Black hole uno sguardo sull'underground italiano - Turi Messineo

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione. Tutte le immagini e le opere citate e utilizzate lo sono state a scopo documentaristico nel rispetto della legge 70 sul diritto d’autore. Non di tutte le opere è stato possibile risalire all’autore. La casa editrice resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto.

Collana Pamphlet Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Alberto Becherini

© Copyright 2015, Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione marzo 2015 ISBN 9788898644285

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Prefazione

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uando sentiamo parlare di underground, ognuno di noi viaggia con la mente associando il significato di questa parola a un episodio o a delle immagini. La nostra definizione soggettiva può riportare alla mente tutto quello che ha a che fare con l’arte, ma anche con situazioni uniche ed emozionali che hanno a che vedere con quel preciso istante unico e, forse, irripetibile. Riuscire a dare un senso logico a questo sentimento, a questa attitudine rimane molte volte difficile. Cercare di capire la rete di rapporti interpersonali tra le varie scene, nelle sottoculture, dandogli un senso è un’avventura non da poco. Turi c’ha provato. Ha tentato di andare oltre a una serie di preconcetti per i quali esiste un sottobosco predefinito, esatto e matematico. Chiunque bazzichi questi territori sa che così non è. Esistono delle micro differenze, ma tutti spingiamo verso una direzione unica: raccontare la nostra attitudine e quello che facciamo. Come per la nostra storia, però, anche la pratica ha un riscontro fondamentalmente teorico. Non ci facciamo prendere dall’entusiasmo guardando dei dati di vendita, oppure contando i soldi che sono entrati in una stagione o in un anno solare. La nostra prospettiva di successo si costruisce nella soddisfazione della gente che abbiamo attorno e, molte volte, in quello che vediamo scritto sopra i muri più che su un social network. Una canzone degli S-contro recita «ma che cosa resta di noi? Soltanto un pugno di ricordi». Ecco, di noi rimane la nostra storia orale, alcune volte scritta su flyer, manifesti, fanzine e qualche libro.

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Questa storia si tramanda col passaparola di momenti epici e anche di momenti tesi. Quelli che leggerete in queste pagine. Quelli che, bene o male, ci portiamo appresso. Quelli che ci rappresentano. Una storia che è memoria e, soprattutto, è un ingranaggio collettivo. Nell’ingranaggio, brutta parola se ragioniamo in termini capitalistici, ci troviamo a nostro agio costruendo e tracciando rapporti che non hanno a che fare con la forza, ma si basano sul rispetto e la collaborazione, ricreando memoria collettiva di momenti vissuti assieme. Attitudine, passione, memoria. Tutti questi aspetti li ritroverete qui, in questo grande “buco nero”. Ambiente che abbiamo arredato come meglio crediamo e in cui non c’è luce, ma calore. Un piccolo focolaio fatto dalle nostre essenze. Che sia un focolaio di ribellione, resistenza o semplice espressione, alimentatelo e fatelo crescere. Il Segretario aka Mastello, luglio 2014

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sguardi

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lack Hole, uno sguardo sull’underground italiano, è un lavoro svolto in un arco di tempo non definibile, vista la quantità di esperienze da me fatte prima di aver cominciato a scrivere e filmare tutto ciò che infine compone lo stesso progetto, un libro e un documentario, sul quale per mesi e mesi ho lavorato spostandomi in lungo e in largo, per recuperare materiale utile, per incontrare tutti coloro che ho avuto modo di intervistare. Uno sguardo non specifico ma ampio, poco settoriale ma piuttosto personale rispetto a esperienze riportate dal vissuto di molti, estrapolate da storie e interviste, attraverso filmati e audio, tramite racconti, aneddoti e articoli o spezzoni di libri già pubblicati, su tutto quello che compone l’underground e le varie sottoculture della nostra nazione a partire da tempi ormai vecchi come gli anni ’80, fino a oggi. Attraverso Black Hole cercherò di descrivere tramite esperienze, opinioni, flyer, ricordi di buona parte di quella gente che lo ha vissuto e che lo vive, di descrivere quindi un mondo catalogato come di “sottocultura” e che per molti tale dovrebbe restare, con parecchia ragione, ma che a mio parere dovrebbe quantomeno essere conosciuto con verità e non per forza visto e puntato come un frastuono proveniente da mondi paralleli, vissuto in luoghi estremi, sconosciuti e oscuri, un mondo “ad alto volume”, un sostrato sociale a ogni modo vivo e vegeto al contrario di ciò che molti possano pensare sconoscendo o preferendo non conoscere, e che inoltre molti di quelli che ne fanno parte credono sia “morto”, “fermo”. Si è sempre parlato di cultura come fosse un oggetto. Vergognosamente si assottiglia il più intrinseco significato della stessa facendone

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ognuno della propria, la più importante, la migliore, la più culturale. Il termine deriva dal verbo latino “colere” che significa “coltivare”, quindi etimologicamente la traduzione induce a un verbo d’azione pratica, induce a un’attività rupestre che mai è stata collocata ai livelli alti tra le azioni umane in ambito sociale né tra le classi più alte nell’ordine. Effettivamente la storia insegna essere stata, questa, una fondamentale azione per l’andamento economico di ogni nazione e di ogni società, strano a dirsi, il termine o meglio l’utilizzo del termine è stato poi esteso a quei comportamenti che imponevano una “cura verso gli Dei” quindi induceva all’atto del “culto”. Il concetto moderno intende per lo più quel bagaglio di conoscenze e di pratiche acquisite ritenute importanti, e che sono trasmesse di generazione in generazione contemporaneamente alla trasmissione dell’educazione. La cultura delinea e civilizza i popoli, racchiude in sé pragmatismo, formazione individuale di ogni individuo. La cultura è il luogo privilegiato del sapere locale o globale, si distanzia nettamente da ciò che può essere un oggetto, ma piuttosto è e per sempre sarà una fondamentale per ogni essere, popolo, civiltà, paese, stato d’essere. Tendo così a “elevare” al rango o alla categoria di “cultura” e non di “sotto-cultura” l’ambito da me vissuto e che qui in questo volume tenterò di descrivere, l’underground. A ogni modo “sottocultura” è genuinità, è un forte senso di lealtà reciproca e di collaborazione, ed è un’affermata “alternativa” alle culture identificate come fondamentali, senza nessuna vergogna o mancanza. In Italia come altrove la cultura underground si avvolge di tendenze: dall’arte alla cultura, dalla musica alla letteratura, dalla grafica al più semplice utilizzo di linguaggi provenienti da un passato forse “sessantottino” che a differenza ad esempio degli Stati Uniti dove andava di pari passo con una componente creativa e una politica, qui in Italia portò a una rottura tra identità – movimenti politici – culture alternative, fino a oggi quindi contrapposte. Da questo le tendenze giovani dell’aggregarsi in gruppi e di fare ciò in strada e non altrove per dimostrare una «resistenza all’ordine sociale vigente.» (Valerio Marchi, Teppa)

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Con uno stile ritmato e spigoloso, l’underground e tutto ciò che lo compone si è fatto strada a forza creando delle spaccature e alle volte portando a livelli opposti a quello da cui si partiva, determinati concetti o progetti arrivando a colorarsi di “mainstream”: sociologicamente sono tendenze, idee delle preferenze, dei gusti, delle mode, dei consumi, della musica e dei comportamenti collettivi o individuali, seguiti dalla maggioranza delle persone fino a costituire una vera e propria “moda” opponendosi e contrastando quindi le culture minoritarie o sottoculture che dir si voglia. Contro ogni tendenza invece l’underground ha cercato di dar voce e spazio a quelle culture e a quei movimenti che provenivano da esperienze laterali, periferiche o semplicemente artistiche o magari politiche dando un’immagine a chi voleva e lo sentiva per riconoscersi e riconoscere se stessi rispetto a ciò che si pensava e che più si voleva. Cosa è lecito? Cosa è illecito? Nessuna di queste “regole” scandisce un ambito come quello in questione dove d’altronde non esiste un’immagine pari al: “chi si adegua è bravo, chi non riesce ad adeguarsi non lo è per niente”. Razionalità, autocontrollo. Potrebbe essere utile disporre su di un asse temporale la narrazione visiva dell’intero underground, quindi degli eventi più o meno turbolenti che lo hanno composto e continuano inevitabilmente a comporlo per estrarne una cornice di riferimento, o più cornici di riferimento all’interno delle quali collocarne i contenuti, scene, collettivi, band, spazi, eventi, concerti. In questo asse temporale sarà così possibile individuare i “key frames”, i periodi chiave quindi le evoluzioni e le differenze tra periodi e periodi, gli sfondi, le scenografie “sociali”, i paesaggi quindi gli spazi di svolgimento, le varie “soundtrack” quindi i brani suonati dalle band differenti per ogni momento distribuito nel tempo. A quel punto della nostra analisi utile a comprendere l’immensità di questo buco nero che identifichiamo come il nostro underground, potremo così inserire i dettagli, l’iconografia, i colori, i dialoghi che avranno sempre un significato immediato che non fa

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rima con banale, attenzione. Testi, voci, suoni serviranno a delineare i profili dei protagonisti di questo mondo e di queste storie di “contro cultura”. Nell’underground a differenza che nel mainstream (un mondo di più alto livello commerciale, il mondo delle etichette major, delle grosse aziende, dei grossi spot e di un giro economico ben più vasto e strumentalizzato) si attiva un processo secondo il quale si passa da una visione “product-price-place-promotion” tipica delle logiche di miglior marketing, a una visione “experience-every place-exchange” più legata alle emozioni e al valore della “community”, del collettivo. Le contro culture adottano esperienza, utilità, cultura e tecnica contemporaneamente per se stesse e per il proprio sviluppo, respingendo, questo è da dire, talvolta i valori “razionali”, dando spazio a quelli “impulsivi”. Non c’è spazio per una mentalità “care free” quindi del genere “me ne frego”, i valori standard non contano nulla, si vive ogni momento al massimo delle aspettative e con tutte le forze possibili senza pensarci troppo. Tutti i valori sono posti all’interno di un campo di battaglia dove ognuno troverà e delineerà il proprio profilo e ognuno di questi profili a sua volta riceverà dalla “community” un totale di “like” e di “dislike” come uno scambio, non come una vera e propria competizione. L’attitudine, l’atteggiamento, si innalzano di fronte ai valori futili, al consumo, alla massa. Ogni canzone, ogni azione rappresentano una storia, un racconto nel quale può succedere qualcosa sino alla fine, si potrà sempre impattare con un “twisted end”, un colpo di scena finale. Sarà sicuramente impossibile poter descrivere nei dettagli l’intero panorama underground italiano, e ne verrebbe fuori un’opera enciclopedica; proprio per questo motivo, tenterò principalmente di far parlare vari protagonisti, tra chi l’ha vissuto sia da vicino che da lontano questo indefinito buco nero, o giungla oscura o underground, quasi come fosse il percorso di una giornata, un viaggio, dalla sveglia all’ultimo secondo prima di chiudere gli occhi e dormire.

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risveglio


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ualsiasi sia la città o il luogo in cui mi trovo o mi sono trovato sin da ragazzino, ho sempre evitato di perder minuti preziosi delle giornate e per questo devo ringraziare penso i miei genitori che mi hanno saputo instradare così da prendere determinati ritmi. Oggi mi sveglio a Bologna, dove sto vivendo da circa tre anni. Sono circa le 08:50 del mattino, sono già carico e pronto per uscire fuori e correre almeno per un’oretta. Proprio ieri sera sono stato spronato, devo dire in modo molto deciso, a cominciare questo lavoro di ricerca e di scrittura, così eccomi qui, oggi al rientro a casa, dopo aver fatto colazione e una doccia, comincerà questa lunga avventura. Esco, avrò preso tutto? Il mio lettore mp3 sarà carico o mi si spegnerà durante il tragitto? Sono un po’ paranoico, forse troppo pignolo e queste cose le tengo sempre d’occhio altrimenti parte male la giornata quindi faccio sempre un resoconto di tutto la sera prima di andare a letto, così da avere tutto pronto al mattino seguente e uscire tranquillo, anche se di fretta, c’è sempre fretta, tutti abbiamo fretta! Anche la persona più lenta del mondo in realtà avrà fretta almeno una volta al giorno, ne sono sicuro. È chiaro, la fretta esiste per tutti. Eccomi finalmente fuori da casa, non è malaccio il tempo oggi a Bologna, non c’è nebbia, non piove cose che a una persona che viene da Palermo fanno un bel po’ piacere vista la temperatura che perdura giù nell’isola dove il più freddo inverno mantiene dodici? Dieci? No! Facciamo dodici gradi.

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La cosa più bella di correre all’aria aperta? Ascoltare della buona musica, percepire la carica di quei brani che ti accompagnano che ti danno il ritmo, guardarti intorno, osservare ciò che ti circonda perché ogni strada respira, parla e ti lancia delle occhiate sia al mattino che durante le ore buie, la sera o la notte… Perché ogni strada, ogni pianta, ogni marciapiede, ogni edificio ogni palo ha una storia da raccontare e sicuramente ne ha viste più di ognuno di noi. È proprio da lì che viene fuori l’underground dico sempre a me stesso! Non vi è mai capitato di correre all’aria aperta e creare delle immagini con la mente o pensare a degli argomenti e svilupparli durante il tragitto magari assemblandoli con la stessa canzone che state ascoltando in quel momento in cuffia? Fondamentalmente ho sempre fatto tanto sport, sin da molto piccolo ho giocato a pallacanestro e per tanti e tanti anni pur essendo basso effettivamente e incassando varie delusioni niente male. La corsa non è un’attività che amo ma la prendo come una sfida giornaliera tra me stesso e il tempo che passa, tra me stesso e il mio stato d’animo. Tra me stesso e le mie paure, giorno dopo giorno. Ho corso davvero ovunque, non solo giù in città a Palermo. Mi ricordo di aver corso una volta al mattino presto a Firenze che faceva un caldo assurdo, vicino lo stadio, di ritorno da un Fluff Fest dove ogni anno circa vado in Repubblica Ceca e ricordo che mi ero anche fatto malissimo ai piedi perché sprovvisto di scarpe adatte, ma la voglia di correre prevalse e andai ugualmente. Tra l’altro quello stesso giorno trovai la mia macchina scassinata, avevano rubato la radio e i miei cd, una marea di miei cd, tra i quali Champion, Colonna Infame, Sottopressione, No Trigger… Attenzione, quando si pensa a un immaginario “underground”, e quando si pensa a tutte le culture di composizione dello stesso, non bisogna però immaginare un mondo simile a quello dei film americani degli anni ’70 e ’80 sulle situazioni delle periferie, sul “ghetto”, non bisogna immaginare un mondo di scontri tra giovani pazzi e forze dell’ordine senza motivazioni valide e in circostanze al limite del possibile quotidiano, e non bisogna immaginare un mondo marginale, vissuto da giovani e meno giovani

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con la sola voglia di evadere dalla realtà, con la smania di vincere una società monotona, un mondo prepotente che si impossessa di spazi in modo illegale, che risponde con cattiveria e irragionevolezza e che non conosce la profondità di una “vita normale”. Underground è normalità, il voler porsi contro determinati aspetti che all’interno di ogni società, ognuna diversa da un’altra, si respirano e creano gli attori sociali portandoli talvolta, per non dire sempre, a vivere metodologicamente in modo monotono, evitando di far creare nelle testa domande, quindi risposte per le stesse. Vivere la periferia di una città, come vivere un quartiere degradato, non implica diversità. Un giovane che vive quegli ambienti può di certo sviluppare un’indole e un’ideologia tale e quale a quella di un giovane o di un meno giovane vissuto in quartiere borghese o di alto livello e a proposito di questi ultimi due esempi: è chiaro che nei quartieri dove la vita è più dura, più povera, più complicata, la spinta e lo stimolo al volere cambiare qualcosa, al volere informarsi per reagire a determinate pressioni, a determinati schemi che svantaggiano, sia maggiore. Anche nei quartieri medi o alti però il cervello di chi vi abita può svoltare verso determinati aspetti che vanno fuori dagli schemi della già citata “normalità” vista come immaginario collettivo sociale, per se stessi, perché ci si rispecchia di più in essi, perché è possibile credere in qualcosa che vada contro ed è possibile voler creare la propria identità se pur diversa dalle masse in qualsiasi angolo, posto, città, regione o nazione che sia con il proprio cervello, capendo cosa è giusto e cosa non è giusto. Vivere bene non significa per forza essere nel giusto, vivere bene significa sapere cosa si sta vivendo. L’underground tende a rispecchiare più di ogni altro fenomeno questi aspetti. Il termine cultura underground (o semplicemente underground) definisce un ampio insieme di pratiche e identità accomunate dall’intento di porsi in antitesi e/o in alternativa alla cultura ufficiale della società di massa. Il termine fu utilizzato per la prima volta da Marcel Duchamp in una famosa conferenza a Filadelfia nel 1961, nella quale dichiarò programmaticamente che l’Arte dovesse diventare sotterranea (will go underground), indi-

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cando la via per l’utilizzo del termine underground. Nel mondo anglosassone il termine “underground” (sottosuolo) venne utilizzato per indicare una “rete sotterranea di resistenza”, poi utilizzato nel XIX secolo con le Underground Railroads, reti clandestine di case sicure per affrancare gli schiavi in fuga dal Sud degli Stati Uniti. Analogamente si definì, nello stesso modo, il network che facilitava la fuga in Canada dei giovani statunitensi che rifiutavano il servizio di leva durante la guerra del Vietnam. Il termine venne anche utilizzato per indicare i movimenti di resistenza europei durante la Seconda Guerra Mondiale (The Undergrounds). L’universo undergound appare denso d’importanti cambiamenti che attraversano fenomeni sociali, certamente musicali, di consumo come di massa, politici, fino a diventare veicolo di formazione morale e identitaria. Una fitta rete di culture e “sottoculture” così chiuse da essere in continua “ricerca” e “creazione” con il continuo e fisso bisogno di essere in contrapposizione. La cultura underground è quasi sempre riferita all’aera “creativa” delle culture in generale, giovanili soprattutto, alternative e contrapposte a quelle “ufficiali”. Una fitta rete di gruppi teatrali, case editrici, spazi sociali, stampe, circoli culturali, gestioni comunitarie, librerie, serigrafie, riviste politiche e non, centri culturali, centri di raccolta d’abbigliamento usato, cine forum. Una fitta rete che si diffuse prima negli Stati Uniti D’America e che poi arrivò in Europa trovando a ogni modo un buon terreno su cui poggiare le proprie fondamenta. Si sviluppa all’interno di una società del “capitalismo avanzato”, epoca in cui i mezzi di comunicazione di massa si espandevano già a macchia d’olio e cominciavano a essere sfruttati in qualsiasi ambito, fino ai giorni nostri, l’epoca del “tutto e subito”. La cultura underground proponeva e tenta ancora di proporre un utilizzo alternativo di quegli stessi mezzi di comunicazionediffusione di stili e principi, trattenendo a differenza del resto delle azioni di routine, le azioni che la massa mantiene come proprie senza quasi chiedersi il perché delle stesse, passione e attaccamento a ogni minimo gesto piuttosto che una meccanicità e una ripetitività ottenebrante.

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L’universo underground non può essere osservato da un unico punto di vista. Alcune righe del libro di Lucio Spaziante, Dai Beat alla generazione dell’Ipod, descrivono benissimo la questione: «[…] il nostro punto di osservazione locale e decentrato può far confondere sull’esatta provenienza geografica dei vari fenomeni […] nel contesto Italiano fenomeni di tradizione locale hanno portato nel tempo a ibridazioni (pensiamo al beat italiano, al punk italiano, al progressive o all’ hip hop italiano) oppure a riletture, che ne hanno modificato il senso originario». Underground è anche “sottocultura”, anche e non solo. Questa, nel senso sociologico del termine, è un atteggiamento, uno stile di vita condiviso da un ampio gruppo di giovani. Le questioni giovanili in espansione a partire dai movimenti di piazza degli anni ’60 poi divenuti simboli scolastici di ribellione, le proteste antifasciste e le proteste operaie, l’arrivo dei suoni “americani” sbarcati a Milano per la prima volta alla fine degli anni ’50, i linguaggi gergali “selvaggi” simbolo e canone giovanile, le radio libere e indipendenti, le scelte di vita che spaziano da un semplice tatuaggio sulla propria pelle a una presa di posizione su un modello alimentare come il vegetarianesimo, il veganesimo e così via. Un territorio dai caratteri convulsi, mitici, in continuo cambiamento etnico e antropologico dove i valori umano e tecnologico sono in stretta relazione. Non è soltanto il volersi sentire diversi trovando un tramite come un’etichetta o uno strumento ma è il volere interpretare o re-interpretare se stessi inserendosi in modo “attitudinale” lontano dalla massa in questo mondo/non mondo fatto di distacco, una realtà comune piena di separazione e opposizione culturale-politica-sociale. Si vive seguendo un esempio, seguendo icone, proprio come fu per i giovani delle prime beat generation post Guerra di Corea identificandosi in un James Dean ribelle, un motociclista dal chiodo di pelle “perfetto più della perfezione”. Facendo attenzione a ciò che vuole dire “sentirsi diversi” perché troppo spesso si fa senza ancora sapere bene da cosa e come, l’underground va visto come un vissuto, un tramite per incarnare

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“diversità”, per emergere dall’amalgama sociale indifferenziato in cui si vive sommando esperienze. Underground non è da accostare sempre all’aggettivo “ribelle”, che è una vera e propria mitologia delle culture giovanili e non un reale dato di fatto anche se il tardo Novecento è stato attraversato da una “Via Lattea” composta di piccole stelle che potremmo chiamare per nome una per una: spettacolarizzazione, ottica sociale, ribellione, rottura degli schemi, trasformazione, aggressione, aggregazione, azione e così via. Atteggiarsi a “matti”, farsi allungare la barba, rasarsi i capelli a zero, riempirsi di tatuaggi, ricercare forzatamente “l’antico” e “accollarsi” determinati ascolti musicali non accosterà mai, pur con le trasformazioni temporali che il mondo vive, nessun attore sociale alla sfera oscura dell’underground in questione. Reagire all’ambiente e al mondo bisognerebbe sempre farlo, ma lo si può fare anche in modo calmo, ragionato, controllando le passioni, attivandosi e manifestando con consapevolezza e non soltanto con “impressionabilità”, estendendo il termine, concedetemelo, al ciò che si vuol mostrare anche semplicemente da un tipo di vestiario rispetto che a un altro, motivo che ha segnato i tempi. Il rifiuto generazionale, una presa di posizione politica, una presa di posizione antirazzista, il voler trovare “il giusto”, lo strimpellare e scuotere strumenti ad altissimo volume, il calpestare piazze e strade e marciapiedi, l’agire in difesa di un proprio posto, non sono giocattoli conservati dentro a una vecchia cassapanca di legno del nonno o del bisnonno, una di quelle che in tempo di guerra si usava per portarsi dietro gli affetti personali come fosse una valigia, ma sono valori, concetti e attitudini che formano le persone. L’underground è un’arte rivoluzionaria che diversificandosi e ramificandosi si è sin dall’inizio scontrata frontalmente e in modo coinvolgente col tempo. Evitando di far sparire tutto un giorno. Di rientro da un tour con una band con cui sto suonando in questo periodo, gli I Like You Ok, mi fermai a Milano per le prime interviste con l’occasione d’incontrare subito Andrea “Rock”

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di Rock Tv e Virgin Radio, personaggio radiofonico molto in voga negli ultimi anni, senz’altro con tanti pro e tanti contro. Come tutti d’altronde e come tutti quei personaggi che, lavorando nel mainstream, sono amati e odiati da chi nell’underground ci vive e non lo lascerebbe mai. Andrea non è un “mito” radiofonico o una “creatura” televisiva, ma una persona semplice e davvero disponibile. È capitato anche di prendere lo stesso aereo verso il Belgio per il Groezrock. La mattina dopo l’arrivo in Belgio, mi capitò di dover accompagnare Claudio Stanghellini la mattina prestissimo alla Press Area del Festival. Sarei dovuto andare lì da solo, guidando dall’hotel al Festival per una buona mezz’ora all’andata come al ritorno, ma Andrea, che poteva restare assolutamente indifferente, decise di accompagnarmi. In particolare il rientro in hotel quella mattina fu proprio interessante. Riuscimmo a parlare tanto di radio, di strutture interne alle radio e di programmazioni televisive e radiofoniche in ambito musicale. Andrea Toselli nasce a Milano nell’’82. Esattamente a vent’anni intraprende la sua esperienza in Rock Tv come Vj conducendo Morning Glory poi On The Road e Rock News e diventando dopo qualche anno assistente di produzione dell’emittente. Nel 2007 insieme al Dj Ringo inizia la sua carriera radiofonica a Radio 105 occupandosi della parte redazionale di Revolver. Quando nasce Virgin Radio Italia, emittente radiofonica che a oggi come ente nazionale non ha rivali e anzi risulta essere un prodotto unico nel suo genere, Andrea tramite Ringo diventerà una delle voci ufficiali. Nel 2008 ne diventerà in definitiva autore e speaker. La sua attuale band, perché è anche musicista nel mentre, sono gli Andead una band di stampo punk rock, spesso dai toni folk in pieno stile Dropkick Murphys (nota band punk rock di Boston dalle musicalità e stile irlandese). Ultimamente ha dato vita al progetto no profit Punk Goes Acoustic, che unisce diversi musicisti della scena rock milanese che propongono in chiave acustica molti classici del punk mondiale. Il progetto è anche impegnato nella raccolta di fondi per ragazzi disabili insieme all’associazione Isola Che Non C’è. Nel suo percorso musicale, ha accompagnato

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il batterista dei Ramones, Marky Ramones in tour come cantante nel 2012 ed è inoltre la voce ufficiale delle Tattoo Expo Internazionali di Milano, Roma, Torino e Trieste. L’intervista è stata girata grazie all’aiuto dell’amico Michele “Mike” Fenu, bassista dei 4th’N’Goal, dentro allo studio di Tatuaggi Nero Ink dove Mike lavora da un po’, dopo la sua prima esperienza sempre a Milano in un altro studio, Atomic Garden. Andrea Rock: «Underground, la parola stessa dice che è ciò che sta sotto la superficie, artisticamente in Italia c’è una superficie che è quella del mainstream, quindi della musica leggera, della musica pop e per pop intendo popular, ciò che è condiviso da una massa, ed è per questo che l’underground è ciò che sta sotto ed è anche esso seguito da una massa ma sicuramente più concentrata di persone che seguono un determinato trend artistico o determinati artisti e discipline, dalla musica alla pittura alla fotografia. Personalmente io ho un piede da una parte e un piede dall’altra, nel senso che professionalmente lavorando in una radio nazionale come Virgin Radio seguo tutto ciò che è il mainstream del mondo rock-pop del nostro paese, e come artista, anche se il termine “artista” non mi fa impazzire, muovo i miei passi nell’ambito dell’underground quindi ho a che fare contemporaneamente con le due realtà e riesco a vederne o meglio cerco di capirne pregi e difetti di una e dell’altra. Trovo che dal punto di vista del reddito, quindi economicamente la sottocultura e la cultura mainstream si sono avvicinate molto nel tempo perché sono finiti i soldi da entrambe le parti, questo è un aspetto che va sottolineato. Negli anni ’90 era facile che un gruppo anche underground potesse trovare dei finanziatori per un determinato progetto piuttosto che ovviamente ciò che era mainstream, era cool, era ultra sentito. Oggi anche gli artisti mainstream si trovano comunque a prodursi dischi da soli, sono diventati quasi dei gruppi indie dal punto di vista proprio discografico e della produzione. Forse la differenza più grossa è questa. All’interno della realtà underground diciamo che vedo una sorta di doppia vista, ecco trovo che ci siano gli stessi problemi nel mainstream come nell’under-

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ground […] cambiano le proporzioni, cambia probabilmente anche il numero di persone coinvolte e sicuramente i termini. Tutto ciò che c’è dietro nel fare arrivare un artista a suonare sul palco dell’Ariston di Sanremo, nell’ambito del mainstream, può esserci dietro un artista underground che decide non so, di suonare al Magnolia in manifestazioni come possono essere il Mi Ami fest. Underground non significa per forza qualcosa che non piace o qualcosa che non ha quel supporto di valore che può avere il mainstream. Ciò lo testimonia il fatto che oggi la musica che era underground ancora anche negli anni ’90 sia diventata mainstream. Il rap nasceva per piacere alla gente, oggi riempie i palazzetti e sicuramente questo è un esempio di come l’underground e contemporaneamente il mainstream siano in continua evoluzione uno sopra l’altro. Per quanto riguarda il mondo radiofonico […] già con le prime esperienze che feci a Rock Tv, parlare di underground a una massa, non piace, in realtà non piace non tanto a chi l’underground non lo conosce ma a chi lo vive e lo interpreta giorno per giorno, settimana per settimana. Contemporaneamente credo che ci sia una sorta di feticismo nei confronti di chi vive l’underground che preferisce mantenere questo tipo di passione e di ambito magari al di fuori dei riflettori […]. Secondo me la cosa può avere i suoi pro e i suoi contro, sicuramente vivi un qualcosa di più vero ma come dicevamo prima, le stesse dinamiche che non funzionano nel mainstream non funzionano nemmeno nell’underground; […] poi ci sono delle esperienze reali, come un po’ quella che sta vivendo un ragazzo che si chiama Maurizio, che tutti conoscono come Salmo, che parte nascendo nell’underground come artista hardcore quindi dedicato a una nicchia e oggi nonostante continua a mantenere un linguaggio prettamente underground, beh riempie i palazzetti, colleziona download, interessantissimi ogni volta che pubblica un disco, e su youtube è una pop star. […] Questo significa che come si diceva prima underground e mainstream sono in continua evoluzione e forse paradossalmente si sono avvicinati anche se continueranno a esistere gli artisti pop come quelli unpopular, quindi underground.

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Lavorare in radio significa avere a che fare con un pubblico non visibile di ascoltatori che viene quantizzato attraverso quelli che sono i cosiddetti “dati” sull’ascolto medio […], io lavoro in una di quelle che è tra le dieci radio nazionali italiane e una cosa importante da sottolineare è che ogni radio ha il suo pubblico di riferimento, ha un suo target editoriale da seguire per potere essere performante nei confronti del pubblico che segue quel determinato discorso radiofonico o musicale, o di intrattenimento […]. Lavorare in radio è un lavoro vero e proprio, significa che ci sono dei capi, ci sono delle responsabilità, ci sono delle cose che si possono e non si possono dire. Negli anni ’70 c’era molta più libertà, le radio avevano molta meno responsabilità mediatica rispetto a oggi, c’erano degli esperimenti un po’ folli e forse una libertà diversa che poteva essere utilizzata da parte di quelli che facevano il lavoro che faccio oggi anche io». Per inciso, “mainstream” è un termine inglese usato come aggettivo in vari campi delle arti e della cultura per indicare una corrente che, in un particolare ambito culturale, è considerata più tradizionale e “convenzionale”, comune, dominante, ed è seguita dal più grande pubblico. In American English indica anche una corrente o una tendenza che in un determinato ambito, beneficia di un seguito di massa in contrapposizione alle tendenze minoritarie. Il termine, a volte sottende un giudizio di valore, che può essere negativo o positivo a seconda dei casi e dei contesti. Un piccolo passo indietro. Conobbi Mike tantissimi anni fa in un periodo in cui mi frequentavo con una ragazza che abitava in Sardegna. Lei aveva un’amico, un ragazzone gigante che suonava in una band punkrock di Abbasanta un piccolissimo paese sardo appunto, loro erano i Fruttolanti. Quel ragazzone era Mike che poco dopo si trasferì a Milano. Per anni ha lavorato raccogliendo soldi per mettere in pratica uno dei suoi sogni, aprire uno studio di tatuaggi. Un giorno mi scrisse, mi raccontò un po’ di cose: ecco c’era riuscito, stava per aprirlo, era l’Atomic Garden Tattoo. Andai a vederlo perché ero in zona a Milano per un concerto quando ancora era in fase di lavorazione, mancavano un paio di dettagli, robe tecniche e poi

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finalmente avrebbe aperto i battenti, era bellissimo quello studio lì e rimasi contento perché c’era riuscito dopo anni di sacrifici economici, da solo. A causa di problemi interni, Mike si è distaccato da quello studio e oggi lavora al Nero Ink, altro studio in zona navigli sempre a Milano. Negli anni non ha più suonato con i Fruttolanti, ma anzi ha cambiato varie formazioni, ha suonato anche in una cover band Social Distortion, e ha fondato i 4th’N’Goal, una pop punk band che continua egregiamente a suonare affiancando anche grossi nomi come Gorilla Biscuits o H2O. I loro videoclip sono veramente imperdibili. Esattamente nel 2011, li abbiamo invitati a suonare giù a Palermo per il The Island’s Revenge Festival ora giunto alla quarta edizione. Michele Fenu – 4th’N’Goal: «L’underground per me è un po’ tutto quello che racchiude il non comune, lo stare fuori dalle regole dettate dal mercato che comunque ti dà dei paletti: devi ascoltare questo, devi fare questo, perché la massa lo fa e tutto quello che è fuori secondo me sta nell’underground. Cosa si prende per “normale”? Quello che per me può essere normale per un’altra persona magari non lo è. Diciamo che il normale di solito è quello che è massa, l’anormale è quello che fa il singolo diverso dalla massa. Senza dubbio la prima volta che mi sono avvicinato al punk, oltre ai Ramones, i Pistols, e i Clash che sarò stronzo ma non mi sono mai piaciuti, fu quando avevo circa dieci anni, mi era arrivata in mano una cassettina con su scritto Ribbed. Io per qualche anno ero stato fan di una ipotetica band chiamata Ribbed e doveva essere il ’93 o ’94. Anni dopo mi sono reso conto che non era un gruppo chiamato Ribbed ma un album dei Nofx, e da lì è cominciato tutto». Non esiste nessuna distanza e nessuna differenza di luogo o di appartenenza. Mike viene dalla Sardegna che potrebbe essere considerato un posto a sé stante, lontano da determinate scene e meccanismi, ma l’underground non è mai inciampato in queste problematiche. Michele Fenu – 4th’N’Goal: «Diciamo che non è troppo diverso, la scena della Sardegna, pur essendo un’isola, dalla scena che c’è a Milano. […] Diciamo che come tutti quelli della mia età, io ho

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ventinove anni, abbiamo cominciato ad ascolticchiare il punk italiano con i classici gruppi italiani, Derozer, Pornoriviste e Punkreas. Poi ci sono i gruppi che in realtà ancora adesso ascolto, i Negazione, i Nerorgasmo, gruppi di quel calibro lì, erano arrivati prima ma, talmente di nicchia che magari un ragazzino fa fatica a conoscerli. Con l’avvento di internet sicuramente c’è stato un cambiamento radicale, basta fare una ricerca su quello che vuoi ascoltare, due o tre parole chiave e viene fuori il mondo, quando eravamo piccoli noi non esisteva un cazzo di questo, ci si scambiava le informazioni con il proprio compagno di banco. Con i 4th’N’Goal esistiamo dal 2009. La band è un gruppo, nel senso, mi piace la situazione che si crea tra i vari componenti all’interno. Non ci si vede solo per le prove, non ci si sente soltanto per le questioni del gruppo ma ci si vede anche al di fuori, per andare fuori a cena, per andare a fare due tiri a basket magari, qualsiasi cosa, e condividere il palco con la stessa intesa con la quale vai fuori a berti una cosa con quel tuo amico è una sensazione paurosa. Esistono anche situazioni nelle quali si suona, ci si vede in saletta e poi si va a casa, ma a quel punto non diventa più hobby o voglia di suonare in giro, viene a perdersi quello che può essere il messaggio o il voler farti conoscere ecco già diventa un “lavoro”, diventi una specie di turnista qualcosa del genere. Con i 4th’N’Goal c’è stato soltanto un cambio di line-up, è cambiato il batterista con cui comunque ancora adesso siamo in buonissimi rapporti […] è questa la cosa che mi piace, che siamo un gruppo, non solo una band, un gruppo di amici. Nel tempo ci siamo “posti un limite”, il nome 4th’N’Goal, © Francesca Ghiselli 4th’N’Goal viene dalle regole

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del football americano e implica che o fai “touch down” e tieni la meta, oppure la palla passa agli avversari perché ti devi difendere. Tutti quanti abbiamo sempre avuto altre band, quindi abbiamo detto con questa qui o spacchiamo o riusciamo a fare qualcosa di grosso di bello, che non significa fare i soldi, anche perché in Italia con questo genere i soldi non li fa nessuno, ma magari toglierci delle soddisfazioni, che tra l’altro sono anche arrivate potendo aprire per gruppi come Gorilla Biscuits, Civ, Set Your Goals, Four Year Strong, sono soddisfazioni che ti togli, suonare con band che fino a qualche anno fa ascoltavi in cuffia, dicevi cazzo che bello, suonare andare in giro, e poi ti ritrovi a suonare con quelle band e dici, è la cosa più bella del mondo. Difficilmente comunque una persona che non è nel giro dei concerti, che non va a vedere i concerti capisce quanta passione c’è per chi lo va a vedere per chi lo sta facendo. Non esiste una differenza sostanziale in questo mondo tra chi suona e chi guarda, perché si condivide la stessa passione, ed è una figata. Difficilmente una persona lo capisce e questo è molto strano, però non appena lo inizi a capire difficilmente smetti di andarci e di viverteli. Esistono secondo me due tipi di persone, chi ci va perché deve andarci, e chi ci va perché gli piace […], se ci vai perché devi andarci e vai solo in quel momento, appena smetti non ne senti la mancanza, se lo fai perché ti piace ogni qualvolta che hai la possibilità, fai di tutto e vai». L’underground è un insieme di movimenti, culturali e artistici anticonformisti, che contrastano la cultura ufficiale e i mezzi usati per la sua espansione. Underground sono concettualmente insiemi di ideologie, proprie o aggreganti, il tutto sorretto da una cultura alternativa, da valori alternativi e spesso conflittuali (come ad esempio in America poteva essere il mito del denaro e del successo condizionante la vita di ogni americano e quindi visto come il “male del secolo”). In questo modo si ricostruiscono pezzo per pezzo meccanismi sociali d’espressione (civile), di produzione (come nell’industria, quindi nei centri sociali o nelle comuni), di stampa (flyer, fanzine, webzine, tipografie e radio di contro-informazione e serigrafie “do it yourself”).

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In Italia la cultura underground ebbe indiscutibili meriti nel diffondere le nuove tendenze dell’arte e della cultura contemporanea: dalla psichedelia alle filosofie orientali, dalla fantascienza alla letteratura beat. Rilevante fu l’esperienza della rivista milanese Mondo beat (1965-1966), accanto alla nascita dei primi gruppi hippy. In Italia e Francia esercitò una certa influenza anche il movimento situazionista, all’interno del quale convivevano sia la teoria rivoluzionaria che le azioni dirette di provocazione pubblica. L’Internazionale Situazionista fu un movimento rivoluzionario sia in campo politico che artistico, che trovava sue radici nel marxismo, nell’anarchismo e nelle avanguardie artistiche di inizio ’900. Formatosi nel 1957 rimase attivo in Europa coinvolgendo per tutta la durata degli anni ’60 i movimenti di rivolta e puntando a trasformazioni sociali e politiche. A partire dagli anni ’80 in realtà il mondo underground si comincia a confrontare con le nuove tecnologie, sviluppando primi esperimenti collegati all’utilizzo di internet nello specifico, alla multimedialità e ai nuovi linguaggi espressivi. Fu però dagli anni ’90 andando avanti fino al 2000 che si creò una spaccatura, una scissione totale e percepibile con i decenni precedenti, scavalcando ciò che quegli stessi anni avevano voluto trasmettere alle generazioni che sarebbero state future, successive. Nuove erano le tecnologie (l’utilizzo per la prima volta del fax durante il movimento della Pantera nei primi anni ’90) ma anche i canoni artistici, musicali, filmografici adesso più avanzati e distanti dal passato. Risultati ottenuti dalle generazioni precedenti, inutile negarlo, oltre il tentativo di cambiamento e scissione, perché è proprio da lì che proviene la voglia di “indipendenza” sfrenata rispetto al vecchio. Si diffuse così l’elettronica, generi musicali forse propensi ad accrescere e sviluppare sensazioni più che a inviare un messaggio e un concetto verso il singolo o il gruppo (l’evoluzione e formazione del movimento cyberpunk inoltre legato alla fenomenologia identitaria, quindi alla scelta transgender). Un processo talvolta “visionario”, un fenomeno paragonabile allo storico o letterario “male di vivere” è ciò che avvolge le nuo-

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ve generazioni purtroppo talvolta distaccate dall’essenza underground reale, originale, cruda, pratica e magari più attaccate a “fenomenologie” poco concrete, visibilmente passeggere, “volanti”. Quell’arma a doppio taglio chiamata “internet” ha trasformato del tutto le varie sfere culturali e sottoculturali che compongono le società di tutto il pianeta. Oggi, la velocità e l’immediatezza con le quali è possibile venire a conoscenza di determinati fatti, la possibilità di poter aver luce su se stessi semplicemente stando seduti dietro a un computer a casa, hanno scardinato delle meccaniche sociali e identitarie, non rivisitandole ma proprio riscrivendole da capo con una differenza: per chi proviene da un passato transitorio, cioè ad esempio dagli anni ’80 e per chi ha attraversato tutto questo periodo di trasformazioni e crescite tecnologiche, vivere questa epoca “veloce” ha dei vantaggi enormi, sia per l’informazione che per gli ascolti. Per chi invece ha annusato per la prima volta negli ultimi anni quest’aria “alternativa” ha soltanto acquisito sporadici momenti. In questo modo si può solo creare e ricreare se stessi con così tanta facilità e velocità da non poter mantenere del tutto una propria posizione e una propria immagine, sicura, informata, decisa. L’underground è un veicolo di “costituzione identitaria”. Il cambiamento sociale è assolutamente coinvolto e scandito dalle varie sfaccettature di questo grande e oscuro mondo. I movimenti giovanili, i diversi stili, le mode, i generi musicali, la miriade di percorsi paralleli, hanno attraversato come una pallottola esplosa da un fucile a pompa l’intera società contemporanea. Che l’underground sia legato in un certo modo alla musica, è ormai risaputo. La musica d’altronde ha attraversato da sé fenomeni sociali, si è proiettata verso forme di consumo, divismo, aggregazioni collettive e molto spesso politiche, un vero è proprio strumento di formazione e trasformazione sociale, soprattutto giovanile. L’underground trattiene in sé dei contenuti di notevole spessore e osserva un orizzonte, che non sempre è limpido, ma che restituisce a chi ne fa parte un’identità chiara. Porsi dalla parte di chi, senza conoscenze dei fatti, decide di identificare questa sfera a un

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basso livello culturale, vuoto o poco importante, fa una mossa sbagliata, ci si dovrebbe reputare ignoranti in quel senso, etimologicamente parlando. Indossare un’identità, indossarla proprio come un vestito, che sia accostabile a questo mondo è oltremodo sbagliato, tanto quanto l’azione prima indicata, anche ciò è sintomo di ignoranza. Identità è una parola molto importante a livello morale e sociale. Il concetto d’identità, nella sociologia, nelle scienze etnoantropologiche e nelle altre scienze sociali, riguarda la concezione che un individuo ha di se stesso e nella società. In Uno Nessuno Centomila Luigi Pirandello scrisse: «La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo». Possiamo cambiare noi stessi anche una volta al giorno, non sarà mai un’azione duratura nel tempo, ciò che si è sarà per sempre e accadrà soltanto trattenendo se stessi e la propria forma d’essere mentale, fisica, morale, altrimenti si morirà dentro, restando fuori posto a vita. Vivere l’underground in modo identitario dà sì la possibilità di poter spaziare da ambiente ad ambiente anche in modo molto veloce e irrazionale, ma lo fa spingendo noi stessi a informarci su ciò che stiamo per fare restando legati alla nostra idea, alla nostra figura, alla nostra prestanza, al nostro essere veri. Inserirsi in determinati ambienti come mine vaganti, come meteore super veloci e pronte a scontrarsi e sgretolarsi porterà sempre e soltanto confusione e mai una visione chiara di ciò che in realtà è questo oscuro buco, profondo, misterioso e rumoroso. Identità è il modo in cui l’individuo considera e costruisce se stesso come membro di determinati gruppi sociali, nazione, classe, livello culturale, etnia, genere, professione e così via. Si tratta del modo in cui le norme di quei gruppi fanno sì che ciascun individuo sappia porsi, comportarsi, relazionarsi con se stesso e con gli altri, con il gruppo a cui afferisce e con i gruppi esterni intesi, percepiti e classificati come alterità. Identificazione, individuazione, imitazione e interiorizzazione sono i processi che portano ognuno a creare la propria persona,

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questo accade “socialmente” in ogni ambito, quindi la normalità tanto discussa dalle masse è normalità e lo sarà anche in ambiti poco conosciuti e poco presi in considerazione come è stato nel passato e come lo è, anche se in modo minore, per l’underground nella sua totalità. Ognuno di noi ha un ruolo. Ogni ruolo compone le società del mondo. Non esiste un maggiore o minore ruolo in questo senso compositivo. Underground nella sua terminologia è un movimento culturale e artistico che si oppone intenzionalmente alla cultura tradizionale e ufficiale utilizzando forme espressive, sistemi di diffusione e sistemi di produzione alternativi rispetto a quelli usuali. Cultura tradizionale e produzione alternativa: provando a mettere a confronto questi due concetti invito a riflettere sul fatto che “tradizionale” non significa “migliore” e “alternativo” non vuol dire “peggiore”. Determinati concetti sono soltanto fissati nella mente umana rispetto a percorsi storici ed eventi accaduti, molti di questi sono poco ragionati nella realtà dei fatti come accade per la concezione dell’“essere occidentali”. Edward W. Said in Orientalismo scrisse: «Il concetto di Oriente suscita in genere associazioni con l’Estremo Oriente, con la Cina e il Giappone soprattutto. Diversamente dagli americani, francesi e inglesi – e in minore misura tedeschi, russi, spagnoli, portoghesi, italiani e svizzeri – hanno una lunga tradizione in ciò che designerò col termine Orientalismo: vale a dire un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale. L’Oriente non è solo adiacente all’ Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente). Nulla, si badi, di questo Oriente può dirsi puramente immaginario: esso è una parte integrante delle civiltà e della cultura Europea persino in senso fisico».

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Solitamente funziona così anche per la religione no? Storicamente l’Occidente è cattolico e cristiano, a priori. Valori identitari, questi, che spesso si sviluppano lontani da una dovuta informazione sui fatti storici oltre che dal prendere visione delle scritture, le stesse che sono state in periodi storici “bui” come il Medioevo, ricopiate più e più volte in varie parti d’Europa da mani diverse, su diverse tipologie cartacee e secondo un proprio stile di scrittura e grammaticale tanto da essere variate a seconda di chi la stava ricopiando. Questo lato del mondo storicamente ed eticamente “occidentale” scricchiola, presenta delle grosse crepe.

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tempo


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olitamente l’ora di pranzo è quella in cui si guarda il primo serio telegiornale della giornata, d’altronde al mattino appena svegli mentre si fa colazione mentre passano le notizie del primo telegiornale si è attivi, ma non troppo e di notizie se ne incamerano veramente poche o meglio si incamerano male. Ci sono poi gli affezionati al cartaceo che leggono il giornale, alcuni seduti in bagno come fossero nel loro ufficio. Anch’io leggo, soprattutto quando sono a Palermo, proprio perché mio padre è un affezionato e compra ogni mattina il mitico Giornale Di Sicilia. Prosegue così questa avventura. Quando sei piccolino e cominci a vivere la scuola in senso più formativo che giocoso come alle scuole medie, ti ritrovi a studiare materie tipo l’educazione civica. In realtà anche prima in un certo senso ti si dovrebbero creare delle basi conoscitive: sulla società, sulla politica del tuo paese e cose di questo tipo. L’insegnamento, lo studio di alcune materie, sono metodi questi, assolutamente importanti e utili per la formazione di ognuno di noi ma non i più diretti magari: il dialogo prima di tutto crea un’impronta massima, soprattutto da giovanissimi. Sono stato abituato a dialogare su qualsiasi tipo di argomento senza distinzione alcuna sin da piccolo dai miei, si parlava di attualità o di televisione o di sport e da lì ho sempre tentato di avere un parziale, almeno parziale, quadro della situazione nei vari anni trascorsi. L’indagine credo sia un altro di quei metodi diretti fondamentali per creare delle basi conoscitive e culturali per ognuno di noi. È un fuoco sempre acceso che spinge alla lettura o all’ascolto, che produce ricerca e quindi formazione di idee e di pensieri da gesti-

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re in modo attento e intuitivo come fossero stimoli. Bisognerebbe sostituire un tempo vitale trascorso o attuale, in un mondo prima personale e poi comune, in un tempo vitale attuale e narrativo. Alcune volte mia mamma mi portava a far degli scioperi sotto il Palazzo Reale a Palermo. Chiaramente essendo piccolo la prendevo più con divertimento che con cognizione di causa. Per me quella era una prima base d’indagine, volgere uno sguardo all’esterno al di là della monotonia giocosa giornaliera, al di là dei meccanismi senz’altro giusti che ogni ragazzino, che ogni bambino, deve vivere ma che credo possono essere un aiuto e uno stimolo diretto a utilizzare la concentrazione sullo spazio che circonda le vite di ognuno, di ogni “attore sociale”. Bandiere al vento e fischietti che risuonavano compatti in senso di protesta, cori e striscioni. Eravamo in molti, decisi, camminavamo in avanti compatti verso l’ingresso del Palazzo Reale. Non so se ero l’unico bambino in mezzo a quella folla ma mi sentivo parte del tutto, credo siano stati d’aiuto quei momenti, ricordo benissimo l’andamento della giornata, quasi avessi scattato una foto e la stessi guardando adesso. Mi ricordo quando la mafia (parola per molti “giocosa” con la quale si prende in giro con ignoranza il sud di questo paese, spesso musa di “motivi” artistici senza rendersi conto del peso di questa realtà) fece saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino, eravamo tutti per strada. Fu sempre con mia mamma che andai a fare quella catena umana che si concluse in cattedrale dove come di consueto, puntuali le forze dell’ordine agirono per testa di chi sopra di loro, o per testa loro, facendo scudo per non far passare la folla. L’attualità è noi stessi, prima adesso e anche dopo. Aver percezione della realtà, leggere e conoscere l’accaduto o ciò che sta accadendo è fondamentale per la costruzione non qualunquista di una propria identità, quindi base della nascita di nuovi movimenti, punto di forza di temi di ribellione, cuore di ogni periodo storico. L’oscura giungla underground al contrario di parecchi altri ambienti soprattutto legati al mondo giovanile, come d’altronde può essere la “piattezza” delle discoteche, si è sempre mossa

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con intelletto e intelligenza e lo si nota dal livello di attinenza che possono avere realtà come quelle degli spazi sociali o liberati, con gli andamenti politici di un quartiere, e ancora il valore testuale di parecchi brani soprattutto nel punk: uno sguardo attento e dettagliato al contesto che si vive, al periodo, all’ambiente. Anche se poco elegante e non troppo all’avanguardia, viste le tecniche e i metodi d’azione, il mondo underground è sempre stato a suo modo informativo e costruttivo. Con le proprie mani sono state scritte delle pagine, sono state stampate delle riviste autoprodotte, con la propria voce è stata cantata una canzone, è stata lanciata la carica durante una manifestazione, con il proprio cuore si è assistito a eventi, alla perdita di un proprio spazio, alla morte di un proprio amico, con la propria testa ci si è scontrati contro errori compiuti, si è caduti in ginocchio e ci si è rialzati per ricominciare al meglio delle proprie possibilità e aspettative. «Cosa volevo? La politica mi faceva sentire vivo ed era ovunque. Cercavo una moralità superiore, quella che nelle grandi scelte e nei gesti quotidiani ti spinge a dare chiedendo in cambio la sola sensazione di partecipare alla storia comune.» (Militant A, Storie di assalti frontali) Gesti quotidiani come guardare un telegiornale, concentrarsi sullo scambio di notizie date durante la diretta, dovrebbe far scattare delle domande nel nostro cervello, creare dei collegamenti tra presente e passato, dare coscienza dei fatti e proiettarci al futuro. La società tende a instradare o imporre talvolta nella rappresentazione che crea di se stessa, tra lati positivi e negativi, tra i suoi “nemici” e “amici”, delle categorie ideologiche di comprensione del mondo che ruota attorno alla vita di ogni essere vivente, di ognuno di noi: passato, presente e futuro. Bisognerebbe esser capaci di scindere notizia per notizia anche rispetto alla voce dei media che non troppo spesso percorrono un cammino lineare ma anzi preferiscono secondo i propri canoni ideologici, e di audience, rimarcarla con una propria linea più o meno “veritiera”. Comprendere e aggiornarsi sulle notizie giornaliere è utile a creare una relazione fondamentale per quel che riguarda le culture o la cultura di ogni uomo all’interno del modello societario

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in cui si vive. L’incontro dell’uomo nella sua totalità con il resto del mondo nella sua totalità produce una realtà che appartiene all’uomo e al mondo in una totalità che diverrà la loro, insieme. La televisione è oggi una delle “droghe” più potenti, uno degli elettrodomestici più invadenti, che ha cambiato ritmi e abitudini della maggioranza assoluta delle famiglie italiane. La sua iper diffusione è malsana, anche se come tutti gli strumenti e i media non è certo da sottovalutare, la televisione è una delle invenzioni più importanti e usufruite dell’ultimo secolo, ma ne andrebbe capito il buon utilizzo, con occhio critico e disincantato, visto soprattutto l’odierno palinsesto televisivo e i suoi contenuti. Tutti i soggetti, “alternativi” o “normali” vengono in questo modo spediti in un tempo e uno spazio “spettacolare”. Ci si identifica con la realtà dell’informazione allontanandosi dalla realtà quotidiana nella quale si è “costretti” a vivere, ed è forse questo che porta poi alla creazione di masse, di ideologie distorte e colme di ignoranza. Dalla televisione, o meglio, dalla “realtà” televisiva a quella umana sembra non esserci una linea di demarcazione e nessuna differenza ma nella realtà dei fatti sono come due pianeti totalmente differenti, questa è un’ottica che nel passato era ancora salda, ma che oggi si sta del tutto perdendo. Le stesse proposte televisive e l’alternarsi di programmi che mostrano dei mondi “attuali” legati alla vita dei giovani, quindi allo svolgimento della vita, sono in realtà devianti rispetto al vero vivere dell’essere umano, che tenterà a suo modo col tempo di immedesimarsi in quei prototipi di vita proposti trasformando se stesso e accorgendosene a volte troppo tardi, avendo perso la propria vera identità o creando motivi sociali a quel punto falsati (i reality show). Così, la variante: si è impegnati, politicizzati, ribelli o “rudi”. Proletario, studente, incurante delle regole, cane sciolto: le regole della strada valgono più d’ogni altra cosa, il rifiuto, la ricerca di una propria libertà, talvolta si è violenti e aggressivi, aggregati in collettivi, crew, bande. Il “ribelle” è una delle mitologie formative delle culture giovanili. Rispetto al significato più moderno del termine il ribelle,

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non curante delle regole, il “poco di buono” il “ragazzo di strada” contro tutto e tutti potrebbe essere assimilato alla figura del “bohemien” come suggerisce Lucio Spaziante nel suo libro, questi artisti parigini della prima metà del 1800 dediti all’uso di droghe, alcool, all’omosessualità, all’estremismo politico e concentrati nel quartiere degli artisti, a Montparnasse: una rappresentazione contemporanea del modello giovanile “alternativo”. Il ribelle, certo, non è solamente colui che agisce in modo scoordinato e lontano dalla gestualità normale, o vista “normale” dalla società di riferimento. Si è ribelli anche con la mente, studiando, sapendo trasformare con la propria cultura e le proprie passioni la propria vita e non solo quella di un’immaginaria classe o di una società di riferimento, ma prima di tutto adattando a se stessi un’identità ragionata, facendolo però anche con cultura, con forza d’animo, passione, e trattenendo in sé valori e attitudini, pur che siano del tutto diversi da quelli del mondo circostante. Il ribelle non è colui che materialmente devasta, ma che incanta in modo devastante. Un Passo Indietro Le questioni giovanili più vicine alla politica e insite nel mondo underground si snodano a partire dai movimenti di piazza dal 1960 in poi, in Italia al centro di tutto c’era l’azione: rifiuto della metodologia, mente rivolta esclusivamente all’azione per scatenare la reazione del potere e delle politiche. Era proprio la politica la dimensione sociale giovanile prevalente negli anni ’60 e ’70 in Italia e dunque la musica e le culture ne erano strettamente collegate. Dal 1966 come in una reazione a catena una serie di eventi sociali segnarono in Italia un forte cambiamento di clima. Ci si muoveva su nuove linee, una mobilitazione di risorse pratiche della cultura e della difesa identitaria, in modo non egemone per contrastare i significati dominanti, di massa. Dallo spazio politico pubblico all’underground, la strada fu breve. Espansione e contaminazione sociale crearono un amalgama perfetto che coinvolge-

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va adesso individui di ogni età su uno sfondo accessibile fondamentalmente a tutti, la strada. Emerse un “rumore di fondo” culturale, compatto. A impensierire le classi superiori non erano soltanto le conquiste politiche e sindacali del movimento operaio, ma anche le conseguenze socio-culturali degli aumenti salariali, della diminuzione dell’orario di lavoro e del riposo settimanale obbligatorio. Da un lato la ricerca di un proprio tempo libero al quale destinare qualche soldo in più dei propri guadagni, dall’altro un rifiuto di comprensione vista l’abitudine da parte delle classi dominanti rispetto al loro “lifetime” quotidiano. Capro espiatorio? Cominciarono a esserlo i giovani, quasi fosse una figura imposta da una società ormai ansiogena e repressiva alle prese con una corsa contro i ritmi dettati dalla nuova capitalizzazione mondiale, alle prese con lo sviluppo delle comunicazioni di massa e in piena fase di incertezza politico-sociale viste le trasformazioni tecnologiche ed economiche conseguenti. Come suggerisce Valerio Marchi nel suo Teppa: successe come nell’East End Inglese, si espanse un motivo di “moral panic” legato ai movimenti giovanili quasi fosse un allarme poi generalizzato da titoli di giornali come quello del Times nel 1862 quando si parlò di “Giovani Strangolatori”. I grandi rivolgimenti giovanili degli anni ’60 e ’70 divennero la “demonizzazione” di una società in perenne ricerca di un capro espiatorio. Il 1968 fu l’anno delle intensificazioni di lotte politiche, rivolte sociali, occupazioni universitarie e della “militanza”, adesso nuovo e saldo fenomeno di massa giovanile. In tutto il mondo si diffuse a macchia d’olio questo nuovo modello che vedeva i giovani studenti come protagonisti in prima linea delle lotte per il cambiamento. Un rifiuto generico e metodologico della violenza mentale e fisica. Voler cambiare subito e con urgenza la situazione in cui ci si trovava. La presenza di operai e padri di famiglia esasperati, di donne e studenti insieme fu la caratteristica del ’68 italiano, il più intenso e ampio tra quelli dell’Europa insieme con quello Francese. Una

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contestazione proveniente da un malessere sociale profondo creato da un boom economico che aveva agevolato e giovato per lo più la borghesia e che non aveva creato un adeguato aumento del livello sociale ed economico delle classi minori. Verranno attuate forme di ribellione e protesta fino ad allora sconosciute: occupazioni di scuole e università, manifestazioni con scontri diretti tra giovani, operai e forze dell’ordine anche con armi grezze, inventate, create apposta. Bisognava a ogni modo ribellarsi, gli operai per la loro condizione nelle fabbriche, gli studenti per l’estensione del diritto allo studio anche per chi si trovava in condizioni economiche più disagiate. Già nel 1966 avveniva a Trento la prima occupazione di un’università a opera degli studenti che presero la facoltà di sociologia. Si protestava contro il piano di studi e lo statuto che in quegli anni era in fase di elaborazione. Un’occupazione poi conclusa a causa di un’alluvione, un’occupazione che vide attivi gli stessi studenti al di fuori del contesto universitario riversati in strada, con volantini e raccolte di fondi da dedicare alle zone maggiormente colpite del settentrione. La scintilla “sessantottina” legata al mondo studentesco scattò invece a Milano vista la situazione di disagio degli studenti dell’Università Cattolica Del Sacro Cuore e a Torino, dove i protagonisti principali furono gli studenti della facoltà di architettura. «Contro la repressione l’insurrezione» era lo slogan che in quel periodo compariva per la maggior parte sulle mura cittadine. Già dal maggio ’68 tutte le Università esclusa la Bocconi, erano occupate. La lotta studentesca venne in un primo momento sottovalutata dai politici e dalla stampa e fu così più facile l’unione di questo movimento alle lotte che gli operai muovevano dalle fabbriche con scioperi e sabotaggi. Il paese era adesso spezzato da tensioni ingenti, sempre più radicali e rivoluzionarie. Era una protesta di natura controculturale e anticonformista, oltre che rivoluzionaria, e questo fece sfuggire di mano la gestione alla classe politica e dirigente del periodo. Al di là dei contenuti politici che in quel momento accomunarono vari partiti della sinistra come il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista,

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il movimento soprattutto nella parte giovanile non aveva credo né appartenenza specifica. Fu un rivolgere delle domande tramite azioni dirette all’intera società. Si combatteva per il “6 politico”, si indossava l’eskimo, si spingevano varie tesi su argomenti di spessore attuale come la guerra in Vietnam. Al di là della politica, attraverso la musica è possibile distinguere movenze e fratture nette che si muovevano tra i giovani in quei periodi abbastanza “travagliati”. Gli scontri con i neofascisti, il supporto alle famiglie operaie, le occupazioni degli spazi scolastici e in particolare la strage di Piazza Fontana del ’69 trasformarono l’Italia in un teatro di guerra civile che si muoveva in sordina, dal e nel sottosuolo urbano. Ogni piccolezza nello svolgimento “sociale” della vita doveva adesso scendere a patti con la politica, pena, l’esclusione dalla vita sociale stessa. Per questo che ci si divideva in fazioni tra l’underground freak (pacifista, movimentarista e libertario) e quello più politicizzato (operaista, radicale, estremo, ortodosso e rivoluzionario), gruppi, ognuno con il proprio locale di riferimento o lo spazio sociale occupato o la propria via dove vedersi puntualmente per argomentare, criticare, o semplicemente ridere bere e ascoltare musica proprio come racconta Marco Philopat nel suo libro Costretti a sanguinare o come riportava nelle sue pagine la rivista-organizzazione Re Nudo. La strage di Piazza Fontana è di quegli eventi che ti attraversa da parte a parte, ogni volta che ne riemerge il ricordo o che qualcuno ne parla, quel momento riaffiora e si materializza come fosse una proiezione istantanea di un film su una parete appena imbiancata. La pesantezza e le responsabilità di quel momento sono parte di un vissuto sociale che ha coinvolto varie sfere, non soltanto una bomba esplosa. La strage di Piazza Fontana fu conseguenza di un grave attentato terroristico compiuto il 12 Dicembre 1969 nel centro di Milano. Viene ritenuto un evento chiave, di apertura a un periodo che storicamente è conosciuto come strategia della tensione e passato alla storia in Italia. Molti esponenti anarchici e della destra estrema vennero indagati e accusati a riguardo, ma vennero poi tutti assolti in sede giudiziaria.

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La bomba scoppiò nel pomeriggio di quel 12 Dicembre nella sede della Banca Nazionale Dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano uccidendo diciassette persone e ferendone molte altre. Nel mentre a Roma esplodeva una bomba nel passaggio sotterraneo che collega Via Veneto e la Banca Nazionale Del Lavoro con l’ingresso di via San Basilio, e altre due bombe esplodevano in Piazza Venezia tra l’Altare Della Patria e il Museo Del Risorgimento. Controverse interpretazioni, poche le responsabilità prese. Attraversando quella piazza a piedi mi capita spesso di immaginare l’accaduto, ed è facilissimo collegare parole, testi e musiche di canzoni che ne parlano. Luna Rossa noto brano di Claudio Bernieri suonato prima dai Yu Kung, band milanese del 1970 e poi interpretato da La Banda Bassotti, band romana appartenente alle sfere “red skin” e punk con base a San Lorenzo, è uno di quei brani che a ogni ascolto riesce a trasmettere forti sensazioni: il rumore dei vetri che si rompevano, le sirene che suonavano all’impazzata, il terrore tra la gente. «Il pomeriggio del 12 Dicembre in piazza del Duomo ce l’avete illuminato ma in via del Corso non ci sono le luci per l’Autunno caldo il comune le ha levate. In piazza Fontana il traffico è animato c’è il mercatino degli agricoltori sull’autobus e a Milano in poche ore la testa nel bavero del cappotto alzato. Bisogna fare tutto molto in fretta perché la banca chiude gli sportelli, oh come tutto vola così in fretta risparmi gente tutto così in fretta. No, no, no, non si può più dormire la luna è rossa e rossa di violenza, bisogna piangere i sogni per capire che l’unica giustizia borghese si è spenta! Scende dicembre sopra la sera sopra la gente che parla di Natale se questa vita avrà un futuro metterò casa potrà anche andare. Dice la gente che in piazza Fontana forse è scoppiata una caldaia là nella piazza 16 morti li benediva un cardinale. No, no, no, non si può più dormire la luna è rossa e rossa di violenza bisogna piangere i sogni per capire che l’unica giustizia borghese si è spenta! Notti di sangue e di terrore scendono a valle sul mio paese chi pagherà le vittime innocenti? Chi darà vita a Pinelli il ferroviere? Ieri ho sognato il mio padrone a una riunione confidenziale si son levati tutti il cappello prima di fare questo macello. No, no, no, non si può più dormire la luna è rossa e rossa di violenza bisogna piangere i sogni per capire che

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l’unica giustizia borghese si è spenta! Sulla montagna dei martiri nostri tanto giurando su Gramsci e Matteotti sull’operaio caduto in cantiere su tutti i compagni in carcere sepolti. Come un vecchio discende il fascismo succhia la vita ad ogni gioventù ma non sentite l’urlo sulla barricata la classe operaia continua la sua lotta. No, no, no, non si può più dormire la luna è rossa e rossa di violenza bisogna piangere i sogni per capire che l’unica giustizia borghese si è spenta. No, no, no, non si può più dormire la luna è rossa e rossa di violenza bisogna piangere i sogni per capire che l’unica giustizia borghese si è spenta.» (Claudio Bernieri, Luna Rossa) In queste parole si può ancora percepire il clima di terrore di quegli anni, la rabbia di quei momenti, la voglia di tirar fuori tutto ciò che si poteva per raggiungere il proprio scopo. Più a destra si affermava e veniva a galla il Fronte della gioventù che pur vivendo una quasi totale emarginazione pubblica, esprimeva istanze di opposizione al sistema in modo quasi antimaterialista. Un movimento che nel tempo si affiancherà anche rinnegando questo legame nel modo più ignorante e obsoleto alle più estreme frange politiche di destra , anacronistiche, nichiliste, razziste, nazi-skinhead, come l’attuale Forza Nuova o Casa Pound. Già durante i movimenti del ’68 all’interno delle contestazioni studentesche alcuni dei “capifila” erano di destra, ma dopo l’assalto del 16 Marzo alla Facoltà Di Lettere della Sapienza di Roma ordinato dall’MSI (Movimento Sociale Italiano, destra nazionale) per evitare di perdere la nomea di “partito dell’ordine”, ci sarà la frattura tra i gruppi che si divideranno in Movimento Studentesco guidato dalla sinistra e Movimento Studentesco Europeo seguito dalla destra anti contestazione (soprattutto a Roma e a Messina). Dagli anni ’60 a oggi si è passato dall’informazione o controinformazione come quella di La Zanzara, giornale studentesco che tentava di affrontare problemi come la condizione femminile di quegli anni, la famiglia, il matrimonio e la sessualità, alla più odierna informazione di radio pirata o indipendenti, webradio. La Zanzara era il titolo del giornale studentesco del Liceo Parini di Milano, fondato nel 1945. La rivista, che nella sua storia ebbe giovani redattori divenuti poi firme importanti nel giornalismo

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italiano come Walter Tobagi, è nota per uno scandalo scoppiato nel 1966, quando la pubblicazione di un articolo sulla sessualità degli studenti portò alla denuncia e al processo di tre suoi redattori. Il 14 febbraio 1966 la rivista, organo ufficiale dell’associazione studentesca pariniana, pubblicò un’inchiesta dal titolo Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso. L’articolo portava la firma di Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano. Nell’inchiesta emersero le moderne opinioni di alcune studentesse del liceo sulla loro educazione sessuale e sul proprio ruolo nella società. L’associazione cattolica Gioventù Studentesca protestò immediatamente per “l’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune” in quanto non solo uno degli argomenti trattati (l’educazione sessuale) veniva considerato osceno, ma anche perché le intervistate erano tutte minorenni. A metà degli anni ’70 sempre a Milano nasceva la rivista Mondo Beat. Era un periodo di crisi per le organizzazioni della sinistra extra istituzionale: molti gruppi si sciolsero e le identità politiche cominciavano a mischiarsi. Si aprì da allora la strada al reclutamento di giovani militanti da parte delle organizzazioni armate. Mondo Beat divenne uno dei primi veri fenomeni contro-culturali italiani, una rivista ma anche un luogo di incontro che emergeva da una voglia giovanile di aspirazione a desideri che portava non più a star fermi a pensare, ma piuttosto a lottare per cancellare il passato e dar forma al proprio presente: dall’anarchia all’antirazzismo, dall’orientalismo alla questione sociale operaia, filo conduttore una continua critica delle istituzioni: antiborghesi, antirazzisti, contro le logiche di mercato, al di fuori dei soliti partiti politici, al di fuori dai più banali gruppi di hippy ma più vicini a un modello di rinascita cittadina dal basso prendendo spunto da realtà quali la “free city” di Haight-Ashbury o San Francisco. L’obiettivo era quello di liberare degli spazi urbani, spesso nei centri cittadini, come fu poi per la stazione metro di Piazza Cordusio a Milano.

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Mondo Beat è il primo giornale underground italiano. Appare il 15 novembre del 1966 come foglio di comunicazione di alcuni gruppi fra cui l’Onda Verde che operava a Milano già da qualche mese. L’Onda verde agiva coinvolgendo prevalentemente giovani affrontando i rischi del periodo come un’elevata frammentazione in gruppi o una strumentalizzazione da parte di forze politiche organizzate o di gruppi culturali o di gruppi di potere economico. Era un movimento molto attento al non creare confusione nei programmi, al non creare scarsa consapevolezza dei metodi e dei risultati dell’operare sociale. Mondo Beat era seguita e diretta da Vittorio Di Russo e Melchiorre Gerbino, anche se il primo dovette presto allontanarsi dalla città dopo ricezione di un foglio di via al quale si oppose diverse volte finendo in galera. Nei primi numeri della rivista si parlò molto dell’accaduto, come dei programmi dell’Onda Verde e dei suoi componenti: “beats” e “provos” (provo è il nome di un movimento controculturale nato nei Paesi Bassi alla metà degli anni ’60: la filosofia dei provos, provocatori, si proponeva di indurre l’autorità a rispondere violentemente ad azioni non violente; le tematiche da loro sostenute anticipavano le battaglie contro il consumismo e per l’ecologia che si affermeranno nel decennio successivo) tutti operanti soprattutto a Milano. Da questo momento Mondo Beat si pone come la voce dei “capelloni” in Italia, estende e generalizza le loro manifestazioni quasi quotidiane, i loro scioperi della fame, gli indici di agitazione a livello nazionale e le repressioni sempre più forti sia della polizia che della stampa d’informazione. Il ’77 è un anno che difficilmente la storia dei movimenti italiani scorderà o chiuderà dentro a un cassetto, scandito da un movimento spontaneo nato principalmente nell’area dei gruppi extra parlamentari di sinistra. Caratterizzato dalla dichiarata contestazione al sistema dei partiti e dei sindacati ma anche dei movimenti politici come erano stati fino ad allora e soprattutto dalle proposte tematiche inedite. Stavano per crollare le organizzazioni extraparlamentari che avevano capeggiato e guidato le lotte sociali negli anni successivi

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la zanzara, giornale studentesco del liceo parini, Febbraio 1966 46


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al ’68. Nasceva l’idea di “università di massa” concluso il periodo della “scuola classista” con l’emanazione n. 162 dell’ assegno di studio universitario (1969) che aprì le porte degli studi anche ai giovani meno abbienti. Adesso il rigore rivoluzionario adoperato dai movimenti sessantottini risultava inadeguato. Il movimento femminista fu parecchio partecipe in questi anni con le sue istanze di liberazione dall’oppressione sessista maschile. Erano gli anni delle azioni politiche di Marco Pannella impegnato come “radicale” sulla difesa dei diritti umani, civili, per il pacifismo e la non violenza. Cominciano a emergere le prime “radio libere” dopo la liberalizzazione delle trasmissioni nel ’76. Ci siamo, arriva puntuale la prima ondata di subcultura punk identificata con l’appellativo di “punk 77” proprio come in America e in Inghilterra e l’idea del “no leader” si diffonde come motivo aggregante tra i giovani. Le pratiche di lotta di quegli anni tendevano a proporre un modello d’azione diretto, dove il cambiamento doveva avvenire subito. Riappropriazione dei beni e degli spazi rivendicati come diritto, occupazioni, autoriduzione di bollette e servizi, tutte pratiche alle quali cominciavano ad affiancarsi e collegarsi movimenti di azione extraparlamentare di sinistra come “antifascismo militante”. Il movimento del ’77 coinvolse i settori emarginati della società, si espanse fino alle periferie più degradate che di lì a poco diverranno punti focali di diffusione di droghe pesanti quali l’eroina. Tra le città più colpite dagli scontri di piazza sicuramente si ricordano Torino, e Bologna dove si svolse il convegno “contro la repressione” che fu di chiusura al quale parteciparono circa settantamila persone. Il rapimento Moro aveva spinto molti aderenti dei gruppi della sinistra extraparlamentare a seguire quanto contenuto nel motto suggerito anche dal quotidiano Lotta continua (“né con lo Stato né con le brigate rosse”). Con il “riflusso” diversi furono i giovani che si avviarono verso la lotta armata, mentre altri ripiegarono

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nei partiti parlamentari o nel disimpegno. Altri ancora disillusi e nello sconforto aspiravano al misticismo, alle filosofie orientali e al ritiro in comunità per uno stile di vita alternativo. Dal ’77 si svilupparono le nuove realtà giovanili di lotta politica nate attorno a quelli che negli anni successivi sarebbero diventati i Centri sociali, luoghi di aggregazione politico-sociale nati nel solco delle esperienze dei circoli del proletariato giovanile della seconda metà degli anni ’70. Strada spianata Si attuò un processo evolutivo che vide i movimenti del ’68 nella sua interezza come le fondamenta dello stesso per poi proiettarsi al ’77 anno delle ribellioni giovanili, dell’arrivo del punk che spianerà la strada agli anni ’80. Anni di esplorazione di una terra di nuovo vergine. Creatività e anticonformismo saranno le nuove forme di espressione, gli anni delle prime radio indipendenti, dei primi centri sociali, delle autogestioni, della diffusione delle droghe, anni che creeranno una coscienza e che daranno spazio alle scelte poi intraprese durante gli anni ’90. Dalla fine degli anni ’70 gli spazi di sperimentazione e di apprendimento si espansero, penetrando soprattutto negli ambienti scolastici. Crolla l’idea delle “sedi”, ovviamente politiche, come luogo rifugio. L’individuo si impadronisce ancora una volta del quartiere, rivivendo la strada a lui più cara, le piazze, il quartiere intero. È proprio lì che si assiste a un incontro tra culture giovanili e politica, ancora trascinata dai movimenti del ’60 e del ’70. Attitudine e stratificazione camminano adesso di pari passo così da creare sì differenze storiche e concettuali ma contemporaneamente a un adattamento culturale. Un mix di gerghi giovanili, linguaggi attivistici, immagini culturali che adesso si incrociano con le ventate culturali provenienti dagli Stati Uniti e dal Nord Europa. Nessuno dei “nuovi” vuol

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banalizzare le esperienze che lo hanno preceduto ma piuttosto vuole assorbire tutte quelle esperienze trasmesse da chi già ha dato per crearne una propria compresa di figura identitaria e di appartenenza a qualcosa di non “vecchio”. La strada e le culture di strada restano il nocciolo duro della questione. Dal ’68 in poi la militanza politica cambia repentinamente. Emergono nuovi soggetti giovanissimi ingovernabili negli scontri in strada ma allo stesso tempo più orientati verso pratiche culturali. Rafforzandosi anche gli strumenti di comunicazione di massa, si rafforzarono i metodi giovanili di repressione, come fu con l’ingresso nel secolo dei lumi della stampa periodica all’interno del vivere sociale che stimolò un uso ancora più politico delle foibe collettive, dei timori e delle incertezze che attraversavano la società, così da render protagonisti gli stessi giovani attivi in quella direzione. Siamo ancora negli “anni di piombo” periodo in cui si estremizzò la dialettica politica che si tradusse in violenza, attuazione della lotta armata e atti di terrorismo. Icona di questo periodo divenne la foto scattata a Milano nel 1977 in Via De Amicis che raffigura Giuseppe Memeo noto come “Il Terun”, un ex militante di Autonomia Operaia entrato nei “proletari armati per il comunismo” (PAC), che in quel momento puntava una pistola alla polizia durante una manifestazione di protesta. L’espressione “anni di piombo” deriva esattamente da un film dal titolo omonimo Anni Di Piombo di Mararethe Von Trotta uscito nel 1981 nel quale viene trattata l’analoga situazione vissuta nella Germania dell’Ovest. L’immaginario collettivo spinge solitamente ad associare questo periodo a un momento pieno di contestazioni, stragi, omicidi (l’omicidio di Pier Paolo Pasolini) e sequestri (il sequestro con conseguente uccisione di Aldo Moro), alle imprese di alcune organizzazioni extra parlamentari di sinistra come Lotta Continua o il Movimento Studentesco o prettamente armate come le Brigate Rosse senza spaziare con la mente fino a focalizzare tutto ciò che

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stava nascendo parallelamente e a ogni modo, dal basso. La musica cominciava a farsi strada da sola affermandosi come portatrice anche essa di valori oltre che di rumori, e tra il punk e l’hip hop si cominciavano a udire fortemente nuove voci, nuove sonorità. Tra il 1983 e il 1985 emerge la rivista Vuoto a perdere, uno dei più significativi punti di un attivismo culturale emergente. Si tendeva a una costruzione di linguaggi, immagini, sincretismi con nuove modalità socializzanti e coinvolgenti soprattutto per i giovani. Sin dal numero “Zero” si nota un modello comunicativo differente dal solito, vuoto di segni, scarso di articoli pesanti e fotografie. Pian piano gli articoli si arricchiranno di nozioni, simboli e argomenti spinti da nuovi stimoli. Gran spazio venne dato al nuovo attivismo punk e anarchico italiano e il “cut and paste” era l’unico metodo utilizzato in elaborazione grafica. Non venne mai a mancare lo spirito popolare di questa rivista anche quando si inserivano toni e argomenti più “giornalistici” come fatti di cronaca che vedevano protagonisti giovani e forze dell’ordine. Nel mentre, concedetemelo, nel 1985 io nascevo. Nel 1986 prende vita la rivista Decoder con il tentativo di creare nuovi spazi di contro informazione, partecipando a dibattiti sull’antagonismo e sull’informazione, hackeraggio sociale e reti informatiche, comunicazione, nuove tecnologie e realtà virtuali. La rivista verrà pubblicata fino al 1998 dalla Shake Edizioni Underground. Sono anche gli anni dell’eroina. Non esiste luogo o distinzione d’età. Arrivò puntuale e se ne andò via solo in parte trascinandosi dietro molti. Il 1989 fu l’anno del Convegno Nazionale Delle Nuove Esperienze Di Autogestione Giovanili che si tenne a Milano per andar contro i “padroni”. In quell’occasione si fece luce su un manifesto raffigurante un giovane volto stilizzato, teso nel lancio di un urlo non trattenuto, sormontato da un graffito con scritto «Autonomen», un esplicito riferimento al movimento tedesco di occupanti di case e centri sociali del periodo. Quello fu l’anno del violento sgombero del Centro Sociale Leoncavallo di Milano a cui chiaramente seguì una resistenza senza pari.

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Pantere Nera è la pantera, cattiva, furba e veloce, nera quant’è nero e oscuro l’underground. «La pantera non è sola è arrivata anche la scuola». «La pantera siamo noi». Alla fine degli anni ’80 i toni si stavano rialzando, l’ambiente si stava riscaldando ancora una volta. Azioni disperate ma nuovamente collettive scandirono così i primi anni ’90. Lotte di classe e piena consapevolezza dei danni sociali che lo sviluppo tecnologico stava portando alla società fecero da spinta. Il movimento studentesco di protesta contro la freschissima riforma Ruberti delle università italiane partì da un’occupazione avvenuta nell’università di Palermo da parte degli studenti di lettere e dal 6 Dicembre 1989 si estese in tutta l’Italia. Il coinvolgimento fu totale e si diffuse a macchia d’olio. Con il movimento della Pantera cominciò in Italia il secondo grosso ciclo dei centri sociali, e fu l’avvento delle “posse”. Le posse (termine che nella lingua spagnola indica letteralmente “gruppo” o “milizia”) sono un fenomeno musicale italiano, sviluppatosi e conclusosi tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 del XX secolo. Si svilupparono sin dall’inizio in sintonia con lo sviluppo dei centri sociali, erano formazioni musicali alternative, prediligevano particolari tematiche come quelli d’attualità politica nonché di controinformazione, impegno sociale, cittadinanza attiva. Diffusero i loro lavori senza passare dalle grandi distribuzioni e attivandosi sin dall’inizio in un totale DIY (Do It Yourself). Chiara era la connotazione antifascista, rispetto al tema sociale e alle ideologie, come chiaro era il genere di riferimento, o meglio il genere di influenza che venne utilizzato dalle stesse per esprimersi, il rap. Nel loro percorso, anche e soprattutto in concomitanza con il genere musicale hip hop, hanno segnato la storia da Nord a Sud del paese. Onda Rossa Posse, Lion Horse Posse, Isola Posse All Star, Vatican Posse, Zona Dopa, Villa Ada Posse, Casino Royale, 99Posse, Pitura Freska, Kattiveria Posse sono soltanto alcuni dei nomi tra i tanti che hanno fatto storia in questo ambito.

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La loro voce, diversamente dal passato adesso si diffondeva su piattaforme diverse, entrava in gioco il “sound system”. Enormi casse che riproducevano la musica e i messaggi dei vari artisti che si alternavano o che insieme intrattenevano durante occupazioni, manifestazioni su strada, eventi di piazza, da ora in poi diventeranno un simbolo, come un totem. Uno degli aspetti più interessanti della relazione tra Pantera e “centri sociali” sembra risiedere nella duratura culturalizzazione delle pratiche e dello stile degli attivisti universitari avviatasi con il movimento. Sound system, graffiti, ma anche l’utilizzo delle tecnologie informatiche e telematiche (vedremo che per la prima volta venne sfruttato il fax per comunicare tra i collettivi) avrebbero costituito un connubio culturale e una fonte di riconoscimento tra i gruppi partecipanti alla protesta. L’occupazione era il tema centrale, catalizzatore di diversità e di stili di vita, comportamenti sociali e forme emergenti di soggettività. «L’università fu occupata nel gennaio del ’90 e noi eravamo già pronti. La città universitaria autogestita giorno e notte per due mesi, tre mesi. Un fiume di studenti, un centinaio di gruppi della sinistra attiva […] una partecipazione enorme. Guardando quel delirio pensavo che era un punto di non ritorno. Anche fosse finito tutto chi stava occupando non sarebbe tornato a casa da solo […] fu il trionfo della comunicazione […] arrivarono in massa giornali e televisioni selezionati e utilizzati […] le telecamere entrarono in diretta nelle aule occupate e il movimento entrò in tutte le università d’Italia. Partito a dicembre da Palermo era ovunque. Assemblee permanenti, manifestazioni improvvise creative aperte felici anche di notte… Benvenuta pantera. Animale libero che fuggiva braccato nelle campagne romane. Animale che per sua natura non attacca mai ma se qualcuno l’attacca o la spinge in un angolo, allora si lancia ad annientare il suo aggressore in maniera assoluta.» (Militant A, Storie Di Assalti Frontali) Quasi dappertutto le assemblee di ateneo decisero per l’occupazione e il movimento si dichiarò “politico apartitico democratico non violento e antifascista”. In molti atenei furono addirittu-

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ra vietate le scritte violente e i graffiti sui muri proprio per dare un’immagine non lavativa al movimento e poco eccessiva all’azione. Per molti fu una decisione “patetica”. Una notte di dicembre venne avvistata una pantera nera a Roma (forse fuggita da un circo in città), e poco dopo verso la Via Nomentana una volante della polizia ne confermò l’avvistamento. Si aprì una lunga e vana caccia. Per tutta risposta cominciò a echeggiare lo slogan «la pantera siamo noi». Risuonava carico, in tutta la nazione, gli studenti erano la nuova forza sociale. «Alcuni hanno visto nella pantera una fonte di rivitalizzazione, soprattutto per la condizione di studente di molti e molte dei nuovi attivisti, per le culture innovative e le rinnovate energie riversate così nell’occupazione.» (Beppe De Sario, Resistenze Innaturali, attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80) Adesso lo sguardo del movimento era focalizzato sul consumo critico, sull’economia sociale, sull’autoproduzione, sull’abbattimento delle differenze culturali, sull’accoglienza ai molteplici stili. Fu un movimento che a livello underground, sociale e con rabbia politica a farne da farcitura, riuscì a espandersi in forma “moderna”. L’utilizzo del fax e le prime reti di comunicazione diedero modo di gestire le attività di protesta e occupazione al meglio. Okkupanet fu il primo caso di social network, nato durante la Pantera e utilizzato in senso politico. Un fondamentale punto di raccolta di informazioni. Venne sperimentata e utilizzata per le comunicazioni interne una “rete fax” che divenne subito un segno di riconoscimento. Questo “network” oltre a unire le facoltà scientifiche già all’epoca collegate tra loro dai computer “vax” mediante le reti “decnet”, rappresentò inoltre un fondamentale punto di raccolta di informazioni relative ai fatti di Piazza Tienanmen in Cina. «Diciamo che sono stati anni in cui ci siamo fatti un gran culo, anni pioneristici finiti a Milano nell’’89 sui tetti del Leoncavallo e del Cox18 che resistettero allo sgombero […] eravamo cresciuti vertiginosamente di numero […] dal ’90 con il movimento della pantera iniziò la seconda fase dei centri sociali […] la sapienza a Roma era diventata una cittadella sociale […] in facoltà tipo lette-

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re potevi scegliere addirittura tra le iniziative sparse sui vari piani degli edifici […] noi dei centri sociali eravamo in minoranza e non davamo tanta importanza al fatto di riuscire a bloccare la legge però aggregavamo una massa di persone.» (Il Duka per Marco Philopat, Lumi di punk) Anche questa volta fu facile accostare i movimenti studenteschi alle lotte politiche e alle frange extraparlamentari. Pochi giorni dopo l’assemblea nazionale tenutasi a Roma, in uno dei seminari autogestiti del movimento intitolato Vecchi e nuovi movimenti prese parola un ex brigatista e da questo scaturì uno scandalo. I quotidiani nazionali diffusero la notizia del presunto legame del movimento con la lotta armata e questo causò ovviamente problemi di relazione con l’opinione pubblica per gli studenti che fino ad allora non avevano in alcun modo agito con violenza. L’ala moderata erano i giovani raccolti intorno alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). L’ala dura del movimento erano però i cosiddetti “cani sciolti”, i primi poi ad abbandonare la mobilitazione perché in via di allontanamento dai propri punti di riferimento. Il movimento della Pantera, seppur breve, fu fondamentale: stavano cambiando i metodi di diffusione e di comunicazione, la musica. Il punk soffiò forte come il vento di scirocco tra il ’77 e il ’78, ma ora bisognava dar spazio al linguaggio poetico, alla rima, era il momento dell’hip hop e delle posse. Bande sonore, la voce delle radio Col trascorrere del tempo la voglia di tirar fuori la propria voce divenne tale e tanta da trovare espansione logica, concentrando le proprie forze e le proprie idee non soltanto sugli avvenimenti in strada o all’interno delle attività dei collettivi. Ci si confrontò per la prima volta con i fatti attuali tramite uno dei mezzi più importanti, la radio, la voce culturale dell’informazione. Radio “libere” o Radio “indipendenti”, esse non emergono dagli avvenimenti degli anni ’90 ma anzi nascono e si sviluppano già

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a partire dal 1976 con la “liberalizzazione dell’etere” sancita dalla Corte Costituzionale. È giusto inserire in un contesto temporale piuttosto che specificatamente musicale il discorso sulle radio proprio per l’importanza che questi soggetti hanno ricoperto accompagnando con una vasta quantità di informazione e contro informazioni le varie attività di cui abbiamo parlato, legate ad ambienti sociali, politici e inevitabilmente underground. Provare a esprimere e comunicare senza garanzie, mantenere la responsabilità dell’informazione e raccontare, questo lo scopo principale. Il fascino dell’udire senza poter vedere. La radio come anche il cinema, già dal periodo fascista italiano si proponeva di formare (e in quel periodo di imporre) un immaginario collettivo, riorganizzando e ricreando esperienze e aspettative popolari. La radio arriva diretta alla gente, vive i tuoi spazi al di là di ciò che gli occhi ti fanno vedere. Le radio libere nacquero specialmente per esigenza, a opera dei più giovani, per potersi esprimere rispetto alle loro attività e ideologie in ambito politico e sociale soprattutto. Uno dei punti di forza, fu la possibilità di utilizzare tecnologie nuove come la stereofonia e di creare un filo diretto di coinvolgimento e partecipazione per gli ascoltatori che da adesso possono intervenire nel corso della diretta dei programmi avanzando opinioni e commenti o scegliendo brani musicali insieme al dj di turno. In questo modo si creavano degli appositi palinsesti dedicati ad ascoltatori e gusti musicali ben precisi (punk, rock, hip hop) e affiancando agli stessi delle tematiche sociali o politiche specifiche. La radiofonia in Italia divenne competitiva e questo creò evoluzione. Già nel 1975 nasceva Radio Alice creata da un gruppo di ragazzi del Dams di Bologna e provenienti dall’area autonoma e libertaria. Trasmetteva sulla frequenza 100.6 MHZ utilizzando un trasmettitore militare in precedenza usato su un carro armato statunitense della Seconda Guerra Mondiale. La sede era in una soffitta della storica Via Del Pratello a Bologna. L’emittente voleva farsi portavoce della “comunicazione liberata”, il suo motto era “dare voce a chi non ha voce”. Uno strumento di produzione cul-

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turale che andava oltre la radio, con l’organizzazione di concerti e raduni. È spesso ricordata come la “radio degli autonomi”, priva di un palinsesto fisso e di redazione, sfruttava la diretta telefonica, annunciava una rivoluzione mediatica. Uno dei fondatori fu Franco Berardi, detto “Bifo”, uno scrittore e filosofo, un agitatore culturale. Non era un tipo particolarmente statico, visto che, all’età di quattordici anni si iscriveva alla FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) e ne veniva espulso per “frazionismo”. Attivo e partecipe durante il movimento del ’68, aderisce poi a Potere Operaio divenendo figura di spicco dello stesso gruppo extra parlamentare di sinistra. Nel ’75 fonderà la rivista A/Traverso che diverrà espressione dell’ala creativa del movimento bolognese del ’77 ed è in quegli stessi anni che partecipa alla fondazione della radio. Bifo verrà poi arrestato nell’ambito dell’inchiesta contro autonomia operaia per i fatti di Argelato, in cui era stato ucciso un carabiniere e per la sua scarcerazione Radio Alice scese in strada

poster radio alice

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organizzando una festa in Piazza Maggiore a cui parteciparono più di diecimila persone. Verrà poi scarcerato. Dopo la chiusura della radio da parte della polizia Bifo venne accusato di “istigazione di odio di classe a mezzo radio”, per questo fuggì da Bologna sottraendosi all’arresto e intraprendendo esperienze che lo videro spostarsi di città in città da Parigi a New York. Il suo rientro a Bologna avvenne intorno agli anni ’90 da protagonista, partecipando al documentario Il trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla Rai (1991) e in veste di collaboratore per riviste quali Virus Mutations o Cyberzone e con case editrici quali la Castelvecchi. Spostando la nostra attenzione un pochetto più al nord, è il caso di parlare di un’altra importante realtà radiofonica “libera” e indipendente come quella torinese di Radio Blackout. Insieme all’amico Fabrizio Mastello sono riuscito a fare un giro all’interno dell’edificio che accoglie la sede della radio, a Torino, e intervistare una delle fondatrici ancora attiva all’interno. Lo spazio dove si trova attualmente la radio fu ristrutturato dal Comune con il contributo della multinazionale Vodafone e non fu troppo semplice mantenere la concessione dei locali, tanto da dover lanciare una vera e propria campagna, «Spegni la censura accendi Blackout», e organizzare molti eventi a favore della radio e della libera informazione. In realtà Vodafone ricevette anche una telefonata di dialogo da parte dei ragazzi di Blackout e fu chiaro che il problema nasceva dalla volontà politica dell’amministrazione comunale e non da chi quei lavori li aveva finanziati. L’edificio all’esterno, come all’interno, è quasi completamente ricoperto da graffiti, striscioni, poster degli eventi della radio. Salendo le scale mi ritrovai davanti al portone d’ingresso dove la maniglia è stata costruita appositamente e raffigura il logo della radio, un pugno nero che stringe un microfono nero. Facendo un giro al primo piano, assisto a una breve parte di diretta radio. In quelle stanze di lavori manuali ne sono stati fatti tanti, in questi ambienti non si sta mai con le mani ferme. Su 105.25 FM di Radio Blackout si stava parlando del ’77 e si ascoltava del buon rock in quel momento. Mitzi, la protagonista dell’intervista, era in onda.

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Questa radio viene fuori dal movimento della Pantera, dalle agitazioni sociali dei primi anni ’90, le occupazioni delle prime case, periodo in cui il non ancora segretario della CGIL Sergio Cofferati riceveva pomodori e bulloni in Piazza San Carlo. La spinta maggiore e la voglia di informare veniva dal basso, dai centri sociali e dai movimenti autonomi, da chi in modo diverso voleva opporsi al potere. Dall’omicidio di Sole e Baleno (1998) ai fatti del G8 a Genova, alle street parade, ai concerti, alle occupazioni e manifestazioni, questa radio è sempre stata una voce di riferimento, zero oggettività giornalistica, tanta libertà e razionalità nel modo di esprimersi. Una voce contro tutti… One station against the nation! Finita la diretta riesco a intraprendere un’interessantissima chiacchierata con Mitzi, super sorridente ma molto concentrata allo stesso tempo. Scendiamo giù al piano terra nei locali che quella stessa sera avrebbero accolto una festa della radio. C’era chi cucinava, chi puliva il pavimento e spostava tavoli e sedie. Mitzi – Radio Blackout: «Nell’underground mi ci sono ritrovata entrando alle superiori sostanzialmente, io sono del ’69, arrivai al primo anno di superiori che c’erano ancora i picchetti davanti le scuole, molta politicizzazione. Sono entrata che ci fumavamo i cilum dentro alle classi, e sono uscita che ci fumavamo le sigarette nei cessi, in cinque anni era già così cambiata la situazione, però ricordo soprattutto il ginnasio, i primi due anni in cui all’interno della scuola il sabato pomeriggio c’erano concerti […] da lì l’incontro con tutta una serie di persone che ho continuato a incontrare nel corso della mia vita nelle occupazioni, negli spazi, nelle strade […]; siamo bene o male tutti partiti da lì. Sono sempre stata più attaccata alla politica, la musica era un po’ secondaria per me anche se necessariamente l’ho incrociata, arrivando poi anche a lavorare in radio insomma, non l’ho cercata ma ci ho avuto a che fare tantissimo. Il mio primo approccio è stato sicuramente più politico, già dai movimenti studenteschi dell’85, sostanzialmente erano sempre contro qualche riforma […], quello che avevano più di interessante allora, più di come sto vedendo adesso, è che comunque davvero

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c’erano momenti di autogestione, era contro cultura messa in pratica in questi percorsi. L’autogestione degli spazi scolastici si è un po’ istituzionalizzata nel tempo, adesso è prassi che tutti gli anni ci sia, anche se non sta succedendo chissà cosa, non ci sono movimenti, non ci sono lotte. Prima non era proprio così, te li dovevi prendere questi spazi, dovevi lottare, te li difendevi e li riempivi anche come risposta per dimostrare che eri assolutamente in grado di autogestirti e in grado di riprodurre sapere, cultura, anche se era altro rispetto a quello che ti impartivano a scuola. Sono entrata all’università nell’’89, penso di aver dato solo un esame e poi boom, più niente! È stato un impatto travolgente, totalizzante, ho conosciuto tantissima gente a Torino e non solo, perché poi ci si muoveva, ci si incontrava con gli studenti tra le varie città, con una tecnologia assolutamente ridicola. Il fax, è stato lo strumento di comunicazione per eccellenza nell’occupazione della pantera. È partita come una voglia di stare assieme di nuovo, con entusiasmo, passione, partendo dai bisogni più che culturali direi sociali, socialità e necessità di riappropriarsi di spazi che si stavano un po’ perdendo. Poi anche lì, la ragione del tutto era l’ennesima riforma del cazzo sempre più orientata sulla privatizzazione dell’università e del sapere, cominciavano a introdurre la frequenza obbligatoria che limitava la possibilità di accesso ai lavoratori, che erano un buon 40% degli studenti dell’epoca, cosa che adesso non esiste proprio. Per chi come me era giovane, il movimento della Pantera è stato motivo di crescita politica, interessante e coinvolgente, divertente […]. Certo sono partita dall’alto per poi andare in caduta libera, perché poi dopo la Pantera, il deserto totale. Arrivando all’anno accademico ’93-’94 con la Guerra nel Golfo non è successo quasi niente. La radio l’ho incontrata diciamo due volte. L’ho incontrata subito quando è nata partecipando al gruppo che si riunì a Torino per fare la radio, un collettivo universitario […], fondamentalmente arrivavamo tutti o quasi tutti dai collettivi universitari autonomi ed era il ’90. Da lì si cominciò come collettivo a ragiona-

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re, avevamo un pamphlet sulla Guerra Del Golfo, sul vuoto delle università e sul silenzio degli studenti […]. Insomma da quel collettivo, che lavora a Torino, casualmente un compagno conosce questo tipo di Radio 2000, un’altra radio, che voleva vendere le frequenze. Da lì cominciano varie trattative e dialoghi tra gruppi per trovare un percorso collettivo e per sostenersi come singolo collettivo. Così io ci sono stata sin dall’inizio, ma per poco tempo devo dire, poi ha cominciato a non piacermi perché era come la radio dei collettivi con dinamiche interne anche conflittuali per la gestione di questo che è uno strumento potente e che fa gola […], dare voce a chi non ha voce, ma alla fine parlavano solo pochi, rappresentativi di loro stessi […]. Non mi ritrovavo tanto in quella dimensione, il bello della radio è che abbraccia tante realtà, ci sono un sacco di cani sciolti, di persone appassionate di musica, che poi entrano a far parte del progetto e partecipano a 360° anche se comunque arrivano da diversi percorsi, anzi oggi in realtà la portano avanti più tutti quelli che sono fuori. La prima esperienza, eravamo ancora con le bobine, con la registrazione sui nastri registratori che occupavano tanti armadi. Devo dire che la radio dei primi anni non era tanto orientata sulla musica, era molto politica, si registravano le interviste sulle musicassette, adesso sembra tutto più semplice ma in realtà è piuttosto, non so, più veloce. Prima tenevamo la televisione accesa sul televideo per visionare le notizie che arrivavano, non c’era la rete, non c’era internet. Mi ricordo, all’epoca c’era anche il progetto del centro di documentazione Senza Pazienza dove stavo anch’io, e avevamo affittato l’appartamento proprio sotto alla radio, e per pagarci l’affitto gestivamo una serata alla settimana al CSA Murazzi. Avevamo fatto suonare chiunque, anche i 99Posse quando non erano nessuno, nessuno li conosceva completamente, e così una serata in cui non c’era tantissima gente mi ricordo poi l’anno dopo esplosero». Visitare la sede della radio fa comprendere gli elementi che caratterizzano il lavoro svolto dalle radio libere, che a differenza del resto degli enti di informazione radiofonica rischiano puntualmente atti di censura, interruzione delle trasmissioni e azioni simili, pur restando attive con una lucidità e un attivismo inimitabile.

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Un’altra realtà che merita di esser raccontata è quella di Radio Onda Rossa. Quando andai a Roma, provammo a fare un salto lì in Radio con Mastello, evitai di girare dei filmati e chiedere delle interviste per rispettare privacy e ideali dei compagni presenti in radio, avendo comunque in quel momento la possibilità di visitare gli storici locali di Via Dei Volsci nel quartiere di San Lorenzo. Inutile dire che parte dei più bei racconti, almeno da me letti, su ciò che visse la radio tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 si possono trovare tra le pagine di Storie di assalti frontali di Militant A, ma la storia di questa radio comincia ancora un po’ prima. Toni aspri, indigesti, vitali e taglienti già dagli eventi del ’68 e del ’77, quello che fu il “decennio rosso”. Accompagna con la sua voce le azioni dell’autonomia operaia romana, il “sovietismo proletario” di una Roma arcaica e moderna. La strada, i quartieri romani davano e danno voce a questa Radio. San Lorenzo, il Pigneto, la Magliana, San Basilio: sovversivismo e antifascismo, studenti, operai, ferrovieri. La Roma del rifiuto, delle occupazioni, dei movimenti studenteschi che parla attraverso la radio. Nel maggio del ’77 si udì per la prima volta la voce di Radio Onda Rossa, direttamente dai locali di Via Dei Volsci. Gli argomenti durante la prima trasmissione erano già chiari, si parlava della separazione che stava avvenendo tra il lavoro manuale e quello intellettuale, e si affermava totale negazione a riguardo. Emerge la necessità di volere un proprio strumento di informazione e una volontà precisa di autofinanziamento tramite sottoscrizioni attivate con comitati, collettivi, ascoltatori. Questa radio non si è mai autodefinita “radio libera”, ma “radio militante”, “di movimento”, “rivoluzionaria”. Si schiera, si è sempre schierata e produce informazione antagonista che trasmette ma non media. In collegamento diretto e all’interno delle lotte, è una radio organica, un progetto politico e di rottura. Sul manifesto che ne annunciava l’apertura si leggeva «Per chi crede che la libertà di stampa e di informazione è libertà dei padroni di insultare i proletari che lottano per la loro liberazione, è doveroso fare

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ogni sforzo perché i proletari abbiano le loro fonti di informazione. Radio Onda rossa è una di queste fonti». Fu da subito tenuta d’occhio dagli apparati repressivi nel periodo che vedeva Cossiga Ministro degli Interni e Andreotti capo del Governo di minoranza (delle astensioni), posta come ostile da Enrico Berlinguer, accusata di istigazione al crimine, di disobbedienza alle leggi di ordine pubblico e di fomentare odio tra le classi sociali. Ricevette denunce dirette ad alcuni redattori e redattrici che vennero anche incarcerati. Tra il 1979 e il 1980 l’autonomia operaia venne quindi puntata come “tramite” delle Brigate Rosse, furono vari gli arresti di redattori della Radio alla quale furono posti i sigilli. Un fatto poi segnalato anche dalla stampa, si lesse su L’Unità «Chiusa l’ultima voce dell’autonomia». Il supporto da parte dei movimenti fu notevole, la radio visse attraverso “L’agenzia di documentazione e repressione”. All’interno della radio la musica e i comportamenti che da essa ne scaturivano segneranno negli anni un modo di confronto e di innovazione che dette la possibilità a essa di espandersi soprattutto in strada, sperimentando un nuovo tipo di dialogo con le culture giovanili, punk e in particolare hip hop e reggae. Molte le persone che dal ’77 a oggi ne hanno fatto parte, molte le voci che si sono riappropriate della parola, ridandola a chi non l’aveva. Si andava e tuttora si va sempre incontro alle esigenze della realtà sociale di riferimento. Un lavoro immenso e mai pagato. Autunno 1980: la Radio dà voce e supporto agli operai della Fiat di Torino colpiti dalla prima ristrutturazione capitalistica, quindi dalla prima ondata di cassa integrazione (23.000 lavoratori e lavoratrici circa). Nello stesso anno, dato il tragico terremoto in Irpinia organizzerà aiuti e raccolte di fondi. Autunno 1982: spazio radiofonico alla resistenza in Libano dei Palestinesi attaccati dall’esercito di Israele. Nello stesso periodo l’innesco di una bomba posta davanti alla porta del palazzo di Via Dei Volsci che ferì anche un inquilino oltre a rendere inagibile il palazzo. Nel 1986: dopo la strage della Centrale di Chernobyl, la radio contribuì alla vittoria del referendum popolare che cancellò il nu-

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cleare in Italia, e ancora la caduta del Muro di Berlino (1989), gli anni del sindacalismo di base (’92-’93), la Guerra Del Golfo (1991), l’insurrezione Zapatista in Messico (1994), sono tutti eventi storici e politici prima che sociali che Radio Onda Rossa con grande attenzione visse dandone informazione, trasmettendo di continuo. Il 2001 è l’anno del G8 a Genova: per quell’evento la radio costituisce insieme ad altre radio per il controvertice, Radio Gap (Global Audio Project) la prima sperimentazione di ascolto radio via internet in Italia. Radio Gap trasmette da un’aula della scuola Pascoli di Genova nel media center del Genoa Social Forum. Un lavoro di collettivo gigantesco che vedeva notiziari trasmessi in tre lingue diverse, ritrasmettendo in tutto il mondo e nel dettaglio ogni attività del movimento. Dalle onde radio alla scrittura qualsiasi sia lo stile o la metrica o la scelta grammaticale, a ogni parola corrisponde un’idea, a ogni frase un concetto, a ogni concetto un’ideologia un’identità. Negli ultimi anni in molti si sono esposti e hanno trattato argomenti culturali, sociali e politici scrivendo. A tal proposito è importante citare Wu Ming. È un collettivo di scrittori provenienti dalla sezione bolognese dell’ex Luther Blisset Project, uno pseudonimo collettivo usato da un numero imprecisato di artisti, scrittori e riviste nell’arco degli anni ’90. Apparve per la prima volta a Bologna nel ’94, utilizzato da alcuni attivisti che si scagliavano contro la malafede del sistema mass-mediatico. Il nome o pseudonimo che dir si voglia, venne utilizzato non solo in Italia, ma durante varie tipologie di azione (manifestazioni, pubblicazioni, video) anche in altre capitali europee e, sporadicamente, in Canada, Stati Uniti e Brasile. In realtà Luther Loide Blisset era un centravanti inglese di origine giamaicana che venne ingaggiato dal Milan alla metà degli anni ’80 e per raffigurarlo al pari di un’icona pop ne fu creata un’immagine, un profilo assolutamente falso da A. Alberti ed E. Bianco nello stesso ’94. Esattamente dal gennaio del 2000 dalla sezione bolognese, alcuni scrittori e autori letterari formeranno così il collettivo Wu Ming. È una di quelle realtà culturali che navigando in ambienti e

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ambiti underground riesce a farsi strada con proprie parole, scritte, tracciando linee ideologiche e critiche. Un collettivo che ama l’incontro con i lettori ma che preferisce non mettersi in posa per servizi fotografici o video, scelta notevole in un’era basata quasi esclusivamente sull’apparire e sull’immagine. Loro vogliono apparire soltanto di persona in carne e ossa. Un motto riassume la loro impostazione «Trasparenti verso i lettori, opachi verso i media» (Wu Ming 1, intervista del 2007). Mi è capitato di parlarne in un’intervista fatta a Yu Guerra, esponente della scena bolognese e ancora molto attivo tra la conduzione di un programma in Radio Città Fujico e il suonare nel Wu Ming Contingent, che collabora ma non fa direttamente parte del Wu Ming Foundation. Il mio incontro con Yu si è svolto all’interno di uno dei luoghi storici di Bologna, il Disco D’oro: un negozio di dischi ben fornito come pochi ormai e con gran rischio, dato che la discografia oggi è più proiettata sul mondo telematico, sul web che su altro. Il Disco D’oro è stato un punto d’incontro fondamentale per la città di Bologna e sin dall’inizio un punto focale dell’underground cittadino. Nasce nel 1976 pronto ad accogliere l’arrivo del punk, deciso a immergersi nelle giungle oscure e alternative della musica nazionale e internazionale. Tra viaggi a Londra e New York i proprietari e gestori del posto Tiziano Figliol e Federico Venturoli portano in città materiale ancora sconosciuto, agli albori delle radio private e delle prime fanzine. Speaker di radio Alice, gli Skiantos, Red Ronnie, i Gaznevada, sono solo alcuni nomi tra coloro che assiduamente frequentavano il negozio. Harpos Bazar, Italian Records sono le due etichette fondate da uno dei proprietari, Venturoli, insieme a Rubini e Natale, provenienti dal Dams di Bologna e che spinsero buona parte delle realtà musicali di quegli anni in città. I weekend bolognesi degli anni ’80 vedevano il Disco D’oro come luogo di ritrovo in quella che è la sede attuale in via Galliera al 23. Punks, skins, rockers provenienti da tutta Italia si trovavano lì. Ho abitato per circa tre anni in una piccola stradina quasi di fronte al negozio, via Schiavonia ad angolo con la via Galleria.

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