Fine lavoro mai

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BOOK COLB 18


Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org. Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione. Collana BookBlock Collana diretta da: Rachele Cinerari Cover design e illustrazione di copertina: Gabriele Ubrick Munafò Impaginazione: Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali, Sonny Partipilo, Martina Campanini, Valentina Presti Danisi, Francesca Ruggiero © Copyright 2022, Eris (Ass. cult. Eris) © Ivan Carozzi Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano. Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org / www.erisedizioni.org Prima edizione Giugno 2022 ISBN 9791280495150 Stampato presso Geca Industrie Grafiche Via Monferrato 54, S. Giuliano Milanese (MI)


Benino Intorno alla metà di agosto, in un ritaglio di cemento a pochi passi da una strada trafficata, scrivo queste pagine dedicate al tema del lavoro, senza avere nessuna idea di dove andrò a parare e senza sapere se questo che sto scrivendo sarà un pamphlet con un inizio, uno svolgimento e una fine, un saggio con una tesi a fuoco o qualcosa che invece non ha una direzione ed è destinato a terminare senza una forma, come certa frutta e verdura spalmata in mezzo alla strada dopo un mercato. Macchine e scooter si sorpassano e se ne vanno verso il litorale. Il chiasso delle marmitte mi disturba. Scrivere costa sforzo. Ogni ronzio di scooter evoca una visione del mare e di un tuffo in acqua da uno scoglio. Sbobino l’intervista a Leonardo, seduto su una seggiolina di metallo con le zampe che scintillano al sole di mezzogiorno. Riascolto in cuffia i picchi della voce, le esitazioni, il brusio automobilistico di viale Monza; per una volta di più capisco che la parola scritta è più convincente della parola parlata, che la realtà funziona meglio sulla carta, e poi, arrivato in fondo al racconto di Leonardo, quaranta minuti di registrazione, mi chiedo qualcos’altro, e cioè dov’è che tutto per me ha avuto inizio, quand’è che nella mia vita è entrato il lavoro. 3


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Senza troppo affanno mi tornano in mente le stagioni come cameriere nei bar e nei ristoranti sulla costa, ma ancora prima l’estate alla fine degli anni ’80, quando lavorai in una segheria, di fronte a un nastro che trasportava delle basi rettangolari di marmo, sì e no della lunghezza di trenta centimetri, che dovevo prendere e imballare dentro una scatoletta di cartone. Il nastro scorreva con lentezza, seguendo l’input di chi aveva programmato la macchina, in modo tale che io, operaio al nastro trasportatore, avessi il tempo necessario per afferrare la base, riporla nella scatola insieme alle altre basi, chiudere la scatola e ricominciare da capo. Mi capitava spesso di lottare contro i colpi di sonno, che mi prendevano nonostante il frastuono della macchina tagliablocchi e della lucidalastre. Ricordo una collega anziana che mi guardava schifata. Un altro collega a metà mattinata si nascondeva dietro un blocco di marmo, nel piazzale, a fumare hashish da un collo di bottiglia arroventato e annerito dall’uso. All’epoca esisteva ancora il libretto di lavoro. Il libretto di lavoro era un documento dall’aspetto scialbo, firmato da un delegato del sindaco e rilasciato dall’ufficio di collocamento, con una copertina marroncino chiaro, piccolo – stava nella tasca dei jeans o in un marsupio – dove sotto l’intestazione stato di servizio venivano segnati 4


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la data di inizio e fine del rapporto di lavoro, la qualifica, i dati anagrafici, la residenza, lo stato di famiglia, il nome del datore di lavoro, cioè dell’azienda da cui venivi assunto, ecc. Somigliava a un vecchio quaderno di scuola, a un pezzo di cancelleria del tempo del fascio. Le pagine erano divise in celle e segnate qua e là da stampigliature violette. Provo ad andare più indietro nel tempo. Rivedo mia mamma che apre la serratura a scatto di un borsellino di pelle inciso con un monogramma. Da uno scomparto estrae cinque monete da cento lire, una banconota da mille e un’altra da duemila. «Vammi a comprare le sigarette.» Che sia stato questo incarico il mio primissimo rapporto di lavoro? I soldi non li metto in tasca, ma li tengo stretti come un fagotto nel palmo della mano e più stringo, più la mano si arrossa. Alle 2 del pomeriggio le saracinesche dei negozi sono abbassate. Il calzolaio e la commessa della pasticceria sono tornati a casa per pranzo. All’ombra di un obelisco si ripartono le file delle auto parcheggiate, la 127 Fiat verde oliva, la Renault 5 con il logo romboidale, la Ritmo con gli apriporta circolari. Seduto su una panchina c’è chi fuma una sigaretta e chi prende il sole con le mani appoggiate sulla pietra. A che cosa stanno pensando queste persone? Le mie memorie d’infanzia sono popolate da figure inoperose, 5


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solitarie, sprofondate in un incomprensibile silenzio. Vedo un tale che monta sulla sella di una Vespa azzurra parcheggiata. Siede e rimane finché non arriva il proprietario. Un altro, con un moschettone di metallo e un mazzo di chiavi appeso a un passante, se ne sta appoggiato contro la parete scrostata di un edificio. Un altro tizio è accovacciato sui gradini d’ingresso di una casa. Questi adulti se ne stanno lì, assorti e perduti. Non so se hanno una moglie e dei figli, che lavoro fanno, se hanno ancora un mestiere o sono già in pensione, non so chi sono, non conosco i loro nomi, anche se li vedo ogni pomeriggio uscendo di casa. Li osservo trascinarsi verso non so dove, senza fretta, dopo aver riposato in un anfratto, all’ombra di un alberello, sotto un porticato o dopo aver sfogliato le pagine di un quotidiano sugli scalini vetusti di una chiesa. Che cosa pensano mentre se ne stanno lì, soli, per intere mezz’ore, a volte addirittura supini, con una mano sotto la testa a fare da guanciale? A prima vista questi signori mezzi addormentati potrebbero far pensare all’omino in pigiama che riposa beato nella pubblicità Permaflex, ma in realtà è più antica la figura che gli corrisponde. Nel loro oziare all’aperto sono parenti del personaggio di Benino, il pastorello dormiente del presepe. Secondo la leggenda popolare, durante il son6


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no Benino sogna il presepe, e guai a svegliarlo, perché così facendo l’esistenza del presepe verrebbe messa a repentaglio, dato che il presepe, con i suoi ruscelli argentati, i mulini ad acqua e i cuscini di muschio, non sarebbe altro che un mondo di sogno nato nella mente del pastorello, mentre se ne sta sdraiato tra un ciuffo d’erba e una roccia, col suo gilet di pelliccia e il tascapane di cuoio a tracolla. Se la realtà è ancora in piedi e non si spezza è solo perché qualcuno la sta sognando. Che uso fanno i Benino di sé stessi e della propria mente, quando se ne stanno chiusi dentro quelle confortevoli vesciche separate dal mondo? Ho conservato per tutta la vita l’immagine delle loro figure mute, conficcate nella memoria come statue sui verdeggianti pendii dell’Isola di Pasqua. La calma emanata dai corpi degli inoperosi Benino non ha mai cessato di essermi presente. È un fatto della mia vita più remota. Nel ricordo queste creature pacifiche non incrociano mai lo sguardo e non lasciano trapelare nessun indizio, informazione, forse perché, è un’ipotesi, nel loro placido paesaggio cerebrale il fluire delle immagini si svolgeva per tranquilli e sereni rigagnoli. Erano menti inoperose. Il cervello era a riposo, non era impegnato in operazioni di calcolo, in procedure di assorbimento, di sminuzzamento di dati e informazioni. Solo 7


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da qualche anno ho cominciato a chiedermi che cosa stesse accadendo nella testa di queste persone, anche perché nella mia vita di oggi, senza davvero volerlo, anzi contro me stesso, mi sono abituato a pensare che c’è qualcosa di anomalo in chi se ne sta senza fare niente e in chi ha l’aria di non pensare a niente. Mi è capitato di leggere Yoga, il romanzo di Emmanuel Carrère. In Yoga ho scoperto l’esistenza di una parola che non avevo mai sentito, un termine sanscrito: vritti. Indica quel lavorio della mente che oggi si è fatto più fitto e continuo. Vritti è ciò che disturba la mente, che non lascia in pace la mente, è il vortice che attrae la mente. Sono onde, correnti, increspature, schiuma, fluttuazioni, effervescenze, gorghi, risacche, bolle. La città dove oggi abito e lavoro è traversata dalle vritti. I volti di chi incrocio per strada sono contratti, in allerta, perché la mente non cessa mai di lavorare. La mente lavora anche quando non si è alla scrivania, sul luogo di lavoro, in azienda o in redazione, ma in bagno di fronte allo specchio o seduti a discutere con qualche amico in un dehor. La mente copia, incolla, taglia, sceglie tra ciò che è utile e ciò che non lo è, sposta, fotografa, salva, elimina. Sospetto che vritti sia anche il testo che sto scrivendo, la digitazione di caratteri divisi da una certa interlinea su un file Word, gesto che devo 8


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aver preferito all’inerzia o a una corsa al mare in bicicletta, per quanto scrivere, penso, sia anche un modo per raffreddare, mettere a fuoco, rallentare, dominare i flutti e pertanto io credo che la scrittura e lo yoga, cioè la tecnica che consente di quietare vritti, potrebbero formare una coppia amorosa e occupare, da tempo, una nicchia particolare nel pantheon indiano. «Fare Yoga» leggo un giorno su Facebook, «significa mantenere attenzione per tutti quegli aspetti di vitalità fluidi e selvatici e inafferrabili che rendono un luogo – e il corpo – vivo.»

Il re leone Una sera mi trovo con Leonardo lungo una traversa di viale Monza. Siamo affamati e cerchiamo un posto dove mangiare e iniziare l’intervista. Leonardo ha promesso di raccontarmi la sua esperienza di lavoro in una Academy per YouTuber. La luce del sole al tramonto colora di arancio i pilastri del viadotto. Passiamo di fronte all’insegna di una churrascaria braceria sudamericana, uno stanzino di venti metri quadri tappezzato da still life di carni allo spiedo, ma i quattro tavolini all’aperto sono già occupati. Il ventilatore rotto e il cassettone laccato, smontato pezzo per pezzo e lasciato accanto a un 9


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