Toscana 1944

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INDICE La tragedia di Figline: guardate

A Livorno entrano la Red Bull ed il X Distaccamento

pag. 5

Le città furono prese

come muore un partigiano Un viaggio nella memoria

pag. 24-25 pag. 26-28

dai partigiani pag. 6-7 Viareggio: la spiaggia ruggente E la Croce Rossa distribuì in strada

minata e recintata pag. 29

cioccolata calda e doughnuts pag. 8-9 Il Boia ed il giornalista pag. 30-31 Più martiri che eroi I protagonisti della Resistenza pag. 10-11

I partigiani liberano Carrara pag. 32-33

Vita quotidiana- Borsari neri

Tombolo, l’Inferno nero pag. 34-35

e affaristi pag. 12-13 I giardini di pietra pag. 36-37 Gli Alleati fermi sull’Arno-stellung pag. 14

Allo scoppio della guerra parteggiammo per il nemico pag. 38-40

L’estate delle stragi Dal Padule di Fucecchio a S.Anna pag. 15-17

Da Paisà ai Taviani La guerra al cinema pag. 41-43

Il pittore yankee che salvò il Camposanto più bello del mondo pag. 18-19

Io c’ero- Le testimonianze di quell’anno terribile

Farneta: il martirio

raccontate al Tirreno pag. 44-47

dei monaci della Certosa pag. 20-21 Lo avrai camerata Kesserling... pag. 48 L’ingegner Kayser, lo Schindler della fabbrica di armi pag. 22-23

La cronologia della seconda guerra mondiale

pag. 49


L’anno della nostra riscossa di ROBERTO BERNABÒ

Il 1944 fu l’anno della nostra riscossa. La rinascita di un popolo che dopo l’8 settembre prese coscienza di 22 anni di dittatura e si schierò contro i Tedeschi occupanti e contro i fascisti di Salò. Tedeschi e repubblichini furono combattuti dai partigiani, sempre aiutati dalla popolazione civile. Che si schierò subito dalla parte giusta. Per questo la Toscana ha pagato un tributo di sangue altissimo. Oltre 4mila morti fra i civili hanno costellato la ritirata delle truppe di Kesserling. Un triste primato per la nostra terra. Suggellato dalle medaglie d’oro al valor militare date a interi territori. Come il comune di Stazzema e la provincia di Massa Carrara. La riscossa coinvolse tutti. Chi combatté in montagna, chi aiutò i partigiani, chi preparò nelle città il ritorno a un minimo di amministrazione civile. La Toscana si fece trovare preparata. Man mano che le città venivano liberate dagli Alleati, nascevano subito le prime giunte comunali organizzate dal Comitato di liberazione nazionale. La storia di quest’anno fondamentale per la nostra storia – che anticipa il 1945 che segna la liberazione dell’intero Paese - viene raccontata in questa pubblicazione voluta dal nostro gior-

nale e che ha trovato la collaborazione della Regione Toscana. Si racconta la Storia, quella grande, con i generali e i capi partigiani, ma anche la cronaca quotidiana di quei giorni. Portando alla ribalta le testimonianze che protagonisti, superstiti e figli delle vittime hanno raccontato al nostro giornale in questi mesi, e che hanno dato vita a una serie di pagine speciali curate da Corrado Benzio e a un dossier sul nostro sito (www.iltirreno. it) che rimarrà come archivio perenne di racconti che rischiavano altrimenti di andare perduti. Dentro queste storie c’è tutto: ci sono eroi e vigliacchi, vittime e aguzzini, c’è l’idea di un popolo che ritrova la sua dignità dopo venti anni di Regime e quattro di una guerra disastrosa e soprattutto non voluta. C’è la consapevolezza che nessuna revisione storica potrà cancellare cosa hanno fatto i patrioti italiani. C’è la pietà per tutti i morti ma una linea netta fra chi combatté per la libertà e la dignità dell’uomo e chi voleva affermare la barbarie. C’è la storia. Che non sarà per tutti magistra vitae, ma che ha sempre tanto da insegnare.


Dalla lotta per la libertà un monito per le nuove generazioni di ENRICO ROSSI

Il 70° anniversario della Liberazione

sulla divisione dei poteri; lo Stato tito-

della Toscana ci impegna a custodire il

lare di compiti attivi nell’affermazione

ricordo dei tanti che hanno sacrifica-

dei diritti fondamentali.

to la loro vita per restituirci la libertà

Di quel movimento di riscatto politi-

e per impedire che tutto ciò possa ripe-

co e morale che liberò la Toscana, che

tersi; evitando che in Europa si possa-

in questa pubblicazione Il Tirreno ha

no riprodurre le condizioni che, nell’ar-

avuto il merito di ricostruire in modo

co di 25 anni, portarono all’esplosione

approfondito, furono protagonisti gio-

delle due guerre mondiali, all’ideologia

vani uomini e donne che scelsero la li-

razzista, alle Leggi Razziali, alle stragi

bertà contro dittatura, la civiltà contro

di civili di innocenti.

la barbarie. E’ grazie a loro che oggi

Ma “Toscana Liberata” è la storia di

possiamo dirci liberi. Oggi dobbiamo

un movimento di riscatto nazionale, ci-

rivolgerci proprio a loro, alle giova-

vile, politico e morale, che ha liberato

ni generazioni, per ritrovare la strada

le città dal giogo fascista, il cui frutto

di un riscatto morale e civile, per po-

più durevole è la nostra bella Costitu-

ter tornare a dire le parole che il poeta

zione. Uguaglianza e universalità dei

William Woodsworth scriveva dei pro-

diritti dell’uomo; riconoscimento per

tagonisti della Rivoluzione Francese:

ogni persona di bisogni insopprimibili

“Felicità in quell’alba essere vivi, ma

e diritti inalienabili; istituzioni fondate

essere giovani era il vero paradiso”.


TOSCANA 1944

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Il ritorno alla libertà

A Livorno entrano la “Red Bull” e il X Distaccamento

I

All’alba del 17 luglio le prime pattuglie corazzate si avvicinarono da sud Ma ci vollero due giorni per bonificare la città dalle retroguardie e dai cecchini tedeschi

primi soldati che entrarono in città avevano sul braccio il distintivo del “Red Bull”. Toro rosso, così era ribattezzata la 34ª divisione di fanteria dell’Us Army. Entrarono a Livorno il 19 luglio del 1944. Le prime pattuglie scoprirono una città fantasma. Dal 12 novembre del 1943, i Tedeschi avevano proclamato Livorno zona nera. Non si poteva né entrare né uscire, fra aree minate, cavalli di frisia, posti di blocco. Quando la 34 divisione e il X Distaccamento della Brigata Garibaldi entrarono da sud in città era rimasto a malapena il 10% della popolazione. Che sopravvivevano in una città martoriata dai bombardamenti alleati. Gli altri, tutti gli altri erano sfollati. Chi aveva trovato rifugio nelle campagne fuori città, chi era andato oltre. I livornesi erano sfollati sulle colline della Valdinievole, nelle campagne lucchesi, in Garfagnana ed in Versilia. Nei giorni in cui i Nazisti perpetrarono la strage di Sant’Anna di Stazzema in zona c’era anche Elio Toaff, partigiano livornese poi rabbino capo della comunità israelitica romana. A Livorno c’erano ancora cecchini e sacche di resistenza che avevano un solo scopo: rallentare l’avanzata degli Alleati. I Tedeschi avevano pochi uomini, scar-

Le truppe alleate transitano davanti il cartello Livorno

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si mezzi, totale sudditanza dal cielo e una grande consapevolezza: che la guerra era perduta, rovinosamente perduta. Ma continuavano a combattere. E purtroppo anche a uccidere: soldati nemici ma anche patrioti italiani e popolazione inerme. La disciplina della Wermacht fece durare la guerra oltre ogni limite. Gli Alleati avevano conquistato Roma il 4 giugno. Il 6 giugno iniziò l’invasione dell’Europa continentale con il DDay lo sbarco in Normandia. Sembrava che la guerra fosse sul punto di finire. In un settimana, l’11 giugno, i soldati francesi e Usa erano già a Pitigliano, primo comune della Toscana liberato. Il 15 giugno veniva liberata Grosseto. Due giorni dopo scattò l’operazione Brassard, ovvero lo sbarco all’Elba occupata dalle guarnigioni tedesche. Sull’isola si rovesciarono 12mila uomini, in gran parte truppe coloniali francesi. Il fronte saliva. Rosignano Solvay, Rosignano Marittimo e Chianni vennero liberate dai partigiani. Il 29 giugno ci fu la strage di Guardistallo ad opera dei tedeschi in ritirata. Il 3 luglio le truppe francesi occupavano Siena. Il 19 luglio l’ingresso in Livorno. Pisa sembrava a due passi, ma tutto a Livorno sì fermò.


TOSCANA 1944

Il prof. Marco Palla traccia la mappa delle forze in campo

Le città furono prese dai partigiani

Un atto politico voluto dal Cln

G

li alleati, i partigiani da una parte. I Tedeschi ed i fascisti di Salò (o repubblichini) dall’altra. Queste le forze in campo. Così le descrive il professor Marco Palla, versiliese docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, che a lungo si è occupato della seconda guerra mondiale. «Gli Alleati conducono la conquista dell’Italia, per loro di questo si tratta, andando avanti a strappi. A seconda, questo va detto, delle forze di cui hanno disponibilità. «Sbarcano nel luglio 1943 in Sicilia ed in poco tempo arrivano a Napoli. La resistenza fatta dai tedeschi è scarsa. In più va considerato che prima del D-Day lo sbarco in Sicilia fu il più impegnativo intervento fatto dagli Alleati con truppe e navi che partirono da tutta la sponde africana del Mediterraneo. «Dopo l’8 settembre si trovarono alle prese sopra Napoli con la linea difensiva tedesca Gustav. Ma il problema è che iniziarono le preparazioni per lo sbarco in Normandia, l’Italia perse importanza e

molte truppe furono spostate in Inghilterra. Il 4 giugno conquistano Roma e fanno un nuovo strappo. Il 15 giugno sono già a Grosseto, il 2 luglio a Siena, il 19 luglio a Livorno. Poi si rifermano sulla linea dell’Arno. Ma il vero stop è a settembre. C’è il proclama di Alexander ai partigiani di aspettare che finisca l’inverno. A primavera, poi, in pochi giorni sfondano la linea Gotica ed invadono la pianura padana». I Tedeschi come si comportano. Anche loro hanno pochi uomini, sanno che la guerra è perduta, eppure combattono fino all’ultimo. E uccidono fino all’ultimo i civili… «Al di là dei giudizi morali il Maresciallo Kesserling è un ottimo generale. Non ha molti soldati né grandi mezzi, ma riesce a frenare l’avanzata alleata. La verità è che dopo il 1940 la guerra di HitIl generale Clark passa in rassegna i soldati della Buffalo davanti l’hotel Esplanade a Viareggio A destra il feldmaresciallo Kesserling comandante in capo delle truppe tedesche di occupazione

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ler cambia. Si cominciano gli stermini, partendo da Est. Con la caccia agli ebrei ma anche agli slavi. La guerra subisce una barbarizzazione. Le truppe che vengono inviate in Italia hanno combattuto ad Est e in alcuni casi hanno montato la guardia nei campi di sterminio. Vengono in Italia per farcela pagare: siamo i traditori, quasi una razza inferiore. E così non hanno alcuna remora a trucidare i civili, sia accaduto a Sant’Anna o a Marzabotto o nelle altre stragi in Italia». E i partigiani qual è il loro ruolo? «Ci sono bande partigiane che combattono sull’Amiata e nel Grossetano. Poi mentre gli Alleati risalgono la costa la presenza dei patrioti non è importante. A Livorno, lungo la costa ci sono azioni gappiste ma un grosso movimento militare non ci può essere. Ben altra situazione in montagna e naturalmente lungo la linea Gotica. Io ricordo che Pietro Del Giudice, comandante partigiano, prima che gli Alleati entrassero in città scese dai monti ed occupò Massa. Ed il comandante tedesco si arrese a lui, lo riconobbe come autorità. C’è un valore non solo militare ma soprattutto politico nell’attività militare e politica, a questa pensava il Cln. Firenze fu liberata dai partigiani ed il Cln prese possesso della prefettura. Quando gli Alleati andarono a palazzo Medici-Riccardi trovarono un minimo di organizzazione civile. Il Cln della Toscana aveva riaperto gli ospedali, dato ordini contro il diffondersi delle malattie. Ovunque in Toscana il Cln scelse un sindaco, che non era elet-


Il ritorno alla libertà to dal popolo ma aveva il riconoscimento dei partiti antifascisti. Questo suscitò ammirazione da parte di inglesi ed alleati». E il ruolo dei repubblichini? «Il nuovo partito nato a Salò cerco di avere connotazioni più sociali, ma non trovò credito in Toscana, che pure aveva dato molto a Mussolini. Però le province ed i Comuni furono rette dagli uomini di Salò. Il vecchio prefetto diventò il capo della Provincia, nei Comuni il commissario straordinario sostituì il podestà. Insomma l’intelaiatura burocratica era data dai fascisti. Che erano inesistenti sul piano militare. O meglio i soldati e le milizie di Salò venivano impiegati nella repressione partigiana. Pochissimi degli uomini del maresciallo Graziani finirono in prima linea. I Tedeschi non si fidavano. I pochi reparti che combatterono

furono quelli della Decima Max e gli alpini della divisione Monterosa che combattè in Garfagnana sulla linea Gotica». Però Salò era piena di toscani? «Ci fu uno storico inglese, William Deakin, che negli anni Cinquanta parlò di Granducato di Toscana per il governo di Mussolini. Il numero due del Regime era Alessandro Pavolini, fiorentino. Il sottosegretario all’Interno, in realtà capo della sicurezza di Salò, era Guido Buffarini Guidi di Pisa. Capo della polizia era Tullio Tamburini di Prato. Alla Giustizia c’era Tringali Casanova di Cecina, e poi Angelo Tarchi di Arezzo guidava l’economia corporativa. Renato Ricci, notissimo ras di Carrara, era alla guida della Guardia Nazionale Repubblicana. Di tutti l’unico che finì a piazzale Loreto fu Alessandro Pavolini».

I fascisti di Salò non combattevano in prima linea Compito dei repubblichini era la repressione del movimento partigiano MB

Bologna Pontremoli Carrara

LINEA GOTICA

Massa

sfondata ad aprile 1945 Pistoia Pietrasanta Prato Viareggio Firenze Lucca Montecatini Pisa Empoli Pontedera LINEA DELL’ARNO Livorno sfondata a settembre 1944

Pesaro

Piombino Grosseto Elba

Pitigliano

I GIORNI DELLA LIBERAZIONE

Pitigliano 11 giugno 1944 Grosseto 14/15 giugno 1944 Isola d’Elba 18 giugno 1944 Piombino 25 giugno 1944 Livorno 19 luglio 1944 Firenze 11 agosto 1944

Pisa 2 settembre 1944 Pontedera 2 settembre 1944 Empoli 2 settembre 1944 Prato 2-9 settembre 1944 Pistoia 8 settembre 1944 Montecatini 8 settembre 1944

Lucca 5 settembre 1944 Viareggio 16 settembre 1944 Pietrasanta 19 settembre 1944 Massa 10 aprile 1945 Carrara 11 aprile 1945 Pontremoli 27 aprile 1945

Nella cartina la doppia linea difensiva scelta dai Tedeschi per ritardare l’avanzata degli Alleati

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TOSCANA 1944

E la Croce Rossa distribuì in strada cioccolata calda e doughnuts Dopo l’arrivo degli Alleati Livorno diventò in poco tempo il Decimo Porto Era il più importante scalo logistico di tutto il Mediterraneo

L’

artiglieria alleata stava già colpendo la zona a monte di Livorno, verso Stagno. Ma la città non era ancora libera dai tedeschi. Quando i soldati americani e i partigiani del Decimo Distaccamento entrarono in città era il 17 luglio, un lunedì mattina. Il racconto di Mario Lenzi, grande giornalista livornese, descrive con asciuttezza l’ingresso dei liberatori a Livorno. Lo fa nel libro di memorie «O miei compagni», pubblicato postumo a cura dell’assessorato alle culture del Comune di Livorno. Settanta anni fa Lenzi racconta dell’ingresso in via Roma. «Non incontrammo nemmeno un tedesco. Vedemmo un uomo, un italiano, che camminava in mezzo alla strada fra detriti e mattoni spezzati. Appena ci scorse, scivolò via come un’ombra. Forse ci aveva preso per tedeschi. Dall’Attias …arrivammo alla piazza Grande, fra cumuli di rovine». Cosa era Livorno in quei giorni, è cosa nota. Mille allarmi aerei, oltre cento bombardamenti avevano distrutto - le statistiche di questo genere non sono mai precise - il 31% degli edifici. E la percentuale cresceva mano a mano che si procedeva verso il centro. Livorno era zona nera dal 12 novembre 1943. Così decise il comando tedesco mentre minava completamente il porto e parte della città. I tede-

schi, come succederà anche a Viareggio e a Forte dei Marmi, temeranno sempre uno sbarco alleato che in realtà mai ci fu. Intanto gli Alleati lanciavano i B-17, le fortezze volanti, su Livorno. Il bombardamento più terribile fu quello del 28 maggio 1943, un paio di mesi prima della caduta di Mussolini. Altri due bombardamenti a tappeto avvennero il 19 maggio ed il 7 luglio del 1944. Gli Alleati erano vicini ma volevano in ogni caso ammorbidire i tedeschi. Quindi gli Americani guidati dal colonnello Keith e i partigiani trovarono una città fantasma. Ma non ancora liberata del tutto. «La città doveva essere rastrellata - rac conta ancora Lenzi - non solo dalle mine ma anche dalle pattuglie tedesche che continuavano ad aggirarsi fra le case diroccate. Ancora qualche cecchino, votato alla morte, era appostato sui tetti. Un carro armato Sherman si era fermato all’incrocio fra viale Carducci e l’Aurelia, con i partigiani del Decimo seduti sopra, mentre affluivano centinaia di soldati americani e filippini, altri bivaccavano, coperti di polvere, sui marciapiedi e accanto al carro armato le ragazze americane della

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Red Cross avevano montato su due bidoni un punto ristoro che distribuiva cioccolata calda e frittelle dolci, le doughnuts». L’immagine in qualche modo anticipa cosa porteranno le truppe Alleate, in particolare l’Us Army a Livorno. Del resto il 19 luglio del 1944, data ufficiale della liberazione della città, i cineoperatori di Combat film ripresero l’ingresso in città di Mark W. Clark, comandante in capo della Quinta Armata. A Livorno tornò un accenno di vita. «La città era stata scelta - ricorda ancora Lenzi - come il principale scalo logistico di tutto il Mediterraneo. Diventò Leghorn 10th Port. Vennero a sminare e ricostruire i moli e le darsene, dove erano le carcasse di 153 piroscafi, il 335° reggimento Engineers, il 1051° gruppo di specialisti portuali, la 1528 compagnia autocarri, i distaccamenti della Marina Britannica HOW, le sezioni del G2 e del G4 e anche un piccolo reparto di soldati italiani». Alla fine furono demoliti centinaia di bunker e di piazzole costruite dai tede-


Il ritorno alla libertà Piazza Cavour fra le macerie coperta dal fumo degli incendi provocati dalle bombe

schi, ma soprattutto vennero disattivate 30mila mine, disseminate in 482 luoghi diversi. Erano ovunque, di ogni tipo: nelle strade, nei campi, nei canali. «Si trovarono - racconta ancora Lenzi - non solo le solite trappole, ma congegni esplosivi a forma di cioccolata, saponet-

te, pacchetti di garza, portafogli, matite». I Tedeschi dalle postazioni lungo l’Arno continuavano a cannoneggiare la città E riuscirono anche in un raid aereo. Era il 26 luglio, lanciarono spezzoni incendiari nella zona dell’Ardenza. La città riprese a vivere, gli sfollati ini-

La città era stata proclamata dai tedeschi “Zona nera” Solo il 10% dei residenti era rimasto nelle proprie case. Il 31% degli edifici danneggiato dai bombardamenti Il rientro in città fu lento. E c’è chi non tornò mai più 9

ziarono a tornare. Negli appartamenti colpiti dalle bombe ci si accorse anche delle razzie fatte da tedeschi e repubblichini. Il Decimo porto che rinasceva sotto gli americani aggiunse lavoro e commerci. Il Cln rimise in piedi un minimo di amministrazione civile da affiancare a quella alleata. Non tornò don Renzo Gori, cappellano di San Pietro e Paolo. Anche lui sfollato, venne fucilato alla Pieve di Camaiore, in Versilia, perché aveva dato assistenza ai condannati a morte. Tornò invece don Renzo Angeli, una delle figure del cattolicesimo labronico più attive nella lotta agli occupanti. Scoperte le sue attività anti-tedesche, venne arrestato il 17 maggio 1944. Da lì iniziò il suo viaggio nell’inferno dei lager: Fossoli, Mauthausen, Dachau. Lui riuscì a ritornare. Ma non tutti - tanti i livornesi morti a Sant’Anna di Stazzema - rivedranno i Quattro Mori.


TOSCANA 1944

Più martiri che eroi

I protagonisti della Resistenza

I

l 4 novembre 1945 l’Università di Pisa gli assegnò la laurea ad honorem. Manfredo Bertini, studente dell’ateneo pisano, era morto da eroe sui monti dell’Emilia. Già operatore cinematografico a Tirrenia, amico di Mario Monicelli, diventò agente segreto dell’Oss americano. Ferito in combattimento per non consegnare la ricetrasmittente ed il materiale che aveva con sé si fece saltare con una bomba a mano prima di essere catturato. A Maber, questo il nome di battaglia, fu assegnata la memoria d’oro al valore militare alla memoria. Sfogliando l’elenco delle medaglie d’oro della Resistenza si trovano tanti eroi

ma anche tanti martiri, anche per il modo con cui sono morti. Gino Menconi, massese, comandante Renzi, ferito e catturato da tedeschi, fu arso ancora vivo. Aldo Salvetti altro giovane massese, fu catturato e torturato. Ma non parlò. Quando venne crocifisso ancora vivo disse ai tedeschi: «Conoscerete il nome dei miei compagni quando verranno a vendicarmi». Luigi Giorgi di Carrara è l’unico esponente della lotta di Liberazione che ha ottenuto due medaglie d’oro, la seconda alla memoria. La prima l’ebbe per avere assaltato con due soli soldati una postazione tedesca catturando 19 prigionieri.

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Inigo Campioni, viareggino, era invece ammiraglio. Fu fucilato dopo un processo farsa a Parma. L’accusa fu di alto tradimento. Aligi Barducci era il mitico comandante «Potente». Non solo ha avuto la medaglia d’oro ma è stato proclamato anche Eroe Nazionale. Come Bruno Fanciullacci di Pieve a Nievole, lui che uccise il filosofo Giovanni Gentile. Venne ferito e catturato. Alle torture preferì il suicidio. C’è una caserma, celebre a Livorno che si chiama Gamerra. Era un ufficiale del 50° reggimento d’artigliera Superga. Il 9 settembre corse verso il porto di Livorno per evitare che i tedeschi occupassero le postazioni difensive. Morì nello scontro con gli ex alleati. Antonio Cei, viareggino, fu fucilato dai tedeschi a Cefalonia. Jacopo Lombardini, apuano di Gragnana, morì gassato in campo di concentramento. Lo chiamavano il Professore e combattè in Piemonte senza mai imbracciare le armi. Era evangelico, uno dei pochi protestanti nella Resistenza. Padre Antonio Costa era invece un benedettino. Protesse ebrei e perseguitati nella Certosa di Farneta a Lucca. Morì sotto il piombo tedesco. Fra le poche donne c’è Vera Vassalle,


Il ritorno alla libertà viareggina. Era cognata di Maber, anche lei agente segreto, guidava Radio Rosa, da cui si segnalava alle truppe alleate gli spostamenti dei tedeschi. Ma ci furono anche eroi non italiani. Come Vernon Baker, il sergente americano che conquistò il castello Aghinolfi a Montignoso, fra Forte dei Marmi e Massa. Era il 5 e 6 aprile del 1944. Ma Baker, nero del Wyoming, ricevette la Medal of Honour - massimo ricnoscimento americano - nel 1997 alla Casa Bianca dalle mani di Bill Clinton. Ci vollero oltre 50 anni perché solo nel 1993 gli Stati Uniti misero in piedi una commissione che andò a controllare gli atti di eroismo fatti dai soldati di colore e mai riconosciuti. Dopo la medaglia, Baker tornò in Italia nei luoghi dove ha combattuto. Il nostro paese gli ha conferito la croce di guerra. In Toscana combatterono anche i Nisei, il reparto dell’us Army più decorato in tutte le guerre. Coraggiosissimi erano i seconda generazione (da qui il termine Nisei) figli di immigrati orientali (giapponesi ma non solo) in Usa. In prima linea andarono anche giovani hawayani. Un eroe fu anche Rudolf Jacobs l’ufficiale della Marina da guerra hitleriana che disertò a Spezia per unirsi a partigiani, morendo in un combattimento in Lunigiana. La vedova seppe del suo comportamento eroico ed antinazista soltanto nel 1957. Don Aldo Mei, prete lucchese, venne fucilato dai tedeschi perché proteggeva ebrei e partigiani. In più aveva con sé una radio con cui ascoltava radio Londra. La sua testimonianza prima del patibolo è

Partigiani a Carrara e nell’altra pagina a Pistoia

l’unica (di un sacerdote) contenuta nella raccolta d Einaudi «Lettere dei condannati a morte delle Resistenza». Per lui, negli anni Sessanta, fu iniziato il processo di canonizzazione, ma poi tutto si è fermato in Vaticano. Nardo Dunchi, scultore carrarese, fu uno dei primi ufficiali a lasciare il regio esercito per andare in montagna. Era a Cuneo dove combattè con Giorgio Bocca. Per il famoso giornalista «Dunchi era un mito per noi giovani ribelli». Nardo Dunchi è medaglia d’argento al valore militare.

Ci sono poi le medaglie assegnate ai Comuni per il martirio delle popolazioni civili. Guardistallo, dove avvenne la strage del 29 giugno 1944, è medaglia di bronzo al valor militare. Sant’Anna di Stazzema è medaglia d’oro. Lo stesso riconoscimento è andato al gonfalone della Provincia di Massa Carrara. Che rimase un inverno intero sotto il gioco nazista. Continuando la battaglia partigiana e subendo lutti ed angherie di ogni genere.

Usa e Urss insieme per Ilio Barontini Ilio Barontini nasce a Cecina nel 1890. A 15 anni entra al lavoro all’Orlando, nel 1921 è fra i fondatori del Partito comunista. Naturalmente antifascista viene condannato dal Tribunale speciale ma riesce ad espatriare. Il suo lavoro politico lo porta in Francia, nell’Unione Sovietica, anche in Etiopia. In Spagna accorre per guidare le Brigate internazionali contro Franco. Torna in Italia solo dopo il 25 luglio ed entra subito nella Resistenza. Si deve alla sua preparazione e alla sua mente organizzativa la nascita dei mitici Gap (gruppi di azione patriottica) che non dettero tregua (come il titolo del libro di Giovanni Pesce, collega di Ilio) a tedeschi e fascisti nel cuore di Milano e Torino. Fu decorato da Alexander con la Bronze Star e ricevette anche la medaglia dell’ordine della Stella Rossa dall’Urss. Morì nel 1961 in un incidente stradale.

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TOSCANA 1944

Vita quotidiana A Cecina si ruba di tutto A Carrara si vende latte annacquato A Livorno denunciati un parrucchiere ed un fornaio

I

n Tribunale (spostato a San Miniato) di cosa si discute? Procacciamento di merci, acquisto di carte annonarie, commercio di merci razionate e vendita di pane a prezzo maggiorato. Le cronache del Telegrafo, quotidiano toscano, nel maggio 1944 (indicativo perché Roma non è stata liberata e lo sbarco in Normandia è solo un’ipotesi) raccontano di un paese dove si muore di fame e si sopravvive solo con la borsa nera. Le poche pagine che escono del quotidiano livornese sono piene di commercianti borsari, contadini disonesti, panettieri accaparratori. A Carrara, anzi a Bergiola, frazione del Comune di Apuania (il Fascismo aveva unificato Massa, Carrara e Montignoso, Virginia F. viene sorpresa a vendere latte annacquato. La percentuale di acqua è del 24%. Una sua collega, di Miseglia altra frazione di Carrara, ha invece il latte con tre livelli di annacquamento. Si passa da un «modesto» 19% per salire al 23 e alla fine si trovano partite di latte fresco col 41% di acqua.

Borsari neri e affaristi davanti ai Tribunali

Le cronache del Telegrafo raccontano quei giorni 12


Il ritorno alla libertà Lo spazio dedicato ai profittatori è ampio. Il fascismo repubblicano vuol far sapere alla popolazione affamata che i negozianti vengono controllati, multati, arrestati. Si da più spazio all’Annonaria che alla repressione dei partigiani. Solo 6 righe in basso per due «ribelli» catturati con le armi in pugno e subito fucilati. L’episodio avviene in Garfagnana, il giornale riporta i nomi dei due partigiani: Ottavio Franchi e Agostino Pippi. La prima pagina del Telegrafo è dedicato alle notizie dai fronti di guerra. Le altre parlano delle cronache. La città è continuamente bombardata e/o mitragliata. Sotto i proiettili alleati muore anche Gastone Nieri, 33 anni, dipendente del giornale come addetto alle telescriventi dell’agenzia Stefani, l’Ansa dei tempi del Fascismo. Livorno è stata sfollata. In un articolo viene fuori la storia che molti vorrebbero rientrare in città. «Torniamo ad insistere - scrive il giornale - sulla disposizione che vieta il rientro in città di coloro i quali attualmente in seguito alla sfollamento vivono altrove». Per tornare a Livorno serve il nullaosta del Commissario Prefettizio che può decidere, ma sulla base di motivazioni forti. In una città dichiarata Zona nera si fanno ancora affari. Una pubblicità ci fa sapere che «Il panificio e la pasticceria Mario Bicchi ha riaperto il negozio in Livorno, corso Amedeo 28, mantenendo la succursale all’Ardenza». Del resto c’è un professore di filosofia e di materie letterarie che «occuperebbesi precettore famiglia nobiliare lucchese mesi estivi». Insomma la vita continua, e non solo perché il giornale vuole dare al lettore una parvenza di normalità. Ad esempio non si nascondono i furti. A Cecina «Negozi, palazzine, appartamenti, magazzini svaligiati dagli sciacalli» titola la cronaca. 23 quintali di zucchero sono portati via allo Zuccherificio cecinese. La denuncia viene presentata al comando del distaccamento della Guardia nazionale repubblicana. Che, con l’avvento di Salò aveva unito le varie forze dell’ordine, a partire dagli stessi regi carabinieri. La «borsa nera» è l’argomento più trattato. Stavolta nel mirino c’è il parrucchiere Gino. Che da via Roma si era trasferito all’Ardenza. Aveva grande successo, ma non è tutto è andato per il verso giusto. Il giornale titola l’articolo con «La disavventura di Figaro» . Oltre a fare permanenti e tinture ven-

deva a uomini e donne calze, biancheria ma pagina lo schieramento a Nettuno delintima, scarpe, indumenti. L’Annonaria, le prime Ss italiane. E in questa notizia c’è su una soffiata, trova tutto nel negozio e tutta la sottomissione di Salò al Nazismo. lo denuncia per avere violato le «norme del contingentamento». Galliano Masini, il celebre tenore, canta «E lucean le stelle» dalla Tosca al teatro Grande. Lo fa in occasione della festa in grigioverde, ovvero dedicata ai soldati. Sembra normale anche l’annuncio che invita a «venire a lavorare in Germania» . Si offre un buon vitto, un buon contratto, un buono stipendio. Soprattutto si capisce che gli italiani deportati in Germania per mantenere la produzione bellica non bastano mai. Si cercano ora anche i volontari. La «normalità» è data anche dai programmi radio. Alle 17 c’è la Turandot. Alle 19,30 l’Eiar passata a Salò manda in onda il «Notiziario sportivo». Bisognerebbe capire cosa resta dello sport italiano. Una delle poche storie celebri è lo scudetto del campionato Alta Italia vinto al termine di due partite dalla squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia. Titolo assegnato dalla Figc pochi anni fa, ma ignorato dal 99% degli albi d’oro del football italico. Uno dei pochi residenti rimasti a Livorno viene bloccato e denunciato perché sorpreso in strada nelle ore del coprifuoco. Che non impediva di rubare olio e patate al Consorzio agrario di Cecina. Un panettiere di via della Querceta viene addirittura arrestato perché aveva acquistato bollini annonari falsi per avere più farina. Con quella ci faceva il pane, ma lo vendeva a prezzi da Borsa nera. Ai lettori dei giornali arrivavano anche notizie dall’Estero. Dalla liberazione di Gandhi da parte degli Inglesi in India alla nomina di Juan Domingo Peron a Ministro della Guerra in Argentina. Infine il Telegrafo bacchetta i camerati pistoiesi per un articolo apparso sul Ferruccio, organo del Fascio repubblicano. «Si racconta di un inGalliano Masini dustriale pratese che Il tenore livornese ha offerto ai ribelli si esibì al teatro della zona di MonGrande sotto le bombe tale, Montemurlo e americane Cantagallo 140 coperte e 200mila lire». Il Telegrafo chiede ai pistoiesi: Se la notizia è vera, è così difficile individuarlo. Se è solo una voce perché pubblicarla dando l’idea che gli industriali si spostino dalla parte dei partigiani». Con grande risalto, invece, si dà in pri-

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TOSCANA 1944

PONTEDERA EMPOLI

Gli Alleati fermi sull’Arno-stellung

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l 19 luglio cominciò, almeno per me, la più strana guerra che fosse stata mia raccontata. Da Livorno a Pisa ci sono 18 chilometri ma la Quinta Armata superò l’Arno solo 45 giorni dopo. Entrò a Pisa il 2 settembre, a Lucca il 5 settembre. Gli alleati fecero, in teoria 400 metri il giorno per 45 giorni». Questo le parole che Mario Lenzi, famoso giornalista labronico, dedica a quello strano mese di agosto del 1944. Strano ma non troppo. Livorno viene liberata, ma nel corso di quell’agosto del 1944, quinta estate di guerra per noi italiani, succede quello che più volte è accaduto nella Campagna d’Italia. Che le truppe Alleate modificavano la loro strategia, in virtù anche delle forze in cam-

po. Sette divisioni erano state tolte dal teatro di guerra italiano per essere assegnate all’operazione Dragoon (Dragone), ovvero allo sbarco alleato nel Sud della Francia che poi avvenne in Provenza il 15 agosto. Fra le varie truppe spostate in Corsica per lo sbarco c’erano anche i reparti coloniali francesi che tante violenze avevano perpetrato in Ciociaria (si parla di 20mila stupri dopo la presa di Cassino) ma anche all’Isola d’Elba (qui la stima è a 200 donne violentate). L’impoverimento alleato permise a Kesserling di creare una Arno-stellung, ovvero una linea offensiva sfruttando poche truppe ma approfittando dell’ostacolo naturale offerto dal corso dell’Arno. Tenendo sotto minaccia importanti città come Pontedera ed Empoli.

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Scopo del feldmaresciallo era uno solo: prendere tempo per consolidare le strutture difensive della linea Gotica. E quel mese e mezzo del 1944 fermi sull’Arno fu fondamentale per permettere ai Tedeschi di riorganizzare le difese. Quando gli Alleati entrarono in Pisa, trovarono una città praticamente distrutta. Soprattutto la parte a sud dell’Arno. Obbiettovo delle Fortezze volanti americani fu a lungo la stazione, importante nodo ferroviaria, e la ferrovia nel suo complesso. La Torre di Pisa e in genere il Campo dei Miracoli era intatto, se non per la gravissima ferita inflitta da un cannoneggiamento al Camposanto Monumentale. Una torretta di Tiger usata dai Tedeschi come fosse un bunker


Il ritorno alla libertà

L’estate delle stragi DAL PADULE DI FUCECCHIO A SANT’ANNA

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aria Domenica Dell’Amico aveva 6 mesi. Maria Malucchi ancora meno, solo quattro. Maria Domenica venne uccisa a Bergiola frazione di Carrara il 16 agosto del 1944. Ci furono 61 morti per una rappresaglia in seguito ad un morto tedesco colpito durante un agguato sulla Foce, il valico della collina che divide Massa da Carrara. Per un soldato morto i Tedeschi, aiutati in quel caso dai repubblichini, pretesero un tributo di sangue inaudito. Venne ucciso anche il maresciallo maggiore Vincenzo Giudice, comandante la Finanza di Carrara. Tentò una mediazione, ma finì giustiziato alla scuola elementare. Con lui furono uccisi la moglie, il figlio e la figlia. Alla fine la conta dei morti arrivò a 61: 29 donne, 10 bambine, 10 bambini, 8 uomini e ragazzi sopra i 14 an-

ni, 4 anziani. Se Maria Domenica era la più piccola, Arturo Dell’Amico, 77 anni, il più anziano. Maria Malucchi è invece la vittima più piccola dell’Eccidio del Padule di Fucecchio portato a termine dai Tedeschi il 23 agosto del 1944, quando il fronte era fermo lungo le rive dell’Arno da quel 18 luglio, vigilia della liberazione di Livorno. L’estate del 1944 fu la stagione delle stragi. Come scrisse un acuto giornalista, in quell’estate calda non c’erano turisti in giro per la Toscana. Addio città d’arte, addio spiagge, addio Montecatini e le sue terme. La geografia delle stragi, rifatta dagli storici che in questi anni hanno indagato sull’occupazione tedesca, porta tristi primati. Uno di questi è il fatto che la Toscana fu una delle regioni più colpite. I motivi sono noti. Intensa fu l’attività bellica

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Maria Malucchi aveva solo 4 mesi quando fu uccisa il 23 agosto del '44

Il girotondo dei bambini davanti la scuola di Sant’Anna di Stazzema Sopra la copertina di Beltrame che ricorda l’eroico sacrificio di Jenny Marsili Bibolotti che lanciò uno zoccolo ad un soldato tedesco. Lei fu uccisa, ma riuscì a salvare il figlio dalla strage di S. Anna


TOSCANA 1944 e quella partigiana. Strategica era la Linea Gotica. Il censimento degli eccidi parla di 229 episodi con ben 3824 vittime. Ai fascisti di Salò sono attribuite solo 25 di queste barbare uccisioni. Il resto sono a carico delle truppe d’occupazione tedesche. Non solo i reparti delle Waffen-SS ma anche la stessa Wermacht e nel caso di Guardistallo ad uccidere (63 fra partigiani e civili il giorno 29 giugno 1944) furono i reparti raccogliticci della Luftwaffe, l’aviazione militare guidata da Hermann Goering, uno dei gerarchi del cerchio magico - come si direbbe oggi - hitleriano. Ma le Ss hanno un ruolo tutto particolare nella nostra terra. Come si ricorderà la sigla sta per schutz staffel. Di fatto erano la milizia del partito nazionalsocialista. Poi divennero truppe a tutti gli effetti, impiegate in tutti i teatri di guerra. Note per la loro ferocia, per la forte impronta ideologica. In Toscana operarono due unità, rimaste tristemente famoso. Si trattava della di-

visione SS Hermann Goering e della 16ª divisione corazzata SS «Reichsfurher» A questa divisione gli storici attribuiscono qualcosa come 1602 vittime, ovvero quasi il 50% dei morti toscani. A guidarla era Walter Reder, tristemente noto come il Monco, perché aveva perso un braccio nella campagna di Russia. Reder aveva le stimmate per essere un carnefice. Se venne assolto per la strage di Sant’Anna (processo a Bologna nel 1951) il Monco venne condannato per la strage popolarmente conosciuta come Marzabotto, ma più precisamente come l’eccidio di Monte Sole. Come ricorda Paolo Pezzino, storico dell’Università di Pisa che ha studiato a lungo le stragi naziste, l’eccidio di Monte Sole con oltre mille morti è l’episodio stragista più pesante di tutto l’Occidente. Quel tipo di operazioni erano consuete nell’Est ed in Russia. Reder si era iscritto giovane e fra i primi al partito nazista, prima che Adolf Hitler conquistasse il potere. Lui ed altri so-

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no stati definiti dagli storici come «ufficiali politici». Ufficiali e truppe che prima di essere inviate sul fronte italiano avevano combattuto nell’Est Europa ed in Russia. Oppure avevano fatto la guardia nei campi di sterminio. Insomma erano abituati non tanto e non solo ad uccidere ma a considerare slavi, russi, tzigani, ebrei come razza inferiore, subumana. Con queste stimmate furono inviati a sostenere la repressione anti-partigiana nella Penisola. Anche gli italiani venivano equiparati agli slavi, razza inferiore perché traditrice dell’alleanza con il Terzo Reich. Per loro era facile uccidere. Come accadde ai soldati quasi imberbi che fecero irruzione alla Certosa di Farneta a Lucca. La città stava per essere liberata, loro sapevano che la guerra era persa, ma disciplina e fanatismo agivano sulla loro psiche di soldati. Con il nemico a pochi chilometri nessuna pensava a risparmiare civili e ribelli.


Il ritorno alla libertà E così la Toscana divenne la terra delle stragi. A Civitella della Chiana i morti furono 244. A Sant’Anna di Stazzema la cifra ufficiale parla di 560 morti, mentre le fonti giudiziarie riducono il numero più probabile a 390 vittime. Nella pagina a fianco E si poteva morire in tanti moIl recupero di. A Bardine San Terenzo, in delle vittime Lunigiana, il 19 agosto vennedelle fucilazioni del Frigido, a Massa ro trucidati 53 civili rastrellati a Valdicastello in Versilia nei giorA fianco le vittime ni caldi di Sant’Anna. Quei podi una strage veretti vengono impiccati col filo di ferro e lasciati in strada ad agonizzare, monito ai partigiani. A Bardine, nello stesso giorno, 107 civili, tutta la popolazione che si trovava lì venne mitragliata a morte. A Vinca, sempre in Lunigiana al confine con la Garfagnana, i morti fra il 24 ed il 26 agosto furono in tutto 174. Alle Fosse del Frigido i Tedeschi portarono i detenuti del carcere Malaspina di Massa. Ne fucilarono fra i 147 e i 149. Seppelliti in una fossa comune, toccherà al cappellano del carcere il pietoso compito di riconoscere e dare un nome alle salme. A Pescia ci furono vari eccidi. A Figline di Prato, a poche ore dalla liberazione della città del tessile, ci fu una battaglia fra partigiani e tedeschi in ritirate che finì con un carneficina. Ventinove giovani patrioti vennero catturati ed impiccati. Lasciati per un giorno in strada come monito. Di cosa non si sa, visto che le truppe di Kesserling stavano ritirandosi sull’Appennino.

Gli ufficiali tedeschi erano politicizzati Molti avevano combattuto nell’Est Trattavano gli italiani come traditori, come gli zingari e gli slavi, visti come una sorta di specie subumana 17


TOSCANA 1944

Il pittore yankee che salvò Il Camposanto più bello del mondo PISA

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Deane Keller entrò in una Pisa spettrale il 2 settembre 1944 Era un ufficiale particolare: apparteneva ai Monuments Men a cui era affidato il salvataggio dell’arte italiana

isa era semidistrutta quando Deane Keller entrò in città il 2 settembre del 1944. I soldati americani si aggirano fra le macerie temendo i cecchini tedeschi lasciati a coprire la ritirata. La parte sud è completamente distrutta. Il capitano Keller è preoccupato. I B-17, le fortezze volanti americane, hanno ripetutamente bombardato la ferrovia e la stazione. Intorno allo scalo ferroviario sono solo macerie. Keller non è un ufficiale qualsiasi della Quinta Armata. Pittore, storico dell’arte, 43 anni, Deane Keller è un Monuments men, uno di quegli uomini a cui l’esercito Usa affidò la più grande caccia al tesoro della storia: recuperare le opere d’arte italiane danneggiate dal conflitto o trafugate dai Nazisti per portarle in omaggio ai gerarchi a Berlino. In primis Goering, ma non solo lui. Pisa è liberata, ma per fare quei pochi

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chilometri che la separano da Livorno le truppe americane ci impiegano quasi un mese e mezzo. I tedeschi hanno scelto l’Arno come linea difensiva (Arno-stellung) in attesa che sia pronta la Linea Gotica (o Verde). Alla fine le prime pattuglie arrivano anche a Pisa. Deane Keller deve andare in piazza dei Miracoli, ma è tardi e la città non ancora sicura. Solo la mattina dopo sarà davanti la Torre pendente, dopo una notte passata nell’angoscia di trovare tutto distrutto. Il primo impatto con piazza dei Miracoli è invece rassicurante. La visione del campanile di Santa Maria (la Torre, per intenderci) ancora intatto lo conforta. Solo dopo scoprì il disastro del Camposanto, semidistrutto da una bomba americana. Che aveva fatto crollare e scatenare I soldati americani entrano a Pisa Sopra il capitano Keller


Il ritorno alla libertà un incendio. Praticamente semidistrutto il ciclo di affreschi medievali che, già per dimensione superava di 300 metri quadri la Cappella Sistina. I pellegrini solevano prima ammirare il Trionfo della Morte di Buffalmacco e poi accedere al Duomo. Tanto era il fascino del cimitero più bello del mondo. Cosa fece Keller per salvare il (poco) salvabile? Con pochi uomini e pochissimo materiale riuscì a dare una immediata copertura agli affreschi, mentre gruppi di volontari recuperavano i frammenti finiti a terra. Il Camposanto tornò a vivere e Keller ripartì per un’altra missione. Forse ancora più importante. Andare a Milano per salvare il Cenacolo Vinciano nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie. Anche questo bombardato, con il risultato - quello si miracoloso - che del completo conventuale era praticamente rimasta solo in piedi la parete che conteneva l’Ultima cena. Perché la guerra e guerra e gli Alleati prima colpivano, duro, poi pensavano a ricostruire. Non è che gli Alleati risalen-

do l’Italia non si siano preoccupati del maggior patrimonio artistico che l’umanità possiede. Ma soprattutto il comando dei bombardieri non fu così protettivo. C’era solo un ordine generico di Luris Norstad, capo delle operazioni aeree sulla Penisola. Soltanto 4 città erano state definite di categoria A: Roma, Firenze, Venezia e Torcello (chissà perché poi). Era il febbraio del 1944. Potevano essere bombardate solo su ordine del comando supremo, ovvero di Norstad. In categoria B c’erano Ravenna, Assisi, Como e San Gimignano. Città-capolavoro come come Pisa, Siena e Lucca si trovavano in C. Chiaro che non c’era un rapporto di autentico valore fra Siena e Como. Se non che gli anglo beceri amavano Siena ma anche il Lario. La storia di Keller è degli altri esperti d’arte è raccontato nel libro «Monuments Men: missione Italia» di Sperling & Kupfer. E stato scritto da Robert M.Edsel, un milionario americano innamorato dell’arte e dell’Italia. Il suo primo volume, intitolato sem-

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plicemente «Monuments men», raccontava del salvataggio delle opere d’arte francesi. Da quel libro è stato tratto l’omonimo film prodotto da George Clooney. Edsel racconta anche gli ultimi giorni di Keller. L’ex capitano della Quinta Armata morì nel 1992 in seguito ad un ictus. Il figlio Dino (il nome italiano non era certo casuale) portò le ceneri dall’America a Pisa. Qui, era il 2000, il capitano Keller ebbe l’onore di essere sepelto in quel Camposanto che aveva salvato. Non volle Arlington questo occhialuto professore di storia dell’arte. Non volle il cimitero degli Eroi dove è sepolto anche John Kennedy. Chiese l’Italia. In uno scritto ricordava: «Gli anni sotto le armi sono stati i più utli della mia vita. Ho amato gli italiani e li ho rispettati…Stavamo solo facendo il nostro dovere, non siamo così nobili». Ma il libro di Edsel dimostra che in realtà i Monuments men non furono semplici soldati a stelle e strisce. Il Camposanto di Pisa dopo il bombardamento: il tetto prima prese fuoco e poi crollò


TOSCANA 1944

Farneta: il martirio dei monaci della Certosa

LUCCA

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osa accade alla Certosa di Farneta? Dodici monaci vengono fucilati dai tedeschi nel settembre del 1944 perché nascondono nel monastero un centinaio di ricercati dai nazifascisti, compresi perseguitati politici, partigiani ed ebrei. Si tratta di sei monaci sacerdoti e sei fratelli laici, fatti prigionieri dalle SS con un’irruzione in Certosa nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e poi a Massa, uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, due il 7 settembre e gli altri il 10 settembre. Vengono fucilati negli stessi giorni e luoghi altri 32 catturati in Certosa, in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante alla pari dei monaci, in parte selezionati per fare numero in azioni di rappresaglia: la Quinta Armata americana entra in Lucca verso il mezzogiorno del 5 settembre e Farneta è a soli otto chilometri da Lucca, in direzione Nord-Ovest, poco oltre il fiume Serchio. Perché le SS agirono quando gli Alleati erano ormai alle porte di Lucca? Solo una vendetta? Non potevano intervenire prima? Quella di rastrellare gli oppositori nell’imminenza della ritirata – in vista di

una loro eliminazione sistematica – era una direttiva ordinaria per i reparti delle SS. E’ da presumere che la certezza sulla presenza in Certosa di grossi nomi di ricercati politici – ce n’erano almeno quattro – i tedeschi l’abbiano avuta solo nelle ultime settimane prima del ripiegamento. Le uccisioni dei monaci vanno poi viste come finalizzate alla creazione di un clima di terrore, alla pari delle numerose rappresaglie di quelle settimane. Ritirandosi i tedeschi eliminano i “banditi” di cui hanno riempito nei giorni precedenti il Forte Malaspina di Massa, che allora era un carcere e oggi è un museo. Dopo questa strage del 10 settembre ne faranno un’altra, ancora più numerosa, il giorno 16, lungo il torrente Frigido, dove verranno uccise 159 persone. Dal suo libro risulta che i monaci, dopo la tragica vicenda, furono in qualche modo criticati anche dalla popolazione per una certa imprudenza? Furono accusati di aver esagerato nell’opera di accoglienza, di non aver agito con la necessaria discrezione, di aver nascosto anche ricercati famosi e partigiani. Lo storico della Chiesa di Lucca Lenzo Lenzi ha indagato il sentimento della popolazione e ha riferito che il procuratore della rinascita della Certosa, padre

Luigi Accattoli illustre vaticanista ha scritto “La Strage di Farneta” Rubbettino editore

Luigi Accattoli: una vicenda controversa anche per la Chiesa Silvano Tomei, che i superiori dell’Ordine avevano trasferito dalla Certosa di Firenze a quella di Farneta già a metà del settembre del 1944, gli ebbe a confidare che nel periodo immediatamente successivo ai fatti “molte famiglie di catturati in Certosa ritenevano i Certosini responsabili di quanto avvenuto ai loro cari”. Ma dall’insieme delle testimonianze raccolte, Lenzi conclude che “le critiche non furono universali e che cessarono nel giro di alcuni mesi”: la notizia della sorte toccata ai Certosini attutì l’accusa di imprudenza ma non la cancellò del tutto. Un testimone dei fatti che ho potuto intervistare, don Arturo Paoli, che ha oggi 102 anni, mi ha detto: “E’ stato un disastro terribile, che forse si poteva evitare”. E intendeva: se i monaci fossero stati più prudenti. Lei rimarca nel suo libro una certa dimenticanza da parte della Chiesa nei confronti dei martiri della Certosa?

In alto: Padre Gabriele Costa, Padre Pio Egger e Fra Giorgio Maritano In basso: Fra Michele Nota, Fra Bruno D’Amoco e Padre Benedetto Lapuente

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Il ritorno alla libertà Si temeva una speculazione politica da parte della sinistra? Nell’immediato dopoguerra quella speculazione ci fu: ambienti azionisti e comunisti vollero far passare i monaci fucilati come martiri della Resistenza e riuscirono a far attribuire al più noto tra loro, il procuratore Gabriele Costa, una medaglia d’oro al valore militare, come fosse stato un combattente. Da qui la diffidenza degli ambienti cattolici. Ma la saggistica storica ha ormai chiarito i fatti: i monaci non ebbero legami con la lotta partigiana e svolsero la loro opera per obbedienza al comandamento evangelico della carità, non c’è dunque ragione che la Chiesa resti diffidente. E’ vero, invece, che il clero lucchese fu sempre in prima fila per difendere la popolazione dai soprusi dei nazi-fascisti? I due storici locali che più hanno indagato sui fatti di Farneta, Gianluca Fulvetti e Nicola Laganà, hanno inquadrato la vicenda dei Certosini in quella più ampia dell’opera di soccorso ai perseguitati, agli sfollati, agli ebrei messa in atto da tanti parroci, da istituti di suore e di frati, dallo stesso arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, che guida la Chiesa locale dal

Padre Antonio Costa poi medaglia d’oro al valor militare in una foto del 1939 Al suo fianco a sinistra si riconosce Gino Bartali Sotto un manifesto della propaganda repubblichina

1928 al 1973. Utile per rintracciare questa documentazione è il volume del Laganà intitolato “Il sacrificio del Clero nella provincia di Lucca durante la seconda guerra mondiale” [Edizioni S. Marco Litotipo, Lucca 2010, pp. 488] che informa su 45 preti, religiosi e religiose che furono vittime della guerra in provincia di Lucca. Visti i processi, chi ha pagato per questa strage? Nessuno ha pagato. Si sono tenuti tre processi: Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004. Il primo

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vide sotto accusa decine di repubblichini coinvolti nei fatti del 1944, compresa la vicenda di Farneta, ma non comminò condanne riguardanti la strage della Certosa. Il secondo fu contro il sergente delle SS Eduard Florin, uno dei principali responsabili di quei fatti, che venne assolto “per non aver commesso il fatto” in quanto sarebbe stato presente al solo “rastrellamento della Certosa” (così si esprime la sentenza) ma non avrebbe avuto parte agli eventi successivi che portarono all’uccisione dei 12 monaci. Il terzo processo fu contro il tenente Hermann Langer – diretto superiore del Florin – che in primo grado fu assolto dall’accusa di essere responsabile della strage, mentre in appello (Roma 2005) fu condannato all’ergastolo, ma in contumacia: viveva in Germania e non era estradabile in quanto al momento della condanna aveva 86 anni. Che reazioni ha avuto dopo la pubblicazione del volume? Meno di quante ne speravo, anche perché mi ripromettevo di sollecitare un minimo di attenzione da parte della Chiesa, sia locale sia nazionale. Ma questo risultato fino a oggi non l’ho raggiunto.


TOSCANA 1944

PISTOIA

L’ingegner Kayser, lo Schindler della fabbrica di armi

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di Daniele Amicarella

el settembre 1943, con l’occupazione tedesca, la fabbrica di munizioni S.M.I. (Società Metallurgica Italiana) di Campo Tizzoro entra a fare parte delle cosiddette “Speerbetriebe”, le imprese protette da Albert Speer, l’onnipotente ministro agli armamenti del Terzo Reich: in cambio di una collaborazione incondizionata alla produzione bellica si offrono vantaggi importanti come la difesa contro il reclutamento coatto di forza lavoro e la distribuzione di viveri supplementari. Incaricato della produzione è un ingegnere di sua fiducia, Kurt Kayser, già direttore della fabbrica di munizioni Polte di Magdeburgo. Quando arriva sulla montagna pistoiese Kayser ha circa quarant’anni, e un incarico che dà un grande potere nei confronti dei dipendenti. Ma chi si aspetta di vedere arrivare un tedesco tutto d’un pezzo rimane piacevolmente deluso: col suo fisico minuto e gli occhiali a stanghetta, sembra più uno scienziato che un tecnico militare. L’Inge-

gner Salvatore Orlando, proprietario del gruppo industriale, non può che accettare il nuovo ordine imposto dai tedeschi. Ha gia perso uno stabilimento, quello di Livorno, sotto le bombe alleate, adesso deve fare il possibile per salvare tutto il resto. Kayser da questo punto di vista gli offre subito una mano: lo staff dirigenziale dello stabilimento resta pressoché invariato, motivo per cui il dottor Alfredo Paci (direttore amministrativo) ed il dottor Maceo Tallone (direttore del laboratorio chimico), già in contatto con il neonato Comitato di Liberazione Nazionale di Pistoia, gettano le basi per un proficuo rapporto col movimento resistenziale. Ma di fronte alle prime rilevanti azioni di sabotaggio avvenute nella primavera del 1944, i tedeschi reagiscono con rigore. In questo periodo, avviene a Firenze l’arresto dello stesso Salvatore Orlando da parte del Sicherheitdienst (S.D.), il corpo di polizia di sicurezza delle S.S.. Avvertito tramite una lettera scritta dalla moglie dell’industriale, Kayser si reca al comando dove è tenuto prigioniero, riuscendo ad ottenerne l’immediata liberazione in quanto

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“collaboratore indispensabile per la produzione bellica”. Con l’arrivo dell’estate la situazione sembra nuovamente precipitare: su una specifica richiesta del generale Hans Leyers, responsabile della produzione bellica italiana, il tecnico tedesco deve dimostrare che lo stabilimento è efficiente, protetto dagli attacchi aerei e collegato alle vie di comunicazione. Gli viene anche chiesto di programmare il trasferimento dei macchinari e degli operai in una località segreta del Tirolo meridionale. Con la sua complicità, la S.M.I. inizia a trasferire solo i vecchi macchinari, poco più che rottami portati a destinazione e collocati dentro a lunghe gallerie scavate nella roccia. Parallelamente tiene buono il generale Leyers inviandogli una relazione fotografica datata 15 giugno 1944 con cui dimostra che “lo stabilimento è efficiente ed in piena produzione per gli scopi militari richiesti”. E’ anche il periodo in cui inizia a rilasciare i suoi famosi lasciapassare, documenti car-

L’ingresso del rifugio allo stabilimento Smi di Campo Tizzoro sull’Appennino Pistoiese


Il ritorno alla libertà tacei che evitano arresti e deportazioni a molti membri della resistenza locale: nei casi più estremi interviene personalmente come quando, il 12 settembre 1944, un agguato compiuto dai partigiani della Brigata Bozzi, provoca il ferimento a morte del generale Wilhelm Crisolli. Segue un rastrellamento in grande stile che investe Pracchia il paese più vicino al luogo dello scontro. Gli uomini catturati (circa cento) sono costretti a marciare verso il luogo dell’agguato dove giace il corpo senza vita del partigiano Lodovico Venturi caduto nel conflitto a fuoco con i soldati di scorta del generale, un macabro rituale li attende: sono costretti a sfilare davanti al corpo del Venturi e il finale si preannuncia terribile. Nel frattempo il generale Crisolli, è giunto nell’infermeria della S.M.I. di Campo Tizzoro privo di conoscenza, Kayser lo vede morire davanti ai suoi occhi e capisce subito la gravità della situazione recandosi di persona a scongiurare la rappresaglia in corso. Dal 20 al 22 settembre, con gli alleati giunti a Pistoia, fa da intermediario tra le S.S. e la direzione dello stabilimento: i guastatori della 16a divisione “Reichsfhurer” si presentano con le peggiori intenzioni, alcuni di loro hanno delle pesanti mazze ferrate con le quali iniziano a danneggiare alcuni macchinari di precisione. Kayser li dissuade dal prendere ogni ulteriore iniziativa salvando la fabbrica e gli ol-

tre 6000 civili nascosti nei rifugi antiaerei sotto di essa. Sono passati sessantacinque anni, ma nella memoria degli anziani della montagna pistoiese l’Ingegnere di Magdeburgo occupa ancora un posto di primo piano. Aldo Zinanni all’epoca dei fatti operaio all’officina meccanica non ha dubbi in proposito: “Quest’uomo aveva dentro di sé qualcosa che lo invitava a disobbedire. Piano piano, ci siamo resi conto che non era un ‘pezzo d’ignorante’ e che si preoccupava di altre cose oltreché della produzione. Le S.S. e la Gestapo non lo vedevano di buon occhio perché favoriva la gente. In quei momenti la morte era normale, se ne parlava così, come se fosse niente. Si sentiva dire hanno preso tizio e caio, li hanno portati a Villa Bice qui a San Marcello dove c’era il comando della polizia tedesca. Poi sentivi dire che era intervenuto il Kayser: lui partiva dal principio che le persone rastrellate erano indispensabili per la produzione. E non potevano dirgli di no”. Se per caso passate un giorno da Campo Tizzoro, fermatevi in cima alla salita del Miglio: accanto ad uno dei grandi bunker di accesso ai rifugi antiaerei della fabbrica, c’è un piccolo cippo posto recentemente a ricordo di un grande uomo. Daniele Amicarella è giornalista e scrittore, esperto della seconda guerra mondiale

Direttore della Smi salvò tanti civili e partigiani Con la scusa che la produzione di munizioni era indispensabile per l’esercito evitò a molti suoi dipendenti arresti e deportazioni

La targa che ricorda la sua attività Sopra Kayser, tornato in Italia negli anni Novanta, è il secondo da sinistra

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TOSCANA 1944

L’eccidio di Figline: «Guardate come muore un partigiano»

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PRATO

di Giuseppe Gregori

a sera del 5 settembre 1944 reparti motorizzati della Quinta armata arrivano a Prato e si fermano in via Zarini, la città è ormai sgombra di tedeschi e in parte occupata dai partigiani di pianura, agli ordini di Baldo (Tebaldo Cambi), che si sono acquartierati al cinema Borsi in San Fabiano fin dal 4 sera e che hanno trasformato l’albergo Stella d’Italia in mensa. La mattina del 6 i primi americani giungono in piazza del Duomo, si attendono i partiLa drammatica giani di montagna della Budei giovani ricchi, che iniziano ad arri- immagine partigiani impiccati vare alla spicciolata verso il dai tedeschi dopo il mezzo del giorno, perché nel breve combattimento a Figline di Prato frattempo è accaduta una terribile tragedia. La formazione era partita dai Faggi di Iavello poco dopo la mezzanotte del 5 settembre, era forte di circa duecentocinquanta uomini, aveva raggiunto Piandemassi e poi la Collina di Prato, dopo era discesa verso Cerreto deviando per la cascina della Pesciola, da dove avrebbe dovuto guidarli una staffetta, Domenico Fabbrini, che però non si era presentato. Nell’aia della cascina, dopo essersi consultati, i capi della Buricchi avevano de-

Hitler da Berlino: 1 deportato per ogni cinque scioperanti ¨ L’ordine arrivò direttamente dal Fuhrer. Fu lui ad indicare che si doveva deportare un operaio ogni 5 scioperanti. Il 20% della forza lavoro, una cifra enorme se si pensa che da Prato verso la Germania avrebbero dovuto inviare 1900 operai. Lo sciopero generale del 4 marzo 1944 non andò giù ai tedeschi. Nelle grandi città del Nord la rappresaglia fu pesante. A Prato finirono deportate 137 persone. Tutti arrestati dai fascisti (i tedeschi non si mischiarono) che ebbero rinforzi da Lucca e Firenze. Alla fine della guerra non ne tornarono che 21.

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Il ritorno alla libertà ciso di andare avanti lo stesso e senza incidenti erano giunti a Pacciana. A Pacciana c’erano mitragliatrici tedesche piazzate in modo da incrociare il tiro nel centro del ponticino sulla Vella, per proteggerlo: da lì sarebbero passate le ultime retroguardie, che ancora erano appostate nella periferia della città, per ritirarsi. È proprio lì, nei pressi del ponticino, in via di Cantagallo e dentro il letto della Vella che i partigiani furono investiti da un torrente di pallottole. Superata la sorpresa, risposero al fuoco, benché non fosse facile, come hanno testimoniato alcuni protagonisti, individuare da dove sparavano i tedeschi. La maggioranza dei partigiani si disperse nei campi e riuscì a proseguire verso Prato. Mentre una parte, secondo l’ordine impartito in precedenza, cercò di tornare indietro, verso la propria base, percorrendo la strada fatta nella discesa senza intoppi (molti di loro erano ancora nel bosco): tutti furono fatti bersaglio del fuoco di altre postazioni tedesche e ci furono nuovi morti e nuovi feriti. La sparatoria, a Pacciana, durò fino all’alba del 6 settembre, come abbiamo visto era stato uno scontro impari, per potenza di fuoco, organizzazione e addestramento al combattimento; ma anche i tedeschi ebbero perdite significative. Dopo la fine dello scontro, i tedeschi iniziarono a setacciare sistematicamente il territorio, catturando ventuno partigiani illesi, inoltre fecero raccogliere anche morti e feriti.

Ebbe luogo un processo farsa che durò pochi minuti, al termine del quale un dipendente del Fabbricone, di nome Franz, che fungeva da interprete, comunicò in italiano che la pena comminata era la morte. I condannati furono allineati lungo la Bardena, di fronte all’arco di via Maggio; i tedeschi prelevarono dalle proprie abitazioni tre cittadini, Alceste Marchi, Argillano Bailonni e un tale Caverni, perché assistessero all’esecuzione della sentenza. Successivamente il Bailonni ha lasciato la propria testimonianza dei fatti che fu pubblicata nell’opuscolo intitolato Come si muore per l’Italia libera. A Figline furono dunque impiccati ventinove partigiani (alcuni furono fatti impiccare dagli stessi compagni), compresi morti e feriti, con totale spregio di qualsiasi sentimento di umanità. Bailonni ha testimoniato che a un giovane patriota, Mario Tronci, cui si era spezzata la corda, non fu concessa la tradizionale grazia e lui stesso la riannodò e se la mise al collo urlando: “Guardate come muore un partigiano!”. Due giovani destinati all’impiccagione fortunatamente si salvarono: furono Santino Grassi, fratello del professor Cesare, membro azionista del CLN pratese, e Romano Villani, di Laiatico, in provincia di Pisa. Entrambi approfittarono di alcune

cannonate alleate che piovvero su Figline durante l’impiccagione e della confusione che si creò, per scappare (Villani, all’estremo, togliendosi la corda dal collo), o per nascondersi in una cantina (Grassi), in due momenti successivi. Il parroco di Coiano don Milton Nesi, che la mattina del 6 settembre 1944 era a Figline, ha raccontato di essere stato fermato dai tedeschi dopo il processo farsa, di avere incontrato il comandante, maggiore Karl Laqua, e di aver notato che un ufficiale accanto a lui teneva in mano un cartello scritto con matita turchina, che cominciava così: “Così finiscono i partigiani, banditi et latroni”. Giuseppe Gregori è giornalista e storico della Resistenza Prato distrutta dai bombardamenti alleati. Sopra una postazione antiaerea tedesca

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TOSCANA 1944

FIRENZE

Un viaggio nella memoria

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di Giovanni Pieraccini

n Versilia volevano arrestarci per la nostra attività antifascista. Fuggimmo dunque, il mio amico ed io in bicicletta a Firenze. Non era la prima volta perché più volte ero andato a trovare la mia fidanzata Vera davanti al portone della sua scuola dopo una lunga notte trascorsa pedalando sulle strade della Toscana, forse per una giovanile prova di forza sportiva. Devo dire che con una decisione che apparve assurda in mezzo ai più gravi problemi che dovevo affrontare, mi sposai e non fu un’assurdità perché dopo più di settant’anni siamo ancora insieme a vivere i nostri tardi anni. Fu dunque da Vera che andai, come al mio unico porto, questa volta per non tornare più a Viareggio, ma per restare. Fu con lei che cominciai a conoscere la società fiorentina, per me sconosciuta, ad avere le prime relazioni, conoscenze e amicizie, finchè riuscii anche ad avere i primi contatti politici con i socialisti. Conobbi infine la personalità che fu come il mio vero introduttore nella lotta e nella vita politi-

ca: il coraggioso, modesto e onesto nella sua limpida fede leader fiorentino Foscolo Lombardi. Potei così partecipare alle ultime fasi della Resistenza nei giorni della lotta per liberare la città prima dell’arrivo degli alleati con rapide incursioni notturne, partendo da un’altana a Piazza San Lorenzo armato di un fucile 91 che mi era stato fornito. Pensavo che ciò avvenisse riservatamente, ma non fu così. Una mattina da un’altana vicina sentii la voce di una popolana che con il suo accento fiorentino mi gridava: “son ribelle, attento, c’è un cecchino”, con la bella abitudine fiorentina di smontare ogni azione dalla retorica e dalla magniloquenza per ridurla alla normalità della vita. Così giustamente fui il sol ribelle. Purtroppo i cecchini erano stati lasciati dai fascisti in fuga sui tetti delle case e nei giorni successivi alla liberazione sparavano sui passanti, sulle donne in fila alla fontanella per attingere l’acqua e uccidevano. La Firenze che imparai a conoscere e ad amare era straordinaria sia culturalmente che politicamente. Viveva forse la sua ultima grande stagione della nostra epoca.

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Pietro Scoppola scrisse: “vi è a Firenze e nel, Comitato di Liberazione Nazionale un concentrato quasi unico di intelligenze in un misto particolarmente significativo di uomini politici e di uomini di cultura, capace di alimentare un dibattito che per il suo spessore e la sua ampiezza è destinato a condizionare il confronto culturale e politico a livello nazionale”. Firenze fu un grande “laboratorio”. Quando l’11 agosto 1944 le truppe alleate giunsero in Piazza della Signoria trovarono una città pienamente funzionante in tutte le sue strutture. Dice un rappporto alleato, quasi con ammirazione: “quando le armate alleate sono entrate a Firenze hanno trovato per la prima volta una città italiana di grande importanza, un’organizzazione quasi perfetta messa in piedi da forze anti fasciste preparate e decise. Un sistema provvisorio messo a punto perfino nei dettagli, già funzionante con una incontestata autorità de facto sotto gli auspici del CTLN che si considerava come il legittimo rappresentante del Governo italiano e che aspirava ad essere riconosciuto come tale dagli alleati e lo fu. In Piazza della Signoria fra la folla festante c’ero anch’io. Ma in quella piazza apparve, distribuito fra la gente, un giornale, un unico foglio anche in versione di manifesto perciò riempì i muri e fu avidamente letto. Era la Nazione del Popolo organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Non ebbe il permesso di continuare le pubblicazioni perché le alleate avevano il loro giornale: il CorrieFirenze, i senza casa dentro Palazzo Pitti. In fila per ricevere il pane


Il ritorno alla libertà re di Firenze (che fu poi donato al comune), ma a fine mese lo ebbe e cominciò ad uscire tutti i pomeriggi. Fui fra i redattori. A questo punto cominciò per davvero la mia storia politica e culturale, secondo i miei fondamentali impegni di sempre: la cultura, l’arte e la politica. Già la redazione era di alto livello: c’erano Romano Bilenchi, Cassola, Pratolini e c’era (eccoci di nuovo insieme come testimoni) Manlio Cancogni. Un po’ più giovani (ma di poco) c’erano Bernabei, Sergio Lepri, Augusto Livi, Umbert Bianchi ed io tutti ricchi di un importante futuro. Sovrintendevano i rappresentanti dei partiti: Carlo Levi (Partito d’Azione), Vittore Branca (DC), Vittorio Santoli (PLI), Albertoni ( PSI), ma spesso vi partecipai anche io. Una ricchissima collaborazione celebrava il connubio fra politica, arte cultura scienza. Ecco un certo numero di nomi a titolo di esempio: oltre a Ragghianti (l’anima di tutto il progetto) c’erano Calamandrei, Calasso, Enriquez Agnoletti, Codignola, Devoto, Roberto Bracco, Pancrazi, Montale, Saba, Luzzi,Paolo Barile, Cesare Dani, Enrico Artom, Zoli, La Pira, Fossombroni e musicisti come Markievich, Siciliani, Casella, Votto, Bartoletti e il giovane Valentino Bocchi presso scomparso e con loro poeti letterati, pittori. Non molti conoscono neppure oggi la Nazione del Popolo anche se lo storico Ballini ha pubblicato due volumi dedicati alla sua storia e all’antologia degli scritti che vi apparvero (ce ne sono anche tredici dei miei). Ciò si deve al fatto che esso uscì quando praticamente Firenze era isolata dopo la liberazione non solo dal Nord occupato, ma anche da Roma e dal sud della stessa Toscana, almeno nei primi tempi. Eppure fu un giornale che aveva la sua peculiarità. Era l’unico quotidiano della Resistenza europea, diretto dalle forze della resistenza con la capacità di vivere a lungo e infatti durò due anni fino al tre luglio 1946 in una vivace dialettica politica che riusciva a dare un contributo per la costruzione della democrazia. Ha scritto bene uno storico che fu un pugnace agorà critico di libertà e di impegno civile che riuscì a realizzare fino alla costituente in una dialettica di ideologie e posizioni diverse in una operosa convergenza. Il giornale diede vita anche a settimanali per i sin-

goli partiti e io diressi quello socialista, oltre al fatto che diressi l’organo ufficiale del PSI “la Difesa”. Ci fu anche a Firenze e in Toscana una grande e stimolante nascita di innumerevoli periodici di ogni livello, alcuni molto importanti come Il Ponte, Società, Belfagor, Il Mondo. Nacque anche una intelligente iniziativa editoriale accanto alle case editrici fiorentine le Edizioni U di Dino Gentile. Ma il più grande contributo per il rinnovamento del paese il CTLN e la Nazione lo dettero con un grande dibattito sfociato in un progetto per la nuova Costituzione. Fu un contributo di notevole novità: era il disegno di uno stato decentrato nelle autonomie locali e partiva dal basso per andare alla Regione e allo Stato. Eliminare i prefetti, figure fondamentali dello stato accentrato, occhiuti controllori delle autonomie, strumento di azione del Governo ( si pensi a Giolitti) ed eliminare le province sostituite da comprensori omogenei non burocratici, ma di coordinamento. Prevedeva un’economia mista con una agile programmazione sul territorio ed un forte contenuto sociale. Era un disegno organico che significava la rottura con il passato e la nascita di uno stato nuovo. Urtava contro l’idea della continuità dello stato, che attirava molte forze democratiche forse nell’idea di servirsene per attuare i propri programmi. Perdemmo e vinse proprio la continuità dello stato. Ragghianti andò con una delegazione del CTLN a Roma al CLN nazionale e al Governo del CLN di Bonomi. Fu restituito da entrambi. Raggianti si dimise. Presto sparì anche il CLN che la Resistenza Toscana cercava di inserire con un ruolo nella costituzione. La grande stagione di Firenze era finita.

I funerali a villa Cora di Aligi Barducci, il mitico «Potente», ucciso a Firenze da una granata tedesca. E’ stato proclamato Eroe Nazionale

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Giovanni Pieraccini rievoca la liberazione di Firenze nell’agosto 1944 Anch’io imbracciai il fucile, un vecchio modello 91: facevo la guardia da un’altana


TOSCANA 1944 La forte spinta anti fascista e anti totalitaria potè dar vita ad una costituzione di al- Giovanni Pieraccini to valore unicon il presidente tario. Fondò Napolitano la Repubblica Democratica fondata sul lavoro “ma fu tradita dal fatto che col passare dei decenni in realtà la Repubblica fu fondata sul mercato, sul profitto sull’egoismo. E siamo nella più profonda crisi, nella lotta contro la continuità dello Stato. Personalmente divenni assessore nella prima giunta democraticamente eletta a Firenze, poi deputato, poi membro della direzione socialista, poi ministro e fui anche creatore di istituzioni artisticoculturali come Romaeuropa fino a giungere a questi tardissimi anni. In fondo ad un vecchio scatolone ho ritrovato la fascia tricolore del CLN fiorentino che mettevo al braccio nelle incursioni di allora. Per la verità il verde è assai scolorito, quasi svanisse la speranza. Durante la celebrazione del 25 aprile l’ho ri-

La vita di Pieraccini

messo al braccio quasi a riaffermare l’attualità. Infatti le lotte di oggi sono ancora le lotte di allora contro la continuità dello stato, la burocrazia, contro la società del mercato e del profitto, per una nuova società democratica, agile e dinamica. Quella fascia tricolore è stata segno di vittoria, perciò è ancora tempo di indossarla, senza cedere a pessimismo o indifferenza. Deve ancora tornare ad essere segno di vittoria ridando realtà alla Costituzione e alla Repubblica Democratica fondata sul lavoro.

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Il racconto della Liberazione di Firenze è stato scritto per noi da Giovanni Pieraccini, nato a Viareggio, classe 1918. L’ultimo membro del Cln della Toscana. Pieraccini che è stato politico e ministro ma a lungo giornalista (nella sua carriera ha diretto anche l’Avanti, quotidiano socialista) visse in prima persona la battaglia di Firenze. Perché tale fu la liberazione della città, con Firenze divisa in due dall’Arno e con i tedeschi che benché in ritirata minacciarono di far saltare in aria la città. Di sicuro distrussero con l’esplosivo tutti i ponti, escluso Ponte Vecchio. Che fu risparmiato, ma in compenso la Wermacht fece saltare gli edifici a ridosso del ponte, in modo che fosse comunque inutilizzabile. Giovanni Pieraccini dopo gli anni fiorentini (ma aveva studiato a Pisa alla Scuola Normale) è stato uno dei protagonisti della stagione del centrosinistra. È stato 4 volte ministro, con portafogli importanti, come i Lavori Pubblici (dal 1963 al 1964) e Bilancio e Programmazione (dal 1964-1968). Dopo il 1976 è stato alla guida di Assitalia, colosso delle assicurazioni.


Il ritorno alla libertà

VERSILIA

Viareggio: la spiaggia ruggente minata e recintata

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ietrasanta fu l’ultima città ad essere liberata. Era il 19 settembre del 1944. Lo stesso giorno gli Alleati erano arrivati a Forte dei Marmi. Due giorni prima era stata liberata Camaiore. Viareggio e Massarosa erano state liberate il 16. Ma fu una liberazione condizionata. Soprattutto a Pietrasanta e Viareggio.Perchè i tedeschi erano attestati sulla linea Gotica e da lì continuarono per tutto l’inverno a cannoneggiare la Versilia. Viareggio del resto era una città fantasma. Gli occupanti tedeschi immaginavano che la spiaggia fosse adatta per uno sbarco alleato. Così venne minata e rinchiusa col filo spinato. Non solo. Fra la spiaggia e la pineta di ponente c’era una fitta trama di bunker in cemento armato, postazioni di mitragliatrici pesanti e an-

che torrette dei carri armati sistemate contro il mare per avere pronte le bocche da fuoco dei temibili Tiger. I primi ad entrare a Viareggio, coi partigiani, furono i soldati americani. A Massarosa entrarono le truppe brasiliane. A Pietrasanta conbatterono i Nisei, soldati dell’Us Army di origine orientale. Viareggio aveva subito pesanti bombardamenti alleati, soprattutto lungo la ferrovia e alla stazione. Colpito anche il cantiere navale Picchiotti perché vi erano lavorazioni militari. Pesantamente bombardata anche Ponterosso dove, a poche decine di metri di distanza c’erano il ponte sulla ferrovia Pisa-Genova ed il ponte dell’Aurelia che attraversavano il torrente Versilia. Bombe poche precise: i due ponti non vennero mai colpiti.

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Come non vennero mai colpiti i grandi alberghi viareggini e i negozi e i locali della Passeggiata. Che appena arrivati gli Alleati tornarono a vivere. Al grand hotel Principe di Piemonte si attestò il comando americano, ben consapevole che l‘avanzata si sarebbe fermata ai piedi delle Apuane, ovvero dove i tedeschi erano attestati sulla linea Gotica. Finita la guerra iniziò un periodo strano per Viareggio che voleva a tutti i costi tornare a vivere. E così già nell’inverno del 1946 la città metterà in scena il primo Carnevale del Dopoguerra. Il corso mascherato della democrazia e della libertà ritrovata.

Un reparto di occupazione sfila su una Passeggiata di Viareggio deserta


TOSCANA 1944

Testimone in Versilia all’indomani della strage di Sant’Anna e Marzabotto Reder e Berti faccia a faccia. “Perché tutto questo?” “Siamo stati travolti tutti. Io per primo”. “Lo rifarebbe?” “No”.

Il “BOIA” e il giornalista

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di Gian Ugo Berti

u solo nell’immediato dopoguerra che Walter Reder ed Angiolo Berti s’incontrarono faccia a faccia. Accadde durante i sopraluoghi dei giudici del tribunale di Bologna dove avvennero gli eccidi, che i due si scambiarono viso a viso alcune battute, comunque drammatiche per comprendere ancora a caldo la follia d’un uomo e, soprattutto, quella di un intero popolo che lo seguì senza opporsi. Ma il giovane giornalista de L’Avvenire d’ Italia conosceva bene quei posti e le nefandezze compiute dall’ufficiale tedesco nell’estate del 1944. All’epoca, infatti, fu il primo giornalista a recarsi in Versilia su disposizione della Curia arcivescovile bolognese per avere conferma delle voci che già trapelavano sulle bar-

barie naziste all’indomani del 12 agosto. “Le notizie dei massacri – scrive Berti nelle sue memorie – giunsero però anche a Salò, sede della Repubblica Sociale Italiana, interessando prima d’ogni altro il sottosegretario agli Interni Giorgio Pini, giornalista e direttore de Il Resto del Carlino di Bologna. Pini ebbe non pochi dubbi, che espresse anche alla Curia che prese contatto con lui. Un passo ufficiale non fu ritenuto opportuno ( e la prova l’avemmo nel settembre successivo, quando il Comando tedesco con un comunicato ufficiale smentì addirittura la strage di Marzabotto). Allora Pini ritenne di poterne sapere di più con un sopraluogo affidato in via strettamente privata al funzionario prefettizio Fantozzi, già in servizio nel capoluogo felsineo da alcuni anni. Lo stesso Pini chiese che Fantozzi fosse accompagnato, a titolo personale, da un giornalista de Il Resto del carli-

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no. La scelta cadde su Egidio Casabianca, già redattore capo all’Avvenire d’Italia”. “Anch’io venni avvicinato tramite la Curia, da Pini. Mi chiese se volevo unirmi a Casabianca. Queste – precisa ancora – erano le condizioni: segreto assoluto e riferirgli soltanto oralmente. Tutta la ricognizione avrebbe dovuto svolgersi dalla mattina alla sera, utilizzando un piccolo autocarro della Divisione Monterosa (che faceva parte della Rsi), il cui autista si recava sovente in Versilia e dunque era pratico dei luoghi”. Una lunga giornata – Una mattina partimmo prestissimo da Casalecchio di Reno, un Comune limitrofo. Con noi c’era un ufficiale della Monterosa. Obiettivo Sant’Anna. Non fummo ovviamente testimoni degli eccidi, ma vedemmo non pochi dei corpi massacrati: soprattutto donne, ragazzi e vecchi. A Vaccareccia, dove in alcune stalle erano state ammassate decine di persone, i tedeschi adoperarono mitra e bombe a mano. Al Pero trovammo distrutte tutte le abitazioni, così a Coletta ed alle Case. Intorno alla piazza di Sant’Anna, dove s’ergeva una croce di marmo, i cadaveri di decine di persone erano letteralmente arrostiti. Chi si occupò della loro sepoltura raccolse, in stato d’avanzata decomposizione, ben 130 teschi, dei quali 32 di bambini. La chiesa era devastata e colma di cadaveri.


Il ritorno alla libertà Il rientro – Una tragedia immane. Ma quello che ci colpì sulla via del ritorno, ad una trentina di chilometri da Serravezza, fu l’impiccagione a Bardine, di ostaggi con l’uso del filo spinato. La sola testimonianza successiva alla nostra, è opera d’un frate che ottenne il permesso di benedire le salme e scattò le foto di un impiccato, poi identificato per Alfonso Paolicchi. Un documento davvero agghiacciante. La morte era avvenuta dopo ore ed ore d’agonia. Il rientro fu celere. Fra noi, nessuna parola. Il colloquio con Pini fu penoso. “Lo immaginavo”, disse, “E’ una tragedia orrenda della quale tutti noi dobbiamo vergognarci”. Mussolini non sapeva – Nell’immediato dopoguerra, quando ai primi di maggio 1945, Pini venne interrogato presso l’Ufficio politico della Questura di Bologna, una breve conversazione con lui (era sconvolto per l’assassinio del figlio, un ragazzo, ad opera ad opera di partigiani sconosciuti, nel Modenese) me ne fece sapere di più. Anche a Salò, a quanto pare, s’ignoravano le dimensioni della tragedia e di quella a Marzabotto. Mussolini disse a Pini:” E’ una punizione terribile per tutti noi”. Il processo – Anni dopo, potei scambiare con l’imputato alcune parole. Davanti ai giudici aveva ammesso praticamente tutto, addossando le responsabilità al “sistema” ( quello nazista), aggiungendo che le reazioni contro i partigiani non potevano non essere “spietate”. La risposta fu sempre facile da parte dei giudici, i quali misero più volte sotto i suoi occhi gli elenchi dei massacrati per età (bambini e vecchi) e sesso (donne). I nomi degli infanti e dei giovanissimi vennero letti uno ad uno, scanditi come colpi di pistola in un silenzio agghiacciante. A Reder, il presidente del Tribunale volle chiedere:” Perché il filo spinato anziché la corda?” Nessuna risposta. “Si rese conto che la loro agonia durò alcune ore?”. Ancora silenzio. Sulla strada diretta a San Terenzo, il Tribunale fece sosta davanti ad alcuni pali telegrafici dove avevano avuto luogo le impiccagioni. Fu un momento di vera angoscia, soprattutto quando un carabiniere della scorta che guardava nel fossato adiacente alla strada scorse e recuperò il

fil di ferro. Molti occhi s’inumidirono, ma niente uscì dalle labbra di Reder. Neppure quando durante l’interrogatorio, a Bergiola, una donna sopravvissuta disse con voce alterata dall’emozione: “Sì, è lui il Monco”. In quegli attimi raccontò particolari inediti anche alle carte processuali: comandate personalmente da Reder, squadre di nazisti irrompevano nelle abitazioni, sparando raffiche di mitra oppure invitavano la gente ad uscire e qui si ripeteva lo spettacolo d’una carneficina orribile. “Vi faremo una bella foto” – A Sant’Anna sentimmo il racconto, riteniamo senza precedenti, d’una quindicenne unica superstite, illesa sotto un mucchio di cadaveri. “Ci misero in fila – ricordò – davanti a due cassoni ricoperti di tela. Vi faremo una bella foto, disse il Monco. Restate calmi”. Poi, ad un cenno della mano, le mitragliatrici iniziarono a sparare e tutto finì in una carneficina. Faccia a faccia col boia – Avendo assistito all’interrogatorio gomito a gomito con i giudici e l’imputato, non mi fu difficile alla fine rivolgere domande dirette. “Ma perché tutto questo? Eppure ognuno di voi ha genitori, figli, sorelle, fratelli…” Silenzio. Nemmeno gli occhi parlarono. Poi, insistendo, venne la risposta:

Il maggiore Walter Reder fra i carabinieri italiani In alto un’immagine della strage di San Terenzo Bardine

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”Sono stati momenti brutti da dimenticare”. “Non è poco? Sotto gli occhi abbiamo centinaia e centinaia di persone massacrate”. Braccia aperte come per dire: “E’ il destino”. “Maggiore Reder, il destino lo fanno gli uomini”. Ed ancora, incalzandolo: “ Perché tanti innocenti? Non vi giungevano al cuore quelle grida? Ripetereste quello che avete fatto allora?” Silenzio. Quindi un flebile: ”No”. “Sente i pianti dei bambini? Cosa le dice l’orrore di questa strage?” Ultima risposta:” Siamo stati travolti tutti. Io per primo”. Marzabotto – Il sopraluogo si ripetè a Marzabotto dove le vittime furono molto più numerose (1830 di cui molti uccisi col lanciafiamme, altri massacrati al cimitero comunale). Stavolta la presenza di molti rappresentanti della stampa m’impedì di tornare sulla conversazione, ma il risultato non sarebbe stato diverso. Che dire a distanza di tanti anni? Qualsiasi risposta, almeno per ha vissuti quei tempi, sarebbe insufficiente. Una sola riflessione: andare più spesso su quei luoghi e portare i ragazzi delle scuole. C’è troppo silenzio, oggi, dove ieri s’udivano le urla dei massacrati. Gian Ugo Berti è medico e giornalista


TOSCANA 1944

Il blitz dei partigiani libera la città ma gli Alleati non interverranno

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MASSA CARRARA

di Paolo Bissoli

ell’estate 1944, mentre quasi tutta la Toscana veniva liberata dall’avanzata dell’esercito alleato e dai partigiani che entravano nelle città, una vasta area compresa tra l’Appennino settentrionale e le Alpi Apuane sarebbe rimasta ancora a lungo nella mani dell’esercito tedesco e delle milizie fasciste. Se il grossetano infatti aveva potuto accogliere i liberatori già l’11 giugno, Montignoso - primo territorio della provincia apuana - avrebbe atteso fino all’8 aprile 1945; se la popolazione di Lucca, liberata il 3 settembre, era scesa nelle strade per festeggiare, quella di Massa avrebbe visto gli Alleati entrare in città solo il 10 aprile successivo, dopo altri sette mesi di terrore. I mesi più lunghi di tutto il conflitto: i giorni delle stragi, dei bombardamenti, degli scontri, I soldati alleati entrano delle file di donne lungo la in Massa, aprile 1945 via Vandelli o la strada della Nella pagina a fianco Cisa in marcia per cercare fa- si soccorre un partigiano ferito dentro rina oltre Appennino. Palazzo Ducale Già, le stragi e gli eccidi: a Mommio, fin dal 5 maggio; alla metà di giugno si capisce che non sarebbe stato un caso isolato. Il fronte è a duecento chilometri, le truppe guidate dagli Americani avanzano, ma len-

Il proclama di Alexander gelò la Resistenza Il comandante dell’Ottava Armata attraverso la radio «Italia combatte» il 13 novembre del 1944 annuncia ai partigiani che le truppe Alleate aspetteranno la primavera ai piedi degli Appennini. Insomma non continueranno l’offensiva contro la linea Gotica. Un proclama che gelò l’esercito partigiano che si aspettava invece l’ultima spallata ai tedeschi. Sarà un dramma. Kesserling che ha avuto comunque rinforzi potrà usare i suoi uomini nella repressione partigiana. Il proclama di Alexander ha motivazioni più politiche che belliche. Il fronte italiano è diventato del tutto secondario rispetto all’attacco da Est e da Ovest alla Germania. L’altro aspetto politico è che frenando l’offensiva si toglie forza ai patrioti italiani. Che è quello che vuole la Gran Bretagna.

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Il ritorno alla libertà tamente e la ferocia degli occupanti che devono vedersela anche con i partigiani, si sfoga sulla popolazione inerme. Il 13 giugno la rappresaglia nazista si abbatte sulle colline massesi: a Forno una settantina di uomini vengono fucilati. Nelle stesse ore gli Alleati stanno per liberare Grosseto. Passano tre settimane e il 3 luglio a Ponticello di Filattiera sono cinque i civili uccisi in piazza. Arriva agosto, ed è terribile: mentre Firenze festeggia la Liberazione, nella valle lunigianese del Bardine vengono uccise 170 persone, a Vinca 173, nella zona di Carrara svariate decine in diversi paesi. Il 10 settembre sono una quarantina le persone uccise a Massa, il 16 a Bergiola Foscalina altre 72 sono falciate dalle raffiche tedesche e lo stesso giorno lungo il Frigido sono trucidati 159 uomini. E ancora: il 10 novembre ad Avenza 11 persone uccise mentre pochi giorni dopo in Lunigiana, a Regnano, 13 uomini vengono fucilati. Così pure in Garfagnana, nelle montagne della Versilia, nel versante emiliano dell’Appennino: sono le “retrovie della Linea Gotica”, zone montuose, spesso impervie, con pochi passaggi obbligati, ma anche corridoi di collegamento con il nord, vitali per l’esercito tedesco. Retrovie dove sono centinaia i paesi piccoli e grandi, e ci sono città come Carrara e Massa: popolazioni che vivono nel pericolo e nel terrore. La Linea Gotica era stata pensata dal feldmaresciallo Kesserling per rallentare gli Alleati dopo lo sfondamento della linea Gustav nel maggio del 1944: dal Cinquale di Montignoso sulla costa tirrenica

L’ordine di sfollamento di Carrara firmato il 7 luglio 1944 dal comando tedesco

fino a quella adriatica tra Pesaro e Rimini, sono trecento chilometri dell’ultimo fronte di una guerra che proprio qui avrebbe manifestato tutto il suo aspetto peggiore, demoniaco. Ma anche messo in luce la forza e l’eroismo di popolazioni che si meritarono quella Medaglia d’Oro al Valor Militare che fu assegnata - prima fra tutte - alla provincia di Massa Carrara nell’immediato dopoguerra, quando ancora si chiamava “Apuania”. Innumerevoli i fatti, i protagonisti, i martiri di quei mesi; impossibile non citare l’esempio di Carrara: il 7 luglio il comando tedesco emette l’ordine di sfollamento della città. La reazione è sorprendente: sono le donne che si ribellano con manifestazioni di protesta, la più importante l’11 luglio. E Carrara resta abitata, città viva: una scelta che costa centinaia di morti per i bombardamenti dal cielo e dal mare, ma che pone le basi per il riscatto che si concretizza a novembre quando la città si libera per alcuni giorni dall’occupazione tedesca. Giorni brevi quelli della “prima liberazione di Carrara” in attesa di quella definitiva, cinque mesi dopo. In quell’autunno intanto gli Alleati si avvicinano, tutto il resto della Toscana è libero; il fronte è sulla Linea Goti-

ca e Massa viene fatta sfollare: migliaia di persone in fuga trovano ospitalità nei paesi vicini e, soprattutto, a Carrara dove la situazione logistica, igienica e della vita in generale diventa ancora più difficile, quasi insostenibile. Il Comando tedesco si sposta a Pontremoli dove resterà fino al 27 aprile, giorno nel quale anche l’ultimo lembo di Toscana sarà liberato. In questi mesi le formazioni partigiane giocano ovunque un ruolo determinante; sulle Apuane massesi riescono persino a tenere aperto un passaggio attraverso il fronte: è la “via della Libertà” lungo la quale in tanti perdono la vita ma alla quale non c’è alternativa se si vuole passare di là. Per scendere in strada a far festa ci sarà ancora molto da aspettare, in una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Perché, come avrà modo di dire Piero Calamandrei nel 1954, nel decimo anniversario della strage del Frigido, “qui gli eroismi e i sacrifici non furono soltanto dei partigiani in armi, ma di tutta la popolazione civile, rinserrata tra le linee di combattimento, come in un immenso campo di concentramento, tra le mine e le cannonate, nella desolata terra di nessuno”. Paolo Bissoli è presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Massa Carrara

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TOSCANA 1944

La vicenda più feroce del primo Dopoguerra

Il manifesto di Senza Pietà film girato da Alberto Lattuada con Fellini come aiuto regista Fra gli attori Carla Del Poggio e Giulietta Masina moglie del genio di Rimini

Ne hanno scritto Aldo Santini e Indro Montanelli

I

di Adolfo Lippi

nferno, Gomorra, Scandalo mondiale, Cancrena purulenta, pattumiera di guerra,questa fu, dall’estate del ‘45 al 1947, Tombolo, la ridente striscia di terra che da Livorno, via Calambrone sfiora Tirrenia e giunge a lambire Pisa, tra macchie di pini centenari, acquitrini, e marine bellissime e frantumate. Tutto cominciò nel luglio ‘44 quando le stanche truppe americane della Quinta Armata, la famosa “Buffalo”, fatta quasi tutta di neri,si trascinarono a liberare Livorno. L’avevano bombardata con particolare ferocia per mesi. Di Livorno esistevano poche case intatte. Nel porto dove i tedeschi avevano minato ed abbattuto perfino il Fanale del 1200 (disegno di Nicola Pisano) giacevano più di trenta tra piroscafi e mercantili affondati. La città nascondeva poi più di 25.000 ordigni, silenziosi, micidiali, messi in modo scellerato dai nazifascisti in ogni dove, saponette, tavolette di cioccolata, pacchi di garza, penne perfino nei cadaveri dei commilitoni morti, per colpire partigiani e truppe avversarie. Insomma una città trappola, una città morta,una città che forse non sarebbe esistita più. Invece gli Americani, anche perché c’era vicini l’aereoporto di San Giusto in Pisa, la scelsero come base logistica . Vi insediarono il loro comando, diretto dall’elegante e signorile generale John Lee. Vi fecero venire in sfilata nientemeno che Churchill ed il generalissimo Clark e vi fecero cantare Frank Sinatra. E ne cambiarono il nome da Livorno in Leghorn che rammentava un antico passato arabizzante, quando le barche saracene s’erano più volte affacciate e c’era voluto del bello e del buono per far restare libero e cristiano il porto.

Nella foto della pagina a fianco una scena di Tombolo Paradiso nero altra pellicola dedicata alla vicenda

Tombolo L’inferno nero 34


Il ritorno alla libertà Dove tra l’altro nel Rinascimento erano sbarcati migliaia di ebrei fuggiti da Portogallo e Spagna. Dunque un terreno levantino. Circolava da sempre un’ aria cosmopolita, inquietante, sulfurea, magica. Livorno era così : ospitale e magmatica. E gli americani presero a sbarcarvi ogni ben di Dio : camion, munizioni, mitragliere, pezzi di aereo, apparecchiature mediche complete, centinaia e centinaia di tonnellate di viveri,pane bianco, latte in scatola, corned beef, eppoi benzina, sigarette e fiumi di dollari. Era evidente ciò che sarebbe accaduto. Ed accadde quello che s’era già verificato a Napoli (ben descritto da Curzio Malaparte ne “La Pelle”) : su Livorno piombarono falchi da rapina, avvoltoi della truffa, da tutte le parti d’Italia. Tanti malintenzionati. E, sopratutto,tante ragazze affamate, disposte a vendersi, disposte anche a sposare e trasferirsi in America, ragazze che vennero chiamate “ Segnorine”. Tombolo, prima di essere un rifugio di ogni male, era la base di migliaia di ragazzotti, i più neri, contadini della Lousiana, del Montana, del Texas, del Missouri. Per qualche tempo avevano combattuto su verso Massa, poi a pace avvenuta, erano sciamati per Viareggio e la rivera della Versilia, vogliosi di sesso, boogie-boogie, whisky. Avendo combinato parecchi casini, scazzottate, risse con pugnali, Viareggio, riservata però agli ufficiali bianchi,li aveva ricacciati. Così erano refluiti a Tombolo e confinati. Qui’ si imbastì allora il più sensazionale e popoloso bordello a cielo aperto. Nelle pinete , tra le macchie verdastre ed arse, sorsero baracche, capanne, cantucci di copertoni, e vennero ad abitarvi centinaia di donne,fuggite di casa, fuggite dalla fame, erano tutte bionde ossigenate,vestivano abiti a fiori stampati,venivano da Palermo, da Caserta, da Avellino, da Padova, da Milano, e a dir poco si prostituivano. Facevano anche altro : fungevano da spie e staffette per i rapinatori, per le bande di ladri, che avevano preso di mira il campo logistico degli americani. Zeppo di mercanzia. Tante storie si leggono nei verbali dei carabinieri:c’era la minorenne milanese venuta al seguito di un sergente nero, cercata dalla sorella, venuta appositamente a Tombolo con la foto della congiunta e ritrovata soltanto morta perché la ragazzina s’era trovata in mezzo ad una sparatoria tra briganti. C’era la ragazza di Borgo a Mozzano, quindici anni, che in pochi mesi aveva guadagnato milioni

e d era stata spogliata di ogni avere dalla megera del campo. C’era la cosidetta “Vaporiera” di Sorrento, che contentava i clienti a decine, instancabile e sveltissima. C’era la siciliana Carmela che finse per mesi una gravidanza pur di farsi sposare dal tenentino. E girava per Tombolo con un cuscino che le gonfiava la pancia. Quante denunciate, quante finivano al Quinto Reparto dell’Ospedale livornese di via Allievi,quante cacciate dal foglio di via che poi tornavano! Molte abortivano, molte fecero figli di colore,molte morirono uccise. Lattuada, con Federico Fellini sceneggiatore ed aiuto regista dedicò loro un film ideato da Carlo Ponti. Si intitolava “Senza pietà”. Era la storia di un amore tra una “signorina “ ed un nero. Lei la interpretò Carla Del Poggio (che era la compagna di Lattuada). Lui era un autentico militare americano, alto, prestante, John Kitzmiller ( morì tempo dopo di cirrosi epatica). Quando lo scandalo si fece così epocale e persino Eisenhower a Washington minacciò sanzioni, la “Buffalo” fu ritirata da Tombolo. Allora sotto il piroscafo che rimpatriava i soldati, fermo per quattro giorni nel porto a Livorno, si videro decine di barche cariche di “mogli”, di fidanzate, di figli dell’amore disperati accostare il piroscafo e pregare di essere portati via. Portati nella terra promessa che lì a Tombolo aveva devastato cuori e coscienze. Un altro film che girarono in quegli anni, in zona, fu “Tombolo, paradiso nero”di Ferroni, con Nadia Fiorelli, Aldo Fabrizi, Folco Lulli. Questo film narra, invece, la storia degli “sciù-scia”, un altro clamoroso fenomeno del campo . Gli sciù-scia erano ragazzotti maledetti,disoccupati, canaglie, che gestivano accanto a Tombolo due campetti paralleli,si chiamavano “Shangai” e “Bikini”, organizzati e

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pieni di mercanzia trafugata dalle bande. Una volta arrivò alla stazione di Livorno un treno stracarico di farina, prosciutti, formaggi, anche pasticceria fine. C’erano sopra, ad accompagnarlo, trenta mercatisti neri che rifornivano la Liguria. Furono tutti arrestati. Processi a “segnorine”, sciù-scià, ladri, rapinatori se ne fecero poi fino agli anni cinquanta. Perfino la “Domenica del Corriere” dedicò ad un rastrellamento a Tombolo della “Militar Police” una pittoresca copertina per la matita di Walter Molino. Scrissero pagine storiche su questo inferno livornese Malaparte, Montanelli, Fusco, Arrigo Benedetti, Aldo Santini, Sandro De Feo. Lo raccontarono anche l’incisore pisano Giuseppe Viviani, e Silvano Ceccherini che da “assessore anarchico”nella prima amministrazione di Livorno liberata, vi innestò la sue personale “epopea” di mariuolo ed affabulatore (finì spesso in galera). E Livorno ? Livorno contro questo sfacelo provocatore insorse. Addirittura. Stanche delle “segnorine” e degli sciùscià prepotenti de invasivi, i livornesi si ribellarono il 3 agosto del’47. Presero parecchie ragazze, le spogliarono, le umiliarono. In Piazza Grande si ebbero scontri violenti. Molti arresti. Togliatti in persona encomiò quali moralizzatori i ribelli “punitivi” che al processo, molti anni dopo, furono assolti. E Tombolo chiuse? Macché, cambiò nome in Camp Darby e c’è ancora, base logistica per le avventure militari americane. Attorno però regna e resiste il turismo delle famigliole domenicali. Che fanno, oggidì, ricca Tirrenia. Dimentica degli orrori e dolori, che le guerre sempre provocano. Adolfo Lippi è giornalista e regista tv


TOSCANA 1944

I giardini di pietra

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llo Stato tedesco, di fatto alla Repubblica federale tedesca (Germani ovest), solo negli anni Cinquanta fu concesso di dare sepoltura degna ai propri caduti. Si trattasse di membri della Wermacht o di elementi delle SS. In Toscana c’è uno dei più grandi cimiteri di guerra tedeschi, quello sul passo della Futa a Firenzuola. Fu costruito fra il 1962 ed il 1967 in un luogo simbolo, al centro di quella linea Gotica che da Massa e Pesaro aveva bloccato per un inverno (il 1944) le truppe alleate. La scheggia alzata al cielo segnala dove sono sepolti 31mila militari germanici. Fra di loro anche Joseph Crisolli, il generale tedesco ucciso dai partigiani il 12 settembre del 1944 mentre risaliva la Porrettana per recarsi a Bologna. Le lapidi in granito scuro riportano normalmente 4 nomi. C’è la data di nascita ma talvolta non quella di morte. Per molti trovate scritto: ein ubekannten deutscher soldat, ovvero un soldato tedesco ignoto. Trovate anche una targa dedicata ai sol-

dati ucraini che furono inquadrati nei reparti tedeschi. A visitare il cimitero della Futa pochi italiani, ma un discreto numero di stranieri. Della manutenzione e della gestione del cimitero se ne occupa un ente di Stato tedesco. Più celebre è il cimitero dei Falciani, a San Casciano Val di Pesa. E’ il cimitero americano che custodisce le salme di 4402 soldati Usa morti in Toscana. Non a caso si trova sulla Cassia dove aspri furono i combattimenti per aprirsi la strada per Firenze. Il cimitero - migliaia di croci e stelle di David nell’erba verde - fu iniziato nel 1949 e inaugurato nel 1961. Quelle croci e quelle stelle in marmo bianco hanno una storia particolare. L’ente americano preposto alle onoranze dei caduti in guerra non scelse il marmo bianco di Carrara ma firmò una maxicommessa con una cava di Lasa, centro del val Venosta in Alto Adige. A Lasa furono commissionate le circa 90mila croci usate per tutti i soldati americani morti in Europa le cui salme non sono state rimpatriate. Quelle croci fatte in Alto Adige - dove pe-

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raltro lavorarono tanti versiliese e apuani - vennero piantate in tutti i cimiteri, a partire da quelli in Normandia. Gli inglesi hanno due cimiteri di guerra in Toscana. Uno è a Indicatore, poco fuori Arezzo, e l’altro è a Firenze. Qui sono sepolti 1632 soldati. A Indicatore le salme sepolte sono 1267, di cui 37 ignote. Un cimitero imperiale dove sono sepolti 787 soldati inglesi, 20 canadesi, 27 neozelandesi, 50 sudafricani e 387 indiani. A Pistoia non c’è un cimitero di guerra, ma la città ha voluto ricordare con un grande monumento il sacrificio dei soldati brasiliani che liberarono la città l’8 settembre del 1944. A Pietrasanta, invece, un monumento è stato dedicato ai Nisei, i soldati americani con genitori asiatici (o peggio giapponesi). Nisei sta per seconda generazione. Non è un cimitero ma un ossario quelLa scheggia di pietra posta sulla sommità del cimitero di guerra tedesco al passo della Futa


Il ritorno alla libertà lo che a Col di Cava raccoglie i resti delle vittime di Sant’Anna di Stazzema, dove i tedeschi uccisero i 12 agosto 1944 tutte le persone residenti o sfollate nel piccolo paese ai piedi delle Apuane. Prima fucilate, poi bruciate col fuoco. Vittime ufficiali 560 persone, oggi ridimensionate dagli ultimi calcoli a 390 - L’ossario con la torre che si vede a distanza fu realizzato nel 1948, quando a Sant’Anna di fatto non arrivava neppure la strada. A Massa la Resistenza è ricordata con un monumento d’autore. Di fronte al moderno Municipio si trova «Bella ciao» di Pietro Cascella. Il grande scultore abruzzese morto nel 2008 viveva fra la Lunigiana e la Versilia. L’opera rappresenta un grande fiore, appunto il fiore del par-

tigiano ricordato dai versi di Bella Ciao, la canzone simbolo della Resistenza Italiana. Un grande mosaico colorato che rappresenta la colomba della pace è il monumento ai caduti che si trova all’ingresso di Viareggio. Anche questo è un’opera d’autore. A firmarlo è Jean Michel Folon grande pittore e scultore belga innamorato dell’Italia. Tanti monumenti e cippi ricordano i morti della Resistenza ai nazisti, siano stati partigiani o vittime civili. Ma monumenti sono stati innalzati anche alle vittime dei bombardamenti alleati, da quelli di Grosseto dove morirono dei bambini nel 1943 a quelli che semidistrussero Livorno nel corso di tutto il conflitto.

Il prato con le croci bianche al cimitero dei Falciani a San Casciano sulla Cassia

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I cimiteri di guerra in Toscana:

un monito sale da quelle tombe. Alla Futa sono sepolti 31mila soldati del Terzo Reich. Ai Falciani trovate 4402 croci e stelle di David scolpite nel marmo


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Allo scoppio della guerra parteggiammo per il nemico Intervista allo scrittore Manlio Cancogni Una generazione si ribellò al Fascismo

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di Corrado Benzio

el maggio del 1940 incontra Mario Monicelli a Roma. La Francia stava capitolando. «Ormai è finita» disse il giovane Monicelli. E Cancogni di rimando: «Ma no, c’è ancora l’Inghilterra che combatte, ha i suoi domini». E Monicelli di rimando. «Cosa hai capito: è finita per l’Italia». Così si ragionava nell’Italia entrata in guerra a fianco di Hitler. Le 8 milioni di baionette decantate da Mussolini erano un’illusione, una buffoneria, una delle tante. E i giovani, come Monicelli e Cancogni, lo capivano. Erano già pronti per una mondo nuovo. Manlio Cancogni ha 98 anni, compiuti da pochi giorni. È giornalista e scrittore. Ha insegnato da giovane in un liceo di Sarzana e da adulto in una università americana. Nella sua casa di Fiumetto in

Versilia rievoca gli anni della Resistenza, che lui visse a Firenze. «Tornai dalla Grecia, dove ero stato al fronte - ricorda lo scrittore vincitrice dello Strega e del Viareggio - e ripresi ad insegnare a Sarzana. La caduta di Mussolini mi portò ad essere uno dei fondatori del Cln a Pietrasanta. Facemmo una riunione a casa del famoso avvocato Luigi Salvatori. A me toccò stendere il manifesto che salutava l’arrivo degli americani. Erano sbarcati in Sicilia ed in breve tempo arrivarono a Napoli. Pensavamo in una veloce fine della guerra. Il tipografo a cui consegnai il documento non lo stampò mai. Anzi ne tirò fuori uno riservato ai Tedeschi: ce li trovammo in casa dopo l’8 settembre del 1943». Il 10 settembre torna in cattedra a Sarzana. « Ma era come un mondo sospeso. Nessuno sapeva cosa fare. Me ne andai a Firenze, deciso a raggiungere Roma e lì, con alcuni amici, passare le linee e an-

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dare incontro agli Alleati». Ma l’operazione non andò a buon termine. «Me ne tornai a Firenze, dove entrai nel Cln Toscana. Vi erano rappresentati i partiti antifascisti. Io ero lì per il Partito d’azione. Devo dire che ero antifascista da sempre. A 6 anni ho visto la Marcia su Roma. Non ho mai avuto problemi durante il regime, ma ero antifascista. Poi, oggi in vecchiaia, guardo alla figura di Mussolini sotto una luce particolare. Ammetto che era un figura che giganteggiava rispetto agli altri. Un suo grande errore, parliamo della guerra, che fece anche Hitler, era non avere capito la forza del mondo anglosassone, la Gran Bretagna con le sue colonie e gli Stati Uniti. Si preoccupava solo di sconfiggere la Francia». Manlio Cancogni con la moglie Maria Vittoria: si sposarono nel 1943, in pieno conflitto


Il ritorno alla libertà Manlio Cancogni è uomo sorprendente, sempre. «Non amavo, con un certo scandalo degli amici, il Risorgimento. Dopo Cavour per me erano solo disastri, di cui patiamo ancora oggi le conseguenze, a partire da quelli fatti dalla Sinistra storica. Lo Stato unitario non era ancora completato, solido, che già si pensava alle colonie». A Firenze Cancogni partecipa alla Resistenza nei giorni dell’occupazione tedesca. «Ma non combattevo, mi limitavo a distribuire volantini, la stampa antifascista. Certo qualche volta ho avuto paura, ma me la sono cavata. Posso tranquillamente dire che nella vita ho sem-

pre avuto fortuna». Cancogni tende a sdrammatizzare tutto, ma non erano giorni tranquilli in riva all’Arno. In quei duri anni di occupazione ci fu un episodio che divise tutti gli intellettuali fiorentini, l’omicidio da parte del partigiano Bruno Fanciullacci (poi suicidatosi dopo la cattura) del filosofo Giovanni Gentile. La sua colpa avere aderito a Salò. «Per me fu un delitto, senza altre motivazioni. Poi non si è mai capito chi lo ordinò. Non certo il Cln Toscana, e lo stesso partito comunista si divise sulla vicenda. Gentile era un filosofo dell’idealismo, come lo stesso Croce. Due filosofi che non ho mai amato. Ma Gentile era

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una brava persona, aveva difeso anche tanti antifascisti». La mattina seguente l’attentato, avvenuto il 14 aprile del 1944 di fronte alla sua villa, Cancogni non ebbe mezze misurese. «Il giorno dopo - ricorda lo scrittore - incontrai un esponente del partito comunista e gli espressi la mia totale disapprovazione». Giovanni Gentile era stato il riformatore della scuola italiana da Ministro della Pubblica Istruzione, fu preside della ScuoSoldati americani sminano la spiaggia a Viareggio Sullo sfondo la mole del Principe di Piemonte


TOSCANA 1944 la Normale di Pisa, dopo l’avvento di Salò divenne presidente dell’Accademia d’Italia, con tanto di camicia nera nelle cerimone ufficiali. Ma, dopo la morte, le sue spoglie furono sepolte in Santa Croce, dove ancora oggi riposano. A Firenze Cancogni si sposò con Maria Vittori detta Rori, era il febbraio del 1943. La conobbe al mare, in Versilia. Sono oltre 70 anni che stanno insieme. In riva all’Arno iniziò a fare il giornalista. In un giornale la cui testata era La Nazione del Popolo. Nacque e morì nello spazio di un paio di anni. «Non avevo nessuna intenzione di fare il giornalista - racconta - fu Carlo Levi che mi spinse a scrivere per la Nazione del Popolo. Di Levi ero molto amico. Sono stato il primo a leggere il manoscritto del «Cristo si è fermato a Eboli» . Il primo articolo mi portò ad essere insultato su tutti i muri di Firenze. Scrivevo della scuola. Si stava parlando di un nuovo rapporto fra insegnanti e studenti, di una scuola più democratica. Io scelsi un’altra strada. Scrissi che la scuola doveva essere informativa, mnemonica e anche repressiva. Chiaramente i miei toni erano forzati a bella posta. Ricordo le polemiche che mi investirono e appunto le scritte della serie: Conosciamo tua madre». La Nazione del Popolo era un giornale che usciva con un foglio solo con due facciate. A quei tempi scarseggiava tutto, a cominciare dalla carta. La scena del film “Miracolo a Sant’Anna” L’ufficiale tedesco spara al parroco di fronte a donne e bambini che poi saranno uccisi a mitragliate

«Nella prima pagina c’era la politica, l’articolo di fondo, i commenti. Nella seconda la cronaca. Comunque a me non piaceva fare il giornalista, non amavo viaggiare». Cosa aggiungere ad un’affermazione del genere? Ad uno che ha firmato una delle inchieste giornalistiche più famose del Novecento. Parliamo della campagna dal titolo «Capitale corrotta, nazione infetta» in cui, sull’Espresso; si dava conto del sacco urbanistico di Roma. Dopo La Nazione del popolo, Cancogni andò a Milano. «Scrivevo per l’Italia libera. Per la stessa testata lavorai a Roma». L’Italia intanto cambiava. Il 2 giugno scelse la Repubblica ma si elesse anche la Costituente. Nel 1948, il 18 aprile, la Dc sconfisse il Fronte popolare. «Fui felice della sconfitta dei socialisti e dei comunisti. Io sono stato sempre antifascista e anticomunista. Poi abbandonai il Partito d’azione, quando ci fu il congresso con la svolta impressa da Codignola. Con me se ne andò anche Carlo Ludovico Ragghianti, che rappresentava l’ala moderata dopo essere stato a capo del Cln della Toscana». Iniziava il Dopoguerra, che vide Cancogni sempre in prima fila. E registi come Monicelli che raccontavano degli italiani vizì e virtù. «Era un grande regista, Mario - chiosa lo scrittore - grande ma molto modesto. Fra l’altro non amava neppure il lavoro di regista, non lo considerava arte. Infatti iniziò come sceneggiatore. Ci ha lasciato almeno due capolavori. La Grande Guerra e I Compagni. E tanti grandi film, uno per tutti I soliti ignoti».

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Manlio Cancogni

fu uno dei primi a scrivere della strage di Sant’Anna di Stazzema. Ecco quanto si legge in un volume uscito nel 1945. «I tedeschi a S. Anna condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti, erano mezzi vestiti. Avevano le membra ancora intorpidite dal sonno, tutti pensavano che sarebbe stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero in mezzo alla piazza, una piazza non più lunga di 20 metri e larga altrettanto… e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi, li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare».


Il ritorno alla libertà

Da Paisà ai Taviani La guerra al cinema

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primi film sulla guerra in Toscana li hanno girati gli americani. Sono i famosi Combat film, con registi e operatori di Hollywood mandati su fronti dove operavano i soldati americani a ritrarre la guerra. Fra i registi dei Combat film troviamo anche John Houston. Fra le scene più famose quelle girate nella Livorno appena liberata e trasformata nel Decimo Porto. Il primo grande film sulla guerra è Paisà, di Roberto Rossellini. Il grande regista neorealista gira nel 1945 Roma città aperta. L’anno dopo filma in Paisà l’esercito liberatore che risale l’Italia. E’ una pellicola ad episodi. Quello ambientato a Firenze durante la battaglia per la liberazione della città è firmato, come soggetto, da Vasco Pratolini, il grande scrittore neorealista fiorentino. L’episodio racconta di una giovane infermiera inglese che assiste i feriti in un ospedale da campo sopra Firenze. Cura

i partigiani e intanto cerca notizie di un pittore fiorentino da lei conosciuto in un precedente soggiorno in città. Le viene risposto che col nome di battaglia Lupo combatteva a Firenze come capo della Resistenza. Nel tratteggiare la figura del capo partigiano, Pratolini si ispirò a Aligi Barducci, il mitico Potente, capo dei patrioti che morì per una granata tedesca mentre la città del Giglio stava per essere conquistata dai partigiani. Se Paisà è il primo film, l’ultimo - ancora da produrre - potrebbe essere quello a cui sta lavorando Robert Redford. Il grande attore e regista hollywoodiano vuole raccontare - ha rivelato Variety, la bibbia della spettacolo Usa - la storia della decima divisione Mountain Ski Troop dell’esercito usa. Si tratta dell’ultima divisione dell’Us Army entrata in combattimento in Italia. E guarda caso i primi scontri li sostenne a Cutigliano e all’Orsigna, sulla Monta-

Ma solo l’americano Spike Lee ha raccontato la strage di Sant’Anna gna Pistoiese. Entrò in linea nel gennaio del 1945 per preparare l’ultima spallata alla linea Gotica. Erano specialisti delle montagne, delle arrampicate, dello sci. Superata la linea Gotica combatterono nella Pianura Padana. Il 25 aprile del 1945 la resa dei tedeschi la sorprese sul lago di Garda. Una storia poco conosciuta. Più nota la partecipazione di questo reparto d’èlite nella guerra in Afganistan. Questo film, se si farà, può assomigliare alla genesi di Miracolo a Sant’Anna, la pellicola che Spike Lee girò nel 2008 per raccontare la vicenda della divisione Buffalo, i soldati neri, segregati in patria e mandati al macello in Versilia e Lucchesia. Nel film di Lee c’è anche la lunga scena della strage di Sant’Anna. Un capitolo del film che suscitò polemiche e proteste perché la strage perpetrata dai Nazisti veniva attribuita ad un partigiano traditore dei suoi compagni.

Soldati delle truppe Usa da montagna. Sopra una scena di “Miracolo a Sant’Anna”

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Luigi Comencini

firma “Tutti a casa” la tragedia di una generazione Girato fra le colonie di Calambrone il film racconta di un soldato interpretato da Alberto Sordi sbandato dopo l’8 settembre Fra varie peripezie riesce a tornare a casa ma poi decide di partecipare al riscatto dell’Italia unendosi alla Resistenza Uno dei film più celebri su guerra e dopoguerra è la Ragazza di Bube, diretto nel 1963 da Luigi Comencini, ed interpretato da Claudia Cardinale e da George Chakiris, attore celebre per avere interpretato West side story (1961). «La ragazza di Bube» è il titolo del romanzo di Carlo Cassola da cui è tratto il film. Cassola ci vinse nel 1960 il premio Strega. La trama è nota. Bube, il partigiano, nei momenti concitati del primo dopoguerra, uccide un maresciallo dei carabinieri e suo figlio. Lui viene condannato nel tribunale di Volterra a 14 anni di carcere. Lei lo aspetta. Nonostante avesse potuto scegliere per un amore tranquillo. Lei è la vera protagonista del film, più che la temperie anche politica del momento. Dicevamo di Comencini che ha firmato un altro capolavoro. Quel Tutti in casa che è il film che racconta il dramma di una generazione di giovani sotto le armi, sbandata dall’8 settembre 1943. Le prime scene del film sono girate a

Calambrone in quella che era l’ex colonia marina Rosa Maltoni Mussolini, la madre del Duce. Indimenticabile interprete del film Alberto Sordi. Grandi comprimari Eduardo De Filippo e soprattutto Serge Reggiani. Altro grande film sui giorni della guerra è La notte di San Lorenzo. Firmato nel 1982 da Paolo e Vittorio Taviani vinse il gran premio della giuria a Cannes (dove i fratelli di San Miniato avevano vinto la Palma d’oro con Padre padrone, dal romanzo di Gavino Ledda). La Notte di San Lorenzo ha la prestigiosa sceneggiatura di Tonino Guerra (poeta e sodale di Fellini). Racconta, in una chiave fiabesca, della strage di San Miniato,

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Sopra il manifesto di “Paisà” di Rossellini A fianco Robert Redford produrrà un film sulle truppe alpine Usa sull’Appennino pistoiese


Il ritorno alla libertà quando una bomba di cannone tedesca entrò dal tetto del duomo facendo una strage. I Taviani avevano già girato, insieme al regista pisano Valentino Orsini, San Miniato, luglio 1944. Un documentario che investigò sulla strage. Molti anni dopo si è scoperto che quel cannoneggiamento era americano, ma la sostanza e l’afflato poetico del film non cambia. Non fu invece un film pienamente riuscito quello che Mario Monicelli girò nel 1994: «Cari, fottutissimi amici». Non piacque, a partire dal titolo che voleva fare il verso al più celebre e riuscito Amici miei. Il regista viareggino racconta di una (come sempre) scalcinata compagnia di giro votata al fallimento. In questo caso su trattava di una scuderia di pugili che

si esibiva in una Toscana non ancora liberata e quindi alle prese, secondo i posti, con partigiani e tedeschi, fascisti e alleati. Fra gli interpreti Paolo Villaggio. Sicuramente di maggiore impatto fu «Tombolo, paradiso nero», film girato dal regista Ferroni con Aldo Fabrizi. Racconta a pochissimi anni dalla fine della guerra delle vicende di Tombolo, quel villaggio di baracche dentro la pineta dove disertori americani facevano commerci e «intrattenevano ragazze». Un film, a dire il vero, oggi quasi dimenticato. E peraltro girato in gran parte nella pineta di Viareggio. Dove Mario Tobino ambienta «Il clandestino», romanzo sulla Resistenza vincitore del premio Strega nel 1962. Opera celebre che non diventerà un film, ma

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quello che un tempo si chiamava sceneggiato televisivo. Si intitolerà «L’Ammiraglio». Fra i protagonisti un Gianni Agus, nella credibile interpretazione di un gerarca fascista. Un lavoro, chiamiamolo così, quasi introvabile.

Una delle scene madri della “Notte di San Lorenzo” di Paolo e Vittorio Taviani che racconta della strage provocata da una bomba nel duomo di San Miniato


TOSCANA 1944

Io c’ero.

Le testimonianze di quell ’anno terribile

L

raccontate al Tirreno

uciano Tassinari aveva solo 10 anni quando fu colpito da una pallottola sparata da un Mauser, micidiale fucile tedesco. Cesarina Tosi, classe 1926, aveva solo 18 anni quando seppe del cuginetto. Da lì iniziò la sua partecipazione alla Resistenza. In realtà la signora Tosi era già politicizzata, vivendo in una famiglia di antifascisti, tutti perseguitati dal regime. Fu anche una protagonista della rivolta di Piazza delle Erbe, quando le donne di Carrara si ribellarono al provvedimento di sfollamento deciso dal comando tedesco. Avrebbero dovuto andare in Emilia, ben oltre l’Appennino, per lasciare sgombra la linea del fuoco che era poi la linea Gotica. Ma le donne di Carrara, partendo dalla piazza del mercato, marciarono sul comando tedesco. Incuranti delle machinepistole dei tedeschi costrinsero il Kommandatur ha non applicare l’ordine di sfollamento. Queste vicende Cesarina continua a raccontarle nelle scuole e nelle conferenze a cui viene inviate. Ma le ha raccontate anche a noi. Come hanno fatto tanti altri protagonisti dei quel fatidico 1944. Storie che abbiamo pubblicato sul nostro giornale, che ora vogliamo riproporre. Perchè ci dicono di che pasta fossero fatti gli italiani che resistettero, che non si piegarono. O peggio, che non collaborarono con fascisti ed nazisti. Come Ferrero Pierinelli, 92 anni, di Pitigliano, provincia di Grosseto. Un maestro elementare che sbandato dall’esercito dopo l’8 settembre, era ufficiale di complemento, si ritrovò nello splendido borgo del tufo a nascondere piloti alleati e a rifornire di scarpe e cibo i partigiani alla macchia. «E quando Pitigliano fu finalmen-

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Una immagine dell’epoca di Cesarina Tosi di Carrara. Fu fra le protagoniste della rivolta di piazza delle Erbe quando le donne apuane si ribellarono all’ordine del Comando germanico di sfollare la città per finire in Emilia Alla fine gli occupanti cedettero Era il 7 luglio del 1944


Il ritorno alla libertà te liberata - ecco il paradosso raccontato da Ferrero - mi dettero un fucile e dovevo fare la guardia di notte al borgo. Perché accampati fuori dal paese c’erano le truppe coloniali francesi, i marocchini per intenderci, e gli stessi loro ufficiali ci chiesero di vigilare: non si fidavano della disciplina dei suoi». Le truppe coloniali francesi erano tristemente famose per gli stupri. E anche la Maremma, dopo la Ciociaria e prima dell’Elba, non fu indenne da queste violenze sulle donne. Nara Marchetti, 90 anni di Lucca, fu invece una partigiana. Una vera combattente, non solo una staffetta, ruolo a cui spesso erano delegate le donne. Vide morire compagni, amici, conoscenti. Conobbe il brivido freddo della paura, ma non si è mai arresa, neppure dopo la fine della guerra. «Il mio mito era Dolores Ibarruri, la pasionaria della guerra civile spagnola - racconta - avevo 12 anni, ma sarei partita comunque volontaria per combattere in Spagna». Uno spirito indomito che la portò a contestare, a guerra finita, gli stessi compagni del partito comunista lucchese. Ricorda ancora indignata: «Non volevano che si desse il voto alle donne, come poi fu. Perché le ritenevano troppo conservatrici e temevano che facessero vincere la Dc e gli altri partiti di destra». In molti casi spesso andò così, sia per il referendum istituzionale, quando il 2 giugno 1946 comunque 10 milioni di italiani votarono per la monarchia fellona, sia il 18 aprile del 1948 quando le prime elezioni del parlamento libero portarono al trionfo della Democrazia cristiana. Il Dopoguerra fu duro per chi aveva combattuto nelle Resistenza ed era rimasto comunista. Come Giorgio Mori, classe 1923, di Carrara. «Combattemmo, ma dopo essere stati in Africa sotto il Regio esercito, liberammo Carrara da soli, con tanto di elogio da parte del colonnello Miller, comandante delle truppe americane. Poi ci emarginarono». Il dopoguerra apuano era caratterizzato da una borghesia delle cave

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Sopra Sirio Maccioni: perse il padre sotto un bombardamento a Montecatini. La città era stata liberata Lui, orfano, dovette emigrare Sotto una foto di soldati tedeschi convalescenti a villa Bellavista in Valdinievole Il secondo da sinistra è Ugo Sargenti

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TOSCANA 1944 creata dal fascismo e quindi profondamente di destra.«Ebbi difficoltà a trovare lavoro - ricorda Mori - e allora nel 1951 emigrai in Belgio a lavorare nelle miniere di carbone. Tornai in Italia solo nel 1963, perché i polmoni erano stati attaccati dalla silicosi e perché sembrava che nel nostro paese le cose stessero cambiando, con l’arrivo del boom economico». Il Benessere, la Seicento, le vacanze al mare (la prima Nutella). Tutto questo non vide Enrico Del Guasta, il comandante partigiano Franz. Era di Cascina ma l’8 settembre si trovò a Pesaro e lì si dette alla macchia. La sua storia ce l’ha raccontato Umberto, uno dei 5 figli, ristoratore a San Giovanni alla Vena, provincia di Pisa. «Vinse la Dc, era il 1948 - ricorda Umberto Del Guasta - alla fine, era il 1949, mio padre senza lavoro fu costretto ad emigrare. Andò in Belgio a lavorare nelle miniere. La sua azienda era il Bois de Caziers. Sì, la tristemente nota miniera di Marcinelle dove l’ 8 agosto del 1956 saltò un pozzo. Fra i morti c’era anche mio padre, uno dei tre toscani presenti nell’elenco delle vittime». Enrico Del Guasta lasciò una moglie 32 anni Yvonne e 5 figli: Libero, Gianfranco Graziella, Umberto e Yvette. «Quando tornammo in Italia fu la miseria. Io e miei fratelli finimmo in collegio per poter continuare gli studi». Dieci anni fa al Boiz de Caziers volevano fare un centro commerciale. Ci fu una sollevazione popolare alla quale partecipò anche Umberto. «Tutto si bloccò, ma ce ne volle. Era come fare un supermercato sopra le Fosse Ardeatine, dove avvenne la strage». Giorgio Nari, classe 1927, è un tranquillo pensionato di Montemurlo che ci ha raccontato la sua partecipazione al famoso sciopero generale del 4 marzo 1944. Deciso dal Clnai (comitato di liberazione alta Italia) coinvolse tutte le grandi fabbriche di quello che si chiamava il Triangolo industriale (Milano-Torino-Genova) ma arrivò fino Prato. La città del tessile si fermò. «Io portai i volantini nelle fabbriche - ricorda - ed ebbi una fortuna sfacciata. Venni fermato da un posto di blocco dei tedeschi, ma prima che mi perquisissero un repubblichino mi riconobbe e disse al suo camerata: lascialo andare, lo conosco. Anzi mi fecero un lasciapassare perché stava calando il coprifuoco». Nel 1944 la distanza fra vita e morte era veramente un foglio di carta velina. Se a Nari fossero stati trovati quei volantini, la sua sorte era segnata. Fucilazione. O, forse peggio, la condanna a morte per impiccagione. La morte era sempre in agguato. Come per Luigi Fulceri, 32 anni, di Guardistallo, Fu una delle 63 vittime dell’eccidio del 29 giugno 1944. Il giorno dopo sarebbero arrivati gli americani, sbarcati sotto Cecina. «Ma ci un tedesco ammazzato - ricorda la figlia Bruna, 72 anni - e allora iniziò la carneficina. Non fu neppure una rappresaglia, perché i partigiani erano stati catturati. Io avevo 2 anni, ci rinchiusero tutti in una stalla, con un cadavere. Mia madre ricorda che in quel caos e nel terrore io non smettevo di piangere. Avevo paura, caldo, avevo tanta fame».

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Il ritorno alla libertà La fame, la paura, il degrado della vita umana. Rina Piazzola in Mazzei ha oggi 100 anni, vive in Valdinievole, e ricorda tutto. «Le donne si vendevano per un pugno di farina. Così andavano le cose. Io abitavo a Firenze, ma venni a stare a Colle di Buggiano. Qui avevamo due poderi, il cibo non ci mancava. Ma vedevamo scene incredibili». Sempre in Valdinievole si srotola la vicenda umana di Ugo Sargenti, lucchese di oltre 90 anni. «Mi toccò giurare fedeltà a Hitler perché, dopo il bando Graziani, vennero a cercare i miei genitori». Sargenti si trovò a lavorare all’ospedale militare di San Gallo a Firenze, poi venne destinato a villa Bellavista a Borgo a Buggiano. «I soldati feriti al fronte - ricordava - arrivavano la sera in treno a Montecatini per essere ricoverati negli alberghi che erano stati requisiti dai tedeschi. Poi, per la convalescenza venivano portati a villa Bellavista. Io lavoravo in questa struttura, poi mi unii ai partigiani sui monti di Pescia». Tragica anche l’esperienza di un personaggio famoso. Sirio Maccioni, uno dei più famosi ristoratori del mondo, vide il padre morire: «in un inutile cannoneggiamento nel centro di Montecatini. La città era stata liberata ,a si continuava a combattere. Mio padre faceva il portiere al grand hotel Croce di Malta. Quando lui morì io ero già orfano di madre. A Montecatini non c’erano prospettive e diventai così un emigrante». La prima sosta fu Parigi dove venne aiutato da Yves Montand. Il grande cantante e attore francese era in realtà di Monsummano Terme e si chiamava Ivo Livi. Con la famiglia dovettero emigrare o meglio fuggire in Francia perché i fascisti bruciarono la piccola fabbrica del padre. Il Fascismo, la guerra, la povertà in Italia si è spesso trasformata in emigrazione.

Tutte le testimonianze sono raccolte nello speciale online su www.iltirreno.it intitolato «Speciale Liberazione le storie dei lettori»

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A fianco la foto di Giorgio Mori nelle miniere di carbone in Belgio Partigiano sulle Alpi Apuane, nel dopoguerra si vide chiudere tutte le porte rimase senza lavoro e dovette emigrare Nel 1956 partecipò anche alle operazioni di recupero dei minatori morti nella tragedia di Marcinelle Sopra l’attestato di staffetta partigiana rilasciato a Nara Marchetti giovane ragazza di Lucca


TOSCANA 1944

«Lo avrai camerata Kesserling il monumento che pretendi da noi italiani…» Inizia così la celebre epigrafe dettata da Piero Calamandrei giurista, politico e avvocato Lo spunto fu la frase con la quale il feldmaresciallo comandante delle truppe tedesche in Italia commentò l’uscita dal carcere: gli italiani dovrebbero farmi un monumento. Kesserling fu processato nel 1947 per crimini di guerra. Condannato a morte se la cavò con pochi mesi (18 in tutto) di carcere. In Germania continuò a frequentare circoli neonazisti. La epigrafe fu apposta “ad ignominia” nell’atrio del Municipio di Cuneo nel 1952, nell’ottavo anniversario della morte di Duccio Galimberti Capo della resistenza trucidato dai Tedeschi La lapide della foto è quella apposta a Sant’Anna di Stazzema sul luogo della strage del 12 agosto 1944

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