Recalcati ebook

Page 1

RACCOLTA DI ARTICOLI DELLO PSICANALISTA MASSIMO RECALCATI SU TEMATICHE SCOLASTICHE E GIOVANILI A cura del Prof. Gaetano Prota Impaginazione a cura della Prof.ssa Maria Mondelli


INDICE

LETTERA A UN PROFESSORE pag.1 ELOGIO DEGLI INSEGNANTI PERCHÉ LA TECNOLOGIA NON PUÒ SOSTITUIRLI pag.4 LA LEZIONE SUL MALE DI FRANCO FORNARI pag.7 METODO E FORZA DEL PENSIERO DEBOLE 9 DESIDERO DUNQUE SONO LIBERIAMO LA FANTASIA DALLA LOGICA DEL CAPRICCIO pag.11 DOVE SONO FINITI GLI ADULTI pag.14 CHI HA PAURA DELLA PSICOANALISI QUELLA CURA SPECIALE CONTRO LE TERAPIE BREVI pag.17 QUEL MASCHIO FRAGILE CHE NON ACCETTA LIMITI pag.20 L'ETÀ DEL DESIDERIO LE ORIGINI DELLA FORZA EROTICA CHE SOLO GLI ESSERI UMANI CONOSCONO pag.23 QUELLA LIBERTÀ SENZA FUTURO CHE IMPEDISCE DI CRESCERE pag.26 L'EPOCA SENZA EDIPO pag.29 MAESTRO RILUTTANTE CARI PROFESSORI NON FATE GLI PSICOLOGI pag.32 "GLI SDRAIATI" DI MICHELE SERRA, IL SILENZIO DEI PADRI DI FRONTE AI FIGLI STESI SUL DIVANO pag.35 LA LINGUA STRANIERA CHE NON RIUSCIAMO AD IMPARARE DAVVERO pag.38 QUELLO STRANO EROTISMO DEL SAPERE CHE LEGA IL MAESTRO ALL'ALLIEVO pag.39 PERCHÉ LA VIA BREVE CI POERA LONTANI DALLA SODDISFAZIONE pag.42


da la Repubblica.it 2011­04­29

LETTERA A UN PROFESSORE

I

l lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all'isolamento e all'adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l'importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell'ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici. Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: "Non ascoltano più!", "Non parlano più!", "Non studiano più!", "Non desiderano più!". Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell'impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori. Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione dell'amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno "stile". I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy ne La strada, "sa portare il fuoco". Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che 1


riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di "allievo ideale", ma esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che "sa amare chi impara". Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all’esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara. Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni. La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un’ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto. Il vero nemico dell’insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l’amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c’è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale. Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l’ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo. Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. 2


Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione "paterna" che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento "incestuoso", per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l’importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi. Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri ­ i mondi che essi ci aprono ­ ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc). Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell’obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi? (L’autore ha scritto "Cosa resta del padre?" per Raffaello Cortina) MASSIMO RECALCATI 29 aprile 2011

3


da la Repubblica.it 2011­10­31

ELOGIO DEGLI INSEGNANTI PERCHÉ LA TECNOLOGIA NON PUÒ SOSTITUIRLI

U

n bravo insegnante, raccontava una volta un grande psicoanalista come Moustapha Safouan, si riconosce da come reagisce quando, salendo in cattedra, gli capita di inciampare. Cosa saprà fare di questo inciampo? Ricomporrà immediatamente la sua immagine facendo finta di nulla? Rimprovererà con stizza le reazioni divertite dei ragazzi? Nasconderà goffamente il suo imbarazzo? Oppure prenderà spunto da questo imprevisto per mostrare ai suoi alunni che la posizione dell’insegnante non è senza incertezze e vacillazioni, che non è al riparo dall’imprevedibilità della vita? Potrà allora far notare che lo studio più autentico e appassionato non è mai esente dall’inciampo perché è proprio questo, come il fallimento, a rendere possibile la ricerca della verità. Certamente ci sono insegnanti che separano il sapere dalla vita e che offrono ai loro alunni solo una serie di nozioni nate già morte. In questi casi non c’è vita ma routine e un uso sterile del sapere. Ma se esiste una vocazione all’insegnamento, non può che radicarsi nell’inciampo. E questo mostrano una serie di libri usciti in questo periodo che, nonostante tutto, sono dichiarazioni appassionate per la scuola e per chi tutti i giorni ci lavora e si dispera: da L’iguana non vuole di Giusi Marchetta (Rizzoli) a Ti voglio bene maestro! di Giuliano Corà (Angelo Colla Editore). Raccontano le loro difficoltà, gli errori, confessano le fragilità. E insieme rinnovano la voglia di andare avanti. D’altra parte i bravi insegnanti sanno di cosa parlo; loro stessi sono inciampati almeno una volta prima di salire in cattedra e continuano ad educare i loro allievi alla contingenza imprevedibile della vita. Ricordiamo gli insegnanti che sono stati per noi degli inciampi che ci hanno sottratti alle nostre abitudini mentali e ci hanno fatto pensare in modo nuovo. Il nostro tempo favorisce invece l’assimilazione dell’insegnante ad un computer, ad un tecnico di un sapere senza corpo, totalmente disincarnato. Nel tempo in cui la rete sembra scalzare la funzione dell’insegnante offrendo un sapere a portata di mano e senza limiti, dobbiamo ricordare che essa non ha un 4


corpo, non può animare l’erotica dell’apprendimento. Le possibilità della rete e la computerizzazione tecnologica dell’insegnamento sembrano invece coltivare l’illusione dell’esclusione del corpo dalla relazione didattica. Ma solo un cognitivismo esasperato può pensare di separare i processi di apprendimento dall’eros che abita da sempre ogni relazione formativa. La psicoanalisi e la pedagogia più illuminata insistono su questo punto: le possibilità dell’apprendimento hanno come condizione l’eros del desiderio. Pensare di trasmettere il sapere senza passare dalla relazione con chi lo incarna è un’illusione perché non esiste una didattica se non entro una relazione umana. Coloro che vorrebbero ridurre il processo di apprendimento e di insegnamento alla trasmissione tecnologica e asettica di pratiche codificate cognitivamente e che ripongono la loro speranza nella definizione di un metodo efficiente di assimilazione e di organizzazione dei saperi, pretendono di cancellare l’intrusione del corpo nella relazione didattica e commettono un errore ossessivo in senso clinico. Il bravo insegnante non è colui che nega il valore del sapere, non è colui che proclama il suo azzeramento, ma è colui che mentre lo trasmette sa anche mantenerlo sospeso. Questo doppio tempo della dinamica formativa lo ritroviamo nella vita quotidiana di ogni insegnante e di ogni allievo come oscillazione tra la necessità dell’applicazione, del metodo, dell’ostinazione, della fatica e del sacrificio e possibilità dell’erotizzazione del mondo attraverso il linguaggio, del desiderio di conoscenza, del viaggio, dell’avventura, dell’andare altrove, al largo, lontano, alla scoperta di altri mondi, verso l’inedito e il non ancora conosciuto. Nel nostro tempo l’insegnante è sempre più solo. Questa solitudine non riflette solo la sua condizione di precariato sociale, ma anche la rottura di un patto generazionale coi genitori. Lo studio dello psicoanalista ne raccoglie i cocci: genitori sempre più complici e alleati di figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi. Genitori che anziché sostenere l’azione educativa della scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, togliere gli ostacoli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli. Un tempo l’alleanza generazionale tra genitori e insegnanti non era mai in discussione. Il rischio era quello di giustificare derive autoritarie del processo educativo. Oggi però questa alleanza tende a dissolversi. L’ostacolo della differenza generazionale e dell’insuccesso scolastico viene vissuto solo come una frustrazione da evitare. In questo difficile contesto la domanda che assilla l’insegnante nella sua solitudine si 5


radicalizza: come può continuare ad amare ciò che fa? come può resistere all’appassimento, all’accomodamento del sapere somministrato secondo gli standard stabiliti? come può tenere viva la passione che comporta la sua pratica? I bravi insegnanti sanno rinnovare ogni giorno il loro desiderio solo perché conoscono le insidie della caduta nella noia e nella ripetizione e si impegnano a ricercare i giusti antidoti sopportando la solitudine che la sfaldatura del patto generazionale tra gli adulti comporta. Per questa ragione il tempo dell’inciampo resta essenziale perché mantiene sveglio l’insegnante stesso e, di conseguenza, impedisce anche ai suoi allievi di addormentarsi. Un mio vecchio professore di filosofia commentando con il solito rigore e la sua chiarezza cristallina la Scienza della logica di Hegel, di tanto in tanto alzava gli occhi al cielo e ci diceva; "qui veramente non possiamo più seguire Hegel; chissà cosa avrà visto?". Il mio vecchio professore di filosofia non aveva imbarazzo nell’inciampare sul testo che commentava perché sapeva bene che questo inciampare ci avrebbe aiutato ad autorizzarci a pensare con la nostra testa, cioè a cercare il nostro modo personale di inciampare sul testo. Il bravo insegnante, nelle Scuole elementari come all’Università, è colui che non ha né paura né vergogna del suo non sapere, della sua ignoranza (che Cusano avrebbe definito "dotta") perché sa che i limiti del sapere sono ciò che animano la spinta della conoscenza. E’ il grande peccato che racconta il mito biblico dell’albero della conoscenza. In cosa consiste? Nell’illusione umana di accedere al sapere come dominio, alla conoscenza assoluta del bene e del male, ad un sapere che pretende di essere padrone della vita, che pretende di escludere l’inciampo. MASSIMO RECALCATI 31 ottobre 2011

6


da la Repubblica.it 2011­12­20

LA LEZIONE SUL MALE DI FRANCO FORNARI

C

hi è stato Franco Fornari (1921­1985)? Indubbiamente lo psicoanalista italiano più conosciuto nel mondo, più tradotto, più apprezzato dai suoi colleghi, più capace di lasciare una impronta significativa sulla cultura italiana e, probabilmente, insieme a Elvio Fachinelli, anche il più autenticamente creativo e fecondo. Ma è stato anche un professore che provava ad insegnare la psicoanalisi alla Statale di Milano negli anni '70­'80 in una Università attraversata dall’onda lunga del post­Sessantotto e dal sisma del movimento del ' 77. Uno scrittore infaticabile, che con uno stile per niente polveroso e appesantito da stupide erudizioni, sapeva promuovere un ripensamento generale della lezione freudiana pur riconoscendo in quella lezione il fondamento originario della pratica e della dottrina della psicoanalisi. Un intellettuale che ha rotto lo "splendido isolamento" della nostra disciplina intervenendo, senza alcun conformismo, nella vita sociale, in quella delle istituzioni e delle organizzazioni, nelle scuole, negli ospedali, provando ad applicare la psicoanalisi anche ai verbali di un consiglio di Istituto. Piacentino, penultimo di dieci figli di una famiglia di agricoltori, uomo di rara affabilità e disponibilità al dialogo, lettore curioso, analizzante e allievo di Cesare Musatti, i suoi interessi spaziavano dalla vita affettiva del bambino alla psicoanalisi della guerra e della bomba atomica, dalla teoria del linguaggio al funzionamento dei dispositivi istituzionali, dai sogni delle madri in gravidanza alla psicosomatica del cancro, dall’iconologia estetica alla filosofia della politica, dalla psicoanalisi come pratica clinica alla psicoanalisi come teoria generale dell’ideologia. Restano di grandissima attualità e intensità alcuni suoi libri, come lo straordinario Psicoanalisi della guerra (1966) che fece dire ad André Green che si trattava dell’opera di psicoanalisi sociale più importante dopo Il disagio della civiltà di Freud, o come Il codice vivente (1981) dove viene teorizzata una delle sue intuizioni più feconde, quella della "paranoia primaria" come condizione basale perché la violenza fantasmatica contenuta nel parto, come in ogni evento traumatico, possa essere disinnescata e ammortizzata da un terzo (il codice paterno) in grado di prendersi carico di questa violenza ­ per Fornari il padre è colui che "sa prendere su di sé la morte" ­ per consentire la vita. Di questo ampio, variegato e ricchissimo insegnamento ­ di cui la recente antologia curata da Diego Miscioscia per Cortina 7


titolata Scritti scelti offre una visione panoramica di grande interesse­ vorrei ritagliare due possibili ritratti di Fornari psicoanalista. Il primo ritratto è quello più noto; è il ritratto del teorico dell’inconscio strutturato come un codice affettivo, della cosiddetta teoria coinemica, la quale propone una versione dell’inconscio non tanto come luogo pulsionale (secondo la lezione freudiana più ortodossa) ma come una matrice originaria composta da una batteria di (pochi) significati primi, comuni all’umano, filogeneticamente determinati, detti coinemi, alla cui dinamica notturna Fornari riconduce tutti i fenomeni dell’esistenza. L’inconscio coinemico è un inconscio che pensa, è un pensiero naturale, è "facoltà di rappresentazione", aspira al bene, è un soggetto normativo, capace di strategia, non è pulsione di morte ma pulsione di significazione. In questa "nuova filosofia dell’inconscio" l’ottimismo semiotico e morale di Fornari sembra non lasciare spazio agli aspetti più scabrosi della lezione freudiana, tra tutti proprio quello della pulsione di morte (che resta invece centrale in autori come Klein e Lacan). Il Fornari coinemico espelle infatti dall’inconscio la dimensione del Male, la tendenza alla ripetizione dissipativa. Egli preferisce porre l’inconscio come un "pensiero della notte" capace, come un bravo regista, a dettare il copione più vitale e creativo agli attori della vita diurna. Esiste però un altro possibile ritratto di Fornari psicoanalista. Si tratta del Fornari studioso del fenomeno della guerra, dell’aggressività e della paranoia, di un Fornari che non esclude affatto il problema del Male e della tendenza dell’umano a restarne sedotto. Questo secondo Fornari non pensa l’inconscio come pura facoltà di significazione, come un "voler dire" primario, ma lo ritrae come luogo del Terrificante, del senza volto e del senza parole. E allora la psicoanalisi smette di essere una macchina interpretativa che pretende di ricondurre ogni cosa al quadro immutabile dei coinemi, ma diventa una pratica che prova a confrontarsi con questo Terrificante affinché la morte e la distruzione non restino le ultime parole dell’umano. Il problema centrale diventa allora quello di come sia possibile trasformare, o meglio, per usare una parola chiave del lessico fornariano, bonificare la violenza, il caos, la guerra, la malattia, l’insensatezza, la pregenitalità perversa, la spinta all’appropriazione sadica e fusionale. Non è forse questa la posta in gioco ultima dell’esperienza dell’analisi? Non tanto la ricerca ermeneutica del senso, quanto la possibilità di bonificare l’angoscia di morte in possibilità di legami fecondi, in quella "tolleranza del lutto e della solitudine" che per Fornari è la sola condizione etica per una vita generativa. MASSIMO RECALCATI 20 dicembre 2011

8


da Repubblica.it 2012­01­05

METODO E FORZA DEL PENSIERO DEBOLE

Q

uando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L'avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente. Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L'ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell'ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere. In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura. Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove ­ era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti ­, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto! Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici. Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull'esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno ­ per esempio per un feticista ­ non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico. E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la 9


psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell’esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità? Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci. La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l’importanza che sin dalla sua origine i deb olisti hanno assegnato all’intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L’appello alla Verità e alla Realtà» ­ scrive Rovatti ­ «è un appello astratto» se non tiene conto dell'incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell'assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica. Anche nel nome della realtà ­ una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri ­ si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore. Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa ­ come ci ricorda Rovatti ­ come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere. Anche tutto l'interesse che nell'ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l'opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un'evidenza oggettiva ­ non è una malattia del cervello ­, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale. Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall'essere un capitolo minore della storia più recente dell'ermeneutica o del post­modernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità). MASSIMO RECALCATI 05 gennaio 2012

10


da la Repubblica.it 2012­01­17

DESIDERO DUNQUE SONO LIBERIAMO LA FANTASIA DALLA LOGICA DEL CAPRICCIO

«U

na sedia a rotelle fatta viaggiare a una velocità ingovernabile... Lacan ha proposto un'immagine alla Hitchcock per raffigurare un’economia che già negli anni Settanta considerava destinata fatalmente a scoppiare. Non parlava certo da economista e in più era un liberale conservatore, eppure sul "discorso del capitalista" è stato di una chiaroveggenza speciale. Perché ne coglieva la dimensione "pulsionale" con il trionfo del narcisismo e il culto dell’homo felix impegnato nella ricerca del proprio benessere individuale. Qualcosa di "folle", di "infernale", di "insostenibile"». Massimo Recalcati parla dell’aspetto "politico" del suo nuovo libro che declina le varie sfaccettature del desiderio, con tutto il peso affidato dalla psicoanalisi a questa sua parola chiave. Ma è evidente tra le righe la consapevolezza del passaggio epocale che viviamo e sullo sfondo il naufragio dei grandi ideali collettivi della modernità occidentale. Anche a dispetto della dedica in codice «a Jacques Lacan, mon a­mur» ­ omaggio al maestro scomparso trent'anni fa ­ Ritratti del desiderio non è destinato solo agli specialisti del lacanismo (Cortina). Proprio perché è scritto da un analista che nella sua riflessione sui movimenti inconsci dell’esperienza umana non rinuncia a mantenere uno sguardo critico sui grandi cambiamenti sociali, sui nuovi modi di pensare e di vivere. Lei scrive che la grande crisi dell’economia capitalista ­ questa sorta di implosione dell’Occidente ­ "non è solo finanziaria ma innanzitutto etica". Perché? «Perché questa è una crisi che evidenzia il disprezzo e il misconoscimento del Bene comune, l’accaparramento senza freni delle risorse di tutti: il lavoro, le leggi, le istituzioni, la natura... Quando la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti, quando l'avidità non ha più fondo, è la stessa idea di comunità che viene meno. Per dirla in termini analitici, è la pulsione di morte che prevale e travolge la dimensione del legame sociale». C’è un’angoscia particolare che accompagna questi "anni terribili" di impoverimento anche emotivo, anche intellettuale? «L’angoscia contemporanea non è l’angoscia di fronte al nulla di cui parlano i filosofi, ma piuttosto è l'angoscia di fronte all'eccesso: come se 11


mancasse una prospettiva, un progetto. Non sorge dalla mancanza ma da un troppo pieno, dalla sensazione di essere imprigionati in un sistema che ci avvolge e ci comprime e sembra non permettere ­ nemmeno nella fantasia ­ di un altro mondo, di un altro orizzonte... Il nostro è senz’altro il tempo di un immiserimento materiale e mentale diffuso, è un tempo di precarietà dove l’angoscia ­ come dimostra la diffusione epidemica del panico ­ è di massa. Ma io tendo a escludere che sarà una condizione permanente». La notte buia che viviamo potrà diventare "un fattore di rigenerazione", permetterci di riconoscere finalmente "il punto luminoso del desiderio": non è un catastrofista, lei. In cosa ripone la sua fiducia? «L’angoscia non si limita a paralizzarci, ma può diventare la causa di un nuovo desiderio. Tutta questa circolazione cieca di godimento è senza soddisfazione, tende a produrre solo distruzione, ma ora il declino del "discorso del capitalista" può aprire a nuove possibilità di vita. Nella nostra esperienza clinica l’angoscia non è mai solo un vicolo cieco, ma segnala sempre la prossimità del soggetto alla verità (rimossa) del proprio desiderio, mettendolo di fronte a ciò che abitualmente cerca di evitare». Ma, per dirla con Carver, di che cosa parliamo quando parliamo di desiderio? «Intanto di una forza inconscia che spinge alla relazione con l’Altro e che sempre implica un inciampo, uno sbandamento, una perdita di padronanza... Non sono "io" che decido il mio desiderio, è il desiderio che decide di me, mi rapisce e mi anima. Secondo la lezione lacaniana, non è necessariamente infelice e neppure è riducibile a un sentimento di mancanza. L’insoddisfazione è un tratto strutturale dell’isteria, non del desiderio che è piuttosto una potenza, uno slancio che mostra come la vita diventa umana solo attraverso l’Eros, il legame, il riconoscimento della dipendenza, della differenza, della vulnerabilità. Certamente va messa in conto anche una certa quota di solitudine nel movimento di separazione, di distacco, di rottura e di sovversione dell’ordine familiare. E neppure esiste una misura giusta per definire un desiderio "normale" in quanto unico e irripetibile, inventivo e incomparabile, devianza singolare che sfugge, resiste, ad ogni tentativo di omologazione autoritaria». Desiderio invidioso, amoroso, sessuale. Desiderio dell’altro, d’altro, di niente... La sua è una singolare galleria di esperienze che nella vita s'impastano. Ma perché il desiderio assoluto ­ quello "puro", come nel caso dell’intransigenza di Antigone ­ è destinato allo scacco? «Lacan affermava che la sola vera colpa dell'uomo è quella di venire meno al proprio desiderio. La clinica psicoanalitica conferma che l'infelicità è spesso legata al fatto che la nostra vita non è coerente con ciò che desideriamo. E invita ad essere responsabili rispetto al desiderio che non può essere mai associato al capriccio, perché ogni volta che sono chiamato a scegliere "ne va della mia esistenza", come 12


direbbe Heidegger. È senz'altro il caso di Antigone che persegue il suo desiderio ­ dare una sepoltura degna al fratello ­ senza esitazioni e contro ogni Legge, ma perdendo tutto, morendo sepolta viva. La sua tragedia svela come non ci sia mai nessuno, né un dio né un padre, a garantire che l'assunzione del desiderio sia generativa e non si riveli destinata allo smarrimento». Un’ultima domanda: il Censis di De Rita ha fatto un abbondante uso di metafore utilizzate nei suoi lavori, segno che le interpretazioni rituali non bastano più per capire in profondità quel che succede. Allora si ricorre al pensiero di un analista tutt'altro che estraneo alla dimensione "politica". Lei che ne pensa? «È importante che le categorie della psicoanalisi escano dalla così tanto decantata "stanza dell’analisi" ed entrino nel mondo storico e politico. L’isolamento della nostra disciplina non è "splendido" ­ come diceva Freud a Jones ­ ma rischia di manifestare solo la mummificazione dell’analista come pezzo del museo delle cere dell’Ottocento. La psicoanalisi può invece dare prova della sua efficacia sia come una terapeutica alternativa a quelle pratiche di normalizzazione e di medicalizzazione della vita oggi alla moda, sia come una teoria critica della società. In un tempo abitato da monadi che godono senza limiti di una libertà triste, è chiamata a essere una sentinella della dimensione creativa del desiderio, che già nel suo etimo indica un cielo aperto... Se infatti sidera in latino vuol dire stelle, sarà proprio di questo che si parla: dell’attesa e la ricerca della propria stella». LUCIANA SICA 17 gennaio 2012

13


da la Repubblica.it 2012­02­19

DOVE SONO FINITI GLI ADULTI

I

l film americano intitolato Young Adult di Jason Reitman sembra darci ­ già solo nel titolo ­ la temperatura della strana febbre che sta colpendo il cosiddetto mondo degli adulti. Il fenomeno è accecante nella sua evidenza: gli adulti si sono persi. In questo film la loro scomparsa viene celebrata come un miraggio di rigenerazione; l’adulterazione dell’adulto consisterebbe nella sua regressione ad una immaturità testarda, al recupero (impossibile) del tempo passato, ad un rifiuto della responsabilità. La trama è eloquente: una exscrittrice divorziata ritorna nel suo paesino del Minnesota per riprendere il suo fidanzatino del liceo che nel frattempo si è sposato e ha un figlio senza tener conto in nessun modo della irreversibilità del tempo. Cosa sta accadendo? Se un adulto è qualcuno che prova assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole ­è una definizione che mi sento di proporre al di là della sua descrizione anagrafica ­ , non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Pensiamo a tutti coloro che investiti di incarichi istituzionali perseguono accanitamente i loro interessi personali anziché servire quelli comuni. Alle figure di Puer che spesso ci hanno governato e che sono diventati dei modelli per l’immaginario. Oppure a quei genitori che anziché sostenersi tra loro nel compito educativo che li impegna lo disertano mostrandosi sempre pronti a difendere le ragioni inconsistenti dei loro figli di fronte agli insegnanti o di fronte alle prime difficoltà che la vita impone. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale. La celebre distinzione tra le età della vita che in passato bollava come immaturi anche quei comportamenti che manifestavano semplicemente lo slancio vitale della giovinezza, oggi è saltata: possiamo vestirci a 60 anni come a 30, sognare le stesse cose, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua. A questo appiattimento delle differenze generazionali contribuisce anche un certo uso dei socialnetwork dove i legami che si creano sono spesso a responsabilità zero. L’amicizia è ottenuta attraverso un click; la sua moltiplicazione diviene segno di distinzione. La cultura del videogame ci introduce in un mondo parallelo, artefatto, ad una sorta di oppiaceo tecnologico che confonde l’esistenza con la simulazione. Non è difficile incontrare adulti che come certi adolescenti si mantengono in uno stato di perenne 14


“connessione”con la rete. Senza questa “connessione” la loro vita perderebbe di senso. Per loro la disconnessione ­ anziché essere una pausa necessaria e salutare ­ rivela il vuoto di una vita sostenuta da legami artificiali. Questo nuovo ritratto dell’adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell’immaturità che propone una felicità spensierata e priva di ogni responsabilità. È una cifra del nostro tempo: “Mio padre ­ mi confidava desolata una giovane ragazza figlia di genitori separati ­ non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me!”. Insomma, non è che i veri bamboccioni siano gli adulti di oggi più che i loro figli? In questo senso il dialogo di Schettino con il Comandante de Falco ha il valore di un vero e proprio paradigma; non racconta solo uno scontro drammatico tra due uomini in una situazione di grande tensione e pericolo, ma ci segnala una divaricazione interna alla generazione degli adulti tra coloro che assumono il peso dei loro atti e coloro che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation. Gli esempi potrebbero evidentemente moltiplicarsi ma essi convergono tutti a sottolineare un fatto: la solitudine delle nuove generazioni ­ che su questo giornale avevo una volta paragonato a quella di Telemaco in attesa del ritorno del padre ­ deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere il loro ruolo educativo. Una giovane paziente mi ha aiutato a intendere meglio quello che ci sta accadendo. Mi racconta della sua tendenza irresistibile a rubare nei supermercati. I suoi furti non ruotano attorno al valore di ciò che ruba di cui si disfa subito e con totale indifferenza. Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario; sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge, o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti? Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporaneo. Al centro non è più il conflitto tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, nel senso 15


che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo. La grande crisi attuale dell’economia capitalista e il rischio reale di un immiserimento materiale e mentale di noi tutti amplifica e rende questo dato ancora più decisivo. Quale mondo stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni? Cosa possiamo fare per ridare speranza a un Telemaco affranto? Come possiamo mostrare alla giovane cleptomane che esiste una Legge affidabile, uno sguardo capace di vedere e di riconoscere la sua esistenza? Qualcuno in grado di leggere nella sua trasgressione l’insistenza di una domanda di riconoscimento? Non è questo, in fondo, che ci chiedono i nostri figli? Se il luogo dell’adulto resta vuoto, sarà difficile per le nuove generazioni sentirsi riconosciute, sarà difficile potersi sentire davvero figli. Figli di chi? Di quale genitore, di quale adulto? Di quale testimonianza di vita? L’adulto non è tenuto ad incarnare nessun modello di perfezione. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. L’esperienza clinica ce lo insegna ogni giorno. Ad un adulto non si deve chiedere di rappresentare l’ideale di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumerne tutte le sue conseguenze. Non è questo che può salvare dalla solitudine e dall’abbandono? Non è questo che anima la speranza di Telemaco? Questo nel nostro tempo manca inesorabilmente e questo bisognerebbe poter ricostruire individualmente e collettivamente. MASSIMO RECALCATI 19 febbraio 2012

16


da la Repubblica.it 2012­03­08

CHI HA PAURA DELLA PSICOANALISI QUELLA CURA SPECIALE CONTRO LE TERAPIE BREVI

D

a diverso tempo si insiste nel voler riporre la psicoanalisi come teoria dell’uomo e come pratica della cura nel museo delle cere dell’Ottocento denunciando senza peli sulla lingua l’impostura del suo padre fondatore. Freud stesso fu il bersaglio di pesanti diffamazioni e non gli sfuggiva affatto che questi attacchi erano la diretta conseguenza del fatto che con la sua invenzione aveva portato la "peste" nella cultura e nella società occidentali. Quale "peste"? La peste di una disciplina che dà parola a ciò che solitamente viene confinato, esiliato, rimosso dalla nostra esperienza comune del mondo: alla dimensione singolare e irripetibile del desiderio, alla sua forza sovversiva, a ciò che sfugge al governo della coscienza, a ciò che ci parla in una lingua straniera (nei sogni come nei nostri sintomi), alla fragilità delle nostre certezze, prima fra tutte quella di crederci degli Io solidi e compatti. Recentemente, in un articolo di qualche settimana fa apparso sul Sole 24 Ore, titolato emblematicamente L’autismo dei lacaniani, Gilberto Corbellini si era fatto interprete di un nuovo attacco rivolto alla psicoanalisi in generale e a quella lacaniana in particolare. Quale l’accusa? Niente di meno di quella di abuso di professione: non avete i mezzi per curare l’autismo! Le vostre teorie sono bislacche e, soprattutto, non curano! In un altro articolo più recente, apparso domenica scorsa sempre sulle pagine del Sole 24 Ore, Lacan viene definito senza mezze misure un "impostore", attraverso il ritratto (forse un po’semplificato?) che ne offriva Alan Sokal. Strano modo di procedere quello di Corbellini; invoca la serietà dello spirito scientifico, la necessità per la psicoanalisi di sottoporsi alla prova e al rigore della valutazione, ma per liquidare Lacan come un impostore, egli si limita ad invocare un solo studio che evidenzia certe incongruenze nell’uso che Lacan ha fatto degli strumenti della topologia di fronte ad una bibliografia immensa ed in continua crescita dedicata alla sua opera. In gioco, beninteso, non è solo la clinica dell’autismo (che è stato il movente di questo recente attacco); si tratta, più radicalmente, della proscrizione della psicoanalisi come possibilità di cura. Un 17


esercito composito sembra esigerlo: la psicologia cosiddetta scientifica, le terapie cognitivo­comportamentali, l’industria dello psicofarmaco, la deriva iperpositivista delle neuroscienze, la psichiatria organicista, e, soprattutto, il "discorso del capitalista" che esige terapie le più brevi ed efficaci possibili per ripristinare il funzionamento dei suoi consumatori. In risposta a questa ennesima aggressione quattro autorevoli psicoanalisti ­ rappresentanti delle correnti maggiori della psicoanalisi contemporanea ­ hanno firmato un testo a sostegno della nostra disciplina (come è accaduto su Repubblica il 22 febbraio scorso), definita giustamente a "statuto speciale". Non si tratta dell’invocazione di una specie di riserva indiana dove gli psicoanalisti ­ incapaci di dimostrare l’efficacia dei loro mezzi di fronte al rigore della validazione scientifica ­, chiederebbero, alla pari di "omeopati, astrologhi, erboristi, eccetera", diritto di cittadinanza (Corbellini dixit ). Questo Manifesto rivendica qualcosa di assai più profondo. La psicoanalisi è una scienza e una pratica a statuto speciale perché vuole essere una cura del soggetto nella sua particolarità. La cura offerta della psicoanalisi non è una cura tra le altre. La cura psicoanalitica non è finalizzata ad aggiustare la macchina del corpo o del pensiero come avviene nella cura medica tradizionale. Nei sintomi in gioco non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, ma la verità scabrosa, infima, bizzarra, deviante del desiderio inconscio del soggetto. UN’OPERA DI MAGRITTE Lo psicoanalista accoglie innanzitutto la parola del soggetto senza censure, senza pregiudizi o giudizi morali, senza aspettative, senza pretese normalizzanti, e, soprattutto, senza imporre ad essa la propria. Dove si trova oggi qualcosa del genere? Il beneficio terapeutico di una cura analitica avviene solo in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan, a questo riconoscimento del valore della parola del soggetto dell’inconscio. Non è già solo questo principio di fondo sufficiente per distinguere la cura psicoanalitica da qualunque altra forma di cura dove il curante tende fatalmente a porsi come padrone di un sapere già costituito che verrà applicato al paziente secondo schemi oggi sempre più protocollari? Dove ciò che cura è spesso il potere suggestivo di un padrone? Non è questo principio sufficiente a mostrare come la cura psicoanalitica sia ispirata dall’esigenza etica di assegnare il massimo valore alla singolarità non­protocollare del soggetto? Non è questa forse una cura a statuto speciale? In questo senso la psicoanalisi agisce come un potente anticorpo nei confronti di quella medicalizzazione della vita di cui il nostro tempo ha fatto un nuovo e pericoloso idolo. E con i bambini autistici? E con i casi gravi, con le 18


anoressiche, con i tossicomani, con gli psicotici? Dobbiamo immaginare questi pazienti allungati sul divano a raccontare i loro sogni? Non scherziamo. Da tempo la psicoanalisi con i casi gravi avviene in un setting totalmente adattato alle esigenze di questi pazienti; si lavora negli ospedali, nelle istituzioni della salute mentale, nelle comunità terapeutiche, si lavora senza divano. A coloro che vogliono capire meglio cosa può fare la psicoanalisi per aiutare i bambini autistici ­ non a guarire dall’autismo, ma a trovare un loro modo per esprimere quella singolarità assoluta (non handicappata) che li costituisce come umani ­ invito a leggere una raccolta di scritti di analisti lacaniani con una lunghissima esperienza di cura dell’autismo: Qualcosa da dire al bambino autistico (Borla, 2011). Certamente gli psicoanalisti non sono affatto estranei al rischio del loro declino e della loro emarginazione culturale. L’arroccamento nelle loro stanze ovattate, la pretesa di possedere una interpretazione totale dell’individuo e del mondo, l’irrigidimento dottrinale in scolastiche dogmatiche, il disprezzo aristocratico verso tutto ciò che non è psicoanalisi, o, ancora peggio, verso tutto ciò che non appartiene alla propria Scuola, la burocratizzazione della professione attraverso apparati istituzionali finalizzati a conservare il "già detto" più che alimentare la ricerca verso il nuovo, la formazione degli allievi ridotta ad indottrinamento, la difesa dei privilegi di casta (non aveva ragione Basaglia quando accusava la psicoanalisi di essere una terapia di classe?), la tendenza a sottovalutare l’impatto col reale dei processi storici ed economici, l’uso regressivo e ipnotico del transfert, un certo fanatismo nell’applicazione della teoria a casi gravi che richiedono una attenzione e una consapevolezza dei propri limiti diversa... Tutto questo ha pesato e pesa sullo sviluppo di una disciplina sorta come una straordinaria difesa del carattere singolare e laico del desiderio che però ha spesso prodotto dogmatismi sulla soglia dei più feroci fondamentalismi! È un fatto che appartiene alla storia anche recente della psicoanalisi: come si spiega? Potrebbe essere che la psicoanalisi debba innanzitutto liberarsi da un suo fantasma di cui la tirannide del Maestro o il grigiore della burocrazia degli apparati rappresentano i poli diametralmente opposti. Questo sarebbe un tema serio di ricerca. MASSIMO RECALCATI 08 marzo 2012

19


da la Repubblica.it 2012­05­05

QUEL MASCHIO FRAGILE CHE NON ACCETTA LIMITI

L

a violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’umiliazione dell’insulto e dell’aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta. Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, nonè una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l’umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l’esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’altro. Per questo la condizione che rende possibile l’amore ­ come forma pienamente umana del legame ­ è ­ come teorizzava Winnicott ­ la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite. Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’esterno come luogo di minaccia. Il passaggio all’atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell'unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto ­ di vita e di morte ­ sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono 20


niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione). Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l’incontro con l'Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C’è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l'incarnazione del limite, ma è anche l'incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente ­ simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine. Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’appropriazione dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull’"idiozia del fallo", quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente "etero"; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’incontro con questo godimento "infinito" dichiarandole "tutte puttane". E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros. E' di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E' chiaro per lo psicoanalista che questa violenza ­ anche quando viene esercitata da uomini potenti ­ non esprime solo l’arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’amore, quando c’è. Non il 21


rispecchiamento della propria potenza attraverso l’altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’impresa contro la sua natura fallica,è poter amare l’etero, l’Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola. MASSIMO RECALCATI 05 maggio 2012

22


da la Repubblica.it 2012­07­31

L'ETÀ DEL DESIDERIO LE ORIGINI DELLA FORZA EROTICA CHE SOLO GLI ESSERI UMANI CONOSCONO

S

tefano Agosti mi ha raccontato che, in una delle sue venute in Italia, Lacan fu ospite nella casa milanese di Elvio Fachinelli. Mentre gli altri invitati stavano trascorrendo un allegro dopo cena, indicò il padrone di casa beatamente addormentato su di una sedia a dondolo e rivolgendosi ai presenti disse: «Volete sapere cos’è il piacere?». «Eccolo lì! Quello il principio di piacere!». Questa immagine definisce il piacere come un rilassamento delle tensioni. Stare sdraiati comodamente su una sdraio vicina al mare leggendo o prendendo il sole mentre ci sprofondiamo dolcemente in uno stato di vaga assenza. È quello stato che invidiamo al nostro gatto quando d’inverno si spalma sul termosifone con le zampe a penzoloni. Nel colmo del piacere c’è effettivamente una dimensione atarassica. Ma più in generale ­ se seguiamo le indicazioni di Freud ­ esso orienta l’apparato psichico a perseguire l’ideale di una moderazione virtuosa delle tensioni interne. Per questa ragione il principio di piacere, sostengono François Ansermet e Pierre Magistretti( Gli enigmi del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012), risponde alla teoria neurologica dei "marcatori somatici" (Damasio): il nostro corpo segnala in anticipo cosa potrebbe essere potenzialmenre causa di un aumento spiacevole dell’eccitazione per assicurare la difesa dell’omeostasi interna. La legge del principio di piacere detta l’evitamento di tutto ciò che può turbare la nostra quiete interna. L’uomo sulla sedia a dondolo e il gatto sul termosifone trovano la loro celebrazione nell’ideale di una saggezza pratica che risparmia la vita da tensioni inutili. La bussola del piacere ci orienta ad evitare ciò che provoca dolore e a procurarsi ciò che lo estingue. Il suo ideale è quello che si esprime nell'Etica di Aristotele; la virtù mediana del saggio sta nell’evitare gli estremi, nel rifiutare il caos degli eccessi. In questo senso dobbiamo tracciare una linea netta di separazione tra il piacere e il godimento. Il piacere, diversamente dal godimento non ricerca un apice che esige imperiosamente la sua scarica. È piuttosto un continuum privo di rotture, come il ron ron del gatto sopra il termosifone. Ogni eccitazione minaccia la sua nicchia. Non a caso 23


Freud evocava come immagine­paradigma del principio del piacere quella degli uccellini ancora custoditi dal calore protettivo dell’uovo materno. Il principio di piacere implica omeostasi e vive di conseguenza il mondo come sorgente permanente di perturbazioni. Esso fonda l’illusione che il corpo umano sia un corpo di natura tra gli altri. La cultura naturista, salutista, edonista, new­age, lo elegge a principio ideale del cosiddetto "benessere". L’homo felix è colui che dovrebbe saper condurre una vita sana, equilibrata, senza stress, orientata da una tecnica disciplinare che impone al suo corpo di rifiutare l’eccesso e che coltiva un ideale di armonia; l’armonia senza pensiero del gatto e dell’uomo abbandonato sulla sedia a dondolo. E il desiderio? L’esperienza del desiderio minaccia l’omeostasi armoniosa del piacere. L’uomo non potrà mai raggiungere il piacere naturale che appartiene alla vita animale (o a quella vegetativa). Non è né un gatto, né un giglio. Questo significa che l’equilibrio del piacere è destinato ad essere perturbato. Per Freud questa è la matrice ultima di quello che definisce come il disagio della Civiltà. Lo schiamazzo insistente di un bambino o un monologo a tutti polmoni al telefonino può infastidire il nostro lettore sprofondato nel suo sdraio di fronte al mare. Ma anche l’incontro con una donna o con un uomo può trascinare ­ come spesso accade ­ una vita tranquilla verso una deriva imprevista e ingovernabile. L’uomo sulla sedia a dondolo è obbligato a svegliarsi. Ecco apparire sulla scena il desiderio! L’esperienza del desiderio implica innanzitutto un turbamento del piacere, un risveglio più o meno brusco dal suo ron ron. Il desiderio interrompe la tendenza del piacere ad avvolgersi su se stesso introducendo uno squilibrio che è sorgente di apertura e di slancio. È la verità scabrosa che ci concerne: la vita umana non si accontenta della pace del piacere. È desiderio d’Altra Cosa, afferma Lacan. Possiamo certamente rammaricarci di constatare come l’esperienza del piacere sia solo transitoria. Ma è il desiderio il lievito che umanizza la vita strappandola dalla vita animale. Mentre l’animale si lascia guidare ciecamente dalla bussola dell’istinto, l’uomo è un soggetto del desiderio proprio perché privo di quella bussola infallibile. Nel suo etimo la parola desiderio allude infatti all’assenza di stelle in grado di guidarlo. Mentre l’istinto è pura ripetizione di uno stesso schema, il desiderio è attirato dall’incognita, dal non ancora visto, dal non ancora saputo. Non si soddisfa del calore del sole o di quello del calorifero. È una forza erotica che spinge a rompere il guscio chiuso del piacere. L’omeostasi si squilibra, l’ordine stabilito salta, la routine del piacere e il suo confort si scompaginano. In questo senso l’esperienza del desiderio è sempre un’esperienza di vertigine che ci trascina nel gorgo della vita anche se a volte in questo gorgo ci perdiamo. Per questo l’immagine dell’eroe, del mistico o 24


dell’uomo impegnato che si ritirano dalla scena del mondo per un eremo di pace, attraversa frequentemente la testa di molti di noi. È un’immagine alla quale possiamo guardare come un balsamo. Il desiderio non si accontenta del piacere. Per questo Lacan lo associa alla rivolta e alla preghiera: la realtà così com’è non esaurisce mai la spinta del desiderio. Eppure non si deve però pensare che la sua inquietudine comporti necessariamente una corsa infinita priva di soddisfazione. Non è vero, come pensa l’isteria, che ogni soddisfazione del desiderio comporti una delusione. Proprio il contrario: la realizzazione del desiderio ci permette di raggiungere un soddisfazione che non delude perché non è vincolata all’illusione vacua degli oggetti. Lacan lo ripete sino alla nausea: non esiste un Oggetto del desiderio! Il desiderio che dà soddisfazione è quello che realizziamo quando facciamo esperienza di avere un nostro desiderio. Per questo Lacan proponeva di tradurre il termine tedesco Wunsch ­ usato da Freud per dire il desiderio ­ col termine "voto", "vocazione": la soddisfazione del desiderio non sarebbe allora altro che quella di seguire con decisione la propria vocazione, di non indietreggiare di fronte all’irruzione imprevedibile della sua chiamata. Anche se questo significa risvegliarsi bruscamente dalla serena irresponsabilità del piacere. MASSIMO RECALCATI 31 luglio 2012

25


QUELLA LIBERTÀ SENZA FUTURO CHE IMPEDISCE DI CRESCERE

L'

adolescenza, da sempre un'età problematica, è diventata ultimamente infinita. La colpa è soprattutto degli adulti, i padri non sanno tramontare e così uccidono i figli. Poter fare tutto, ma non avere prospettive per l'avvenire crea il disagio di oggi. UNA VOLTA gli psicoanalisti consideravano la crisi dell'adolescenza come una manifestazione psichica della tempesta puberale che trasformava il corpo infantile in quello di un giovane uomo o di una giovane donna. Era il risveglio di primavera: come abitare un nuovo corpo che non è più il corpo di un bambino ma che manifesta con forza nuove esigenze e nuovi desideri? Oggi la forbice evolutiva distanzia sempre più pubertà e adolescenza: l'età puberale sembra imporre una nuova precocità ­ bambine e bambini di 10­11 anni si comportano come veri e propri adolescenti ­ mentre, al contrario, l'adolescenza sembra non finire mai. Questa sfasatura è però l'indice di un'altra e più profonda contraddizione che rende per certi versi insostenibile la condizione dei nostri giovani. Da una parte essi si trovano gettati con grande anticipo sulla loro età mentale in un mondo ricchissimo di informazioni, saperi, sensazioni, opportunità di incontro, ma, dall'altra parte, sono lasciati soli dagli adulti nel loro percorso di formazione. Nessuna epoca come la nostra ha conosciuto una libertà individuale e di massa come quella che sperimentano i nostri giovani. Ma a questa nuova libertà non corrisponde nessuna promessa sull'avvenire. La vecchia generazione ha disertato il suo ruolo educativo e ha consegnato ai giovani una libertà mutilata. L'offerta incalzante di sempre nuove sensazioni si è moltiplicata quasi a parare l'assenza drammatica di prospettive nella vita. Ecco disegnato il ritratto del nuovo disagio della giovinezza: per i nostri figli sono esposti ad un bombardamento continuo di stimolazioni e, per un altro verso, gli adulti evadono il compito educativo che la differenza generazionale impone simbolicamente loro e la cui funzione sarebbe, oggi, se possibile, ancora più preziosa che nel passato dove l'educazione veniva garantita attraverso l'autorità della tradizione. Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in modo assillante una metafora educativa tristemente 26


nota: "Siete come viti che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non orienta più ­ meno male ­ il discorso educativo. Oggi non esistono più ­ meno male ­ pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. Non che gli adulti in generale non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare, non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli è aperta ad un sapere senza veli ­ quello delle rete per esempio ­ ma anche quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda, mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri genitori, seguono per lo più atverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili della tradizione e della trasmissione familiare. E', come direbbe Bauman, la condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano ­ nel bene e nel male ­ obbligate ad inventare un loro percorso originale di crescita. I nostri figli sono nel tempo di una libertà di massa dove però l'isolamento cresce esponenzialmente insieme al conformismo. La loro responsabilità cresce precocemente, ma sempre più raramente possono incontrare negli adulti incarnazioni credibili della responsabilità. La politica non dovrebbe essere un punto di riferimento culturale alto al quale i giovani debbono poter 27


guardare con fiducia? Ma non è proprio il luogo della politica ­ per Aristotele la più alta e nobile delle arti, quella capace di ricomporre le differenze particolari per il bene comune della Polis ­ ad essersi trasformato in un party adolescenziale forsennato? L'iperedonismo contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti. Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire. Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile? Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? E' all'altezza del compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida, ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. MASSIMO RECALCATI 06 ottobre 2012

28


da la Repubblica.it 2012­11­17

L'EPOCA SENZA EDIPO

Q

uest' anno ricorre il quarantennale dell' uscita di un libro che fece epoca: l' Anti­Edipo di Deleuze e Guattari che uscì a Parigi nel 1972. Si tratta della più potente critica alla pratica e alla teoria della psicoanalisi mossa da "sinistra". Oggi, come sappiamo, imperversa la critica conservatrice: contro la psicoanalisi vengono invocati la psicologia scientifica, il potere chimico dello psicofarmaco, l' autorità esclusiva della psichiatria nel trattamento del disagio mentale. Invece gli autori dell' Anti­Edipo (un filosofo già molto noto e un brillante psichiatra analizzante di Lacan con il quale ruppe bruscamente) non rimproverano affatto alla psicoanalisi di non essere sufficientemente scientifica nella sue affermazioni teoriche e nella sua pratica clinica, ma qualcosa di assai più radicale. Le rimproverano di essere al servizio del potere e dell' ordine stabilito. La loro accusa è che la psicoanalisi dopo aver scoperto il "desiderio inconscio" ha volutamente ridotto la portata rivoluzionaria di questa scoperta mettendosi al servizio del padrone. Su cosa si reggerebbe il culto psicoanalitico dell' Edipo se non sull' obbedienza cieca alla Legge repressiva e mortificante del padre? Nonostante la violenza spietata degli Anti­Edipo gli psicoanalisti dovrebbero leggere e rileggere ancora oggi la loro opera come un grande vento di primavera. Sotto la retorica rivoluzionaria della liberazione del corpo schizo, fuori­Legge, del "corpo senza organi" come macchina desiderante, come fabbrica produttiva del godimento pulsionale, questo libro contiene una serie di rilievi alla psicoanalisi che non si possono accantonare: la critica relativa all' uso paranoico e violento dell' interpretazione (se un paziente dice X vuole dire Y), una rappresentazione dell' inconscio come teatrino familaristico, chiuso su se stesso, che perderebbe di vista il suo carattere sociale e i suoi infiniti concatenamenti collettivi, una apologia conformista e moralista del principio di realtà e dell' adattamento come fine ultimo della pratica analitica, l' uso tutto politico del denaro che seleziona i pazienti in base al loro reddito, una valorizzazione dell' Io e del suo principio di prestazione, eccetera. Eppure questo libro va molto al di là di questo, perché ha mobilitato alla rivolta una intera generazione, quella del '77. Quest' opera è una critica politica alla psicoanalisi che non promuove tanto una improbabile teoria alternativa a quella psicoanalitica (la schizoanalisi) ma una vera e propria teoria della rivoluzione dove "tutto è possibile". A questa teoria si sono abbeverati con entusiasmo i giovani della 29


mia generazione. Foucault aveva dichiarato che il nostro secolo forse sarebbe stato deleuziano. Aveva ragione ma in un senso probabilmente molto diverso da quello che auspicava. Il deleuzismo è sfuggito dalle mani di Deleuze (come spesso accade per tutti gli "ismi"). L' Anti­Edipo ha dato involontariamente la stura ad un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge che ha finito paradossalmente per colludere con l' orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi ­ non delle macchine desideranti come si auspicavano Deleuze e Guattari ­ ma di denaro e di godimento che hanno alimentato la macchina impazzita del discorso del capitalista. Lacan aveva provato a segnalare ai due questo pericolo. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull' Anti­Edipo rispose che «L' Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deluzee Guattari hanno voluto intitolare l' Anti­Edipo possa avere il minimo interesse». Lacan avverte che non bisogna premere il grilletto troppo rapidamente sul padre. La contrapposizione rivoluzionaria tra le macchine desideranti e la Legge, tra la spinta impersonale e de­territorializzante della potenza del desiderio e la tendenza conservatrice alla territorializzazione rigida del potere e delle sue istituzioni (Chiesa, Esercito, famiglia, psicoanalisi...) rischiava di dissolvere il senso etico della responsabilità soggettiva. Per Deleuze e Guattari la parola soggetto è infatti una parola da mettere al bando, così come Legge, castrazione, mancanza. L' Anti­Edipo compie un elogio a senso unico della forza della pulsione che lo fa scivolare fatalmente in una prospettiva di naturalizzazione vitalistica dell' umano. La liberazione dei flussi del desiderio reagisce giustamente al culto rassegnato del principio di realtà al quale sembra votarsi la psicoanalisi, senza accorgersi di generare un nuovo mostro: il mito della schizofrenia come nome della vita che rigetta ogni forma di limite. Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell' Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinicae perversa del discorso capitalista. Eppure l' Anti­Edipo a rileggerlo oggi è anche molto più di questo. Non è solo la celebrazione di un desiderio che non riesce a fare i conti con la Legge della castrazione. C' è una linea più sottile che attraversa questo libro e che la nostra generazione non è riuscita probabilmente a cogliere sino in fondo.È un grande tema dell' Anti­Edipo se non il tema centrale. Deleuze e Guattari lo ripropongono attraverso le parole dello psicoanalista Reich: «perché le masse hanno desiderato il fascismo?». Problema che ritroviamo intatto già in Spinoza: perchè gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro libertà? In Millepiani Deleuze e Guattari, quasi dieci anni dopo l' Anti­ 30


Edipo, devono ritornare sull' opposizione tra desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio. Attenzioni ai micro­fascismi, ai micro­edipi che s' insediano proprio là dove pensavamo ci fosse il flusso liberatorio del desiderio. «La madre ­ scrivono i due ­ può credersi autorizzata a masturbare il figlio, il padre può diventare mamma». Un' autocritica che suona anticipatrice dei nostri tempi. Come Nietzsche avvertiva gli uomini che vivevano nell' annuncio liberatorio della morte di Dio del rischio di generare nuovi idoli (lo scientismo, il fanatismo ideologico, l' ateismo stesso, ogni specie di fondamentalismo), allo stesso modo Deleuze e Guattari avvertono che esiste un pericolo insidioso inscritto nella stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come "linea di fuga" che oltrepassa costantemente il limite. Attenzione, sembrano dirci, che questa linea «non si converta in distruzione, abolizione pura e semplice, passione d' abolizione». Attenzione che questa "linea di fuga" che rigetta il limite non diventi una "linea di Morte". MASSIMO RECALCATI 17 novembre 2012

31


da la Repubblica.it 2013­09­20

MAESTRO RILUTTANTE CARI PROFESSORI NON FATE GLI PSICOLOGI

I

n queste settimane che la Scuola riapre le sue porte auguro che ogni insegnante ritrovi il senso del suo lavoro ­ bistrattato e umiliato economicamente e socialmente ­ come uno tra quelli più decisivi nella formazione dell'individuo. Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita. Nel nostro tempo la scuola di ogni ordine e grado sembra ridotta ad un "esamificio". L'impeto della valutazione vorrebbe imporre scansioni dell'apprendimento uguali per tutti. Sempre più si sta imponendo una scuola che il "sogno" di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre "i" (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione. Il nostro tempo non coltiva l'ideale di una scuola autoritaria e disciplinare. Non è più il tempo dove­ secondo una tristemente nota metafora botanica ­ l'allievo è assimilato ad una vite storta e l'insegnante ad un paletto diritto e ad un filo di ferro capace di raddrizzarne la stortura. Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo. Il nostro tempo non concepisce più l'allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto. L'apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo l'ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria. All'illusione botanica si è sostituita quella tecnologico­cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell'apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell'insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell'istituzione che non a quella degli allievi. Attualmente un'altra illusione ha fatto capolino. È l'illusione dell'insegnante­psicologo che possiamo sintetizzare con il racconto che ho udito fare da un professore di liceo ad un recente convegno sulla scuola al quale ho partecipato. 32


Questi si vantava nel suo lavoro quotidiano di lasciare da parte i contenuti dei programmi ministeriali per dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi raccogliendo le loro confidenze più personali. Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com'è noto, i programmi didattici si disinteressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L'amore per il sapere ­ che dovrebbe animare ogni insegnante ­ lascia il posto ad una supplenza diretta del mestiere del genitore. Mentre l'informatizzazione cognitivista della scuola esalta un sapere senza vita, questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare la vita senza sapere. Si tratta di due facce della stessa medaglia accomunate da una stessa fondamentale dimenticanza: l'importanza dell'ora di lezione nel promuovere l'amore verso il sapere come condizione per ogni possibile apprendimento. Lo scandalo del professore di liceo che ha abusato del suo ruolo per coltivare relazioni sessuali con le sue allieve minorenni è ancora caldo. In quel caso si è trattato di una distorsione, o se si preferisce, di una deviazione di quello che gli psicoanalisti chiamano "transfert". Di cosa si tratta? La sua matrice si trova nel gesto di Socrate narrato nel Simposio di Platone. Agatone, l'allievo, si siede vicino al maestro coltivando l'illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l'illusione che abita ogni scolastica dell'apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all'orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere "riempito". Negandosi alla domanda ingenua di Agatone ­ "travasa in me il tuo sapere" ­ Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa "trasporto", "sentirsi trasportati") distogliendolo dall'illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l'allievo si metta in movimento ­ si senta trasportato ­ verso il sapere, affinché nasca nell'allievo un desiderio autentico di sapere. Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch'io non so quello che tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi

33


(illusione psicologista) perché l'alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile. Sull'importanza vitale dell'ora di lezione mi si permetta un ricordo personale. Da ragazzo frequentavo alla fine degli anni Settanta le aule disadorne di un Istituto agrario specializzato in coltivazione di serre calde situato nell'estrema periferia di Milano. Alcuni dei miei compagni finirono sperduti in India, altri costeggiarono pericolosamente il terrorismo, altri ancora sono stati ammazzati dalla droga. Eravamo in quell'Istituto un manipolo di cause perse. Cosa mi salvò se non un'ora di lezione, se non una giovane professoressa di lettere di nome Giulia Terzaghi che entrò in aula stretta in un tailleur grigio rigorosissimo parlandoci di poeti con una passione a noi sconosciuta? Cosa mi salvò se non un'ora di lezione? Se non quella passione sconosciuta che Giulia sapeva incarnare? Questa storia non è solo la mia ma è la storia di molti. Cosa ci salvò se non quel desiderio di sapere che si propagava dalla forza della parola dell'insegnante capace di scuoterci dal sonno? Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare? Nonè forse l'ora di lezione che può rimettere in movimento le vite scuotendole dall'inerzia di un sapere proposto solo come un oggetto morto? Auguro a tutti gli studenti di ordine e grado di incontrare la loro Giulia. MASSIMO RECALCATI 20 settembre 2013

34


"GLI SDRAIATI" DI MICHELE SERRA

IL SILENZIO DEI PADRI DI FRONTE AI FIGLI STESI SUL DIVANO

F

reud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l'insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all'esercizio della genitorialità. Tutt'altro. E' da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell'epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall'alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte? Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale "fragilità materna", la schizofrenica incarnazione dell'autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti ­ come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta ­ da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell'ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d'autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai "vecchi". "Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono". Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici 35


come fossero prolungamenti post­umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove "tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso". Eccoli i consumisti perfetti, "il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l'illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa". Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, "è l'evoluzione della specie", come commenta suo figlio. Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l'orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che "contiene il suo addio agli anni dell'innocenza", o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo. La giovinezza si palesa innanzitutto nell'odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l'odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell'età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l'odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. 36


In Pastorale americana di Philip Roth l'impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell'opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta ­ in una atmosfera oniroide alla Blade Runner ­ come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani. Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è "la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra". Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all'altra. E non dispererei che le portulache che sono state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare ­ "la cura del mondo è una abitudine che si eredita", scrive Serra ­ possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile. di MASSIMO RECALCATI 06 novembre 2013

37


da la Repubblica.it 2013­11­22

LA LINGUA STRANIERA CHE NON RIUSCIAMO AD IMPARARE DAVVERO

A

violenza dei maschi non è solo la manifestazione scabrosa del potere tramandato da una cultura che discrimina le donne. Come l'esperienza clinica ci mostra essa è soprattutto l'espressione di una angoscia profonda di molti uomini di fronte all'alfabeto dell'amore. La donna è infatti per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento. La violenza sul corpo e sulla mente delle donne è un modo per aggirare lo spigolo duro di questo alfabeto. L'incontro con una donna implica sempre, per ogni uomo, una quota di angoscia anche se essa può venire spavaldamente (ecco a cosa serve il gruppo con il quale si può barbaramente condividere la violenza) misconosciuta. La lingua straniera del femminile, l'eteros radicale che essa incarna, non può però essere mai assimilata e estirpata del tutto. Per questo la violenza maschile può assumere le forme più odiose ed efferate e concludersi con la morte della vittima. Un suo paradigma agghiacciante si può trovare nel personaggio psicotico protagonista di Figlio di Dio di Cormac Mc Carthy, il quale uccide le donne come unica condizione per poter avere rapporti, non solo sessuali, con loro. Solo il corpo ridotto a cadavere dovrebbe sancire la neutralizzazione definitiva dell'angoscia. In realtà le vittime si devono drammaticamente moltiplicare perché nessuna violenza potrà mai fare tacere la lingua straniera della donna. MASSIMO RECALCATI 22 novembre 2013

38


QUELLO STRANO EROTISMO DEL SAPERE CHE LEGA IL MAESTRO ALL'ALLIEVO di Simonetta Fiori, la Repubblica, 02/09/2014 Tra ricordi, spunti, riflessioni e analisi, il nuovo libro di Massimo Recalcati affronta da una prospettiva originale il "mistero" dell'insegnamento. Da Platone ai nostri giorni.

«A

llora è giusto quello che ho sentito dire di te», gli disse una volta un vecchio professore di filosofia al termine di una conferenza. «Potresti spiegare Lacan anche ai sassi!». Sì, è vero, pensò allora Massimo Recalcati, mi piace ripetere, sminuzzare, ridurre fino all'osso. Pensieri lungamente corteggiati e fatti danzare dalla psicoanalisi alla letteratura, dalla dimensione più intima a quella pubblica, sciogliendo la noia dei tecnicismi nel vortice della vita. Un rituale che si ripresenta integro nei libri e negli articoli dello studioso. Ma dietro questa pervicace ostinazione si nasconde un piccolo segreto, racchiuso in una nota a pie' di pagina del nuovo saggio L'ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento. «Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi rivolgo». Una "vite storta", così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». Una vite che della stortura fa oggi un vanto, perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce. Ma nel cielo perturbato dell'adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del maestro. Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo, che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola "erotismo". «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l'amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert». La scuola come "sentinella dell'erotismo del sapere", della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all'inaudito, all'imprevisto ». L'urto che ti costringe a pensare. 39


Un miracolo che può compiersi solo se non c'è sudditanza. Non vi può essere, insiste Recalcati. Ed è questo l'errore in cui precipita l'attuale scuola delle competenze, quella dell'efficienza e della prestazione, che riduce l'apprendimento a plagio, alla pura ripetizione, al calco acritico di un sapere costituito. La metafora dell'amore, spiega lo studioso, consiste nel trasformare chi ascolta in soggetto attivo, da "eromenos" in "erastes", dallo statuto inerte dell'amato a quello partecipe dell'amante, di colui che cerca. In questo non c'è differenza tra professore e psicoanalista, «che non domanda nulla al paziente se non che diventi un analizzante». All'origine è il gesto scandaloso di Socrate nella scena di apertura del Simposio. Agatone lo vuole vicino a sé per essere "riempito" della sua sapienza, ma il maestro rifiuta il ruolo. Senza ricerca non ci può essere conoscenza. Il sapere si alimenta di vuoti, non di pieni. «E il sapere del maestro non è mai ciò che colma la mancanza quanto ciò che la preserva». Questo in sostanza dice il gesto spiazzante di Socrate. Ed è anche il gesto dirompente di Emilio Vedova, che per liberare gli allievi sporca la tela con un colpo di spazzolone: perché il bianco non è mai un vuoto, ma un carico fin troppo ingombrante di storia e tradizione. Gesti dimenticati, quelli di Socrate e di Vedova. Liquidati come vecchi attrezzi antieconomici, sia a scuola che all'università. Ecco perché bisogna ripartire dall'ora di lezione. Solo l'incontro misterioso tra allievi e maestri può salvare un'istituzione che rischia il naufragio. Niente può sostituirlo: né computer né slide né pillole tecnologiche. Recalcati non ignora il carico di paradossi che grava sull'insegnante, figura sociale mortificata eppure oggi più che mai investita di attese e responsabilità. Se nella scuola che definisce "Edipo" ­ quella antica fondata sull'autorità del padre, gerarchica, assai temuta ­ era integro il patto tra genitori e insegnanti, nell'attuale scuola "Narciso" quel patto s'è frantumato, travolto da una nuova mortifera alleanza tra genitori e figli. Un'alleanza fondata sull'abolizione di ostacoli e limiti, sul "perché no?", su una coincidenza di narcisismi paterni e filiari che non contempla frustrazioni e ancor meno fallimenti. È questa la solitudine dell'insegnante, «costretto a supplire a famiglie inesistenti o angosciate». Ed è anche la solitudine in cui versa la scuola che, se prima incarnava l'istituzione sorvegliante e punitiva, oggi si trova a essere l'unico baluardo di resistenza «all'iperedonismo acefalo», dunque uno strumento di liberazione piuttosto che di intruppamento ideologico. È un'isola di anticonformismo, ripete giustamente Recalcati, la sola che ponga dei limiti al godimento immediato. La legge della parola contro l'indisciplina del consumo sfrenato: di 40


oggetti tecnologici, di alcol, di fumo, di droghe. E senza legge non c'è neppure desiderio. Ma come si fa a conciliare norma ed Eros? Come si trasforma un libro in corpo erotico, cosa che permetterà all'allievo di «tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere»? Qui l'autore non può che evocare gli insegnanti della sua vita. La maestra delle elementari che lo sottrasse dalla "malinconia ebete" del bambino negletto. L'incontro folgorante nel secondo anno dell'istituto agrario, nella periferia povera di Quarto Oggiaro: fu Giulia Terzaghi a rappresentare il taglio, "la ripartenza", «non sarei più stato l'idiota della famiglia, lo studente storto che gettava i suoi genitori nell'angoscia». E poi i maestri dell'età adulta, nella facoltà di Filosofia di Milano: Mario dal Pra e Riccardo Massa, Carlo Sini e Franco Fergnani, con lui «Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro». Ogni lettore penserà ai suoi, di maestri, a quelli che hanno acceso le stelle filanti del desiderio. Ne ricorderà la voce, quel particolare timbro, le inflessioni, la particolarità. Perché è vero quel che scrive Recalcati, dei professori si può dimenticare la faccia o il nome ma non la voce. La voce che è corpo, «espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare ». Il desiderio di insegnare, ecco il filo comune. La voce lucida di Severino e quella metallica di Foucault. Il balbettio appassionato di Stoner quando si libera di una filologia morta. La voce del professore di Philip Roth che urla il suo trasporto per il sapere: «Per me non c'è nient'altro nella vita che valga l'ora di lezione ». Una voce che ci portiamo dentro anche inconsapevolmente, ed è per questo che è difficile accettarne la scomparsa. La notizia ti può cogliere di sorpresa, anche a distanza di anni. I maestri sono per sempre, in ciò che sei diventato, in quello che leggi e impari ogni giorno. «Sei una presenza che insiste a vivere in me», scrive Recalcati in una lettera d'amore alla professoressa Giulia. «Impossibile continuare senza di te, ma impossibile non continuare senza di te». Parole di Beckett che resistono. Il potente enigma dell'ora di lezione.

41


42


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.