Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane - a Cura di Simone Scaffidi

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~atropo ¡ narrativa~ 16



a cura di simone scaffidi

fughe ed evasioni quotidiane


Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Sonny Partipilo © Copyright 2016, Eris (Ass. cult. Eris) © Copyright di tutte le opere presenti nel volume dei rispettivi autori via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Maggio 2016 ISBN 9788898644247


A Ele, che fugge il tempo

«Nel carcere, in una realtà non più individualista, ma forse il massimo dell’essere uguali, l’impiegato non più impiegato scopre un nuovo modo di capire la vita e le cose che lo circondano. Scopre la realtà della parola “collettivo” e della parola “potere”.» roberto danÉ feat fabrizio de andrÉ, storia di un impiegato (1973)



una galera narrativa in mare aperto

Quello che stringete tra le mani è un raro esemplare di galera narrativa. Una nave agile che solca il mare aperto delle inquietudini quotidiane, alla ricerca di un’onda liberatoria che restituisca il senso della fuga. Il suo equipaggio è composto da autori e autrici condannati a remare sottocoperta in acque di impedimenti e restrizioni, di parole arrabbiate e disegni increspati. Ma tutte e tutti, lungi da rassegnarsi a questa condizione di subalternità, bramano ammutinamenti e ricercano nell’evasione un altrove collettivo, un orizzonte e un immaginario liberi dall’oppressione. Le cose sono andate più o meno così. Un curandero e una bruja tricefala – che si nasconde sotto le malcelate spoglie di casa editrice indipendente – si sono incontrati e hanno deciso di armare una nave di carta e di grafite. Porto per porto si sono andati cercando volenterosi escapisti dalla penna e dalla matita facile, i quali, valutata la proposta, hanno accettato di imbarcarsi in questa impresa, consapevoli dell’im-

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portanza del gruppo quando si architetta un’evasione. Una volta a bordo ad alcuni di loro, quelli con le penne tra le dita, sono state affidate le parole e agli altri, quelli con le matite tra i capelli, i disegni. Ai primi è stato chiesto di sviluppare il proprio racconto immaginando la fuga, o il tentativo di fuga, da una condizione di costrizione liberamente eleggibile tra le infinite che popolano le nostre esistenze. Ai secondi è stato invece dato il compito di trasporre in immagini le parole dei primi, incrociando dialoghi e punti a capo, con schizzi di china e punti di fuga. Il risultato è una raccolta di racconti illustrati sull’incertezza e la liberazione della fuga. Un elogio senza celebrazione dei fuggiaschi e delle fuggiasche di tutti i giorni. Sulla nave sono saliti in trentadue e nella penombra della stiva illuminata da ceri incerti si sono sistemati a coppie su precarie assi di legno. Sedici a babordo e altrettanti a dritta. Ciascuna pariglia, formata da un/a cantastorie e un/a illustrastorie, afferra con quattro mani un remo, che si oppone alla forza contraria dell’acqua, ricercando la resistenza necessaria al moto. Le pale disegnano nell’aria e nel mare ellissi irregolari che vanno a comporre i sedici movimenti di quest’opera. Sedici storie illustrate che s’intrecciano senza soluzione di continuità, garantendo il ritmo della remata ed evitando lo stallo della galera.

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Tuttavia, sebbene l’equipaggio non sembri intenzionato a tirare i remi in barca, non siamo riusciti a trovare un porto sicuro al quale approdare. Siamo sempre in mezzo al mare, curandero e bruja inclusi, a immaginare insieme ai lettori e alle lettrici una strategia che renda più dolce il nostro navigare a vista. A nulla è servito il salto collettivo da poppa per raggiungere la terraferma, siamo ritornati a nuoto a bordo della contraddizione di sempre, quella che non permette la fuga definitiva e spettacolare, ma esige quotidiani ammutinamenti individuali ed evasioni collettive organizzate. Anche per questa ragione, e per molte altre ancora, metà dei proventi della vendita di ogni singolo libro andranno alla Biblioteca Popolare Rebeldies, progetto senza fini di lucro con sede a Cuneo che si occupa di far arrivare libri ai detenuti, direttamente e senza intermediari, ribadendo il diritto alla lettura all’interno del carcere e fuggendo logiche meramente assistenzialiste o subdolamente ricattatorie. Inoltre, come tutte le pubblicazioni di Eris edizioni, quest’opera è distribuita con licenza Creative Commons per garantire la libera circolazione dei saperi – e delle galere narrative – nell’insidioso mare dell’editoria nostrana. Simone Scaffidi

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giusto cosÌ Veronica Pacini

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Ci portano qui di mattina presto. Alcuni arrivano prima, altri, più fortunati, arrivano poco più tardi. La prima sensazione è di nausea per via del disinfettante: ogni centimetro viene sterilizzato quando veniamo portati via, di sera, per la paura di chissà quale contagio, per sfoggio di cura, esibita abnegazione. Quando uno di noi arriva, una di loro si avvicina e imbastisce un sorriso ancor più nauseante. All’inizio è insopportabile. Poi si deve accettare, si capisce. Chi ancora non l’ha capito, o è con noi da poco tempo, si rifiuta di restare e cerca in ogni forma di comportamento più o meno ammissibile una strategia per assecondare il proprio istinto di fuga. Lancia occhiate attorno a sé per cercare sostegno, soprattuto in chi lo sta lasciando lì, circondato dai nostri sguardi rassegnati, da quei sorrisi così poco credibili. Tutti prima o poi finiscono per arrendersi. Si lasciano accomodare sulla sedia, sfilare le scarpe, si avvicinano a noi ancora stupiti della propria facile arrendevolezza,

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vergognandosene. Quelli che vengono portati presto, devono sedersi a un tavolo e iniziare il lavoro. Questo consiste nel tracciare dei segni su dei fogli, segni di cui nessuno di noi ha ancora capito il senso, l’utilità. Cosa ci fanno poi con questi fogli? A chi li danno? A cosa servono? Li raccolgono, segnando su ciascuno il nome di chi ha svolto il compito. Quello che sappiamo è che se fai bene il tuo lavoro vieni apprezzato ed elogiato davanti a tutti. Se lo fai male, anche solo una volta, sarai per sempre quello che non è capace, proprio non ci riesce, è incredibile, deve avere qualche problema, dovremmo segnalarlo. Se lavori bene sei normale, sei nel giusto. Se lavori male diventi all’improvviso una cosa di poco conto, difettata, malriuscita. Il lavoro è ripetitivo e inutile, richiede uno sforzo della mano che per noi non è facile, soprattutto se fatto a lungo, così a lungo durante l’arco della giornata. Si sta seduti. Si sta molto seduti qua. Dopo tanto star seduto senti l’improvviso bisogno di alzarti, le gambe sembrano essere sul punto di mettersi a saltare, per un’esigenza interiore, non si può rimandare, non si può rinunciare. Noi abbiamo bisogno di muoverci. Ci viene detto di non alzarci, che è ancora ora del lavoro. C’è chi riesce a resistere ancora un po’, sforzandosi. C’è chi non ce la fa più e, infine, lo fa. Si alza. Si alza e si muove.

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Si alza, si muove e magari butta per terra la matita, perché le braccia fanno un po’ come vogliono dopo tanto esercizio di immobilità. È allora che una di loro smette i panni di amorevole e comprensiva, esibiti al nostro arrivo, e carica la voce di insofferenza. Si è alzato e ha fatto cadere una matita. Non può sopportarlo. Si avvicina e strattona il poveretto per quello stesso braccio che ha compiuto lo scempio cosa hai fatto! Non devi alzarti, non è ancora ora, e guarda cosa hai combinato, gli fa riprendere la matita e lo sbatte sulla sedia. Deve terminare il lavoro, e se lo termina iniziarne un altro, almeno finché loro non ci dicono che è finita l’ora. Nessuno osa alzarsi, nessuno tranne lui, lui che è stato rimesso a sedere. I suoi occhi parlano: non è per disubbidire che lo fa, ne ha proprio bisogno. Tutti lo capiamo. Ciascuno di noi sente chiarissimo dentro di sé che non è quella la posizione per cui i nostri corpi sono predisposti. Ogni cuore è pronto a esplodere, nella felicità di una corsa, nell’ebbrezza del salto, nel gusto primordiale del rotolare, strisciare, dondolare, muoversi, insomma. Muoversi senza limiti. Ecco, tutti stiamo così, con questo formicolio di vita che non possiamo assolvere. Abbiamo paura, aspettiamo con pazienza di terminare l’ora del lavoro. Finirà davvero? Ma qualcuno, appunto, non ce la fa. E si alza, di nuovo, a cercare di

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liberare le energie, di esaudire quell’arcaica necessità di moto. Così succede. Succede che una di loro arriva, l’insofferenza tramutata in rabbia, in incredulità, ma come? Non riesci a stare seduto? Proprio non ce la fai eh? Non può crederlo, il disubbidiente sta offendendo prima di tutto il suo lavoro, che è quello di educarci all’immobilità. Deve piegarlo, o tutto sarà perduto. Così lo prende e lo mette in una sedia speciale, di quelle che si usano fuori, con le ruote, e lo lega lì, adesso vediamo se riesci ad alzarti. Ti insegno io a stare seduto. Inutile la protesta del poveretto, sempre più agitato, ancora più forte l’imperativo del corpo, ora carico anche di rabbia. Semplicemente lo lasciano lì, finché non si rassegna, si distacca da sé, dal suo bisogno. Si piega. Solo allora lo slegano, per rimetterlo seduto sulla sedia a finire il lavoro, anche se non è più l’ora, è giusto così. È giusto così, se lo ripetono spesso, è giusto così. Vogliono convincerci? Finito il lavoro ci fanno spostare in un’altra sala, c’è un tappeto ad aspettarci, forse i suoi colori sgargianti sono stati scelti per instillarci dentro una scintilla di allegria? Dobbiamo sederci, di nuovo, stavolta in cerchio, e fare silenzio. Inizia lo spettacolo: una di loro parte con delle cantilene che parlano di gioia, amore, natura, amicizia, come se il solo pronunciare certe parole potesse schiudere in noi quei sentimen-

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ti di pace e comunione. Noi cantiamo, dobbiamo cantare, ricordarci ogni parola, ogni gesto che le accompagna, dobbiamo divertirci perché questa è l’ora in cui ci divertiamo. Non ci stiamo divertendo? Chiede ogni tanto lei che dirige questo ridicolo coro, e il coro da bravo risponde, sìììì. Ecco, in questo momento si allarga dentro di me la sensazione di far parte di un tutto, sì, è questo che vogliono, farci sentire un gruppo, un gruppo giusto, che fa le cose giuste, che si diverte, che è educato, obbediente, che si riconosce nelle parole vuote che stiamo cantando. Perché non riesco a godere di questa sensazione? Perché sento questo sentimento di vergogna trasformare ogni rima nell’evidenza del vuoto in cui stiamo annaspando? Immagino un mare fatto di queste parole amico, alberi, scoiattolo, casetta, fiorellino, e noi che cerchiamo di galleggiare, a fatica, mentre piovono altre frasi, altre rime, altre canzoni pesanti come macigni, ad affondarci. Una di loro mi lancia un’occhiataccia, sto affogando, devo tornare a galla e cantare, non destare sospetti. Una di queste canzoni dice foglia, foglia bella io ti guardo e sembri una stella, cadi dall’albero a un soffio di vento, mi sfiori e sul viso una carezza io sento. Una volta una di noi, quella biondina, un po’ bassa, mi pare si chiami Irene, ha chiesto di andare fuori a vedere le foglie cadere, a sentire la carezza che fanno

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sul viso, come dice la canzone. Loro si sono messe a ridere e anche noi: avevamo visto in quella risata la possibilità di uscire, fuori, finalmente. C’è un giardino, lo vediamo quando arriviamo. Non ci andiamo mai in giardino. Riusciamo a vedere un po’ di quello che succede fuori dalle finestre, ma sono alte, vediamo solo le cime di alcuni alberi, i palazzi di fronte, qualche antenna. Ma quella volta, quella volta sembrava proprio che stessimo per andarci di fuori, così tra noi è scoppiata l’euforia, qualcuno ha gridato di gioia, qualcuno si è alzato dal cerchio per saltare agitando i pugni verso l’alto, qualcun altro abbracciava forte il vicino. Presi da quell’improvvisa e sconosciuta gioia non ci siamo premurati di osservare, come sempre, le espressioni dei loro volti, i gesti delle loro mani, indizi sempre chiari di quanto sarebbe accaduto di lì a poco. L’urlo è arrivato all’improvviso, duro, secco, colmo di indignazione per quel controllo che era stato perso, per quella gioia indisciplinata, imprevista. Chi non è stato pronto a sedersi subito, colto il pericolo, è stato messo a sedere a forza. Chi ha protestato è stato strattonato e spinto all’angolo. Le loro mani sono forti, quando ci afferrano sembrano bucare la pelle, frantumarla. Non siamo andati fuori quel giorno, né altri. Nessuno ha più chiesto niente, né di foglie, né di

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alberi, né del fuori. Ognuno ha ricomposto il proprio corpo nel timoroso contegno di sempre. Le abbiamo sentite commentare con altre persone, in altre occasioni ma sono loro che non vogliono uscire, neanche lo chiedono, stanno così bene dentro! Nessuno ha avuto il coraggio di dire niente. Le canzoni sono finite, anche i balletti (si balla solo da seduti, secondo le mosse). È ora di andare in bagno. Funziona così: altre persone che assomigliano a loro ma con un vestito tutto azzurro, arrivano nella stanza e sbraitano sbrigative qualcosa. Sono frettolose anche nel parlare, non afferriamo tutte le parole, ma i loro movimenti e le loro mani sui nostri corpi parlano chiaro: dobbiamo formare una fila, perfetta. Anche loro hanno artigli al posto delle mani, quando ti spostano tirandoti per un braccio senti il corpo farsi in pezzi. Dentro si sgretola qualcosa. Uno dietro l’altro, dritti. Quando siamo tutti pronti una di quelle voci spigolose emette dei suoni che vorrebbero assomigliare a una canzone. Ci è ormai chiaro che le canzoni vengono usate per dare un tocco di allegria a qualcosa che di allegro non ha nulla. Vogliono convincerci? Ci muoviamo lentamente, le nostre voci si uniscono alle loro, sembra una lunga dolorosa lamentela. Arriviamo al bagno, dobbiamo restare in fila, anzi in riga: ci giriamo sul fianco, tre alla volta devono

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fare la pipì lì davanti a tutti. Alcuni di noi la fanno e ritornano al loro posto nella fila. Poi ci sono quelli che si vergognano, ma si sforzano e la fanno. Poi ci sono quelli a cui non scappa. E può capitare a tutti che in quel momento non scappi. E che anche se ti sforzi non viene giù neanche una goccia. Ecco, lì loro si arrabbiano. Tanto. Dicono che dobbiamo sforzarci perché dopo non ci riporteranno più al bagno, almeno fino a dopo pranzo e soprattutto che non dobbiamo assolutamente farcela addosso perché loro non possono stare a pulire tutte le nostre pisciate, che lo facciamo apposta, per fare un dispetto a loro, che quello è il momento della pipì, non altri. Una volta è capitato a me di farmela addosso. Non ho potuto farne a meno, mi scappava ma non era il momento giusto. Ho sentito quel tepore familiare allagarmi le gambe e appiccicare i pantaloni alla pelle, una piccola pozzanghera formarsi sotto i miei piedi. Se n’è accorta una delle spie che ha detto ad alta voce ha fatto la pipì! Ero immobile, in attesa. Sapevo cosa sarebbe successo, ma era la prima volta che vivevo la situazione da protagonista. Loro invitano tutti i bambini a farsi vicino, a circondarti. Tutti ti fissano. Sono loro a cominciare avete visto? Ha fatto la pipì, è un pisciaddosso! E tutti, tutti devono ripeterlo piasciaddosso, pisciaddosso, pisciaddosso! Anche

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quelli che sono tuoi amici lo fanno, tutti lo fanno. I primi tempi qualcuno si rifiutava, per vicinanza, empatia, amicizia. Poteva succedere a chiunque. Ma poi, quando ciascuno di noi è stato almeno una volta al centro della vergogna è prevalsa la voglia di rifarsi, vendicarsi dell’umiliazione subita. Tutti partecipano, tutti. Il cerchio della vergogna. Si usa spesso, in varie circostanze. Cambia solo la parola da dire: cattivo se hai fatto del male a qualcuno, stupido se non hai capito cosa bisogna fare, incivile se hai fatto cadere delle cose o le hai rotte. Somaro se hai fatto male il lavoro. E poi se ne possono aggiungere sempre di nuove. Quando non sei la vittima succede una cosa strana dentro di te: provi gusto nell’urlare quelle parole. Stai bene nell’insultare l’altro, nell’umiliarlo, ti senti vendicato. Non so come sia possibile ma è così. È una sensazione confusa, ti solleva, ti fa sentire più simile a loro. E quando te ne rendi conto, non stai più così bene. Quelle di loro con la divisa azzurra si arrabbiano quando rompiamo le cose, anche se non lo facciamo apposta. Dicono che non sono le nostre serve. Che dobbiamo pulire noi. Poi però non ci fanno pulire. Ci spingono malamente all’angolo, seduti. Ancora seduti. Chi non resiste e si agita viene legato in quella sedia. Non decidiamo niente, non facciamo niente. Ci trattano come se non fossimo

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capaci di pensare, di agire. Non ci fanno cambiare da soli. I nostri corpi sono nelle loro mani. I nostri bisogni sono nelle loro mani. Non possiamo scegliere cosa fare, non abbiamo il diritto di proporre. Ci sarebbero delle attività piacevoli da svolgere, degli oggetti interessanti da usare, ma stanno tutti troppo in alto, non possiamo prenderli. Non servono, dicono. Non saremmo capaci di usarli bene, dicono, li romperemmo, litigheremmo, non riusciremmo a condividerli. È giusto così. Vogliono convincerci? Non so come potrebbe andare, in fondo non ci hanno mai lasciato provare. È l’ora del movimento. Ci mettono di nuovo seduti, in cerchio. Uno di noi, uno alla volta, si deve alzare. Mettono dei cerchi per terra, degli ostacoli. Dobbiamo saltarci dentro, o di fianco, o all’indietro, come dicono loro. Una di loro tiene un quaderno in mano e annota delle cose con la penna. È priva di espressioni. Ogni tanto scuote la testa quando qualcuno di noi sbaglia il percorso. Nell’ora del movimento stiamo seduti finché non tocca a noi. Qualcuno si agita, ha paura di sbagliare, piange. Parte il coro piagnone! Piagnone! piagnone! Finché una di loro non dice forte basta! E torniamo in silenzio. Il piagnone di turno deve riuscire a smettere o verrà portato nell’altra stanza, da solo, per calmarsi. Da solo con una di loro. Da solo con una di loro.

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Ogni tanto viene un’altra persona, una di loro, ma diversa. È gentile, i suoi sorrisi sono veri; lo sappiamo perché per un attimo siamo calmi, ci sentiamo sereni e non spaventati, quella sottile tensione che sosteniamo per mantenere l’autocontrollo si scioglie sotto il tepore della sua voce, mai indisposta, cordiale, forse affettuosa davvero. Ci parla in una lingua strana, che non capiamo, ma non importa il senso delle parole, importa il loro suono, il modo dolce con cui sono pronunciate. Non so bene cosa succeda. C’è una strana atmosfera di accoglienza, di accettazione. Come se ci concedesse una forma possibile di esistenza, di per sé. Sembra accettare che esistiamo. E noi lo sentiamo, come un soffio caldo. Loro, le altre, stanno tutte da una parte e parlottano, ci guardano, a volte ridacchiano, a volte scuotono la testa. Finisce presto questo momento di respiro, lei ci saluta, lentamente ritorna in noi quell’amarezza, quella paura. Inizia quando arriviamo e finisce quando ce ne andiamo. Anzi non finisce, perché ciascuno di noi è consapevole che il giorno dopo sarà di nuovo qui. Qualcuno fa gli incubi di notte. Qualcuno fa la pipì addosso, di notte. Qualcuno dorme, invece, più sereno degli altri. Sono le spie. Sono quelli di noi che per sopravvivenza si sono allineati a loro. Non solo rispettano le loro regole,

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ma fanno di tutto per compiacerle, nella disperata ipotesi che forse, facendolo, loro li amino. Io non credo che li amino, davvero. Credo che siano orgogliose di se stesse per l’ottimo lavoro che hanno svolto. Non amano le spie, amano se stesse. Le spie sono la dimostrazione che il loro metodo funziona. Perché sono obbedienti, perché sono felici. Non lo sono, loro lo credono, ma non lo sono. Le spie non sono felici. Non felici davvero. Gioiscono se assistono a qualche trasgressione da parte nostra, a qualche intoppo, perché denunciandolo ottengono sorrisi, gratificazioni. Ma non è felicità. È sopravvivenza. È amara. Le spie sono soprattutto femmine, quelle che fanno bene il lavoro. Fanno più lavoro degli altri, perché sanno che più fanno quel che loro richiedono, più valgono. Anche noi lo sappiamo, anche noi siamo piegati, ma non così. Nessuno di noi vuole il loro amore, perché in qualche modo si capisce che amore non è. Vogliamo solo non finire legati sulla sedia, o nell’altra stanza, o strattonati, sgridati e umiliati. Vogliamo essere meno visibili possibile. È ora di pranzo. Quelle con le divise azzurre ci risistemano malamente in una fila, di nuovo cantiamo per coprire l’imbarazzo della coercizione, all’incredulità si sostituisce il sentimento di partecipare al grottesco del mondo, a quel buco nero dove si mette in scena la miseria dell’animo uma-

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no. Arriviamo ai tavoli, ciascuno al suo posto. Anche qui si deve fare quello che dicono loro: cosa mangiare e quanto, con quale velocità, se e quando bere. Il tempo rallenta all’improvviso, l’ora della fine sembra sempre più lontana, c’è un misterioso complotto di forze che vuole metterci alla prova. È giusto così, continuano a ripetere. È giusto questo piatto che mangi, è giusto che aspetti che tutti finiscano, è giusto che bevi esattamente questa quantità di acqua, è giusto che non ti sporchi neanche un centimetro di vestito – altrimenti zozzone! zozzone! –, è giusto che stai seduto un’ora, che sommata a quelle precedenti fanno già cinque ore seduti, che sommate a quelle del pomeriggio arriveranno presto a sette, otto. È giusto, è tutto giusto. È sacrosanto. Vogliono convincerci? Vogliono convincersi? Ho capito che la verità è in mano a loro e che è l’unica possibile. L’unica ammissibile. Io non ho una verità, nessuno di noi ha una verità, forse non l’abbiamo mai avuta. Quello che abbiamo è un disperato desiderio di scegliere, di dare risposta a bisogni che non siamo più in grado di riconoscere. Ecco, abbiamo bisogno di tempo e di spazio per ascoltarci, capire di cosa siamo fatti, da quali domande siamo mossi, e darci quel nutrimento che sazierebbe la fame, quella fame di fare, di muoversi, di conoscere che da sempre ci abita.

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La sensazione che più ci è familiare, ora, è di perdita: sentiamo chiaramente che stiamo perdendo qualcosa, ma cosa? Non sappiamo neanche più quali pezzi stiamo lasciando per strada. La spia ha informato una di loro che quello di fianco a lei ha buttato del cibo sotto al tavolo. Lei viene lodata e gratificata. Lui viene costretto a raccogliere e mangiare quanto gettato in terra. Ha le lacrime agli occhi, ma si sforza di non farne scendere neanche una. Ingoia a fatica, lentamente, un boccone alla volta, insieme alle urla che gli arrivano sulla faccia. È uno schifoso, a quanto pare. Avete capito bene? È uno schifoso! Schifoso? schifoso! Lui potrebbe essere chiunque di noi. Ce lo ricorda sempre lei, che urla e guai a voi se lo fate, schifosi! Dobbiamo trovare un modo per uscire. Questo pensiero mi arriva nella testa senza preavviso, mi spaventa. È come il neon quando si accende, fa quello scatto. Illumina, acceca. Sei costretto a vedere. È un pensiero strano, è da tanto che non ho pensieri così audaci. All’improvviso mi rendo conto di quanto siano cambiati i miei pensieri da quando sono qua. Penso solo a fare il lavoro, a farlo bene, a non cadere dalla sedia, a non buttare per terra niente, a non pisciarmi addosso, a mangiare tutto, a non perdere una parola o un gesto delle canzoni, a non disturbare, a non sentire più

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niente di quello che mi succede dentro. Non finire nel cerchio della vergogna. Urlare forte quando sono gli altri a esserne al centro. Stare lontano da loro, dalle spie, dai problemi. Com’ero prima? Ho ricordi confusi, istanti che si accendono e rivelano emozioni diverse, un altro me, un’altra vita. Non so com’ero. Sono riuscite a convincerci? Forse no, sento chiaramente che ciò che ci fanno va contro qualcosa di me di estremamente profondo, di radicato. Ma sono riuscite a cambiarci. Giorno dopo giorno il loro scavare sottile ci ha resi esseri deboli perché dipendenti, ubbidienti perché timorosi, incapaci perché inattivi. Il mio corpo non è più mio, non lo conosco, lascio che venga disposto secondo le loro intenzioni, lascio che abbia caldo o freddo quando lo dicono loro, lascio che abbia fame o sete quando loro sono pronte a sfamarmi e dissetarmi, lascio che si muova secondo precise geometrie che loro ritengono perfette. Lascio che la mia vescica risponda ai bisogni di qualcun altro. Lascio che la mia mano si muova per ore in direzioni che non comprendo. Lascio che il mio bisogno di ridere, gioire, osservare, sperimentare venga seppellito dall’imperativo morale di fare ciò che è giusto. È giusto così. Perché quello che io sento e sono non è giusto. Devo essere educato, devo essere manipolato secondo le istruzioni. Loro sanno cosa è giu-

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sto. E soprattutto lascio che tutto ciò lavori dentro di me anche fuori di qui, perché hanno pervaso così tanto ogni fibra della mia volontà che non so più esistere all’infuori delle loro regole. Posso esistere fuori dalle loro regole? I miei stessi pensieri mi spaventano, nessuno li vede, ma sono così azzardati che ho paura che qualcosa possa tradirmi, un sorriso non richiesto, un certo scintillio nello sguardo. Mi controllo, cerco di ricacciare indietro questo principio di pericolosa ribellione ma non posso, non posso più. Si è aperta una crepa sui muri che mi hanno costruito dentro. Non posso ripararla, si allarga secondo dopo secondo, piano piano recupero ricordi di un’epoca lontana, in cui ero un unico grumo di istinto, emozioni, decisioni, in cui il fare era legato al sentire, al soddisfare, al conquistare. Provare e riprovare, ipotizzare, sbagliare, riuscire. Gioire. Dove ho lasciato tutto questo? Non lo so, ma sento chiaro che in questo luogo ciò di più intimo e arcaico c’è in me non è ascoltato, piuttosto violato, annichilito, eliminato. Mi guardo intorno, mi domando se qualcun altro pensa i miei pensieri. Forse quelli più recidivi, quelli che vengono legati più spesso, sono forse loro i meno cambiati? Dopo il pranzo arriva l’ora del riposo. Loro si devono riposare, affondando i loro corpi nelle pol-

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trone. Il nostro destino per le prossime due ore sono dei materassini gettati in una stanza piccola, buia, dove sdraiarci e dormire. Molti di noi non riescono, in fondo siamo stati seduti tutto il giorno. In ogni caso ognuno di noi deve restare immobile e in silenzio nel suo spazio, come se dormisse. Aspettiamo che si addormentino le spie. Loro dormono, nessuno sa come facciamo, ma tanto è il loro disperato desiderio di ubbidire che impongono al loro corpo un sonno nervoso. Non so come ma negli ultimi giorni è successo qualcosa, qualche fortunato incrocio di sguardi, qualche frase sussurrata nei vuoti di controllo ci hanno permesso di riconoscerci. Quelli che hanno conservato qualcosa. Un piccolo fuoco, forse solo una scintilla, da proteggere, alimentare. Piano piano ci avviciniamo rotolando, ci siamo accuratamente scelti dei posti vicini. Quando siamo così vicini da poter comunicare in sospiri, lasciamo che le nostre bocche pronuncino parole proibite, esprimano volontà di fuga, di liberazione. È una catarsi: si è spaccato improvvisamente qualcosa, ci spingiamo in un’ascesa purificante che sprigiona una potenza che avevamo dimenticato. Dobbiamo trattenere le voci eccitate, non possiamo rischiare di svegliare le spie. Non sappiamo bene ancora come faremo, le idee sono diverse: c’è chi parla di

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fuga, di riuscire ad arrivare al giardino e sfogarsi, almeno nelle ore del sonno, chi di raccontarsi delle storie per non dimenticare che esistono altri mondi, per alimentare uno spazio di resistenza interiore. Qualcuno afferma che siamo già evasi, in qualche modo. È successo nella nostra testa, non siamo più spaventati. Resteremo alle regole del gioco, ma con la coscienza di averlo scelto. Di fingere. Di prenderle in giro. Crederanno di averci piegati, ma i nostri sguardi non sapranno più comprenderli, dominarli. Sentiranno che qualcosa gli è sfuggito di mano, ma non capiranno cosa. Perché abbiamo abbattuto la muraglia di paura che ci hanno costruito dentro, col loro lavorio puntuale di controllo e potere. Non ci possiederanno, non più. E quando saremo pronti, tanti no! cominceranno a uscire dalle nostre bocche. Sereni, perché saranno tanti, uniti. No, non faremo il lavoro come volete voi, tracceremo segni sempre più corrispondenti a ciò che sentiamo di voler esprimere. No, non pisceremo più quando vorrete voi, la faremo in ogni angolo quando sentiremo che è ora di svuotarsi. No, non canteremo le canzoni, non balleremo secondo i vostri gusti, ci muoveremo secondo il ritmo che ciascuno di noi ha, e salteremo, dalle sedie, dai tavoli, e accetteremo le vostre urla con leggerezza perché nessuna voce furente potrà

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convincerci che voi sapete meglio di noi cosa ci fa stare bene. Sappiamo che le vostre armi fanno male: ci tirerete per le braccia, ci affonderete le unghie nella pelle per tenerci, ci legherete alle sedie e ci metterete all’angolo, eserciterete ogni vostro potere per tentare di domarci con la forza, l’umiliazione, la vergogna. Vi renderete presto conto che tutto questo per noi non ha più valore, perché abbiamo smesso di dargliene. E poco a poco saremo sempre di più, perché quando gli altri vedranno che è possibile, che si può resistere alla vostra violenza, lo faranno, perché sentiranno la loro piccola anima frustrata farsi spazio, respirare, volere esistere. Anche le spie crolleranno? Non lo so. Funzionerà? Nessuno di noi lo sa. Per il momento sono fantasie, ma quanto potenti. Così potenti da averci liberato. L’ora del sonno è finita. Vengono a riprenderci. Una spia corre a mostrare il suo lavoro a chi è venuto per lei, accompagnata da una di loro. Sono stata brava maestra? Chiede. Bravissima tesoro, hai lavorato più di tutti, meglio di tutti! L’anno prossimo in prima elementare sarai la più brava della classe, ne sono sicura. La mamma della spia sorride compiaciuta. Non è poi così diversa dalla maestra.

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