I prodotti della terra

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La Dieta Mediterranea made in Basilicata

I PRODOTTI DELLA TERRA



e-nutrition... ...consiste nella realizzazione di uno strumento «web based» di divulgazione scientifica in ambito nutrizione. Temi del progetto sono la nutraceutica (studio di alimenti che hanno una funzione benefica sulla salute umana), la valorizzazione dei beni culturali e commercializzazione dei prodotti enogastronomici, mediante l’utilizzo della dieta mediterranea quale filo conduttore. La Fondazione Eni Enrico Mattei, soggetto attuatore del progetto, è affiancata MedEatResearch - Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, e da SAFE - Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari ed Ambientali dell’Università Degli Studi Della Basilicata.

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Indice 7

Terra per mangiare

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Agricoltura oggi

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Impatti ambientali

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Le biotecnologie

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Agricoltura sostenibile

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Arte del conservare

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Verdura nel mondo

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Consumi sostenibili

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Il pomodoro

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Il pomodoro nella storia



Terra per mangiare Coltivare la terra e nutrirsi dei suoi prodotti è da sempre un’attività che l’uomo svolge tenendo incambiamenti climatici considerazione le condizioni climatiche e ambientali tipiche del territorio. Con il progresso e le moderne tecnologie l’uomo ha pian piano superato i limiti imposti dall’ambiente, aumentando così le pressioni sull’ambiente stesso. L’uomo, quindi, ha modificato il paesaggio per renderlo più produttivo, trasformando il suolo in campi coltivati, bonificando zone umide, terrazzando pendii, convertendo le foreste in pascoli. L’agricoltura ha un’influenza sull’ambiente nella misura in cui ne utilizza le risorse e produce sostanze - naturali e chimiche - che vengono poi immesse nei diversi comparti ambientali, suolo, acqua e atmosfera. Per coltivare, ad esempio, un campo di mais, oltre all’energia proveniente dal sole, occorre il suolo con i suoi sali minerali e le sostanze nutritive, l’acqua per irrigare, il fertilizzante chimico per sostenere la crescita delle piante; serve, poi, che il mais sia protetto dagli attacchi di insetti, funghi e parassiti, cosa che in natura avviene grazie alla presenza di altri organismi animali e vegetali che si nutrono di questi insetti. L’uomo spesso, però, interviene per evitare che la coltivazione venga attaccata e mangiata dai parassiti con insetticidi molto potenti e nocivi per tutto l’ambiente e per l’uomo. L’immissione di queste sostanze nell’ambiente e l’utilizzo delle risorse naturali alterano gli equilibri naturali e rendono fragile l’ambiente, che cerca di compensare gli effetti determinati dall’attività agricola, così come gli effetti prodotti da ogni attività antropica. Qualora si verifichino, però, delle condizioni di forti , soprattutto a scala mondiale, siano essi causati da eccessivi input da parte dell’attività dell’uomo, o siano conseguenza di una naturale evoluzione del pianeta, i sistemi agricoli diventano incapaci di mantenere gli alti livelli di produzione richiesti, poiché dipendono direttamente dalle condizioni del suolo, dell’atmosfera e dell’acqua.

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L’agricoltura oggi Un po’ di storia prima di inventare l’agricoltura l’uomo era per lo più un cacciatore-raccoglitore. La sua esistenza, anziché basarsi sulla stanzialità, cioè sulla tendenza a vivere nel solito luogo per tempi molto lunghi, dipendeva dall’incessante spostamento da un luogo a un altro per poter disporre continuamente di nuove fonti di cibo. Infatti, fino a 10.000 anni fa gli alimenti non venivano prodotti con l’agricoltura, così come si fa oggi, ma venivano cercati e prelevati in mezzo alle tante risorse fornite spontaneamente dall’ambiente. Le tribù nomadi si cibavano di prodotti selvatici commestibili come radici, frutti, foglie, bacche, semi, uova e piccoli animali, inoltre cacciavano la selvaggina. Il passaggio dal nomadismo a uno stile di vita sedentario si verificò grazie alla cosiddetta “rivoluzione agricola”, grazie alla quale alcune popolazioni si affrancarono dalle risorse spontanee della natura e fondarono le prime economie basate sullo sfruttamento della terra. Molti studiosi ritengono che nella storia dell’umanità questa fase di transizione sia cominciata oltre 10.000 anni fa in una regione precisa: la Mezzaluna Fertile, una fascia di territorio ricca di corsi d’acqua che si trova fra Palestina, Iraq, Siria e Turchia. Sono state fatte alcune ipotesi su come potrebbe avere avuto origine la coltivazione delle piante in quest’area del Medio Oriente, ma una delle più diffuse sostiene che il “caso” abbia giocato un ruolo chiave. È molto probabile, infatti, che qualche popolazione mediterranea del Neolitico abbia scoperto, per pura coincidenza, che nei punti in cui venivano lasciati cadere i semi di una pianta selvatica commestibile, come per esempio un cereale, si potevano rigenerare piante dello stesso tipo. Da qui alla presa di coscienza delle potenzialità dei semi probabilmente non dovette

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passare molto tempo. Presto i nostri progenitori si resero conto che piantando i semi dei vegetali commestibili si potevano ottenere piante con le stesse caratteristiche, e, a volte, perfino con caratteristiche migliori. Gli uomini selezionarono tra le piante le più produttive e nutrienti e ogni area del mondo ebbe il suo cereale d’elezione: il grano nei paesi mediterranei, il sorgo nel continente africano, il riso in Asia e il mais in America. Attorno a queste piante, definite da Fernand Braudel “piante di civiltà”, si organizzò l’intera vita di quelle civiltà . Il risultato fu un mutamento progressivo e radicale sia del sistema di vita dell’umanità sia del suo modo di interagire con la natura, da cui ebbe inizio la storia dell’agricoltura.


La rivoluzione verde quaranta anni fa il mondo cominciò a temere che a distanza di poco non ci sarebbe stato cibo a sufficienza per tutti: si prevedeva, infatti, un raddoppio della popolazione nel giro di una generazione e si temeva che miliardi di persone sarebbero morte di fame vista l’incapacità della terra di produrre il cibo necessario. Queste previsioni apocalittiche non trovarono riscontro nella realtà; infatti, nonostante un effettivo incremento della popolazione, la produzione di cibo tenne il passo, grazie anche al lavoro di alcuni scienziati che svilupparono delle nuove varietà di riso, mais e grano ad alto rendimento. Nei primi anni Sessanta iniziò pertanto a dare i suoi frutti la “rivoluzione verde”, un termine usato per descrivere il fenomenale aumento della produttività agricola mondiale: in Asia, ad esempio, la produzione di cereali è duplicata in 25 anni, dal 1970 al 1995; anche in Sud America si sono ottenuti buoni risultati, mentre nell’Africa Sub Sahariana i miglioramenti sono stati molto modesti. Con la rivoluzione verde sono state introdotte anche nuove varietà di piante, dette “ibride”, più ricettive ai nutrienti, più veloci nella maturazione e in grado di crescere in ogni stagione, permettendo così più raccolti nell’arco dell’anno. Inoltre, ha fatto il suo ingresso un massiccio impiego di fertilizzanti chimici e di pesticidi (diserbanti e antiparassitari) e un aumento nell’utilizzo di macchinari pesanti in agricoltura. Oltre ai benefici legati all’aumento della produttività agricola, la rivoluzione verde ha avuto anche degli effetti negativi. Innanzitutto la coltivazione delle nuove varietà migliorate e l’allevamento di nuove razze di bestiame hanno provocato l’abbandono e l’estinzione di molte varietà locali e tradizionali: la conseguenza di questo è stata una riduzione notevole di biodiversità agricola. In secondo luogo, l’utilizzo massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici ha causato un serio degrado ambientale e ha minacciato la salute delle persone impiegate in agricoltura.

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Inoltre, ha gravemente intaccato le risorse idriche mondiali. Infatti, le nuove varietà di colture, introdotte con la rivoluzione verde, sono altamente efficienti in termini di resa per ettaro, ma inefficienti rispetto all’utilizzo dell’acqua: ne necessitano enormi quantità. Nel corso degli anni si è dato avvio a imponenti lavori di ingegneria idraulica che hanno portato al miglioramento dell’irrigazione dei campi. Oggi, circa il 70% di tutta l’acqua prelevata dai fiumi e dalle riserve idriche sotterranee viene sparso sui 270 milioni di ettari di campi coltivati che producono complessivamente un terzo del fabbisogno alimentare mondiale.


Infine, malgrado la maggiore produttività agricola, la fame è ancora diffusa. La rivoluzione verde, infatti, ha offerto i propri benefici ai contadini che avevano del denaro da investire e sufficienti risorse come terra e acqua. I contadini poveri che non avevano né l’uno né l’altro sono stati esclusi da questo processo di crescita, molti, addirittura, sono diventati ancora più poveri e sono stati espropriati delle proprie terre.

L’agricoltura moderna il passaggio dalla “vecchia agricoltura” all’“agricoltura moderna” è segnato dalla seconda rivoluzione agricola ossia dalla rivoluzione verde. All’inizio del XIX secolo, in Europa e nei paesi dal clima temperato, erano predominanti dei sistemi agricoli basati sulla diversificazione delle colture e sull’allevamento degli animali senza il ricorso al maggese. La policoltura, cioè la produzione di una larga varietà di prodotti agricoli, aveva lo scopo principale di soddisfare direttamente i bisogni della popolazione agricola: ogni azienda agricola cercava di coltivare grano, patate, frutta e verdura, di crescere maiali, polli e quindi di ottenere uova e latte, e infine cercava di produrre il proprio vino, il burro, il formaggio, il pane. Insomma si cercava di produrre tutto il necessario per un’alimentazione completa. Il surplus confluiva nei mercati locali dove veniva venduto. Oggi, invece, le aziende agricole sono specializzate nella produzione di un ridotto numero di colture, prodotte in grandi quantità in modo da avere un’eccedenza consistente da vendere non solo ai mercati locali ma anche a livello internazionale. Si è affermata dunque la monocoltura, ossia la coltivazione intensiva di un’unica specie vegetale. Il bisogno di sussistenza dell’azienda agricola è passato quindi in secondo piano, perché lo scopo principale dell’azienda agricola è quello della vendita dei propri prodotti. L’agricoltura moderna, in quanto figlia della rivoluzione verde, è pertanto caratterizzata dai fattori elencati nella pagina seguente.

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Meccanizzazione: grazie all’impiego di macchinari in agricoltura la produzione è aumentata moltissimo. Oggi un agricoltore può lavorare da solo più di 200 ettari (pari a 2 Km quadrati), mentre quando l’agricoltura era totalmente manuale ogni contadino riusciva a lavorare solo 1 ettaro di terra!

Uso di fertilizzanti: grazie ai fertilizzanti anche la produttività è aumentata, passando dai 10 quintali di grano per ettaro dei campi a coltivazione manuale, agli oltre 50 quintali per ettaro dell’agricoltura meccanizzata che usa sostanze chimiche di sintesi per aumentare la velocità di crescita delle piante.

Selezione delle piante coltivate: l’uso di fertilizzanti chimici da solo non è sufficiente, è necessario infatti coltivare varietà di piante in grado di assorbire questa aumentata quantità di minerali per rendere il loro utilizzo profittevole: ecco perché sono state selezionate piante sempre più produttive e capaci di assorbire crescenti quantità di fertilizzanti.

Selezione degli animali domestici: meccanizzazione e fertilizzanti hanno reso disponibili grandi quantità di nutrimenti per gli animali: sono state quindi selezionate specie animali in grado di consumare quantità crescenti di mangime e di trasformarli efficientemente in carne, latte e prodotti derivati.

Protezione dei raccolti: le spese per i macchinari, per la benzina e per i fertilizzanti sono piuttosto elevate, tanto da rappresentare circa la metà del valore dei guadagni ottenuti con il raccolto; gli agricoltori fanno il possibile oggi per evitare che il raccolto vada perso, per non sprecare le risorse investite! Per impedire che proliferino insetti dannosi per le coltivazioni, funghi, batteri o virus, gli agricoltori fanno uso di pesticidi e diserbanti.

Specializzazione delle aree: oggi nel mondo determinate aree sono specializzate nella produzione di alcuni prodotti: cereali, bestiame, vite, frutta e verdura.

Questo è stato reso possibile da un lato dalle potenzialità offerte dai mezzi di trasporto moderni, che consentono alle imprese agricole di non preoccuparsi di produrre tutto ciò che serve alla comunità, visto che è possibile reperirla sul mercato! Dall’altro lato l’utilizzo di pesticidi ha permesso agli agricoltori di smettere di praticare la rotazione delle colture (un metodo che consente di migliorare le proprietà del suolo e di evitare la proliferazione di organismi nocivi per le piante).


Lavoro nei campi: uomini e macchinari la terra dei campi è la fonte principale sia di cibo che di reddito per quasi metà della popolazione mondiale. Il numero di persone che nel mondo lavorano in agricoltura è in continuo aumento. Tuttavia, la forza lavoro del settore agricolo è cresciuta molto meno negli ultimi anni rispetto a quella degli altri settori produttivi. Nei paesi industrializzati, però, la maggior parte del lavoro agricolo è svolto dalle macchine, per questo i lavoratori agricoli sono diminuiti drasticamente nel corso del XX secolo. L’agricoltura, infatti, è ormai meccanizzata, fa ricorso cioè a una serie di macchinari, come ad esempio i trattori, la mietitrebbiatrice, la seminatrice di precisione, che rendono più efficiente il lavoro nei campi. La meccanizzazione dell’agricoltura è iniziata all’inizio del XIX secolo, ma la vera svolta è avvenuta un secolo dopo, con l’invenzione del motore a combustione interna che ha reso possibile la rapida diffusione dei trattori agricoli. Oggi, in alcuni paesi del mondo, come gli USA, il Canada e alcuni paesi d’Europa, il numero di trattori è talmente alto che supera il numero complessivo dei lavoratori agricoli! Nei paesi in via di sviluppo, invece, dove la meccanizzazione dell’agricoltura è ancora lontana, il lavoro degli uomini, aiutati da una modesta attrezzatura e dagli animali, è la principale risorsa, anche in termini energetici, per produrre cibo. Non bisogna poi dimenticare tutte quelle persone che non lavorano la terra, ma “lavorano per la terra”: si tratta di coloro che producono fertilizzanti e pesticidi, macchinari agricoli e via dicendo.

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Diritti umani il settore agricolo alimenta a livello mondiale situazioni di scarsa tutela dei diritti umani, che vedono spesso vittime gli emigranti in fuga da una vita di stenti costretti a lavorare senza regolare contratto e senza alcuna tutela giuridica in termini di retribuzione, di infortuni sui luoghi di lavoro e di previdenza sociale. Il mancato rispetto dei diritti umani di questi lavoratori agricoli, spesso stagionali, è un tema di estrema attualità in Italia, soprattutto a seguito dell’inchiesta shock di Fabrizio Gatti e del rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere , in cui vengono documentate le pessime condizioni di vita a cui sono costretti diverse migliaia di stranieri impiegati nei campi e nelle serre in diverse località del Sud Italia. Foto_11 Anche la violazione dei diritti dei minori è un aspetto scottante della produzione agricola, poichè la maggior parte dei bambini vittime dello sfruttamento del lavoro minorile, in tutto il mondo, lavora nel settore agricolo. I bambini lavorano per molte ore sotto il sole cocente, sono esposti ai pesticidi tossici e spesso si feriscono con taglienti lame e altri pericolosi strumenti agricoli. Il lavoro estenuante nei campi viola il loro diritto alla salute, all’educazione e alla protezione dallo sfruttamento e da lavori pericolosi.

Quanto e dove si produce essendo l’agricoltura la prima attività dell’uomo, i paesaggi agrari sono diffusi in tutti i continenti e in tutte le popolazioni. L’agricoltura ha da sempre disegnato il paesaggio con i colori delle diverse coltivazioni e con le forme che esse assumono a seconda della morfologia dei luoghi. Pensate alle distese di terrazzamenti della Liguria, ad esempio, frutto del lavoro dell’uomo che li ha costruiti per rendere coltivabili terreni posti in posizioni improbabili; oppure alle risaie che si estendono a perdita d’occhio nella Pianura Padana e al grano duro che colora di “giallo oro” i campi estivi del Centro e Sud Italia. Così come per le industrie, anche la distribuzione delle attività agricole è disuguale tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo il mondo. L’agricoltura europea e dell’America del Nord, tipicamente intensive, hanno trasformato vaste zone in terreni soggetti ad una coltivazione continua; in questo modo, facendo uso anche di moderni macchinari, si producono enormi quantità di merce destinata all’esportazione e alla produzione industriale. Viceversa, nella maggior parte delle nazioni africane, asiatiche e dell’America Latina, l’agricoltura rappresenta ancora un’attività di sussistenza. La produzione agricola, ottenuta con tecniche primitive, serve solo a soddisfare i bisogni di poche persone. Oltretutto, in queste regioni è molto diffusa l’agricoltura itinerante, un’attività molto precaria e soprattutto dannosa per il paesaggio. Essa consiste nel disboscamento di superfici più o meno ampie, dopo che la vegetazione è stata incendiata. La terra viene quindi messa a coltura, ma, non essendo né curata, né concimata, viene resa sterile e abbandonata. In questi stati è, inoltre, molto diffusa la monocoltura. Estesi territori vengono coltivati con un determinato tipo di pianta, generalmente quella più richiesta per le esportazioni. Questo, chiaramente, impoverisce l’eterogeneità del paesaggio. Ma cosa viene coltivato e dove? Nel 2004, i 270 milioni di ettari di campi coltivati nel mondo, hanno prodotto 2.270.360.000 tonnellate di cereali e 1.383.649.000 tonnellate di frutta e verdura!


PRODUZIONE MONDIALE DI CEREALI (2004) Altri 180 paesi Stati Uniti d'America

18%

49%

3%

Ex Unione Sovietica

10%

India

3%

Francia

17%

Cina

PRODUZIONE MONDIALE DI FRUTTA E VERDURA (2004) Altri 180 paesi Stati Uniti d'America 37% 44%

Brasile Italia

2% 5% 3%

India 3%

Cina

Paesi come Cina, India, Stati Uniti d’America, Italia, Francia, Brasile ed ex-Unione Sovietica, da soli, contribuiscono alla produzione di oltre la metà di queste quantità di cereali, frutta e verdura; mentre tutti gli altri 180 paesi del mondo, insieme, ne producono poco meno della metà! Per avere un’idea della diffusione nel mondo dei terreni coltivati e della loro produttività può essere utile osservare la cartina nella pagina seguente. La domanda mondiale di cereali sta registrando negli ultimi decenni una costante crescita, sia per l’incremento demografico sia per l’aumento dei redditi che ha portato ad un aumento dei prodotti di origine animale: agli animali infatti è destinata una quota notevole di cereali, basti pensare che solo negli Stati Uniti per gli allevamenti è destinato il 70% della produzione di mais, a livello mondiale invece finisce negli allevamenti l’80% della produzione di soia.

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Estensione delle coltivazioni nel mondo, 2010. Fonte: The changing global landscape of crop production, 1700 to 2000 – Alston, Babcock, and Pardey [eds.] (2010) [basato su dati SAGE]


il commercio dei beni agricoli come abbiamo visto, molti paesi del mondo, producono beni agricoli destinati all’alimentazione umana, sebbene in quantità diverse. Questi stessi paesi cercano da un lato di garantire a tutti i propri abitanti la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, producendo e importando beni alimentari, dall’altro vogliono contribuire alla crescita economica del proprio paese tramite la vendita all’estero dei prodotti agricoli eccedenti. Di tutti i cereali, ortaggi e frutta prodotti, una parte viene utilizzata per il mercato interno, ossia per essere venduto nel paese di produzione. Per contro, una buona parte viene venduta nei mercati internazionali, contribuendo notevolmente alla crescita economica del paese. Talvolta, però, le quantità di cibo esportato superano quelle necessarie a nutrire la popolazione locale stessa, costringendo il paese ad importare cibo dall’estero. Il commercio di prodotti agricoli consente, quindi, ai paesi di avere a disposizione dei beni alimentari altrimenti non reperibili. Le banane ne sono un esempio: in Italia non le coltiviamo, eppure sono disponibili al supermercato tutti i giorni dell’anno grazie alle importazioni dall’estero! La storia dell’uomo è sempre stata una storia di commerci, governati da regole complesse, che si sono susseguite nel tempo. Oggi è imperante il commercio internazionale: gli Stati che vi aderiscono hanno scelto di portare avanti una politica economica liberale, che tende a favorire lo scambio commerciale tra paesi. Le politiche economiche protezionistiche, invece, tendono a bloccare questi scambi o a regolamentarli, privilegiando un settore piuttosto che un altro. Alcuni paesi perseguono simultaneamente politiche economiche liberali e protezionistiche: l’Europa, ad esempio, fa parte del World Trade Organization, l’organizzazione internazionale che regolamenta il commercio mondiale, ma allo stesso tempo porta avanti una politica protezionistica, la Politica Agricola Europea - PAC.

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Sulla piazza mondiale, le produzioni europee non sarebbero sufficientemente competitive per consentire agli agricoltori europei la sopravvivenza economica se non intervenisse la PAC, che prevede una serie di misure volte ad aiutare la produzione agricola dei paesi europei e mantenerla in vita. Questa politica agricola consiste nell’applicazione di elevati dazi doganali all’importazione di merci agricole straniere e nel supporto economico alla produzione agricola europea. La PAC prevede anche sovvenzioni per le esportazioni: in questo modo agevola gli agricoltori europei che altrimenti non sarebbero in grado di fronteggiare la concorrenza straniera. I benefici sono notevoli, ma vi sono anche notevoli punti critici: i consumatori europei, ad esempio, pagano per gli stessi prodotti un prezzo più di quanto pagherebbero se venissero importati dall’estero! Secondo alcuni, infatti, la PAC si sarebbe trasformata in una politica rigida, orientata alla sovrapproduzione, poiché gli agricoltori, stimolati dagli incentivi, si interessano poco alle effettive richieste del mercato. Così vengono prodotte montagne di cereali, di burro, di frutta portati poi alla distruzione e si realizzano distorsioni del mercato che danneggiano soprattutto i paesi in via di sviluppo e non vengono considerati a dovere gli impatti ambientali generati dallo sviluppo agricolo.. Inoltre le problematiche ambientali sono state integrate nella normativa che disciplina la PAC ed è stato incentivato lo sviluppo di pratiche agricole che consentano di conservare l’ambiente e salvaguardare il paesaggio.


Gli impatti ambientali il clima del pianeta sta cambiando: come ne e’ influenzata l’agricoltura? Il clima della Terra sta cambiando e di ciò vi è oggi evidenza scientifica.Le temperature dell’aria alla superficie del suolo e degli oceani, su quasi tutto il globo terrestre, sono oggi più elevate di quanto non fossero 100 anni fa, e i tre passati decenni sono più caldi di ogni decennio dal 1850 a oggi. Tra il 1880 e il 2012, le temperature medie globali sono aumentate di 0,85°C. Alcuni gas sono stati da tempo individuati come responsabili del surriscaldamento globale e del cosiddetto “effetto serra”, in particolare l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e il protossido d’azoto (N2O), presenti naturalmente in atmosfera, ma prodotti in concentrazioni molto elevate da attività dell’uomo, come l’uso di combustibili fossili per trasporti e per attività industriali, il cambio di uso del suolo e la deforestazione. Le condizioni climatiche generali sono diventate maggiormente variabili.Negli ultimi 50 anni si sono verificati cambiamenti in molti eventi estremi meteorologici e climatici. In alcune aree si stanno verificando più ondate di calore e/o più episodi di piogge intense che in passato. Analisi statistiche mostrano che il rischio che si verifichino eventi catastrofici in futuro è sempre più alto e con esso i possibili danni economici correlati. L’Europa meridionale e il bacino del Mar Mediterraneo, in particolare, sono tra le zone a maggiore rischio di siccità, mentre le aree montuose come le Alpi rischiano di subire profonde alterazioni dell’assetto dei propri ghiacciai e dei corsi d’acqua, a causa dell’aumento della temperatura. Nei prossimi decenni le coltivazioni subiranno probabilmente degli sfasamenti temporali, i raccolti dovranno essere anticipati e sarà necessario applicare una rotazione delle colture introducendo varietà che richiedono meno acqua rispetto al mais e alle poche coltivazioni oggi selezionate.

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Alla luce dei vasti effetti che i cambiamenti climatici stanno esercitando sull’intero pianeta nel medio e lungo periodo, il contesto delle politiche con cui i paesi regolano e orientano le proprie azioni nel settore dell’agricoltura è destinato a prendere in considerazione una duplice sfida: da un lato la necessità di ridurre le emissioni atmosferiche dei “gas serra” (GHG), dall’altro l’esigenza di adattare le attività antropiche alle nuove condizioni climatiche allo scopo di ridurne gli effetti negativi sull’uomo. In particolare l’agricoltura ha grandi possibilità di contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici, visti i notevoli impatti che esercita sull’ambiente: essa può, infatti, ridurre le elevate emissioni di metano e protossido d’azoto (provenienti da concimi utilizzati per fertilizzare e dalle attività zootecniche collegate), aumentare la capacità dei suoli agricoli di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, fornire materie prime utili a generare fonti energetiche rinnovabili.

E l’agricoltura come agisce sui cambiamenti climatici? L’agricoltura , in stretta correlazione con il settore dell’allevamento, contribuisce alle emissioni di gas serra in atmosfera , in particolare l’utilizzo di fertilizzanti provoca l’emissione di protossido d’azoto (N2O) , mentre i processi digestivi dei ruminanti e l’utilizzo di concime contribuisco all’amissione didi metano (CH4).Il ruolo dell’agricoltura nelle emissioni atmosferiche dipende, infatti, dal tipo di aziende agricole presenti sul territorio e dalle forme di allevamento intensivo o estensivo a cui esse si dedicano. Vi è inoltre da considerare che le emissioni di gas serra provenienti da quelle attività agricole che richiedono l’uso di energia (ad esempio, il carburante per i macchinari, l’energia elettrica per illuminare e per svolgere le attività all’interno degli stabilimenti, etc.) non vengono calcolate, secondo la politica comunitaria europea, all’interno delle emissioni prodotte dal settore agricolo, ma sono attribuite al settore energetico. Lo stesso discorso può essere fatto per quantificare il carbonio che il suolo può naturalmente assorbire (fenomeno detto “carbon sequestration”), aiutando così a ridurre l’anidride carbonica in eccesso in atmosfera: questo tipo di contributo non viene attribuito al


settore agricolo, ma conteggiato in relazione all’uso del suolo e ai cambiamenti di uso del suolo. Per questi motivi, misurare gli effetti dell’agricoltura sui cambiamenti climatici è più complesso che per altri settori come quello industriale, poiché i calcoli sulle emissioni di gas serra prodotte dai sistemi agricoli devono considerare anche i complessi processi biologici ed ecologici coinvolti.

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Coltivare adattandosi a nuovi climi affinché l’agricoltura possa continuare ad essere un settore produttivo occorre applicare soluzioni che adattino i vecchi sistemi agricoli alle nuove condizioni climatiche. L’obiettivo è ridurre la vulnerabilità delle coltivazioni e aumentare la resilienza delle aree rurali sia dal punto di vista ambientale, sia economico, ossia aumentare la capacità delle attività agricole di recuperare la produttività dopo eventi catastrofici, come siccità, uragani, alluvioni. Le aziende agricole, per adattarsi alle diverse disponibilità di risorse, possono modificare la rotazione delle colture per fare un uso migliore dell’acqua, regolare i periodi di semina in funzione di temperature e precipitazioni, utilizzare varietà di coltivazioni maggiormente resilienti a ondate di caldo e di siccità e ripristinare siepi, filari di piante e aree cespugliose tra un’area coltivata e l’altra per ridurre la perdita di acqua dal terreno e dalle coltivazioni (aumentando le zone di ombra e riducendo l’evapotraspirazione delle piante). Il settore agricolo può orientare le attività fornendo informazioni sui rischi relativi ai cambiamenti climatici in corso e sulle possibili misure adattative che le aziende possono attuare. Molti Paesi nel mondo stanno già implementando azioni volte ad adattare le attività produttive agricole alle nuove condizioni climatiche e, parallelamente, conducono studi e ricerche per valutare gli impatti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura. In particolare le misure adattative riguardano la capacità di prevenire eventi estremi correlati al clima come inondazioni, uragani o siccità e di limitare gli effetti derivanti dall’innalzamento delle temperature e dall’intensificazione delle variazioni climatiche. In alcuni casi l’adattamento richiede forme di investimento in macchinari ed infrastrutture per migliorare, ad esempio, il sistema di irrigazione.


Quanta acqua per coltivare? L’uso agricolo dell’acqua per irrigare i campi rappresenta la principale forma di consumo delle risorse idriche mondiali e coinvolge i due terzi della disponibilità mondiale di acqua dolce. L’acqua non è uniformemente distribuita sul nostro pianeta, quindi, molto spesso, è necessario l’intervento dell’uomo che modifica i corsi naturali dei fiumi e costruisce canali artificiali per portare l’acqua dove serve. I fabbisogni idrici in agricoltura dipendono da numerosi fattori tra i quali vi sono il clima, la natura dei suoli, le pratiche colturali, i metodi di irrigazione, i tipi di coltura, ed altri ancora. Ad esempio, l’agricoltura intensiva che si pratica oggi nel mondo e che sfrutta al massimo la produttività dei terreni richiede molta più acqua rispetto all’agricoltura tradizionale, così come la quantità d’acqua richiesta per irrigare i campi in zone aride e semiaride è notevolmente superiore a quella utilizzata nelle zone temperate. In generale, è importante utilizzare sistemi di coltivazione e di lavorazione che non impoveriscano il suolo di sostanza organica (che migliora la cattura dei sali e aumenta la permeabilità del suolo) ed è utile preferire colture che utilizzano al meglio l’acqua disponibile nel suolo, magari con radici capaci di estrarre l’acqua presente in eccesso negli strati più profondi. Le colture perenni e le foraggere, specialmente l’erba medica, sono utili per questo, anche perché hanno una lunga stagione di crescita e asportano, rispetto alle colture annuali, più acqua da maggiori profondità del suolo. Le foraggere possono anche aumentare il contenuto di sostanza organica e migliorare la struttura del suolo. Anche l’acqua sotterranea delle falde freatiche può andare incontro a salinizzazione, ad esempio a causa degli eccessivi prelievi che l’uomo effettua per soddisfare la crescente richiesta di acqua potabile per usi domestici.

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Il mondo ha sete perché ha fame: acqua e filiere alimentari Proprio perché l’agricoltura richiede la stragrande maggioranza delle risorse idriche, le nostre abitudini alimentari influenzano moltissimo l’impronta idrica personale. Secondo la FAO, il consumo di calorie medio nei paesi industrializzati è di 3.400 kcal, di cui il 30% è di origine animale. I prodotti di origine animale richiedono circa 2,5 litri di acqua per 1 kcal di prodotto, mentre i prodotti di origine vegetale solo 0,5 litri. Ne consegue, che per i nostri pasti abbiamo bisogno di 3.600 litri di acqua al giorno, una quantità molto alta. Come mai l’impronta idrica della carne è ben cinque volte più alta di quella dei cereali? A differenza di quanto si potrebbe pensare, la maggior parte dei cereali coltivati nel mondo non è destinata al consumo umano, bensì a quello animale. Il quantitativo maggiore di acqua è richiesto proprio per la coltivazione degli alimenti necessari a sfamare il bestiame, stimabile addirittura al 98%. Conoscere questo quantitativo dipende da due fattori: la richiesta specifica di acqua per la coltura e l’effettiva disponibilità di acqua nel terreno in cui vengono coltivati i cereali destinati al consumo animale. A seconda che il clima sia mite o rigido, umido o secco, e a seconda del tipo di coltura, la richiesta di acqua sarà differente: se le precipitazioni danno un apporto sufficiente, basterà l’acqua piovana, altrimenti è necessario integrare con l’irrigazione artificiale. Inoltre, ci sarà anche un ammontare di acqua grigia dovuta al carico di inquinanti e pesticidi che raggiungono la falda idrica (percolamento) o le acque superficiali (dilavamento). Tornando all’allevamento, quindi, l’impronta idrica di un animale sarà data dalla somma dell’impronta idrica del mangime di cui si è nutrito, dell’acqua usata per l’abbeveramento e per le pulizie dei locali, considerando sia la sua età al momento dell’abbattimento, sia la sua dieta. Sarà quindi molto diverso se l’animale è stato allevato al pascolo o con un sistema misto o industriale e se l’area possiede risorse idriche abbondanti o scarse. È stato dimostrato che qualsiasi prodotto di origine animale ha un’impronta idrica maggiore di prodotti di origine vegetale con lo stesso valore nutrizionale e gestito in modo corretto. Ad esempio, 1 litro di latte di soia richiede 300 litri d’acqua, mentre 1 litro di latte vaccino più di


900 litri. Un kilogrammo di manzo richiede in media 15.415 litri di acqua, contro 4.055 richiesti dai legumi, ma a parità di contenuto calorico il valore dell’impronta idrica bovina è dieci volte più alto. Considerando che il consumo di carne è raddoppiato dal 1980 ad oggi ed è previsto un ulteriore raddoppiamento nei prossimi 40 anni, è facile comprendere quanto sia importante e strategico a livello globale ridurre i consumi nel settore dell’allevamento. Infine, è importante valutare anche come arriva il cibo che mangiamo sulle nostre tavole. Alimenti a filiera corta e poco elaborati hanno un’impronta idrica nettamente inferiore rispetto agli altri. I prodotti molto elaborati potrebbero contenere più aromi artificiali, mentre quelli che vengono da lontano solitamente hanno un contenuto maggiore di conservanti e additivi. Lo stesso vale per quelli confezionati rispetto a quelli sfusi, e così via…riassumendo, più è manipolato, più il cibo avrà un’impronta significativa, sia essa idrica, di carbonio, o ecologica.

Sovrasfruttamento e sprechi di acqua Il divario tra il rifornimento idrico e la domanda di acqua sta aumentando in molte parti del mondo: in quelle aree che già oggi soffrono di carenza di acqua, la crescente siccità sarà il maggior vincolo alla crescita e allo sviluppo agricolo. Le alterazioni del clima determineranno soprattutto un decremento della disponibilità idrica annua in molte parti del mondo. In Europa, soprattutto nelle aree meridionali e centrali dell’Europa, diminuirà sempre più la disponibilità di acqua, a causa di una continua diminuzione delle precipitazioni estive e a fronte di elevate richieste idriche per le coltivazioni. Pensate che la quantità di acqua sufficiente ad irrigare un ettaro di risiera è la stessa che serve ai bisogni di 100 nomadi con 450 capi di bestiame in tre anni, o a 100 famiglie urbane nell’arco di due anni.

L’impronta idrica media di alcuni degli elementi più comuni sulle nostre tavole. Crediti: FAO 2012, elaborazione FAO WATER

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Inoltre, nei Paesi del Sud del mondo, l’acqua utilizzata per l’irrigazione rappresenta ben il 91% del consumo idrico , ma la produzione agricola è pari ad un terzo di quella dei paesi industrializzati, poiché metà dell’acqua destinata all’irrigazione evapora per le elevate temperature, oppure si perde per strada a causa di perdite lungo le reti idriche che distribuiscono l’acqua. Per risolvere il problema degli sprechi occorre introdurre tecnologie più moderne come l’irrigazione a goccia e rinnovare le reti, ma spesso gravi problemi finanziari e politici limitano queste scelte. L’uomo preleva per irrigare molta più acqua di quanta il pianeta possa rifornire: i prelievi per usi irrigui superano, infatti, in molte zone la capacità di apporto dei corsi d’acqua, delle piogge e quella di ricostituzione delle riserve naturali. Per questi squilibri, ogni volta che le piogge tardano a venire, rispetto ai cicli naturali, scoppiano ad esempio carestie, oppure, senza che si verifichino eventi catastrofici, lentamente si consumano le riserve idriche fino ad esaurirle. Negli Stati Uniti il fiume Colorado, già dal 1960, non arriva più al mare, se non in anni di precipitazioni eccezionali, poiché si prelevano ingenti quantità di acqua lungo il suo corso prima che giunga nell’Oceano Pacifico. Nella regione africana del Sahel, sia a causa di una prolungata siccità, sia del diminuito afflusso dei fiumi, le cui acque sono state deviate per usi irrigui, il lago Chad si è ridotto del 75% negli ultimi 30 anni. Ma la vicenda più esemplare è la morte del lago Aral (che era il 4° lago più grande del mondo), nel cuore dei deserti dell’Asia Centrale. Alcune repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica hanno deviato il corso dei due fiumi che rifornivano il lago, per coltivare riso e cotone, due coltivazioni estremamente bisognose d’acqua soprattutto se coltivate in terreni aridissimi. Questa scelta ha ridotto la superficie del Lago Aral del 70%; ciò ha provocato un ulteriore aumento della concentrazione di sali nelle sue acque – già salate in passato ma ricche di pesce – aggravata dalla presenza di inquinanti e pesticidi che, convogliati per anni nel lago


dai fiumi o drenati dai campi di cotone, sono oggi concentrati ai livelli massimi. L’inquinamento sta generando, oltre alla distruzione dell’ecosistema lacustre, anche problemi sanitari gravissimi alle popolazioni locali: anemia, mortalità infantile, artriti reumatoidi, reazioni allergiche.

Acque dolci troppo “salate”: la salinizzazione I processi di irrigazione, soprattutto nelle zone aride, possono causare la salinizzazione del suolo, cioè provocano un progressivo aumento di sali che nel tempo impediscono l’uso e distruggono le potenzialità produttive dei terreni. Questo avviene in presenza di uno scarso drenaggio del terreno e di forte evaporazione delle aree irrigate: ossia, l’acqua che il terreno non è in grado di assorbire subito evapora e lascia nel suolo il suo contenuto minerale. E’ per questo fenomeno che le coltivazioni delle zone aride o semi aride del pianeta hanno subito negli ultimi decenni un calo di produttività: su 270 milioni di ettari di superficie irrigata totale, si stima che 20-30 milioni siano colpiti da salinizzazione. Le coltivazioni che crescono in suoli salinizzati subiscono squilibri nutrizionali e per questo richiedono l’impiego di maggiore energia e di sostanze per crescere alla stessa velocità delle piante coltivate in condizioni normali. Soltanto alcune specie coltivate presentano un’elevata tolleranza alla salinità, tra queste, la barbabietola, l’orzo, l’asparago, lo spinacio. Per le principali coltivazioni è necessario circoscrivere questo fenomeno, ossia diminuire l’eccesso di acqua che si infiltra nel suolo e, quindi, irrigare secondo l’effettiva esigenza della coltura, non in eccedenza, poiché, soprattutto nelle aree dove manca un drenaggio naturale, si può determinare un innalzamento del livello della falda acquifera che fa risalire l’acqua sotterranea in superficie.

Desertificazione e inondazioni Secondo le stime del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme – UNEP), un quarto delle terre del pianeta è minacciato dalla desertificazione. Le esistenze di più di un miliardo di persone in oltre 100 nazioni sono a

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loro volta messe a rischio, dal momento che la coltivazione e il pascolo divengono meno produttivi. Per desertizzazione si intende la semplice avanzata di un deserto in una data area, verso zone non desertiche. Per desertificazione, invece, si intende un processo di degrado di suoli che porta alla scomparsa della biosfera (animali e piante) generalmente di origine antropica. Il deserto, una volta formato tramite desertificazione, si può espandere (desertizzazione). In base alla definizione della Conferenza delle Nazioni Unite su “Ambiente e Sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, la desertificazione è un processo di “degrado dei terreni coltivabili in aree aride, semi-aride e asciutte sub-umide in conseguenza di numerosi fattori, comprese variazioni climatiche e attività umane”. In tutte queste aree, si assiste alla progressiva riduzione dello strato superficiale del suolo e della sua capacità produttiva. Il fenomeno è grave poiché determina a sua volta altre crisi ambientali, quali la perdita della biodiversità ed il riscaldamento della temperatura su scala planetaria. Aree di terreno degradato possono trovarsi a centinaia di chilometri dal deserto più vicino; ma possono espandersi ed unirsi l’una con l’altra, creando delle condizioni simili a quelle desertiche. A determinare questo fenomeno, oltre la siccità, sono le attività umane: le coltivazioni intensive esauriscono il suolo; l’allevamento del bestiame elimina la vegetazione, utile a difendere il suolo da fenomeni erosivi, gli alberi che trattengono lo strato superficiale del terreno vengono tagliati per essere utilizzati come legname da costruzione o come legna da ardere per riscaldare e cucinare; l’attività irrigua effettuata con canali e tubazioni scadenti rende salmastre le terre coltivate, desertificando 500.000 ettari all’anno. Una inondazione è un fenomeno riguardante l’allagamento in tempi brevi (da ore a giorni) di un’area ben definita e abitualmente subaerea, da parte di una massa d’acqua. Si può trattare di un fenomeno naturale come lo straripamento dei corsi d’acqua, dal loro letto o bacino usuale, in maniera violenta e devastante, o allagamenti per azione combinata di alta marea e tifoni in aree costiere, l’arrivo di uno tsunami su di una costa, o anche per improvvisi scioglimenti di nevai o ghiacciai per cause naturali (tipici quelli ad opera di eruzioni vulcaniche sub-glaciali in Islanda). Quando l’inondazione è causata dalla tracimazione di


corsi d’acqua ingrossati per piogge elevate si parla anche di alluvione, a cui possono essere connessi anche fenomeni di erosione e variazione della morfologia delle aree interessate dal fenomeno. Il sovrasfruttamento delle risorse idriche comporterà, quindi, possibili conflitti per l’uso dell’acqua in agricoltura rispetto ad altre destinazioni, a cui è indispensabile che il settore agricolo risponda, sviluppando piani di gestione della risorsa idrica. Così facendo potrà ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza d’irrigazione, attraverso l’uso di colture adatte alla specifica situazione meteoclimatica, sociale ed economica, attraverso il riuso per l’irrigazione delle acque reflue depurate, l’uso di sistemi di irrigazione di dimensioni ridotte e di sistemi di drenaggio artificiale che permettano di evitare il fenomeno della salinizzazione.

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Pesticidi e fertilizzanti: l’inquinamento di suolo e acque I pesticidi sono sostanze utilizzate in agricoltura per garantire raccolti abbondanti e di buona qualità a discapito sia di erbe spontanee, che sottraggono spazio e risorse alla crescita delle piante coltivate, sia di insetti e funghi che si nutrono delle parti più nutrienti delle coltivazioni stesse. I pesticidi, in base all’organismo vivente che attaccano, si dividono in insetticidi, fungicidi ed erbicidi (anche detti fitofarmaci o prodotti fitosanitari): sono sostanze chimiche sintetizzate in laboratorio distribuite sui campi coltivati spesso attraverso dei nebulizzatori insieme all’acqua e, per questo, si depositano non solo sulle piante e sui frutti che poi mangiamo, ma anche sul terreno e nell’acqua piovana che si ricongiunge poi ai fiumi, ai laghi fino al mare. Alcuni pesticidi possono anche infiltrarsi nel suolo profondo e arrivare a contaminare le acque sotterranee di falda, riducendo la loro qualità per l’uso potabile. La salute umana viene, quindi, messa a rischio dai pesticidi non solo perché questi contaminano gli alimenti vegetali e animali che consumiamo, ma anche perché possono trovarsi nell’acqua che beviamo. I pesticidi, oltre a essere tossici per i parassiti contro cui vengono utilizzati, hanno effetti nocivi e letali per la stragrande maggioranza degli organismi viventi e dei sistemi biologici. Un pesticida è, quindi, molto dannoso per la biodiversità, poiché è tossico per tutti gli organismi e riduce la varietà delle specie animali e vegetali che naturalmente vivrebbero nelle zone limitrofe alle coltivazioni. Inoltre, i pesticidi uccidono anche quegli animali e quelle piante che potrebbero aiutare l’agricoltore, come ad esempio gli insetti impollinatori. Molte di queste sostanze sintetizzate artificialmente dall’uomo vengono definite dagli scienziati “xenobiotici”, proprio perché, essendo totalmente sconosciute ai processi naturali degli ecosistemi (xeno = diverso; biotico = vivente), non possono essere rimosse dall’ambiente attraverso la normale degradazione chimica effettuata dai microrganismi. Gli animali che assumono accidentalmente pesticidi, non potendo degradare queste


sostanze, si difendono “accumulando” le molecole tossiche nel proprio organismo per non farle più circolare. Questo fenomeno è noto come bioaccumulo e ha degli effetti negativi esponenziali via via che si risale la catena alimentare fino all’uomo, colpendo anche i pesci dei mari e dei laghi. Per questa ragione, un pesticida, che a causa del dilavamento del terreno o attraverso uno scarico agricolo finisce in un corpo idrico (come un fiume o un lago), può entrare nella catena alimentare acquatica fino ad arrivare all’organismo umano, per esempio attraverso il consumo di pesce. Date le loro caratteristiche xenobiotiche e il loro potere di bioaccumulo, i pesticidi sono anche molto persistenti nell’ambiente. Il DDT, un noto pesticida largamente impiegato in agricoltura durante il dopoguerra, a partire dagli anni ’70 è stato vietato in tutti i paesi avanzati per la sua elevata tossicità nei confronti dell’uomo e di tutti gli altri animali. Nonostante ciò, a distanza di 40 anni, la sua presenza viene ancora rilevata nei gusci delle uova e nei tessuti di molte specie animali, soprattutto quelle che vivono a stretto contatto con l’acqua. Negli anni una serie di Direttive comunitarie sono state emanate al fine di ridurre i rischi derivanti dall’uso dei fitofarmaci, definendo una serie di limiti alle loro concentrazioni nella frutta e nei vegetali, nei cereali e nei prodotti di origine animale. Fertilizzanti I fertilizzanti sono, invece, sostanze contenenti azoto (N) e fosforo (P) utilizzate in agricoltura per incrementare la crescita delle piante. Esistono fertilizzanti naturali, come il concime derivante dagli animali allevati, e fertilizzanti sintetici, prodotti in laboratorio. Negli ultimi 40 anni l’uso dei fertilizzanti sintetici è cresciuto di quasi otto volte, nel tentativo di velocizzare la crescita delle coltivazioni e quindi di aumentare la produzione agricola annua. Tuttavia, la somministrazione di così elevate quantità di fertilizzanti non garantisce una crescita proporzionale: infatti, circa la metà dei fertilizzanti che oggi vengono applicati

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alle colture resta sui terreni e poi finisce nelle acque sotterranee e superficiali, poiché le piante coltivate non possono assorbire nei propri tessuti più di una certa quantità. Se una larga percentuale dei fertilizzanti si disperde nell’ambiente si producono due tipi di danno: ambientale e per la salute umana. Una volta disciolti nelle acque superficiali, questi composti persistono, a volte cambiando la propria struttura molecolare, ma continuando a costituire dei nutrienti per le piante e le alghe, siano essi in un fiume, in un lago o in mare. I corpi idrici sono abitati da molti tipi di alghe e di piante acquatiche che, avendo a disposizione grandi quantitativi di nutrienti, crescono molto velocemente, causando le cosiddette “esplosioni algali”. I pesci e altri organismi si nutrono delle alghe senza però riuscire a consumarle interamente. Le alghe in eccesso muoiono e vengono decomposte dai microrganismi utilizzando grandi quantità di ossigeno disciolto in acqua, lo stesso ossigeno che serve a tutti gli organismi acquatici per respirare. L’acqua povera di ossigeno porta alla morte molti animali, piante e microrganismi: questo fenomeno è detto “eutrofizzazione” e nella maggior parte dei casi è causato proprio dalla presenza di fertilizzanti in eccesso, anche se talvolta può dipendere da altri fattori. Oltre che nei fiumi, nei laghi e nei mari, i fertilizzanti possono raggiungere le falde acquifere dove scorrono le acque sotterranee che utilizziamo per il consumo potabile. La presenza di nitrati (composti dell’azoto) nelle falde acquifere è misurata e controllata da normative europee e nazionali, ma in molti casi supera i limiti imposti dalla legge. In Italia l’area più colpita è la Pianura Padana, ma anche gli abitanti di altre zone dell’Italia centrale, come la media e bassa valle del Metauro, a causa dell’alta concentrazione di nitrati (sopra i 50 mg/lt) non possono bere l’acqua di falda, se non miscelata con altra acqua a più basso contenuto di nitrati (spesso acqua superficiale depurata). Non esiste a tutt’oggi un metodo economicamente ragionevole per rimuovere i nitrati dall’acqua. Solo dopo anni di pratiche agricole sostenibili si può sperare di assistere ad un abbassamento dei valori dei nitrati.


“Agrobiodiversita” gli scienziati hanno finora identificato circa 1,4 milioni di specie animali e vegetali sulla terra e quasi ogni giorno una nuova specie si aggiunge alla lista. Questa varietà di vita è essenziale per gli esseri umani. Dipendiamo da essa per il cibo, per le sostanze curative, per l’acqua, per l’energia e per molto altro. La biodiversità è, tuttavia, sempre più minacciata dalla pressione esercitata dall’uomo, la cui popolazione mondiale è in continua espansione, e dal degrado degli ecosistemi naturali determinato dalle attività antropiche. Le specie selvatiche rischiano l’estinzione se gli habitat in cui vivono vengono insidiati da inquinamento, urbanizzazione, deforestazione. Questo processo distruttivo può essere accelerato da una cattiva gestione dell’agricoltura, delle foreste e delle risorse ittiche. La biodiversità agricola è rappresentata da una quantità innumerevole di piante che servono a nutrire e curare gli esseri umani. La si trova nelle varietà di colture con caratteristiche nutrizionali specifiche, nelle razze di bestiame che si sono adattate ad ambienti ostili, negli insetti che impollinano i campi, nei microrganismi che rigenerano il suolo agricolo. Ma anche in agricoltura la biodiversità è in pericolo. Gli esseri umani per il cibo dipendono infatti da un numero sempre più ridotto di prodotti agricoli e questo riduce la possibilità che alcune delle piante coltivate e degli animali allevati sappia adattarsi a cambiamenti ambientali drastici. Circa 10 mila anni fa, gli esseri umani, a partire dalla biodiversità che esisteva in natura, hanno iniziato a raccogliere semi e piante selvatiche e a coltivarle, scegliendo le varietà più produttive o quelle più resistenti ad avverse condizioni climatiche. Più o meno nella stessa epoca, hanno cominciato ad addomesticare anche gli animali, sfruttando la loro forza, mangiandone la carne e bevendone il latte.

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Anche oggi la diversità genetica rimane essenziale affinché la produzione agricola mondiale possa continuare ad essere sostenibile. Contadini e agronomi ne hanno, infatti, bisogno per adattare le piante alle mutevoli condizioni di vita o per espandere la produzione in nuove aree non coltivate in precedenza. La diversità genetica delle piante (detta diversità fitogenetica) è fondamentale per migliorare i rendimenti e avere colture che producano più cibo e con più alto valore nutrizionale. Oggi, quattro specie – grano, mais, riso e patate – forniscono da sole più della metà delle calorie vegetali della dieta umana, mentre circa una dozzina di specie animali fornisce il 90% del consumo mondiale di proteine animali. Oltre alla varietà di specie usate a scopo alimentare, è fondamentale che sia mantenuta la diversità genetica all’interno delle diverse specie: molti agricoltori hanno adottato qualità uniformi di piante e animali ad alto rendimento, ma quando si abbandona la diversità, le varietà e le razze possono estinguersi, così come i loro tratti specifici. La spinta per un aumento della produzione agricola e dei profitti ha, infatti, orientato la scelta su un numero limitato di varietà di piante e di razze animali ad alto rendimento. Questo è un altro retaggio della “rivoluzione verde”: molti agricoltori, invece di coltivare un’ampia varietà di piante come nel passato, si sono concentrati su un’unica coltura da reddito, chiamata monocoltura, che ha ridotto sensibilmente la biodiversità agricola nel mondo. Le piante da monocoltura sono spesso varietà ibride di una specie tradizionale. Una migliore varietà produce di più, così il contadino non si preoccupa di piantare la varietà più vecchia, che lentamente sparisce. Con l’agricoltura tradizionale, i contadini tendevano a coltivare una vasta varietà di piante e spesso allevavano anche il bestiame. Con l’avvento della monocoltura, le pratiche agricole tradizionali sono state in gran parte abbandonate. Un elevato numero di varietà di piante e razze di animali sono silenziosamente scomparse. Questa sparizione è conosciuta come “estinzione”, ed è irreversibile. L’agricoltura sta, quindi, perdendo la capacità di adattarsi ai cambiamenti ambientali, come il riscaldamento globale o nuovi insetti nocivi e malattie.


Se le attuali disponibilità alimentari non riescono ad adattarsi ai mutamenti dell’ambiente, ci potremmo trovare veramente in grave difficoltà. È estremamente importante proteggere queste risorse e assicurarsi che siano usate in modo sostenibile. Gli agricoltori, come custodi della biodiversità del pianeta, hanno la possibilità di coltivare e mantenere gli alberi e le piante locali e di riprodurre gli animali autoctoni, assicurandone così la sopravvivenza. Ma la perdita di biodiversità non riguarda solo l’agricoltura. Le foreste sono forse il più importante deposito di diversità biologica, ma ogni anno perdiamo migliaia di ettari di copertura forestale. Gli oceani, i laghi e i fiumi del pianeta brulicano di vita, ma lo sfruttamento eccessivo e metodi di pesca dannosi per l’ambiente minacciano la biodiversità acquatica. Gli esperti sono seriamente preoccupati per questa rapida diminuzione delle riserve genetiche. Disporre di una vasta gamma di caratteristiche uniche permette di selezionare piante e animali in grado di rispondere a mutamenti di condizione. Ciò fornisce, inoltre, agli scienziati la materia prima di cui hanno bisogno per sviluppare varietà di colture e di razze più produttive e resistenti. Per i contadini poveri, la biodiversità può essere davvero la migliore difesa contro la fame: infatti, nelle regioni del mondo dove i livelli di sottonutrizione sono i più alti, i contadini hanno bisogno di colture che crescano bene in condizioni climatiche difficili avverse, piuttosto che di varietà con un buon rendimento in condizioni favorevoli, o di animali di taglia più piccola ma più resistenti alle malattie. Anche i consumatori, sia dei paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo, traggono beneficio dal disporre di un’ampia varietà di piante ed animali, perché ciò contribuisce in modo decisivo ad una dieta nutriente: spesso le comunità rurali hanno un accesso limitato ai mercati e diventa indispensabile la disponibilità della più ampia gamma di alimenti locali. Preservare le piante, gli animali ed il loro ambiente vuol dire, infine, salvaguardare una serie di funzioni essenziali che la natura fornisce.

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L’impegno internazionale affinché siano conservati piante ed animali nelle banche genetiche e nei giardini botanici e zoologici è di vitale importanza. Per difendere questo prezioso patrimonio è stato adottato il Trattato Internazionale sulle Risorse Fitogenetiche per l’Alimentazione e l’Agricoltura, entrato in vigore il 29 giugno 2004. Il suolo, grazie al lavoro silenzioso e continuo di insetti, batteri, funghi, vermi, diventa fertile e gli agricoltori possono coltivare gli alimenti. Il bestiame, i funghi ed i microrganismi scompongono il materiale organico, trasferendo gli elementi nutritivi al terreno. Formiche e altri insetti tengono sotto controllo i parassiti. Api, farfalle, uccelli e pipistrelli impollinano gli alberi da frutta. Le paludi e gli stagni filtrano gli agenti inquinanti. Le foreste ostacolano le inondazioni e limitano l’erosione. Ecosistemi integri negli oceani aiutano a mantenere stabili e in buona salute le risorse ittiche, garantendo, quindi, anche alle generazioni future la possibilità di continuare a pescare.

Le serre e... L’effetto serra le coltivazioni effettuate in serra si dicono anche “colture protette”, poiché la produzione di frutta e ortaggi, si esegue appunto in un ambiente protetto, influendo sul controllo dei fattori ambientali che condizionano la crescita della pianta. Nel sistema agro-industriale italiano, le serre rivestono una notevole importanza economica sia per la loro estensione, oltre 40 mila ettari, sia per la produzione di prodotti ortofrutticoli freschi a largo consumo e di prodotti floricoli. In questi ultimi anni, in misura sempre crescente, la coltivazione in serra è stata oggetto di un complesso processo evolutivo condotto attraverso l’ammodernamento tecnologico della fase produttiva degli alimenti. La coltivazione in serra, sebbene trovi nelle aree mediterranee condizioni climatiche più favorevoli, deve risolvere problemi di ordine tecnico, ambientale ed energetico, poichè, per definizione, deve contrastare i fattori ambientali naturali, come la temperatura, l’acqua e il nutrimento tipici di un clima.


Le ”protezioni” impiegate per creare una serra vanno dal semplice tunnel in plastica, posto sulla singola fila di colture, alle barriere antivento, ai tunnel in film plastico, fino alle serre in ferro o in alluminio, con coperture in vetro o in plastica, materiale, quest’ultimo, che ha portato a un crescente sviluppo delle serre negli ultimi decenni. Le colture protette interessano prevalentemente le colture orticole, in cui prevalgono ortaggi come i pomodori, i peperoni e le melanzane (appartenenti alla famiglia delle solanacee) e come le zucchine, il cocomero, il melone e il cetriolo(della famiglia delle cucurbitacee), oltre alle varietà floricole e, in misura minore, alle coltivazioni arboree da frutto. La serra è un sistema agricolo molto complesso, in cui l’impiego delle diverse tecnologie innovative disponibili cerca di risolvere il contrasto esistente tra l’esigenza di far crescere le colture, da un lato, e la necessità di limitare gli impatti di tipo energetico, ambientale ed economico, dall’altro. Tra le funzioni di controllo dei fattori ambientali più importanti, vi sono il riscaldamento del terreno, il riscaldamento o raffreddamento dell’aria, l’aerazione, l’ombreggiamento con schermature, l’illuminazione e, ovviamente, l’irrigazione con aggiunta di fertilizzanti. Le potenzialità della coltivazione in serra sono notevoli: in media una serra consente di aumentare di molte volte il valore della produzione ottenibile per unità di superficie nel corso di un anno. Il problema delle serre è, però, energetico: questa è, infatti, la voce che incide maggiormente nel costo di produzione delle colture in serra, oltre che costituire un grave impatto a livello ambientale. In Italia il “condizionamento”, ossia la regolazione dei fattori ambientali, riguarda circa il 30% delle serre e considera come fattori principali da controllare la temperatura, l’umidità, il contenuto d’anidride carbonica dell’aria, la temperatura del terreno, l’intensità e durata della luce. Circa il 20-30% delle serre italiane sono dotate d’impianti di riscaldamento. Si calcola che per la sola climatizzazione il consumo diretto di energia rappresenta circa il 95% dell’energia globalmente necessaria alla produzione dell’alimento, con una incidenza sul costo totale di produzione del 20-30%.

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A ciò vanno sommati i consumi energetici indiretti, relativi ai materiali di struttura e copertura in vetro e, soprattutto, in plastica: per le colture protette, in Italia, ogni anno, si consumano circa 80 mila tonnellate di plastica, con notevoli problemi legati alla gestione del materiale di scarto. Anche se la serra pare un sistema svincolato dal territorio, i fattori esterni come il clima locale, l’esposizione, la pendenza del terreno, l’altitudine e la ventosità influenzano enormemente il bilancio energetico della serra. È per tale motivo che l’attenzione della ricerca si rivolge necessariamente sia verso una nuova tipologia di serra a “climatizzazione passiva o spontanea”, detta serra ”bio-climatica”, oppure verso soluzioni di tipo industriale che ottimizzino il clima interno con sistemi automatici molto efficienti.


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Le biotecnologie La “rivoluzione genetica” alla luce della crisi alimentare attuale, per aumentare la produzione agricola a livello mondiale, è possibile espandere la superficie coltivata, ma le aree ad oggi disponibili sono sempre meno.In ogni caso, l’estensione di aree coltivabili consentirebbe un incremento della produzione agricola solo del 20%, con impatti ambientali sulle risorse naturali sempre più significativi. In alternativa sarebbe possibile intensificare la produzione stessa, introducendo tecniche ancora più invasive di quelle attualmente adottate, ma ciò porterebbe ad un aumento della produzione non superiore al 10%. Il contributo più significativo all’aumento della disponibilità dei prodotti agricoli sembra derivare, invece, dal miglioramento delle tecnologie: questo determinerebbe il 70% in più di produzione agricola mondiale. Le biotecnologie, così come definite dalla Convenzione sulla Diversità Biologica nel 1992, non riguardano solo gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), ma un insieme di prodotti come i vaccini, le varietà migliorate, le piante micropropagate (ossia rese libere da virus). L’applicazione delle tecnologie all’agricoltura deve avere come scopo principale la risoluzione dei problemi di fame e povertà nei paesi in via di sviluppo, consentendo di incrementare la produzione dei piccoli agricoltori locali, e deve rispondere a rigidi criteri legati alla biosicurezza, ossia alla salute dell’uomo, alla tutela della biodiversità e alla sostenibilità ecologica. Grazie all’introduzione di varietà di colture ad alto rendimento, di prodotti chimici e di nuove tecniche di irrigazione, la cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni ’60 e ’70 ha incrementato la produttività dei raccolti e ha aiutato milioni di persone a combattere fame e povertà. Oggi però molti piccoli coltivatori non riescono ad andare oltre un’agricoltura di sussistenza

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e ogni giorno più di 854 milioni di persone, secondo le ultime stime della FAO, non hanno abbastanza da mangiare. Sono miliardi coloro che soffrono di carenze di oligoelementi, una forma insidiosa di malnutrizione dovuta ad una dieta squilibrata. E nei prossimi trent’anni ci saranno altri due miliardi di persone al mondo da nutrire - mentre le risorse naturali da cui dipende l’agricoltura diventano sempre più fragili.

OGM: favorevoli e contrari L’uso delle biotecnologie in agricoltura, la “rivoluzione genetica”, può dare una risposta a questi problemi? Esistono due scuole di pensiero al riguardo che portano avanti negli ultimi decenni un dibattito a livello mondiale. La “modificazione biologica” a opera dell’uomo si perde nella notte dei tempi e può probabilmente essere ricondotta a quando i nostri antenati hanno cominciato a usare microrganismi per fare il pane, il vino e il formaggio. La moderna biotecnologia è stata resa possibile grazie all’applicazione di tecniche di biologia molecolare, che consistono nel “tagliare e incollare” i geni da una cellula all’altra. E’ proprio questo nuovo tipo di ingegneria genetica a essere al centro di numerose polemiche. I suoi sostenitori affermano che è essenziale per combattere l’insicurezza alimentare e la malnutrizione nei paesi in via di sviluppo. Gli oppositori replicano che rischia di causare gravi danni all’ambiente, di aumentare la fame e la povertà e di aprire la strada al totale controllo delle grandi multinazionali sull’agricoltura tradizionale e sulla produzione alimentare. Da un lato, ci sono valide argomentazioni a favore della modifica della composizione genetica delle colture alimentari. Una produttività agricola intensificata e una minore variazione stagionale delle scorte potrebbero far incrementare la quantità e la varietà dei prodotti alimentari a disposizione. Non solo, ma si potrebbero ottenere colture resistenti ai parassiti e alla siccità e ridurre così il


rischio di perdere i raccolti a causa delle scarse precipitazioni e delle malattie. Si potrebbero, inoltre, migliorare le varietà vegetali con l’aggiunta di maggiori elementi nutritivi e vitamine per combattere le carenze alimentari che colpiscono così tanti poveri nel mondo. Potrebbero essere coltivate le terre marginali, aumentando la produzione alimentare complessiva. La biotecnologia potrebbe, infine, consentire di ridurre l’uso di pesticidi tossici e di migliorare l’efficacia dei fertilizzanti e di altri correttori della composizione del suolo.

OGM: contro la fame La FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, sottolinea la necessità di garantire che gli eventuali vantaggi della biotecnologia in agricoltura siano condivisi da tutti, e non solo da pochi eletti. Contrariamente alla “rivoluzione verde”, introdotta con un programma internazionale di ricerca agricola pubblica avente lo scopo specifico di creare e trasferire tecnologie al mondo in via di sviluppo come beni pubblici gratuiti, la “rivoluzione genetica” è principalmente condotta dal settore privato, che punta allo sviluppo di prodotti commerciali destinati ad un vasto mercato. I programmi di ricerca biotech, sia privati sia pubblici, raramente affrontano i problemi dei piccoli agricoltori dei paesi poveri e, soprattutto, non investono in modo significativo per la salvaguardia delle cosiddette “colture orfane”, ad esempio il fagiolo dell’occhio, il miglio, il sorgo, che sono invece decisive per l’alimentazione e le condizioni di vita dei più poveri del mondo. Sono state trascurate anche le colture alimentari basilari per le popolazioni povere - grano, riso, mais bianco, patata e manioca. Si presta, inoltre, poca attenzione a caratteristiche delle coltivazioni biotech che potrebbero aiutare queste popolazioni - tolleranza alla siccità e alla salinità, resistenza alle malattie, maggiore valore nutritivo, per concentrarsi maggiormente sulla resistenza agli erbicidi. Le biotecnologie possono decisamente avere un grande potenziale nella lotta alla fame, ma ancora troppe questioni rimangono senza risposta.

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Come rendere disponibili per il maggior numero di agricoltori nel maggior numero di paesi le tecnologie della rivoluzione genetica? Seguendo quale direzione di ricerca le biotecnologie potrebbero rappresentare un beneficio diretto per i poveri? E chi metterà a punto nuove tecniche per la maggioranza dei paesi in via di sviluppo, troppo piccoli in termini di potenzialità di mercato per attrarre grossi investimenti privati e troppo deboli dal punto di vista delle capacità scientifiche per sviluppare innovazioni proprie? Come possiamo facilitare lo sviluppo e la diffusione internazionale di organismi transgenici sicuri e promuovere la condivisione della loro proprietà intellettuale per il bene pubblico? Un’altra questione importante: come assicurare che i paesi, in particolare quelli con difficoltà finanziarie, riescano a istituire adeguati sistemi di valutazione dei rischi per l’ambiente e la salute umana, sia prima che durante l’impiego delle biotecnologie? I paesi in via di sviluppo dovrebbero dunque avere la possibilità di acquisire conoscenza e sviluppare autonomamente strumenti per utilizzare gli OGM a proprio vantaggio (e non a vantaggio del mercato dei paesi occidentali).

Coltivazioni transgeniche nel mondo Gli organismi geneticamente modificati (ogm) rappresentano una delle più discusse biotecnologie ad oggi utilizzate in agricoltura per aumentare la produzione. Nel 2015 sono stati coltivati a OGM 179,7 milioni di ettari di terreno, in 28 Paesi nel mondo. Le piante oggetto di modificazioni genetiche sono soprattutto mais, soia, colza, cotone, barbabietola da zucchero. Tra i principali paesi in cui vengono coltivati OGM, gli Stati Uniti sono in testa (70,9milioni di ettari coltivati)seguiti da Brasile (44,2 milioni di ettari), Argentina (24,5 milioni di ettari), India (11,6 milioni di ettari) e Canada (11 milioni di ettari). In Italia la coltivazione di OGM a scopi commerciali non è consentita, tuttavia l’Italia importa dall’estero OGM per soddisfare il proprio fabbisogno interno, come ad esempio dagli Stati Uniti, da cui provengono soia e mais transgenici.


PRINCIPALI COLTURE OGM Altri 13%

5% 1%

Colza 51%

30%

Cotone Mais Soia

Fonte: International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications (ISAAA)

Uno degli obiettivi delle coltivazioni GM (Geneticamente Modificate) è rappresentato dalla capacità della pianta GM di essere resistente agli erbicidi utilizzati per eliminare le piante infestanti, in modo tale che l’agricoltore possa applicare in modo diffuso il diserbante con la garanzia di non eliminare la propria coltura. L’intervento dell’ingegneria genetica ha permesso di modificare queste colture per conferire loro principalmente due caratteristiche: la resistenza agli erbicidi e la resistenza agli insetti.

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Il 53% degli OGM coltivati sono stati “costruiti” in modo che siano in grado di sopravvivere all’irrorazione degli erbicidi, mentre il 14% sono resistenti agli insetti. Infine, il 33% degli OGM è composto da piante che presentano entrambi i caratteri di resistenza ad un erbicida o di resistenza ad insetti. La tendenza attuale della ricerca internazionale sembra essere maggiormente orientata verso la creazione di OGM resistenti a organismi patogeni, come i virus, più che agli erbicidi, e verso l’individuazione di geni portatori di qualità e resistenti a stress ambientali. Già prima dell’arrivo degli OGM, le principali industrie sementiere selezionavano, con metodi tradizionali (cioè per incroci successivi), le piante più adatte ad assorbire fertilizzanti o più resistenti ai pesticidi.

“Brevettare” un organismo vivente Le leggi di molti paesi permettono di brevettare i semi geneticamente modificati trasformandoli, quindi, in un prodotto di proprietà dell’azienda. L’azienda che vende agli agricoltori i pacchetti “OGM-pesticida” guadagna, quindi, in tre passaggi diversi: nella vendita del pesticida, nella vendita della coltura transgenica resistente al pesticida e nell’applicazione dei diritti sul brevetto (royalties), che si concretizza con un sovrapprezzo rispetto alle sementi tradizionali. In particolare, l’azienda può esigere che gli agricoltori ricomprino i semi ogni anno, o che paghino i diritti sulla tecnologia della semente transgenica quando utilizzano una parte del raccolto precedente per la nuova semina. D’altro canto i contadini non sono convinti che sia giusto riconoscere questi diritti speciali alle aziende che vendono i semi geneticamente modificati: è vero che esse hanno messo a punto delle caratteristiche nuove nei loro prodotti, ma è anche vero che la materia prima di partenza, il DNA delle specie viventi, è un patrimonio comune, frutto di centinaia di milioni di anni di evoluzione naturale e interazioni anche con l’uomo, specialmente con gli allevatori e i contadini di migliaia di generazioni. Da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una sentenza del 1980 riguardante il


settore petrolifero, ha stabilito che un microrganismo che “mangiava il petrolio” poteva essere brevettato (il brevetto appartiene all’industriale Chakrabarty), come se fosse stato un ritrovato tecnologico “frutto dell’ingegno umano” e non un essere vivente, tutte le aziende sementiere, e poi agrochimiche, hanno cominciato a rivendicare diritti sulle piante ottenute in laboratorio, come se fossero semplici manufatti. Fino all’arrivo degli OGM, ogni contadino poteva conservare una parte del raccolto per riseminare alla stagione successiva senza dover niente a nessuno. Diversamente, dal momento in cui un agricoltore decide di produrre con i semi “inventati” e brevettati dai biotecnologi di un’industria, a ogni semina dovrà pagare una quota, anche se l’industria non fa più nessuno sforzo. Un po’ come comprare una mucca, curarla ed alimentarla a proprie spese e dover pagare una tassa a chi ce l’ha venduta tutte le volte che la mungiamo. In Europa non esiste una posizione di divieto alla coltivazione di OGM e gli Stati Membri possono decidere se destinare parte della propria produzione agricola agli OGM. La Direttiva 2001/18/CE stabilisce, quindi, le procedure di valutazione, valide all’interno dell’Unione Europea, a cui devono essere sottoposte le sementi per poter essere classificate nel Catalogo Comunitario e successivamente commercializzate all’interno dell’Unione Europea. In Italia, la coltivazione di OGM è destinata ai soli scopi di ricerca – e non commerciali – con particolare attenzione al mais, pomodoro, barbabietola , melanzana e cicoria. Tuttavia, la crescente domanda alimentare e il mancato investimento dell’Italia in ricerca e sviluppo di varietà di mais più produttive e più adatte alle esigenze italiane fanno sì che l’Italia diventi sempre meno autosufficiente per l’approvvigionamento di mais e soia, alimenti che vengono, quindi, importati da paesi produttori di OGM, con conseguente rincaro dei costi per il consumatore.

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Agricoltura sostenibile Il ritorno alle tradizioni: la vera rivoluzione verde L’agricoltura sostenibile nasce in risposta ai problemi ambientali provocati dalla “rivoluzione verde” e dai suoi metodi produttivi ad alto impatto ambientale (intenso utilizzo di acqua, di pesticidi e fertilizzanti chimici). Proprio per evidenziare il contrasto tra questi due metodi produttivi, il movimento mondiale verso l’agricoltura sostenibile è stato definito “la vera rivoluzione verde”. Coltivare in modo sostenibile significa promuovere la biodiversità, tutelare l’ambiente, prediligere le produzioni locali, garantire il rispetto dei diritti umani dei lavoratori, tutelare le comunità e assicurare la sostenibilità economica del sistema agricolo senza dimenticare i piccoli produttori. Per poter arginare gli impatti ambientali delle moderne produzioni agricole e per poter quindi rendere l’agricoltura più sostenibile, una delle soluzioni adottate è il ritorno ai tradizionali metodi di coltivazione del passato, come, ad esempio, l’agricoltura biologica o quella conservativa. Allo stesso tempo, l’incontro tra saperi tradizionali e nuove filosofie, in un’ottica sostenibile, ha dato vita a nuove tecniche come l’agricoltura integrata e l’agricoltura biodinamica.

L’agricoltura biologica Esistono vari metodi per poter coltivare in modo sostenibile e l’agricoltura biologica è uno di questi: si tratta di un metodo di produzione definito e disciplinato a livello comunitario dal Regolamento CEE 2092/91 e a livello internazionale dall’International Federation of Organic Agriculture Movements - IFOAM Il metodo di produzione biologico rispetta l’ambiente perché non ricorre a prodotti chimici di sintesi, come pesticidi e fertilizzanti, bensì, contro i parassiti, usa prodotti di origine naturale

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(rame, zolfo, estratti di piante) e, per fertilizzare il terreno, utilizza concimi naturali. I prodotti dell’agricoltura biologica non sono, però, totalmente privi di residui di prodotti chimici di sintesi a causa della presenza nel suolo e nelle acque di inquinanti provenienti dai campi dove queste sostanze vengono utilizzate. Inoltre, l’uso di elementi presenti in natura, come il rame e i concimi, non esclude che vi sia danno per l’ambiente, ma almeno garantisce che le sostanze introdotte siano riconosciute dai microrganismi e biodegradate nel tempo: in natura, infatti, praticamente tutte le sostanze possono provocare un danno ad organismi viventi, ma quello che permette di identificare una sostanza come tossica è la quantità che provoca effetti dannosi in un dato ambiente. Come diceva Paracelso “È la dose che fa il veleno” e, finché le sostanze tossiche introdotte nell’ambiente possono essere smaltite e metabolizzate dagli organismi presenti, l’inquinamento resta contenuto. Altre caratteristiche proprie dell’agricoltura biologica riguardano: •

la rotazione delle colture, in questo modo, da un lato si impedisce ai parassiti di trovare l’ambiente favorevole al loro proliferare, e dall’altro si utilizzano in modo più razionale e meno intensivo le sostanze nutrienti del terreno;

l’aratura superficiale;

l’utilizzo di insetti utili per contrastare gli insetti dannosi per le coltivazioni;

la presenza di siepi divisorie e alberi che danno ospitalità ai predatori naturali dei parassiti e fungono da barriera fisica a possibili inquinamenti esterni;

il ricorso a fonti alternative di energia;

l’assenza di Organismi Geneticamente Modificati (OGM);

la coltivazione contemporanea di piante diverse.

L’agricoltura biologica non è un sistema innovativo, infatti, prima dell’invenzione dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, era l’unica tipologia di coltivazione utilizzata al mondo! In molti dei paesi del mondo in cui la “rivoluzione verde” degli anni ‘60 non è arrivata, ancora oggi si coltiva in modo del tutto biologico!


Basti pensare che l’80% dei coltivatori dei paesi in via di sviluppo non dovrebbero cambiare in alcun modo i loro sistemi di produzione se decidessero di essere certificati “biologici”! Oltre che in questi paesi, che producono biologico senza certificazione, l’agricoltura biologica a livello mondiale è praticata in oltre 120 nazioni!

L’agricoltura integrata L’agricoltura integrata si propone di garantire un minor impatto ambientale, di tutelare la biodiversità e di ridurre i rischi per la salute dei lavoratori agricoli e dei consumatori, riducendo al minimo l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (come pesticidi e fertilizzanti) e prediligendo, al loro posto, prodotti naturali. Si utilizza il sistema della lotta integrata, che prevede l’utilizzo di strumenti molteplici e combinati sapientemente fra di loro per combattere gli attacchi parassitari: metodi che valorizzano le risorse naturali oltre che i meccanismi di regolazione degli ecosistemi e metodi chimici sono accuratamente equilibrati. Il risultato è una riduzione (rispetto al massimo ammesso per legge) del residuo di fitofarmaci sul prodotto che mangiamo, assicurando un maggiore rispetto ambientale e riducendo le fonti attuali di inquinamento agricolo dell’ambiente. Inoltre, questo sistema cerca di utilizzare l’acqua in modo razionale, previene i fenomeni erosivi e garantisce la fertilità del suolo, praticando l’avvicendamento colturale oltre che la pratica del “sovescio”, che consiste nell’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno.

L’agricoltura conservativa L’agricoltura conservativa consiste in una serie di pratiche agronomiche che permettono una migliore gestione del suolo, limitano gli effetti negativi sulla sua composizione e struttura, sul contenuto di sostanza organica e sul processo di erosione e conseguente degradazione. L’agricoltura conservativa si distingue per l’utilizzo di alcune tecniche, come, ad esempio, la semina diretta sul terreno non lavorato o lavorato al minimo e l’assenza di bruciatura o

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interramento dei residui delle colture. I vantaggi di questo sistema produttivo sono molteplici: si passa dalla riduzione del consumo di energia, dovuto al modesto impiego di macchine agricole, alla conseguente riduzione di emissioni di CO2 in atmosfera. Inoltre altri benefici consistono nella riduzione dei costi di produzione e, in un’ottica etica, nella salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali per le generazioni future.


L’agricoltura biodinamica L’agricoltura biodinamica, ispirata all’ ”antroposofia” di R: Steiner, si basa sul presupposto che l’azienda agricola è un vero e proprio organismo vivente autosufficiente, inserito nel più grande organismo vivente cosmico, alle cui influenze soggiace. I ritmi cosmici influenzano i calendari di semina, coltivazione e raccolta. Le tecniche più utilizzate sono le rotazioni agricole, i preparati biodinamici, il compostaggio, le lavorazioni non distruttive del terreno e la concimazione di qualità attraverso i sovesci e le concimazione con compost biodinamici.

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L’arte di conservare Dall’argilla al frigorifero Forse è banale ricordarlo, ma i succhi di frutta, la pasta, la marmellata, gli spinaci “4 salti in padella”, la passata di pomodoro e i carciofini sott’olio che mettiamo nel nostro toast farcito sono tutti prodotti agricoli che subiscono un processo di trasformazione alimentare. Alcuni di questi prodotti vengono processati solo per essere conservati a lungo, altri subiscono un processo di trasformazione che produce un alimento differente (dal grano alla pasta o al pane), altri ancora, invece, vengono cucinati per essere facilmente preparati dal consumatore frettoloso che non ha tempo da perdere in cucina. L’arte della conservazione degli alimenti ha origini molto lontane: da sempre l’uomo ha dovuto relazionarsi con la stagionalità dei prodotti alimentari e con i ritmi annuali di crescita delle piante; da sempre ha cercato di modificare e contrastare i tempi naturali della produzione agricola, da un lato differenziando le colture in modo da poter avere tutto l’anno prodotti commestibili (pomodori d’inverno e cavoli d’estate), dall’altro elaborando metodi efficaci di conservazione dei prodotti vegetali, per poterli utilizzare tutto l’anno. Aristotele consigliava di avvolgere le mele in uno strato d’argilla per isolarle dall’aria e quindi per farle durare più a lungo; ma nei secoli i metodi di conservazione più usati furono quelli dell’essiccazione al sole (es. fichi o pomodori secchi), della salatura (es. capperi), e della affumicatura con l’ausilio del fumo (tecnica utilizzata maggiormente per carne e pesce). Altri procedimenti furono quelli a base di aceto (es. cetrioli sott’aceto) e di olio (es. carciofi sott’olio) oppure di zucchero (es. marmellate di frutta). Altre tecniche, come quella della fermentazione, consentirono all’uomo di inventare prodotti come la birra o di conservare verdure come il cavolo (es. crauti). Non dimentichiamo poi i frigoriferi e congelatori! Con la nascita dell’industria del freddo, che mise a disposizione i primi frigoriferi, si ebbe la svolta decisiva nel campo della conservazione degli alimenti, che

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oggi si mantengono a lungo senza che il loro sapore venga alterato. La lavorazione del cibo, insomma, è un processo antico, ma solo con l’industrializzazione del XIX secolo, grazie ai nuovi processi tecnologici e con l’avvento dei consumi di massa, hanno iniziato ad emergere le grandi imprese di trasformazione alimentare. Oggi sono numerose, in Italia e nel mondo, le grandi aziende dell’industria alimentare che producono pasta, pane, biscotti, conserve e via dicendo. Tutti i passaggi e le fasi della produzione e trasformazione industriale sono da tenere in considerazione se si vuole avere un’idea completa degli impatti ambientali e sociali causati dalla filiera agroalimentare nel suo insieme.


Verdura gira mondo A tavola e’ estate tutto l’anno! La frutta e la verdura che mangiamo ogni giorno proviene spesso da molto lontano anche se non ne siamo consapevoli. Mangiamo meloni provenienti dal Brasile, arance provenienti dalla Spagna, banane e ananas provenienti dal sud America. La distanza tra il produttore e il consumatore si è estesa notevolmente da quando il commercio mondiale di cibo è cresciuto. Il risultato è che oggi le catene di fornitura sono lunghe e molto complesse e di conseguenza noi consumatori spesso non conosciamo la provenienza dei cibi che mangiamo né tanto meno gli impatti ambientali generati dal trasporto di cibo sulle lunghe distanze. Lo sapevate che un mazzo di lattuga prodotta in California e spedita via aereo a Londra emette circa 5 chilogrammi di anidride carbonica? Il trasporto aereo è di sicuro il più inquinante, ogni tonnellata di prodotti trasportata via aerea emette infatti 799 grammi di CO2 al chilometro; il trasporto via gomma ne emette 98,6 mentre quello via mare solo 13! Sulle nostre tavole è estate tutto l’anno, pomodori, zucchine e fragole sono prodotti tipicamente estivi, ma noi li mangiamo anche d’inverno: li importiamo dall’altro emisfero terrestre, dove è estate mentre da noi è inverno. Tonnellate su tonnellate di gas serra vengono emesse indirettamente ogni anno dal consumo di frutta e verdura fuori stagione! Vi basti pensare che la frutta e la verdura importate che una sola famiglia consuma in una settimana percorre complessivamente distanze tali che, se sommate, equivarrebbero a numerosi viaggi intorno all’equatore! Fate voi il calcolo!

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Un chilo di

trasportato in aereo

emette

Lattuga

Dalla California a Londra

5 kg di CO2

Asparagi

Dal Cile a New York

4,7 kg di CO2

Carote

Dal Sudafrica a Londra

5,5 kg di CO2


Tutti a fare la spesa A tavola e’ estate tutto l’anno! Pasta, pane, olio, caffè, tè, zucchero, conserve, frutta fresca e verdura sono tutti prodotti agricoli che non mancano sulle nostre tavole. In Italia i derivati dei cerali (pane e pasta), frutta e verdura, zucchero, caffè, tè e olio pesano complessivamente per circa il 38% su tutti gli acquisti agroalimentari delle famiglie. Gli italiani sono i maggiori consumatori di pasta a livello mondiale: ognuno di noi ne consuma in media 27 chili all’anno (il triplo rispetto agli Usa e agli altri Paesi europei); sono invece 66 i chilogrammi di pane consumati per persona in un anno. La maggior parte del pane viene acquistato presso i punti della grande distribuzione, in prevalenza nei supermercati; solo il 28% del pane viene acquistato dal panettiere! Anche frutta e verdura vengono acquistate prevalentemente nei supermercati della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), rispettivamente il 54% e il 49%; dai fruttivendoli viene acquistato circa il 20 % della frutta e della verdura, così come al mercato, dove si acquista il 18 % della frutta e il 20 % della verdura. Il modo per rendere questi consumi più sostenibili è semplice: si tratta di piccoli accorgimenti che possono diminuire il nostro impatto ambientale sull’ambiente.

A tavola e’ estate tutto l’anno! Avete idea di quanti imballaggi alimentari finiscono nella spazzatura ogni giorno? Provate a prestare attenzione a tutte le vaschette di frutta e verdura che buttate dopo aver riposto il loro contenuto nel frigorifero, oppure ai sacchetti di plastica, a quelli di carta, alle confezioni di cartone che contengono la pasta, e così via. Al supermercato, la frutta e la verdura sono spesso imballate in vaschette a volte più voluminose e pesanti di quello che contengono! E’ uno spreco di risorse, in termini di energia e materia prima, impiegate per produrre gli

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imballaggi che, una volta diventati rifiuto, si trasformano in un problema da smaltire. Provate a scegliere la verdura e la frutta meno imballate, in molti supermercati è ancora possibile farlo, altrimenti nei mercati rionali o dal fruttivendolo potete scegliere ciò che volete e riporlo in sacchetti di carta, evitando così di dover buttare via vaschette di plastica. Inoltre, è poi possibile acquistare prodotti sfusi - ancora in pochi supermercati, per il momento, come gli Eco Point CRAI e i MILLEBOLLE Point, ad esempio - caffè, cereali, pasta, riso, legumi, spezie, frutta secca. Ciò consente di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale che hanno milioni di tonnellate di imballaggi prodotti ogni anno, in gran parte destinati a trasformarsi in rifiuti, di cui solo una parte può essere riciclata…a patto che noi consumatori differenziamo gli imballaggi!

Il cibo è denaro Ogni anno ogni cittadino europeo ha a disposizione 840 kg di cibo all’anno, di cui solo 560 kg vengono mangiati, mentre 95 kg finiscono tra i rifiuti dopo l’acquisto e i restanti 185 kg persi lungo la filiera. D’estate, poi, aumenta la deperibilità degli alimenti: secondo la Coldiretti un frutto su quattro rischia di essere sprecato! Per ottimizzare la spesa e non buttare via niente, la Coldiretti ha da tempo elaborato un vademecum con i consigli da seguire per mantenere la freschezza della frutta e verdura acquistata, dal campo, al banco del rivenditore, fino alla tavola dei consumatori. Nel punto di vendita effettuate acquisti ridotti e ripetuti nel tempo e scegliete i frutti con il giusto grado di maturazione, non appassiti; verificate l’etichettatura e preferire le produzioni e le varietà locali che non essendo soggette a lunghi tempi di trasporto garantiscono maggiore freschezza; preferite varietà di stagione che hanno tempi di maturazione naturali. Per quanto riguarda il trasporto, fate la spesa poco prima di recarvi a casa ed evitate di lasciare troppo a lungo la frutta e verdura dove il sole e le alte temperature favoriscono i processi di maturazione. Mantenete separate le confezioni delle diverse varietà di frutta e verdura acquistate, quindi riponetele in contenitori di carta anziché in buste di plastica. Tra le mura domestiche, mantenete separata la frutta e verdura che si intende consumare


a breve da quella che si intende conservare più a lungo: la prima può essere messa in un portafrutta al buio eventualmente coperta da un tovagliolo e comunque lontano dai raggi del sole, mentre la seconda va posta in frigorifero, ma lontano dalle pareti refrigeranti.

Più sostenibili Come abbiamo visto l’agricoltura industriale ha impatti negativi sull’ambiente: scegliere prodotti provenienti dall’agricoltura biologica certificata, dall’agricoltura integrata, biodinamica o conservativa è un gesto che consente di diminuire notevolmente il proprio contributo all’inquinamento del pianeta.

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Compriamo cibo di stagione Frutta e verdura fuori stagione sono presenti tutto l’anno sulle nostre tavole, provengono dalle coltivazioni in serra o dall’estero: scegliere di mangiare prodotti di stagione significa diminuire l’inquinamento prodotto dal trasporto di questi beni sulle lunghe distanze ma anche evitare il costo energetico delle produzioni in serra. Sapete quali sono le stagioni in cui maturano cavolfiori e zucchine?

Mangiamo cibo locale I prodotti della terra che vengono da lontano, come abbiamo visto, emettono molti gas effetto serra a causa del trasporto aereo o su gomma. Se abitate in zone circondate dalle campagne, è molto probabile che la cascina vicino a casa venda al dettaglio una parte di carne e ortaggi di produzione propria, come fanno le aziende agricole della Lombardia indicate da Coldiretti in un apposito servizio di informazione per segnalare ai consumatori la possibilità di acquistare direttamente dal produttore. Se, invece, abitate in città, una volta al mese è possibile fare la spesa nei “farmers’ markets”, mercati in cui i coltivatori portano i propri prodotti per venderli direttamente al consumatore, senza passare dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Ricordate però che ci sono alcune comunità, spesso nei paesi del sud del mondo, che sopravvivono proprio grazie alla produzione e all’esportazione dei propri prodotti agricoli, come il Kenia e i suoi fagiolini verdi! Prima di fare la spesa è bene pensare anche a questo!

...e cibo equo! Del cibo prodotto all’estero spesso non si hanno nemmeno informazioni certe sulle condizioni dei lavoratori o sul rispetto dei loro diritti umani: in molti casi si verificano abusi, anche qui in Italia. Per avere garanzie sulla tutela dei diritti delle persone che, nel mondo, producono cibo basta prediligere gli alimenti del commercio equo e solidale (Ctm Altromercato, Fair trade), prodotti e messi in commercio nel rispetto dei diritti umani e volti ad aiutare lo sviluppo delle comunità.


Il pomodoro Una vita senza pomodoro? In Italia è ben difficile immaginare di vivere senza pomodoro! Sulla pizza, sulla pasta, nell’insalata.. in molti dei piatti della nostra tradizione culinaria figura il pomodoro, un vegetale appartenente alla famiglia delle solanacee, che matura in estate e ama i climi temperati. Il suo valore alimentare è scarso mentre è elevato il suo valore vitaminico. Infatti il colore rosso vivace è indice della presenza del licopene e del beta carotene, precursore della vitamina A. Il pomodoro è anche ricco in vitamina C, acido citrico e malico. La coltivazione di questo ortaggio rosso, che riveste un ruolo così importante nella nostra dieta, ha una lunga tradizione in Italia: oggi il nostro Paese figura al terzo posto nella graduatoria mondiale per la produzione e l’esportazione.

Quanti tipi di pomodoro esistono? Pomodori pachino, san marzano, cuore di bue.. quanti tipi di pomodoro esistono? In Italia sono registrate 300 varietà di pomodori mentre quelle registrate nel mondo sono più di 1700. Solo 60 di queste sono però le tipologie commercializzate.

Pomodori effetto serra Le serre servivano un tempo per proteggere i prodotti invernali più delicati dalle gelate ma oggi vengono utilizzate principalmente per produrre al di là delle stagioni, le zucchine, i fagiolini verdi e i pomodori, rendendo così possibile la loro presenza sui banchi del supermercato tutti i giorni dell’anno! Per coltivare in serra viene utilizzata una notevole quantità di energia per riscaldare, irrigare, illuminare e areare artificialmente. Tutte queste azioni sono necessarie per creare

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le condizioni ideali per la crescita del pomodoro fuori stagione, condizioni che in natura si verificano, in primavera e d’estate, senza tutto questo spreco di energia! Inoltre, le serre hanno un notevole impatto sull’ambiente: considerate ad esempio le emissioni di gas serra derivanti dai combustibili utilizzati per il riscaldamento, soprattutto nelle regioni del Nord, dove i consumi raggiungono valori di 40 kg/m2/anno di gasolio per una serra utilizzata tutto l’anno.


Pomodori effetto serra Avete mai provato ad annusare ad occhi chiusi prima un pomodoro comprato al supermercato, magari d’inverno, e poi uno del mercato rionale o del mercato dei contadini, acquistato nel periodo estivo? Di sicuro, nel primo caso, non avrete sentito il tipico profumo di pomodoro che invece vi avrà colpito annusando il pomodoro estivo raccolto pochi giorni prima! I pomodori che troviamo al supermercato, d’inverno soprattutto, vengono raccolti ancora verdi, nelle serre dove vengono coltivati fuori stagione ( il pomodoro è un ortaggio estivo): vengono raccolti non ancora maturi perché prima di arrivare sul banco del supermercato devono affrontare un viaggio abbastanza lungo con diverse tappe, si parla per questo di “catena lunga di fornitura”. Durante i giorni di viaggio, spesso su ruote, di stoccaggio e distribuzione, i pomodori fanno in tempo a maturare.. e ad emettere un sacco di CO2! I pomodori che troviamo al mercato dei contadini o al mercato rionale, invece, sono stati raccolti d’estate, pochi giorni prima della vendita, quindi già maturi, rossi e profumati: non hanno nemmeno affrontato un lungo viaggio perché provengono dai campi nelle vicinanze – in questo caso si parla di “catena corta”.

Pomodori d’estate e passata d’inverno Mangiare pomodori freschi d’inverno non è una buona idea perché non fa bene all’ambiente, non apporta nessun beneficio alla salute e non procura nemmeno soddisfazione al palato! Mangiare pomodori d’inverno, come abbiamo visto, significa nutrirsi di verdura fuori stagione prodotta nelle serre che consumano molta energia ed emettono notevoli quantità di gas serra. Mangiare pomodori fa bene alla salute perché questi ortaggi contengono una particolare sostanza, il licopene, che combatte i radicali liberi. Diversi studi hanno dimostrato che la quantità di licopene presente nei pomodori raccolti ancora verdi è nettamente inferiore alla quantità della stessa sostanza presente nei pomodori cresciuti al sole e raccolti maturi! Quindi per beneficiare delle proprietà

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antiossidanti del pomodoro è preferibile mangiarne d’estate! E d’inverno per condire la pasta usate la passata di pomodoro! Il pomodoro è un prodotto dell’estate, il suo sapore e il suo profumo sono massimi al momento della maturazione: è per questo che le aziende che producono la passata di pomodoro, acquistabile tutto l’anno, utilizzano i pomodori raccolti d’estate!


Pomodori di scarto Il pomodoro è prodotto in tutta Italia, ma in pieno campo è coltivato soprattutto in Puglia, Campania, Emilia-Romagna, Calabria e Sicilia. I pomodori prodotti in serra vengono raccolti quando sono poco maturi, in pratica ancora verdi, così che, al loro arrivo sui banchi del supermercato, saranno quasi maturi e quindi pronti alla vendita. Il consumatore è contento di trovare al supermercato il pomodoro tutti i giorni dell’anno, anche se questo comporta meno sapore, meno bontà e meno benefici per la salute. Quello che conta è l’aspetto, i pomodori devono essere tutti belli e quelli che non lo sono vengono scartati. Pensate che ne vengono buttati via circa il 10% perché non adatti a essere commercializzati! Uno spreco inutile di cibo, al quale poi bisogna aggiungere il dato più sconvolgente: un altro 15% di pomodori non viene nemmeno raccolto perché il prezzo di vendita è troppo basso e quindi non conviene nemmeno raccoglierli!

Conserve di pomodoro Per avere il pomodoro a disposizione tutto l’anno, preparare delle conserve di pomodoro è sempre stata una soluzione perfetta: come si fa ancora oggi in molte delle case italiane, si comprano i pomodori ben maturi e, a seconda della tradizione familiare, si conservano in vasetti di vetro interi, a pezzetti oppure dopo averli passati, stando molto attenti alla sterilizzazione delle conserve! A livello industriale si è iniziato a produrre concentrati, passate e pelati dopo la metà dell’ottocento. Molte delle industrie conserviere oggi utilizzano pomodori coltivati seguendo i principi della produzione integrata, che prevede un impiego limitato di sostanze chimiche di sintesi, come pesticidi e fertilizzanti, che inquinano le falde acquifere e impoveriscono il suolo.

Schiavi del pomodoro Un paio di anni fa venne pubblicata l’inchiesta shock di Fabrizio Gatti sui braccianti stagionali

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in provincia di Foggia: “Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero.” Il pezzo denunciava la violazione dei diritti umani di questi immigrati che lavorano nella raccolta dei pomodori: “..è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza.” Sottopagati, sfruttati, picchiati, alloggiati in tuguri senza acqua e servizi igienici migliaia di lavoratori extracomunitari lavorano in nero e nella piena violazione dei diritti umani per raccogliere i pomodori e la verdura che mangiamo ogni giorno: “Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga.” La manodopera immigrata è di vitale importanza per il settore agricolo, non solo in Puglia, ma in tutta Italia, come nella provincia di Mantova, ad esempio, dove vengono prodotti i meloni. Troppo spesso i lavoratori extracomunitari vengono fatti lavorare in nero, perché al produttore costa molto meno: i lavoratori in questo modo non sono tutelati e spesso la fatica nei campi, dove gli straordinari sono la regola, causa incidenti gravi.


Lo sapevi che...? Il pomodoro è una pianta originaria dell’America e fu importata in Europa dagli spagnoli nel secolo XVI, ma in un primo tempo fu utilizzata come pianta ornamentale da giardino, infatti si credeva che il pomodoro fosse un frutto velenoso! Nel secolo XVIII il pomodoro iniziò ad essere apprezzato come alimento e si diffuse nelle cucine: quando poi il progresso tecnologico lo permise, si iniziò la sua trasformazione e conservazione su scala industriale.

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Il pomodoro nella storia Cristoforo colombo scopre il pomodoro Il pomodoro è tra i prodotti che sono stati introdotti in Europa dal sud America in seguito alle scoperte geografiche e alla creazione dei primi imperi coloniali all’inizio del Cinquecento. È originario delle regioni tropicali e subtropicali del Cile, del Perù e dell’Ecuador, dove ancora oggi è possibile trovare delle specie selvatiche dai frutti piccoli, simili, tra le varietà attualmente coltivate, al tipo cherry o ciliegino e dove per effetto del clima tropicale offre i suoi frutti tutto l’anno. Dal Messico, il pomodoro giunge in Spagna e quindi a Napoli, un possedimento spagnolo, poi a Genova e a Nizza e in tutta la Provenza. La sua pianta viene inizialmente impiegata in queste regioni per scopi ornamentali negli orti e nei giardini: le sue caratteristiche fanno sì che sia giudicata tossica come altre solanacee e alcuni studiosi di botanica la considerano un’altra specie di melanzana e al pari di questa un nutrimento povero e cattivo. Nel 1544 l’erborista italiano Pietro Mattioli ne classifica la pianta fra le specie velenose, anche se ammette di aver sentito voci secondo le quali in alcune regioni il suo frutto viene mangiato fritto nell’olio. Piuttosto, al pomodoro vengono attribuiti misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci e, per tale motivo, viene impiegato in pozioni e filtri magici dagli alchimisti del Cinquecento e del Seicento.

Il termine pomodoro È forse per questo motivo che il pomodoro viene chiamato nelle diverse lingue europee: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, Libesapfel in tedesco e pomo (o mela) d’oro in

Crediti: Wikimedia Commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Columbus_Taking_Possession.jpg

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italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore. Altri tuttavia riconducono l’origine del termine pomodoro ad una storpiatura dell’espressione pomo dei mori, giacché il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee come la melanzana, ortaggio preferito a quei tempi da tutto il mondo arabo, o alla prima varietà di frutti dal colore giallo, poi soppiantati da quella di colore rosso sempre originaria dell’America del sud. Oggi, con l’eccezione dell’italiano, le vecchie espressioni sono state sostituite in tutte le altre lingue da derivazioni dell’originario termine azteco tomatl. Ma, anche in questo caso, il nome è frutto di un errore. La pianta importata in Europa è chiamata dagli Aztechi xitomatl, che significa grande tomatl. La tomatl è un’altra pianta, simile al pomodoro, ma più piccola e con i frutti di colore verde-giallo (chiamata oggi tomatillo ed impiegata nella cucina centroamericana). Gli spagnoli chiamano entrambe tomate e ciò ha originato confusione.

Quando abbaimo cominciato a mangiare il pomodoro? L’impiego della pianta di pomodoro come ornamento dura per secoli ed essa si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando nel sud Italia il clima più adatto al suo sviluppo. La documentazione relativa all’origine del suo uso alimentare è scarsa: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo. Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conosce un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro viene consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffonde rapidamente tra la popolazione. Nel 1762 Lazzaro Spallanzani ne definisce le tecniche di conservazione notando, per primo, come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterino. Nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblica l’opera “L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années”, dove fra gli altri alimenti è citato anche il pomodoro .


Negli Stati Uniti ed in genere nelle americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trova invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici. Nel corso dell’Ottocento il pomodoro viene inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti: «Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca». Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella “Cucina casarinola co la lengua napoletana”, in appendice alla seconda edizione della “Cucina teorico pratica”, fornisce la ricetta per una salsa: i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera. È nella stessa epoca che si realizza il connubio tra pasta e pomodoro e tra pizza e pomodoro. Nella seconda metà del secolo l’Inchiesta Jacini conferma come il consumo di pomodoro sia diffuso nell’Italia meridionale e soprattutto nella provincia di Napoli, dove è il condimento più utilizzato per i maccheroni e con essi è l’alimento più comune. L’apporto calorico del pomodoro, o più in generale il suo valore nutritivo, è quasi irrilevante ed esso è l’unica coltura al mondo di grande utilizzo priva di un preciso ruolo dietetico. Tuttavia il cambiamento delle abitudini alimentari nel Meridione anche a causa delle migliorate condizioni di vita hanno reso il pomodoro un condimento eccezionale. Al suo successo contribuisce la semplice conservabilità dei suoi derivati, esso è tuttavia largamente utilizzato anche fresco come contorno e nelle insalate.

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L’industria del pomodoro L’industria di trasformazione e conservazione del pomodoro è nata e ha conosciuto grande sviluppo in Italia. La sua culla è stata Parma, nelle cui campagne dopo la metà dell’Ottocento i contadini producono pani di polpa che viene essiccata al sole (tra le mosche, tanto da essere chiamati pani neri). La svolta è determinata da Carlo Rognoni, professore di agronomia e contabilità rurale al Regio Istituto Tecnico di Parma, che sostiene la coltivazione, la sperimentazione agronomica e la divulgazione presso gli agricoltori della zona. È l’epoca del Comizio agrario e della Cattedra ambulante di agricoltura, due istituzioni che operavano nella campagna della provincia e che con le loro pubblicazioni periodiche sostengono il progresso scientifico . Ulteriore supporto è fornito dalle casse di risparmio che nascono nello stesso periodo e appoggiano quelle attività che incrementano il mercato del pomodoro e dei suoi derivati. È Rognoni a intuire che per dare un futuro alla coltivazione del pomodoro occorre creare e sostenere l’attività di trasformazione in conserve. Nel 1874 si costituisce per sua iniziativa la Società anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomodoro. Si affacciano quindi alla storia i pionieri dell’industria nascente (Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora) che danno vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori.

Crediti: GIUSEPPE VENTURINI, Estratto di pomodoro. Tempera su carta, 1937. (Tratto da Agricoltura Parmense. Numero speciale de l’Avvenire Agricolo, 1937)


Crediti: Mansueto Rodolfi. Museo del pomodoro http://www.museidelcibo.it/pomodoro.asp 77


Crediti: Marcellino Mutti. Crediti: Museo del pomodoro http://www.museidelcibo.it/pomodoro.asp


I laboratori che dichiarano la propria attività, a Parma, alla Camera di commercio, sono 4 nel 1893, 5 nel 1894, 11 nel 1896. L’industria parmense acquisisce un autentico primato europeo dopo l’importazione dalla Francia, nel 1905, delle apparecchiature per la condensazione del concentrato sottovuoto. Le imprese parmensi sono, l’anno medesimo, 16, tutte dotate di apparecchiature moderne, e l’industria inizia a espandersi verso Piacenza. Nel 1922 sempre a Parma, la svolta successiva verrà con la Stazione sperimentale delle conserve che garantisce l’innovazione tecnologica, l’assistenza alle imprese e il controllo di qualità. Mentre dagli anni quaranta la Mostra delle conserve sostiene la produzione dal punto di vista commerciale. Negli anni in cui opera Rognoni, è attivo anche il torinese Francesco Cirio che dopo aver dato vita alla prima industria conserviera in Piemonte ne apre una a Napoli nel 1875. Essa si specializzerà nei pelati, che ottiene dal tipico pomodoro campano, il San Marzano. La centralità della provincia parmense per quanto riguarda la produzione e la trasformazione del pomodoro e la sensibilità per questo tema manifestata dalle amministrazioni locali è testimoniata oggi dal Museo del pomodoro. Esso sorge presso la Corte di Giarola nel Parco del Taro a Collecchio.

Crediti: Fabbriche di conserva di pomodoro nel parmense, 1900-1937. Museo del pomodoro http://www.museidelcibo.it/pomodoro.asp

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