dagli statuti delle corporazioni anche dai ricettari. A metà del Quattrocento, il maestro Martino da Como, nel suo Libro de arte coquinaria, riporta alcune ricette di salumi: “Per fare bon cervellate de carne de porco o de vitello giovine”, “Se tu vorrai fare bone salzicche de carne di porcho o d’altra carne”, “Per far structo de porco”, “Presutto cotto (cottura di coscia di maiale conservata)”.
Norcini fonte : http://www.studiumbri.it/alimentazione/il-paradosso-della-norcineria/ 49
Cristoforo di Messisbugo, nel suo trattato stampato per la prima volta a Ferrara nel 1549, cita carni di porco “investiti e non investiti”, salsiccioni, zambudeli (specie di salsicce), mortadelle gialle, sanguinacci bianchi e rosse, tomaselle (salsicce a base di fegato di maiale), salsiccia rossa e gialla, migliazzo, lardo, carne salata, sugna e dileguato (strutto). In entrambi gli autori, si tratta ancora di ricette di cucina, relative a preparazioni salumiere di rapido utilizzo. A parte la carne secca, che comprende anche il prosciutto, non siamo ancora di fronte ad una produzione salumiera diversificata e soprattutto matura. Più complesso è il quadro presentato da Vincenzo Tanara (1658), in un volume, è bene precisare, non di cucina, ma di amministrazione di una possessione di campagna. In questo contesto appare una salumeria diversificata: salame, mortadella, sanguinacci e migliacci o cervellati, coppa, prosciutto salato e stagionato, pancetta salata e stagionata, spalla salata e stagionata, lardo salato, strutto ottenuto per fusione dal lardo. Particolarmente dettagliata, anche sotto l’aspetto tecnologico, è la ricetta della mortadella, da cuocere in stufa. Altrettanto precise sono le ricette di diversi tipi di salame: alla fiorentina con sentore d’aglio, con fegato. Un’attenzione particolare è dedica ai cervellati fini o salsicciotti, ed alla salciza o salsiccia: quella di Lucca, la lucanica e, non da ultimo, quella all’uso di Modena.
Perché il passaggio dalla casa alla bottega artigianale? Lo sviluppo di una salumeria, autonoma dalla macelleria (beccheria) è stata probabilmente una delle conseguenze del graduale sviluppo dell’urbanesimo, soprattutto da quando il maiale viene estromesso dalla città. A mano a mano che in città si sviluppano le attività commerciali ed artigianali, cresce anche la richiesta di alimenti conservati e preparati da artigiani, non più solamente nella cucina domestica. Questa nuova esigenza crea lo spazio anche per i pizzicaroli, salcizzari e lardaroli, che producono e commercializzano carni di maiale lavorate soprattutto con la salagione e la stagionatura, mentre i salaroli continuarono a vendere il sale, ed i beccai ed i macellai le carni d’altri animali.
Ricettario storico I
Quando e dove nasce l’imprenditoria salumiera? L’artigianato salumiero si sviluppa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento partendo soprattutto da una matrice commerciale, senza escluderne un’altra, minoritaria, contadina. Per quanto riguarda l’ambito commerciale, è a quest’epoca che risale la scoperta del frigorifero, fondamentale per lo sviluppo della salumeria poiché permette una destagionalizzazione della produzione. Nel 1876 naviga la prima nave frigorifera, la Frigorifique di Charles Tiller, e nello stesso anno ad Abbiate, in Lombardia, apre la prima fabbrica di ghiaccio artificiale. La seconda matrice è di tipo prevalentemente contadino, basata sull’attività dei mazén o norcini, artigiani che nel periodo invernale si recano presso le singole fattorie o case padronali dove effettuano tutte le operazioni: dall’uccisione del maiale alla sua trasformazione in salumi, secondo le richieste del proprietario. Dai norcini deriva la figura del prosciuttaio, nella sua duplice funzione di maestro d’arte della stagionatura delle cosce di maiale, e d’imprenditore che amministra un prosciuttificio, prima di piccola dimensione o artigianale e poi, anche, di grandi dimensioni o industriale.
Dall’industrializzazione del ‘900 alle nuove sfide della postmodernità L’industrializzazione della salumeria italiana, avvenuta nella seconda metà del XX secolo, si è sviluppata a partire dalla valorizzazione di alcune produzioni tipiche territoriali, per alcune delle quali è stato richiesto il riconoscimento di tipicità (DOC e DOP ). Il quadro salumiero che ne risulta è quanto mai vario, come richiede oggi il consumatore. All’inizio del terzo millennio, la salumeria si trova nella necessità di superare i limiti del classico sistema industriale basato sull’efficienza e produttività, entrando nel sistema definito postindustriale, anche in un più vasto ambito di un mercato postmoderno. L’industria postmoderna (nel senso che ha superato od è in via di superare la fase precedente) non è solo attenta al prodotto, ma anche al modo con il quale produce ed a tutte le richieste di un nuovo consumatore più maturo. Un’industria, che nel produrre
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considera anche le ricadute soprattutto sociali, ma anche ambientali e nell’ambito di un ciclo ecosostenibile. Nel consumo postmoderno sale l’attenzione per le caratteristiche di tipicità degli alimenti, per una produzione rispettosa dell’ambiente, per il benessere degli animali che hanno prodotto carne, latte o uova e così via. Il consumatore postmoderno si muove in una società fortemente differenziata ed interconnessa, entro mercati che, a loro volta, cambiano rapidamente e, al tempo stesso, hanno molte dimensioni, non solo economiche. Per il consumatore postmoderno, le richieste e le scelte alimentari non dipendono soltanto dal reddito disponibile o dalla semplice esigenza di soddisfare dei bisogni, ma sono il risultato di una complessa e continuamente variabile somma di segni e simboli, molti dei quali manifestano una non eliminabile voglia di partecipazione, con assenso o rifiuto, non tanto a questo o quell’alimento, ma di quel che quell’alimento rappresenta per la società, l’ambiente o la sostenibilità, in un nuovo immaginario postmoderno. Nel mercato postmoderno, soprattutto in quello alimentare, prevalgono i segni e i simboli. Per un’industria salumiera è importante soddisfare le richieste dei consumatori d’ordine extranutrizionale; fornire ai consumatori alti livelli di sicurezza; presentare alimenti che rispondano alle nuove richieste di un sistema alimentare sostenibile, soprattutto per quanto riguarda il bilancio energetico di tutta la filiera produttiva, l’impatto ambientale ed il benessere animale; dare una risposta alle richieste di tipo sociale e di valori simbolici avanzate da una parte sempre più vasta di consumatori, comunicare al consumatore le caratteristiche del prodotto, in modo chiaro ed efficiente, anche attraversi segni che possono trasformarsi in simboli.
La salumeria italiana a confronto con la globalizzazione Gli stili di vita, in modo particolare la loro globalizzazione, hanno profondamente mutato le linee di distribuzione dei salumi. Se un tempo prevaleva l’autoconsumo – ed era minoritaria la vendita tramite il negozio di generi misti in campagna, o di salumeria (salsamenteria,
pizzicagnolo, norcineria, ecc.) – oggi l’autoproduzione è quasi scomparsa e la grande distribuzione organizzata sta ampiamente prevalendo sul piccolo distributore. Ne conseguono cambiamenti nei sistemi d’approvvigionamento, ma più importanti sono le modificazioni in corso sugli stili alimentari che intervengono sull’uso dei salumi. La nuova sfida per l’industria salumiera nasce dalla bipartizione tra i salumi da piatto ed i salumi da cucina. Fino agli inizi del Novecento i salumi da piatto sono una minoranza. In pratica tutta la produzione salumiera è destinata ad essere cotta e, o trasformata in cucina. Una tendenza alla quale non fa eccezione lo stesso prosciutto che, fino alla prima metà del XIX secolo, dopo essere stagionato, viene mangiato dopo cottura in acqua, in modo analogo a quanto ancora avviene per la spalla stagionata. Il prosciutto, quando è alleggerito di grasso e, soprattutto, diviene meno salato e inizia ad essere largamente usato come affettato, è denominato crudo. Nella seconda metà del Novecento, i salumi da piatto, utilizzati soprattutto affettati come antipasti, secondo piatto o come pasto veloce (il classico panino) conoscono un crescente successo, determinato anche dalla diversificazione dell’offerta, in particolare di salami che si sono affiancati ai prodotti usati tradizionalmente (prosciutto, culatello, mortadella). Sempre nella seconda metà del secolo XX si è assistito al successo d’alcuni salumi usati in cucina, anche per ulteriori trasformazioni. Tra questi vi è senza dubbio il prosciutto cotto: dei circa trenta milioni di pezzi consumati annualmente in Italia, si stima che più della metà siano usati dopo trattamento culinario (comprendendo anche la cottura come toast e come pizza). Interessante è anche la destagionalizzazione, tuttora in espansione, di alcuni salumi da cucina, ad esempio il cotechino (meno lo zampone). Importante è anche l’interesse che i cuochi ed i gastronomi dedicano all’uso dei salumi come ingredienti culinari. Un interesse che viene trasferito anche alla cucina casalinga. In Italia le più significative novità provengono dalla deregionalizzazione della cucina e della produzione di alimenti; la destagionalizzazione, la delocalizzazione dei pasti e allo stesso tempo la loro destrutturazione (piatto unico). L’innovazione del prodotto si adatta ai gusti più attuali.
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Prosciutto: cronache di un tempo Allevamento dei maiali La rivista da cui è tratto l’articolo pone particolare cura nel presentare ai lettori notizie e saggi che facciano riflettere su nuovi tipi di colture, o allevamento, che erano poco impiegati, o del tutto assenti, dalle campagne. Questo è il caso dei suini, che secondo l’autore dell’articolo non rappresentavano un investimento abbastanza sfruttato dall’agricoltore medio, il quale si limitava ad allevare, seppur con successo, quasi solamente mandrie di vacche. Per convincere dunque il pubblico dei vantaggi che si potrebbero trarre dedicandosi all’allevamento dei maiali, non solo vengono forniti dati molto precisi relativi a diverse province sulla quantità di terra incolta che potrebbe essere invece impiegata per l’allevamento, ma viene anche fornita una precisa descrizione del suino: le sue abitudini, l’alimentazione, la riproduzione, le giuste cure che gli andrebbero fornite e gli stereotipi che sono legati a questo animale. Tratto da: “Giornale agrario del Lombardo-Veneto Annali universali di Tecnologia, di Agricoltura, di Economia rurale e domestica, di Arti e Mestieri ” (vol. 6, fasc.9, settembre 1851) Noi lombardi, che possediamo forse le più belle campagne del mondo, non abbiamo ancora ben ponderata l’importanza di aumentare il numero dei suini, animali di poca spesa, di molto lucro. Abbiamo belle e numerose mandrie bovine, importate specialmente dalla vicina Svizzera, per cui è alimentata una delle più ricche industrie, l’arte di fabbricare i formaggi: manchiamo però di accordare un giusto peso ad un’altra industria, la educazione dei suini: e noi abbiamo località, terre, opportuni mezzi quant’altri mai di provvedere ai bisogni, al più brillante sviluppo di queste razze, che moltiplicano a dismisura sotto il nostro bel cielo. Dei 32 milioni circa di pertiche di terreno che costituiscono il territorio lombardo noi sappiamo che appena 17 milioni circa sono ridotte a coltivazioni, lasciando una enorme quantità di aree ancora incolte, cioè numerosi e buoni pascoli, e boscaglie, e macchie, e paludi che fruttano pure qualcosa. Nella sola provincia di Sondrio, forte di oltre 6 milioni di pertiche di terreno fra colle e montagna, non se ne coltivano che pertiche 425,875. Nella provincia di Bergamo che ugualia il terzo di tutto il territorio lombardo, di cui più di 6 milioni in valle, e più di 4 milioni in montagna, non havvi che il quinto circa di terreno coltivato, cioè 2,295,578 pertiche. Quanta opportunità, quanta importanza potrebbero presentare queste enormi aree, quando si pensasse seriamente ad introdurre le educazioni dei suini. Quello dicevamo di queste due provincie, lo potremmo assicurare di alcune altre, anzi di tutte a seconda della maggiore o minor convenienza dell’industria in relazione alle condizioni speciali dei luoghi, dei proprietarj, dei coltivatori. Fra le nazioni nordiche più che da noi si attende alla educazione dei suini: eppure quei campagnuoli che coltivano questa industria, ne sentono i più manifesti vantaggi: domandate a quei contadini che sanno apprezzare l’allevamento dei suini, e sentirete di quanto vi sia a rallegrarsi delle cure che quotidianamente vi prodigano. Il male sta alla campagna generalmente poco o nulla si conosce sul modo più economico, più conveniente di educare questi bestiami: quali sarebbero adunque quelle cure che vieppiù saranno reclamate da questa industria, che vorremmo maggiormente propagata? E’ notissimo come alla campagna nonostante i grandi servigi prestati all’agricoltura da questo animale, tuttalvolta se ne ignorano dalla più parte
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i vari istinti, i gusti, l’igiene. Fra tutti gli animali domestici la educazione dei suini è la più trascurata, la meno studiata, e quel che è peggio si crede di far bene quando si fa più male. I campagnuoli credono che il porco ami acque sporche, siti tenebrosi, alloggi cattivi, trattamento il più trascurato: ecco lo sbaglio principale: invece, ove si voglia rendere più commerciale la sua qualità, ed aumentarne il prodotto, vuolsi buon aria, soleggiamento, i campi, i boschi, ed una igiene corrispondente al suo accrescimento ed alla sua maturanza. Sono queste condizioni necessarie, perché questa specie di animali utilissimi corra una vita opportuna allo scopo del paesano, il quale pare che operi tutto il contrario. Difatti appena nato comincia una vita la più deplorabile fino alla morte, mal nodrito, peggio alloggiato. Il suino ama alternare i suoi godimenti, e ne è insaziabile. La solitudine non gli garba affatto: non vive bene che in famiglia: gli è necessario un ricovero sano, dove possa ricevere luce ed aria: mangia di più quando si trova in compagnia d’altri che da solo: non vi ha che un’eccezione: è la femmina dopo il parto: questa allora rimane segregata fra i suoi nati, ed esce separatamente con essi. Nei primi tre o quattro mesi generalmente si fanno bevere in un’acqua grassa o nel siero mescolato a crusca: vi si aggiungono alcuni frutti caduti dagli alberi, alcune tuberose o legumi cotti: così beve e mangia: in questo tempo si verifica il suo aumento, e si allunga. Dopo quest’epoca occorre un nutrimento più sostanzioso; e si continua fino a circa dieci mesi: dopo comincia l’ingrassamento: si adoperano diversi alimenti, formentone pestato, legumi cotti, luini, crusca, orzo, patate, zucche, ecc. Il porco debbe essere strigliato e nettato almeno una volta al giorno. Questa nettezza fa la sua delizia, ciò che aggiunto ai bagni quotidiani, lo preserva dagli inopportuni pruriti che l’assediano continuamente, nel caso che simili cure igieniche vengano dimenticate. Di qui l’incessante sfregarsi che fa contro la terra, le piante, le pareti del proprio alloggio, per cui le tante volte si vedono perfino a ferirsi, tanta è la noja dell’impolizia con cui è tenuto. Questo stato anormale gli procura un malessere, una febbre continua, ciò che influisce assai sulle cattive qualità delle carni. E’ per questo motivo, che privato d’acqua, non potendo rinfrescarsi il corpo, soffogato dalla pinguedine, gavazza entro paludi fangosi, e cerca le terre sabbiose per grattarsi. Non è per istinto, ma per necessità che ricorre a tale immondezza. Si dovrà incolpare adunque questo utile animale, o l’uomo che non sa comprenderlo? I campagnuoli che si istruiranno sulle norme più atte alla educazione dei suini, potranno ottenere dei capi di un eccellente qualità, e pesanti molto più dei comuni. Alcuni pochi fittabili da noi hanno compreso il vantaggio che si può ritrarre di questa industria: e quei pochi, sebbene convinti dell’utile che se ne trae, seguono ancora l’antica abitudine di far male. Noi raccomandiamo altamente le cure suesposte e la più numerosa educazione di queste mandrie: l’aria, la luce non si pagano, e quindi lasciate che ne godono a tutto agio: le cure igieniche, gli alimenti costano denaro: ma adesso non si spende? Noi riteniamo fermamente che la spesa non oltrepassi la comune, seguendo il buon sistema, dacché tutto si riduce ad avere buon senso e cura del proprio interesse […]
Il macello di Milano L’articolo riportato qui di seguito apre una finestra inconsueta sull’organizzazione della macellazione a Milano nei primi del Novecento illustrando i vari tipi di carne presenti sul mercato, così come i diversi processi che sono legati alla loro produzione. Vengono altresì fornite cifre sulla consumazione dei vari tipi di prodotti, cifre che sono utili a comprendere quanto la carne fosse un elemento centrale nell’alimentazione italiana.
Nell’articolo vengono poi analizzate chiaramente le modalità con cui, in base all’animale, era condotto il procedimento di trattamento delle sue carni, e come a questo procedimento fosse collegata una tipologia particolare di struttura del macello stesso. Si noti come fosse prevista anche una diversa categoria di macellazione, dedicata ai consumatori di religione ebraica, e un trattamento per le carni malate, e ancora per gli scarti, che nella maggior parte dei casi venivano utilizzati come concimi nelle campagne. Tratto da: “Letture della domenica” (vol. 3, fasc. 46, novembre 1910) Una visita al macello di Milano è non solo impressionante, ma assai significativa. Il macello di Milano è certamente tra i più importanti e grandiosi d’Italia. La grande città lombarda ebbe tardi un edificio destinato alla macellazione. Fino al 1871 si macellava nelle botteghe e magari sulla pubblica via, mentre già nel 1807 il gran Napoleone dotava Parigi d’un mattatoio e Leone XII inaugurava in Roma nel 1824 il primo macello italiano. Il primo macello di Milano non era però, e non poteva essere altrimenti, che il nucleo di quel che sarebbe divenuto poi l’edifico col successivo ampliarsi della città. Oggi l’estensione di questo complesso di fabbricati si avvicina a quella d’una minuscola città. Ed infatti qualche cifra di raffronto può persuaderci della necessità d’un ampliamento. Nei primi anni si macellavano ogni anno 7.500 buoi: oggi quasi il doppio: i vitelli cadevano sotto l’ascia in numero di 33.000, oggi se ne immolano 70.000. I nostri padri non mangiavano in un anno che 4.300 vacche, mentre i macellai d’oggi ne appioppano ai consumatori ben 30.000. Invece è stazionario il consumo dei capretti e triplicato quello degli agnelli e montoni, quadruplicato quello dei suini. E quasi ciò non bastasse oggi consumiamo in più due tipi di carne ignoti quarant’anni or sono al palato dei cittadini milanesi è la carne di toro (2.500 capi) e la carne di cavallo (7.000) capi. Quest’enorme esercizio di quadrupedi viene ucciso ogni anno al macello e dà luogo ad una infinità di pratiche igieniche e industriali, le quali appunto tendono a render sempre più estesi ed ingombranti gli annessi del mattatoio. Tralasciamo, per amor di brevità, di dire degli uffizi di amministrazione, di quelli daziari, della stalla di sosta degli animali, del mercato del bestiame che pur è annesso al macello, per accennare invece agli ammazzatoi, la parte – passi il bisticcio – vitale del macello, dove gli animali, previa visita di un veterinario, vengono uccisi. Per i bovini s’hanno tante celle quanti sono i macellai, i quali vi compiono le operazioni d’uccisione, scuoiamento, confezione delle carni e possono lasciarvi gli animali morti affinché, come suol dirsi, le carni infrolliscano. Una cella è riservata alla macellazione ebraica, la quale, come si sa, deve effettuarsi senza spargimento di sangue. Invece gli ovini, i suini, gli equini affrontano la morte a schiere: in grandi cameroni vengono introdotti gli animali e in un’ora un centinaio – una vera ecatombe – viene fatto a pezzi. In una mattinata si macellano fino a 500 suini e non a dire quanto impressionante riesca tanto spargimento di sangue tra le strida delle povere bestie e l’odor acre che si diffonde per l’aria. Ma non tutte le carni vengono riscontrate adatte per l’alimentazione. Vi sono le carni di animali tubercolotici, e le carni suine grandinate che vengono cotte in appositi apparecchi e sterilizzate. Le prime vengono confezionate in scatole di conserva, le altre vengono trasformate in salami.
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Altre carni invece non possono servire all’alimentazione neppure se cotte e sterilizzate e vengono inviate alla Sardigna, dove insieme a tutti gli altri animali morti nel Comune vengono ridotti in una poltiglia che si usa per la concimazione. Anche il sangue viene trattato con speciali apparecchi, separandolo dal siero che si usa in tintoria, ed essicandolo per usarlo come concime. Vi sono poi locali per la lavorazione delle trippe, per la lavatura delle budella e per altri servizi accessori: e in mezzo a questi una popolazione di impiegati, inservienti, medici, veterinari ecc. Al di là dei cancelli è Milano che lavora e Milano che mangia. Guai se l’attività del macello s’arrestasse! I grandi magazzini dove si conserva la carne nei refrigeranti e che possono rifornire per qualche giorno la città sarebbero presto esauriti: e poi?
Prosciutto: ricette di un tempo Frittata economica al prosciutto Preparazione: 1.
Si calcoli un uovo per ogni persona.
2.
Si lavorino bene i tuorli, aggiungendo per ogni tuorlo una punta di coltello di farina e due cucchiate di latte (si badi bene di mettere prima la farina perché altrimenti nel latte si formerebbero grumi!), del sale e i bianchi battuti a neve.
3.
La si ponga in padella con abbondante burro caldissimo e quando anche la parte superiore comincerà ad addensarsi vi si metta nel mezzo una discreta quantità di prosciutto tritato, ripiegando poi su questo prima un orlo e poi l’altro, in modo da formare come un salamino.
4.
Si abbia cura che la frittata, un po’ colorita all’esterno, resti morbida, o meglio un po’ molle, all’interno.
Tratto da... E. Zamara, La cucina italiana della resistenza, Barion, Sesto S. Giovanni 1936.
Quando nel 1935 l’Italia viene colpita dalla Società delle Nazioni con restrizioni di carattere economico per aver invaso l’Etiopia, il regime fascista risponde lanciando un forte appello, soprattutto alle donne, perché essi acquistino prodotti italiani. Le «inique sanzioni», così sono definite, vengono dunque combattute con l’arma dell’autarchica, del “far da sé”, in ogni ambito della vita italiana, quindi anche in cucina. Questo di Zamara è uno dei tanti ricettari che cercano di aiutare le massaie nella difficile impresa di imbandire la tavola, utilizzando solo pochi prodotti e di scarsa qualità. Al grido di «difendiamoci contro l’iniquo assedio economico», stampato sulla copertina, l’autrice propone ben 194 piatti, che per la verità, tranne poche ricette come quella qui riportata, che rientra nel capitolo Piatti che sostituiscono la carne composti di ortaggi e uova, non sembrano prevedere grandi restrizioni dato che burro, olio, zucchero, cioccolato e persino ostriche sono citati in abbondanza. In sintesi, rispetto ad un normale ricettario, qui non sono contemplate le carni, neppure quelle di pollo o di coniglio a cui le massaie fanno massiccio ricorso negli anni successivi al 1936.
Come molti altri volumi di questo genere, le ricette sono descritte in modo discorsivo; ad esempio vengono fornite in termini approssimativi le dosi necessarie, non sempre sono dichiarati i tempi di cottura e neppure per quanti commensali sono previsti. Il ricettario inoltre è privo di qualsiasi illustrazione.
Bibliografia Articoli e inchieste Mangimistica contro alimentazione umana: nessuna competizione per le risorse http://www.mangimiealimenti.it/articoli/829-mangimistica-contro-alimentazione-umana-nessunacompetizione-per-le-risorse Dalla fabbrica alla forchetta: sai cosa mangi? http://www.saicosamangi.info/economia/ Il prezzo ambientale della carne http://www.focus.it/ambiente/ecologia/il-prezzo-della-carne Allevamenti intensivi e danni ambientali http://www.ideegreen.it/allevamenti-intensivi-38559.html#S4le3qcCbLwI56PB.99 Nutrition Ecology International Center- Impatto Ambientale http://www.nutritionecology.org/it/panel1/index.html Deforestazione, il problema sono soia e allevamenti http://www.rinnovabili.it/ambiente/deforestazione-problema-soia-allevamenti-222/ Italian climate network- Side Event , Allevamenti intensivi e clima: una relazione confermata http://www.italiaclima.org/side-event-allevamenti-intensivi-e-clima-una-relazione-confermata/ FAO-Aumentano le emissioni di gas serra dall’agricoltura http://www.fao.org/news/story/it/item/224411/icode/ Il fatto alimentare - Allevamento intensivo di animali da reddito: grande assente alla Conferenza sul clima di Parigi. Occorre cambiare abitudini. Petizione del CIWF http://www.ilfattoalimentare.it/alimentazione-allevamento-intensivoclima-parigi-cop21.html Earthday.it- Allevamento: il 17% delle razze rischia l’estinzione http://www.earthday.it/Ecosistemi-e-biodiversita/Allevamento-il-17-delle-razze-rischia-l-estinzione Animal Equality- 4 Scioccanti Malattie Umane provocate dagli Allevamenti Intensivi http://www.animalequality.it/notizie/432/4-scioccanti-malattie-umane-provocate-dagli-allevamenti-intensivi La svolta biologica dei consumatori italiani – Repubblica - 04 Giugno 2015
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Siti web Milk Maps - Mappa dei distributori di latte crudo in Italia, http://www.milkmaps.com/ Sustainweb, https://www.sustainweb.org/ Musei del cibo, http://www.museidelcibo.it/ Meatrix, http://www.themeatrix.com/ Water footprint, http://waterfootprint.org/en/water-footprint/ Unesco ihe, http://www.unesco-ihe.org/
(consultato il 22/02/2017) (consultato il 22/02/2017) (consultato il 22/02/2017) (consultato il 22/02/2017) (consultato il 22/02/2017) (consultato il 22/02/2017)
Letture consigliate “Fast Food Nation” - Schlosser Eric Farmageddon – il vero prezzo della carne economica - Philip Lymbery Biologico, la parola alla scienza/What science says about organics” - Roberto Pinton La sostenibilità della carne e dei salumi in italia- Sintesi 2016.
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