~atropo ¡ romanzo~ 24
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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali, Francesca Bianchi Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali Illustrazioni di: Squaz © Copyright 2020, Eris (Ass. cult. Eris) © Copyright 2020, Juri Di Molfeta Eris (Ass. cult. Eris) piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Ottobre 2020 ISBN 9788898644995
Per chiunque viva privato della propria libertĂ Contro chiunque privi qualcuno della propria libertĂ A mio padre
La maggior parte dei personaggi e degli avvenimenti raccontati in queste pagine sono frutto della mia fantasia. Il resto è realmente accaduto, non per forza come qui raccontato.
3 ottobre 1944
Adesso. Seppellire la Walther ppk semiautomatica è come fare il funerale a un vecchio amico, salutarlo per l’ultima volta e restare lì ancora un attimo, a guardare la terra smossa. Un funerale celebrato al buio, con gli scarponi immersi nel fango. Le nuvole che si aprono dopo giorni di pioggia ininterrotta mettono in mostra una falce di luna. Nessuna croce, solo un vecchio castagno e l’augurio che l’erba ricresca in fretta. Sotterro, e la mia guerra finisce qui. Troppo orrore, più di quanto sia in grado di sopportarne. Torno al casolare e saluto la donna che ci ha ospitati. Quando le ho chiesto una vanga, una scatola e un panno, il corredo funebre per la sepoltura, non ha fatto domande. Ha raccolto uno straccio da una mensola e da dietro la stufa una scatola di metallo di quelle che si usano per i biscotti e che di biscotti, probabilmente, non ne vedeva da molti anni. Era così perfetta per l’uso che ne volevo fare, che mi sono chiesto quanti altri, prima di me, fossero già passati a chiederle la stessa cosa. «La vanga l’è fòra», mi ha detto. Ero esausto, ma dovevo farlo. La vecchia mi fa cenno di aspettare. Entra in casa e ne esce quasi subito, trascinando per mano un ragazzino sui quindici anni. Prima. Prima la vecchia ci ha visti arrivare, sporchi, fradici di pioggia e dell’acqua del Reno. Ha aperto la porta di casa
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senza fare domande, mettendo in riga uomini armati con poche frasi in dialetto. Eravamo una ventina. Karaton il russo, quelli che sono sopravvissuti della sua squadra di cechi, e io. «Non state lì, chi ’vedden i tedesc. Andate nella stalla, c’av pòrt qualcosa da magneè.» Nella stalla ci ha riempito le gavette con del brodo e quel poco che le restava da buttarci dentro. Lo ha fatto senza perder tempo, perché di tempo è meglio non perderne. La vecchia ha fretta, la vecchia ha paura. Sa quello che ci siamo lasciati alle spalle. Non abbiamo avuto bisogno di raccontarle nulla. La gente di montagna non ha bisogno della radio. Gli basta il vento, la puzza di morte, la disperazione trasportata dall’aria e l’odore di carne bruciata. La vecchia sa, e non si sente tranquilla. Troppo vicino l’orrore per poter stare tranquilli. Riempita la gavetta mi sono andato a sedere accanto a Karaton. «Sei stato buono combattente, buono partigiano», mi ha detto, senza distogliere lo sguardo dal cucchiaio con cui portava lentamente il cibo alla bocca. Ha parlato al passato, sapeva che non sarei andato con loro, che avrei attraversato le linee e avrei aspettato in qualche campo per sfollati la fine della guerra. Assaporava con calma, anche se l’orrore era solo a poche centinaia di metri in linea d’aria da noi. Karaton è un abete siberiano che riempie la stanza. È possente, la sua tranquillità contagia gli uomini che guida. Se c’è Karaton non tutto è perduto, sembrano pensare. Quando ci siamo alzati, ho allungato il mio Sten all’ex ufficiale dell’Armata Rossa, lui lo ha preso, si è tolto dalla cintola una pistola e me l’ha porta. «Senza arma sei contadino che schiacciano come mosca, con arma sei partigiano da temere. Meglio fare paura che essere schiacciato. Devi fare strada pericolosa, pistola fa coraggio e aiuta.»
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Karaton mi ha stretto la mano, gli altri non parlano la mia lingua e mi hanno salutato con un gesto, con parole che non posso capire. Loro andavano a Nord, verso Bologna, per continuare quella guerra che pochi giorni fa sembrava sul punto di finire e che questa notte sembra qualcosa che non finirà mai più, che chi sopravvivrà si porterà dentro per sempre. Io mi sono preparato a muovermi per cercare di superare la linea del fronte. Sono stanco, ma la stanchezza non basta a fermare la mia voglia di andar via, lontano da questo massacro. Quella pistola però non poteva viaggiare con me, per questo l’ho sepolta. Troppo pesante da portare. Quanto al coraggio, pistola o meno non cambia nulla. La paura ha già vinto. La paura è stata un’onda, qualcosa che si avvicina e sai che puoi solo sperare che esaurisca la sua forza prima di travolgerti, perché altrimenti sarà qualcosa a cui non potrai opporti, qualcosa che ti sommergerà. Sono finito sotto. All’inizio. All’inizio sono stati gli aerei. Centinaia di aerei. Migliaia di aerei. Un cielo di aquile d’acciaio che hanno cagato fuoco su tutte le montagne e più in giù, fino a Bologna. Poi sono arrivati gli sfollati. Colonne di profughi in marcia lungo la Porrettana. Donne che portavano in braccio bambini smunti e infreddoliti, così stanchi da non riuscire neanche a piangere. Un corteo silenzioso, con i rari uomini carichi di quel poco che sono riusciti a salvare. I primi sono arrivati da Montepiano, poi è toccato a quelli di Castiglione, da qui a poco toccherà anche alla vecchia e agli altri di queste borgate. Passati i profughi c’è stato qualche giorno di calma. Ci aspettavamo di vedere arrivare gli inglesi, ne sentivamo i colpi di artiglieria, prima in lontananza, poi sem-
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pre più vicino. Ci siamo, dicevamo per farci coraggio. Il sogno per cui abbiamo combattuto per un anno è sembrato sul punto di realizzarsi. Eravamo stanchi, avevamo paura, ma il momento sembrava arrivare e dovevamo essere lì. E invece sono arrivati quelli della Wehrmacht e le ss di Rader, il macellaio, e ora sono dappertutto. Tedeschi a Tolé, tedeschi a Venola e Montasico, tedeschi a Luminasio e lungo tutta la valle del Setta, a Gardelletta, a Vado, a Lama di Setta. E tedeschi anche sul Reno, a Marzabotto e Vergato. Tanti, tantissimi, e vedi i fari dei mezzi corazzati salire verso Monte Sole. Li guidano i fascisti, gente di qua, aguzzini che parlano la stessa lingua delle vittime. Li guidano in ogni borgo, in ogni casolare, anche il più sperduto. E lì avviene l’orrore, quello che non si può raccontare. È per questo che la contadina ci ha chiesto di andarcene in fretta. Poche ore fa. Abbiamo guadato il Reno poco fuori il borgo di Pioppe, dove un’ansa ne rallentava le acque ingrossate da una settimana di pioggia. Era così buio che l’altra sponda era solo un’ombra. Abbiamo benedetto l’oscurità e le nuvole, da cui finalmente non scendeva quasi più acqua. Infreddoliti e pieni di paura abbiamo visto il siberiano svestirsi, legarsi il capo di una lunga corda in vita e immergersi nel fiume. A grosse bracciate, aiutandosi coi massi sporgenti, con noi che reggevamo l’altro capo per evitare che la corrente lo portasse via, ha guadagnato la riva pochi metri più a valle. Ha assicurato la fune a un grosso albero e poi è toccato a noi. Non lo so quanto ci abbiamo messo. Sono state solo ore di marcia nel fango, spostandoci dove gli alberi ci davano protezione, evitando i sentieri. I tedeschi e i fascisti non escono mai dai sentieri. Hanno paura. Fradici e stanchi, quando abbiamo visto la casa con la finestra illuminata da un debole fuoco, abbiamo bussato, e l’anziana contadina ci ha aperto la porta, diventando con quel gesto
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madre di ognuno di noi. L’orrore è alle nostre spalle, eppure è così vivo in ognuno di noi che lo legge nei nostri occhi. «Pover ragazù», ha detto la vecchia, vedendoci là fuori. Prima del fiume. La fuga nei boschi. Una marcia silenziosa a scendere da monte Salvaro, coi carnefici a pochi metri da noi, lasciandosi scivolare nel fango, pregando che una radice o un masso non ci feriscano, perché fermarsi equivale a morire, questa notte. I tedeschi e i fascisti non escono mai dai sentieri. Hanno paura. Ma esiste un sentiero per ogni casa di contadino e i fascisti hanno guidato i tedeschi scovandole una per una, anche la più isolata. Indossano il cappotto delle ss, i fascisti, ma lo senti che sono italiani. Parlano con l’accento di queste zone e si muovono sicuri di casa in casa. Ridono, i fascisti. Ridono mentre i macellai nazisti assolvono al loro compito con metodica dedizione. Ridono mentre le donne vengono sventrate con le baionette, ridono mentre i lattanti vengono lanciati in aria come bersagli per i fucili, ridono tra l’odore di carne bruciata delle stalle incendiate, mentre vecchi sdentati vengono lanciati ancora vivi tra le fiamme. E noi osserviamo impotenti, nascosti nel bosco. C’è chi vorrebbe scendere e combattere, ma Karaton parla loro in russo. Punta loro contro la pistola. Anche a me fa lo stesso discorso, ma nel suo italiano improvvisato. Possiamo morire come loro, o vivere e combattere per loro. Quando abbiamo deciso di diventare partigiani abbiamo scelto la seconda strada, non si può tornare indietro. Eppure c’è chi ugualmente ha scelto di morire, con loro. Siamo restati impotenti a guardare, e proseguendo siamo passati vicino a case dove il massacro era già avvenuto. Abbiamo riconosciuto la bambina che una mattina ci ha portato il latte ancora tiepido, con il vestito della festa intriso di sangue e l’addome squarciato.
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Abbiamo visto la donna che si era arrabbiata quando Sugano e gli altri le avevano portato via una vacca mettendole in mano una delle nostre stupide ricevute. «Ti pagheranno gli inglesi», le aveva detto Sugano, scarabocchiando il foglietto e porgendoglielo con un’aria marziale che ora mi pare assurda e ridicola, perché ci atteggiavamo a esercito e adesso ci sentiamo solo giovani sbandati, incapaci di salvare dalla morte quella gente che per un anno ci ha protetto e nutrito. «Seh, perché ades gli inglais um peghen la vaca che te magnà te...», aveva risposto la donna, esasperata, accartocciando il foglietto e infilandoselo in una tasca del grembiule. Ora aveva la schiena appoggiata al muro della casa e il cranio fracassato dal calcio di un fucile. E noi siamo andati avanti, scendendo verso il Reno. Illudendoci di lasciarci alle spalle il massacro, che invece è ormai parte di noi. Adesso. Karaton e gli altri sono ormai stati inghiottiti dal bosco e dalla notte. Il ragazzino mi guarda con un velo di strafottenza e i capelli arruffati. È stretto in un paltò adattato alla sua misura con qualche spilla e un po’ di spago. «L’è un bravo cinno e conosce tòt i sintìr. Lui ti porta dagli inglais, e tu badi a lui. Qui ormai l’è tròpp priglous.» Mi sembra un buono scambio e io e la mia guida ci incamminiamo verso il bosco. «Come ti chiami?» gli chiedo dopo un po’, per rompere il silenzio. «A’m ciam Guido. Parli strano, non sei di qui. D’un t’vein? Come mai sei qui e brisa a cà to?» Perché sono qui, e non a casa mia? Rispondere alla sua domanda significa tornare indietro, a prima, prima del massacro, prima della battaglia
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di maggio, prima della Stella Rossa, del Lupo, di Sugano. Prima che quel mostro insaziabile di uomini e cose che si chiama guerra mi imprigionasse nelle sue fauci. «È una storia lunga da raccontare.» «Meii», dice lui. «Mi piacciono le storie, e anche la strèda da fer le longa.»
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Sergio Nervi aprì gli occhi. Era il 9 marzo del 1982, le lancette dell’orologio indicavano le sei e dieci e un cielo livido e carico di pioggia annunciava una brutta giornata. Sergio allungò il braccio verso la sedia su cui era appoggiata la sveglia, puntata per cinque minuti più tardi, per disinnescarla prima che esplodesse. Non aveva dormito più di un paio d’ore. Si era rigirato sotto la coperta di lana tutta la notte, sicuro che, se si fosse addormentato, avrebbe fatto un brutto sogno. Ovviamente aveva avuto un incubo, che non riusciva a ricordare chiaramente, ma i cui segni erano rimasti incisi nel battito del cuore e nell’umore. Mettendosi seduto il primo pensiero fu che due mesi su un divano letto erano troppi. Il secondo che quello era il giorno del trasloco e preferiva uscire da quella casa prima che Patrizia e Guido si svegliassero. Preferiva trovarsi altrove. Alzandosi in piedi si sentì pervaso da un amaro senso di precarietà. Come se la sua vita stesse per richiudersi su se stessa, come il letto su cui aveva passato la notte, e della sua esistenza non dovesse restare traccia. Pensò che aveva voglia di fumare. L’abitudine gli fece cercare il pacchetto sul comodino, ma non c’erano né sigarette né un comodino. Le vide sul tavolo della cucina e per raggiungerle quasi perse l’equilibrio inciampando nelle pantofole. Nella penombra ne scorse una scivolare sotto al frigorifero. Restò fermo per un attimo, indeciso se cercare di recuperarla o farne a meno. Dopo mesi di
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divano letto bastava una cosa così, a prima vista insignificante, per radicargli addosso un malumore difficile da lavare via. Il suo mondo era sottosopra, le cose di cui aveva bisogno non erano al loro posto oppure gli scappavano via, diventando irraggiungibili. Decise di restare a piedi nudi, il pavimento era gelido. Prese una sigaretta. Le prime boccate lo fecero sentire meglio, ma non dipanarono il groviglio di pensieri del risveglio. Accese la luce e la cucina rischiarò in un giallo che sapeva di vecchio. I mobili erano gli stessi da che ne avesse memoria. Da quando era bambino e sua madre era ancora viva. Cose economiche, pensate per invecchiare con chi le ha comprate, e disfarsi con lui. I mobili degli operai diventano solo vecchi, mai antichi, pensò Sergio, iniziando a riempire la moca. Attese l’uscita del caffè guardando il cortile dalla finestra. Le luci si specchiavano sul selciato umido. Gli operai del primo turno camminavano trafelati, avvolti in spessi giacconi. Molti indossavano le tute da lavoro, quasi tutti avevano un borsello appeso a una spalla e in una mano i manici di sporte di tela con il baracchino per il pranzo ancora caldo. Come lui, altri uomini, ombre seminascoste dietro finestre imperlate di condensa, guardavano il cortile animarsi lentamente. Una volta non c’erano ombre alle finestre e tutti si affrettavano verso Mirafiori. Poi era arrivata la cassa integrazione, per lui, per gli altri alla finestra, e per altre ventitremila anime sparse per la città. Ventitremila fanno un quartiere, un paesino, una piccola città nella città. Una comunità cancellata, espulsa dal mondo, resa in qualche modo inutile. Una piccola città affacciata a finestre come la sua, a far da spettatrice al resto del mondo che va avanti. La popolazione di un piccolo centro urbano congelata nel decennio precedente, mentre gli anni ’80 avanzavano, mentre tutto cambiava facendo a
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meno di lei. Eppure, anche senza bisogno di puntare la sveglia, Sergio continuava ad alzarsi a quell’ora e, a giudicare dalle ombre, non era il solo. La Fiat non era solamente un luogo di lavoro, era un mostro che entrava dentro, ti divorava dall’interno e ti prendeva l’anima. Potevi anche restarne fuori per anni, da Mirafiori, ma una parte di te restava lì, ancorata a quei tempi ossessivi e ripetitivi. Ancora adesso se la sentiva addosso, che gli piacesse o no. La sua intera vita, per dieci anni, si era spesa lì dentro. I suoi amici erano gli operai di Mirafiori, i suoi nemici erano i capi di Mirafiori. E anche il suo matrimonio aveva vissuto per anni in quella fabbrica tanto quanto tra le mura di casa. Mirafiori era un mostro che mangiava esseri umani e cagava automobili. Sapeva di essersi salvato dalle sue fauci, eppure si sentiva invaso da un melanconico senso di sconfitta. Sognava di liberarsi dalla fabbrica e alla fine era stata la fabbrica a liberarsi di lui. Il mostro lo aveva sputato via come un boccone indigesto, un pezzo di carne andato a male. Lui e tanti altri, residui di cibo rimasti in tavola al termine di un pasto troppo abbondante. Sergio si chiese a chi fosse andata meglio: a lui, oppure a quelli che a passo svelto si incamminavano verso la fermata dell’autobus o scaldavano i motori delle 500. Il gorgogliare della moca e l’aroma di caffè lo distolsero dai suoi pensieri. Spense il fornello e decise che quel caffè lo avrebbe lasciato per Patrizia e per il caffellatte di Guido. Avrebbe fatto colazione al bar. Si vestì con gli abiti del giorno prima e si avviò alla porta. Prima di uscire si fermò in corridoio, osservò la sagoma di lei, nascosta sotto una spessa trapunta, in quello che a lungo era stato il loro letto. Patrizia gli dava le spalle. Valigie e scatole di cartone erano allineate davanti al guardaroba, pronte per essere portate via. Nel fine settimana erano stati ultimati i lavori nella casa nuova e si era presa quel lunedì di ferie per traslocare.
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Lei lavora ancora. Lei era rimasta col sindacato e col partito. Lei aveva fatto le scelte che riteneva più giuste e che, non c’è alcun dubbio, si erano rivelate più vantaggiose. Per la sua vita e per quella di Guido. Sergio, non l’aveva fatto. E l’aveva pagata cara. «Bisogna avvicinarsi al traguardo a piccoli passi», questo dicevano Patrizia e i pezzi grossi del sindacato. «La rivoluzione ha i suoi tempi, bisogna vivere all’interno dei processi, modificarli, riformali, creare le condizioni migliori, operare per la crescita del movimento operaio anche tramite minimi cambiamenti, con responsabilità, accettando compromessi e parziali sconfitte, se queste servono a far entrare il partito e le masse che rappresenta nella stanza dei bottoni.» «La rivoluzione è un incendio, e serve qualcuno che appicchi il fuoco», questo rispondevano Sergio e i suoi compagni. «La rivoluzione è la liberazione dei desideri, la fine dei compromessi, la rinuncia all’elemosina in cambio dell’intera cassaforte. La rivoluzione ha il senso di responsabilità di un bambino che assalta una pasticceria. La rivoluzione è una pratica, non un processo.» Per anni le cene tra Sergio e Patrizia erano state animate da discussioni di questo tipo e a Guido, loro figlio, doveva sembrare di assistere a una quotidiana tribuna politica. Dopo l’autunno del 1980 e il fallimento dei picchetti a Mirafiori, quando la direzione della Fiat aveva pubblicato gli elenchi dei cassintegrati e il nome di Sergio ovviamente c’era, mentre quello di Patrizia ovviamente no, attorno al tavolo di casa era calato il silenzio. Gli elenchi dei cassintegrati erano stati redatti dalla direzione con un’unica logica: pacificare, emarginare e mettere fuori chiunque cercasse di portare conflitto sul posto di lavoro, tutti quelli che rompevano le scatole. La guerra è finita, questo avevano voluto dire, e ora bisognava celebrare la pace, la modernità, la nuova era. Il futuro
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era arrivato con il ronzio dell’automazione e dei robot che segnavano il tempo, un tempo a cui non ci si poteva più sottrarre, un tempo non sindacabile. Il futuro era arrivato, e chi non lo voleva abbracciare poteva, anzi, doveva farsi da parte. Molti si erano arresi, qualcuno aveva tradito, e Sergio sapeva che anche rientrando in fabbrica non avrebbe trovato nulla di quel che aveva lasciato. Sergio osservava il respiro di Patrizia ed era pronto a scommettere che fosse sveglia, probabilmente contenta che stesse uscendo, sollevata dal non essere costretta a condividere quella situazione con lui. Si erano già detti tutto quello che c’era da dirsi, non c’era altro da aggiungere. Almeno su questo erano d’accordo. Sergio diede un ultimo sguardo anche alla camera di Guido. Anche da lui scatole e valigie. Almeno lui dormiva. Sergio pensò che fosse una buona età: dodici anni, abbastanza grande da imparare in fretta a muoversi nella nuova situazione, abbastanza piccolo perché i dolori e le ferite sparissero rapidamente. Cazzate, ammise, chiudendosi dietro la porta e scendendo le scale. Separarsi è una merda. Lo era per lui e lo era per Patrizia, e a maggior ragione lo sarebbe stato per Guido. Si era riempito la testa di teorie sulla famiglia come invenzione borghese e ora che la sua, di famiglia, si rompeva irrimediabilmente, non riusciva a ripetersi altro che questo: separarsi è una merda. Separarsi è una merda, separarsi è una merda, separarsi è una merda, separarsi è una merda. Il mantra lo accompagnò sotto un cielo che pareva di pietra, attraversando la strada, svoltando l’angolo di via Santiago, dove la strada scorreva lungo il muro che separava il quartiere dalla ferrovia, il caotico intreccio di scambi e binari dello scalo merci della vecchia dogana. E così andò avanti, percorrendo gli ultimi cinquanta metri di marciapiede fino al bar di Rocco, il Malabar. Il mantra
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si sciolse, come il freddo, varcatane la soglia, nel brontolare della macchina del caffè e nelle chiacchiere dei primi avventori. Lì, finalmente, Sergio riuscì a mettere tutto da parte. Tornato a casa, tornato nella casa svuotata per metà, ripreso possesso del suo letto senza l’altra maledetta metà, in attesa del primo fine settimana in cui avrebbe avuto con sé Guido e della normale trafila dei padri separati, come in quella merda di film di Kramer contro Kramer, avrebbe avuto tutto il tempo di lasciarsi andare, disperarsi, anche piangere, se fosse stato il caso. In quel momento, lì al bar, poteva solo chiedere un caffè.
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Erano passate da poco le otto del mattino e Giuseppe Mazza e Maurizio Pellegrino erano in strada aspettando che Guido uscisse di casa. Beppe aveva quattordici anni, Maurizio tredici da pochi giorni. Indossavano gli stessi jeans a tubo e le stesse scarpe da ginnastica. Appesa a una spalla la stessa borsa sportiva con dentro un diario, qualche quaderno e pochi libri. Li avresti detti fratelli, anche se uno era scuro e robusto e l’altro un fascio di nervi sotto un caschetto di capelli biondo cenere. E di fatto, così si sentivano. Mentre Beppe e Mauri aspettavano, pochi isolati più in là i loro coetanei, al suono della campanella, si accalcavano per entrare nella scuola media statale Albert Einstein. Il trio si stava sciogliendo per la prima volta da che ne avessero memoria, e non poteva che avvenire in una giornata grigia e fredda, con una pioggia sottile buona per mascherare le lacrime, se mai si fossero presentate. Non è cosa da duri, piangere. Erano cresciuti nello stesso cortile, saldati insieme da quei legami che solo l’infanzia e la strada sanno costruire. Ognuno dei tre sapeva tutto degli altri: chi erano i genitori, quanto coraggio aveva quando c’era da fare a pugni, cosa lo faceva incazzare, cosa ridere, di cosa si poteva parlare e di cosa era meglio tacere. Si erano costruiti il loro mondo al riparo dagli adulti e le loro stupide regole. Davanti al carraio che dava accesso al cortile c’era un Fiorino bianco con gli sportelli posteriori spalancati che aspettava di finire di essere caricato. Due uomini in tuta da lavoro facevano la spola con gli ultimi scatoloni.
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Dalla descrizione della nuova casa, Beppe aveva capito che questo trasferimento rischiava di diventare qualcosa di ben più definitivo di un semplice trasloco in un altro quartiere. Beppe temeva che l’amico sarebbe cambiato. Sua madre ora aveva i soldi, la casa era elegante e in un quartiere per gente coi soldi, e Guido si sarebbe trovato a girare con altri ragazzi coi soldi, avrebbe preso le abitudini di quelli coi soldi, e ben presto si sarebbe dimenticato di loro, di quelli con cui era cresciuto. Temeva di perderlo e la cosa non gli andava giù. Beppe aveva pochi amici e teneva a loro, forse perché non aveva molto altro. Guido comparve dal buio dell’androne, seguito dalla madre e dai due uomini che trasportavano gli ultimi scatoloni. Gli uomini sistemarono il carico nel Fiorino, uno dei due si mise alla guida e l’altro si fermò a parlare con Patrizia. Patrizia era una bella donna dagli occhi chiari, con qualcosa di nordeuropeo ma senza averne il freddo. Guardandola pensavi a prati e boschi, dimenticandoti le ciminiere, l’asfalto e i rumori delle fabbriche che ruggivano costantemente in sottofondo. Mentre Guido raggiungeva i suoi amici, Beppe notò la mano dell’uomo sfiorare quella di Patrizia e i loro occhi incollarsi in uno sguardo più intimo ed esplicito di qualsiasi bacio. L’uomo aveva i baffi ben curati, capelli ordinati in una riga e un ciuffo che gli attraversava la fronte. Aveva lo sguardo di chi pensa di aver capito come funziona il mondo. Beppe immaginò che fosse il suo nuovo fidanzato e lo odiò. I tre amici ora erano insieme, e Guido si grattava la testa e aveva il mezzo sorriso di quando era in imbarazzo, cosa che suo malgrado avveniva spesso. Avrebbero dovuto dirsi qualcosa di importante, ma a nessuno dei tre veniva in mente niente di appropriato. Così, quando Maurizio ruppe il silenzio, tutti e tre gli furono grati, anche se quella che disse fu una delle sue solite cazzate. «Prima o poi tua madre me la faccio.»
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«Io la tua me la sono fatta ieri sera», ribatté Guido. «Oddioddioddio...» aggiunse, simulando la voce stridula della madre di Mauri, una parrucchiera con le meches e abbondante di fianchi. A nessuno dei tre venne in mente di tirare in ballo la madre di Beppe. Era una delle cose che era meglio evitare. «Da domani inizio la nuova scuola» disse Guido, quasi a scongiurare un nuovo silenzio. «Sarà piena di piciu e fighetti», pronosticò Beppe. «E di fighette», gli augurò Maurizio, inviando baci a una ragazza immaginaria. «Al primo che rompe le scatole gli tiri un cartone sul naso e vedrai che va tutto a posto. Se hai bisogno fai un fischio.» Beppe porse la mano verso l’amico. Non c’era altro da aggiungere. Patrizia si avvicinò e mise una mano sulla spalla del figlio. Lei era felice. «Ragazzi, ma voi non dovreste essere a scuola?» Pronunciò quel ragazzi con le zeta addolcite dall’accento emiliano che in più di dieci anni non aveva ancora perso. «Entriamo alle nove, il lunedì fanno ginnastica le ragassse», rispose Maurizio, facendole il verso. Patrizia accennò una risata. «State tranquilli, ogni due settimane verrà da Sergio. Due settimane passano in fretta. Maurizio salutami tua mamma e dille che appena possibile passo a trovarla. E magari ci porto pure lui.» Passò una mano sulla testa del figlio scompigliandogli i riccioli neri, cosa che Guido accolse con una smorfia di disgusto. «Ti aspetto alla macchina» sussurrò, avviandosi verso la 126. «Non fate cazzate con Carl, mi raccomando», si raccomandò Guido. «Non ti preoccupare», lo rassicurò Beppe. Pochi minuti dopo il Fiorino e la 126 avevano svoltato l’angolo, sparendo alla vista di Beppe e Mauri. I due amici
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si avviarono verso piazzale Neruda. Nessuno dei due aveva voglia di parlare. Piazzale Neruda aveva al centro una piastra d’asfalto con due porte da calcio di acciaio sverniciato ed era contornato da gradoni di mezzo metro che davano l’idea delle gradinate di uno stadio. Nella parte lungo la strada c’era un’aiuola con delle panchine, qualche albero contro cui pisciare, una fontanella verde che gettava acqua da una testa di toro e i giochi per i bambini con lo scivolo e tutto il resto. Su un lato della piazza c’era il muro della palestra della scuola, dalla parte opposta il prefabbricato con la sala prove del Comune e la stanza del comitato di quartiere, che era un paio d’anni che non si riuniva e che quindi non usava più nessuno. Il piazzale a quell’ora era deserto. Aveva smesso di piovere da poco e l’asfalto era pieno di pozzanghere. Il giorno prima, su quel campo, avevano sfidato tutti, anche i più grandi, vincendo sempre. Beppe era il più alto e giocava in porta. Nonostante avesse due anni in più dei suoi amici faceva ancora la 2a media e qualcuno pensava che fosse un po’ ritardato per via delle botte che prendeva a casa. Maurizio era convinto di esserne il braccio destro. Malgrado il caschetto biondo da bravo ragazzo e le gambe magre, sul campo da calcio si trasformava in un teppistello perfido. Dribblava gli avversari lasciandoli sul posto come sagome di cartone. Era il brasiliano delle favelas, che non si può dirgli cosa deve fare in campo: decide lui. A volte decideva bene e faceva gol, a volte no. Ma quando sbagliava, se glielo facevi notare, rischiavi le botte. Guido era uno nato per giocare in squadra. Era uno da orchestra, uno che sa quando è il suo turno di suonare. Intuiva gli sviluppi del gioco e si faceva trovare sempre al posto giusto. Era una spina che se ti rilassavi era pronta a bucarti la pelle del culo. Non aveva bisogno di correre, raggiungeva il
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risultato degli altri senza sudare. Lo faceva al campetto come a scuola, dov’era tra i migliori senza dedicarci troppo tempo. Guido era il collante di quel trio. Ora che se n’era andato a Beppe sembrava che tutto un mondo stesse per finire e che più nulla lo tenesse legato a nessun altro, nemmeno a Maurizio. Per questo, quando dopo un po’ Mauri raccolse lo zainetto da terra e disse che era ora di andare, Beppe gli rispose di avviarsi da solo, che oggi lui di entrare non aveva testa. Rimasto solo venne assalito da brutti pensieri. Pensò a se stesso, alla prospettiva di diventare adulto, e vide un incubo a cui gli sembrò impossibile sottrarsi. Gli adulti intorno a lui, salvo rare eccezioni, gli facevano schifo. Parlavano solo di cazzate e si dividevano in quelli che si sfiancavano in fabbrica per quattro soldi, quelli che non avevano lavoro e invidiavano chi si faceva il culo per quattro soldi, e quelli che passavano le giornate architettando piccoli furti, da cui ricavavano giusto quel che serviva per farsi un paio di pere e addormentarsi seduti su una panchina, con la scimmia sulle spalle. Non voleva entrare in nessuna di queste categorie, ma non si sentiva abbastanza intelligente per trovare una via d’uscita. Quando la sagoma di Mauri viene inghiottita dal portone della scuola, Beppe si mette tra i pali. Immagina il pallone che passa tra i piedi di avversari invisibili, una fitta rete di passaggi, con la palla che si avvicina sempre di più alla porta che sta difendendo. Quando la palla immaginaria arriva sul limite dell’area Beppe pensa che, a questo punto, toccherebbe a Guido intervenire. Ma lui non c’è, neanche nella fantasia. Immagina il tiro, teso e a mezza altezza, alla sua destra. Si tuffa, ma non riesce a immaginare il pallone stretto tra le mani. Lo vede invece dietro di lui, adagiato in rete. Si alza e si dà una ripulita. Raccoglie lo zainetto da terra e considera che a casa troverebbe Adriano, suo fratello. Probabilmente a quest’o-
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ra dorme ancora, ma non ha nessuna intenzione di rischiare di incontrarlo. Anche la sala prove è ancora chiusa e non può neppure rintanarsi lì a far quattro chiacchiere con lo storpio o a fare un po’ di pratica alla batteria. Tanto vale entrare a scuola. Camminando verso la Einstein, Giuseppe Mazza ha la sgradevole sensazione di aver perso qualcosa di importante.
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