Costellazioni familiari

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~atropo · narrativa~ 29


ANA LLURBA

COSTELLAZIONI FAMILIARI TRADOTTO DA FRANCESCA BIANCHI ILLUSTRATO DA DARKAM


Collana Atropo Collana diretta da Anna Matilde Sali e Francesca Bianchi Grafica di Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali, Martina Campanini, Francesca Ruggiero Traduzione dallo spagnolo a cura di Francesca Bianchi Revisione a cura di Valentina Presti Danisi Illustrazioni di Darkam Titolo originale: Constelaciones familiares (Aristas Martínez Ediciones, 2020, Spagna) © Copyright 2020, Ana Llurba © Copyright 2022, Eris (Ass. cult. Eris) Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Giugno 2022 ISBN 9791280495129


Non c’è bestia che non abbia riflesso d’infinito Non c’è pupilla abietta e vile che non tocchi Il lampo delle altezze, ora mite ora feroce. Victor Hugo citato da Julia Kristeva in Poteri dell’orrore



Sulla sponda Che bello è essere vivi, tornare a vivere, non sprofondare nel pozzo scuro della morte! Emilia Pardo BazÁn, La resuscitata You walked into the river with a bag around your head and you were never dead game on the banks of your mental styx. Dana Levin, Styx

Quell’estate aveva piovuto pochissimo. L’aria secca si accumulava, compatta, condensandosi in particelle infiammabili. Al tramonto dei cumuli fucsia, apocalittici, si riversavano melmosi all’orizzonte, minacciando temporali che alla fine non scoppiavano mai. Come se il cielo stesse trattenendo il fiato e al minimo respiro fossero pronti ad abbattersi su quella pampa arida i fulmini, i tuoni e la pioggia, il fuoco e il sangue. Si respirava quella tensione irrisolta nella notte fonda di quel sabato. La notte in cui Gladelí si risvegliò sulla sponda del Tumbicha. La prima cosa che sentì fu l’acqua nei polmoni. Sollevò la testa semisommersa in quel fiume torbido dai riflessi iridescenti per l’inquinamento. Si mise carponi nel fango dove brillavano pezzi di bottiglie rotte e frammenti 7


di plastica qua e là. Tossì fino a sentire che l’umidità che aveva in gola lasciava il posto a un raschio secco. Si girò a pancia in su. Non riusciva a vedere le stelle. Il cielo era ancora nuvoloso, impantanato nell’eterna minaccia di un temporale estivo. Gladelí inspirò forte e lasciò che l’aria nauseante della sponda del fiume la gonfiasse di vita. Si tastò il collo nel punto in cui era rimasto il segno del cavo del televisore con cui quella bestia, il pazzo pelato della Fiat Duna grigia, aveva cercato di strangolarla. Dal dolore alle braccia e alle gambe ebbe la conferma delle bruciature che sempre quel tipo le aveva fatto. Le pale di un elicottero immaginario continuavano a girarle dentro alla testa dopo la botta di vodka, ecstasy e speed. E poi le bruciava la riga del culo. Si alzò in piedi come meglio poté. Scosse via il fango secco dal vestito taglio princess di paillettes dorate. Zoppicava. Le mancava una scarpa. Col braccio destro, constatando che la sua manicure era diventata un ammasso di fango e brillantini, smanacciò nel vuoto. Si accorse che non aveva più neanche la borsa. Infilò la mano nel reggiseno push up ed ebbe la conferma che le avevano portato via anche i soldi che ci teneva nascosti. In quel momento, a pochi metri dalla sponda del fiume, sentì stridere la trazione posteriore di un’auto nel tentativo di uscire dal fango.

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Con una mano si sfilò l’unico tacco a spillo che le era rimasto. E corse oltre l’erba alta che la circondava, fino al punto in cui il fango si allargava in un sentiero. Intravide delle luci rosse e si ritrovò davanti la Fiat Duna grigia impantanata. Gladelí continuò a correre verso l’auto. «Pezzo di merda! Ridammi la borsa! Ridammi i soldi! Pezzo di merda! Ridammeli» gli urlò Gladelí picchiando sul finestrino coi pugni e con la punta dell’unica scarpa che aveva. Il pelato seduto nella Fiat Duna grigia non alzò neanche lo sguardo dal volante. Continuò a fare manovre, concentrato sul cambio. Finché riuscì a disincagliare l’auto e a imboccare la strada verso la zona nord della città. Gladelí restò a guardare la polvere che l’auto aveva sollevato partendo. Col suo tacco a spillo ancora in mano girò lo sguardo verso la sponda del Tumbicha dove si era risvegliata. Forse l’avrebbe ritrovata lì la scarpa che le mancava. La Emperatriz, il bordello dove lavorava e viveva, era stato chiuso due settimane prima. Da quel giorno Gladelí aveva preso in affitto una stanza in una pensione vicino al ponte Bañasco. Ma non ce li lasciava mai i soldi lì per paura che qualche altro ospite glieli rubasse mentre lei batteva. Erano mesi che stava risparmiando perché voleva farsi dare una ritoccatina al silicone. Ultimamente, no-

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nostante il push up, aveva l’impressione che le tette le arrivassero alle ginocchia. Stanca, intontita dall’aggressione della sera prima, si inginocchiò nel fango. Si mise a setacciare la sponda del Tumbicha per vedere se trovava l’altro tacco a spillo. Il rumore degli steli delle erbacce secche che sfregavano uno contro l’altro le ricordava il fru fru dei costumi degli invitati alla festa che si sfioravano. La memoria del dolore le risalì lungo la schiena, richiamando il bruciore incessante che sentiva nel culo e le ustioni su braccia e gambe. Nell’accarezzarsi il segno del cavo sul collo, Gladelí cominciò a ricordare cos’era successo la sera prima. Verso mezzanotte due ragazzini figli di papà l’avevano caricata sulla loro auto. In quel momento si trovava vicino al ponte Bañasco, a circa due chilometri dalla sponda del Tumbicha dove poi si era risvegliata. Uno dei due portava una parrucca rossa coi riccioli, una maglietta bianca a righe orizzontali nere, tipo da marinaio, e dei jeans a zampa d’elefante. Anche l’altro era vestito nello stesso stile anni ’70 e aveva degli occhiali da sole vintage. Emanavano quell’aura di furbizia ed energia adrenalinica che lo speed pompava a tutta velocità nei loro corpi giovani e glabri. «Dove andiamo?» si informò Gladelí, seduta sul sedile posteriore dell’auto, guardando fuori mentre

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si allontanavano dalla sponda del fiume in direzione della zona nord della città. «A una festa» le rispose quello con la parrucca rossa. «Una festa in maschera? Da cosa siete vestiti? Da Starsky e Hutch?» ribatté Gladelí allegra e compiacente sistemandosi le tette nello specchietto retrovisore e domandandosi se quei ragazzini fossero o no maggiorenni. Intorno al ponte Bañasco giravano un sacco di sbirri che chiedevano mazzette a quelli che guidavano ubriachi e alle ragazze che battevano come lei. Quello con la parrucca si voltò verso di lei e, senza togliere le mani dal volante, le passò una bustina di plastica con dentro lo speed e le disse: «Io sono Robledo Puch, l’Angelo della Morte. Guarda, questa è la mia pistola» disse tirando fuori dal cassetto del cruscotto una calibro .38 a canna lunga. «E questo è il mio complice, Ibañez» dichiarò indicando l’altro con un cenno della testa. «Non l’hai visto il film?» chiese l’altro a Gladelí. «No, non l’ho visto. Non ci vado al cinema, devo risparmiare» rispose lei incurante. Parlavano tutti di quel film, rammentò Gladelí. Il film sulla vita di Carlos Eduardo Robledo Puch, il serial killer più famoso del Paese. A soli diciannove anni aveva ucciso a bruciapelo undici persone

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in meno di un anno, tra il 1971 e il 1972. Tra queste i suoi due complici. Uno dei due, dopo averlo ucciso, l’aveva sfigurato con una fiamma ossidrica, perché non lo riconoscessero. Durante un furto a un supermercato, dopo aver ucciso il guardiano notturno, Robledo Puch e l’amico e complice Jorge Ibañez stapparono una bottiglia di champagne presa dagli scaffali e si misero a ballare senza musica. Le banconote gli uscivano dalla patta e dalle tasche. Mocciosi psicopatici, sentenziò Gladelí tra sé e sé. «Ah, allora non hai ancora visto la scena in cui ho sparato a due ragazzine dentro un’auto dopo che lui le aveva violentate» continuò Robledo Puch ridendo esaltato mentre con la testa indicava Ibañez e dallo specchietto retrovisore lanciava occhiate a Gladelí. Qualche minuto dopo arrivarono all’entrata del quartiere privato Las Cañitas. L’eco rimbombante della musica elettronica si insinuò fin dentro l’auto e li guidò fino al centro del parco che circondava la villa da cui provenivano rumori e grida. A Gladelí vennero in mente le centinaia di “ragazzi di buona famiglia” che vivevano nella capitale e che si spostavano in quei posti soltanto per organizzare festini come quello, approfittando dell’assenza dei genitori in vacanza in qualche Paese tropicale. Ap-

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pena misero piede dentro, le luci stroboscopiche la accecarono. Diverse casse di grosse dimensioni erano disseminate nelle varie stanze della villa. E al centro del soggiorno c’era un tavolo con sopra due consolle dove i dj suonavano muovendo la testa su e giù, come in un concitato saluto protocollare giapponese ripetuto all’infinito. Una grande porta scorrevole lasciava intravedere il prato curato di un giardino con una piscina nella quale dei giovani ubriachi si tuffavano a bomba. Diversi gruppi di ragazzi e ragazze andavano e venivano per le scale. Altri entravano e uscivano dalle camere. Erano tutti mascherati, anche se Gladelí non riusciva a capire bene da cosa. Tre ragazze scalze dimenavano i fianchi sopra un tappeto che qualcuno aveva bruciato al centro. Avevano i capelli sciolti e indossavano dei vestiti azzurri con dei cardigan blu. Sembravano delle collegiali. Ma non lo erano. E neanche delle infermiere. Erano vestite da detenute. Avevano tutte e tre una x incisa sulla fronte. A Gladelí vennero in mente le ragazze Manson. E quella famosa foto in cui sorridono prima di deporre al processo per l’omicidio di Sharon Tate. C’era anche un altro gruppetto di ragazzi che si rotolavano per terra. Ma per via delle luci intermittenti e per il senso di stordimento che il volume della musica

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le provocava, Gladelí non riuscì a capire da cosa fossero mascherati neanche loro. Era dispiaciuta perché quella sera non si era impegnata molto nel prepararsi. Magari, se al posto della sua classica parrucca bionda si fosse messa quella castana qualcuno avrebbe potuto pensare che, con quell’abito aderente, era vestita da Black Widow. In quel momento sentì che qualcuno dal basso le toccava una gamba. Era una mano fredda e umida. Quando spostò lo sguardo in basso si accorse che sul pavimento c’era una ragazza con addosso solo una tenda di plastica a fiori dentro cui era arrotolata. Sembrava una tenda da doccia. «Portami via» le disse la ragazza con gli occhi arrossati «non mi far portare in bagno un’altra volta. In bagno no… un’altra volta… no…» sussurrò la ragazza con gli occhi spalancati e le pupille dilatate. Gladelí le scostò la mano con un leggero movimento della gamba bofonchiando tra sé e sé che le millenials esageravano sempre con droghe e alcol. E si avvicinò a un tavolo dove c’era da bere. Ma appena prese in mano una bottiglia di vodka un ragazzo con la maschera di Pennywise, il pagliaccio di It, la afferrò per il braccio. «Stai attenta, è appena passata Yiya Murano da queste parti» le sussurrò mostrandole un sorriso dai denti gialli.

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E con un cenno della testa indicò una ragazza che addosso aveva soltanto un grembiule bianco, una parrucca, una collana di perle e degli enormi occhiali di tartaruga dalla montatura ottagonale. La ragazza li salutò da lontano continuando a ballare, facendo capire di aver afferrato il messaggio. Senza smettere di sorridere, e schivando gli altri ospiti come una gazzella, si avvicinò a Gladelí e al ragazzo con la maschera di Pennywise. «Viva gli sposi! Buon anno! Cianuro per tutti!» urlò ridendo mentre gli porgeva un vassoio con dell’ecstasy. Qualche minuto dopo, mentre si leccava la punta delle dita e assaporava la consistenza tra il salato e l’amaro dei granelli di cristallo dorato, si ricordò del famoso caso di quella “signora bene”. Per anni ne avevano parlato in televisione e, appena uscita dal carcere, aveva perfino tenuto una rubrica su una rivista di gossip. In seguito, uno dei figli aveva girato un musical sulla sua vita. Yiya Murano, meglio nota come l’avvelenatrice di Montserrat aveva raggirato e poi ucciso utilizzando del cianuro tre delle sue migliori amiche perché non la denunciassero per truffa. Gladelí tornò a guardare le ragazze che ballavano a piedi nudi. La loro danza distratta, eppure a tempo, era ipnotica. Qualcuno le si avvicinò da

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dietro e la afferrò per la vita. Era Robledo Puch che, appoggiandole il pacco sul culo, la portò davanti a una stanza chiusa. Da sotto la porta usciva una intensa luce rossa. Il ragazzo bussò tre volte con le nocche. Oltre ai gemiti ritmici di piacere Gladelí percepì dei contenitori di vetro che rotolavano a terra e degli scricchiolii come di mobili vecchi. Dopo qualche secondo, un ragazzo, nudo, con dei guanti neri di lattice lunghi fino al gomito e una maschera di Trump gli aprì la porta. Nonostante la luce rossa Gladelí intuì che si trattava della stanza della domestica per via delle dimensioni e dell’austerità. C’era un letto piccolo ed essenziale, una specie di brandina, e diverse bottiglie vuote che rotolavano sul pavimento. C’era un’altra porta che dava su un’altra stanza ma era chiusa. Da sotto quella porta arrivava una luce bianca. Sul pavimento della stanza se ne stava a quattro zampe il ragazzo mascherato da Jorge Ibañez, il complice di Robledo Puch. Era completamente nudo e aveva un collare da cane con degli spunzoni. Il ragazzo con la maschera di Trump gli stava mettendo un dildo enorme nel culo. Dall’altra parte della porta arrivavano grida soffocate. Robledo Puch la spinse da dietro contro la brandina mentre si abbassava la cerniera dei pantaloni. Sentì che con la punta della pistola le accarezzava

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la schiena scendendo fino al culo. A Gladelí la eccitavano un sacco questi ragazzetti esibizionisti che giocavano a fare i cattivi ma che non si spingevano mai oltre. Però, quando sentì la punta fredda di metallo della .38 che le si infilava con violenza nel culo le si accapponò la pelle e cercò di rialzarsi. Ma era troppo tardi. Con una mossa di judo Robledo Puch le aveva immobilizzato la testa schiacciandogliela col ginocchio contro la brandina. Sentì che il ragazzo, con l’unica mano libera, aveva rotto una bottiglia contro il muro. Appena la punta affilata della bottiglia le sfiorò il culo il testosterone represso per anni le esplose dentro e Gladelí si scrollò quel ragazzetto di dosso con uno scatto animalesco rifilandogli un pugno in faccia. Confusa, con la riga del culo in fiamme e muovendosi alla cieca per via dell’intensa luce rossa, Gladelí aprì l’altra porta. Appena la porta si aprì vide una vasca piena di vino, ghiaccio e pezzi di limone. Era un bagno piccolo, come quelli per il personale domestico. Dentro c’era una ragazza grassa e nuda che sonnecchiava con la testa appoggiata su un secchio. Al centro del pavimento di mattonelle gialle c’era un televisore. Il cavo era tagliato e i fili di rame scoperti facevano contatto con il pavimento bagnato. «Ma che cazzo è ’sta roba?» protestò Gladelí avvicinandosi alla vasca e provando a svegliare la ragazza.

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Le prese la testa con entrambe le mani, la schiaffeggiò e la scosse per le spalle finché quella iniziò a sanguinare dalla bocca. Gladelí si ricordò cosa le aveva detto la ragazza ubriaca che si trascinava sul pavimento avvolta dentro alla tenda… la tenda… da doccia. In quell’attimo Gladelí sentì chiudersi alle sue spalle la porta della stanza con la luce rossa. E sentì la chiave girare. A quel punto pensò che sarebbe finita male. Un’ombra si proiettò sulle mattonelle gialle. Era un tipo pelato e robusto con indosso una maschera che riproduceva una faccia bruciata, una maglietta rossa a righe nere orizzontali e un cappello nero a tesa larga. Aveva dei guanti isolanti da elettricista e si chinò per raccogliere il cavo del televisore. Gladelí mollò il corpo della ragazza nella vasca, scansò il tipo con una gomitata e si avventò sulla porta. Urlò prendendola a pugni mentre il tipo mascherato da Freddy Krueger le si avvicinava da dietro con il cavo che mandava scintille… Un pianto angoscioso che arrivava da dietro le erbacce riportò Gladelí al presente. Alle bruciature sulla pelle, al culo in fiamme e ai segni del cavo sul collo. Senza più un soldo, a quattro zampe sulla sponda del Tumbicha nel cuore della notte di quel sabato di fuoco, a cercare il suo tacco a spillo in

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mezzo al fango e alla spazzatura. Il pianto e i lamenti che sentì arrivavano da oltre la sponda. Era come se provenissero dal fiume stesso. Spaventata, Gladelí sentì la pelle accapponarsi tra le smagliature delle calze rotte e le bruciature sulle braccia. Con un salto si rimise in piedi e impugnò l’estremità del suo unico tacco come fosse un’arma da lancio. Ma non vide niente e nessuno spuntare tra le erbacce o dal fiume. «Andiamo, bello! Ritrova quella borsa e dacci i soldi!» le gridò una donna. «Sst! Non urlare così che lo spaventi» rispose un’altra voce femminile. «Ti prego, dacci un po’ di soldi! Anche solo una monetina! Una monetina! Solo una monetina! Ti prego!» disse un’altra voce più infantile. Una voce di bambina. «Ma non lo vedi che è solo un finocchio di merda?!» ribatté la prima voce. «E poi di una monetina non ce ne facciamo nulla.» Spaventata Gladelí iniziò a indietreggiare nel fango. Da dove arrivavano quelle voci? Chi erano quelle donne che le urlavano e le chiedevano soldi? Sentì un altro rumore. Una successione di piccole onde si delineò sulla superficie iridescente del Tumbicha. C’era qualcosa che si muoveva sul fiume. Si sporse tra le erbacce e dal nulla vide sbucare Car-

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men su un motoscafo sgangherato. Gladelí scrutò entrambe le sponde del fiume, per paura che quelle donne le saltassero addosso. Ma intravide soltanto la macchia scura della distesa di erba secca sotto la luce dei pochi raggi furtivi di luna che bucavano la densità del cielo nuvoloso. «Sali o no?» la incalzò Carmen dal motoscafo. Carmen era la persona che l’aveva presa dalla strada e l’aveva messa a lavorare nel suo bordello. Era una pensionata di Tucumán che gestiva La Emperatriz insieme al cognato. Aveva la pelle scura per via dei decenni passati a lavorare all’aria aperta nei campi. E il fisico teso, esile ma forte e muscoloso. Un ciuffo di capelli bianchi le ricadeva sulla fronte ogni volta che doveva cacciare qualche ubriaco guardone che infastidiva le ragazze che lavoravano nel suo bordello. Di recente la polizia li aveva fatti chiudere e Gladelí non aveva più saputo niente di lei. Qualcuno diceva che era fuggita in Patagonia. Altri che era stata estradata in Paraguay con l’accusa di far parte di una rete implicata nella tratta di esseri umani. I più scettici che era stata uccisa con la connivenza della polizia perché non parlasse e che il suo cadavere era stato gettato nel Tumbicha. «Carmen, ma che ci fai qui? E quel motoscafo? Dove l’hai preso?» le chiese Gladelí.

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«È il mio nuovo lavoro. Ma se non mi paghi in cash dall’altra parte non ti ci posso portare» ribatté Carmen. «Non voglio andare dall’altra parte, costeggia la riva e accompagnami fino al ponte Bañasco. Guarda come mi hanno ridotta quegli stronzi figli di papà. E mi hanno pure preso i soldi!» sbraitò Gladelí sul punto di scoppiare a piangere mentre le mostrava le bruciature e il segno del cavo sul collo. «Forza, sali!» disse Carmen, «ma ti porto vicino al ponte e basta» aggiunse e le allungò la mano destra per aiutarla a salire sul motoscafo. «Ah, ecco! Quel travestito di merda ce lo fai salire sul motoscafo senza chiedergli niente, eh!?» gridò una profonda voce femminile dal fiume. «Bestia! Egoista! Cagna!» le urlò contro un altro gruppetto di donne. «Portaci dall’altra parte! Disgraziata!» aggiunse un’altra con un grido disperato. Carmen fece velocemente manovra per raddrizzare il motoscafo senza allontanarsi troppo dalla riva. Gladelí continuava a sorvegliare, preoccupata, l’acqua scura del Tumbicha. «Ma chi sono quelle?» chiese Gladelí. «Dove se ne stanno nascoste? Le conosci?» aggiunse mentre osservava con diffidenza i rami dei salici piangenti che abbracciavano la sponda del fiume.

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«Sono delle rompiscatole, delle accattone che non vogliono pagare» rispose Carmen. «Ed è la mia unica regola in questo posto: chi non paga dall’altra parte non ci va. Punto. Come alla Emperatriz. Te lo ricordi? Chi non paga non scopa. A proposito, te la ricordi la Tere?» le chiese Carmen. «No, credo che fosse già andata via quando sono arrivata io» rispose Gladelí che non riusciva a capire fino in fondo cosa stesse succedendo ma si sentiva sollevata al pensiero di essere diretta alla pensione. Voleva soltanto farsi una doccia e andarsene a dormire. «Ah, la buonanima della Tere. A un certo punto ha avuto un bambino. E ti posso assicurare che le abbiamo pure offerto dei soldi per non farglielo tenere. Le avremmo persino pagato una clinica privata, ma quella sciagurata non ha voluto abortire. E allora l’abbiamo dovuta mandar via. Era di sette mesi. E siccome era una che non aveva neanche gli occhi per piangere è venuta a partorire qua, sulla sponda del fiume, vicino a quei salici piangenti che abbiamo appena superato. Dicono che siccome lo aveva lavato nel Tumbicha, con tutto l’inquinamento che c’è, il bambino non si è mai ammalato. Adesso si chiama Gladys» proseguì Carmen. «Pensa, Gladys. Come te.» «Io mi chiamo Gladelí. Come il fiore. Il gladiolo. Il fiore della vittoria. E non “Gladys”. Mettersi un

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nome così dozzinale è proprio da poveracci» ribatté Gladelí spostando i capelli da una parte. «Forse ho capito chi è questa Gladys. È una trans giovane, mora e ben piazzata, con le spalle larghe, no? Una che lavorava all’angolo tra Ayacucho e Colón, insieme alle gemelle González?» «Sì, adesso si è spostata un po’ più verso il centro. Vicino alla zona rossa. E poi fa parte del sindacato delle prostitute. Dicono che la mettono sempre in testa ai cortei, a tenere gli striscioni, perché a lei né i gas né i proiettili di gomma le fanno niente» rincarò Carmen. «Dicono che è invulnerabile.» A circa un centinaio di metri di distanza Gladelí intravide le luci e i piloni di cemento su cui si reggeva il ponte Bañasco e dentro di sé tirò un sospiro di sollievo. Non vedeva l’ora di arrivare alla pensione, farsi una doccia, mettersi a letto e dimenticare quella notte da incubo. Però, mentre lei e Carmen continuavano a costeggiare la sponda del Tumbicha, Gladelí sentì un rumore familiare. «Ferma, fermati qua, Carmen. Per favore» bisbigliò Gladelí mettendole una mano sulla spalla. Era di nuovo quell’auto. Il motore della Fiat Duna grigia. A qualcosa erano serviti gli anni in cui, da ragazzo, suo padre lo aveva obbligato a lavorare con lui nell’officina perché non stesse tutto il giorno a provarsi i vestiti delle sorelle e di sua madre.

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Adesso era in grado di identificare il modello di un’auto dal rumore del motore. «Sono quei pezzi di merda che mi hanno portato via i soldi, hanno cercato di ammazzarmi e poi mi hanno buttato nel fiume» sussurrò all’orecchio di Carmen. Carmen spense il motore del motoscafo ed entrambe restarono in silenzio, a spiarli tra le erbacce. Dopo poco videro comparire il pelato, non aveva più la maschera né il cappello a tesa larga, ed era insieme ai due ragazzi mascherati da Robledo Puch e Ibañez. Stavano tirando fuori qualcosa dal bagagliaio dell’auto. Era un affare grosso e pesante, avvolto dentro al tappeto con la bruciatura al centro che Gladelí aveva visto nel soggiorno della casa a Las Cañitas. Robledo Puch stava davanti, illuminava la strada con la torcia del suo cellulare mentre gli altri due trasportavano quell’affare sul sentiero di fango verso la sponda del Tumbicha. «E muovetelo quel culo, forza» disse il pelato «che siamo vicini al ponte Bañasco e in giro è pieno di sbirri.» «Siete sicuri che qua va bene? C’è un sacco di luce!» aggiunse Ibañez, con voce tremante. In quel momento si sentì qualcuno imprecare. Il corpo nudo della ragazza grassa che Gladelí aveva trovato incosciente nella vasca da bagno era scivo-

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lato fuori dal tappeto ed era finito nel fango. I tre si chinarono, arrotolarono di nuovo il corpo nel tappeto e lo sollevarono. A pochi metri da loro, al riparo tra le erbacce, Gladelí fece cenno con la testa a Carmen di scendere dal motoscafo e di seguirla. Senza far rumore, le due donne li aggirarono da dietro e proseguirono verso la Fiat Duna grigia. Gladelí voleva riprendersi la borsa. E senza staccare gli occhi dalle loro schiene, raggiunse l’auto. Ma mentre stava aprendo lo sportello dell’auto sentì abbaiare e distolse lo sguardo. Pochi secondi dopo tre doghi pieni di rogna le saltarono addosso. In mezzo alla spazzatura, al letamaio e all’abbandono generale della zona, sulle sponde del fiume Tumbicha viveva un’accozzaglia di bestiacce. L’abbaiare dei cani richiamò anche l’attenzione dei tre uomini. Allora Gladelí corse verso le erbacce per non farsi vedere ma i tre doghi la seguirono. Carmen era rimasta accanto all’auto dalla parte opposta. Forse i cani non avevano sentito il suo odore. Con quei loro occhi rossi infuocati, i doghi le conficcarono i denti nell’anca, nel braccio sinistro e nella testa. Gladelí però non sentì niente. Soltanto la pressione delle loro ganasce bavose. Si rialzò in piedi e gli mollò una pedata nello stomaco ciascuno. Doloranti, i doghi guairono e se ne tornarono da dove erano venuti. Gladelí si diresse di nuovo

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verso l’auto ma sentendo le voci dei tre uomini si bloccò. E tornò a nascondersi. Guardò Carmen che faceva capolino da sopra il cofano della Fiat Duna grigia e strabuzzava gli occhi dal terrore. Ma prima che i tre uomini raggiungessero l’auto i tre doghi rognosi gli saltarono addosso. Approfittando del diversivo Gladelí si precipitò di nuovo verso la Fiat Duna grigia. Aprì lo sportello del guidatore e trovò la sua borsetta. E pure il rotolo di banconote che teneva nascosto nel reggiseno. Anche Carmen aveva approfittato della situazione per correre verso il fiume e raggiungere il motoscafo. Dopo aver messo i soldi nella borsetta, anche Gladelí corse nella stessa direzione. Ma quando arrivò sulla sponda del fiume si rese conto che Carmen se n’era già andata. «Brutta pidocchiosa! Avida! Dividili con noi quei soldi!» reclamò una voce dall’oscurità del fiume. «Aiutaci, per favore! Ci servono per andare dall’altra parte!» aggiunse un’altra in tono implorante. «Dacci la borsa! Sennò lo sai che ti succede!» rincarò un’altra minacciosa. «Sapete che c’è? Andatevene affanculo! Branco di accattone! L’unica cosa che farò con questi soldi è farmi tirar su le tette che ormai mi arrivano alle ginocchia!» gridò Gladelí in tono di sfida afferrandosi i seni con entrambe le mani.

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All’improvviso il rumore di diversi spari seguito dal guaito dei doghi la ammutolì. Robledo Puch aveva appena sparato ai cani con la sua .38. Adesso di sicuro sarebbero venuti a cercarla. Gladelí percepì il movimento delle onde sulla superficie iridescente del Tumbicha. Era Carmen sul suo motoscafo che era tornata a prenderla. Entrò nel fiume fino alle ginocchia per raggiungerla, ma aveva ancora in mano la sua unica scarpa col tacco e la borsetta. Aveva bisogno di entrambe le mani libere per spingere via il fango e la spazzatura e poter raggiungere il motoscafo. Gladelí sentì il clic di una pistola puntata alla sua testa. Con un gesto ginnico lanciò la scarpa a Carmen e questa atterrò dentro il motoscafo. Volle provare a fare lo stesso con la borsetta. Ma non ebbe fortuna. La borsetta finì in fondo al fiume. «Sììì! Finalmente!» urlarono all’unisono le voci femminili dalle profondità del Tumbicha. Gladelí si voltò e osservò la bocca aperta e la faccia pallida di Robledo Puch. Il ragazzo aveva abbassato la .38, non gliela puntava più contro. Adesso con l’indice della mano sinistra indicava il fiume. Gladelí sentì che qualcuno le conficcava le unghie nel braccio e la trascinava via per riportarla a riva. Era Carmen. «Hanno affondato il motoscafo! Quelle grandissime figlie di puttana! Volevano salirci sopra tutte

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insieme!» gridò mentre si aggrappavano agli steli delle erbacce per risalire a riva. Dietro di loro gli ululati di eccitazione delle donne stavano aumentando. Carmen e Gladelí corsero passando accanto a Robledo Puch che, impietrito, continuava a guardare verso il fiume. «Non ti girare! Non guardare indietro! Non guardare il Tumbicha!» le gridò Carmen mentre correvano verso il sentiero di fango. Come i tre doghi rognosi, il pelato e Ibañez erano a terra e feriti. Gladelí percepì il terrore che regnava nell’aria umida. Quell’aria da temporale che alla fine non scoppiava mai. Lei e Carmen aggirarono i corpi e si infilarono dentro la Fiat Duna grigia. Volevano scappare. Non solo dai tre uomini, ma anche dal ruggito delle voci femminili che si avvicinava sempre di più. «Finocchio, travestito, taccagno di merda! Vediamo se lo fai anche adesso l’uomo» vociavano dalla sponda del fiume. In quel momento la faccia spaventata di Robledo Puch senza parrucca spuntò da dietro il finestrino della Fiat Duna grigia mentre cercava di aprire lo sportello del guidatore. Lo prese a pugni. Gli altri due si stavano rialzando e correvano verso l’auto. «Metti la sicura!» le gridò Carmen. «E parti!»

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Gladelí non ricordava esattamente come si metteva in moto una Fiat Duna ma pochi secondi dopo, sollecitata dal panico, accese i fari anteriori, ingranò la retromarcia e partì. Dopo una decina di metri però l’auto si impantanò di nuovo nel fango. «Ma porca puttana, Gladelí! Filiamocela! Filiamocela da qua! Schiaccia la frizione e poi l’acceleratore!» sbraitò Carmen girandosi e rigirandosi a guardare indietro. Gladelí obbedì guardando nello specchietto retrovisore. I fari posteriori tracciavano un sentiero che portava ai tre uomini che stavano correndo verso di loro. Ma in quel momento un bagliore piombato a picco dal cielo paralizzò tutto per un secondo. Un lampo. Seguito da un tuono. Per la prima volta in quell’estate stava piovendo. Sotto la pioggia che infuriava, Gladelí aprì lo sportello dell’auto e iniziò a spingere senza staccare le mani dal volante. «Esci dalla macchina e aiutami a spingere da dietro!» ordinò a Carmen. «Manco morta ci vado dietro!» le rispose lei aprendo l’altro sportello e mettendosi a spingere dal lato opposto. In preda alla disperazione, con i piedi che affondavano nel fango, le due donne sentirono i loro strepiti, le minacce. Sempre più vicino.

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«Vieni qua, taccagno d’un travestito!» sbraitò una voce di vecchia nell’oscurità. «Adesso non la fai più la voce grossa eh?, finocchio di merda!» rincarò una più giovane. Percepirono anche lo sciabordio dell’acqua e le ombre dei tre uomini che si avvicinavano. Finalmente il motore della Fiat Duna si mise in moto. Gladelí e Carmen risalirono in fretta e chiusero gli sportelli. Appena i tergicristalli del lunotto posteriore gli sgombrarono la visuale, Gladelí guardò attraverso lo specchietto retrovisore. I fari posteriori illuminavano le schiene dei tre uomini che erano rimasti immobili, pietrificati nel fango. Continuavano a guardare, paralizzati dalla paura, verso le erbacce sulla sponda del fiume. Per prima apparve la ragazza grassa della vasca da bagno. Il sangue le continuava a colare sulle gengive e sui denti. E dietro di lei iniziarono a comparire anche le altre. Tutte quelle donne. Decine, centinaia di donne che alla fine erano riuscite ad attraversare il Tumbicha. E gli si avventarono contro.

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