Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli FACOLTÀ DI LETTERE CORSO DI LAUREA IN
CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI
Tesi di Laurea IN
Antropologia del Patrimonio
Memorie alimentari in Lucania “quann’ s’ facie u’ puorc”
Relatore Prof. Helga Sanità
Candidato: Luisa Filizzola Matricola: 012002587
Anno accademico 2011 - 2012
Indice
Introduzione………………….……………………………pag. 3 Alcune annotazioni storiche Rivello……………………………………….…………….pag. 6
1. Il cibo è cultura…………………………………….….pag. 10 2. Cibo, Rito, Rituale………………………………….…pag. 22 3. Cibo e Commensalismo…………………………….....pag. 24 4. Tra nostalgia ed identità………………………….…...pag. 27 5. La vittima designata………………………………….pag. 30 6. La morte. Il lavoro. La festa………………………….pag. 33 7. Il sanguinaccio e la soppressata………………………pag. 38 8. Ricette tradizionali…………………………………...pag. 41 9. Prodotti e salumi tipici…………………………...…..pag. 46 10. Testimonianza di una contadina della Valle del Noce……………………………..….pag. 49 Conclusioni …………………………………………….....pag. 52 Bibliografia………………………………………………..pag. 55
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Introduzione La tesi si pone l’obbiettivo di ricostruire, attraverso l’intervista ad una
contadina della Valle del Noce (Potenza), il lavoro e la tradizione culturale connessi all’uccisione del maiale nell’immediato dopoguerra,
periodo caratterizzato da una povertà molto diffusa e dalla difficoltà di
reperire generi di prima necessità.
La ricerca intende inoltre analizzare la complessa simbologia relativa alla
figura del suino nella società contadina tradizionale senza trascurare gli
aspetti letterari, cinematografici e le sue contraddizioni.
Infine la tesi prende in esame alcuni prodotti ricavati dalla lavorazione
della carne e alcune ricette tradizionali, peculiari in territorio lucano. L’uccisione del maiale è un fenomeno sociale di rilevanza perché
rappresenta un momento di unione per tutta la famiglia, una
sopravvivenza delle antiche usanze e una divisione del lavoro tra uomini, donne, anziani e giovani. L’unione della famiglia causata da questo
evento è sintomo che nelle nostre zone è viva una famiglia di tipo
tradizionale, dove è ancora possibile la realizzazione di questo evento
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grazie al contributo di tutti. Quindi l’unione della famiglia e l’uccisione
del maiale sono elementi propedeutici, non può esistere la macellazione in casa senza l’unione della famiglia. È impossibile non registrare un calo
delle uccisioni di maiali in casa che diminuisce di anno in anno. Tutto
questo cambiamento è testimoniato da una pratica sempre più diffusa: l’acquisto di parti del maiale per fare gli insaccati e le specialità tipiche.
Notiamo in questo fenomeno la volontà di produrre i prodotti della nostra tradizione ma eliminando la parte della crescita e l’uccisione del maiale e
non solo per risparmiare lavoro ma anche perché non si dispone più dei
mezzi e delle risorse umane di una volta. Quindi si può dedurre che la
nostra famiglia custodisce la nostra storia ma è inevitabile un’ influenza
dei nuovi modelli di vita che non prevedono certe pratiche ma un meno complicato “acquisto e consumo”. Il maiale diviene protagonista
indiscusso della letteratura occidentale grazie alla narrazione del noto
episodio odisseico della trasformazione dei compagni di Ulisse in suini, ad opera della maga Circe (Omero, Odissea, libro X): “Li faceva entrare.
Li mise a sedere sulle sedie e sugli alti seggi. E per loro mescolava formaggio e farina d’orzo e miele verde con vino di Pramno e univa a
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quel cibo droghe malefiche: voleva che si scordassero completamente
della patria”. È interessante notare come il maiale, soprattutto nella
produzione letteraria più recente nel mondo della narrazione fiabesca, diventi inequivocabilmente metafora dell’uomo stesso: la nota favola dei
Tre Porcellini è un testo dal contenuto sapienziale, che affronta il tema
della crescita: i tre porcellini simboleggiano i diversi stadi attraverso cui si snoda l’esperienza di crescita dei fanciulli i quali, sperimentando
inevitabilmente le difficoltà e gli inganni che la vita propone e passando
attraverso errori e ripensamenti, imparano ad ogni stadio qualcosa di
nuovo, un modo più consapevole di affrontare la vita. Potremmo considerare il maiale patrimonio grande dell’umanità. Lo è sicuramente,
non solo per ciò che di gastronomico può offrire, ma anche perché, oltre all’immagine di voracità, ingordigia, lussuria e benessere che rappresenta, trova motivo di esaltazione anche nella simbologia popolare. Il “nostro” è
certamente un animale contraddittorio, amato ed odiato al tempo stesso per il suo “stile di vita”. Da una parte esso rappresenta la fertilità, la ricchezza (la scrofa, nell’antichità, era associata alla Grande Madre), dall’altro è simbolo di voracità, ingordigia e lussuria. Con il cristianesimo
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del maiale è prevalso l’aspetto simbolico più ombroso: esso viene a rappresentare la lussuria, l’ingordigia e la sensualità. In poche parole,
Satana stesso! Il maiale trova parecchi consensi anche nei film. Lo troviamo citato ne: “I tre porcellini”, “Babe maialino coraggioso”, “Babe torna in città”, “Porci con le ali”. Sono queste le fasi che intendo
sviluppare, iniziando dalle parole della protagonista della mia ricerca, una “contadina della Valle del Noce”, Domenica Novellino , classe 1942. Raccogliere l’intervista è stata anche una preziosa occasione per
recuperare la storia di mia nonna tra tradizioni, cibo e dinamiche
familiari.
Rivello Figura 1 - Comune di Rivello (PZ)
6
Anche se il nome politico-amministrativo della regione è “Basilicata”, chi
vi nasce preferisce chiamarla Lucania. L'antico nome permette l'utilizzo
dell'aggettivo lucano e il riconoscimento in un'identità che, seppure
collocata in un lontano passato, affonda le sue radici in eventi che si sono
storicamente caratterizzati in una centralità ed omogeneità sociale,
culturale, economica e religiosa che la memoria collettiva riconosce, a
torto o a ragione, come tratti originari del proprio popolo: la gens lucana,
l'antico popolo italico di stirpe sannitica che parlava l'osco-umbro e il cui
territorio spaziava dalle coste della Campania, in provincia di Salerno,
fino alle terre calabre del cosentino e parti della Puglia.
Lucania, l'antico e mai dimenticato nome, ha diverse radici filologiche.
Una di queste è data da leucos, originariamente parola greca che aveva
conservato nella sua accezione latina lo stesso significato: bianco,
lucente. Ma anche nell'antica lingua sanscrita la parola luc ha significato
di luce e luminosità, e lo stesso significato lo si ritrova nella parola sémita
di luachan. Senz'altro bianchi e lucenti erano gli ampi squarci delle
radure e i picchi dei calanchi, composti da terre calcaree ed argillose, che
si aprivano tra le fitte macchie di foreste che coprivano l'intera regione, e
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poiché bosco in latino si traduce in lucus, è molto verosimile che anche
questo nome abbia contribuito a dare alla regione il suo antico nome,
ufficializzato, poi, nel periodo della Roma imperiale quale III regione
augustea dell'Impero. Lucania: regione, dunque, chiaro-scura, ombrosa e
romantica, segnata a tratti da squarci di luce. La sua parte sud-occidentale
incuneata tra la Campania e la Calabria è interamente percorsa da una
lunga valle che prende il nome dal fiume che vi scorre: il fiume Noce; la
valle termina sul Mar Tirreno con coste molto alte. Il bacino idrografico
del fiume Noce è delimitato dai boschi delle vette dell'Appennino lucano
e dall'angusto litorale marino nei pressi di Castrocucco, frazione di
Maratea. Lungo la valle sono situati alcuni Paesi: probabilmente il più
pittoresco e il caratteristico è Rivello.
Rivello è situato in una posizione panoramica splendida. Si colloca sul criminale dei colli Motta, Serra e Poggio. L’attuale borgo sorge davanti al
vecchio nucleo insediativo che si era sviluppato secoli prima sulla collina di Serra di Città. Quest’ultimo, secondo la leggenda, sarebbe scomparso a causa di un invasione di formiche giganti e l’odierno abitato si sarebbe
costituito tra il VI e VIII secolo d.C. Più o meno nello stesso periodo era
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stata distrutta, sul versante campano, la città di Velia ad opera dei pirati
saraceni. Osservando lo stemma della città di Rivello si legge la scritta : “Iternum Velia Renovata Rivellum” (Velia di nuovo costruita è Rivello).
Questi fatti fanno dunque pensare che i Velini fuggiaschi avrebbero
fondato Re-Velia, come risulta essere chiamato il Paese nel primo documento ufficiale risalente all’XI secolo. Oltre ai profughi cilentani
anche altri popoli formarono il nuovo nucleo urbano.
I Longobardi del Ducato di Benevento si stabilirono nella parte alta dell’abitato dove sulla Motta edificarono una delle roccaforti più avanzate
del territorio. I Bizantini occuparono il Poggio, cioè la parte bassa, intorno all’anno 1000. I due gruppi principali, i Bizantini e i Longobardi,
non riuscirono ad prevalere gli uni sugli altri e giunsero ad una insolita
coesistenza. La conseguenza fu lo svilupparsi di due relativi centri
distinti, con due culture, usi, tradizioni e soprattutto religioni diverse.
I Velini e i Longobardi praticavano il culto Latino nella Chiesa di San
Nicola, i Bizantini il rito greco presso la Chiesa di Santa Maria del
Poggio. Questa diversità portò alla disputa e alla lotta tra i diversi gruppi. Per tale motivo all’inizio e alla fine del Paese c’erano due porte che, la
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sera o in caso di invasione nemica, venivano chiuse. A testimoniare la
loro presenza rimangono ancora visibili due fontane costruite nelle zone
rispettivamente occupate. Quando si verificò la scissione del Ducato di
Benevento, Rivello fu incorporato nel Principato di Salerno. Quando l’Italia meridionale venne conquistata dai Normanni, i cittadini si
schierano con essi, poi passò sotto gli Angioini ed infine fu feudo di
Sanseverino. Nel 1576 Rivello riscattò la sua indipendenza, dietro
pagamento di 13000 ducati ai principi Monteleone. La Regia Corte lo
vendette a Daniele Ravaschiero a cui furono versati 36000 ducati. Il 6
Gennaio 1719 per la seconda e ultima volta riscattò la sua indipendenza
dietro pagamento di 55000 ducati e quattro cantàra di salame rivellese da
versare ogni anno a Orazio Pinelli Ravaschiero, Duca di Acerenza e
Principe di Belmonte (vedere foglio storico). Lungo il corso del fiume Noce c’erano ramiere e ferriere che sfruttavano l’acqua per fornire prodotti semi-lavorati alle botteghe che
erano al
centro di Rivello. Qui provetti maestri rifinivano abilmente gli utensili
con cui si recavano alle fiere della regione, del Cilento, della Puglia e perfino nella lontana Sicilia. L’agricoltura forniva uva e olive di buona
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qualità da cui si ricavava vino e olio anch’essi destinati in parte ad essere
venduti alla regione e in parte fuori. In questo periodo Rivello raggiunse
il maggiore incremento demografico superando i 5.200 abitanti. Agli inizi del 1900 l’artigianato, e non solo, venne perduto a causa della massiccia
emigrazione di giovani soprattutto nelle Americhe.
1. Il cibo é cultura.
Da sempre, la storia dell’uomo e delle civiltà è strettamente legata all’alimentazione. Prosperità, crescita demografica, guerre, conquiste e
grandi rivoluzioni sono indissolubilmente connesse alla disponibilità di cibo, alla sua abbondanza o scarsità1. Il cibo diventa elemento culturale
nel momento in cui viene modificato dalla cultura del gruppo che agisce su esso2. Il fuoco è il primo elemento di influenza sulla preparazione del
cibo, permette il passaggio dal cibo-natura, cioè consumato come natura fornisce, al cibo-cultura, cioè modificato dall’intervanto umano.
1
Cfr. HARRIS M., Buono da mangiare, Einaudi Editore, Torino, 2006; Cfr. LIVI BACCI M., Popolazione e alimentazione. Saggio sulla storia demografica europea, Il Mulino, Bologna, 1993. 2
Cfr. MONTANARI M., Il cibo come cultura, Editore Laterza, Bari, 2004.
11
Possiamo ora differenziare il cibo modificato dall’uomo da quello
naturale degli animali attraverso la discriminante prometeica del fuoco che sancisce la nascita della cucina , intesa come l’insieme delle pratiche
per la preparazione degli alimenti. «Cucinare è attività umana per
eccellenza, è il gesto che trasforma il prodotto di natura in qualcosa di
profondamente diverso: le modificazioni chimiche indotte dalla cottura e
dalla combinazione degli ingredienti consentono di portare alla bocca un cibo, se non totalmente artigianale, sicuramente costruito»3.
La cultura allora interviene sulla natura, rendendo, ad esempio,
commestibili cibi che naturalmente non sarebbero tali. Arrostire la carne diventa quindi l’inizio del mutamento simbolico che il cibo subisce.
Per Claude Lévi-Strauss il cibo e la cucina costituiscono un campo
interessante in due sensi: 1) la cucina permette di raggiungere una
comprensione della cultura e dalla società che la pratica. In questo senso
la cucina costituisce il linguaggio nella quale la società trasferisce le
proprie credenze, istituzioni e strutture; 2) inoltre, la cucina, rivela le
strutture fondamentali del pensiero umano, collocandosi così lo studio
3
Cfr. MONTANARI M., Il cibo come cultura, Edizioni Laterza, Bari, 2004.
12
della cucina di rivelare quell’affinità (quasi identità) che esisterebbe tra strutture profonde della mente e strutture della società4. Mary Douglas condivide l’intento di Lèvi-Strauss di identificare i meccanismi che
determinano i gusti e le scelte, ma non si aspetta che tali meccanismi siano universali, bensì varino da una cultura all’altra. In relazione con
questo punto di vista, Mary Douglas ha sviluppato un tipo di analisi che non tiene solo conto dei cibi singolarmente presi ma di intere “sequenze di cibi”, cercando di mettere in relazione i cibi e i piatti che compongono i diversi pasti nell’arco della giornata5. Mutamento esplicabile attraverso
la diversa funzione alla quale il cibo ottempera: esso non è più
soddisfacimento di un bisogno esclusivamente di tipo fisiologico. Il
divenire natura- cultura prosegue sulla via della differenzazione culturale nelle varie popolazioni fino all’avvento dell’agricoltura. Nelle formazioni sociali che si originano dal nuovo assetto economico causato dall’avvento dell’orticultura prima e dall’agricoltura poi, inizia
una produzione
alimentare in eccesso rispetto alla domanda di sostentamento della
popolazione. Il cibo, diventando così disponibile in quantità maggiori, 4
Cfr. LÈVI-STRAUSS C., Antropologia Strutturale, il Saggiatore, Milano, 2009. Cfr. DOUGLAS M., Purezza e Pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il Mulino, Bologna, 2003. 5
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determina
un sostanziale accrescimento demografico. All’aumento
quantitativo della popolazione segue, un sostanziale cambiamento
qualitativo: «il surplus alimentare è essenziale per la nascita e la
proliferazione di quelle figure sociali non dedite in permanenza alla
produzione di cibo, figure che la popolazione, soprattutto nomade, non può permettersi»6. Percorrendo l’arco temporale che ci porta fino al
Medioevo, si nota un notevole accrescimento nel consumo di alimenti carnei, l’allevamento e la pastorizia acquistano un ruolo di primo piano nell’economia feudale, nonostante i prodotti cerealicoli ricoprano un
ruolo determinante per il sostentamento dei ceti meno abbienti. Le
abitudini alimentari medievali sono sancite di fatto da un sistema di produzione denominato “agro-silvo-pastorale” che vede, al fianco dell’agricoltura, il ritorno ad un utilizzo dell’ambiente come fonte naturale di sostentamento. L’epoca medievale è di fondamentale importanza per l’introduzione di una categoria di alimenti che
stravolgono completamente le abitudini e i gusti precedenti, con echi che si ripercuotono fino ad oggi: le spezie. Non è tanto l’elemento in se, ma
6
Cfr. DIAMOND J., Armi ,acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi trentamila anni, Einaudi, Torino, 2000, pag.65.
14
l’uso che ne viene fatto a sancire l’importanza delle spezie nella cultura medievale. Sale e pepe sono l’emblema delle diverse funzioni alle quali assolvono: conservazione e sapidità. L’importanza delle spezie, per il
discorso qui affrontato, è data dal crescente valore simbolico nel contesto
socio-culturale. Il pepe è simbolo di appartenenza di classe, di potere e
ricchezza prima che un elemento dalle proprietà aromatiche; esso è espressione di benessere da ostentare7. Il piatto medievale si arricchisce
così di sapori intensi, piccanti, uniformi in proporzione alla ricchezza dell’ospite che lo propone ai suoi commensali. Questo è l’inizio di un
processo che assumerà grandezze mondiali, grazie alle scoperte
geografiche e al conseguente sfruttamento delle nuove rotte commerciali.
Le Goff, storico francese e studioso della storia e della sociologia del
Medioevo, chiarisce il rapporto tra cibo e società medievale indicando il cibo come “occasione per gli strati dominati della società di mostrare la propria superiorità esprimendo un comportamento di classe”8. I conflitti
si intensificano in epoca rinascimentale per il controllo per le vie del
7
Il sale veniva utilizzato anche come moneta. In un breve e divertente saggio il pepe è considerato la vera causa dello scontro tra Cristianesimo ed Islam per la ghiottoneria di un abbate. Cfr. CIPOLLA C. M., Allegro ma non troppo, Il Mulino, Bologna, 1988. 8 LE GOFF J., La civiltà dell’occidente medioevale, B. Arthand, Paris, 1981.
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commercio terrestre e marittimo con l’Asia prima e con il Nuovo Mondo
poi. I monopoli di importazione delle spezie e di prodotti alloctoni in Europa permettono l’introduzione di elementi culinari nuovi, rari, esotici
e molto costosi, dando vita ad un’ ulteriore differenzazione nelle abitudini alimentari e originando così un nuovo fenomeno di “contaminazione del gusto”. L’introduzione in epoca medievale, di elementi nuovi, ricercati e
apprezzati, soprattutto dai ceti più abbienti, crea una seconda selezione
gustativa culturalmente orientata e fortemente simbolizzata. In altre
parole, il cibo perde parte dei suoi connotati determinati in senso
ambientale, per obbedire ora a criteri principalmente simbolici e
sensoriali. Il nuovo cibo ha però, anche ora, una genesi dettata dalla
cultura, la volontà di sapori lontani, diversi e quando mai costosi è,
ancora
una
volta,
esigenza
culturale,
basata
sull’esclusività
dell’ingrediente esotico. Una necessità prima dell’intelletto e poi dello
stomaco. Mentre però, il ceto abbiente esaspera i suoi sensi con
abbondanti effluvi piccanti e colorate varietà frutticole, i poveri
continuavano a ridurre i morsi della fame con alimenti di riempimento
quali cereali, patate e legumi. Con la diffusione di prodotti prima
16
considerati elitari e la successiva massificazione si perde la funzione
simbolica a vantaggio di un cambiamento culturale di portata più ampia.
Risultato di questa evoluzione alimentare, risultato ancora in atto oggi,
anche se in termini differenti, è la pasta con il pomodoro: nata da
connubio tra cereali da macina, e bacche succose, importate, è elevata ad
emblema della cucina italiana. La strutturazione e la diversificazione,
illustrate fino ad ora, che le popolazioni hanno subito nel corso del tempo generano da un lato l’insieme delle proibizioni, dall’altro delle
preferenze, infine dei gusti alimentari che connotano culturalmente con
sempre maggiora insistenza il cibo e le abitudini culinarie. Tutto avviene
a causa dei condizionamenti che riguardano tanto la sfera economica
quanto quella ambientale e territoriale, e che spesso vengono mascherati da motivazioni religiose, precetti sacri a quali è vietato opporsi 9. Maiali e vacche sono animali commestibili per l’uomo e occupano in posto di
rilievo nella tavola di molti individui appartenenti a culture diverse. Nei
paesi di fede mussulmana, e non solo, il maiale è considerato immondo e
9
L’antropologo Harris Marvin (1992) sostiene una visione di tipo materialista che qualsiasi forma alimentare che coinvolge anche altri ambiti alimentari quali la religione e la politica, ha le sue cause più remote nel contesto economico- ambientale in cui si sviluppa con la norma stessa. Essa dipende dunque dall’analisi costi/benifici.
17
ne è vietato il consumo. Analogamente, ma in senso opposto, la vacca è per i fedeli Indù l’incarnazione di numerose divinità, ne è vietato il
consumo e la macellazione sia da imposizioni religiose, sia da leggi dello stato federale indiano10. Per quanto riguarda il divieto al consumo della
carne di maiale, numerose e antiche sono le indicazioni contenute all’interno dei testi sacri di religione diversa. Il maiale è l’unico animale esplicitamente proibito dal Corano11, mentre nel Levitico12, viene descritto come “immondo” a causa della sua propensione a nutrirsi di feci
e a rotolarsi nel fango. Il divieto al consumo della carne di maiale appare
difficilmente spiegabile in ambito economico : al contrario della vacca, il
maiale si produce con più velocità , ingrassa velocemente, produceva,
insomma, più carne.
10
L’articolo 48 della sezione della Costituzione Federale Indiana intitolata “Principi direttivi della politica statale”, vieta la macellazione di animali da latte e da tiro. Cfr. HARRIS M., op. cit., 2006. 11 «In verità Iddio vi ha proibito gli animali morti, il sangue e la carne di porco» (Corano II,173). Vedi HARRIS M.,.op. cit., 2006. 12 «Delle carni di questi animali non vi ciberete e non toccherete loro i corpi morti perché sono immondi per voi» (Levitico, XI,8,24); «Degli animali mangerete tutti quelli che hanno lo zoccolo fesso e ruminano» (Levitico, XI,3). Vedi HARRIS M., op. cit. 2006.
18
Figura 2 – Scorcio di un maiale in un porcile
La sua natura di “animale sporco” ha dato credito alle prescrizioni
alimentari di origine religiosa, come ovvia conseguenza del fatto che si
commette peccato nutrendosi di una bestia peccatrice; in aggiunta a ciò si
è considerata a lungo che la carne di suino fosse portatrice di malattie. L’ipotesi avanzata da Harris permette di spiegare in termini economici e
ambientali il tabù della carne di maiale. In effetti il maiale è un grande
produttore di carne, ma solo di quella, al contrario dei bovini ovini e caprini che producono almeno un derivato, e quindi hanno un’ utilità
alimentare anche da vivi, il maiale non è utile al lavoro nei campi, non è
adatto alla sopravvivenza nelle zone aride (e ciò spiega la necessità di
rotolarsi nel fango per abbassare la temperatura corporea), non produce
cibo se non viene ucciso. Non ricopre quel ruolo fondamentale nell’agricoltura e per l’economia che invece investe la vacca indiana.
19
Il maiale è un competitore ambientale dell’uomo, si nutre degli stessi alimenti e rifiuta quelli incompatibili biologicamente per l’uomo. Mentre
vacche, pecore, capre e pollame si nutrono di arbusti, foglie ed erba che l’uomo non utilizza, il maiale necessita di alimenti compatibili con la
dieta umana poiché il suo metabolismo è molto simile a quello del suo
allevatore. A questo punto si comprende come il maiale sia meno conveniente di altri animali in un’analisi di semplici costi e benefici.
Il fatto poi che la razza suina sia poco adatta ai climi aridi in cui sono
sorte le religioni, ebraica prima e islamica poi, che lo rifiutano ha origine
analoga, ma di segno opposto, alla sacralità della vacca come mezzo
universalizzazione spazio-temporale del divieto del suo consumo alimentare. Gli esiti possibili dell’approccio strutturalista sono esplicati dall’interpretazione che Mary Douglas dà del tabu ebraico relativo alla
carne di maiale: sostenendo che tale divieto è da collegarsi ad un’anomalia tassonomica. La cultura ebraica opera infatti una
classificazione delle specie animali atta a collocare ciascuna di esse all’interno di una delle tre categorie fondamentali poste dalla Genesi, cioè
terra, acqua e cielo; gli animali che non si collocano chiaramente in
20
nessuna delle tre categorie sono considerati impuri. All’interno di
ciascuna delle tre sfere la classificazione si articola in maniera capillare. Nel caso del maiale l’impurità deriva dal fatto che si tratta di un animale
con zampa unghiata e zampa fessa, ma che a differenza della maggior parte degli animali che presentano queste caratteristiche non ruminano13.
Questo breve e parziale excursus ci ha permesso di trattare come
elemento culturale qualcosa che a prima vista sembra appartenere ad altre sfere di influenza. È allora evidente che il cibo nel corso dell’evolversi
delle vicende umane assume una sempre più forte connotazione culturale
poiché implica una progressiva differenzazione sociale, economica,
politica e religiosa. Ora, differenzazione implica identificazione: la
propria cultura è tale perché in opposizione ad un’altra, in quanto
differente. Non vi è identità senza alterità. Il cibo, contemporaneamente
soggetto e oggetto del divenire culturale, assurge a elemento di forte
identità accanto alla lingua, alla religione, ai costumi, garantendosi uno
13
Cfr. DOUGLAS M., op. cit., 2003.
21
status indipendente da altre categorie culturali. Potremmo allora affermare: “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”14.
2. Cibo, Rito, Rituale.
Un tipo di pratica strettamente connessa al cibo è quella relativa alla macellazione, e alla spartizione della carne, come ambito in cui l’aspetto rituale raggiunge un livello di notevole visibilità ed è quindi più facilmente analizzabile e comprensibile. Fishler si sofferma lungamente su questo genere di pratiche realizzate distinguendo tra i riti direttamente rivolti a “trattare” la carne rendendola innocua, pura e commestibile, e quelli dedicati alla distribuzione della carne tra i membri del gruppo15. Fishler riporta numero esempi tratti dalla ricerca delle società primitive che dimostrano la varietà e la complessità dei riti collegati all’uccisione di un animale per scopi alimentari. Esempi tratti da ricerche condotte su società culturalmente distanti dimostrano, che esiste una notevole omogeneità nel rapportarsi e nel trattare l’arma con il quale l’animale viene ucciso; tale arma, molto spesso, viene gettata o distrutta in quanto considerata colpevole dell’uccisione. Questa pratica ha come scopo 14
Espressione coniata nel 1826 da Anthelme Brillat-Savarin con un’accezione individualistica relativa al comportamento. È qui utilizzata in senso collettivo in relazione all’appartenenza ad una realtà culturale. Cfr. MONTANARI M., op. cit., 2004. 15 Cfr. FISCHLER C., L’Homnivore: Le Goût,la cuisine et le corps, Éditions Odile Jacob, Paris, 2001.
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quella di sgravare l’uomo, che ha scagliato la freccia o che ha sferrato il colpo, dalla responsabilità dell’uccisione e da possibili vendette divine che tale atto potrebbe scatenare16. L’esempio della macellazione suggerisce la centralità culturale che le pratiche alimentari posso avere e il loro carattere “globale”. Jean Canzeneuve nella prima parte del suo “Sociologie du rite”, del 1971, fornisce una prima definizione di rito inteso come “un atto individuale o collettivo ma che, sempre, resta fedele a determinate regole che, precisamente, costituiscono ciò che vi è di rituale”17. Partendo da questo tratto, il carattere rituale delle pratiche alimentari implica di collocare in uno schema interpretativo ampio quelli che risultano essere due aspetti fondamentali della pratica alimentare stessa: la sua staticità, la sua attitudine a rimanere relativamente invariante nel tempo, “l’attaccamento affettivo” della pratica alimentare stessa, riscontabile anche nel mangiatore moderno18. La seconda caratterizzazione che Cazeneuve offre si attiene alla valutazione del rito stesso. Spesso si utilizza il termine rito per intendere una pratica “che non è indispensabile, che non ha utilità positiva osservabile e che si compie per abitudine, per adeguarsi alla tradizione19”. Il punto fondamentale non è tanto se il rito sia o non sia utile, ma se piuttosto sia concepito come 16
Cfr. FISCHLER C., op. cit., 1990. Cfr. CAZENEUVE J., Sociologie du rite (tabou, magie, sacré), Presses Universitaires de France, Paris, 1971, pag. 13. 18 Cfr. FISCHLER C., op. cit., 2001. 19 Cfr. CAZENEUVE J., op. cit., 1971, pag. 17. 17
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efficace. E ciò ci porta ad interrogarci sul “senso” delle pratiche e dell’esperienze dei soggetti in questione. Corbeau sostiene che i comportamenti legati al cibo intendono sottolineare con ciò la globalità dell’atto culinario: “Apprendere la sciabilità a partire dalle pratiche alimentari permette di osservare una molteplicità dei rituali. Il carattere privilegiato di questo di questo terreno si afferma con maggiore forza se si considera “il mangiare” come un fenomeno sociale totale che inizia con la decisione di produrre il tale tipo di alimento piuttosto che tale altro, per arrivare fino all’immaginario legato alla digestione, alle impressioni trasmesse con la commensalità e ai discorsi che la presiedono”. Lo studio della totalità dei comportamenti alimentari si ricongiunge alla nozione di “trafila” 20.
3. Cibo e Commensalismo. L’importanza delle pratiche di convivialità, quando si parla di cibo in una prospettiva sociale, è un argomento ampiamente riconosciuto e discusso nella letteratura sociologica e antropologica. La relativa facilità con cui il cibo, in relazioni alle pratiche di commensalismo, ha trovato posto nelle scienze sociali è legata alla prossimità con i tempi propri sugli studi della 20
Cfr. CORBEAU J. P., “S’alimenter a l’hopital:les dimensions cachées de la commensalitée”, in L’appetit vient mangeant!, Histoire de l'alimentation à l'hôpital XVe-XXe siècles, APHP/Doin, Paris, 1992, pag. 101.
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comunità sui fondamenti della solidarietà e del legame sociale fioriti nel diciannovesimo secolo. Fondamentali in questo senso sono le teorie di Comte, Durkheim, Spencer e Simmel. Molti di questi studi analizzano le pratiche di commensalismo per le loro relazioni funzionali con le istituzioni. “Almeno fino all’inizio del seicento – scrive Flandrin- non si pensava che le persone sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi, bere le stesse bevande. Oliver de Serre, per esempio, consigliava al suo gentiluomo di campagna di fornirsi di vino di qualità inferiore per gli ospiti di bassa condizione, che avrebbe potuto accogliere alla sua tavola, per risparmiare il vino buono e conservarlo per sé e per i suoi ospiti di riguardo” 21. Si possono dunque distinguere varie pratiche di commensalismo, che cambiano da una società all’altra nel corso del tempo. Gi invitati ad un banchetto posso sedere tutti allo stesso tavolo e mangiare gli stessi cibi, come accade normalmente nell’Europa del Seicento in poi, oppure, come nella descrizione di Flandrin, alle persone che siedono allo stesso tavolo possono essere serviti cibi diversi in base alla loro posizione sociale; o ancora come è ampiamente documentato dalla letteratura antropologica, possono essere allestiti diversi tavoli ai quali vengono serviti diversi cibi nell’ambito della stessa cerimonia-
21
Cfr. FLANDRIN J. L., MONTANARI M., (a cura di), Histoire de l’alimentation, Fayard, Paris, 1987, pag. 209.
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pasto22. Si tratta di un sistema di credenze che fa sì che il pasto possa essere
condiviso
con certe
persone, secondo certe regole
di
comportamento e certe modalità, o che non possa affatto essere condiviso con altre persone ancora. La condivisione del cibo sembra svolgere una funzione di pacificazione o – in termini più generali - di socializzazione: “consumando insieme un pasto si sancisce un rapporto di equivalenza tra i commensali, la tavola stabilisce legami di “ parentela di pappa”, che rafforzano e completano i legami di sangue”. Il cibo consumato insieme è simbolo di pace, tant’è vero che un pasto fraterno riunisce i clan che si riconciliano”23. Il pasto diventa dunque un atto sociale fondamentale nella misura in cui ai commensali viene data la possibilità di sperimentare, di fare una specie di “prova generale”, di quelli che sono i rapporti sociali all’interno di un gruppo, o più in generale, all’interno dalla società a cui appartengono; l’accettazione delle regole imposte durante il pasto implica l’accettazione dei rapporti sociali e della gerarchia tra i commensali anche quando il pasto sarà terminato. Come nella Grecia classica, quando per i banchetti a base di carne, “l’animale sacrificato veniva fatto a pezzi e mangiato durante il corso di un banchetto rituale in cui ciascuno riceveva una parte di carne conforme allo statuto nelle Città. La parte di
22
Cfr. DE GARINE I., Pour une antropologie de alimentation, L’homme. IX,4, pp. 125 – 126. 1969. Culture et Nutrition (Alimentation et Adaption).31, pp.70 – 92. 23 Cfr. MOULIN, 1975, pag. 8.
26
carne che il cittadino riceve durante il banchetto sacrificale è letteralmente l’incarnazione del suo statuto politico e sociale”24.
4. Tra nostalgia ed identità.
Il cibo in definitiva si comporta come vero e proprio strumento di riappropriazione identitaria nel momento in cui questa venga a mancare, è il ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi. Pensando agli esodi di massa nell’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento, verso Brasile, Argentina, Uruguay prima e Stati Uniti poi, di milioni di italiani, di contadini e artigiani del Nord-Est e del Mezzogiorno, con un forte legame alla terra che lavoravano ed ai suoi prodotti, l’antropologo Vito Teti parla di nostalgia dei sapori perduti. « Il cambiamento d’aria e il diverso tipo di cibo contribuivano non poco al desiderio perpetuo e inesauribile di tornare al luogo natio. Non erano rari, infatti, i casi di morte da nostalgia. All’ammalato bastava accennare alla possibilità di ritorno e già manifestava segni di guarigione. Mangiare come nel luogo di origine ha contribuito, in qualche modo, a placare le nostalgia come se insieme al cibo e alle abitudini alimentari si fossero portati con se nel
24
Cfr. FISCHLER C., op. cit., 1990.
27
nuovo mondo anche la casa, l’orto, i familiari, gli amici»25. Il cibo mantiene vivo il legame con la cultura di origine, in modo vivo perché diretto, immediato, fisico; proprio perché sensibilmente percepito in maniera istantanea si crea un punto di contatto concreto con ciò che in realtà è lontano mesi e chilometri. Il cibo, infatti, può essere esperito dall’individuo attraverso l’utilizzo di tutti i cinque i sensi : ha un odore, un colore, un gusto, un aspetto e un suono, quando ad esempio, lo si cucina friggendolo26, e ciò gli permette di essere sperimentato direttamente. Quasi materializzazione di un’immagine spirituale, il cibo «evoca e in qualche modo presentifica un luogo antropologico, fatto di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni. Attraverso il mangiare si snoda, si consuma, si risolve, talvolta si rafforza la nostalgia del luogo di provenienza»27. Il cibo è evocativo di luoghi, persone e relazioni in quanto è frutto di riflessioni, modificazioni, creazioni, artifici che lo rendono elemento culturale. Esso serve dunque a dare sostentamento non solo allo stomaco, ma, soprattutto, al cervello. Oltre al gusto esprimono uno stesso significato le modalità di preparazione e di consumo: sono quelle gestualità ripetute quotidianità sistematica che attorniano il pasto, inteso qui come azione collettiva. Preparare e offrire da mangiare hanno, nel contesto migratorio, lo stesso fine culturale dell’atto vero e proprio di 25
Cfr. TETI V., Il senso dei luoghi, Donzelli editore , Roma, 1999, pag. 84. Cfr. LUPTON D., 1999. 27 Cfr. TETI V., op. cit., 1999, pag. 84. 26
28
mangiare28. Si pensi ad esempio al rituale della preparazione e dell’offerta del tè nei paesi arabi o in Giappone. All’interno delle nostre realtà alimentari non è importante solo quello che mangiamo, ma anche in che modo lo facciamo, come, con chi e dove. Il mangiare insieme, che comprende la preparazione oltre che al consumo del cibo, acquista un valore identitario nella misura in cui crea una frattura spaziale: non ci si trova più in un altro Paese ma in una proiezione temporale del proprio, per cui gli individui si sentono in un ambiente familiare. È quindi corretto affermare che il cibo sia in grado di soddisfare diverse funzioni, tra cui quella curativa dell’animo, in quanto l’uomo oppresso dalle conseguenze psicofisiche della migrazione arrivi a vivere uno stato definito shock culturale. Il pasto funge da rimedio psicologico attraverso l’assunzione di alimenti di forte sapore culturale: masticare una pietanza libera i sapori insiti nell’alimento, sprigiona gli umori che attraverso le papille gustative inviano impulsi piacevoli ai recettori dislocati nel cervello e, contemporaneamente, libera l’individuo dalle costrizioni imprescindibili per l’adesione al nuovo contesto culturale. Prendendo in prestito le parole rivelatrici di Plinio: «non c’è nessuno che non trovi nel cibo un lenitivo alla propria ira, afflizione, tristezza e a tutte le passioni;perciò bisogna considerare ciò che esercita un’azione terapeutica non solo sul fisico, ma
28
Cfr. MABILIA M., 1991.
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anche sul morale»29. Ira, afflizioni, tristezza, rientrano appieno nelle manifestazioni dello shock culturale.
5. La vittima designata. L’uccisione e la conservazione del maiale era, e per alcuni versi ancora è, in Lucania, più che un tradizione, una vera istituzione. Dico era perché purtroppo questa tradizione va scomparendo con l’avvento, anche in Lucania, dell’industria che sta soppiantando la lavorazione casereccia del maiale. Il sorgere di vari salumifici e l’allevamento industriale del maiale, nonché l’osservazione più stretta dell’igiene, hanno fatto sì che l’allevamento domestico, ogni famiglia allevava due o tre maiali l’anno, viene relegato solo nelle campagne dove esiste ancora qualche insediamento rurale. Questa evoluzione industriale, però, reca danno alla qualità dei salumi. Sono infatti
da considerarsi rare le buone
“soppressate” di una volta, belle e rosse. I motivi della diversa qualità del prodotto finito risiedono nel diverso tipo di cibo somministrato agli animali, nel tipo di razza suina allevata, nel differente sistema di lavorazione della carne. Il maiale di allevamento per uso industriale è il risultato di incroci ibridi di provenienza anglosassone, mentre il maiale di
29
Vedi PLINIO G. P., Storia naturale, XXII, Einaudi, Bologna, 1982, pag. 52.
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Lucania, è un animale allevato allo stato semibrado, somiglia molto al cinghiale. I maialini, generalmente venivano acquistati nelle fiere di mezz'agosto che si svolgevano in molti paesi. Queste fiere erano prevalentemente mercati di bestiame dove accanto alla compravendita di animali si effettuava anche quelle di prodotti e sementi per l'agricoltura, terraglie ed utensili per la casa e la campagna, ivi compreso tutto l'occorrente per l'uccisione del maiale e la conservazione dei suoi prodotti. Una volta acquistato il porcellino veniva accompagnato a casa, a piedi, trainato tramite cordicella legata attorno al collo ed alloggiato nella “zimba” o porcilaia assieme ai maiali più grandi. Nella scelta del maialino ci si affidava forse più alla buona sorte che non ad un'analisi accurata delle bestiole in vendita. Il porcellino entrava nella porcilaia a due mesi di vita circa, dopo qualche giorno veniva castrato dallo stesso contadino o dal castratore.
• Il cibo somministrato nei primi sei-sette mesi di vita è costituito da cibi a basso valore nutritivo: acqua e crusca, resti di cucina, scarti di verdura, frutta e quant’altro avanza dalla mensa. Solo negli ultimi tre mesi che precedono la sua uccisione il cibo è ad alto valore nutritivo e viene somministrato in modo intensivo. Alla “brodata” del mattino (acqua calda leggermente condita), viene aggiunto farinaccio o farina di orzo o di avena; segue ogni due o tre ore frutta secca, ghiande, castagne, ceci,
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granturco, fave. Quando il maiale ha raggiunto il peso e l’aspetto desiderato (il peso si aggira intorno ai 150-200 e anche 250 kg) esso è “maturo”, cioè pronto per essere macellato. Naturalmente la maturazione coincide con il periodo dell’anno adatto per la conservazione delle carni. I mesi adatti sono: dicembre, gennaio, febbraio; prima o dopo tali mesi è sconsigliabile “fare il maiale” pena la riuscita dei salumi . I preparativi per l’uccisione del maiale richiedono circa una settimana di tempo; la buona massaia sa che tutto quello che occorre deve essere reperibile in tempo e nel luogo giusto. Fa bollire le “lancelle” (anfore simili a quelle dell’antica Grecia che si usavano per il vino o per l’olio) nella liscivia con l’aggiunta di sola cenere di legna, senza alcun detersivo; esse dovranno contenere lo strutto, le “frittole” e ogni altra cosa conservabile. Non viene fatto uso di nessuno contenitore metallico, ma solo di argilla cotta. Per sino gli strofinacci saranno di bucato. La sterilizzazione deve essere totale, altrimenti si potrebbe compromettere la conservazione della carne. Il maiale viene lasciato a digiuno per 24 ore quindi ha inizio il rituale per l’immolazione. Si avvertono gli uomini che dovranno tener ferma la bestia quando sarà scannata, si avverte lo scannatore specializzato, si avverte perfino il calzolaio che verrà ad estirpare le setole delle spalle che si presentano meglio dell’ago per il refe grosso ed incerato per la cucitura a mano del cuoio. Un grosso calderone colmo di acqua bolle già in un
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angolo. Ăˆ pronta anche una grossa fune per legare le quattro zampe ed una funicella sottile per legare il muso.
Figura 3 - Il muso del maiale viene legato con un piccola funicella.
Figura 4 - Steso su un piano, posto a pancia in su, le quattro zampe gli vengono bloccate con una grossa fune.
6. La morte. Il lavoro. La festa.
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• Ad un cenno dello scannatore il maiale viene rovesciato su di un piano rialzato che può essere una grossa panca o una balla di paglia. A questo punto lo scannatore stesso grida agli istanti: «salute!» e impugnando un coltello lungo a lama sottile e acuminata, lo “scannatur”, (scannatoio) lo immerge nella gola del maiale.
Figura 5 - Lo “scannaturo”. Coltello lungo e sottile pronto per essere immerso nella gola dell’animale.
• L’operazione, man mano, si fa difficile e delicata; il coltello viene immerso lentamente nella zona carotidea in modo che il sangue possa scorrere altrettanto lentamente ed in maniera totale.
Figura 6 - Raccolta del sangue utilizzato per fare il sanguinaccio.
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• Esaurito quello del corpo si provvede al sangue della testa, cercando con cautela la vena giugulare onde evitare squarci antiestetici nel collo del maiale.
• Quando il sangue ha finito di sgocciolare, un rantolo, un ultimo strattone ed il maiale è veramente morto. Lo donne molto velocemente portano l’acqua bollente da spandere sul cuoio finché questo, diventato molliccio, si presta bene alla “spellatura” che viene eseguita con adatti coltelli. Figura 7 - Con acqua calda, coltelli particolari e pazienza ci si prepara alla “ spellatura”.
• Il cuoio viene raso e grattato finché non assume un aspetto candido. Vengono praticati due fori nei tendini delle zampe posteriori nei quali viene introdotto un apposito legno detto: «gambello» e l’animale può quindi essere issato al soffitto.
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Figura 8 - Le zampe posteriori vengono conficcate all’interno del “gabello” e il maiale viene così issato al soffitto.
• Si procede al definitivo lavaggio con limone e sale per eliminare la peluria residua ed il “tarchio” (macchie di sporcizia sfuggite al pelaggio). Con occhio esperto l’uomo addetto procede alla spaccatura in due del maiale: le cosiddette “menzine”, avendo cura di non ledere gli organi interni: budella, fegato, cuore, ecc... Completato lo svuotamento si procede alla divisione dei vari pezzi.
Figura 9 - Le zampe posteriori vengono conficcate all’interno del “gabello” e il maiale viene così issato al soffitto.
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Figura 10 - In mancanza di strumenti per la conservazione, come il frigorifero, per non danneggiare la carne, si sfruttava la temperatura climatica del periodo.
•
Per prima cosa si preparano le interiora che vanno subito lavate con acqua corrente. Esse saranno utilizzate per confezionare gli insaccati. Gli intestini sottili serviranno per le salsicce, quelli più grossi per le soppressate, ed infine il colon per l’ “orva” (dal latino “orbus”, parte dell’intestino). Quest’ultima è la regina delle soppressate, è la più grossa di tutte, è confezionata con carne scelta, ed è il salame consumato per ultimo nell’anno successivo nel corso di eventi importanti come la trebbiatura. Nella lavorazione del maiale nulla si perde. Ogni parte del suo corpo ha la sua utilizzazione: la carne grassa per le salsicce, la carne magra per le soppressate. Le parti facciali e il “vuccularo”, precedentemente staccati dalla testa e immersi sotto sale per una settimana , vengono anch’essi appesi come i salami. Il sangue viene utilizzato per il sanguinaccio la cui confezione richiede un’abilità particolare. Restano
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tutte le altri parti come la testa, il cuore, i reni, i gamboni, le frittole alla cui lavorazione segue la grande tavolata chiamata: “alle ossa”. Ad essa vengono invitati tutti coloro che hanno preso parte alla macellazione ed alla lavorazione, non solo, ma anche gli amici ed i parenti. Essa costituisce la “Festa del maiale” ed è la nota più lieta e conclusiva di una delle attività rurali più attese soprattutto perché la macellazione del maiale vuol dire sostanzioso e duraturo approvvigionamento di cibo per la famiglia. Il giorno dell’uccisione solitamente si cucinava per primo della pasta, solitamente “ziti” spezzati a mano conditi con sugo di pomodoro nel quale era stato fatto cuocere per diverse ore un gallo appositamente allevato e che aveva sempre più di un anno di età. Per secondo, carne del gallo e nelle famiglie più “abbienti” veniva aggiunto il coniglio ripieno. Per dolce si mangiavano le “sfogliatelle” (sfoglia di pasta ottenuta impastando acqua farina zucchero uova e sugna, tagliata a strisce e poi avvolte a spirale, fritte in abbondante olio e spalmate con il miele).
7. Il Sanguinaccio e la Soppressata. •
Il giorno dopo si preparava il sanguinaccio a base di sangue del maiale raccolto il giorno dell’uccisione e mescolato ancora caldo con la mano nuda affinché non si potesse rapprendere. Gli ingredienti base erano
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sangue, riso, uva sultanina, zucchero, succo di mandarino e sfoglia ottenuta dall’impasto di farina e acqua.
Figura 11 – Il Sanguinaccio
Il terzo giorno veniva dedicato alla lavorazione della carne. Dopo aver “sfasciato” il maiale le donne sedute intorno ad un piano di legno sceglievano la carne selezionando quella più rossa per le salsicce e quella più magra e rosa, prevalentemente filetto, per fare la soppressata.
Figura 12 – La Soppressata
• Salume tradizionale originario di Rivello, insaccato a impasto crudo, talora leggermente affumicato, stagionato per un periodo di 3 mesi.
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Presenta la forma grossolanamente cilindrica irregolare e compresso in senso laterale, solcata longitudinalmente sulle facce dal tracciato della corda. Ha mediamente dimensioni di 12-20 centimetri di lunghezza per 48 di diametro. Il peso varia con la pezzatura ed è indicativamente compreso Presenta
tra superficie
100
e
irregolare
longitudinalmente
di
400 colore
ai
marrone, due
grammi. solcata lati.
Al taglio appare un impasto a grana fine di colore rosso mattone scuro con
poca
parte
grassa
di
colore
bianco.
• INGREDIENTI : Tagli di coscia e lombata Lardo Sale Pepe in grani colon naturale suino FASI DEL PROCESSO : 1) Mondatura delle carni 2) Taglio fine delle carni e del lardo a punta di coltello 3) Preparazione della concia 4) Aggiunta della concia alle carni 5) Miscelazione manuale di tutti gli ingredienti fino a impasto omogeneo
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6) Trasferimento in insaccatrice 7) Insacco 8) Pressatura per 24 ore 9) Legatura a mano 10) Asciugatura per 40 giorni a 20 °C con eventuale affumicatura a 14-16 °C fino a circa 3 mesi.
8. Ricette tradizionali. U’ suffritt’.
Ingredienti: Fegato, polmoni, milza, reni, cuore, piccoli pezzi di carne, sugna, pepe nero in grani e macinato.
Procedimento: Si tagliavano a pezzetti tutte le frattaglie, scegliendo le parti migliori, e si mescolavano. Dopo, venivano messe a cuocere in abbondante sugna per circa un’ora e mezza. A fine cottura veniva aggiunto pepe nero e sale quanto bastava. Tutto il contenuto, frattaglie e sugna allo stato liquido, veniva versato in un recipiente di terra cotta. Era necessario che la sugna ricoprisse completamente le frattaglie. Una volta che la sugna si era solidificata era importante che il recipiente fosse coperto con un foglio di carta oleata. Il recipiente veniva conservato in un
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luogo fresco e asciutto. In occasione della preparazione della polenta ne veniva prelevata una modica quantitĂ , che serviva, una volta sciolta la sugna in una padella, da condimento.
U’ quorie buttit’.
Ingredienti: Cotica, schegge di formaggio, aglio, prezzemolo, pepe nero in grani, pezzetti di carne di maiale magra.
Procedimento: Veniva utilizzata la cotica del dorso del maiale. Accuratamente lavata e ripulita dalle setole, tagliata a strisce, stesa su un tagliere veniva riporta da schegge di formaggio pecorino, grani di pepe nero, foglie di prezzemolo, spicchi di aglio e tocchetti di carne magra. La striscia veniva arrotolata con dentro gli ingredienti e legata con uno spago. Dopo aver preparato una quantitĂ di questi involtini veniva presa la sugna, fatta sciogliere in una pentola, solitamente un paiolo di rame , messa sul fuoco e portata ad ebollizione. Una volta portata ad ebollizione venivano calati gli involtini e fatti cuocere a fuoco lento, con poca legna sotto al paiolo, per circa due ore. A cottura ultimata gli involtini venivano adagiati in un contenitore, solitamente un vaso di creta smaltato, e ricoperti dalla sugna liquida. Una volta coagulatasi la sugna, il vaso veniva chiuso con un foglio di carta oleata assicurata al vaso con uno spago. Il tutto veniva conservato in luogo fresco e asciutto. In occasione
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di lavori in campagna gli involtini venivano prelevati e messi nel sugo di pomodoro, la sugna si scioglieva e rappresentava il condimento per il sugo, mentre l’involtino era utilizzato come secondo piatto.
Polenta co’ i termini.
Ingredienti: Farina di mais setacciata, sale, pezzi di salsiccia sotto sugna, polvere di pepe rosso essiccato e olio.
Procedimento: In un paiolo di rame veniva messa una quantità di acqua e sale idonea alle porzioni che si desideravano. Il paiolo veniva messo su fuoco e una volta portata ad ebollizione l’acqua, si aggiungeva la farina mescolando con un mestolo di legno, e con l’altra mano si faceva cadere la farina fino a quando non si raggiungeva la consistenza desiderata. La polenta veniva fatta cuocere per circa un’ora me mezza avendo cura di mescolare quasi continuamente. A parte, contemporaneamente, veniva messo l’olio in una padella e prima che l’olio si surriscaldava veniva aggiunto un cucchiaio di polvere di pepe rosso. Dal vaso di creta smaltato venivano estratti i pezzi di salsiccia, generalmente un pezzo a persona, e venivano riscaldati nell’olio e pepe. Una volta terminata la cottura della polenta si preparava un piatto, con un diametro abbastanza grande, utilizzato appositamente per questo cibo e sul suo fondo venivano messi alcuni cucchiai di olio e pepe e qualche manciata di formaggio pecorino
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grattugiato; sopra vi si adagiava la polenta per poi essere condita nuovamente con olio e pepe e una spolverata di formaggio. Nella parte centrale del piatto venivano conficcati i pezzi di salsiccia a mo’ di cerchio. Ognuno di essi fissava il termine entro il quale ogni commensale doveva arrivare a mangiare la sua porzione e prendere il “ termine”.
Minestra di cavolo con osso del prosciutto.
Questo piatto era legato al consumo del prosciutto generalmente dell’anno precedente. Durante l’estate, in occasione della mietitura e della trebbiatura veniva iniziato il prosciutto dell’anno prima. Con il coltello si tagliavano le fette, abbastanza spesse, e alla fine restava solo la parte più inaccessibile al coltello, l’osso e la cotica. Per utilizzare anche queste rimanenze esse venivano bollite e utilizzate come condimento per la minestra di cavolo.
Ingredienti: Cavolo, pepe nero in grani, pezzi di formaggio pecorino, resti del prosciutto e aglio.
Procedimento: Il cavolo veniva accuratamente lavato e lessato. Scolato veniva messo in una pentola con uno spicchio d’aglio, pezzi di carne e cotica, pezzi di formaggio e grani di pepe nero. Veniva fatto insaporire per un’ora e finita la cottura veniva subito servita.
Sugo con battuto di lardo.
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La carenza di piante di ulivo e quindi una scarsissima produzione di olio, esigeva un condimento alternativo che era rappresentato dal lardo del maiale. Pezzi di lardo, principalmente quelli del dorso dell’animale, venivano salati insieme ai prosciutti e tenuti in salamoia per circa quaranta giorni. Successivamente venivano appesi e lasciati curare.
Ingredienti: Lardo, aglio, pomodoro e sale.
Procedimento: Ogni qual volta che si doveva preparare il sugo, la
contadina, tagliava un pezzo di lardo, lo adagiava sopra un tagliere e con
un coltello abbastanza pesante batteva il pezzo di lardo ammorbidendolo
e tagliuzzandolo. Il pezzo di lardo veniva fatto soffriggere in una padella
per alcuni minuti, fino a quando non iniziava a sciogliersi; successivamente si aggiungeva il pomodoro, l’aglio e il sale. Infine il
sugo veniva utilizzato come condimento per la pasta.
Patate con salsiccia grassa.
Ingredienti: Patate, cipolla, salsiccia, sale, polvere di pepe rosso (paprika).
Procedimento: Le patate venivano tagliate a pezzi piuttosto grandi e venivano messe in una pentola con un po’ di acqua, cipolla e sale.
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Venivano fatte bollire lentamente a fuoco lento senza mescolarle. A metà cottura sopra le patate venivano adagiati pezzi di salsiccia grassa e paprika. Cuocendo, il grasso della salsiccia si scioglieva e condiva le patate che venivano servite assieme ad un pezzo di salsiccia.
9. Prodotti e salumi tipici:
Salsiccia.
Ingredienti: Sale, polvere di pepe rosso, semi di finocchietto selvatico, tagli di spalla, resti dal taglio del prosciutto e generalmente altri pezzi di carne muscolosa .
Procedimento: Si selezionava accuratamente la carne, si toglievano le fasce di nervi e le parti più grasse. Dopo, la carne veniva tagliata a pezzettini molto piccoli e una volta ultimata veniva stesa su un grande tagliere. Sopra la carne veniva spolverata uno strato di polvere di pepe rosso dolce, uno strato di sale e semi di finocchietto selvatico. Tutto il composto veniva energicamente impastato a mano. Per accertare la giusta salatura si prelevava una piccola quantità di carne e si friggeva nel padellino. L’assaggio era effettuato da tutte le donne, riservando il primo assaggio alla più anziana che si riteneva la più qualificata ed esperta. Una volta accertato il grado di sapidità si procedeva al riempimento delle budelle. Queste ultime erano state accuratamente lavate e tagliate a pezzi.
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La lunghezza del pezzo veniva determinata dall’altezza del soffitto. Ogni donna era munita di forchetta con rebbi particolarmente appuntiti, di imbuto e di spago. Ogni budella veniva infilata sulla punta dell’imbuto e l’altro capo della budella veniva legata con lo spago. Attraverso l’imbuto la carne veniva spinta nella budella e contemporaneamente veniva punta con la forchetta per fare uscire l’aria. Una volta riempito l’intero pezzo di budella si pressava il più possibile e si legava l’estremità con lo spago. Una volta confezionato il salame veniva appeso al soffitto su bastoni di canna. L’ambienta doveva essere fresco, asciutto e soprattutto nei primi giorni si aveva molta cura di non far prendere correnti d’aria. Passati 25/30 giorni i salami venivano tagliati a pezzi e conservati sotto sugna in vasi di terra cotta e nella stessa vescica del maiale. Solitamente i primi pezzi di salsiccia venivano prelevati e consumati in occasione della mietitura del grano.
Mortale.
Ingredienti: Piedi del maiale, coda, pezzi di carne con l’osso, cotica, sale grosso.
Procedimento: Tutte le parti “meno nobili” del maiale per poter essere conservate e consumate più in la nel tempo venivano tagliate a pezzi e adagiate sul fondo di un vaso di terra cotta. I pezzi all’interno del vaso si
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alternavano con uno strato di sale fino a riempimento completo. Generalmente i pezzi potevano rimanere sotto sale fino ai primi caldi dell’estate. Il loro consumo era sempre legato ad eventi lavorativi particolari in campagna e venivano prelevati alcuni pezzi, solitamente misti: cotica, carne, pezzi di piede. Questi venivano messi in ammollo, accuratamente lavati e lessati in un “ calarone” sul fuoco. Una volta cotti venivano messi nel sugo di pomodoro, preventivamente preparato. E questo cibo veniva consumato come secondo piatto.
Lardo/ Sugna
Il lardo rappresentava una fonte di ricchezza per le famiglie tanto che quando si spaccava il maiale i proprietari erano in attesa per verificare se la propria bestia aveva o meno lardo, poiché da questo dipendeva il condimento di un interno anno. Il lardo, a secondo se era quello del dorso o quello della pancia veniva destinato ad usi diversi. Generalmente quello più molle, localizzato sotto la pancia veniva tagliato a pezzi e sciolto sul fuoco lentamente. Il liquido che se ne ricavava veniva messo nei vasi di terra cotta per poi essere riutilizzato per la conservazione delle salsicce ecc. Il lardo del dorso veniva tenuto sotto sale per un certo periodo e poi appeso per essere utilizzato come condimento all’occorrenza oppure essere mangiato con il pane.
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Prosciutto.
Ingredienti: Coscia del maiale e sale.
Procedimento: Accuratamente tagliata e arrotondata, la coscia veniva pressata con un matterello per far uscire residui di sangue. Successivamente la stessa veniva sottoposta a salatura nella madia del pane. Trascorso un periodo di quaranta giorni essa veniva tolta dalla salamoia e appesa in un luogo fresco e asciutto e lasciato curare per 6/7 mesi.
10.Testimonianza di una contadina della valle del noce Il colloquio si è svolto una mattina del 10 agosto 2012 presso l’abitazione della
signora
Novellino
Domenica
(7
Novembre
1942),
detta
“Menghina”, situata in c/da Molingiuolo di Rivello ( Potenza ). Penultima di cinque figli, fin da bambina lei e la sua famiglia si sono dedicati al duro lavoro di contadini e all’allevamento del bestiame. Ben presto dalla nonna e dalla mamma ha imparato a fare la polenta, la minestra, ad impastare ed infornare il pane e a lavorare la carne per i salumi. Dal suo racconto si evince che soprattutto l’allevamento, l’uccisione del maiale e la lavorazione delle sue carni rappresentava il sostentamento sia alimentare ma anche economico per la durata di circa un anno. Per questa circostanza ci si organizzava col tempo. Giunti i primi segnali dell’inverno ci si preparava ad ingrassare il maiale, comprato durante l’estate nelle fiere, oppure, in tante famiglie si allevava e si
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cresceva una scrofa che generava tanti piccoli maiali che, una volta svezzati, in parte venivano destinati alla famiglia mentre altri capi venivano venduti. Per ingrassare il maiale si raccoglievano castagne, ghiande di quercia, spighe di
granoturco
e
zucche.
L’alimentazione
destinata
all’animale
era
fondamentale perché più era grasso e più rappresentava una ricchezza per la famiglia. La signora Menghina, ricorda che l’uccisione del maiale rappresentava un avvenimento importante per tutte le famiglie della zona: si guardava il calendario, si tenevano in considerazioni le fasi lunari e si programmava la data raccordandosi con le altre famiglie. Quando la luna era “sottile” si poteva procedere all’uccisione, quando era “a crescenza” invece no. Generalmente, l’evento uccisione avveniva nei mesi più freddi, cioè tra gennaio e febbraio, perché per la cura, la lavorazione e la conservazione, il freddo asciutto era l’elemento determinate. Il giorno prima che l’animale morisse, importante era preparare il pranzo per gli uomini, solitamente in cinque o sei, che partecipavano a tale evento. Il pranzo, definito dalla signora Menghina il pranzo dell’amicizia, era costituito solitamente da “ziti” spezzati a mano conditi con sugo di pomodoro nel quale era stato fatto cuocere per diverse ore un gallo appositamente allevato e che aveva sempre più di un anno di età, o si preparava la polenta con la salsiccia dell’anno prima. La polenta veniva servita all’interno di grosso piatto di rame e ognuno con la propria forchetta vi si serviva. Per secondo, la carne del gallo e nelle famiglie più abbienti veniva aggiunto il coniglio ripieno. Per dolce si preparavano le “sfogliatelle”, una sfoglia di pasta che veniva fritta nell’olio di oliva e per chi poteva permetterselo venivano ricoperte da miele. Il vero dolce per eccellenza in realtà era un altro: il sanguinaccio. Esso veniva preparato il giorno dopo l’uccisione e il suo ingrediente principale era il sangue dell’animale che veniva mescolato ancora caldo con la mano nuda affinchè non si potesse 50
rapprendere. Il terzo giorno ci si dedicava alla lavorazione della carne, o per meglio dire “a fare i salami”. In realtà più che un momento lavorativo il “ fare i salami” era considerata come una festa. Dopo aver “sfasciato” il maiale, le donne, sedute intorno ad un piano di legno, sceglievano la carne selezionando quella più rossa per le salsicce e quella più magra e rosa, prevalentemente filetto, per fare la soppressata. Dalle parole di Menghina traspare, in maniera limpida, come questo momento avesse una grossa valenza sociale ed affettiva. L’occasione “uccisione” rappresentava un momento di convivialità e di fortificazione dei rapporti familiari. Si riconosceva l’autorevolezza e la saggezza della persona più anziana della famiglia attraverso il conferimento di compiti specifici e di grande importanza. Era consuetudine affidare alla persona più anziana l’incarico di trafiggere con un lungo coltello (lo scannaturo) il cuore del maiale. Con grande abilità e velocità la persona anziana infilava la punta del coltello nella gola dell’animale in senso verticale rispetto al corpo andando così a lacerare il muscolo cardiaco. È possibile notare quel pizzico di imbarazzo ed emozione, forse riconducibile al fatto che la contadina in questione è anche la mia nonna e per quanto possa sembrare strano non eravamo mai riuscite a parlare di eventi realmente così determinanti prima d’ora. Non eravamo mai riuscite a discutere di situazioni, eventi e circostanze che hanno fatto sempre parte della nostra vita. Lei le ha vissute in prima persona, muovendo i primi passi in quest’ “arte”, ovviamente per necessità, fin da bambina, le ha trasmesse a mia madre e a tutti gli altri figli portando avanti, forse inconsapevolmente, una tradizione e permettendo a me, lo riconosco solo ora, di partecipare, osservare ma soprattutto gustare l’antica arte di “fare i salami”.
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Conclusioni. Nella mia ricerca ho analizzato le dinamiche familiari che ruotavano intorno alla cultura del maiale, a partire dall’allevamento fino al prodotto finito senza tralasciare le credenze, le superstizioni e le ricette legate al simbolo del legame tra le diverse famiglie. Le notizie storiche sono il frutto di interviste, di ricordi, racconti di discussioni ascoltate all’interno della mia famiglia. In maniera particolare, le notizie più lontane nel tempo, le ho apprese da mio nonno che era nato nel 1919 e che aveva vissuto in prima persona gli avvenimenti sia prima della seconda guerra mondiale che dopo. La sua famiglia, contadina, proprietaria terriera viveva l’avvenimento “maiale” come un qualcosa di “sacro”. Dai suoi racconti, chiaramente nostalgici, si evinceva la sacralità dei legami familiari che in occasione dalla lavorazione del maiale si ravvivano. Uno dei temi preferiti nelle conversazioni erano le genealogie, cioè, parlando di una persona, si ricordavano tutti i suoi famigliari, con i loro nomi e soprannomi, l’origine dei genitori, i nonni e i bisnonni, la discendenza dei figli, dove si erano accasati, gli eventi lieti e tristi noti della loro vita, la serietà, il valore, la fortuna e la sfortuna, i sacrifici, le disgrazie. Un altro argomento che ricorreva molto spesso nei discorsi degli anziani erano le guerre: non si capiva mai bene in che ruolo le avevano vissute, non dipendeva da loro, bensì da chi li aveva costretti a farle, ma raccontavano
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di trincee, di inverni nella neve, di pericoli mortali evitati per miracolo, di assalti con molti morti, dei commilitoni con i quali erano partiti e che non erano più tornati. Spesso le discussioni sfociavano in argomenti di tipo politico e le disparità di opinioni potevano generare anche dialoghi stranamente accesi. Durante il pranzo dell’uccisione era consuetudine ufficializzare i fidanzamenti attraverso l’invito da parte della famiglia nella quale si svolgeva l’evento dell’uccisione. L’evento uccisione era un momento di grande festa, infatti mio nonno raccontava che la sua famiglia per l’occasione invitava i notabili del paese che spesso si abbandonavano a grosse scorpacciate vista la scarsità di cibo dovuta agli eventi bellici. Per questa occasione ci si preparava molti mesi prima, si allevava il gallo che faceva parte della covata della chioccia dell’anno prima. Essendo un animale adulto aveva la carne abbastanza dura per cui veniva cotto sul fuoco immerso nel sugo di pomodoro. Il sugo sarebbe servito per condire i “ziti” spezzati a mano e la carne fungeva da secondo piatto. Per dolce venivano preparate le “sfogliatelle”: una pasta fatta di uova farina e zucchero assottigliata con matterello, tagliata a strisce e arrotolata a mo’ di rosa e fritta in olio bollente. Attualmente nella Valle del Noce tutto questo è completamente sparito. Il maiale non viene più allevato dalle famiglie sia per condizioni economiche completamente ribaltate sia
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per condizioni igieniche e anche a causa di vincoli legislativi più restrittivi. Le mutate condizioni economiche consentono alle famiglie di poter accedere a quantità e qualità di cibo abbondante e quindi l’aggregazione non è più un evento ma può rappresentare una consuetudine. Sicuramente si è fatto un enorme passo avanti per l’uomo, ma si è ottenuta anche una sicura perdita di quelle sensazioni, quei profumi e quei sentimenti che non possono venire da una confezione trasparente di plastica. Si sta provando a conservare, valorizzare e a promuovere il “patrimonio gastronomico” attraverso sagre, feste di paese e percorsi etnogastronomici. I procedimenti e gli ingredienti per la preparazione dei cibi sono gli stessi ma irrimediabilmente non si riesce a ottenere il “classico sapore di una volta” poiché esso era frutto non solo di ingredienti sani ma anche di un contesto socio economico completamente diverso. Spetta alle nuove generazioni tutelare e conservare l’inestimabile patrimonio della realtà contadina fondata sul cibo, sulle credenze, sulla tradizione, il folklore e sulla capacità di mantenere vivi i legami nei momenti che da sempre, e che molto probabilmente non scandiranno più il ritmo della loro vita. La prima volta che ho visto uccidere un maiale, non ho provato particolari sentimenti, se non un leggero disgusto, e la cosa non nascondo che mi ha un po’ preoccupata. Dovrebbe, penso, essere normale provare sentimenti più
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netti come paura o pietà per una bestia di mole notevole che ti muore davanti agli occhi. Forse però le informazioni che ho accumulato mi hanno resa, un po’ tristemente, impassibile davanti ad una morte del genere, ad una morte che, ai mie occhi, sembrerebbe di poco valore. Per i miei nonni, ma anche per tutti coloro che hanno vissuto questi particolari avvenimenti quella morte rappresentava fatica, orgoglio, ma soprattutto, enorme soddisfazione. Era la garanzia di sopravvivenza.
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