Corrispondenze d'Amorosi Sensi

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Gia m p iero Ra s p e tti

Corrispondenze d’amorosi sensi


Giampiero Raspetti

Corrispondenze d’amorosi sensi


Indice Prefazione di Piero Fabbri N o n l e g g e r m i , s e n o n p ro v i g i o i a a f a r l a v o r a re l a t u a m e n t e .

Ci rivediamo Origini

1

Faber di necessitĂ

13

Assiri

53

Egitto

61

Geroglifici

79

Numeri

95

Grecia

105

Roma

123


Prefazione Homo Sapiens Sapiens è il nome scientifico della nostra specie, e già nel ripetersi di quel doppio participio presente, sapiente, si cela una strana maledizione. È una maledizione diffusa, anche se solo alcuni soggetti sembrano soffrirne in maniera acuta e disperata: si tratta della consapevolezza di non poter, in nessun modo, conoscere tutto. Ne soffrono in modo intenso le persone curiose, ma basta soffermarsi un attimo per capire che è una malattia innata nella specie: a differenza degli altri animali del pianeta, che per tutta la loro evoluzione si sono migliorati nell’adattarsi all’ambiente, la specie umana si è evoluta nella direzione opposta, cercando il metodo per adattare l’ambiente a se stessa. È stata una scelta forse inconsapevole, ma comunque coraggiosa e di importanza capitale; ed è un passo cruciale per comprendere la natura dell’Uomo. Il motore di questo grandioso sconvolgimento dei parametri naturali è stato il progressivo e inarrestabile sviluppo dell’intelligenza: ma il primo alimento dell’intelligenza è la curiosità. Le abilità di scoprire, di inventare, di immaginare e costruire manufatti che così fortemente caratterizzano l’animale Uomo, altro non sono che effetti collaterali di questa iniziale curiosità. È quindi proprio la curiosità, in ultima analisi, ciò che determina la natura e il destino dell’essere umano. Non fossimo curiosi, non saremmo uomini: e non è una metafora, ma una verità che discende direttamente dalle teorie di Darwin. Però la Terra e l’Universo sono grandi, grandissimi: troppo grandi perfino per l’enorme curiosità dell’Uomo. Sono stracolmi di scoperte ancora possibili, traboccano di interrogativi che eternamente si rinnovano. In pochi secoli il mondo dell’uomo si è altamente specializzato; ogni lavoro, ogni attività richiede un gran numero di informazioni specifiche, di dettagli complessi. La vita stessa è ormai così specializzata che ci vuole tempo e formazione anche solo per riuscire a muoversi in un piccolo ambito tecnico, come guidare una macchina, od usare un telefonino. Oggi più che mai è davvero impossibile per un singolo individuo padroneggiare tutto il conoscibile. Non sono più immaginabili i grandi geni universali, quelle persone che racchiudevano in una sola mente tutte o quasi le conoscenze del loro tempo. Ed è per questo che fin dalle elementari si insegnano i diversi aspetti della conoscenza suddividendoli in categorie e discipline: lingua, aritmetica, storia, geografia, disegno, arte: poi la struttura della conoscenza si raffina, si specializza nelle medie, si canalizza nelle scuole superiori, si separa definitivamente nelle università. Finché le discipline diventano del


tutto incomunicabili: separati i dipartimenti, addirittura estranei tra loro i vari settori del mondo del lavoro, e quindi della vita stessa. Anche se non è possibile fare altrimenti, non bisognerebbe però mai dimenticare alcuni princìpi fondamentali: ad esempio, che la curiosità degli esseri umani è per propria natura generale e diffusa, e niente affatto settoriale. O che l’universo che vogliamo e dobbiamo scoprire è unico, e non è certo tenuto a rispettare le classificazioni artificiose nelle quali noi, per nostro comodo, lo abbiamo arbitrariamente suddiviso. Pensare che sussista qualche forma di incompatibilità tra i diversi oggetti della conoscenza è un errore. È quasi sempre solo per pigrizia mentale che ci si rifugia in questa convinzione, e si risolve di fatto nella paura d’iniziare l’avventura di Ulisse, che per bocca di Dante ci esorta a seguire virtù e conoscenza. Dovrebbe confortarci l’idea che la natura si sia dimostrata conoscibile dall’uomo, almeno finora, almeno in parte. Quindi, quasi per definizione, non esistono reali barriere all’indagine, non esistono forme diverse di conoscenza: ce ne è una sola che possediamo, e la possediamo tutti. Questo è tanto più vero se si prova a guardare come si svolge, in genere, la carriera di uno scienziato: se è vero -come è vero- che continua ad imparare e a studiare per tutto il corso della vita, è anche indiscutibile che il lavoro di esplorazione e dettaglio viene affrontato di solito in gioventù e nella prima maturità; quando i dettagli delle nuove scoperte sono ben compresi e posseduti, la sua attenzione torna ad interrogarsi sui fondamenti, spesso mettendoli in discussione; perché è lì, al principio, che risiede la parte più misteriosa della propria disciplina. Proprio come i grandi maestri di arti marziali, che dopo aver raggiunto tutti i possibili gradi e colori delle proprie cinture tornano ad indossare quella bianca, a simboleggiare il ritorno allo sguardo innocente e curioso del bambino. Perché il bambino è curioso di tutto. Impara a contare e a leggere, e certo non si rende neppure ben conto di star imparando i rudimenti di due discipline diverse; dal suo punto di vista, sta solo scoprendo delle cose. Perché non distingue istintivamente le discipline? Perché è troppo piccolo e ingenuo? O forse perché è la separazione stessa delle discipline che è innaturale, artificiosa? Il bambino è ancora immune dalle costrizioni delle suddivisioni artificiali della conoscenza che gli adulti sono stati costretti a costruire. Le separazioni tra discipline sono artefatti, e gli artefatti sono sempre di difficile comprensione per uno scolaro di sei anni. Siamo prigionieri di quell’incantesimo che ci impedisce di conoscere in dettaglio ogni aspetto del mondo. La maledizione di cui siamo vittime, quel “non poter conoscere tutto” ci costringe a selezionare, a scegliere: ma


è davvero importante ricordare che questo significa perdere qualcosa, perché ogni scelta comporta una drammatica rinuncia. E se per cause pratiche siamo forzati a canalizzare la nostra attenzione quotidiana, per la stessa ragione dovremmo sforzarci ogni tanto di tornare indietro e cercare i punti di contatto, i nodi in cui i rami delle specializzazioni tornano nel tronco unico e solido dell’albero della conoscenza. È lì che si trovano le maggiori sorprese; è lì, nelle connessioni impreviste e imprevedibili della sapienza iniziale dalla quale si dipartono tutti i rami, che si possono riconoscere i caratteri comuni di ogni avanzatissima e diversissima tecnica. È lì che si trovano le corrispondenze. “Corrispondenze” è la parola magica di questo libro. Come accade sempre nelle opere meditate, ci si ritrova come guida una parola che incredibilmente riesce a sintetizzare più di quanto ci si possa aspettare da una singola voce di dizionario. Per l’uomo comune, “corrispondenza” può forse portare alla mente uno scambio di lettere, uffici postali, postini; o forse, all’alba di questo secolo, di un flusso ininterrotto di e-mail. Per uno studioso di umanistica, la “corrispondenza” è talmente vitale che assurge al nome stesso della disciplina che più ama: la corrispondenza è fatta di lettere, e dalle lettere deriva non solo l’essenza, ma il nome stesso della letteratura. Per un matematico, la corrispondenza è l’oggetto stesso della ricerca: è ciò che si trova, ad esempio, come fattore comune tra quattro pecore, quattro case e quattro dita: qualcosa che è impalpabile, che mette in contatto concetti diversi e inspiegabili, finché non si scopre (o si inventa) il concetto di numero. “Quattro” è proprio la corrispondenza tra quei gruppi di pecore, case e dita: è dalle corrispondenze che nasce il numero, e pertanto è dalle corrispondenze che nasce la matematica stessa. In questo libro sarete portati a cercare, non solo a scoprire, diverse corrispondenze. L’alternarsi di pagine bianche e nere che mescolano l’approccio letterario delle une con l’approccio scientifico delle altre, accompagna e guida una lettura che vuole sempre far pensare a come poteva essere prima, all’inizio, la ricerca del sapere. Il primo dei protagonisti si chiama Ras, e Ras significa “molti”: questa è la parola che usano, ancor oggi, i popoli primitivi quando si sentono incapaci di proseguire a mettere in corrispondenza oggetti e numeri. Uno, due, tre... molti. Quindi Ras è un confine, e come tale va superato, ricercato, risolto. Ras non ha gli strumenti dell’uomo moderno, non è legato alla categorizzazione crudele - da una parte la scienza, da un’altra l’arte, in una terza direzione ancora la vita stessa. Ras mette insieme tutto quello che ha, bastoncini e divinità, mente e sassolini, magia ed esperimento, per superare la maledizione che lo marchia già nel suo stesso nome.


Al Ras primitivo fa seguito il Ra egizio, e poi il Ro greco, il Radius romano: tutti alla ricerca del sapere attraverso le corrispondenze. E tutti, naturalmente, alter-ego dell’autore da cui originano il nome: Giampiero Raspetti. È lo stesso autore che si trasporta indietro nel tempo, alla ricerca dei nodi iniziali della conoscenza: e per farlo utilizza un nuovo, ulteriore significato della parola “corrispondenza”. Perché sono due le azioni cruciali del conoscere: lo studio e la congettura. Raspetti, per scrivere questo libro, ha dovuto scavare all’indietro, ricostruire antichi alfabeti, destinare alla ricerca molto tempo. Allo stesso tempo, ha provato a ragionare, a considerare, a mettere in relazione oggetti e princìpi. Perché è così che funziona: si impara dagli altri, e poi si prova a dare il proprio contributo originale. Al primitivo Ras manca la corrispondenza tra il suo nome, che è una dichiarazione di impossibilità di conoscere i nomi dei numeri e delle cose, e il suo desiderio di conoscere tutto. A Ra manca ancora la corrispondenza tra la natura, il cielo e gli dèi, e la cerca. A Ro, che battezza e dà nome ai numeri, manca il nome per chiamare l’infinito. A Raspetti, inquieto abitatore dei nostri tempi, manchi solo tu, lettore, perché è a tutti noi che l’autore indirizza la sua esigenza di ricercare e di conoscere. Ras, Ra, Ro, Radius, Raspetti: tutti cercano corrispondenze, che poi altro non sono che le comunicazioni, i contatti, i segnali astratti dell’unità concreta della natura. Perché in fondo la vita stessa, e non solo la conoscenza, altro non è che la ricerca di identità, di comunanze, di corrispondenze, appunto. Mettere in relazione le tacche su un osso e le stelle dell’Orsa Maggiore è l’inizio del contare, ma è anche, forse soprattutto, un’azione non troppo diversa dal mettere in relazione una persona con un’altra. Ed è forse per questo che anche la parola “relazione” ha un significato così denso, interdisciplinare, con coniugazioni e significati molto variegati da materia a materia, ma tale da mantenere sempre, in ogni caso, il suo significato originale e nativo: che è quello di punto di contatto, di riconoscimento, di identità in qualche aspetto ben preciso. Ed è per questo che questo libro, che qualcuno potrebbe prendere per un libro “solo” di matematica, ha in realtà intenzioni più decise e coraggiose. Nella ricerca delle corrispondenze della matematica con l’arte, con la mitologia, con la letteratura, con la scienza e con l’Uomo, si nasconde anche la ricerca più essenziale, che è la ricerca della comunanza, dell’Altro. Così, per quanto possa sembrare difficile crederlo a prima vista, questo è soprattutto un libro d’amore. P i e ro F a b b r i


Ci rivediamo ... non sempre il tempo la beltĂ cancella...


Ottiene di più una mente mediocre grazie all’applicazione che un ingegno eccellente senza di essa. I

Metodo Sono in tanti, nel nostro Bel Paese, ad odiare la matematica e ad essere terrorizzati da logica e scienza, categorie del pensiero indispensabili per sconfiggere demagogia e cialtroneria. Non basta loro darsi un gran daffare con superstizioni in tutte le salse, gossip al galoppo e sport narcotizzante. Sorretti da ideologie di comodo e avendo in gioventù imparata la matematica sempre a memoria, traendone a volte anche dei bei voti, riducono il linguaggio della scienza a pura tecnica di calcolo, funzionale al trionfo del falso, e massacrano così sue umanissime peculiarità come la fantasia, la poesia, la creatività, l’esaltazione spirituale. La matematica non è materia che studia un insieme di oggetti, seppur ideali, come i numeri e le figure. Non è come la botanica, la zoologia, l’astronomia che studiano degli oggetti quali: i vegetali, gli animali, i corpi celesti. Né è solo disciplina contenente oggetti, campo di elaborazione, campo di integrazione culturale, formule, astrazioni. È un metodo: il metodo che porta da situazioni fisiche a situazioni mentali, da strutture reali a strutture astratte che le rappresentano e che ne sono perfezionamento. Negli studi scolastici occorrerebbe allora sviluppare quel processo di apprendimento-ricerca che si configura non più come assunzione di conoscenze in modo passivo, come sapere codificato, ma come acquisizione attraverso una scoperta personale a partire da situazioni problematiche. È motivazione la matematica, voglia cioè di essere protagonista del proprio intelletto e del proprio sapere. È insieme di metodi da costruire da soli. Non è ripetizione di regole avulse dal contesto, sciocchezze con cui uomini senza valore catechizzano i loro sfortunati discepoli, costringendo gran parte di un popolo, indiscutibilmente tra i più intelligentiI al mondo, ad essere dominato da corone più o meno sacre ma sempre unite, da forze occulte, da vergogne temporali camuffate in poteri spirituali. In tutto questo siamo ormai al primo postoII. Nella comprensione critica siamo invece agli ultimissimi posti. Di questo sfascio... nessun mea culpa (o la colpa è degli altri... dei governi precedenti, come si usa ormai nella partitica italiana, nemica per eccellenza della matematica, infarcita com’è di demagogia, zozzeria e fanfalucheria).


I, II - Peggio di noi Il Ministero della Pubblica Istruzione ammette che in Italia non ci si iscrive più alle facoltà scientifiche. E vorrei vedere... solo uno sparuto gruppo di paesi definiti sottosviluppati è ormai (dati provenienti dalle apposite Organizzazioni dell’ONU sull’educazione), per quanto attiene la comprensione scientifica, conciato peggio di noi. Saremo costretti ad importare insegnanti di matematica dall’Ungheria, dall’Albania, dall’India! E dire che affondiamo le radici nei mondi babilonese, etrusco, egiziano, greco... latino! Abbiamo consegnato al mondo intero un patrimonio eccezionale di opere d’arte (in tutte le arti) e di scienziati (in tutte le scienze). Le menti degli italiani sono molto, molto mature per meriti di nascita, potendo beneficiare della massima concentrazione di stimoli paesaggistici, ambientali, storici e culturali possibile in un unico paese. Oltre alla radiosità delle condizioni atmosferico-ambientali, nel nostro Bel Paese sono presenti quasi tutti gli habitat naturali conosciuti, in un alternarsi prodigioso. Chi vive l’intera sua esistenza soltanto nel deserto o tra i ghiacciai assorbe stimoli monotòni e gli effetti intellettivi sono del tutto conseguenziali e noti. Il nostro è il Paese più bello del mondo, troppi beduini però pretendono, da noi, di insegnare agli eskimesi come pescare e come mangiar pesce e troppi eskimesi nostrani si affannano unicamente per il loro igloo, frodando impunemente il pescato degli altri. Troppi istruttori ripetono ancora ad alta voce, di pomeriggio e a casa, quello che all’indomani spargeranno sulle teste dei loro discenti, pretendendo poi che, nelle loro repetita (che in tali casi non iuvant), non sgarrino di una sola virgola! Qualcuno sta accorgendosi che l’insegnante non può poter contare su di un tranquillo impiego solo in base alla graduatoria d’anzianità, ma in virtù di un libero contratto tra Istituto scolastico e discente, contratto che terrà ovviamente conto del successo dell’insegnante con i suoi discenti. A grande successo, quindi a molta utilità sociale, corrisponderanno emolumenti adeguati. Gli incapaci, come in molti altri settori della vita non contaminati dalla dilagante corruzione, dovranno organizzarsi, ad esempio nella cura della abitazione, la loro o di altri. II


A m o l a m a t e m a t i c a , a n c h e p e rc h é c o n o s c o q u e l l i c h e n o n l a p o s s o n o s o f f r i re .

Matematica

III

Sono molti in realtà a pensare che la matematica abbia una valenza quasi esclusivamente tecnico-strumentale. Costoro, grazie ai loro cattivi maestri, confondono l’aritmetica o il calcolo con la matematica vera e propria, che è invece il prodotto di un rigoroso e umanissimo pensiero, il più semplice e non contorto che l’uomo abbia mai potuto creare. Tali cristalline riflessioni hanno come principale finalità quella di comprendere il mondo, di saper vedere (dentro o tra), di essere, in breve, intelligenti (intus legere!). I comportamenti intelligenti sono misurabili? Proviamo ad enumerare le caratteristiche essenziali dell’intelligenza: - reagire in modo flessibile alle varie situazioni; - trarre vantaggio da circostanze fortuite; - ricavare un senso da messaggi ambigui e contraddittori; - riconoscere l’importanza relativa dei diversi elementi di una situazione; - trovare somiglianze tra situazioni diverse nonostante le differenze che possono dividerle; - notare distinzioni tra situazioni diverse nonostante le somiglianze che possono unirle; - sintetizzare nuovi concetti elaborando concetti vecchi e collegandoli in modi nuovi; - produrre idee nuove. La matematica, allora, è generata dall’uomo: CRITICO che sa cioè individuare il fondamentale dal secondario, sente la problematicità, è capace di impostare i problemi (sintetizzandone le vere coordinate ed i loro punti di partenza o di arrivo), studia le possibili strategie di soluzione, scopre le regole comuni (astrazione, generalizzazione...); LOGICO colui che, cioè, stabilite alcune premesse, sa dedurre conseguenze e conclusioni con logica coerente, rigorosa, ferrea, difficilmente oppugnabile; UMANO perché per la maturità umana c’è bisogno di pensiero divergente, di


saper rompere gli schemi dell’esperienza, di saper far domande (per non incorrere nel “attendere risposte a domande mai poste”). L’uomo con capacità di trovare problemi dove di norma altri trovano risposte tranquille e soddisfacenti; che vuole migliorare la propria nicchia ecologica; che è capace di giudizi autonomi ed indipendenti (da tutto e da tutti, tranne dal proprio cervello) ma con giudizio, senza cadere in nuovi dogmatismi. Questo uomo vede la situazione problematica dove altri vedono solo verità assolute, fatti scontati, elementi che non destano sorprese e non sono forieri di sviluppi e di analisi. Attualmente le strutture societarie ed i mass media tendono a massificare nel medium, che forse è il vero significato dei medium di massa, a formare cioè uomini standard, esseri impersonali, oggi incapaci di pensare con la propria testa, domani esecutori di ordini; INTUITIVO perché la matematica si scopre, è soprattutto ars inveniendi, non solo ars demostrandi (detto con franchezza... si tratta spesso di ars repetendi o reiterandi); CREATIVO che ha un pensiero divergente - amplia cioè gli schemi della esperienza, crea ipotesi, intuisce, fa domande, inventa, scopre ove gli altri trovano normalità e regolarità, genera nuove nicchie ecologiche, è capace di giudizi autonomi ed indipendenti; MORALE colui cioè per il quale non ha alcun valore il principio di autorità e accetta solo quello che è dimostrato. Il matematico morale non cercherà mai di imporre il “lei non sa chi sono io!”, non corromperà mai nessuno, non combatterà mai dieci contro uno, ma sceglierà sempre di pugnare da solo contro dieci. Accetta il giudizio degli altri così come accetta eventuali processi, vedi Socrate, a suo carico; SOCIALE chi cioè si interessa alla interazione ed alla trasformazione sociale poiché la matematica è linguaggio della scienza e scienza delle relazioni. Ben altro rispetto alla materia dei calcoletti o dei teoremi, quella che cattivi istruttori, ripetitori di regolette, riversano da epoche remote sulle teste dei nostri studenti. IV


P er st ud iare mat emat i ca : ce r vel l o, cart a, mat i t a.

Ampliamento del senso del numero

V

Il senso del numero innato, la nostra capacità cioè di saper separare e individuare delle quantità concrete, non supera, come abbiamo visto nel 1° volume, Il senso del numero, la quantità che chiamiamo tre. Raramente arriva al quattro. Eccezionalmente al cinque. Se i nostri antenati (quanto ante nati!) avessero relegato questo loro senso solo nella propria mente, senza unirlo a delle attente osservazioni e riversarlo in trascrizioni, staremmo ancora tutti, bianchi, neri, gialli a bofonchiare ed ululare. La chiave di volta, quella che ha dato inizio alla evoluzione dell’animale che chiamiamo uomoIII è risultata nella capacità e quindi nella possibilità di comunicare le conoscenze, rendendole così patrimonio comune. Se infatti il mio senso della quantità tre non corrisponde a quello del mio compagno di caccia o della mia compagna di giaciglio... non c’è crescita culturale, si parte cioè sempre da capo, tutto si azzera, come sembra accadere a gran parte di altri esemplari viventi che abbiamo visto essere in possesso di un senso del numero molto vicino al nostro. Ma l’uomo ha capacità che la natura non ha fornito ad altri esseri animati. Mi riferisco chiaramente alle due mani, in particolare alle dieci dita. Nessun primate le ha così mobili, indipendenti l’una dall’altra, in grado di sollevarsi contemporaneamente in tutti i raggruppamenti possibili (a 2 a 2, a 3 a 3..... ecc), ma, quel che più conta, nessun primate riesce a ruotare quasi completamente l’avambraccio, capacità per cui rimane facilissimo indicare, segnalare, toccare da qualunque e in qualunque posizione si stia. Nessun primate può sollevare contemporaneamente o successivamente le proprie dita! Per indicare che una certa collezione contiene 5 oggetti egli solleva, o abbassa, 5 dita contemporaneamente; per contare la stessa collezione egli solleva o abbassa le stesse dita una dopo l'altra, successivamente. Nel primo caso usa le dita come un modello cardinale, nel secondo caso come un sistema ordinale. Con queste capacità l’uomo ha maturato la consapevolezza di una certa quantità. Ma tutto ciò non significa ancora conoscenza del numero, tanto meno, saper contare.


III - Uomo Perché mai [gli uomini] sono chiamati aànJrwpoi (ànthropoi)?

SOCRATE ... spesso, quando formiamo nomi, noi inseriamo oppure togliamo lettere, in base a ciò cui intendiamo riferirci e mutiamo anche gli accenti. Prendiamo come esempio Diiì filoj (Diì phìlos, caro a Zeus): per farne un nome, anziché una locuzione, togliamo il secondo iwta (iòta, i) e pronunciamo la sillaba centrale con accento grave anziché acuto. In altri casi, al contrario, inseriamo lettere e pronunciamo acute delle sillabe gravi. ERMOGENE Dici proprio il vero. SOCRATE Proprio questo è avvenuto al nome degli uomini (aànJrwpoi, ànthropoi), così almeno credo. Infatti, da locuzione è diventato nome, tolta una sola lettera, l'aãlfa (alfa, a), e resa grave la finale. ERMOGENE Cioè? SOCRATE Ascolta: il nome aànJrwpoj (ànthropos, uomo), significa che, mentre gli altri animali non indagano sulle cose che vedono, non congetturano e non anaqrei= (anathrèi, osservano attentamente), l'aànJrwpoj nel momento stesso che vede - e cioè o)/pwpe (òpope, ha visto) - anaqrei (anathrèi) ragiona su ciò che oãpwpen (òpopen, ha visto). Di qui perciò all'uomo, unico fra gli animali, è stato correttamente dato nome aànJrwpoj (ànthropos), in quanto a)naqrw=n a(\ o)/pwpe (anathròn à òpope, osserva attentamente ciò che ha visto). Platone, Cratilo, XVII, 399 a, b, c VI


M a t e r i a l i p o v e r i , p e r l a m a t e m a t i c a . P e r i n g a n n a re , m a t e r i a l i s o n t u o s i .

Compìti

VII

Cari filosofi, avete svolto i còmpiti da me assegnati nel primo volume, Il senso del numero? Se sì, siete proprio compìti. Erano dieci, in unica dose. Ne assegnerò degli altriIV. Sappiate eseguire a comando, altrimenti non sarete considerati bravi studenti, quelli che non recano fastidio, che prendono sempre 10 in condotta perché... sono così docili e carini... Io, nel corso del mio entusiasmante lavoro come educatore, proponevo 10 in condotta ai vivaci intellettualmente, anche se birichini e la proposta subito si trasformava in uno dei tantissimi motivi di ostracismo nei miei confronti da parte della parte buona del collegio dei docenti. Cari giovani, se una sorte ria vi ha assegnato istruttori, non educatori, potete solo ignorarli garbatamente o memorizzare, 20 ore su 24 - e le altre ore... ripassare! Soprattutto, non ponete mai domande! Non siate irriverenti! Dite di sì, anche alle abissali sciocchezze che vi propinano. Mi raccomando, fate finta, siate upokrithj (ipocrites, ipocriti), attori cioè. Mandando giù tutto a memoria sarete davvero bravi a compilare gli esercizietti di aritmetica. Quello vi chiedono, quello fate... trastullatevi, non pensate... prendete l’abitudine a non assumervi responsabilità, tanto a che serve? Siate ossequiosi, ripetete tutto a memoria e avrete ottime pagelline ed eccellente laurea... ma non mancate di iscrivervi a qualche società riservata, di qualsiasi natura... i politicanti lì vi aspettano perché... possiate ipocritamente difendere l’indifendibile, cioè i loro esclusivi interessi! In fin dei conti vi hanno semplicemente immerso, attraverso una scuola macilenta, nelle imposture storiche, nel culto sfrenato della superstizione, nella narcosi generata da alcuni sport, nei giochi d’azzardo, nell’odio per la scienza e per le umane condizioni. Hanno distrutto sistematicamente gli scritti degli autori scomodi, riuscendo, oggi anche mediante i messaggi insulsi dei media, a rimettervi sempre a lui, destino, mago, oroscopo, cialtrone, unto che sia. Altri pensano per voi: come dovete amare, soffrire, morire... vi spiegano pure come pensate o come pensare... mentre consumano il vostro caffè!


IV - Esercizi per un anno In merito ad ogni tematica presentata, l’educatore avrà cura, ab initio, di immergere gli studenti nella situazione problematica, quella del suo manifestarsi storico. Cercherà poi di indurre gli allievi a scoprire da soli una possibile via risolutiva relativa a quella situazione. Si troverà di fronte a: soluzioni sbagliate, che occorre saper correggere. Qui si esalta l’arte dell’educatore, in particolare quella di non offendere, anzi di incoraggiare ancor più l’autore della risposta sbagliata; soluzioni buone, da correggere leggermente, mantenendo però sempre allo studente il merito della scoperta; soluzioni eccellenti, fornite dagli studenti per i quali io proponevo dieci in condotta; soluzioni nuovissime ed originali, che evidenziano il genio. Ricordiamo che il genio non è il bamboccio che sa tutto a memoria, il cocco dell’istruttore sol perché non dà alcun fastidio... il genio è... l’irriverente Evaristo Galois! Évariste Galois (25 ottobre 1811 - 31 maggio 1832) Annoiato dalle materie scolastiche, dovette ripetere il penultimo anno del liceo. Arrivò però un nuovo insegnante di matematica, Richard, che diceva agli studenti: Discutiamo sulla matematica, non di matematica. I matematici non deducono, ma spiano, sollecitano la scienza e, procedendo a tentoni, quando scoprono qualcosa, la scoprono per caso. Così giudicava Galois: Ha una superiorità netta su tutti i suoi compagni ed ha possibilità sorprendenti. Lavora nei campi più alti della matematica. Galois viene respinto due volte all’esame di ammissione alla École Polytechnique, per mancanza di una preparazione sistematica, ma soprattutto perché il suo modo di lavorare non corrispondeva agli schemi della Scuola. Évariste amplia il campo dei numeri ed affronta gli enti matematici nella loro struttura complessa, aprendo la strada all’affermarsi dell’algebra astratta. Politicamente fu un grande rivoluzionario, sempre dalla parte del popolo. Fu sfidato a duello, alla pistola, per una questione di amore. Una sola delle due pistole doveva essere carica, indovinate quale. Il proiettile trapassò il corpo di Évariste. La memoria che scrisse la notte prima del duello termina con la frase: Non ho tempo. COMPITO: studiare la vita di Evaristo.

(Vedi Franco Molè e Rudi Mathematici)

VIII


ESERCIZI PER UN ANNO Conoscere al meglio il sistema solare. Differenza tra stella e pianeta. Distanze tra le stelle. Galassie. La nostra galassia. Tempi di percorrenza della luce tra le stelle. Quanto dista ogni singola stella di una costellazione (Leone, ad esempio) dalla Terra? In che senso esiste una costellazione?

Riflettere e discuterne: La storia della natura e la storia dell’uomo dovevano essere spiegate e comprese entro i 5 o 6 mila anni consentiti dalla cronologia biblica: ogni proposta tendente ad allungare i tempi della natura e della storia, a concepire l’uomo come emergente da una primitiva bestialità o barbarie veniva respinta come empia o “lucreziana” o materialistica. Paolo Rossi

Perché, per controllare quello che gli allievi hanno imparato, non fate in classe un'ora di giochi (invece di interrogare)? Giocare bene significa avere gusto per la precisione, amore per la lingua, capacità di esprimersi con linguaggi non verbali; significa acquisire insieme intuizione e razionalità, abitudine alla lealtà e alla collaborazione. Lucio Lombardo Radice

Nell’apprendimento della matematica è più importante lo sviluppo della capacità di trovare risultati, piuttosto della dimostrazione rigorosa di risultati già dati.

IX


ESERCIZI PER L’ANNO DOPO Leggere attentamente e approfondire con personali ricerche tutte le pagine con fondino scuro e i seguenti libri: Cristian Jacq, Il segreto dei geroglifici - Piemme Edwin Abbott, Flatlandia - Adelphi Erodoto, Storie - Mondadori Esiodo, Teogonia - BUR Ettore Picutti, Sul numero e la sua storia - Feltrinelli Georges Ifrah, Storia universale dei numeri - Mondadori Giampiero Raspetti, Il senso del numero - Projecta Giuseppe Morpurgo, Il leggendario - Petrini I presocratici - Laterza Italo Calvino, Romanzi e racconti - Mondadori Jean Bottéro, Dai Sumeri ai Babilonesi - Electa/Gallimard Jean Vercoutter, L’antico Egitto - Electa/Gallimard Lancelot Hogben, La matematica - Sansoni Le mille e una notte - Feltrinelli Lewis Carrol, Alice nel mondo dello specchio - BUR Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie - BUR L. L. Radice, La matematica da Pitagora a Newton - Editori Riuniti N. K. Sandars, L’epopea di Gilgameš - Adelphi K. Devlin, Il gene della matematica - Longanesi Ovidio, Le metamorfosi - BUR Piero Angela, Da zero a tre anni - Mondadori Piero Angela, L’uomo e la marionetta - Garzanti Pitagora, Le opere e le testimonianze - Mondadori S. Dehaene, Il pallino della matematica - Mondadori Stanisław Lec, Pensieri spettinati - Bompiani Tobias Dantzig, Il numero - La Nuova Italia Wisława Szymborska, Vista con granello di sabbia - Adelphi X


La matematica non è una scienza deduttiva: quello è un cliché. Quando tentiamo di dimostrare un teorema, non è che elenchiamo le ipotesi e poi iniziamo a ragionarci su. Quello che facciamo è una serie di prove ed errori, esperimenti, tentativi. Pau l R. H alm o s


Origini

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L'uomo è il principio della religione, l'uomo è il centro della religione, l'uomo è il fine della religione. Ludwig Feuerbach 2

Origini Magma fuso... raffreddamento... solidificazione... molecole di poco differenziate dalla materia inerte... poi... la presenza di un uomo allo stato primordiale, un quadrumane ancor oggi non perfettamente conosciuto1. Poi... circa un milione e mezzo di anni fa, in virtù di alcune modificazioni della colonna vertebrale, compare l’homo erectus, l’antenato che acquista la posizione eretta. Da quel giorno, l’uomo alza lo sguardo al cielo. Di questo lungo periodo restano solo alcune tracce: sassi accostati a formare linee e cerchi, utensìli scheggiati e raschiatoi. Tutti segni che documentano un’attività tecnica, frutto di un lavoro intelligente, nessuna attività puramente mentale, però. Solo verso la fine dell’età della pietra scheggiata, circa cinquantamila anni fa (paleolitico superiore), il pensiero umano comincia a lasciare le sue prime testimonianze: ossa decorate con ocra rossa, piccole sfere di pietra calcarea ornate di selci e di frammenti d’osso, primordiali sepolture, pietre rozzamente scolpite e le prime incisioni rupestri, sulle quali si riconoscono uomini, animali, stelle e costellazioni2. L’homo sapiens (sapiens) cominciò ad affidare ai segni o alle figure incise sulle pareti delle caverne le rappresentazioni del proprio mondo interiore, le speranze e i timori, le azioni e le concretezze quotidiane ed i propri rapporti emotivi con il mondo esteriore: la volontà di comprenderlo e dominarlo non escluse la riverenza o il timore. Da allora la realtà, ostile o benigna, che lo sovrastava e dalla quale dipendeva totalmente, assunse i contorni di una divinità possente, volubile, bizzarra. Quando contempla il firmamento, l’uomo pensa prima di tutto a se stesso, alla sua esistenza: è dell’uomo, infatti, che parlano i miti della nascita dell’universo. Ebbe così origine una proiezione antropomorfa, intessuta di impulsi ed istinti irrazionali: è il caso delle innumerevoli personificazioni o deificazioni di forze naturali, caratteristiche delle religioni primitive, della magia, delle leggende o dei miti circa l’origine del mondo da una creazione più o meno simile a quella umana.


1 - Origini 4 milioni di anni fa

2 milioni 1,5 milioni di anni fa di anni fa

200 mila anni fa

40 mila anni fa

Andatura eretta

Primi strumenti, prime abitazioni artificiali

Invenzione del fuoco, nuova tecnica per la lavorazione della pietra

Sepoltura e culto dei morti

Inizio dell'arte, primi villaggi

Australopiteco

Homo habilis (Africa)

Homo erectus (Asia, Africa, Europa)

Homo sapiens (120 mila anni fa, uomo di Neanderthal)

Homo sapiens sapiens

2 - Costellazioni Aggregato di più stelle che compongono una figura immaginaria indicata dagli astrologi-astronomi con nomi di animali, uomini, strumenti. Dal latino “cum stella” (insieme di stelle). Molte voci autorevoli attribuiscono la definizione (o formazione) delle costellazioni alla prima civiltà caldea o mesopotamica. Le costellazioni attraverso le quali il Sole passa in primavera prendono il nome dal bestiame di utilità domestica come gli agnelli, i vitelli e i montoni, da cui derivano: l’Ariete, il Toro, i Gemelli (o capre, che danno alla luce i gemelli). Anche le stagioni sono riconosciute in veste simbolica: l’estate con il Leone, volendo probabilmente significare la fierezza del calore di luglio; c’è la Vergine in autunno quando le fanciulle venivano mandate a spigolare i raccolti; in inverno vi sono le costellazioni connesse col tempo, come l’Acquario, il portatore d’acqua, che indica un periodo di piogge, e i Pesci per la stagione in cui il pesce è nel periodo migliore. 3


Il più grande disordine dello spirito è di credere all’esistenza delle cose che si vogliono vedere. Louis Pasteur 4

Se non è facile comprendere quale bizzarro meccanismo psicologico induca ad attribuire a caso la potenza divina agli oggetti naturali, è tuttavia evidente che nella mente primitiva il processo è abituale. Riguarda le pietre, le montagne, la terra, gli animali, le acque, la vegetazione, il cielo, gli astri. I culti di quei nostri antenati3 sono gremiti di sassi sacri4, considerati come amuleti o potenze protettrici della vita, della fecondità, della buona fortuna. Ciottoli levigati sono spesso portafortuna di guerrieri e cacciatori; sassi o menhir di forma particolare proteggono le tombe e vegliano le anime dei trapassati; altri simulano falli e propiziano la fertilità dei campi. Le più rudimentali statuette del neolitico rappresentano veneri5 incinte, simboli di fecondità.


3 - Diod o ro Si c ul o, Bi bl i o te c a Sto ric a, I, 8 I primi uomini comparsi sulla terra conducevano una vita disordinata, bestiale: se ne uscivano in ordine sparso per cercare dove nutrirsi e prendevano da mangiare l’erba più dolce e i frutti che crescevano spontaneamente sugli alberi. E quando venivano attaccati dagli animali selvaggi, si aiutavano l’un l’altro, resi edotti dall’interesse e, riunendosi in gruppo per la paura, impararono a riconoscersi, a poco a poco, dalla fisionomia. Essendo i suoni che emettevano inintellegibili e confusi, un poco alla volta articolarono le parole e, stabilendo tra di loro dei simboli per ogni cosa che si presentava loro, si resero nota gli uni gli altri l’interpretazione di tutti quanti i termini. Ma poiché gruppi di questo genere si formarono su tutta la terra abitata, non ebbero tutti la stessa lingua, poiché ognuno di essi coordinò a caso le parti del discorso. Ed è perciò che esistono tanti tipi di lingue e che i primi gruppi di uomini che si formarono furono all’origine di tutti i popoli. Ora, dal momento che non era stata scoperta nessuna delle cose utili alla vita, i primi uomini vivevano faticosamente, privi di vesti, non avvezzi a usare abitazioni né fuoco, completamente ignari di alimenti coltivati. E infatti, non conoscendo neppure l’uso di raccogliere gli alimenti selvatici, non facevano alcuna provvista di frutti per rimediare alla propria indigenza; e perciò molti di loro perivano durante l’inverno per il freddo e la penuria di cibo. Un po’ alla volta, però, resi edotti dall’esperienza, in inverno si rifugiavano nelle grotte e mettevano da parte quei frutti che potevano essere conservati. Una volta conosciuti il fuoco e le altre cose utili, progressivamente inventarono anche le arti e le altre attività che possono arrecare dei vantaggi alla vita della società. In generale, infatti, il bisogno stesso è maestro in tutti i campi per gli uomini, indicando in modo appropriato la via all’apprendimento di ogni cosa a ogni essere vivente di ingegno e dotato di quell’aiuto che sono mani, parola e prontezza di spirito. 5


Non scambiare la fede con la ragione. Non scambiare la superstizione con la religione.

Idolatrie

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Il culto dei fiumi6 e della vegetazione si riferisce più direttamente ai bisogni vitali immediati dell’uomo, alla coltivazione della terra, alla propiziazione della fecondità. Più in generale le fonti, le acque, il mare sono connessi a divinità femminili, origine stessa della vita e di questa rigeneratrici. Afrodite nasce dal mare7, le ninfe8 custodiscono le fonti. Questi miti riflettono l’idea della fecondità dei campi, la sessualità, i bisogni elementari dell’organismo generato a sua volta dalle acque materne. La dea mesopotamica Ki o Nin-tu, raffigurata nei bassorilievi come una donna che allatta un bimbo, è fonte inesauribile di ogni vita, dei campi, madre degli dèi e dell’umanità. Gaia (o Ghj -ghes, dall’analoga parola egiziana Geb), la divinità più antica e venerabile dei Greci (conosciuta anche come: Pandora, Artemide, Cibele, Demetra) è la genitrice delle messi, la forza primigenia, lo spirito della terra o della primavera. La propiziazione degli dèi delle piogge è un rituale presente in tutti i culti; molti miti indoeuropei attribuiscono all’acqua primordiale la genesi stessa del mondo. Oceano, dice Omero, è padre di tutte le cose. Le acque mondano dai peccati: le cerimonie battesimali ripetono i riti dell’immersione nell’elemento primordiale, che si vuole riconsacri e dissolva il male. Il diluvio biblico, presente in tutte le antiche religioni, non è che una grande espiazione purificatrice. Non meno universale il culto del fuoco, legato ai bisogni vitali ancestrali: sotto forma di folgore, fuoco sacro o elemento purificatore, la fiamma viva simboleggia di volta in volta la generazione, la continuità della vita o della famiglia, l’espiazione dei peccati, l’amore divino, la consunzione delle cose. Nel mito greco di Prometeo, il fuoco è il segreto stesso degli dèi, la virtù e la sapienza che l’eroe ha loro rapito, la capacità di prevedere alcuni eventi, di accorgersi prima (Pro-). Al contrario di suo fratello Epimeteo, che si accorge solo dopo (Epi-) e che, infatti, si lascia convincere da Pandora ad aprire il vaso fonte di tutti i mali.


4 - Sassi I sassi non sono intaccati dai fulmini, che tanto atterrivano, quindi erano ritenuti divinità più potenti del fulmine stesso.

5 - Veneri Queste figurazioni arcaiche trovano variamente riscontro nelle divinità femminili di ogni religione: Nina, l’antichissima divinità sumerica protettrice delle acque, la fertile Ki mesopotamica, madre degli dèi e dell’umanità, la babilonese Ti’amat, la Gran Madre origine di ogni cosa, Nut, l’appassionato cielo egiziano, l’olimpica Giunone, la crudele e sanguinaria Kalì, la Nasisa dei pellirosse.

6 - Fiumi In ogni religione, in ogni mitologia vi sono fiumi sacri che donano la vita: l’Eufrate e il Tigri, il Nilo, il Gange, il Tevere hanno grande parte nelle culture assiro-babilonese, egizia, indiana, romana.

7 - Afrodite E come ebbe tagliati i genitali con l’adamante li gettò dalla terra nel mare molto agitato, e furono portati al largo, per molto tempo; attorno bianca la spuma dall’immortale membro sortì, e da essa una figlia nacque, e dapprima a Citera divina giunse, e di lì poi a Cipro molto lambita dai flutti; lì approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l’erba sotto gli agili piedi nasceva; lei Afrodite, cioè dea Afrogenea e Citerea dalle belle chiome, chiamano dèi e uomini, perché dalla spuma nacque; e anche Citerea, perché prese terra a Citera; o Ciprogenea ché nacque in Cipro molta battuta dai flutti; oppure Filommedea perché nacque dai genitali. Esiodo, Teogonia, 189-200

8 - Ninfe Divinità inferiori che personificavano i diversi aspetti della natura. Si diceva che abitassero nei fiumi, nelle fonti, nei torrenti, nei mari. Le Oceanine sono le ninfe dell’Oceano; le Nereidi del mare in genere; le Naiadi delle acque dolci; le Avernali del mondo dei morti; le Oreidi dei monti; le Napee dei boschi; le Auloniadi delle valli e dei burroni; le Driadi e le Amadriadi delle piante; le Agrostine dei campi; le Alseidi dei boschi; le Meliadi dei frassini. (mitologia greca, Omero in primis)

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No n c’è rel i gio ne ch e no n a bbi a a vu to, pe r Di o, que l l o uni c o e v e ro.

Divinità celesti

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Vivendo come vivevano, esposti all’aperto sotto la volta del cielo9, non potevano fare a meno di notare le varie figure formate da gruppi di stelle mentre apparentemente ruotavano attorno al firmamento10, di notte in notte e di stagione in stagione. Non potevano non osservare l’alternanza tra il giorno e la notte, le fasi lunari, il movimento delle stelle, il ciclo periodico delle stagioni. Divenne allora consequenziale, inevitabile, stabilire nessi tra fenomeni celesti e terrestri: in particolare, alle medie latitudini, tra il ciclo delle stagioni e la rotazione dello zodiaco rispetto al Sole, o tra le fasi lunari e l’intensità delle maree. Ne derivò un’intuizione del principio di causa ed effetto, la cui applicazione meccanico-fideistica, non scientifica ovviamente, porterà a fabbricare una moltitudine di suggestioni e di credenze irrazionali. Insieme ai grandi fenomeni astronomici periodici, si presentano eventi straordinari e spesso spettacolari, come le eclissi di Sole o di Luna, le comete, le meteore. Provengono dal cielo venti violentissimi, piogge torrenziali, tuoni, fulmini e uragani, trombe d’aria e cicloni che vengono, irrefutabilmente, presi per manifestazioni della collera celeste. Di fronte a fenomeni che la ragione non riusciva a spiegare, quali l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, i terremoti, le inondazioni, l’uomo fu spinto a stabilire istintivamente un legame molto stretto tra gli eventi del cielo e quelli della terra. La scoperta poi delle risorse del suolo e delle loro possibilità di sfruttamento con tecniche di controllo legate al fluire dei tempi, alle stagioni, alle posizioni del Sole e della Luna, evidenziò sempre più la connessione esistente fra fenomeni terrestri e fenomeni astrali. Naturalmente gli attributi divini e le influenze magiche furono collocati in cielo, non in terra, proprio sui e nei pianeti che si muovono sullo sfondo dello Zodiaco11 e che apparvero, a causa degli allora inesplicabili mutamenti di velocità e direzione, come animati di vita propria. Ogni civiltà, seguendo la propria immaginazione e le proprie tradizioni, animò la volta celeste riempendola con letti, code di cane, orecchini, carri, zanne di elefante, artigli di gatto, code di leone, festoni, rasoi, pezzi di corallo, perle e altri simboli bizzarri.


9 - Cielo

Dal greco koiloj (koilos), cavo, incavato, essere convesso, essere gonfio. Nel sistema della Sacra Scrittura si riconoscono 3 cieli: il primo, ovvero l’aria, dove volan gli uccelli; il secondo, il firmamento, in cui si credevano incastrate le stelle, che si pensava sostenesse l’abisso, ossia le acque superiori, le cui cateratte si aprirono al tempo del diluvio; il terzo, quello ove risiede l’Altissimo. Gli scrittori profani dividevano tutta la regione celeste in 10 cieli, assegnandone i primi 7 uno ad ogni pianeta in quest’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. L’ottavo cielo era il cielo stellato e delle stelle fisse, detto firmamento. Il nono era quello cui attribuivano il moto di trepidazione, che ogni cento anni compiva un grado. Il decimo era chiamato primo mobile.

10 - Firmamento In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3 Dio disse: “Sia la luce! ”. E la luce fu. 4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. 6 Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. 7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8 Dio chiamò il firmamento cielo. Secondo la Genesi 1

11 - Zodiaco

Zwon (zòon), essere vivente, animale ma anche figurina, immagine di animale, pittura; zwdion (zòdion), figura originalmente di animale (poi qualunque), immagine dipinta, disegnata, incisa, segno dello zodiaco. Zwdiakoj (zodiakòs) (con o senza kuklos-cerchio), circolo, zodiaco. Zona della sfera celeste intorno all’eclittica, delimitata da due cerchi paralleli a questa e distanti da essa 9°, uno a nord e uno a sud, entro cui si muovono i pianeti e la luna; divisa in 12 parti uguali, di 30° ciascuna, in corrispondenza alle 12 costellazioni zodiacali: ariete, toro, gemelli, cancro, leone, vergine, libra, scorpione, sagittario, capricorno, acquario, pesci. 9


Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Ludwig Wittgenstein

Astrologia

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Conseguenza immediata di tali immaginazioni fu la concezione, divenuta poi del tutto subdola e fortemente interessata, secondo cui stelle e pianeti influiscono sulla vita degli esseri umani. Benché non sia mai esistita alcuna prova in merito a tali influssi, nell’antichità era prassi normale che il grande condottiero consultasse il proprio astrologo prima di scendere in battaglia o che il mercante verificasse le coincidenze astrologiche prima di concludere un affare. (Per i tempi era del tutto normale: farlo ancora oggi è assolutamente demenziale). In tale contesto, nella drammatica differenza tra le condizioni reali dell’uomo e la rassicurante, maestosa presenza degli astri, individuati come sede delle divinità o come divinità tout court, nasce l’astrologia12.

Astronomia I primi osservatori del cielo non sapevano niente sulla natura delle stelle e non avevano concezione alcuna della vastità sconfinata dell’universo eppure vennero anch’essi presi dall’impulso innato e fondamentale del genere umano, quello di organizzare e di misurare. Quando fu scoperto il principio fondamentale che i sempre mutevoli schemi ripetevano con regolarità, a precisi intervalli, la loro configurazione nel cielo, si può dire che sia veramente nata la scienza dell’astronomia13. Fin dalla preistoria l’osservazione del cielo orienta il pensiero umano in due direzioni: da un lato, a collocare esseri sovrannaturali e onnipotenti in un luogo che appare misterioso e inaccessibile (astrologia); dall’altro, a cercare leggi naturali, eterne e immutabili, che trovano proprio nel cielo la loro espressione perfetta (astronomia). Alcuni vi leggono pratiche folcloriche e sciocchezze da dare in pasto a ingenui ed ignoranti a solo fine di vantaggio personale; altri ne derivano miti destinati a produrre leggende e fiabe. Altri ancora deducono dall’osservazione del cielo una scienza definita esatta e le cui regole, controllate e verificate continuamente, hanno dato luogo a immensi vantaggi per l’intera umanità.


12 - Astrologia Anche oggi, accanto alle numerose persone che si interessano di astrologia per puro, anche se sciocco, divertimento, ve ne sono altre che sfruttano a fini personali debolezze ed incertezze dell’uomo ed altre che la prendono sul serio. Il divertimento non è indolore in quanto, comunque, ingenera in molti il sospetto che non tutto dipenda da noi, ma sia guidato e dipenda da realtà, potenti, al di fuori di noi. Il fatalismo è pericolosissimo, disgrega la razionalità e rende schiavi di cialtroni interessati a far prevalere le loro concezioni e il loro potere personale o di casta.

13 - Astronomia Attualmente la differenza di significato tra astrologia ed astronomia è abissale. Non così nelle loro radici storico-etimologiche in quanto per lungo tempo i termini si sono equivalsi. Il termine logoj (logos) significa parola (Lat. oratio), ciò che esprime il pensiero, il pensiero stesso (Lat. ratio) mentre nomoj (nomos) significa “uso, costume, legge” (Lat. institutum). Nel dizionario, alla voce astrologia, si legge: pseudoscienza, nata tra i Babilonesi, che presumeva di determinare i vari influssi degli astri sul mondo terreno, congetturando sul futuro o sulle cause oscure di mali passati. È detta anche astrologia giudiziaria, dalla pretesa facoltà di leggere il giudizio del cielo. Possiamo dunque intendere per astrologia una congettura o narrazione intorno agli astri mentre intenderemo per astronomia lo studio scientifico dei corpi celesti e dei fenomeni ad essi relativi.

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La storia biografica, quale viene insegnata nelle nostre scuole, è ancora in buona parte una storia di zucche vuote: re e regine ridicoli, leader politici paranoici, viaggiatori per mania, generali ignoranti - relitti galleggianti nelle correnti del tempo. Gli uomini che hanno cambiato radicalmente la storia, i grandi scienziati e matematici, sono menzionati raramente o per nulla. M a r t in G a r d n e r

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Faber di necessitĂ Sapiens per istinto

..

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Vetusta età la mia! Più di un milione di anni a scheggiar pietre. Ho scorrazzato a quattro zampe e scoperto il fuoco; a due gambe e inventato il numero. Faber di necessità. Sapiens per istinto. Fui sempre presente nelle storie che racconto. Le narro con parole di oggi perché i mozziconi di parole di quei tempi non bastano più.

tappe attraverso cui è passata la scienza nel suo sviluppo. Guido Castelnuovo

L’ esp er ie nz a di dat t ic a mi h a i ns eg nat o c ome si a v ant aggi oso f ar pe rc orre re al l a

mente degli allievi, per quanto sia possibile, le stesse


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A l l ’ i n i z i o e r a i l c o n c re t o . P o i s e g u ì l ’ a s t r a t t o .

Orde...

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... orde nomadi1, per tanti di quei secoli che, al confronto, l’era volgare annichilisce. Scheggiavamo ciottoli, fabbricavamo rudimentali utensìli in pietra. A differenza di altri viventi, imparammo a proteggerci dal freddo coprendoci con pelli di animali, ma anche scaldandoci al fuoco. Fummo così in grado di espanderci per terre sempre nuove. Ci accampavamo temporaneamente in luoghi di caccia o di pesca o per estrarre radici, raccogliere semi e frutta spontanea. Grotte e ripari sottoroccia, le prime dimore semistanziali. Appena una manciata di millenni fa imparammo ad allevare bestiame2. Poi, a portare al pascolo greggi e mandrie, a seminare e raccogliere cereali3. Da qui inizio la storia. Ras è il mio nome.

RICORDATE? GR, Il senso del numero, pag 80

RAS è una parola-numero che indica i tanti (noi diciamo infiniti) numeri superiori al quattro.


Numero Dalla radice sanscrita namas, cibo, porzione assegnata e da nam-ati, esser devoluto. In greco nemw (nemo), distribuisco, elargisco e quindi amministro, regolo, da cui nemesij (nemesis), attribuzione a ciascuno del giusto e nomoj (nomos), legge, uso, regola, costume, disposizione. In latino numesus che, per rotacismo (passaggio di una articolazione fonetica a r (ro), r, specialmente nel caso della s intervocalica), diventa numerus, ente che specifica la quantità.

Peco r a e B ast on c e l l o

1 - Nomade è collegato a Numero

Nomade Dalla stessa radice sanscrita namas. Nemw (Nemo) significa anche condurre al pascolo, quindi il nomade è colui che ha e dà una porzione assegnata (e non ha stabile dimora).

2 - P e c o r a (pecus, in latino) Nome dovuto al fatto che tale animale rimane, da sempre, unito agli altri a formar branco. La radice sanscrita pag-pak-pek significa appunto unire, legare. Ricca la generazione di parole: pace (legare, unire, saldare), pugno (dita strette a pugno), pacco (gruppo di più cose legate o avvolte insieme), pagare (pacare, acquietare, dare quindi pace), pagano (vivere nel pagus, villaggio, quindi vivere uniti), paese (da pangere, congiungere, unire), patto (legame, convenzione, accordo tra le parti), pagina (Giulio Cesare con le sue lettere al Senato aveva introdotto l’uso di collegare i fogli numerati, chiamati paginae, uno accanto all’altro come nei moderni libri, anziché congiungerli insieme in forma di lunga striscia, per farne un rotolo o volume (da volvere)). 17


Da più elementi, concreti ed eterogenei, fiorisce il numero, un solo elemento, astratto ed omogeneo. 18

Vi v e re . . . Vivevamo in una caverna di nostra proprietà da generazioni. Intere pareti erano state dipinte con figure di cervi, cavalli, bisonti. I disegni facevano in genere parte di una sorta di rito magico per assicurarci il successo della caccia, poiché (e lì iniziò la prima pratica scaramantica) si credeva che colpire, durante il rito, l’animale rappresentato avrebbe favorito la sua cattura. Giovanissimo -avevo da poco imparato a rubacchiare un po’ di frutta secca e qualche morso di carne affumicata- quando Caccola, detto capoccione, mi affidò, per condurle al pascolo, alcune pecore. Capoccia capeggiava la nostra tribù, composta da trogoloditi uniti da vincoli linguistici (ululati e grugniti) e socio-culturali (primi graffiti). Il colore della pelle era ben celato da vari strati di fango. Ci riconoscevamo, più che altro, dai diversi fetori. Nella caverna si trascorrevano le notti, ma anche buona parte dei giorni, quando fuori era tempo da lupi. Vivere in spelonca non entusiasmava davvero. Si respirava male, non solo per la convivenza tra molti animali a più zampe e diversi4 a poche, quanto per la limitata, maleodorante, aria circolante e per il fatto che un nonnulla poteva risultare sgradito al caccolone comportando, come risposta immediata, delle tremende clavate, a destra e a manca, tipo ‘ndo cojo cojo. Eh sì, il capoccia era davvero irascibile. Forse perché in gioventù era stato oggetto di così tante mazzate - ne mostra indelebili ed inequivocabili segni - da ritenere di dover ancora pareggiare i conti.


RICERCA

Cereali

I nostri antenati

Da quanto tempo popolano la nostra Terra? Come si sono evoluti? Prove della loro esistenza anche milioni di anni fa. Vivere da milioni di anni: riflessioni. Come e quando si riunirono in gruppi? Come giunsero a seminare? Come conobbero il fuoco? Come riuscirono ad allevare pecore, capre e bovini? Come e quando appresero a fabbricare il vasellame e ad usare i metalli? Come e quando appresero l’arte di fare cesti e di tessere? Come appresero ad abbattere alberi e a costruire imbarcazioni? Come sorse il commercio tra i primi insediamenti umani?

Peco r a e B ast on c e l l o

3 -

La ricerca, ricerca condotta da docenti e discenti in merito alle tematiche suesposte, si concluderà con dibattiti anche in presenza di esperti nei settori esplorati. A tali alti momenti culturali parteciperanno, anche come proficuo corso di aggiornamento, tutti i docenti perché in merito a tali pensieri forti ognuno deve contribuire con proprie idee, esponendole pubblicamente ed evitando così di imporle separatamente e dogmaticamente agli indifesi discenti. Chi ha da dire deve infatti poterlo dire chiaramente, altrimenti, nella scuola pubblica in particolare, abbia la dignità di tacere. Avrà sempre a disposizione i pulpiti dell’ipocrisia e della demagogia per esporre proprie ideologie di comodo. Ricerche e sintesi delle conferenze saranno poi pubblicate in un libro di Istituto, arricchibile anno dopo anno. Si troveranno Aziende del territorio ben liete di figurare, come sponsor, nelle pagine di un libro tanto letto, che si confronterà con analoghi libri di altri Istituti e che diventerà, inevitabilmente, un pregiato testo di riferimento culturale. 19


A l l ’ i n i z i o e r a i l c o n c re t o . P o i s e g u ì l ’ a s t r u s e r i a . 20

Le randellate fanno male, sapete? Molto male! C’è da rabbrividire al pensiero di non ricondurre, a sera, tante pecore quante5 quelle prese in consegna di mattina. Pure, starmene solo, a cielo aperto e sereno, osservare alberi e cespugli, piccoli animali, fiori e farfalle e respirare a pieni polmoni, non poteva che rendermi allegro. Stato d’animo che scemava però pian piano e raggiungeva il livello più basso tra il lusco e il brusco6, all’ora del ritorno. E se qualche pecora fosse sfuggita al controllo, nonostante una decisa peculiarità dell’animale sia quella di restare sempre unita alle altre? Che fare? Se ne dovesse mancare anche una soltanto... sarebbe davvero più salutare non far ritorno in caverna! Sì, perché il caccolone aveva uno colpo d’occhio eccezionale, sentiva la quantità, la percepiva esattamente e in numero ben superiore ad una manciata di unità. Se però si era svegliato male, anche se le pecore, al ritorno, erano tante quante quelle della partenza, randellava ugualmente di santa ragione. Come fare allora per provare in modo inconfutabile e al di sopra di qualsiasi randello di non averne persa nemmeno una?

Un giorno... ... un bel giorno, preso dai miei pensieri e con il chiodo fisso del clavone, mi inoltrai in un sentiero mai percorso. Le pecore trepidavano... avevano cioè la stessa espressione di sempre. Alla fine del tragitto si apriva, infatti, una vallata incantevole. Si innalzava, sullo sfondo, una montagna ricoperta da un tappeto dal colore uniforme, verdescuro. Dopo aver pascolato un poco sul verdechiaro tappeto della vallata, poiché si faceva sera, mi accinsi al ritorno con il proposito di tornarci direttamente, il dì seguente. L’indomani, dopo aver schivato con destrezza un paio di clavate, raggiunsi ben presto la mia vallata e la attraversai gioiosamente, dirigendomi verso la montagna dal manto uniforme. Avvicinandomi scoprivo che il colore si differenziava in striature di verde. Era infatti la chioma di un bosco a vegetazione mista.


Poco, qualche, alcune, molti, diversi... sono aggettivi indefiniti. Essi esprimono indicazione o posizione o quantità non definite. La definizione della quantità si ottiene attraverso un numero. Anche gli aggettivi lungo, corto, leggero, pesante, largo, stretto... non determinano con precisione (un caffè corto per te potrebbe essere lungo per me). Per la loro definizione oggettiva, liberata quindi da interpretazioni personali, occorre far ricorso ad un apposito Sistema di unità di misura (Sevrés, 1790).

Peco r a e B ast on c e l l o

4 - Aggettivi indefiniti

5 - Comparativo Per confrontare varie entità, si usa il comparativo. Nel nostro caso si tratta di comparativo di uguaglianza. Il rapporto dunque fra il contenuto della proposizione reggente e quello della proposizione subordinata (comparativa) è di uguaglianza. Comincia così la lunga, fecondissima strada che ci condurrà alla corrispondenza biunivoca. Tante... quante ; tale... quale; così... come.

6 - Essere tra il lusco e il brusco Momento della mattina o della sera in cui la luce è incerta e la visibilità difficoltosa. Luscus significa, in latino, guercio, cioè con un occhio non vedente. Bi-luscus significa ovviamente non vedente nei due occhi. Avere cecità compresa tra uno e due di questi occhi significa avere 3/4 di cecità, quindi capacità visiva di un quarto della capacità totale o di un solo ottavo per ogni occhio. La visibilità è dunque molto ridotta e difficoltosa.

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A l l ’ i n i z i o t u t t i e r a n o i n d i s p e n s a b i l i . P o i v e n n e ro i p a r a s s i t i .

St r a d a f a c e n d o ...

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Strada -in salita- facendo, incontrai il leccio, rami irregolari e chioma ovale, e la rotondeggiante fillirea7. Mi inoltrai, fino ad arrivare nei pressi di un torrente. Lungo le sponde pioppi dall’ampia chioma, slanciati ontani piramidali, flessibili salici dalle penetranti radici, e, qua e là, gli amari oleandri, simili a rose. E arbusti come il mirto8, pianta nuziale; il lentisco, dalle foglie emananti odore di resina; il corbezzolo, pianta nazionale italiana, per le foglie verdi, i fiori bianchi e i frutti rossi; il flessibile viburno dalle drupe nere; il ginepro, con i suoi aghi e le sue bacche aromatizzanti; il colorante sambuco, le distese di felci, i macchioni di rovo, la rampicante stracciabrache. Poi fioriture di ginestre, biancospini, eriche, cisti rosa e bianchi, crochi, ciclamini, ranuncoli gialli, caprifogli, garofani selvatici. Mi sentii felice e fortunato. Ringraziai la natura che si offriva così sontuosamente a me. Presi a scendere lungo il torrente. Le sue acque erano tranquille, le rive quasi ovunque praticabili tranne per alcuni tratti impenetrabili a causa dei roveti e di una intricata vegetazione che rendeva (anche se nutro al proposito ragionevoli dubbi) felice anche il gruppetto delle mie pecore. Ad un tratto la visione, magica, di una serie di vasche scavate nella roccia, perfettamente lisce. Poi un prato, al cui centro campeggiava una enorme pianta di ginepro. Avvicinandomi mi accorsi che si trattava in realtà di 3 piante di ginepro aggrovigliate, da sembrarne una sola. La sagoma era davvero particolare, tipo i monticelli sporgenti dal petto di Tettona ed elevati al cielo. Tettona era la compagna del capoccia, unica femmina della tribù che non s’indaffarava alla ricerca di cibo. Alla base dell’albero igloo-sagomato due aperture opposte, veri e propri usci-ingressi, attraversabili sol piegandosi appena un po’. All’interno un unico vanogrotta verde, ampio, profumato. Per pavimento un prato curatissimo.


Cronos, padre di Zeus, si innamorò di Filira, ninfa straordinariamente bella. Per amarla, senza farsi scoprire dalla moglie Era, trasformò Filira e se stesso in una coppia di cavalli. Dal loro amore nacque il centauro Chirone, metà uomo e metà cavallo. L’aspetto mostruoso del figlio spaventò così tanto Filira che implorò gli dèi di trasformarla in albero. Le sue preghiere furono accolte.

Peco r a e B ast on c e l l o

7 - Fillirea

8 - Mirto Il nome deriva da Mirsine, fanciulla attica che, secondo la leggenda, fu uccisa da un giovane da lei vinto in gara. Venne trasformata in questo arbusto dalla dea Atena, in onore della quale ogni anno si celebravano feste e giochi ad Atene. Il mirto era, presso i Romani, considerato sacro a Venere, dea dell’amore, cui veniva offerto nei sacrifici del primo di aprile. Se ne facevano corone per adornare poeti ed eroi. Era inoltre una pianta nuziale, che serviva a ornare le case degli sposi.

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Una caverna stupenda, tutta mia! Decisi di prenderne possesso e di arredarla. Realizzai la cucina con dei sassi disposti in circolo, sul cui centro accendere il fuoco. Per il salotto sottrassi alle vasche delle belle pietre levigate. Per giaciglio avevo le mie pecore. I servizi igienici li mantenni fuori dalla tenda. Rubacchiai anche diverse pelli di animali dal guardaroba di Tettona. Ne possedeva così tante che non si sarebbe mai accorta della mancanza. Le posi a copertura dei tre ginepri, per trovare, all’occorrenza, riparo anche dall’acqua. Inaugurai subito il salotto buono cominciando a riflettere intorno alla soluzione del mio assillante problema. Feci entrare nella tenda, roteando appena un randelletto dal quale non mi separavo mai, le pecore, poi uscii insieme a loro. Ripetei le azioni più volte, fingendo di trovarmi al cospetto del capoccia sulla porta della sua grotta. Indicando, con il dito indice dell’unica mano disponibile, la sinistra, la prima pecora entrante bofonchiavo: La riconosci? È quella di questa mattina! Notate che ancor oggi, a migliaia di anni da quanto racconto, indicare corrisponde a puntare l’indice di una mano: quasi tutti lo facciamo, spesso, ancora con l’indice della mano sinistra. Spostavo poi la pecora, per non creare confusione, in fondo alla grotta, nella camera da letto, vicina al secondo ingresso, isolandola momentaneamente dalle altre. Indicavo poi, una ad una, il rimanente gruppo9 di belanti, eseguendo la stessa procedura. 24


Scegliamo alcune entità, di natura qualsiasi, e cerchiamo una parola che possa rappresentarle tutte. Ovviamente dobbiamo prima capire quali siano i loro tratti comuni. Prendiamo, ad esempio, una matita, un tapiro e un geranio. Cosa hanno in comune? Per certo non li definisce la parola artefatto, valida solo per la matita, né la parola animale, propria del tapiro, né la parola fiore, adeguata al geranio. Anche per i colori, la forma, il peso, la sostanza... niente da fare. Potremmo chiamarli tutti involucri, ma sarebbe una forzatura. (Si capisce un po’ meglio adesso perché all’inizio ho usato la parola entità). Sono certamente tutti pesanti e potrebbero essere indicati come gravi. In tal caso introdurremmo un pesante riferimento alla legge di gravità, connotando così in maniera univoca, ma parziale, le entità stesse. Insomma... usiamo ancora il termine entità... Diremo allora che il termine entità è quello più astratto possibile (per ora) e definiremo ASTRAZIONE l’operazione consistente nel trarre da enti fra loro distinti solo i loro caratteri comuni.

Peco r a e B ast on c e l l o

9 - Astrazione

Qual è il termine più astratto per rappresentare un aggregato di oggetti? Quali i più conosciuti termini astratti? Ok: collezione, stormo, flotta, cereali, pianta, gregge, classe, popolo, insieme, stuolo, verdura ecc ecc ecc. Aggiungete pure... Tra i nomi dell’elenco c’è un termine che supera in astrazione tutti gli altri. Vediamo di spiegare meglio. Stormo e flotta vanno molto bene per gli aerei e per le navi, molto meno per pecore o per piante. A nessuno verrebbe in mente di dire: Ho visto uno stormo di pecore o ho visto una flotta di carciofi. E così cereali va bene per riso e per frumento, ma non per celti o per italici. Il termine più astratto, perché in grado di rappresentare tutte le entità, è la parola INSIEME. Mai stona, infatti: Ho visto un insieme di aerei, di navi, di pecore, di piante, di carciofi, di lenticchie, di celti, di italici. 25


Ben presto mi resi conto che guardarle, o indicarle, o chiamarle non garantiva risultati utili al mio scopo, così come non ne dava il segnarle-sporcarle, invece di additarle, con le drupe del flessibile viburno. In questo caso infatti spostavo semplicemente il problema: quante macchie di drupa al posto di quante pecore. Quest’ultimo frutto del mio pensiero lo percepii però, all’istante, come conquista straordinaria: poter rappresentare, o simboleggiare, una pecora con un elemento esterno alla pecora stessa, ma ad essa, e unicamente ad essa, collegato. Decisi allora di indicare le compagne di pascolo con dita diverse e di segnare-macchiare-segnalare, le dita stesse per significare che a quel dito avevo già abbinato una pecora. Ad una pecora un dito, ad un’altra un altro e così via! Sarebbe stato sufficiente agire allo stesso modo, di mattina, davanti al capoccione. Avrei fatto vedere a quale dito mi fermavo e a quello stesso sarei arrivato di sera, al ritorno. Così feci... ma presi ugualmente delle sonore legnate. Infatti il capo di mattina iniziava il conteggio dal pollice, di sera partiva dal mignolo. Poiché, ora lo so perché ho imparato a contare, le pecore erano quattro, di mattina si arrivava all’anulare, di sera, all’indice! Quindi, nessuna coincidenza... ma colpacci da parte del professionista del randello tonante. Forse lo faceva a bella posta! E così avevo ancora bisogno di molto salottopensiero. Era certo però che dovevamo iniziare sempre dallo stesso dito, io, il capoccia, ma anche, eventualmente, gli altri trogloditi che si trovavano ad assistere, con una espressione del viso non dissimile da quella delle pecore, alle nostre scene mattutine e serali. Decisi di sceglierlo io il dito, quello più corrispondente al mio scopo. Non avevo grande scelta: potevo iniziare o dal pollice o dal mignolo. Raccolsi, facendone mucchietto, drupe di viburno e bacche di sambuco. 26


9a - Corrispondenza d’amorosi sensi

Peco r a e B ast on c e l l o

Ma anche di matite, di cani, di gerani. E di lettere, di numeri, di simboli. INSIEME significa, in sé, associarsi, mettersi in comune. E a noi va proprio bene così. Serviamoci allora di tale termine e della terminologia utilizzata per la Te o r i a d e g l i i n s iemi.

Ho due insiemi. Li indicherò con A e B. A e B contengono alcune entità, che chiameremo, sempre servendoci della astrazione, elementi (parola molto vicino ad entità, ma più astratta e, quindi, più appropriata). Elementi dell’insieme A siano Anna, Bice, Carla, Dora. Li indicheremo con a, b, c, d (lettere minuscole perché quelle maiuscole le abbiamo riservate agli insiemi stessi). Elementi dell’insieme B siano Remo, Sergio, Tore, Umbro, Vincenzo, Zito. Li indicheremo con r, s, t, u, v, z. Gli elementi possono essere qualsivoglia, non necessariamente tali che le iniziali dei loro nomi si succedano nell’ordinamento alfabetico esposto. Chiameremo corrispondenza tra A e B una relazione o legge o funzione che associ ad ogni elemento di A ciascuno degli elementi appartenenti ad un sottoinsieme di B. Sia la relazione scelta: avere simpatia per.... (relazione non oggettiva, ma accattivante...). I casi possibili sono davvero molti. Analizziamo con ordine. Anna potrebbe avere simpatia per Remo, Vincenzo, Zito. Bice per tutti gli elementi dell’insieme B; Carla per Remo; Dora per nessuno di questi. Nel primo caso potremmo registrare: Remo, Vincenzo e Zito sono simpatici ad Anna e quindi godono di tale relazione con lei. Nel secondo: Remo, Sergio, Tore, Umbro, Vincenzo e Zito sono simpatici a Bice e quindi godono di tale relazione con lei. Nel terzo: Remo è simpatico per Carla e quindi in tale relazione con lei. Infine, nessuno rimane simpatico a Dora. Ma la matematica ama la chiarezza, la sintesi, la semplicità e l’assoluta oggettività per cui così definisce e simboleggia: 27


Le avrei schiacciate tra i polpastrelli durante l’analisi della quantità, lasciando così inequivocabilmente segno che al dito macchiato di nero avevo già fatto corrispondere una pecora. Toccai poi la prima pecora con il pollice. Quel dito era dunque l’indicatore. Il mignolo fu invece il timbratore e macchiatore del pollice stesso, per confermare la sua utilizzazione. Schiacciai così la prima drupa. Accidenti, però! Una scoperta assolutamente fondante! A corrispondere identicamente alla pecora non era soltanto il pollice macchiato dalla drupa, ma anche la macchia stessa! Ed anche la drupa in sé, prima di essere schiacciata!

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Peco r a e B ast on c e l l o

Corrispondenza tra A e B è una relazione o legge o funzione denotata con f (leggi fi) [nella teoria degli insiemi si preferisce la notazione con f al posto della più nota f della y = f(x)] che associa ad ogni elemento di A ciascuno degli elementi appartenenti ad un sottoinsieme di B. Potremmo allora, matematicamente, scrivere: {r, v, z} = af [Remo, Vincenzo e Zito sono (=) con Anna in relazione di simpatia (f)] Nel secondo: {r, s, t, u, v, z} = bf [lascio a voi la composizione linguistica] Nel terzo: {r} = cf [lascio a voi la composizione linguistica] Nel quarto: {i} = df [lascio a voi la composizione linguistica]. Il simbolo i non rappresenta, ovviamente, lo zero, ma l’insieme (o sottoinsieme, s.i.) privo di elementi, detto insieme vuoto. Si osservi: abbiamo, in formule, effettuato la stessa rappresentazione descritta dalle parole, ma quest’ultimo linguaggio è UNIVERSALE! Non risente cioè di altro se non dei simboli sui quali tutti i matematici hanno convenuto e, quindi, non induce in confusione! Perfezioniamo: CORRISPONDENZA TRA INSIEMI Dati due insiemi, I e I’, chiameremo corrispondenza tra I e I’ la funzione f che associa a ogni elemento x 0 I ciascuno degli elementi x’ 0 I’ appartenenti ad un s.i. X’ f I’ individuato da x e da f. Notazione: X’ = xf. ___________ Simboli: 0 appartiene f include

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La bacca cioè poteva da sola indicare una pecora! Questo valeva anche per tutte le bacche che facevo corrispondere alle altre pecore! Una folgorazione: gli oggetti rappresentanti e le entità da rappresentare sono identicamente avvinti, diventano un tutt’uno, agli effetti della quantità! Pensiero stupendo che decisi, però, di tenere in serbo perché intendevo terminare quanto già intrapreso. Passai quindi ad indicare con il dito indice, che segue il pollice nella successione naturale, la pecora successiva. Dopo averla toccata e fatta passare sotto il varco, mi rimaneva solo da schiacciare la drupa tra il polpastrello dell’indice, indicatore, e quello del mignolo, timbratore. Ahimè, i polpastrelli non potevano premere l’uno sull’altro. Non è possibile, la genetica non lo consente. Fui allora costretto ad invertire il dito indicatore con quello timbratore. Il mignolo diventava così il primo dito della serie mentre il pollice diventava il timbratore-sugellatore. Finalmente tutto filò a meraviglia, per tutte le dita e quindi per tutte le pecore.

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CORRISPONDENZA BIUNIVOCA Si chiama corrispondenza biunivoca tra I e I’ una corrispondenza, f, tra I e I’, tale che: 1) a ogni x 0 I corrisponde uno e un solo x’ = xf 0 I’; 2) ogni x’ 0 I’ è il corrispondente, xf, di uno e un solo elemento x0I

Peco r a e B ast on c e l l o

TERMINOLOGIA x’ 0 X’ è un corrispondente, o una immagine di x in f (a seconda della funzione f scelta, cioè); x è una antimmagine di x’.

GRAFICAMENTE: Corrispondenza plurivoca nei due sensi

a f h m c

r t z u

b

p

d

s Corrispondenza BIUNIVOCA

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Il pollice non è dunque, mi dicevo, il primo dal quale partire, ma è il timbratore delle altre dita e di se stesso. Non c’era adesso possibilità di equivoco. Dovevo sempre considerare per primo il mignolo, come dito associato alla prima pecora; dovevo poi sugellare, con il pollice, le altre dita ordinatamente, nella loro successione naturale. Non capii, sul momento, tutta l’importanza della scoperta. Avevo però acquisito un’altra grandissima conquista: il dito pollice era opponibile10. Rimasi dunque illuminato dalla conseguente riflessione: gli animali che conoscevo, non essendo dotati di dita opponibili, non potevano certamente stringere bastoni, tantomeno quelli aguzzi o con pietre ancorate sulla loro estremità che noi usavamo a mo’ di lancia. Avevo così trovato una interessantissima maniera per distinguerci, tra animali.

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Le possibilità di movimento delle mani dell'uomo sono: - convergenza: capacità di avvicinare le dita fra loro; - divergenza: capacità di allontanare le dita fra di loro; - prensione: capacità di afferrare gli oggetti flettendo le dita verso il palmo; - opposizione: capacità di muovere il pollice ruotandolo in modo da opporlo alle altre dita.

Peco r a e B ast on c e l l o

10 - La modificazione della mano

L'allungamento e il raddrizzamento del pollice che rende possibile la sua opposizione a tutte le altre dita sono già presenti nell'Oreopithecus bambolii, antichissimo primate trovato in Italia, tra i 7 e i 9 milioni di anni fa. Di questo primate, che non rientra nemmeno nella famiglia degli ominidi, non si sono mai rinvenuti strumenti litici. Possiamo però dire che l'opponibilità del pollice era già stata, con lui, sperimentata molto prima dell'origine della nostra linea evolutiva. Solo i nostri antenati africani però, sfrutteranno la capacità di movimento della mano (e dell'intero arto superiore) acquisita in ambienti ancora forestali, per produrre i primi manufatti litici e sviluppare la prima tecnologia. Con Homo habilis e Homo erectus, negli ultimi esemplari, ci fu un allargamento delle vertebre del collo in corrispondenza dei nervi che collegano la mano con il cervello, segno di un miglior controllo dei movimenti. Le straordinarie capacità della mano umana sono il risultato di una grande mobilità di tutte le articolazioni, comprese quelle del braccio e della spalla, ma soprattutto di un raffinato controllo dei movimenti: tutto ciò ha permesso all'animale-uomo di raggiungere un successo organizzativo e tecnologico strabiliante.

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La vera religione è la matematica, e il resto è superstizione. Piergiorgio Odifreddi

Ormai...

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... ormai svolgevo con accortezza il mio lavoro e così il capò mi affidò una quantità doppia di pecore. Bene, direte voi! Male, dissi io! Mi rendevo infatti conto che, così, la quantità delle pecore superava quella delle dita di una mano. Che fare? Giunto nella mia tenda mi sedetti, appoggiai il gomito sul comodino levigato, posai il dito indice e quello medio sulla fronte mentre il pollice accarezzava, attraverso la tempia11, i miei pensieri. Con l’altra mano accarezzavo Belina, la mia pecora preferita. Ma certo! Perché non indicare una pecora anche con la tempia, oltre ai polpastrelli? Mi misi subito, con entusiasmo, a contare le pecore. Impiegate tutte le dita della mano sinistra, partendo ovviamente dal mignolo, schiacciai una bacca sulla spalla sinistra, una sul collo, una sulla tempia. Le pecore erano così tante quante12 le macchie nere di sambuco che dal mignolo arrivavano alla tempia! Che folgorazione ancor più intensa! Gli oggetti (bacche), gli elementi rappresentati (pecore) ed anche le parti del corpo sono collegati, in termini di quantità... diventano un tutt’uno.


- Te m p i a

Da tempus, tempo. Sulla tempia i capelli imbiancano prima che altrove ed indicano allora il tempo, orientano cioè sul numero di anni della persona.

12 - Nomi Le dita e le altre parti dei corpo hanno creato il linguaggio corporale dei numeri. Ne troviamo attualmente traccia presso società isolate. Gli abitanti delle isole dello stretto di Torres indicano i numeri additando le diverse parti del corpo secondo il seguente ordine: - da 1 a 5 - da 6 a 12 - da 13 a 17 - da 18 a 22 - da 23 a 28 - da 29 a 33

Peco r a e B ast on c e l l o

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dal mignolo della mano destra fino al pollice parti del braccio destro e di quello sinistro dita della mano sinistra dita del piede sinistro parti della gamba destra poi della sinistra dita del piede destro.

L’evoluzione della numerazione conduce poi a non indicare più con il dito, ma a pronunciare semplicemente il nome della parte del corpo che evoca il numero corrispondente. In molte società della Nuova Guinea, sei si dice polso, nove si dice seno sinistro. Sono molte, in America del Sud, in Europa, in Africa, in Asia le lingue in cui l’etimologia della parola cinque evoca la parola mano. In sanscrito, cinque si dice pantcha; in persiano, mano si dice pentcha. In russo, cinque si dice piat; mano tesa si dice piast.

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La matematica è la religione della gente che ha cervello, per questo ha così pochi adepti. Carlos Ruiz Zafón 36

Ve n n e . . . ... venne anche il tempo dell’intero gregge. Le pecore erano in numero di gran lunga superiore a tutti i punti strategici13 del mio corpo. Mi ricordai allora di quanto acquisito in precedenza: la bacca stessa poteva essere la corrispondente della pecora, non doveva necessariamente esserlo la macchia o il dito! La bacca poteva cioè da sola significare la pecora! E questo valeva anche per tutte le bacche che facevo corrispondere alle altre pecore! Raccolsi così molte bacche. Misi le pecore l’una accanto all’altra. Davanti ad ognuna di loro posai una bacca. Il gioco si faceva interessante: pecore e bacche avevano qualcosa in comune! Erano tante quante. Dunque, risolvere l’interrogativo quante pecore sono? poteva corrispondere semplicemente a sapere quante fossero le bacche che le rappresentavano! Non c’era neanche bisogno di sapere quante fossero... Bastava che al ritorno, dopo aver accantonato di mattina una bacca per ogni pecora che varcava la soglia della caverna, le pecore risultassero tante quante le bacche stesse. Finalmente nessuna clavata non meritata, ma solo, eventualmente, quelle dovute a mia incuria o disattenzione! Dolcezza scese allora nel cuore. Forse perché stavo fuorigrotta, in un angolo di paradiso con stupenda vista sul mare. O forse perché ero riuscito, avvolgendo di logica la fantasia, a regalare all’umanità il fuoco della conoscenza. Serata stupenda.


Peco r a e B ast on c e l l o

13 - Punti strategici William Wyatt Gill (Bristol 1828, Marrickville 1896) testimonia, nell’opuscolo Il Pacifico del sud e la Nuova Guinea: certi isolani dello stretto di Torres contano toccandosi ad una ad una le dita delle mani, poi i pugni, i gomiti, le spalle, poi lo sterno, ottenendo “17”. Se occorre di più, toccano le dita dei piedi, le caviglie, le ginocchia e le anche, ottenendo “16”, complessivamente Procedimento impiegato dai “33”. Oltre tale numero si Papua della Nuova Guinea aiutano con dei ramoscelli. 11 naso 12 bocca Lucien Lévy-Bruhl, nel 10 occhio destro 13 occhio sinistro trattato Le funzioni mentali delle società inferiori, riscontra come anche nei 14 Papua e negli Elema 9 della Nuova Guinea si verifichi tale modo di 15 8 segnalare le quantità. Per fissare il giorno della riunione dei capi delle tribù, si trasmettono le lune e i giorni mancanti 7 16 mediante un messaggero al quale il capo tribù delegato colora 2 punti 17 del corpo. Il messaggero 6 raggiunge tutte le altre 18 tribù facendosi vedere dagli altri capi che sanno, per loro convenzione, 22 1 che al numero delle lune corrisponde un colore, un altro a quello dei giorni, oppure che il primo punto che il messaggero si toccherà riguarda il numero delle lune, il secondo punto riguarda il numero dei giorni. Ogni capo colorerà allora degli stessi colori i punti analoghi del suo corpo e l’appuntamento risulta così memorizzato nella personale agenda corporale.

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L’ e s s e n z a d e l l a m a t e m a t i c a è l a s u a l i b e r t à . G e o rg e C a n t o r

Questi...

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... questi mucchietti di bacche erano però mezzi effimeri per la conservazione delle informazioni. Potevano infatti subire trasformazioni accidentali, non dovute soltanto alla perfidia del capoccione. Le sostituii con ossicini e sassolini14. Presi anche a registrare incidendo intaccature su un bastone o su un pezzo di osso. Ammucchiavo o intagliavo in gruppi di cinque, perché con l’uso frequente delle dita delle mani e dei piedi avevo raggiunta familiarità con i raggruppamenti di cinque in cinque. Realizzavo ormai con chiarezza che tantissimi insiemi di oggetti potevano avere la caratteristica di rappresentare le mie pecore. Certamente non in tutto e per tutto, non nel colore, non nella forma o nelle dimensioni, ma certamente nella loro presenza. Nel loro esserci, nella loro essenza comune, nella loro quantità... nel loro numero. Le mie pecore erano tante quante i segni particolari del mio corpo, o i sassolini che potevo racchiudere in una mano o gli intagli che facevo nel bastone. Tante quanto i sassi, o le bacche, che lasciavo in un angolo della caverna, prima di uscire per il pascolo. Esisteva per me una corrispondenza uno a uno, unità per unità. Non esisteva però alcun collegamento tra una unità e l’altra.


In un rapporto della Spedizione di Cambridge allo Stretto di Torres si legge: “Secondo Sir W. Mac Gregor, l’abitudine di contare sul corpo si ritrova in tutti i villaggi a sud del fiume Musa. Si comincia dal mignolo della mano destra, si continua con le dita della stessa parte, il pugno, il gomito, la spalla, l’orecchio e l’occhio, quindi si passa all’occhio sinistro ecc, ridiscendendo fino al mignolo della mano sinistra. Ogni gesto che indica una parte del corpo è accompagnato da un termine papua.”. I termini sono quelli della seguente tabella:

N 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22

P a r t e d el co rp o - Ges t o Mignolo Mano Destra Anulare MD Medio MD Indice MD Pollice MD Polso MD Gomito MD Spalla destra Orecchio destro Occhio destro Occhio sinistro Naso Bocca Orecchio sinistro Spalla sinistra Gomito Mano Sinistra Polso MS Pollice MS Indice MS Medio MS Anulare MS Mignolo MS

Peco r a e B ast on c e l l o

1 3 b i s - Vo c a b o l i p e r i n d i c a r e n u m e r i

Nome assoc i ato anusi doro doro doro ubei tama unubo visa denoro diti diti medo bee denoro visa unubo tama ubei doro doro doro anusi 39


La conoscenza matematica aggiunge vigore alla mente e la libera da pregiudizi, credulità e superstizione. John Arbuthnot 40

No n e si st e v a ... ... non esisteva, per me, la successione uno, due, tre, quattro. Ma solo il tre o, separatamente, il due. O l’uno. Od anche il tre, l’uno e il due. O il quattro e il due. Tutti presi separatamente e senza alcun rapporto tra loro. Nessun numero era, per me, successivo o precedente di un altro. Nessun legame tra numeri diversi. Solo dopo molto tempo imparai a cogliere l‘ordinalità15, quindi imparai a contare16, inanellando uno, poi due, poi tre, poi quattro... Ma l’interrogativo ricorrente era: che rapporto c’è tra le mie pecore e l’egual quantità di dita? Ed anche con l’egual quantità di bacche, di sassolini, di intagli? Cosa avevano in comune? Disposi tutto davanti a me, ordinatamente. Quattro pecore, in fila. Sotto ad ognuna di esse una bacca. Sotto ancora un sassolino. Praticai poi quattro intagli in un ramoscello. Ovviamente, ogni volta, facevo corrispondere ad ogni elemento un mio dito: gli elementi erano tanti quante le dita (quattro) della mia mano. Colpo di genio: se volevo aggiungere ai gruppi appena formati, tutti aventi la stessa numerosità e quindi corrispondenti biunivocamente, delle ulteriori collezioni di oggetti, costituiti ad esempio da corna di capra o da pepite scintillanti, difficilissime da trovare, dovevo raggrupparne tante quante le dita della mano (quattro), che, per fortuna, avevo sempre a... portata di mano. Non una di meno, non una di più, ma tante quante ne memorizzavo sul mio conteggiatore (più in avanti anche calcolatore) personale. Potevo dunque esprimere una numerosità col semplice gesto di mostrare una quantità corrispondente di dita!


-

NUZI

Nel 1929 in Mesopotamia, regione di Kirkuk, presso le rovine di Nuzi (XV secolo aC) gli archeologi fecero una interessantissima scoperta, un contenitore di argilla recante l’iscrizione: Oggetti riguardanti pecore e capre: 21 pecore che hanno già avuto dei piccoli; 6 agnelli femmine; 8 montoni adulti; 4 agnelli maschi; 6 capre che hanno già avuto dei piccoli; 1 capro; 2 caprette. Totale: 48 animali. Nel contenitore furono trovati 48 piccoli oggetti sferici fatti anch’essi con argilla. Il contenitore era dunque appartenuto a un contabile dell’antica città di Nuzi. I pastori, prima di portare al pascolo le greggi del proprietario, si recavano dal contabile che confezionava pallette di terra cruda, in numero uguale ai capi del gregge, introducendole poi nel contenitore d’argilla che veniva otturato. Si provvedeva poi ad apporre sulla sua superficie una iscrizione, in cuneiforme ovviamente, con la descrizione del gregge e si imponeva poi il sigillo del proprietario. Al ritorno, si rompeva il contenitore e si procedeva al controllo delle pecore e delle capre, appaiando ogni capo con uno

Peco r a e B ast on c e l l o

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dei sassolini racchiusi. L’iscrizione e il sigillo erano dunque la garanzia per il proprietario, mentre i sassi lo erano per il pastore.

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Devono essercci voluti secoli e secoli per scoprire che una coppia di fagiani e un 42

... la cui funzionalità abbiamo, nel corso di milioni di anni, adattata, temprandola a durissime necessità, e a mano a mano raffinata, ha spinto la nostra mente a formare il concetto di numero. Quella stessa mano che ha reso mansueti (manus sueti, avvezzi cioè alle carezze) i nostri fedeli compagni di viaggio, a guardia di pecore insieme a noi, ci ha anche aiutato a ben differenziarci da tutti gli animali che di tale manualità non godono, consentendoci di mantenere (manus tenere, tenere in mano) una certa superiorità sugli stessi. Il numero delle dita della mano era dunque l’elemento comune a tutti gli insiemi corrispondenti che avevo creato. Ma certo: due pecore avevano in comune le ali di un uccello; quattro pecore le zampe di un animale. Otto pecore corrispondevano alla tempia. Dieci pecore erano corrispondenti di due mani. Da allora per dire due dissi ali, per dire cinque dissi mano, per dire otto dissi tempia, creando così dei modelli di riferimento. L’idea dell’insieme modello fu di straordinario fermento: trovammo ben presto, in poche centinaia di anni, un nome per tutti i numeri di cui allora ci servivamo. Certo, i più frequenti, uno, due, tre, li condimmo in tutte le salse, tanto li usavamo17.

paio di giorni sono entrambi esempi del numero due. Bertrand Russell

Una car a t t e r i st i c a a n a t o m ic a ...


Contare e conoscere una quantità sono abilità mentali spesso confuse tra loro, ma, in realtà, diverse. Si può carpire il segreto della quantità anche senza saper contare. Sollevare CONTEMPORANEAMENTE tre dita di una mano per indicare 3 oggetti, non implica saper contare, ma solo saper effettuare una corrispondenza biunivoca tra tre dita ed una pari quantità di oggetti (pecore nel caso di Ras). Si parla allora di cardinalità o di numero cardinale. Il numero di oggetti (matematici, quindi entità di qualsiasi natura) contenuti in un insieme è infatti semplicemente un elemento, un dato, relativo, ovviamente, a quell’insieme. Se Anna, Bice e Carlo sono gli elementi appartenenti ad un insieme, il numero tre (cardinale, tre dita alzate contemporaneamente), rappresenta la caratteristica più astratta che possa rappresentarli, ovvero il loro essere tre. Si osservi come siano di avventurosissima utilizzazione, per una loro rappresentazione globale, il termine, ad esempio, donna o il termine uomo. E così anche per altre qualità o attitudini, come il colore dei capelli o la versatilità negli studi. Si potrà, eventualmente, ricorrere a esseri umani, ma non c’è alcun dubbio che la loro caratteristica più astratta sia proprio quella di essere tre!

Peco r a e B ast on c e l l o

15 - Ordinalità

16 - Contare Contare corrisponde invece a sollevare SUCCESSIVAMENTE le tre dita per cui, oltre alla corrispondenza, implica anche l’idea di successione e quindi di ordine (stabilito). Si parla allora di ordinalità o di numero ordinale. Il contare consiste in un processo mentale che implica la successione di due operazioni: una consiste nel disporre gli elementi secondo un determinato ordine, l’altra nella corrispondenza ordinata, nel contarli cioè rispettando l’ordine ed individuando in tal modo un precedente ed un successivo per ogni singolo elemento. 43


Anche per gli altri però ci attrezzammo abbastanza bene18. In pochi secoli i modelli originariamente concreti presero la forma astratta di vocaboli per indicare i numeri. Si fece però un po’ di confusione tra il nome dell’oggetto considerato e lo stesso nome allorché simboleggiava il numero. Lentamente i due suoni si differenziarono e divennero così diversi che, in quasi tutti i casi, si è anche perso il ricordo del legame iniziale. Tutto questo avvenne in modo quasi omogeneo in tante parti del mondo, ad opera di tanti piccoli Ras.

44


Molti i modi per esprimere l’idea due: Italiano paio coppia gemello doppio duo ambo ambedue duplice

Peco r a e B ast on c e l l o

1 7 - L’ i d e a d i d u e

Inglese pair couple twin double Francese paire couple jumeau double Tedesco Paar Zwilling Doppelt

45


Q u e l c h e c o n t a ...

"O vvi ame nt e" è la p a rola p i ù pe ri co losa i n mat e mat i c a. Eric Temple Bell

19

46

... (nel senso anche di quel che è importante) sono le dita delle mani (ma anche quelle dei piedi, come già detto), dieci, con le quali effettuare la corrispondenza biunivoca. Ma, una volta utilizzata esaustivamente l’arma naturale, le dita delle due mani cioè, quindi appena utilizzate-esaurite le dieci dita, dovevo ovviamente ricaricare questa arma manuale, rendere cioè di nuovo libere le dita. Come fare? Azzero il tutto e, come spunta o memoria, metto da parte, ad indicare che ho già utilizzate per una volta le dieci dita, un sassolino. Il sassolino costituisce una memoria concreta: mi ricorderà che ho già contato dieci pecore. E via via... tanti i sassolini, tante le decine di pecore. Quando mi trovai al pascolo con settantaquattro pecore, effettuai, per contarle, corrispondenza con le dita e, come detto, ogni dieci dita-pecore, accantonavo un sassolino per poter riutilizzare le dita delle mani. Contai infine: sette sassolini e quattro pecore restanti. Avevo già i nomi per i primi dieci numeri, come ho già detto. Ma per i numeri superiori? Non potevamo imparare un nome diverso per ogni numero. Avevo infatti già intuito che i numeri sarebbero stati tantissimi, in quantità superiore alle capacità della memoria umana. Pensai dunque ad un nome per tale quantità, così elevata da non poterla chiamare con il nome di un punto nodale del mio corpo. La metodologia di calcolo mi suggerì però i termini da utilizzare. Sette volte dieci, dicevamo. Più quattro dita (pecore). Poiché anta era il nome con cui chiamavamo i sassolini, sette... anta, mi dissi. Quindi setteanta e quattro. Con il tempo, che tutto semplifica e riduce, dissi setteantaquattro, poi settantaquattro. Tutto divenne molto semplice.


Le parole usate per denotare i primi tre numeri -corrispondenti al nostro senso del numero innatosono simili in tutte le lingue. I primi dieci numeri ebbero una denominazione autonoma. I successivi numeri invece si articolarono sulla base dei primi dieci.

Sanscrito Greco

Latino

Italiano Francese Inglese Tedesco

Peco r a e B ast on c e l l o

18 - Dieci nomi

Russo

1

eka

en

unum

uno

un

one

eins

odin

2

dva

duo

duo

due

deux

two

zwei

dva

3

tri

tria

tria

tre

trois

three

drei

tri

4

catvar tettara quattuor quattro quatre

four

vier

cetire

5

panca pente quinque cinque

cinq

five

funf

piat

6

sast

ex

sex

sei

six

six

sechs

sest

7

sapta

epta

septem

sette

sept

seven sieben

sem

8

asta

octo

octo

otto

huit

eight

acht

vosem

9

nava

ennea novem

nove

neuf

nine

neun

devjat

10

daca

deca decem

dieci

dix

ten

zehn

desjat

47


Quando ci trovammo di fronte a numeri superiori, avevamo già il meccanismo pronto. Ogni dieci sassolini un sassolone, ogni dieci sassoloni una pepita. Quindi ogni sassolone equivale a dieci sassolini per cui vale cento pecore. Ogni pepita varrà , con evidenza, mille pecore. Centa era il nome che usavamo per i sassoloni, milia per la pepita, di rame o di ferro. Avevo dunque creata una sintassi combinatoria che mi permetteva di dare un nome ai numeri grandi utilizzando ed articolando i nomi di quelli piÚ piccoli. Guardavo con fiducia l’avvenire.

48


Contare SENSO DEL NUMERO

MATEMATICA Uso dei simboli

Due abilitĂ , contare ed uso dei simboli, permisero ai nostri antenati, in un periodo compreso tra 100.000 e 200.000 anni fa, di preparare le fondamenta per un linguaggio universale, oggi indispensabile, conosciuto come matematica. Senza tale linguaggio staremmo ancora a differenziarci per fetori, sempre piĂš vittime di feroci stregoni.

Peco r a e B ast on c e l l o

19 - Dal senso del numero alla matematica

49


Con 31 semplici segnetti puoi aprire i lucchetti di tutti gli scrigni culturali.

L’ a n a l i s i . . .

50

... l’analisi dei numeri ordinali20 mostra come già nelle parole che indicano i primi dieci numeri, ma soprattutto nei restanti, esiste, in tutte le lingue, una semplice regola, per passare dalla parola che indica il numero cardinale al corrispondente aggettivo ordinale, mediante l’aggiunta di suffissi: mos-tos per il greco, us per il latino, mo-to per l’italiano, ème per il francese, th per l’inglese, te per il tedesco. Infatti, come ho detto più volte, le parole usate per denotare i primi tre numeri, quelli corrispondenti al senso innato del numero, sono molto caratterizzate, diverse da tutte le altre. Ed hanno una specie di vita propria. Gli altri numeri invece, via via, inanellano sempre i primi dieci, in una eterna ghirlanda fiorita. Sul primo nucleo dunque si articolano tutti gli altri. Il conio e l’organizzazione dei primi tre numeri, poi degli altri fino a dieci, l’organizzazione delle decine e delle centinaia, le regole per formare gli ordinali, sono state le prime forme di strutture ordinate e metodiche generate dal mio pensiero (quindi da buona parte del pensiero umano). Nomade, cavernicolo, pastore. Generatore intelligente di regole e leggi per cui tutti cominciammo ad avere certezza che l’andamento degli avvenimenti umani e naturali non era regolato dagli interventi degli stregoni, ma da regole e leggi inconfutabili, anche se migliorabili (relativizzabili). Da allora avemmo la certezza che gli untorelli, per la sopravvivenza dei loro cattivi dogma e della loro becera presunzione, sarebbero stati per sempre gli irriducibili nemici della scienza.


Le lingue seguenti hanno, per i primi due numeri, nomi diversi tra il cardinale e l’ordinale. La regolarità si compie per i numeri successivi, per i quali il passaggio dal cardinale all’ordinale corrispondente si effettua attraverso suffissi (con qualche piccola variazione solo al fine di una pronuncia scorrevole). Greco

Latino

Italiano

Francese

Inglese

Tedesco

mos-tos

us

mo-to

ème

th

te

1

eis, mia, en unum uno un protos primus primo

2

duo duo due deux two zwei deuteros secundus secondo seconde second zweite

3

treis, tria tria tre tritos tertius

4

tettares quattuor quattro quatre four tetartos quartus quarto quatrième

vier vierte

5

pente quinque cinque cinq five pemptos quintus quinto cinquième

fünf fünfte

ex

sechs sechste

6

sex extos

terzo

sei sextus

one eins premier first erste

trois three drei troisième third dritte

six sesto

six sixième

epta septem sette sept seven ebdomos septimus settimo septième

sieben siebte

octo

octo otto huit eight ogdoos octavus ottavo huitième

acht achte

9

ennea novem nove neuf nine enatos nonus nono neuvième

neun neunte

10

deca decem dieci dix ten decatos decimus decimo dixième

zehn zehnte

7 8

Peco r a e B ast on c e l l o

20 - I nomi degli ordinali

51


Uno dei grandi malintesi sulla matematica che commettiamo nelle nostre aule di scuola è che il professore sembra sempre conoscere la risposta di ogni problema che si discute. Ciò dà agli studenti l'idea che da qualche parte c'è un librone con tutte le risposte corrette a tutte le domande interessanti, che gli insegnanti ce l'hanno, e basterebbe trovarlo per avere tutto a posto. Questo è davvero l'opposto della vera natura della matematica. L e o n H e n k in

52


Assiri

53


L a scu ola n on d ev e co n diz io n are ma de v e promuov e re l ’ aut ode t e rmi nazi one .

Da RAS a RA

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Io, Ras, avevo trascorso molte vite umane all’interno di grotte decorate da disegni rappresentanti, per lo più, animali. Nel corso di molti millenni vidi segni variopinti su corteccia di alberi, su tavolette lignee, su pelle di pecora e di capra; incisioni su argilla e su pietra, su ostracon, su cocci di vasi rotti, su ossa di animali, su papiro. Fin da allora eravamo tutti intenzionati a lasciare traccia del nostro pensiero. Raccolti attorno al fuoco, descrivevamo, a sera, le scene già dipinte, ma la loro lettura era sempre diversa. Ogni sera la rappresentazione verbale cambiava, presentava nuove sfumature, offriva altre suggestioni. Già allora pensavo che sarebbe stato forse meno bello, ma più utile, dipingere o incidere qualcosa che permettesse di rileggere un messaggio in maniera sempre uguale, una sorta di memoria, collettiva o personale, leggibile sempre alla stessa maniera: in breve, una nuova corrispondenza biunivoca! Non avevo, ancora, un’idea vera e propria di scrittura. Ci si industriava, a volte, con segni colorati sui propri corpi e così comunicavamo date, elenchi, ma io pensavo ad un sistema con cui si potessero rappresentare non solo oggetti d’utilità comune o animali da cacciare o da vendere. Volevo che si registrassero anche azioni come mangiare e dormire o si illustrassero pensieri più articolati, ad esempio idee astratte come gioia, tristezza, collera. Volevo che la mia gente comunicasse non solo oralmente, con un sistema operante cioè solo nel limitato tempo della sua pronuncia, ma in maniera permanente, con disegni, figure, segni leggibili e, quindi, validi in ogni momento. Le scritte sulle pareti di un tempio, ad esempio, magnificanti la nostra divina potenza o quelle su papiro esaltanti le vittorie di un re, avrebbero così avuto per tutti lo stesso significato. Volevo che gli uomini potessero fissare, per tramandarli, i momenti salienti della loro vita; ero convinto che solo grazie al tipo di scrittura che avevo in mente avrebbero potuto costruire e diffondere la propria memoria cosicché l’intera umanità sarebbe entrata nella storia. Cercavo una scrittura assoluta... la scrittura degli dèi. Non poteva servire l’esperienza accumulata dai sumeri e riversata sulle prime tavolette di argilla perché queste, contenendo solo elenchi di sacchi di grano1A e capi di bestiame, rappresentano di fatto dei registri contabili2A, dei conti agricoli.


Tavoletta della Mesopotamia risalente al IV millennio. Si tratta di un atto di proprietà di alberi, sacchi di grano, strumenti agricoli. Il proprietario è presente con la sua firma, la mano cioè raffigurata in alto a destra.

Idea e Segno

1A

2A La tavoletta, suddivisa in più riquadri, attesta la vendita di asini da attaccare all’aratro ad un agricoltore, un fabbro, un conciapelli. L’asino è chiaramente riconoscibile: collo, orecchie all’indietro, testa lunga e a punta.

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Da tempi remoti, infatti, dovendo stabilire con precisione questioni di contabilità, l’uomo aveva iniziato a registrare dei dati utilizzando i calculi3A gettoni cioè che riponeva, in genere, in recipienti di terracotta.

3A - CALCULI Pietre-calculi risalenti al neolitico, trovate a Susa.

La voce latina calculus, da cui il termine italiano calcolo (calcolare) significa sassolino, pietruzza, aggregato di carbonato di calcio. In medicina indica le concrezioni calcaree che ingombrano reni e vie urinarie.

Disegnava poi l’elemento contabilizzato sul sigillo di chiusura del recipiente (ricordate NUZI?) dando così luogo alla proliferazione dei pittogrammi4A, poi degli ideogrammi5A e, di seguito, ad una loro stilizzazione, forma primitiva di scrittura. Le tavolette trovate nella città sumera di Uruk registravano non solo la quantità, ma anche il nome del prodotto. Qualcuna comincia anche a rappresentare semplici azioni. Lentamente i segni evolsero, la loro forma si modificò, componendosi in una combinazione di cunei6A, cioè tracce lasciate dall’impronta del calamo (canna tagliata) nell’argilla di una tavoletta, quella che poi verrà chiamata cuneiforme quando cuneus significherà angolo. 56


Il Pittogramma è un disegno che rappresenta oggetti ed elementi concreti, senza riferimento a forme linguistiche parlate. I primi segni furono gli iniziatori di due grandi categorie: quella dei disegni precursori delle forme artistiche e quella dei disegni semplificati costituenti l’inizio della scrittura. Tra questi ultimi alcuni pittogrammi primitivi, trovati nelle tavolette sumere di Uruk (l’odierna Warka):

testa di bue

vulva

montagna

uccello

Idea e Segno

4A - PITTOGRAMMA

uovo

I pittogrammi appaiono anche combinati insieme: in questo caso ci si riferisce a donne venute dall’altra parte dei monti, cioè a delle schiave;

qui l’accostamento tra uccello e uovo porta al significato di fecondità. La combinazione di più pittogrammi serviva dunque ad esprimere una idea. Una corona + un uomo = RE

2500 aC

2250 aC

2035 aC

1760 aC

720 aC

VII aC

57


Altre tavolette tenevano conto della organizzazione sociale dei sumeri, ma sempre di elenchi si trattava: tutta la scrittura cuneiforme è infatti una sorta di prontuario. Io avevo in mente dell’altro. La mia scrittura, quella che i greci avrebbero poi chiamata geroglifica, donata da me e da Thot all’umanità, non doveva subire modificazioni nel tempo. Doveva anzi apparire già completa, coerente, in grado fin dai suoi inizi di restituire tutte le sfumature del linguaggio. Le sue parole erano medou netjer, parole degli dèi!

I più antichi documenti pervenutici dalla Mesopotamia, circa 4000 tavolette con iscrizioni astrologiche redatte con caratteri cuneiformi in scrittura assira o babilonese, facevano parte della biblioteca del re Assurbanipal (668-626 aC) e vennero ritrovati nel luogo dove sorgeva l'antica Ninive. Le tavolette contengono predizioni astrologiche basate su osservazioni astronomiche e meteorologiche risalenti al 2000 aC. Gli astrologi babilonesi attribuirono ai vari pianeti caratteristiche specifiche, legate all'aspetto degli stessi. Venere, ad esempio, la stella più luminosa e più chiara, venne associata al principio di fecondità. Marte, dal fosco alone rosso scuro, ai cambiamenti violenti e alle guerre. Del tutto plausibile che in quei tempi si dessero certe “spiegazioni”. Risulta invero incredibile che ancora oggi uno stuolo enorme di idioti speculi su tali scemenze o si abbeveri a tale asciuttissima fonte. RIFLESSIONI Chiedere sempre la spiegazione oggettiva dei fatti, la prova concreta. Quando qualcuno vi darà spiegazioni teoriche, dogmatiche, mistiche, chiacchiere e fanfaluche, saprete bene dove sta la verità e avrete la prova che quel qualcuno sta cercando di alterare e stuprare la vostra psiche. Allontanatevi da lui! 58


L’ideogramma, naturale sviluppo della scrittura pittografica, non indica più l'oggetto puro e semplice, ma rappresenta oggetti, concetti, relazioni. Una figura di piede può indicare l'azione di camminare, o di stare in piedi, o di schiacciare qualcosa. Il sole può significare giorno. La barca può significare navigare. Un esempio di ideogrammi sono i numeri. Un tipo di comunicazione ideografica in uso nei paesi occidentali è rappresentata dai cartelli stradali, che alternano figure pittoriche (ad esempio i disegni di pedoni e automobili) a simboli astratti (la barra sulla figura a indicare il divieto).

Idea e Segno

5A - IDEOGRAMMA

6A - DAL PITTOGRAMMA AL SEGNO CUNEIFORME

Evoluzione della scrittura dal pittogramma al segno cuneiforme, dal 3300 al 700. La stella indica il cielo, la divinità cioè. Evoluzione della scrittura dal pittogramma al segno cuneiforme. La donna

Il bue

La schiava

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Anche quando certe conoscenze matematiche si sono obliate del tutto, rimane saldo l'abito del rettamente ragionare, il gusto per le dimostrazioni eleganti, il disinteresse e l'indipendenza nel giudicare, il pensiero logico disciplinato, lo spirito scientifico acuito, la precisione dell'espressione, la saldezza dei convincimenti, il senso del vero. Gi ov anni A n t o n io Coloz z a

60


Egitto

61


M a la c orr uz ion e o rm ai do min a ! Non i mport a, t u non e sse re v i gl i ac c o!

Khapy - Nilo

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Keme - Egitto

Presi dimora lungo le rive del Khapy, il fiume sacro che attraversava, donando1E prosperità , Keme, la terra nera2E. 3E Keme e Khapy furono in seguito chiamati, dai greci, Egitto e Nilo . Gli stessi temporali, rarissimi, venivano considerati Nilo dal cielo. Il Nilo è, ma io solo potevo saperlo, il fiume piÚ lungo di Geb4E.


2E - Te r r a n e r a

N i l o e Vi t a

1E - Don o d e l N ilo Chiunque abbia spirito d’osservazione e visiti l’Egitto, senza averne mai saputo nulla, capisce chiaramente che la parte dell’Egitto cui le navi greche approdano è una terra d’acquisto e un dono del fiume Nilo. Erodoto, Storie II, 5 Il suolo d’Egitto non somiglia a quello d’Arabia, con la quale confina, né a quelli della Libia o della Siria, ma è terra nera e friabile, formata da fango e detriti che il fiume ha portato giù dall’Etiopia. Sappiamo invece che il terreno della Libia è rossiccio e sabbioso e quello d’Arabia e di Siria è più argilloso e ricco di pietrisco. Erodoto, Storie II, 12

3E - In n o al Nilo Salute a te o Nilo che sei uscito dalla terra, che sei venuto per far vivere l’Egitto! Occulto di natura, oscuro di giorno, lodato dai suoi seguaci; è lui che irriga i campi, che è creato da Ra per far vivere tutto il bestiame; che disseta il deserto, lontano dall’acqua: è la sua rugiada che scende dal cielo. Amato da Gheb, capo dei cereali, che fa prosperare tutti i laboratori di Ptah. Signore dei pesci, che fa risalire gli uccelli acquatici; è lui che produce l’orzo e fa nascere il grano perché siano in festa i templi. Se è pigro, i nasi sono otturati e tutti sono poveri, si diminuiscono i pani degli dèi e periscono milioni di uomini. Se è crudele, tutta la terra inorridisce, grandi e piccoli gridano. ... Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi 2007, pag. 209

4 E - Te r r a e c ie lo egiziano greco latino italiano

geb (terra, è un dio) gh (ghe, terra) terra terra

e e e e

nut (cielo, è una dea) nuc (nucs, notte) nox notte.

Le parole geografia (descrizione della terra), geometria (misurazione della terra), geologia (studio della terra) sono di derivazione egiziano-greca. In lingua latina invero si ha: terra (tellus), terrenum (terreno), solum (suolo), humus (come materia), agger (terra accumulata), pulvis (polvere, argilla). Gea, la Terra Madre è una divinità primordiale degli antichi greci. Nata da Caos, ebbe figli da Urano (il cielo stellato), da Ponto (il mare), da Tartaro (la parte più profonda del regno dei morti). I Romani la veneravano col nome di Tellure. Fu considerata protettrice del matrimonio e dei morti e invocata come soccorritrice nei terremoti (da cui scosse telluriche).

63


Tutto era, in quei tempi, riferito al fiume sacro5E.

LAGO VITTORIA

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- Fiume sacro

È il fiume più lungo del nostro pianeta, lungo circa 6700 km, 10 volte il Po. Gli egiziani nemmeno sospettavano della sua straordinaria lunghezza. Essi si erano spinti, infatti, lungo le sue rive, poco più a sud di Abu Simbel, all’altezza della seconda cateratta, ora sommersa, ed erano quindi a conoscenza di meno di un quarto dell’intero suo percorso. Nemmeno pensavano all’esistenza di grandi laghi generatori, avendo scarsa o nulla conoscenza degli altopiani etiopici e quindi delle piogge monsoniche.

N i l o e Vi t a

5E

Circa la natura di questo fiume non sono riuscito a procurarmi informazioni né dai sacerdoti né da altri, per quanto fossi molto desideroso di sapere perché il Nilo ingrossi, invadendo le terre circostanti, all’inizio del solstizio d’estate, per un periodo di circa cento giorni, dopo i quali si ritira e rimane scarso d’acqua per tutto l’inverno, fino al successivo solstizio d’estate. Erodoto, Storie II, 19

Non potevano dunque che elaborare varie suggestioni sulla natura del fiume e, come si usa quando non si ha conoscenza scientifica, concedere subito la credenziale di divinità. Credevano che la sorgente del Nilo si trovasse agli inferi, dove si univa a un torrente sotterraneo. Dagli inferi doveva poi sfociare in superficie nelle vicinaze della prima cataratta, presso Elefantina, nel loro estremo sud. Il Nilo nasce invece da un lago enorme, il lago Vittoria che, con una superficie di circa 70.000 km2 (8 volte l’Umbria), circondato da Uganda, Kenya, Tanzania rappresenta un gigantesco polmone d’acqua per il Nilo. Il livello delle sue acque varia notevolmente, da due a quattro metri, tra il periodo che precede (maggio-giugno) e quello che segue le piogge (settembre-ottobre). Data la superficie così estesa, la variazione del volume delle acque è enorme. Il Nilo Vittoria, emissario del lago Vittoria, unisce quest’ultimo al Lago Alberto (nome riferito al principe consorte della regina Vittoria d’Inghilterra). Dal lago Alberto esce il Nilo Alberto fino ai confini del territorio ugandese, per poi, in territorio sudanese, essere chiamato Bahr el-Gebel (fiume del monte), che riceve due affluenti: il Bahr el-Ghazal (fiume delle gazzelle) e il Sobat, discendente dall’altopiano etiopico. 65


Poiché, depositando di anno in anno una grande quantità di limo, fertilizzava la terra e donava una vegetazione rigogliosa, la popolazione, lungo le sue sponde, aumentava continuamente. Gruppi nomadi di pescatori-cacciatori-raccoglitori si riunivano sempre più e formavano villaggi, dando così inizio alla vita sedentaria. Si cominciava a cooperare, ad unire ingegni e forze per raggiungere obiettivi comuni. Non c’era molto da inventare: tutto ruotava intorno al Nilo. Occorreva controllare le piene, bonificare paludi, scavare canali, costruire bacini idrici e dighe. L’irrigazione controllata faceva fiorire la produzione agricola ed

66


N i l o e Vi t a

Diventa Nilo Bianco e riceve il Nilo Azzurro (Bahr el-Azraq) anch’esso proveniente dagli altopiani, e l’Atbara, discendente dal lago Tana. Giunge così a Kartoum e alla sesta cateratta, che rallenta il corso d’acqua. Dopo la terza cateratta (la seconda è ormai sommersa) entra in Egitto a formare il lago Nasser, lunghissimo bacino artificiale formatosi con la costruzione della grande diga di Assuan, iniziata nel 1898 e completata il 21 luglio del 1970. La diga è lunga 3,6 km, alta 111m e larga, alla base, 980 m. Il lago, cui è stato dato il nome del presidente della repubblica egiziana Gamal Abd el-Nasser è lungo circa 500 km. Da lì scende verso il delta, immettendo fiumi lungo il percorso. In giugno sull’altopiano etiopico cadono piogge torrenziali che gonfiano, nelle prime settimane di luglio, il Sobat, l’Atbara e il Nilo Azzurro. I fiumi si trasformano in una massa enorme di acque torbide, ricchissime di limo argilloso. Concorrono, anche se in piccola parte, le nevi che si sciolgono sulle montagne etiopiche. Quasi tutto il volume delle acque è costituito dalle piogge dell’area subtropicale e tropicale che generano i cicli dei monsoni. Le acque che discendono dai fiumi dell’altopiano etiopico (I Monti della Luna di Erodoto) sono sensibilmente incrementati dall’aumento del livello del lago Vittoria in seguito alle piogge tardo-autunnali.

Alcuni Greci, volendo acquistarsi fama di sapienti, esposero sulle inondazioni di questo fiume tre teorie. Una [di Talete di Mileto] attribuisce la causa delle piene ai venti etesii [venti che spirano da Nord], che impedirebbero al Nilo di sfociare in mare. La seconda è più ingenua della precedente, ma anche più fantastica, in quanto sostiene che il Nilo si comporta così perché deriva dall’Oceano e l’Oceano è il fiume che circonda tutta la Terra. La terza ipotesi [di Anassagora] sembra essere la più ragionevole e invece è la più fa1sa. Non significa nulla infatti dire che il Nilo ha origine dallo scioglimento delle nevi. Come potrebbe aver origine dal disgelo se viene dalle regioni più calde del mondo e va in regioni più fredde? Erodoto, Storie II, 20-22

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accentuava il consumo di prodotti coltivati6E. I cereali, orzo e frumento, erano molto usati per pane e birra. Quest’ultima era spesso addolcita con miele, datteri o spezie. Le leguminose crescevano in abbondanza. I frutti più diffusi erano datteri, sicomori e melograni. Ortaggi, in particolare lattuga, porri, cipolle e ravanelli. Le piante avide d’acqua, come zucche, meloni, cocomeri, cetrioli, prosperavano davvero. Grande la quantità di erbe medicinali coltivate. L’olio era estratto dal lino e dal ricino; vino rosso e bianco estratto dall’uva, calpestata in enormi tini che ospitavano fino a sei uomini. I semi, lungo le sponde, si moltiplicavano in modo straordinario. Da un chicco di grano seminato si ottenevano 30-40 chicchi nella nuova pianta. Nascevano così le prime pietre da macina7E, per farro, orzo e grano, la cui mietitura veniva effettuata con falcetti di legno muniti di schegge di selce dentellate. Si scopriva anche che il calore dei focolari induriva gli impasti di argilla per cui si ricoprivano con tale fango le superfici interne dei cesti di paglia. Si realizzarono poi vasi completamente in argilla. I contenitori diventavano così impermeabili: non permettevano che l’acqua o l’umidità raggiungessero i semi depositati che, in tal modo, non germogliavano subito e potevano essere accantonati per la futura semina. Per gli accantonamenti comunitari si intonacavano d’argilla delle profonde buche. La vita di villaggio8E presentava condizioni adatte, in particolare per la protezione da predatori, per la pratica dell’allevamento di animali da cortile e da recinto. Gran quantità di pollame e di uccelli, soprattutto oche. Maiali, buoi (ai quali era riservato anche il compito di tirare l’aratro e trascinare slitte), pecore, capre. E latte, formaggi, carne, pelli, pellicce, filati. Poiché le granaglie erano molto appetibili per i roditori, ebbe inizio la domesticazione del gatto selvatico. In Egitto non c’erano terre da pascolo: tutta la terra fecondata dal fiume era riservata all’agricoltura. Non c’erano cani-pastori, ma solo cani da guardia.

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7 E - P ie t re d a m a c in a A Kubbaniya, alto Egitto vicino ad Assuan, furono trovati reperti di orzo e di grano. La loro datazione con il carbonio attesta che già intorno al 16.000 aC esisteva una agricoltura primitiva. Attrezzi agricoli, databili al 13.000 aC, scoperti durante le operazioni condotte dall’Unesco per mettere in salvo gli antichi monumenti della Nubia, avvalorano la testimonianza dei primi reperti.

8E - Vit a d i villaggio Gli Egiziani hanno usanze e leggi per lo più opposte a quelle degli altri popoli. Da loro le donne vanno al mercato ed esercitano il commercio; gli uomini stanno a casa a tessere, spingendo la trama verso il basso, mentre di solito la si spinge verso l’alto. Gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne sulle spalle; le donne orinano in piedi, gli uomini accovacciati; soddisfano i bisogni del corpo in casa e mangiano all’aperto, sostenendo che è giusto far di nascosto le cose vergognose e davanti a tutti quelle che non lo sono... Negli altri paesi i sacerdoti portano i capelli lunghi; in Egitto se li rasano. Altrove, le persone in lutto si rasano la chioma; gli Egiziani, quando muore loro qualcuno, si lasciano crescere capelli e barba, che di solito tengono rasati. Gli altri uomini vivono separati dagli animali domestici; gli Egiziani vivono con essi... Impastano la farina con i piedi e raccolgono con le mani il fango (e il letame). Gli altri popoli, eccetto quelli che hanno appreso l’usanza dagli Egiziani, lasciano i genitali come sono, gli Egiziani praticano la circoncisione… I Greci dispongono i caratteri per scrivere e le pietruzze per far di conto da sinistra a destra; gli Egiziani scrivono da Erodoto, Storie II, 135, 36 destra a sinistra...

* Valle del D e l t a Nome dato dai greci al triangolo di terra fertile a nord del Cairo perché la sua forma ricorda la quarta lettera, capovolta, dell’alfabeto greco (D).

Le mie sofferenze sono state per me insegnamenti. Erodoto

Ta de moi paqhmata maqhmata gegone (Tà dé moi patémata matémata gégone)

N i l o e Vi t a

6E - F r u t t i d e lla t e r r a Gli Egiziani [della regione del Delta*] sono quelli che ricavano i frutti della terra con minor fatica, senza sudare a scavar solchi con l’aratro, senza zappare e senza compiere alcuno dei lavori che affaticano gli altri uomini nell’agricoltura: dopo che il fiume spontaneamente è straripato, ha allagato il suolo e poi, dopo averlo irrigato, si ritira, essi seminano, ciascuno nel proprio terreno, e vi mandano sopra i maiali a calcare i semi e non hanno altro da fare che aspettare il tempo del raccolto, poi, tritato il grano per mezzo di quegli stessi animali, se lo portano a casa. Erodoto, Storie II, 14l

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Lo fanno anche gli altri! Tu pensa a te e alla tua dignità!

Dalle t r i b ù a l l ’ u n i f ic a z io n e

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I miglioramenti delle tecniche per l’irrigazione dei campi, l’inizio dell’allevamento e della coltivazione dei prodotti, consentirono agli abitanti della valle del Nilo un crescente benessere. Si accumulavano allora scorte e si iniziò a mantenere alcuni specialisti, come sacerdoti, guerrieri, artisti, geometri, tecnici. Molta manodopera fu liberata dai lavori agricoli per realizzare costruzioni sempre più grandi e complesse, sempre ispirati da necessità pratiche. Lo stesso calendario9E, che per primi elaborammo, trae origine da esigenze agricole. Le diverse comunità lungo le rive del Nilo erano divise in tante tribù, ognuna con un suo dio e con un sommo sacerdote. Poi Osiride, figlio di Nut e sposo di sua sorella Iside, diventò sovrano dell’intero Egitto, dopo averlo gradualmente unificato per formare due regni, 1’Alto e il Basso Egitto, la Valle cioè e il Delta. Osiride istruì i suoi sudditi nel fabbricare armi e utensìli di ogni tipo, emanò le leggi per la convivenza, iniziò alla magia e alla scienza e, dietro suggerimento mio e di Thot, all’arte dei numeri e della scrittura.


L’anno, di 365 giorni, inizia il 19 luglio, giorno in cui la stella Sothis-Sirio sorgeva poco prima dell’alba e diventava evidente l’inondazione. Era diviso in tre stagioni, ognuna di quattro mesi. La prima stagione era della inondazione (luglio, agosto, settembre, ottobre); la seconda della coltivazione (novembre, dicembre, gennaio, febbraio); la terza del raccolto (marzo, aprile, maggio, giugno). Ogni mese era di 30 giorni; 5 giorni venivano aggiunti alla fine dell’anno. Ogni giorno era diviso in 24 ore.

N i l o e Vi t a

9 E - Il c ale n d a r io

Primi tra tutti gli uomini, furono gli Egiziani a scoprire l’anno, avendo diviso il ciclo delle stagioni in dodici parti, e l’avevano scoperto osservando gli astri. Il loro modo di calcolare, a mio parere, è più esatto di quello dei Greci che devono, ogni due anni, intercalare un mese per rispettare il ritmo delle stagioni. Gli Egiziani invece calcolano dodici mesi di trenta giorni ciascuno e aggiungono ogni anno cinque giorni soprannumerari [alla fine dell’anno], così l’avvicendarsi delle Erodoto, Storie II, 4 stagioni viene sempre a cadere nelle stesse date... Nut, la dea del cielo, aveva sposato Geb, dio della Terra, contro la volontà del dio-sole Ra. Ra si incollerì e scagliò su Nut un incantesimo destinato a impedirle di rimanere incinta in qualsiasi mese. Nut allora confidò il suo dolore a Thot, dio con testa di ibis e patrono dell’aritmetica, della parola, della scrittura e degli scribi, ma anche protettore della Luna e reggitore del tempo e del calendario. Thot decise di soccorrerla, intavolando una partita a dadi con la Luna e, dopo aver vinto, si fece consegnare da essa un settantaduesimo dei suoi fuochi e della sua luce, di cui si servì per fabbricare 5 giorni interi che aggiunse ai 360 dell’anno consueto. La dea Nut allora, avuti a disposizione cinque giorni ignoti al calendario abituale, dette alla luce 5 figli: uno per ogni giorno vinto alla Luna da Thot. Nacquero così gli dèi Osiride, Haroeris, Seth, Iside e Nefti.

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Io, Ra, ero lì, uomo, falco, scarabeo, Sole.

Non chiedere agli altri ciò che non saresti disposto a fare tu stesso.

11E

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Io, Ra , ero lì, uomo, falco, scarabeo, Sole. La notte veleggiavo nel Duat, la regione al di sotto della terra, a bordo di una barca da notte, insidiato, all’inizio di ogni ora, da Apep, il gigantesco serpente lungo quanto gli inferi. La mia luce svegliava le anime dannate che cominciavano ad invocarmi, emettendo un suono simile a lamento umano. Incontravo, come sempre, il corpo mummificato di Osiride, mio padre, che aveva il potere di vita e di rinascita e, unito a lui, proseguivo verso l’aurora per far di nuovo trionfare la vita sulla morte. All’alba Nut, il cielo, mi generava come Khepri, lo scarabeo, e mi insediavo, solcando le acque celesti, alla guida della mia barca da giorno.

nut

geb


Io sono il capo, figlio del capo, l’emanazione uscita dal dio. Ho creato il cielo e la terra, disposte le montagne e creato gli esseri che vi sono sopra.

N i l o e Vi t a

11E - R A

Ho fatto l’acqua, ho prodotto il grande abisso, e ho creato il Toro-disua-madre (Kamutef, il dio della procreazione), autore del godimento. Io sono colui che, se apre gli occhi, genera la luce e che, se chiude gli occhi, genera le tenebre; colui a norma del cui ordine l’acqua del Nilo sale; colui il cui nome gli dèi non conoscono. Ho fatto le ore, e ho creato i giorni. Io invio le feste dell’anno, genero l’inondazione e produco il fuoco vivente per purificare le case. Sono Khepri al mattino, Ra a mezzodì, Atum la sera. dal Papiro n. 1993, conservato al Museo Egizio di Torino

KHEPRI scarabeo

RA

ATUM

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Io e Thot12E pensavamo alla realizzazione di un grande progetto: la scrittura. Thot si dedicò alla magia e all’astrologia13E; io alla generazione di numeri e alla scrittura.

12E - THOT La lingua sacra degli antichi Egizi fu rivelata dal dio Thot, dalla testa di ibis. Il dio è così rappresentato perché il segno dell’ibis è collegato all’idea di trovare. L’ibis infatti trova il suo nutrimento con un colpo di becco preciso e sicuro. Thot era la divinità della saggezza, delle leggi e dei libri sacri. I vecchi saggi definivano Thot cuore della luce, lingua del creatore, scriba saggio capace di redigere gli annali degli dèi. Tutti gli scribi, prima di scrivere, dovevano rivolgere una preghiera a Thot. Eccone un brano: O Thot, preservami da parole vane. Stai dietro di me (per guidarmi) al mattino. Vieni tu che sei la parola divina. Tu sei una dolce fonte per il viaggiatore assetato nel deserto. Essa è inaccessibile per il chiacchierone, prodiga per il silenzioso. (Papiro Sellier 1, 8, 2-6)

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N i l o e Vi t a

13E - PLATONE, FEDRO LIX ... SOCRATE Ho sentito narrare che a Naucrati d'Egitto dimorava Thot, uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l'uccello chiamato ibis. Egli fu l'inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell'astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell'alfabeto. Re dell'intero paese era Thamus, che abitava nella grande città che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Thot rivelò al re le sue arti dicendo che esse dovevano essere diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re chiedeva quale utilità ciascuna comportasse e poiché Thot spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Thot sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all'alfabeto: Questa scienza, o re - disse Thot - renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria. E il re rispose: O ingegnosissimo Thot, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dài solo l'apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, crederanno d'essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti. ... F Anch'io son del parere che riguardo l'alfabeto le cose stiano come dice il Tebano. LX S Dunque chi crede di poter tramandare un'arte affidandola all'alfabeto e chi a sua volta l'accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d'una grande ingenuità e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s'immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto. F È giustissimo. S Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi. F Hai ancora perfettamente ragione. ESERCIZIO: chi ha ragione? ... discutere!

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Thot era anche protettore degli scribi14E.

14E, 1 - SCRIBA Un padre passa in rassegna i vari mestieri affinché il figlio si renda conto dei vantaggi della professione dello scriba e della felicità di chi la esercita: lo scriba è ancora bambino e già lo salutano… il barbiere lavora fino a tarda sera, si pone agli angoli della via per cercare chi possa radere... il vasaio lavora nel fango e la melma lo imbratta più che un maiale... il muratore costruisce muri, è sempre esposto al vento, la frusta del sorvegliante gli fa male... invece non c’è uno scriba privo di nutrimento e di cose del palazzo del re. Un proverbio dell’insegnamento di Ankhesheshonz, sacerdote di Ra ad Eliopoli in Età tarda, riporta un antico detto: Istruire una donna è come riempire di sabbia un sacco bucato*. Sembra infatti che il tasso di alfabetizzazione femminile fosse ancor più basso di quello maschile. Quasi tutte le donne svolgevano esclusivamente attività domestiche. Le donne destinate a ricoprire cariche particolari ricevevano una istruzione accurata. Lo studente che intendeva diventare scriba iniziava con l’apprendere lo ieratico (adottato nei documenti e nella letteratura) e la matematica. Soltanto gli studenti migliori imparavano in seguito il geroglifico. Il metodo didattico si basava sull’ubbidienza dell’allievo al professore: Non si è bravi se non ci si esercita ogni giorno... Se sarai negligente anche un solo giorno sarai picchiato. L’orecchio dei ragazzi è sulla loro schiena* e con una bella bastonatura ascoltano meglio. Ancora oggi alcuni sedicenti istruttori e alcuni pseudoacculturati affermano, a parole e a fatti, tali bestialità: sono rimasti 5000 anni indietro. Sconcertante è però il fatto che molti di questi abbiano avuto a che fare, o siano ancora con le mani in pasta, con il Ministero della Piccola Istruzione o con il Ministero dei Mali Culturali. *

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Saper leggere e scrivere comportava l’acquisizione di una condizione sociale di rilievo. Lo scriba apparteneva ad un ristretto gruppo di privilegiati: veniva spesso ritratto più in alto degli operai, di cui controllava il lavoro.

N i l o e Vi t a

14E, 2 - SCRIBA

La professione dello scriba: Protegge da ogni tipo di lavoro, esenta da ogni fatica (zappare, remare, impastare e infornare il pane ...) e da ogni pericolo (ad esempio morire in guerra come capita al soldato).

Thot, qui raffigurato come babbuino, è il protettore degli scribi.

... è piacevole essere scriba, cioè “abile di mano”, perché si può acquisire la fiducia del re e aspirare a una carica a corte; ottenutala, si ricevono cibo, abiti, si ha il diritto di far parte del seguito del sovrano, si possiedono schiavi e schiave, mentre chi non è abile di mano rimane sconosciuto. Il soldato ha invece una vita veramente difficile: viene svegliato al mattino presto, deve sopportare ogni genere di fatica, è sottoposto a lunghe marce durante le quali ha poca acqua a disposizione, spesso fetida e causa di dissenteria. Inoltre corre il rischio di morire per mano dei nemici. Quando è vittorioso, il bottino di guerra appartiene al re e spesso al soldato tocca di doversi portare sulla schiena una schiava catturata che non riesce a camminare. Frequentemente accade poi che il soldato muoia senza sepoltura. 77


La matematica, vista nella giusta luce, possiede non soltanto veritĂ ma anche suprema bellezza - una bellezza fredda e austera, come quella della scultura. B e r t r a n d Ru sse l

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Geroglifici la scrittura degli dèi

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I n com p a g n i a d e l l e a n a t re ...

No n fa r c re de re d i sa pe re p i ù di qu el c he sai .

Mentre la mia immagine divina di Ra-Sole brillava alta nel cielo, le mie sembianze di giovane uomo stazionavano sul Nilo alla guida di un gregge... di anatre, presenti in gran numero lungo le rive del fiume. Disegnavo, disegnavo tutto quello che vedevo, in modo figurativo, ovviamente! Tenevo sempre con me l’occorrente: una tavolozza rettangolare con due cavità circolari, una per l’inchiostro rosso e l’altra per l’inchiostro nero; un vasetto per l’acqua e una penna fatta di canna, detta calamo. Nella barca tenevo anche un mortaio ed un pestello in pietra per polverizzare il pigmento per l’inchiostro1G. Cominciai a disegnare le anatre: le avevo sempre intorno. E più la guardo e più mi sembra bella... la mia anatra!

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Becco, zampe, ali... non c’è dubbio... è proprio un’anatra. Alla figura dell’anatra facevo corrispondere l’anatra stessa. Nel vedere tale figura mi riferivo, ovviamente, all’oggetto rappresentato, in questo caso all’anatra. Ma questo accadeva normalmente per tutti gli altri disegni che rappresentano animali o oggetti, mentre io volevo generare una scrittura, non una rappresentazione pittografica, e volevo anche poterla leggere in modo univoco e trasmetterla oralmente! Intanto continuai a disegnare, sempre in modo figurativo, tutto quello che vedevo intorno a me.


Gli scribi egiziani disponevano della pietra su cui venivano incisi i geroglifici, ma anche di un materiale flessibile e maneggevole: il papiro. Per scrivere si svolgeva il rotolo con la mano sinistra e lo si arrotolava con la destra man mano che il papiro si copriva di iscrizioni. Lo scriba lavorava per lo più seduto per terra, alla turca, il papiro stretto tra le ginocchia. Per tracciare i segni utilizzava un bastoncino di giunco di una ventina di centimetri, la cui estremità veniva pressata o intagliata a seconda delle necessità. L’inchiostro nero, denso e resistente, era composto di una mistura di fuliggine e acqua, addizionata con gomma arabica, un efficace fissatore. Titoli, intestazioni e inizi di capitolo erano scritti in rosso, con un inchiostro fatto di polvere di cinabro, solfuro di mercurio e minio.

S eg n o e S u on o

1G - IL MATERIALE DELLO SCRIBA

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Disegnai il sole... me stesso, cioè. Disegnai fiori di loto, girini, uccelli...

Iniziavo a creare i miei geroglifici2G su papiro3G, disegnando in modo figurativo. Erano gli inizi della mia scrittura, ma giĂ idee progressive balenavano nella mia mente. 82


γλυφω, incidere, intagliare, scrivere sulle tavolette ιερογλυφικα (γραμματα), scrittura geroglifica ieroglufikoj, geroglifico. La scrittura ideografica degli egiziani, comparsa verso la fine del IV millennio, è chiamata geroglifica. Gli egizi la chiamavano: medou necer, parole degli dèi. Più tardi i greci definirono i geroglifici lettere sacre e anche intagli sacri. La parola geroglifico non è egiziana, è greca, formata da hieros, sacro e da glyphein, incidere. Quindi scrittura sacra incisa. Gli Egizi la rappresentavano con due segni: bastone e bandiera mossa dal vento. Il disegno del bastone indica, figurativamente, l’oggetto bastone e, simbolicamente, la parola parola. La bandiera, simbolicamente, la divinità. Allora bastone di dio ed anche parola di dio. Quindi parola sacra.

S eg n o e S u on o

2G - GEROGLIFICI

Il geroglifico era usato sulle epigrafi e sui monumenti, quindi su materiale durevole, come la pietra e le etichette di avorio o in osso. Si spiega così il carattere estremamente conservativo della scrittura geroglifica, destinata a rimanere quasi immutata attraverso i millenni. In realtà anche la scrittura che noi usiamo attualmente per le lapidi è ancora quella delle iscrizioni latine. Fino a quando si scriveva sulla pietra è chiaro che si trattava di documenti destinati a minima circolazione. Ma la scrittura non poteva avere come scopo solo la registrazione di grandi eventi; serviva anche a trasmettere messaggi astratti, generali, testi in cui si codificava il sapere di una civiltà: testi medici o astronomici, o i primi annali in cui venivano registrati gli avvenimenti che allora erano considerati degni di essere salvati dall’oblio. È questa necessità che ha portato all’invenzione del papiro, uno dei più importanti contributi della civiltà egiziana alla storia dell’umanità. I primi papiri scritti che ci sono giunti si datano nella prima metà del III millennio.

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Intanto mi piaceva definire la rappresentazione di questi semplici disegni come scrittura FIGURATIVA o inizio della mia scrittura. Inizio perché una scrittura in cui ogni oggetto viene identificato con il suo disegno non sarebbe certamente una scrittura: equivarrebbe infatti a creare per ogni oggetto da rappresentare un simbolo diverso... infiniti simboli per infiniti enti! Assurdo... e... impossibile!

Avrei anche potuto usare i disegni per rappresentare i numeri: quattro anatre... ma anche... il numero 4

tre anatre ... ma anche... il numero 3

due anatre... ma anche... il numero 2 In questi casi però l’uso dei disegni per i numeri era davvero smodato. Ogni disegno infatti avrebbe rappresentato solo il numero di unità dell’oggetto rappresentato; meglio allora il semplice disegno di un bastoncino o di un sassetto, come avevo fatto in precedenza. I disegni dunque devono essere riservati solo alla scrittura, però... una scrittura puramente figurativa mi avrebbe ricondotto alle prime tavolette, quelle precedenti il cuneiforme. Però, però, però... guardiamo bene questi due disegni:

Con il numero due non c’entrerebbero proprio, non avrebbe senso... ma... combinandoli, l’anatra e il sole, potevo certamente ricavarne un nuovo significato, diverso e separato dai primi due! 84


Il papiro è una pianta che cresce in abbondanza nelle paludi della valle e nel delta del Nilo. Gli egizi se ne servivano per costruire moltissimi oggetti d’uso quotidiano, tra i quali corde, stuoie, sandali e vele. I fusti fibrosi del papiro permisero di preparare un supporto che doveva rivoluzionare il mondo della scrittura dando vita al foglio. Il trattamento consisteva nel tagliare dallo stelo alcune strisce sottili che venivano poi assemblate accavallandole. Sovrapponendo perpendicolarmente due strati si otteneva una superficie piana e liscia, che veniva fatta seccare a pressione prima di essere levigata. Si incollavano poi con pasta d’amido una ventina di fogli e si otteneva così un rotolo lungo diversi metri.

S eg n o e S u on o

3G - IL PAPIRO

Data la grande cura e la lentezza con cui gli scribi tracciavano i segni, si sviluppò una forma corsiva più rapida nella quale i segni persero a poco a poco il loro carattere di immagini. I greci la chiamarono IERATICA perché al termine della sua evoluzione finì per essere usata solo per i testi religiosi (hieratikòs). La sacra scrittura incisa ricopriva dunque le pareti dei templi, ma gli egiziani con la variante corsiva dei geroglifici, lo ieratico, crearono una scrittura più veloce e quindi più adatta alla diffusione dei decreti reali e dei testi letterari. Dal VI-V secolo la pianta era chiamata byblos. A partire dal IV secolo fu chiamata papyros.

UNA SCRITTURA PER TUlTI I GIORNI La scrittura geroglifica non era nata per il papiro: il suo carattere spiccatamente pittorico, per cui ciascun segno si presenta come una miniatura nella quale ogni particolare è accuratamente scolpito e dipinto a vivaci colori, era poco adatto a una scrittura veloce, quale si richiedeva per gli usi quotidiani. 85


L’anatra, il mio primo disegno, la mia creatura... ... la figlia del sole! Potevo leggerci l’anatra di Ra, la mia anatra! Anatra del sole... figlia del sole! Stabilii allora che i due simboli uniti, nei contesti in cui risulti chiaro che non si parla del pennuto quando si disegna tale segno, l’anatra diventa simbolo della parola FIGLIO. Potevo così esprimere, con una sola figura l’oggetto in sé, con due figure vicine, un’idea, un concetto traslato, un’azione, un’astrazione, proprio come avevamo già fatto con gli ideogramma... il pittogramma era dunque completamente superato! Allora: ANATRA = FIGLIA DEL SOLE = FIGLIO. Nel primo caso l’anatra rappresenta se stessa e quindi la scrittura è FIGURATIVA. Nel secondo non indica se stessa, ma diventa il simbolo di figlio e quindi si tratta di una scrittura SIMBOLICA. Non c’è che dire... un bel progresso. Anche Toth ne fu felice!

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ιερατικοσ, sacerdotale una qualità di papiro

in Aristotele e Plutarco in Strabone

S eg n o e S u on o

È per questo che fin da un’epoca molto antica, forse nel momento stesso in cui il papiro fu inventato, gli Egiziani elaborarono un altro tipo di scrittura, quella che noi, ancora una volta sulla scia degli scrittori greci, chiamiamo ieratica, cioè sacra.

La terminologia greca non tragga in inganno: se è vero che dal VII secolo aC lo ieratico serve solo per scrivere libri di contenuto religioso, esso altro non è che il corsivo della scrittura geroglifica: mentre questa viene usata quasi esclusivamente sui monumenti in pietra (pareti dei templi, statue, stele, ecc.), lo ieratico si scrive su papiro (rarissimo il suo impiego sulla pietra) e su tutti gli altri materiali su cui si poteva impiegare il pennello che serviva per tracciarne i segni. Per quanto ciò possa apparire sorprendente, era lo ieratico la scrittura più diffusa dell’antico Egitto. Solo che il papiro è assai meno durevole della pietra e perciò i testi geroglifici che si sono conservati sono assai più numerosi di quelli ieratici: questo fatto non deve indurci in errori di prospettiva, che derivano solo dal caso archeologico. Quanto ai contenuti, non vi era alcun limite per lo ieratico. Esso veniva usato per tutti gli scopi: dai decreti del sovrano ai testi letterari, profani e religiosi, alle lettere private e ai conti dell’amministrazione. Era divenuto in realtà, per pure ragioni pratiche, la scrittura più in uso presso la gente comune.

CORSIVO = in paleografia, di ogni scrittura caratterizzata dal tratteggiamento celere e dall’unione e inclinazione delle aste, frequente nell’uso ordinario. Dal Latino medioevale cursivus e questo da currere (andare di corsa), attraverso il tema del supino cursum.

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P ro s t i t u z i o n e : v e n d e re l ’ a n i m a , n o n l ’ i n c o l p e v o l e c o r p o .

Suoni

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Seshat, dea della scrittura, e Thot, dio dei libri sacri, si erano raccomandati: ricorda, piccolo Ra, che il nostro popolo non è come noi, non sa comunicare con la mente. Comunica con la pittura, ma, soprattutto, con la voce. Dovevo dunque far leggere anche con la voce, non solo con gli occhi, racchiudere quindi nello stesso segno, immagine, idea e suono: scrivere, leggere, parlare. Ad ogni disegno dunque, almeno a quelli fondamentali, doveva corrispondere uno ed un sol suono. Di nuovo la corrispondenza biunivoca: a quel disegno un solo suono e per ogni suono un solo disegno! Emettendo poi più suoni insieme, quindi più disegni collegati tra loro, avrei potuto produrre dei suoni composti che, uno ad uno, avrebbero espresso idee diverse!

Si sarebbe potuto, dunque, cogliere l’eleganza pittorica dei miei disegni, trarne idee più complesse, identificarle con suoni. Se da due disegni diversi, disposti uno dopo l’altro, avevo generato un significato non collegato ai singoli disegni, pensavo di poter attribuire loro anche un suono del tutto scollegato ai 3 significati iniziali (il primo oggetto in sé, il secondo e il significato derivante dal loro accoppiamento), tale da doverlo ripetere, esso suono, ogni volta che mi servisse. Inventai così, per la mia anatra, un suono doppio, SA, formato da S + A. Mi servirò di questo suono SA per scrivere (e leggere) altre parole che non hanno alcun legame con anatra e figlio. Un suono anch’esso staccato dai contesti iniziali, che non implicasse dunque la traduzione in anatra o sole o figlio e non avesse alcun riferimento con il significato dei disegni di base.

Per tentare un vago paragone con l’italiano, prendiamo due gruppi di suoni, ad esempio RE e TE, che costituiscono due parole distinte. In una terza parola RETE si trova sì l’unione dei due suoni RE e TE, ma non resta traccia dei significati delle due parole prese separatamente. In questo caso la scrittura geroglifica è FONETICA. FONETICA


S eg n o e S u on o

LA STELE DI ROSETTA

Presso la città di Rosetta fu trovato, dai soldati di Napoleone, nel 1799, un monumento che divenne poi, ad opera allo studioso francese Jean-François Champollion (1790-1832), la chiave di lettura per la decifrazione dei geroglifici. La stele di Rosetta è una lastra di basalto nero alta 118 cm. È stata incisa su di essa, al nono anno di regno di Tolomeo V Epifane (196 aC), una iscrizione commemorativa in tre scritture diverse: geroglifica nel registro superiore, demotica al centro e greca nel registro inferiore. La stele fu ceduta, nel 1802, dopo la disfatta di Napoleone, all’Inghilterra. È oggi esposta al British Museum di Londra, accompagnata dall’iscrizione Conquered by the British Armies (Conquistata dalle armate britanniche).

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Ai miei occhi ogni essere vivente o vegetante è una realtà con la sua storia, la sua magia, la sua efficacia. E tutto era sacro: la pietra, l’albero, la stella, gli insetti, i pesci, gli oggetti, gli edifici... la natura insomma, nei suoi molteplici aspetti. E decisi di rappresentare tutto, in ogni forma e dimensione. Decisi che la scrittura, la pittura, la scultura, il disegno, l’architettura fossero rivolti a un solo intento: incarnare la scrittura geroglifica, che si traducesse così in un tempio, in una statua, in un bassorilievo. La piramide di Cheope fu infatti un monumentale geroglifico di pietra. Le immagini sacre, che rappresentavano la vita stessa, non potevano essere cambiate. Mai. Infatti non migliorarono né peggiorarono. Sono sempre state al massimo del loro splendore.

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S eg n o e S u on o

Champollion identificò dapprima i segni usati per scrivere i nomi di Tolomeo e Cleopatra. Tali nomi erano ben visibili nel registro copto (ultimo stadio della lingua egizia), e quindi dovevano anche trovarsi nella versione in geroglifici, iscritta in un cartiglio come si faceva per segnalare un nome reale.

Partendo quindi dalla forma greca (copta) del nome di Tolomeo, Champollion ne identifica la forma geroglifica, scritta con 8 segni.

Nel 1822 riconosce sull’obelisco di File il cartiglio di Tolomeo accompagnato da quello di Cleopatra. Confrontandoli, scopre il valore fonetico di 4 segni e il valore alfabetico degli altri 4. riuscÏ ad assegnare valori fonetici agli altri segni.

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A me mo ri a sol o n o me e c og n ome.

Libera

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La feci completamente libera, la mia scrittura. Immagini viste di fronte o di profilo, in orizzontale o in verticale. Potevo disegnare-scrivere tanto da destra a sinistra quanto da sinistra a destra: l’ordine l’avrebbe dato la direzione dello sguardo dell’anatra. Non pensai proprio all’ortografia, né a rendere la scrittura sintattica, di ordinarla cioè in regole. Non posi interpunzioni. In caso di equivoco ponevo, dopo una parola, un termine che chiamai determinativo. Così il papiro arrotolato e sigillato indica che la parola che esso determina appartiene alla categoria delle idee astratte. Non volevo che lo scriba diventasse un banale scribacchino ripetitore, ma avesse la possibilità di effettuare ogni volta un atto creativo, tanto per scrivere quanto per interpretare gli scritti di altri scriba. Credevo allora in una cultura creativa. Avevo in sommo disprezzo la possibilità di diventare scriba senza essere colto e creativo. Non volevo che si potesse diventare scriba con i soldi di papà. Doveva, lo scriba, dimostrare ogni giorno di saper creare, inventare, sintetizzare ed esporre. Avevo di nuovo un chiodo fisso: la meritocrazia. Sapevo che il potere al merito avrebbe salvato le istituzioni, il potere corrotto avrebbe portato alla guida del paese i potenti inferiori che avrebbero ucciso cultura, dignità, buon senso. Educere, dunque, non educare! Imposi solo geroglifici che si imponessero nel tempo e quindi fossero immutabili. Ecco perché costruii un alfabeto con sole consonanti. Le consonanti non variano nel tempo. La loro pronuncia rimane inalterata. Le vocali no. Esse hanno accentazione diversa, cadenza diversa. Variano di luogo in luogo, di tempo in tempo. La mia era proprio la scrittura degli dèi!


da Christian Jacq, Il segreto dei geroglifici, PIEMMEPOKET, p39

Corrispondenze approssimative tra l’alfabeto italiano e l’alfabeto egiziano

S eg n o e S u on o

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Dividere la parola nei suoni che la compongono e attribuire valori diversi a seconda della posizione: è qui la storia dell’uomo.

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Numeri

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E va bene, i nodi non si snodano da soli. Però, perché per annodarsi non hanno bisogno d’aiuto?

Numeri

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Disegnando anatre avevo dato luogo alla scrittura degli dèi. Pensando ai numeri1N, mi misi a disegnare bastoncelli, foglie, pesciolini, girini. Poi fiori di papiro e qualunque cosa vedessi dalla mia barca.

Per simbolizzare-rappresentare l’unità non avevo problemi. Rappresentai l’unità come avevo già fatto, circa quindicimila anni prima: un segno verticale |. Quindi due unità, simbolizzate anche da due dita, potevano essere rappresentate così ||. E ancora: ||| |||| |||||.


Gli innumerevoli monumenti e papiri pervenutici hanno permesso la ricostruzione della simbologia numerica usata nella scrittura geroglifica e in quella ieratica. La cifra dell’unità era un trattino verticale, quello della decina un segno a forma di ansa (o a ferro di cavallo, come una U maiuscola rovesciata); il centinaio era rappresentato da una sorta di spirale più o meno avvolta; il numero mille da un fiore di loto col gambo; la decina di migliaia da un dito alzato, lievemente inclinato all’estremità; il centinaio di migliaia da un girino a coda penzolante e, infine, il milione. I primi egittologi che interpretarono il geroglifico del milione credettero dapprima che si trattasse di un uomo sopraffatto dall’importanza del numero che rappresentava. Ma l’analisi moderna ha dimostrato che si tratta di un genio sostenente la volta celeste e che lo stesso pittogramma poteva essere usato per indicare l’eternità o il milione di anni. Questo segno perse d’altronde abbastanza presto il valore numerico per significare moltitudine o eternità.

O g g e t t o e N u m e ro

1N - Nume r i

La scrittura geroglifica aveva dunque simboli autonomi per l’unità, per il dieci, il cento, il mille, ecc. mentre i primi nove numeri erano, inizialmente, ripetizione ordinata di tratti-bastoncini.

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E così via... sei dita... sette..., fino ad utilizzare, per abbinamento o corripondenza biunivoca, tutte le dita delle due mani. Una bella conquista! E poi? Esaurite perché utilizzate tutte le dieci dita? Avrei potuto iniziare una corrispondenza biunivoca anche con le dita dei piedi, ma poi, giunto a totale utilizzazione, il problema si sarebbe riproposto di nuovo. Meglio allora cercare di risolverlo adesso... con meno unità! Cosa volevo, mi chiesi, dai miei numeri? Sostanzialmente, poter rappresentare alcuni oggetti mediante segni riconoscibili al fine di sapere il numero esatto di una certa quantità, ad esempio, di pecore, di oche... né una di più, né una di meno. Ero quindi alla ricerca di un simbolo sintetico che all’istante mi rivelasse l’esatta quantità degli elementi sottoposti alla mia analisi. Pensavo ad una quantità di gran lunga superiore a quella delle prime pecore portate al pascolo da Ras. Se dunque l’insieme fosse molto numeroso... se volessi registrare grandi cifre... calcolare le razioni di cibo necessarie per sfamare gli uomini che scavano un lago... conoscere il numero dei soldati del faraone Menes o dei nemici da lui ridotti in schiavitù... non sarebbe stato certo sintetico né utile presentare tanti segnetti quanti gli elementi stessi! Ci voleva un’ulteriore sintesi! Mi venne in mente il sasso, quello che utilizzavo per ricaricare le mani. Ricordate? Ogni dieci dita un sasso; altre dieci dita un altro sasso... e così via... E se, proprio come avevo fatto con un dito, rappresentato graficamente con un segnetto verticale, avessi disegnato anche un simbolo per il sasso? Quel simbolo avrebbe avuto il valore di dieci dita! Benissimo, cominciai a disegnare un cerchiolino per il dieci. Questa idea, pensavo, superava, in genialità, tutte le precedenti, di cui pure andavo fierissimo. Parlavo avendo, come al solito, le mie mani come interlocutrici. Le alzai al cielo, verso la mia essenza solare. Le mie mani toccavano la mia immagine, il sole.

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L’impraticità di riportare con inchiostro e pennello un allineamento che doveva giungere fino a 9 lineette per la mancanza di un segno geroglifico per il 5 I

II

III

IIII

III II

III III

III IIII

IIII IIII

1

2

3

4

5

6

7

8

III III III 9

O g g e t t o e N u m e ro

IERATICO

ha portato gli scribi egizi al notevole risultato di avere un segno autonomo per ognuno dei primi 10 numeri.

Così, come si evince dalla sottostante rappresentazione dei numeri ieratici presenti nel Papiro Rhind, i primi tre segni ripetono i corrispondenti trattini del geroglifico (I II III); il quattro (IIII) si comincia a scrivere come unico tratto orizzontale; il cinque diventa tre virgolette seguite da un tratto verticale; il sei cambia aggiungendo un tratto orizzontale a pedice destro del nuovo cinque; il sette deriva forse dalla sostituzione della terna di trattini del cinque con un segno curvo; l’otto è un doppio quattro; il nove passa a tre linee curve, una per ogni terna verticale di trattini.

1

2

3

4

5

6

7

8

9

99


Disegnai:

E stilizzai:

Al semplice cerchio per simbolizzare il dieci che avevo appena coniato, preferii quest’ultimo simbolo, riconoscimento al mio lavoro fisico-manuale ed alla mia immagine celeste. Ed allora così come |||||| rappresentava sei oggetti, la scrittura ∩∩∩∩∩∩ avrebbe rappresentato sei volte dieci quindi sessanta. E poteva rappresentare qualsiasi oggetto, non solo pecore o civette o bastoni... Ma allora ∩∩∩||||| questa scrittura avrebbe rappresentato, senza equivoci di sorta, trentacinque oggetti. Bene, bene, bene! Il problema si poneva adesso una volta arrivato a dieci volte dieci. Potevo giungere infatti a ∩∩∩∩∩∩∩∩∩|||||||||, novantanove cioè. E poi? Di nuovo, ma ormai avevo capito il meccanismo: nuovo simbolo per il cento. Divertente! Che disegnare? Ma l’avevo davanti! L’altra cima della cordicella, quella arrotolata. E così rappresentai:

Ormai tutto era chiaro. 100


O g g e t t o e N u m e ro

A questo punto il risultato è raggiunto: per ognuno dei dieci primi numeri si ha un segno autonomo. Lo stile ieratico, paragonabile alla scrittura manuale, apparve probabilmente poco dopo l’introduzione dei geroglifici, dei quali è una forma semplificata o stenografica. Nell’Antico Regno la scrittura ieratica era usata per tenere la contabilità dei templi sui papiri ed era quella più utilizzata anche per i documenti privati o amministrativi. Gli scriba se ne servivano per redigere testi religiosi, come il Libro dei Morti e altri testi funerari e mitologici. Il suo uso religioso divenne predominante e infatti i greci la definirono “sacerdotale” (hieratica).

DEMOTICO Il demotico, la scrittura che i greci chiamavano demotica (“popolare”) e che gli egizi indicano con l’espressione “scrittura di documenti”, comparve per la prima volta intorno al 600 aC e in seguito sostituì lo ieratico. La diretta derivazione sia dallo stile ieratico sia dai geroglifici è celata dal suo aspetto estremamente corsivo. Inizialmente era riservata a documenti legali e amministrativi, ma in seguito venne usata anche per testi letterari e religiosi.

COPTO Il copto (dal greco Aiguptia, “egizio”) fu l’ultima scrittura in lingua egizia e l’unica a essere completamente fonetica. Il suo alfabeto è composto da ventiquattro lettere greche con sei segni aggiuntivi. L’uso del copto risale ai tempi dei primi cristiani, ma sembra che sia sorto agli inizi del I secolo dC per assicurare l’esatta pronuncia di parole, espressioni e passaggi critici nei testi di magia. Questa scrittura era usata sia a fini religiosi che laici.

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Di d i e c i i n d i e c i Di dieci in dieci, tutti gradoni, come per le piramidi. Allora un simbolo per dieci volte cento, che chiameremo mille. Per mille scelsi il fiore di loto

Quando leggi un libro non ha importanza l’abito che indossi.

Per diecimila il dito piegato in punta (il mio pollice)

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Per centomila il girino

Poi un milione ovvero una infinitĂ di cose, quindi un uomo con le braccia alzate al cielo.

Non avevo bisogno d’altro. Il resto, importantissimo per altro, lo farà il tempo.


La prima matematica scritta che si conosca fu scolpita, intorno al 3000 aC, sullo scettro di pietra del leggendario Meni (Menes nelle fonti greche), re della Nubia e fondatore della capitale Menfi e della prima dinastia faraonica dell’Egitto unificato. I geroglifici registrano la conquista della regione del delta nilotico da parte dello stesso Meni, chiamato anche pesce-gatto malefico e da identificarsi con molta probabilità con il faraone Narmer.

O g g e t t o e N u m e ro

Mazza di Narmer

Nel registro inferiore è riportato l’elenco del bottino di guerra: 400.000 buoi, 1.422.000 capre, 120.000 prigionieri. Questo antichissimo documento riporta, con precisione, grandi numeri: è un segno evidente che già molto cammino nella scrittura dei numeri era stato fatto nella valle del Nilo in epoca anteriore, durante il periodo preistorico, prima della invenzione della scrittura. Mi dissero pure che il primo re d’Egitto, che fosse uomo, era stato Mina (Menes) e che ai suoi tempi tutto l’Egitto, eccetto la regione di Tebe, era una palude e nulla emergeva da quei territori che ora sono a valle del lago Meri, al quale si giunge dal mare, risalendo la corrente del fiume, con sette giorni (Erodoto, Storie, II, 4) di navigazione.

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Nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, se non passa le matematiche dimostrazioni. Leon ar d o d a Vin c i

104


Grecia mater mundi

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Letture da

Te s t i m o n i a l e c o s e i n v i s i b i l i c o n q u e l l e v i s i b i l i . Solone

Il Leggendario

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di Giuseppe Morpurgo

L’ e t à f a v o l o s a Gli anni della fanciullezza -scrisse una volta Giacomo Leopardi- sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita: come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime. È un’osservazione derivata dalla lettura d’uno dei più geniali libri che mai si scrivessero in Italia, la “Scienza nuova” (Princìpi di una Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni), del pensatore napoletano G. B. Vico, pubblicato nella sua edizione definitiva nel 1774, l’anno medesimo della morte del suo autore. Cerchiamo di intenderla bene: è cosa assai importante per noi. Si sa che i bambini appena nati non capiscono nulla; avvertono soltanto gli stimoli della fame, della sete, del sonno. Solo dopo qualche tempo cominciano a sorridere e a far festa alla mamma, tendendo a lei le braccia o battendo le manine. Poi imparano a camminare, prima sulle mani e sui piedi, a quattro zampe come bestioline, e cominciano a ruzzare e a trastullarsi, in modo non diverso dai cuccioli o dai gattini. Finalmente “imparano a giocare”: che è per loro una cosa molto seria. “Giocare” è per i bimbi, sebbene essi non lo sappiano, sinonimo di “fantasticare”, di “tradurre in realtà i loro sogni puerili”. Usciti dalla prima infanzia, nella loro ancor tenera fanciullezza, dai tre o quattro anni ai dieci, su per giù, le bambine discorrono con le bambole, i maschietti coi loro fantocci e allineano i loro soldatini di piombo e li vedono combattere come fossero vivi e veri: e credono le bimbe, credono i ragazzini alle fate, ai maghi, agli orchi, agli animali parlanti e così via. Fantasticano, guardando, per esempio, le nuvole sospinte dal vento, strani mostri, navi fatate naviganti nel cielo: e ogni ragazzo che legge potrà, dalla sua così recente esperienza, trarre il ricordo di altri suoi sogni; si rammenterà certe sue strane paure notturne,


certi suoi improvvisi sgomenti al ritrovarsi solo, specie se al buio e nel silenzio, come se intuisse la presenza, intorno a sé, di qualche misterioso grande essere in agguato nelle tenebre; ricorderà lo stupore provato nel contemplare il cielo stellato, o un’alba serena, o un rosso tramonto; lo spavento che lo fece impallidire allo scoppio d’un temporale, al rombo d’un tuono, allo scroscio d’un fulmine. È più difficile che possa richiamare alla memoria l’impressione che provava quando era piccolo piccolo al vedersi intorno la mamma, il babbo, le persone adulte, che lo dominavano con la loro statura e gli sembravano dei giganti e qualche volta gli facevano paura... Ebbene, qualcosa di simile avvenne di certo agli uomini primitivi, agli uomini appena creati in un mondo costruito di recente da un Dio che essi non potevano concepire e di cui ignoravano l’esistenza. Nascevano, vivevano, morivano e non capivano certo che cosa fosse la nascita, che cosa la vita o la morte. Erano dei semplici animali a due gambe, dei bestioni, più o meno feroci. Come i neonati, provavano solo i bisogni fisici, del cibo, del bere, del dormire, e la paura, una certo enorme paura del buio della notte, delle zanne delle belve, delle onde del mare, dei fulmini del cielo. Si rifletta quale potesse essere la loro vita, quasi ferma. È il tempo dell’infanzia dell’umanità, senza intelligenza, senza vita sociale, e anche senza sogni. Ma anche per codesta prima umanità, come per gli individui, all’età della prima infanzia segue quella della fanciullezza; all’età della vita puramente fisica, dei soli sensi del corpo, una vita di rudimentale prima, e poi via via sempre più esperta e viva intelligenza: intelligenza di fanciulli adulti, se si può dire, che vedono se stessi e tutto quanto li circonda con gli occhi della fantasia. Poi, molto più tardi, saranno uomini e non più fanciulli, capaci del discorso della ragione. Nei tempi della sua fanciullezza questa prima gente umana visse, come i ragazzi, anche quelli che stanno leggendo, la sua età favolosa. Possiamo facilmente immaginarcela ignara, sognante, immaginosa. spaurita. Fu detto e si può quasi con certezza affamare che i primi miti, come 1e prime rudimentali superstizioni religiose, nacquero in questa età, non dell’infanzia, ma della fanciullezza delle genti; nacquero dall’ignoranza, dallo stupore e dalla paura. 107


No n d esi de ra re l’i mpo ss ib i le . Ch i lon e

C h e c o s a è u n mito Mito, mythos, è termine greco che significa, in origine, semplicemente: parola, discorso: poi fu il discorso che si fece, la fantastica storia che si raccontò dell’esistenza di quegli esseri onnipotenti e immortali, di forme affini a quelle umane (antropomorfi, da àntropos, uomo, e morfè, forma) che si chiamarono Dèi o Numi, descritti nel loro immaginato aspetto, nei rapporti scambievoli tra loro e con gli uomini, nelle loro caratteristiche comuni o singolari, nelle loro gesta e avventure, e via dicendo. Si distinguono di solito i miti dalle leggende, in quanto i miti riguarderebbero gli Dèi e le leggende gli Eroi... Miti e leggende sono poi detti favole antiche... Quelle favole antiche, quei miti, sono in massima parte poetica trasfigurazione di eventi, del mondo della natura o dell’umanità e della prima vita sociale, fantastiche testimonianze di una vita effettivamente vissuta dai nostri remotissimi progenitori.

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C om e n a c q u e ro i miti Pensiamo per un momento non all’era geologica remotissima in cui il globo terracqueo si formò e si consolidò; ma piuttosto all’aspetto che esso dovette assumere dopo gli immani sconvolgimenti, cataclismi, sommersione di antichi continenti, emersione di altri, eruzione di giganteschi vulcani, diluvi, piene, alluvioni; figuriamoci, in una parola, il mondo quale apparve all’uomo, a quest’ultimo giunto, come lo chiama lo Zanella nella sua celebre poesia “Sopra una conchiglia fossile”. Immense lande ancora gelide inospitali deserte; sterminate, buie foreste, quali ancora coprono tanta parte della superficie terrestre nella zona equatoriale; savane di alte erbe a perdita d’occhio, montagne altissime nevose e inaccessibili; valli profonde, cupi baratri, forre rupestri: tali o consimili paesaggi doveva offrire il nostro mondo, che l’uomo non aveva ancora solcato con l’aratro e trasformato con la cultura della terra, l’abbattimento di enormi alberi, la costruzione delle case dei villaggi delle città... Come dovevano urlare i vènti gelidi o torridi in questo pauroso mondo! Quanto spaventevole fu lo scroscio delle folgori, il rombo delle mareggiate, delle piene dei fiumi, delle eruzioni dei vulcani, delle frane e delle valanghe! Quali terrificanti echi si ripercossero in quelle foreste, tra quelle montagne, in quelle


lande deserte al ruggito delle belve! Così enormi dovevano essere quelle fiere che un leone o una tigre o perfino un elefante sembrerebbero cuccioli al confronto. Possono darcene idea le immani ossa pietrificate, che si sono trovate in vari luoghi, di mammouths, di dinosauri e di altri mostri che si usano definire antidiluviani. E molto superiore a quella normale dovette essere anche la statura dei primitivi umani: già lo suppose il Vico e se ne ebbe la conferma dai crani e da altre ossa fossili che si rinvennero in tempi recenti in varie caverne e luoghi romiti. Ciò spiega la statura e la forza smisurata dei Titani e degli Eroi del mito combattenti contro i mostri e le forze avverse della natura. Supponiamo dunque che, se non tutti, molti dei primi uomini fossero dei giganti: ma erano giganti inermi, erano enormi fanciulloni spauriti, nudi, ignari di tutto: bestioni irsuti, urlanti con voci roche e belluine, nei primi tempi, nell’infanzia del mondo; poi a mano a mano più mansueti, domati dallo sgomento di quella terribile vita primordiale, costretti ad associarsi in tribù per non morire, a difendersi con rozze armi di pietra, uccidendo con esse le bestie selvatiche e azzannandole crude. Poiché non conoscevano altro fuoco che quello degli incendi nelle foreste investite dal fulmine... E quando la notte nera scendeva sulla terra quegli uomini ancora disumani dovevano urlare per il terrore delle tenebre; e certo gridavano di giubilo, saltabeccando come scimmioni impazziti quando il sole che credevano spento si riaccendeva dal mare o dai monti e tornava a illuminarli, a scaldarli, a rassicurarli. Naturale che il sole apparisse loro un dio benigno, la notte una deità misteriosa e nemica, il fulmine l’arma di un nume irato. Ciò che superava le forze e le possibilità dell’uomo fu per loro, che pur non potevano avere un concetto razionale e filosofico della divinità, un dio o cosa o forza attinente ad un dio. Dal loro terrore, dal loro stupore, dalla loro ignoranza era nata in quegli esseri elementari la vaga, quasi inconsapevole intuizione che esistessero sopra a loro, intorno a loro, nelle remote lontananze del cielo, nelle profondità della terra, negli abissi del mare altri esseri, non del tutto dissimili a loro, ma di sconfinata potenza, dai quali dipendeva la loro vita: esseri nemici o benevoli, che conveniva propiziarsi con offerte e sacrifici (anche umani). Così, per dir la cosa in modo approssimativo, gli uomini crearono essi gli dèi da cui poi si immaginarono creati e, nel rievocare le 109


Lentamente poni all’opera; ma perdura in ciò che hai cominciato. Biante 110

lotte, i travagli, le tragedie dei primi umani conflitti con la natura avversa, inventarono i loro primi miti, confusi, caotici, in apparenza assurdi, che pure esprimevano una realtà, un’esperienza vissuta, trasfigurata in quelle rudimentali e primordiali coscienze. Non avviene qualcosa di simile ancor oggi tra i selvaggi di remote isole della Polinesia e delle foreste del Congo o dell’Amazzonia? Tutte le genti, anche le più selvatiche e ferine, prima di giungere all’età della ragione, della civiltà, si crearono i loro Dèi, adorando magari un pezzo di legno, un animale, una pietra, foggiandosi così un idolo tutelare -un totem come si chiama in qualche tribù selvaggia- e in modo analogo tutte le genti si crearono una tradizione leggendaria, una mitologia. Che non va confusa con la religione, ma ne è come il presupposto e l’antefatto: s’intenda bene, delle false religioni politeiste e pagane. Le quali possono essere ideate e imposte da individui scaltri e prepotenti che si pretesero ministri e interpreti della volontà di divinità inesistenti, di idoli talora bestiali e grotteschi: oppure non i sacerdoti, ma i poeti ne furono gli autori; le crearono, quelle religioni, insieme ai miti ad essa inerenti; o, più probabilmente, non le crearono ma le perfezionarono, le dirozzarono e purificarono col fuoco del loro genio e la luce della loro fantasia. È, questo secondo, il caso dei miti dell’Ellade e della stessa religione dei Greci, che derivarono, nella loro forma definitiva, non dall’autorità dei sacerdoti, ma dalla genialità dei poeti. Avvenne così che questo popolo intelligentissimo che ebbe il privilegio di vivere e di incivilirsi progressivamente nel clima mite, tra l’azzurro del cielo e quello del mare, nelle valli fiorite, nelle isole solatìe d’un dei paesi più ameni del mondo, trasse dai primi miti caotici e strani delle prime età quelli geniali e luminosi degli Dèi dell’Olimpo, dei Titani e degli Eroi, che ispirarono la poesia di Omero, di Esiodo, di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, di Pindaro; e l’arte di Prassitele e di Fidia; e poi i poeti e i pittori gli scultori i musicisti di tutti i popoli civili, in tutti i secoli della travagliata storia dell’umanità: onde l’antica Ellade, col suo spirito creatore di sogni eterni, col suo genio divinatore di supreme verità può considerarsi una delle grandi benefattrici delle genti.


I miti arcaici I miti più remoti, creati dalla fantasia collettiva dei primi popoli, usciti appena dallo stato quasi selvaggio, che abitarono la Grecia e particolarmente la regione montuosa e romita della Tessaglia, sotto le grandi montagne dell’Olimpo, dell’Ossa, del Peio, sono davvero stranissime storie, narrate la prima volta chissà da chi, chissà quando, e poi passate di bocca in bocca tramandate dai padri ai figli, di tribù in tribù, di generazione in generazione; creazioni anonime e misteriose dell’estro fantastico di tutti e di nessuno, che si perpetuano nella tradizione orale, arricchendosi di sempre nuovi particolari, modificandosi, sovrapponendosi, talora contraddicendosi. per un lunghissimo corso di anni e forse di secoli. Quando poi quelle genti primitive e quasi fanciullesche nella loro credula ingenuità che le hanno create giungono a più matura civiltà, a più ordinato vivere sociale: hanno ricevuto dai popoli del vicino Oriente, forse dai Fenici, un primo alfabeto, hanno appreso la tecnica della scrittura, allora quei racconti si fissano e si determinano meglio. La poesia se ne impadronisce. Poeti oscuri e ignoti, dapprima, poi altri poeti grandi e geniali -come Omero, come Esiodo- li ricevono, quei miti, dalla tradizione anonima e collettiva, e li trasmettono, illuminati dalla loro arte, ai secoli futuri. Questa è, su per giù, la formazione letteraria della mitologia greca. Giuseppe Morpurgo Il leggendario Petrini, 1954 pagg. 3 - 8

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O tt i en i co n la per s uas io n e, n o n co n la v i ol e nza. B i a nt e

Delfi

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Delfi, la omerica Pito rocciosa, posta alle pendici del Monte Parnaso, fu sede del più famoso oracolo dell’antica Grecia e luogo sacro fin dall’età micenea (XIV secolo aC). Il primitivo oracolo fu della dea Gaia (Terra), alla quale è legata la pietra conica che i Greci chiamavano omphalòs (ombelico), con chiaro riferimento al ruolo di Delfi come ombelico del mondo. Alla dea madre Gaia è riconducibile anche il serpente Pitone (da puteo, putrefare), primo custode della sacra roccia oracolare, ucciso poi da Apollo, cioè dai sacerdoti di Apollo, che cambiarono così amministrazione agli ingenti tesori ivi accumulati. Delfi divenne così uno scalo obbligato, un luogo di incontro, d’affari. Si raccontava dei posti visitati, delle scoperte, si svelavano segreti. Orecchie molto attente ascoltavano e registravano. Dioniso, che occupava Delfi in alternanza con Apollo, incoraggiava i racconti. Una sacerdotessa consacrata ad Apollo (scelta cioè dai sacerdoti che si erano impadroniti del santuario), la Pizia (o Pitonessa), avvolta in sontuose vesti cerimoniali (il solito vizietto dell’apparire), masticando foglie di alloro e inalando lo spirito divino che fuoriusciva dalla terra (era cioè drogata), cadeva in estasi, emettendo strani suoni e parole incoerenti (una sorta di glossolalia utilizzata poi dai primi Cristiani), che venivano interpretate da un profeta, uno degli amici di Dioniso, e poi riferite all’ansioso consultante che si era, come da tradizione, presentato con talentuose offerte. Nel frattempo, nella sacra Fonte Kastalia, gli altri pellegrini si purificavano. Da Delfi son partite decisioni che hanno dettato la storia del pianeta: i padroni del mondo chiedevano consiglio ad Apollo, ai suoi sacerdoti cioè, e questi, poverini, erano costretti ad assumere l’ingrato incarico di manovratori della storia e di solerti, ma penitenti, amministratori di beni temporali. Le profezie non potevano che essere oscure ed ambigue, così come i racconti relativi a Delfi e ad Apollo Pizio, equivoci e contrastanti. Giamblico, ne La vita pitagorica [cap II, 4-6]: Mnemarco di Samo, recatosi a scopo di commercio a Delfi insieme alla moglie, che era già


gravida senza lo si sapesse, aveva interrogato l’oracolo a proposito di un viaggio alla volta della Siria; la Pizia predisse che il viaggio sarebbe stato assai favorevole e vantaggioso economicamente, e che la moglie avrebbe generato un figlio più bello e sapiente di chiunque fosse mai esistito. Mnemarco allora, sulla base di quanto la profetessa gli aveva rivelato circa la nascita, cambiò da Partenide (illibata, vergine) in Pitaide (portatrice del Pizio) il nome della moglie. E quando questa, a Sidone nella Fenicia, partorì, egli chiamò il neonato Pitagora, in quanto gli era stato annunciato dal Pizio. Pitagora deriva infatti da Pythou, Pizio (uno dei tanti appellativi di Apollo) e agoreuein, annunciare. Aggiunge Giamblico: a tale riguardo, occorre respingere le supposizioni di Epimenide, Eudosso e Senocrate, secondo le quali Apollo, unitosi a Partenide, l’avrebbe resa incinta, mentre prima non lo era, e avrebbe fatto predire la cosa dalla profetessa. Porfirio, invece, ne La vita di Pitagora [cap 2], afferma: Alcuni raccontano che egli fosse figlio di Apollo e di Pitaide, ma razionalmente Apollonio lo dice di Mnesarco. Certo è che uno dei poeti di Samo ha scritto: Pitagora che caro a Zeus generò a Apollo Pitaide, la quale ebbe tra le donne di Samo bellezza grandissima. Altri autori dicono che i sacerdoti trattennero la bellissima Pitaide in preghiera, all’interno del tempio, per 15 giorni. Noi non crediamo che sia stato il divino Apollo ad unirsi con Partenia.

ATTENZIONE! C’è ancora chi vorrà fartelo credere! Conosci te stesso, certamente, ma impara a conoscere anche gli altri!

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Apollo Pitio

Solo l’uomo colto è libero. Epitteto

Trasportai la mia immagine divina in Grecia e fui Apollo, dio del sole. Mi insediai in Delfi, il più grande centro organizzato del raggiro e dell’accumulo di ricchezze. A due giorni di età uccisi il pitone che avvolgeva la roccia di quello che allora era l’ombelico del mondo. Le esalazioni della sua putrefazione annebbiavano le idee della già annebbiatissima e demente Pitia che, come disse l’enigmatico Eraclito, non dice, ma accenna1G. Niente paura, però... a disvelare i misteri (a dire cioè quel che si doveva per raggranellare ingenti ricchezze) ci pensavano i miei addestratissimi sacerdoti, gli addetti al sacro di Apollo Pitio. Proprio a Delfi Partenia, moglie illibata di Mnesarco di Samo, mi fece padre di Pitagora2G. La mia immagine terrena fu chiamata r, Ro, raggio di sole.

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Pitagora, voce del Pizio, bello come un Dio!


1G - La Pizia Racconta Plutarco, ne Gli oracoli della Pizia (21, 404d): Credo che tu conosca il detto di Eraclito: Il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna. Cicerone, La divinazione, II-117 Come mai a Delfi non vengono più pronunciati oracoli, e non solo ai nostri tempi, ma già da molto, di modo che niente può essere ormai oggetto di maggior disprezzo? Quando vengono messi alle strette su questo punto, rispondono che per l’antichità è svanita la forza di quel luogo, la quale produceva quelle esalazioni che esaltavano l’anima della Pizia e le facevano proferire gli oracoli. Diresti che costoro parlano del vino o della salamoia, che perdono sapore col tempo. Si tratta della forza sprigionantesi da un luogo e non meramente naturale, ma addirittura divina; come mai, dunque, essa è potuta svanire? Per il lungo tempo trascorso, tu dirai. Ma quale durata di tempo può essere in grado di esaurire una forza divina? E quando codesta forza è svanita? Forse quando gli uomini incominciarono a essere meno crèduli?

2G - La voce di Dio Pitagora che ad Apollo caro a Zeus generò Pitaide, la più bella delle donne di Samo. Porfirio, Vita di Pitagora, 2 Mnemarco concluse che il dio non avrebbe vaticinato a proposito del figlio se effettivamente non stesse per toccare al nascituro un eccezionale privilegio, concesso dagli dèi. Cambiò così da Partenide (vergine) in Pitaide (devota del Pitio) il nome della moglie. E quando questa, a Sidone nella Fenicia, partorì, egli chiamò il neonato Pitagora, in quanto gli era stato annunciato dal Pizio. Giamblico, La vita pitagorica, II 6 agoreuw Parqenoj Pitagora

(agoreuo) parlare in assemblea, annunciare (Parténos) La Vergine, nome di Atena ad Atene annunciato dal Pitio, voce di Apollo, figlio di Dio 115


Ro

Non ti vantare. Solone

In Grecia trovai l’erodianico3G, scrittura numerale di origine acrofonica, assolutamente non idonea per calcoli significativi. Dismesse le sembianze umane, dopo aver assunto nel regno celeste mio figlio Pitagora, che aveva reso divini i numeri, e prima di dare alla luce l’altro mio figlio Socrate, che aveva divinamente esaltato la dignità dell’uomo, tolsi l’erodianico (o attico) e introdussi l’alfabetico (o ionico). Regalai cioè ai greci il sistema da me creato in Egitto, in cui i numeri base avevano tutti un simbolo diverso. Naturalmente non feci adottare i segni ieratici propri degli egiziani ed estranei ai greci, ma imposi di servirsi delle lettere del loro alfabeto, contenente 24 lettere. Per scrivere però numeri almeno fino a 999, ne servivano 27, tutte diverse, ovviamente: 9 da uno a nove, 9 da dieci a novanta, 9 da cento a novecento. Aggiunsi allora, prendendoli dal loro primitivo alfabeto: Stigma per il 6, Koppa per il 90, Sampi per il 9004G. Con questi segni si potevano dunque scrivere numeri fino a novecentonovantanove5G, ponendo accenti vicino alle lettere per distinguerle dalle lettere vere e proprie.

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In queste condizioni grande era la tentazione di attribuire ad ogni lettera e poi ad ogni parola un valore numerico, deducendone una pratica mistico-religiosa battezzata isopsofia5G dai greci e dagli gnostici6G e ghematria dai rabbini e dai cabalisti. Con tale mezzo gli gnostici credettero di poter determinare la formula e il nome stesso di Dio, per carpirne i segreti. Il processo condusse i cabalisti giudei e gli esoterici, cristiani e poi musulmani, a ogni sorta di interpretazione omiletica.


3G - Sistema Erodianico Questo sistema di scrittura numerale prende il nome dal grammatico che lo descrisse nel secondo secolo aC. Ăˆ scrittura di origine acrofonica: la lettera iniziale del vocabolo che esprime il numero diventa simbolo rappresentativo del numero stesso: Pente cinque Pente P poi G Deka dieci Deka D Hekaton cento Hekaton H Xilioi mille Xilioi X Murioi diecimila Murioi M

4G - Sampi Stigma (s + t), Coppa (= q), Sampi (s + p), usate poi soltanto per indicare numeri: rispettivamente 6, 90, 900. Il segno Coppa, usato nella scrittura dai Dori, passò, attraverso l’alfabeto calcidico di Cuma, ai Latini con la lettera q. Altre due consonanti sono da ricordare: Digamma, o vau = v, per la sua forma di doppio gamma, e jod = i consonante.

5G - Fino a 999

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Interpretazioni e speculazioni L'attribuzione di valori numerici alle lettere di un alfabeto ha dato luogo a particolari processi consistenti nell'assumere il valore delle lettere costitutive di una parola o di un gruppo di parole e di interpretare tale numero in relazione a un'altra parola o espressione che abbia lo stesso valore. È il procedimento applicato dai giudei sotto il nome di ghematria. Alcuni rabbini avvicinano le parole ebraiche Yayin e Sod, che significano rispettivamente il vino e il segreto, perché, dicono, “dal vino proverrà il segreto” (Nikhnas Yayin Yatsa Sod, o, in latino, in vino veritas). L'ubriacone racconta infatti i propri segreti. Queste due parole hanno lo stesso valore numerico nel sistema ebraico corrente:

La tua lingua non corra avanti al pensiero. Chilone

YAYIN 70

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SOD 70

Un altro avvicinamento fatto dagli esegeti mette in relazione la parola Ahavah, Amore con Ehad, Uno: EHAD 13

AHAVAH 13

Oltre alla equivalenza numerica i due termini corrispondono al punto centrale dell'etica biblica, il concetto Dio-Amore, perché Uno non è altro che la rappresentazione del Dio unico d'Israele, e Amore è deputato a essere la base stessa della concezione dell'Universo. Del resto, la somma dei loro valori è uguale a 26, ossia al numero assegnato al Nome Divino di Yahwé: YHWH 26 Certi autori, esperti nella valutazione numerica delle parole, hanno fatto rilevare che, al versetto 26 del 1° capitolo della Genesi, Dio dice: “Facciamo l'uomo a nostra immagine”, che 26 generazioni separano Adamo da Mosè, che 26 discendenti sono nominati nella genealogia di


Sem, che il numero dei personaggi figuranti in questa è un multiplo di 26. Stando a loro, il fatto che “Dio creò Eva prendendo una costola di Adamo” si ritrova nella differenza (eguale a 26) fra il nome ebraico di Adamo (= 45) e quello di Eva (= 19): HAWAH ADAM 19 45 Presso i greci e i romani tale pratica era chiamata isopsefia. ___________

Isopsefia ψηφος, psefos, piccola pietra, sassolino ma anche pietra per contare, pietruzza per la divinazione, cifra, numero; somma dei valori numerici delle lettere del nome di una persona. ισοψηφος (isòpsefos), di computo uguale, di parole le cui lettere calcolate con il valore delle cifre corrispondenti dànno somme uguali.

___________ In senso più generale, il processo dell'isopsefia sta nell'utilizzare, come nella ghematria ebraica, il valore numerico delle lettere costitutive di una parola o di un gruppo di lettere, nel trasporre quest'ultimo in un numero, poi metterlo in sintonia con altra parola secondo il valore numerico ottenuto. A Pompei è stata trovata un'iscrizione in cui si può leggere: “lo amo colei il cui numero è 45”, nella quale un tale Amerimnus rende omaggio alla donna dei suoi sogni di cui “onorevole nome è 45”. Evocando la morte di Agrippina, Svetonio (Nerone, 39) confronta il nome di Nerone scritto in greco, con la frase Idian Metera apekteine (Egli uccise la propria madre) avendo i due gruppi corrispondenti esattamente lo stesso valore nel sistema numerale greco: Nerone 1005

uccise la propria madre 1005

Il padre Teofane Kerameo insisteva nella sua Omelia XLIV sull'equivalenza numerica fra i nomi Théos, Dio, Aghios, Santo e Agathos, buono: 119


Théos 284

Aghios 284

Agathos 284

La gnosi era sovraccarica di un fardello enorme di superstizioni egizie. Pretendeva di elevarsi alla comprensione del Principio Universale; nei fatti ricercava soprattutto il mezzo per sapere il nome di Dio, e, di conseguenza, il mezzo per costringere Dio a elevare l'uomo alla propria altezza (l'antica magia di Iside). Il nome, come l'ombra o il respiro, è una parte della persona; ancor meglio, si identifica con la persona, è la persona stessa. Conoscere il nome di Dio è dunque il problema postosi dalla gnosi. Come conoscere il nome dell'Ineffabile? ____________

Gnosticismo

No n cre de re a t u tti . Tal et e

Lo gnosticismo (dal greco gnosis, conoscenza) è una dottrina religiosa apparsa nei primi secoli della nostra era nell’ambiente giudeo-cristiano (ma violentemente combattuta dai rabbini e dagli Apostoli del Nuovo Testamento). Fondamentalmente è basata sulla speranza di ottenere la salvezza con una conoscenza esoterica del dominio divino trasmessa per iniziazione. _____________

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Gli gnostici non pretesero di sapere il nome proprio di Dio ma credettero possibile determinarne la formula, quella che, secondo loro, conteneva tutte le virtù magiche. Questa formula è il numero del nome divino. Secondo Basilide, il Dio supremo della gnosi univa in sé i 365 dèi secondari che presiedevano ai giorni dell'anno, perciò gli gnostici lo nominavano con perifrasi come questa: Colui il cui numero è 365. Da lui, d'altronde, procedeva il potere magico delle sette vocali, delle sette note della gamma musicale, dei sette pianeti, dei sette metalli (l'oro, l'argento, lo stagno, il rame, il ferro, il piombo, il mercurio). Qual che fosse il nome dell'Ineffabile, gli gnostici erano certi che era partecipe dei numeri magici 7 e 365; in altre parole, in mancanza del nome inconoscibile di Dio, si deve poter trovare una designazione che sia come la formula del nome divino; bastava unire e combinare i due


numeri mistici 7 e 365: allo scopo Basilide aveva composto il nome Abrasax, che ha sette lettere e il cui valore numerico è 365: Abrasax 365 La gnosi, con l'isopsefia, trovò il modo di identificare col suo Dio supremo il dio nazionale dell'Egitto: il Nilo, che per gli egizi altri non era che Osiride, era una divinità dell'anno, perché la regolarità delle sue piene corrisponde al corso regolare degli anni; ebbene, il nome Nilo, Neilos, equivale, sempre nel sistema numerale greco, a 365: Neilos 365 I cristiani trovarono in questa pratica ampia materia per la fantasia: quando volevano custodire il segreto di un nome, i lapicidi e gli scribi si limitavano a indicarne il valore numerico. Sulle iscrizioni cristiane, greche e copte, si trova talvolta, dopo una benedizione, una imprecazione o una esortazione alle lodi, la sigla costituita dalle lettere Koppa e Theta. Rimasto enigmatico fino alla fine del secolo scorso, il crittogramma, come ha dimostrato Wessely, è un modo mistico per esprimere l'Amen (valore numerico 99) con Coppa (valore numerico 90) e Teta (valore numerico 9). Per millenni una parte dell’ingegno dell’uomo si è impegnata intorno a tali sciocchezze. Ancora oggi ci prova e tenta di costringere in vincoli creduloni e superstiziosi. Molti numerologi, maghi, maghetti, gente priva di scupoli o, come dice Lec, dalla coscienza immacolata perché mai usata, infestano ogni dove ed hanno, sempre, spazio libero su tutti i quotidiani e, ovviamente, sono i principi dei giornali di gossip. Si metta almeno, a caratteri cubitali, in capo alle loro scritte demenziali, l’avviso: NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE MENTALE! 121


Archimede sarà ricordato quando Eschilo sarà dimenticato, perché le lingue muoiono ma le idee matematiche no. Immortalità è forse una parola ingenua ma, qualunque cosa significhi, un matematico ha le migliori probabilità di conseguirla. Godf re y H aro ld H ar d y

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Roma caput mundi

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Letture da

Il Leggendario di Giuseppe Morpurgo

A t ti en i ti ai f at ti .

Greci e Romani Se la gente dell’Ellade fu, come è ben noto, la più fantasiosa, la più poetica del mondo mediterraneo, e non di esso soltanto, quella di Roma, senza volerle far torto e senza dimenticare i suoi grandi poeti, fu la più positiva, la più legata a interessi privati e politici, la meno disposta ad abbandonarsi ai sogni e alle illusioni della fantasia. Si potrebbe dire che i Greci sono per natura e i Romani per natura non sono un popolo creatore di miti; che i Greci appartengono, nelle origini della loro stirpe, all’era che il Vico definisce della Fantasia, o degli Eroi; e che i Romani, fin dai loro primi tempi e poi per sempre sono da assegnare a quella successiva della Ragione o degli Uomini. Perciò a rigor di termini potrebbe dirsi, e qualcuno anzi veramente pensò che i Romani non ebbero una loro propria mitologia, che di miti latini o romani autentici e non importati da altri paesi o non ce ne sono o sono di così dubbia autenticità e di così scarso interesse che quasi non varrebbe la pena di parlarne. Secondo noi ciò è esatto; ma altri vorrà rilevare un po’ di ingiustizia e di esagerazione in questo giudizio. Non discutiamo qui chi abbia torto e chi ragione; ma cerchiamo di mettere le cose, come noi le vediamo, bene a posto e di spiegarci chiaramente.

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St o r i a s e n z a m i t o I miti nascono di solito in quella che potrebbe chiamarsi l’età antelucana (che precede l’alba) della Storia: quando i popoli escono dallo stato ferino e selvaggio; e si avviano, senza esservi ancora pervenuti, a una forma di vita sociale e, se pure imperfettamente, civile. Non è la preistoria tenebrosa e non c’è ancora la luce della storia: in quella penombra degli evi remoti la coscienza umana si esprime infantilmente, cioè fantasiosamente, in miti, prima caotici e talora orridi


e grandiosamente misteriosi, come quelli ellenici del mondo di Urano e di Crono, poi via via più nitidi e intelligibili, come quelli del mondo di Zeus. Ebbene, questa età mitica, tra la preistoria ignota e la storia più o meno accettabile, si può dire che manchi nella vita delle genti latine e del popolo romano. Roma nasce, per così dire, adulta e armata, come Pallade Atena dal cervello di Zeus. Prima di Roma par che ci siano il vuoto e le tenebre. Essa emerge quasi all’improvviso da una congerie di genti rozze, senza fantasia e senza alcuna attitudine poetica, quali sono le popolazioni italiche che si dicono preromane. Che cosa sappiamo noi di quegli Osci e Messàpi e Sabini e Piceni e Frentani e Marrucini e Sanniti e via dicendo, di tutti, cioè, i gruppi di popolazione indigena stanziati nelle varie regioni della penisola? Che cosa hanno lasciato in retaggio allo spirito umano, alla leggenda, alla poesia, all’arte i Galli immigrati nella valle padana, i Liguri, i Sicàni, i primi Veneti? Nulla o quasi nulla di accertato e di apprezzabile. I Romani e gli Etruschi La Magna Grecia Ma ci sono, prima di Roma, gli Etruschi: c’è, diciamo, il singolare mistero di questo popolo straniero, venuto chissà di dove, forse dall’Oriente e dal mare, con un suo linguaggio rimasto a tutt’oggi quasi ignoto, con una scrittura per noi quasi indecifrabile; ma che ebbe un’arte, specialmente un’architettura e una scultura, di straordinaria genialità, ebbe una religione, un assetto politico, una potenza marinara e militare, una civiltà, insomma, di indiscutibile, grande levatura. Gli Etruschi e i Romani sono a fianco a fianco, confinanti, separati appena da un fiume, un piccolo fiume largo poche decine di metri, pur presso alla foce, che è il Tevere. E, a mezzogiorno, a non grande distanza dal Lazio, c’è la Magna Grecia, ci sono cioè le colonie della civilissima Ellade: città come Siracusa e Segesta e Agrigento e Taranto e Sibari e Crotone e Pesto e Neapoli, con i meravigliosi templi, gli stadi, i teatri e le scuole di Pitagora, di Arcbimede, di Archita: quando Roma era poco più che un 125


No n f ar cre de re d i sa p ere pi ù d i que l c he sai .

grosso villaggio di pastori e di zappaterra. Sì; questi Romani, futuri padroni del mondo, entrano nella storia, senza passare per l’antistoria del mito, così, come una grossolana, ma sana robusta onesta gente contadina; che ha vicino il mare, ma non sa navigarlo, ha sulla resta il cielo, il bel cielo di Roma, ma non lo popola certo, come avevano fatto i Greci del loro, altrettanto limpido e azzurro, di Dèi, di visioni fantastiche e di poetici sogni. Gente terrestre, solida e prosaica: ma hanno accanto gli Etruschi; non lontana, verso sud, la Grecia emigrata in Italia coi suoi coloni, la sua grande cultura, la sua poetica religione, i suoi molteplici miti. Naturalmente i Romani appresero molte cose dagli Etruschi e molte dai Greci: da quelli della Magna Grecia e più tardi da quelli, divenuti loro sudditi, dell’Ellade.

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Ve r i o f a l s i m i t i ? Ma essi, i Romani, da sé, solo assai tardi, due secoli all’incirca prima dell’era volgare, giunsero alla poesia e si può dire che ebbero e dimostrarono genio poetico, capacità di creazioni fantastiche. Quali sono, a pensarci bene, i loro primi cosiddetti miti, a prescindere da quello di Saturno e dell’età dell’oro o da quello di Enea, che sono di indubbia origine ellenica, e da altri che pare offrissero argomento agli antichissimi canti conviviali, che non ci furono conservati e sui quali non si sa nulla di certo? I primi miti romani a noi noti sono quelli che il massimo storico di Roma dell’età augustea, Tito Livio, Livio... che non erra, come diceva Dante, racconta come fatti storici non abbastanza accertati: Romolo e Remo, la lupa nutrice, la fondazione di Roma, il fratricidio, il ratto delle Sabine, gli Orazi e i Curiazi, e così via, per tutto il periodo della storia, in gran parte leggendaria, dell’età regia e dei primi tempi repubblicani. Evidentemente, se pur si parla, per convenzione, di miti, si sconfina qui dal campo della vera e propria mitologia, per entrare in quello della scoperta critica e dell’accertamento di fatti storici. Eppure questo popolo... senza mitologia, ha un suo mito, connaturato a tutta la sua esistenza secolare e millenaria, un mito che ha nome: Roma e per sigla le quattro famose iniziali S. P. Q. R. (Senatus PopulusQue Romanus): è questo mito la leggenda diventata storia di


una rozza tribù di mandriani, di pastori e di contadini, giunta ad essere il più potente popolo dell’antichità ed a conquistarsi l’ultimo degli imperi mondiali, che s’accampa sulle rovine degli altri imperi, delle altre civiltà che l’hanno preceduto: dell’oriente asiatico, degli Egizi, dei Cartaginesi, dei Greci. Nessun mito ellenico ha la grandiosità, la consistenza reale e pur poetica di questo mito fondamentale e forse unico del mondo latino. Cap a c i t à a s s i m ila tr ice d el g en io r om ano Del resto il popolo dei Quiriti che, in una sua tradizione artificialmente mitica, deriva le sue origini da Marte, il dio della guerra, immaginato padre del fondatore di Roma, questo popolo di formidabili guerrieri sarà un voracissimo divoratore e assimilatore di patrimoni materiali e spirituali altrui. Così farà suoi tutti, o quasi, i miti dei Greci, dando loro, per così dire, la cittadinanza romana; e prima di ogni altro assimilerà il complesso e molteplice mito degli Dèi dell’Olimpo. Farà suo, insomma, il politeismo ellenico, pur senza rinunciare del tutto ad un suo proprio Olimpo rusticano e indigete, creato, con la sua povera e agreste fantasia, quando era ancora una gente di pastori e di villani e Roma non era l’aurea, la marmorea Urbe, Caput mundi, ma un agglomerato di capanne rustiche forse col tetto di paglia, come quelle che Virgilio fa trovare ad Enea sul Palatino, a Pallanteo, la cittaduzza preromana del re arcade, del re contadino Evandro. Olimpo rusticano perché i romani non conoscono le alte montagne. Lontani, inaccessibili e forse ignoti i grandi monti abruzzesi, il Gran Sasso e la Majella; fuori del loro mondo, per loro inesistenti, le Alpi. Hanno davanti agli occhi solo il Soratte: troppo poco per depositarvi divinità.

Giuseppe Morpurgo Il leggendario Petrini, 1954 pagg. 181 - 184

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I l n on f ar nul l a br uc ia le tue en erg ie .

Radius

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Radius, raggio di sole, era il mio nome. Tra i verdi e profumati colli di Roma ritrovai le mie pecore. Portandole al pascolo intagliavo (come nei tempi passati1R, allorché gettai le basi della contabilità) su osso, su bastoncini, su oggetti che servissero comunque da supporto al concetto di numero. Cercavo un modo per registrare le fasi lunari o per catturare la quantità: delle persone, dei capi di selvaggina abbattuta, dei vari oggetti necessari alla vita comunitaria. Rappresentavo con tacche, ad una ad una, le mie bestiole, cercando, per distinguerle meglio, di separarle un po’, visto che amavano vivere, come dice appunto il loro nome, sempre unite, ammassate. La sera, dopo aver trasformato il latte da esse munto in formaggio e ricotta, tutti i pastori si riunivano attorno ad un fuoco comune. Lì, in assenza delle belanti, mostravo agli altri pastori quante fossero le pecore del mio gregge. Ecco le mie pecore, dicevo loro e loro, burlandosi di me, gettavano a volte il bastoncello con tacche sul fuoco, dicendo che così avremmo mangiato tutti insieme quelle pecore. E così mi esercitavo spesso nel registrare (lo facevo volentieri perché più intaccavo e meglio capivo il concetto di numero), mediante tacche, il numero delle mie pecore. Un giorno molto fortunato, una tavoletta di legno sulla quale avevo finito di rappresentare, attraverso tacche, tutte le mie pecore, si spaccò longitudinalmente in due parti, separando quasi simmetricamente le tacche stesse. Ebbi così magicamente due supporti per il calcolo che indicavano, entrambi, la stessa quantità. Poiché il numero delle mie pecore rimaneva inciso nella semitavoletta che conservavo per me, consegnai volentieri l’altra al pastore Ottavio, mio caro amico, affinché, attraverso questo semplicissimo supporto, potesse, in una corrispondenza tacca-pecora, sapere con esattezza se le sue pecore fossero più o meno delle mie e a quante tacche corrispondesse la loro differenza. Se cioè le mie pecore fossero più delle sue, allora le tacche rimanenti avrebbero indicato il numero in più delle mie pecore. Altrimenti, attribuendo ad ogni sua pecora in più una nuova tacca, partendo cioè dall’inizio, avrebbe saputo quante pecore in più aveva lui.


1R - Osso di lupo Nel 1937 Karl Absolom, nel corso di scavi in Cecoslovacchia, trovò un osso (radio) di lupo preistorico che risale a 30.000 anni prima. Nell’osso sono intagliate 55 tacche a gruppi di 5. Le prime 25 sono separate dalle altre da una lunghezza doppia. Si tratta di un vetustissimo esempio della idea di corrispondenza biunivoca tra l’insieme delle tacche e l’insieme degli oggetti che l’uomo preistorico stava contando. Interessantissima è anche l’idea di una base per un sistema di numerazione. La disposizione è in gruppi di 5 e, addirittura, si cambia il simbolo rappresentativo dopo il quinto gruppo di 5!

A, B, C, D

Aurignaciano

30000/20000 aC

Le più antiche ossa intagliate sono state scoperte nell’Europa occidentale. Corrispondono all’apparizione dell’uomo di Cro-Magnon. I tratti potrebbero corrispondere a rilevamenti astronomici per stabilire le fasi della luna o a numerazioni effettuate per le necessità di una vita comunitaria e costituirebbero la specifica testimonianza di una contabilità della selvaggina abbattuta in periodo di caccia. 129


Ce rca di mi gli or are i l mo n do.

Lavoravo ormai molto bene con un concetto così poco primordiale come la corrispondenza biunivoca, relazione che, visto il legame da sempre corrente tra me e le mie pecore, chiamai corrispondenza d’amorosi sensi. All’improvviso, una geniale idea folgorò la mia mente! Gli uomini potranno, in futuro, usare il metodo delle due tavolette per... vendere a credito e pagare a rate! Nell’acquistare, ad esempio, più volte lo stesso prodotto, basterà incidere, ogni volta, una tacca su due bastoncelli personalizzati, recanti cioè i propri nomi, posti l’uno accanto all’altro. Di questi, aventi ognuno lo stesso numero di tacche, uno rimarrà al venditore, l’altro all’acquirente. Nel giorno del pagamento, sarà sufficiente accoppiare i due bastoncelli per sapere, senza possibilità di frode da parte di nessuno (l’acquirente non potrà infatti cancellare le tacche su entrambi i bastoncelli, mentre per il venditore sarà impossibile aggiungerne), il numero esatto dei prodotti acquistati e quindi da pagare. Io, Radius, ero pur sempre Ras, il ras della corrispondenza biunivoca... e delle carte di credito2R!

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2R - Carte di credito In un volume intitolato Michel Rondet, André Philippe ci dà una testimonianza abbastanza significativa della listella francese del panettiere campagnolo. La scena si svolge nel 1869 nei dintorni di Saint-Etienne, e si rifà a questa inattesa forma di ricevuta o carta di credito: Le donne porgevano un pezzo di legno, lungo circa venti centimetri, segnato da tratti di lima. Ogni pezzo era diverso, alcuni ricavati da rami, altri quadrati e piallati. Il fornaio ne aveva il duplicato, infilato in una correggia. Egli cercava il nome segnato in cima ai suoi legni, lo confrontava con quello della cliente; le “tacche” corrispondevano esattamente, e le cifre romane, I, V, X, rappresentavano il peso del pane prelevato.

Analogamente, René Jouglet narra una scena che si svolgeva verso il 1900 nell’Hainaut: Il fornaio andava di porta in porta col suo barroccio. Chiamava la massaia, che portava il “suo pezzo”, una bacchetta stretta e lunga come un ferro di scalpellino; il panettiere ne aveva la copia. Le giustapponeva e sulla superficie di entrambe tracciava col seghetto tante tacche quanti erano i pani di sei libbre che consegnava. Il controllo era facile poiché il numero e la forma delle incisioni corrispondevano sui due “certificati”. Impossibile alla massaia cancellarle su entrambi; impossibile al fornaio aggiungerne. Georges Ifrah, Storia universale dei numeri, Mondadori 1983, pagg 99, 100

Le carte di credito lignee sono le antenate di quelle elettroniche. Con entrambe infatti si versa denaro contante periodicamente (settimanalmente o mensilmente o annualmente), ma non ogni volta che si fanno degli acquisti. Anche quelle moderne contengono lo stesso segno, uno sulla tessera in nostro possesso, l’altro in un registro elettronico (che, però, può essere alterato, contrariamente al bastoncello).

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L e t u e s c e l t e d e t e r m i n a n o i l t u o f u t u ro .

In c i d e re t a c c h e

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Ogni tacca rappresenta una pecora; ad ogni pecora corrisponde uno ed un solo tratto; ogni tratto è il corrispondente di una e una sola pecora. Non c’era nemmeno bisogno di disegnare tutte le oche, come avevo fatto sotto le sembianze di Ra, per rappresentare la loro esistenza e il loro numero. L’attuale rappresentazione era più sintetica, più astratta... migliore, dunque. Bastava disegnare un’oca e, accanto, incidere un numero di tacche3R uguale al numero delle oche. E così per tutti i soggetti che volevo rappresentare: animali, utensìli, armi, pastori... c’era bisogno di un solo disegno per ogni oggetto... o forse, tolto anche il disegno, rimaneva qualcosa di interessante? Senza il disegno era presente solo un numero...! Già... solo il numero! Stava formandosi nella mia mente un’idea di quantità, di numero in termini del tutto astratti, qualunque ente esso dovesse rappresentare. I Latini distinsero i numeri come digiti (primi nove) e articuli (decine). I termini digitus e articulus, derivati da “dito” e “articolazione”, collegano numerazione e calcolo da un lato e “parti della mano dispositivo da calcolo” dall’altro. La keironomia dei Greci, la indigitazio dei Latini, rappresentazione dei numeri a mezzo di particolari posizionamenti delle dita, giunse a raffinatezze inconcepibili per i moderni. L’organizzazione di numeri in gruppi fu forse la prima estrinsecazione di qualcosa di veramente ordinato e metodico da parte del pensiero umano. Nessun aspetto della vita individuale, sociale, religiosa più che l’acquisito senso di ordine numerico poteva far presumere all’uomo nomade che regole e leggi, qualcosa di ordinato insomma, dirigessero l’andamento degli avvenimenti umani e naturali e che, quindi, la vita non fosse solo promanazione e capriccio di divinità, ma che dipendesse anche, in particolare, dalle proprie azioni.


3R - Contare, computare Non è certo un caso se il vocabolaro latino di conteggio sembra appellarsi alle realtà di questa tecnica primitiva del numero. In latino, contare si dice rationem putare. Orbene, la parola ratio vuol dire conto, ma anche rapporto. Non sarà che presso i latini la parola si riferisse, in origine, alla pratica dell’intaglio (dove contare è propriamente stabilire una corrispondenza elemento per elemento, un rapporto ottenuto a mezzo di tratti)? Circa il termine putare, esso significa propriamente levare, asportare per escissione, in una cosa, quel che vi sia di superfluo, ciò che non sia indispensabile o nocivo o estraneo, ma lasciando quel che sembra utile e senza difetto; ma esso in pratica viene impiegato soprattutto per regolare un albero, potare. Donde il senso di “regolare un conto” o “realizzare un conto per escissione”. Insomma, “nella operazione di conto descritto dall’espressone rationem putare, se il termine ratio indica il fatto di rappresentare ogni cosa da contare con una tacca corrispondente, quello di putare consiste nell’intaglio con un coltello, su di un’asta, per realizzare materialmente il tratto: tante cose da contare, tante tacche incise nell’asta, per escissione, evidentemente, togliendo una piccola porzione di legno superflua, secondo la definizione di putare. Perciò, ratio è lo spirito che mette in rapporto ogni oggetto con un trattino; putare è la mano che intaglia le tacche del legno. Georges Ifrah, Storia universale dei numeri, Mondadori 1983, pag 160

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D e s i d e r a s o l o c i ò c h e p u o i o n e s t a m e n t e p o s s e d e re . 134

Poiché nelle sembianze di Ras o di Ro o di Radius le mie facoltà di riconoscimento delle quantità discrete erano del tutto umane (simili a quelle dei bambini e di tutti i popoli primitivi... ricordate?) non ero in grado di riconoscere con immediatezza dalle quattro unità in su5R. Non sapevo cioè distinguere all’istante più di 3 lineette di seguito, quindi, arrivato a rappresentare con intagli tante pecore quante sono le dita di una mano, spesso mi confondevo. Sapevo distinguere abbastanza bene questa quantità di intagli: | | |. Questa | | | | però mi recava difficoltà. Codesta poi | | | | | non sapevo proprio riconoscerla, almeno a colpo d’occhio. Anche qui trovai però una soluzione abbastanza semplice: poiché il quinto tratto non poteva essere uguale agli altri perché generava confusione, decisi di farlo diverso, nella forma o nella disposizione. D’altra parte in molte ossa incise si trovava, per il quinto tratto, un segno più lungo degli altri quattro! Intagliai allora semplicemente in modo obliquo: /. Ottenni dunque i primi cinque numeri:

A questo punto però il segno obliquo non aveva bisogno, per essere interpretato, delle quattro tacche che lo precedono. Non si creava equivoco nel segnalare la quantità superiore al quattro solo con la tacca obliqua.

La sequenza dei tratti uguali, quella che mi confondeva a prima vista, era così limitata a quattro.


5R - Primi nove numeri

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Se d esi de ri s ol o que ll o ch e pu o i pe rme t t e rt i , se i pi ù ri c c o di Pape rone .

Il problema però si ripresentava identico quando arrivavo a cinque unità dopo il cinque, ma il meccanismo logico era iniziato. Dovevo fare ancora degli intagli diversi da tutti quelli precedenti. Impressi allora una tacca obliqua sopra quella simbolizzante il cinque.

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Mi sembrò di aver disegnato due mani aperte collegate sui polsi. Due mani ovvero dieci dita. Ed allora il simbolo per cinque poteva essere, semplicemente, una sola mano aperta:

Allora i simboli che rappresentavano i primi dieci elementi erano: I

II

III

IIII

V

VI

VII

VIII

VIIII

X

Rimaneva solo il “fastidio” delle quattro tacche di seguito. Poiché però avevo già “scritto” il 6 come 5 + 1, potevo benissimo indicare il 4 come 5 - 1. Fastidio scongiurato! I

II

III

IV

V

VI

VII

VIII

V

VI

VII

VIII

VIIII X

E tutto divenne facile: I

II

III

IV

... XI XII XIII XIV

XV

XVI

IX

X...

XVII XVIII XIX

XX...

La strada per scrivere numeri sempre più alti e quindi per rappresentare insiemi sempre più numerosi era ormai aperta. Venti, trenta, quaranta, quarantuno... quarantanove... e poi? Si sarebbero ripresentati i cinque segni consecutivi: XXXXX! Quindi, per cinquanta, dovevo creare un altro simbolo. Ed anche per cento, per cinquecento, per mille! Lo feci.


Georges Ifrah, Storia universale dei numeri, Mondadori 1983, pagg 153, 156

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Per cinquanta non era difficile: si trattava solo di individuare un simbolo nuovo, non confondibile con gli altri, ma che, ovviamente, appartenesse anch’esso al genere degli intagli, verticali o obliqui. Mi venne subito in mente di incidere un segno verticale sopra i segni già creati per il cinque e per il dieci ed ottenere così cinque volte dieci, cioè cinquanta6R e dieci volte dieci, cioè cento7R. Incisi dunque:

50 100

P e rc h é f a r l o d o p o s e p u o i f a r l o a d e s s o ?

Provai anche, per il cento, ad arrotondare un poco il segno grafico, sostituendo alle ali laterali formanti angolo acuto, un’unica linea curva:

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Era una prima forma d’arte, mi piacque!

CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum


6 R - La l e t t e r a n u m e r a le L La lettera numerale L trae origine dal segno arcaico che i romani usarono in epoca repubblicana per designare la cinquantina:

7R - La l e tt e r a n u m e r a le C La cifra arcaica per 100 che si vede nella tabella di comparazione ETRUSCHI ROMANI

si è evoluta nel seguente corsivo

per generare poi le forme parziali seguenti che si rinvengono presso i romani e altri popoli italici (come gli osci):

L’ultima di queste forme è stata assimilata dai latini alla lettera C, sotto l’influsso dell’iniziale della parola Centum.

139


MILLE Avevo utilizzato al massimo tre intagli, verticali ed obliqui. Una sola volta, nel caso del cento, anche artistici o curvi. Non volevo creare altri numeri con quattro intagli, vista l’idiosincrasia genetica nei confronti del quattro! Così, per il mille8R, decisi di utilizzare sempre 3 incisioni, due curve e una verticale dritta. Ma con concavità opposte:

CINQUECENTO 500 dunque era del tutto scontato... la metà di mille!

140


Per il numero 1000 i romani usarono l’una o l’altra delle forme arcaiche di seguito raffigurate:

Questi segni grafici, sostituiti poi dalla lettera M sotto l’influsso della iniziale della parole Mille, sono varianti di uno stesso segno originario: la cifra F che si ritrova su un certo numero di abachi romani tascabili

9 R - C in q u e c e n t o

Arrivederci

I romani utilizzarono dapprima le 3 forme chiaramente rassomiglianti alla lettera D, alla quale furono poi assimilate, corrispondenti alla metà del segno inizialmente attribuito al numero 1000.

Annota, ogni sera, le frasi più belle che la lettura giornaliera ti ha donato.

8 R - M ille

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