Fate fuori il vostro capo: licenziatevi! - Vivian Abenshushan

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: “Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0” consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana pamphlet Collana diretta da: Anna Matilde Sali, Gabriele Munafò Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali Immagine di copertina: Roberto La Forgia Traduzione dal messicano a cura di Francesca Bianchi Titolo originale: Escritos para desocupados © Copyright 2013, Vivian Abenshushan rilasciato con la licenza creative commons by-nc-sa www.escritosdesocupados.com © Copyright 2015, Ass. cult. Eris per l’edizione italiana La presente traduzione è stata realizzata con il sostegno del Programma di Aiuto alla Traduzione di Opere Messicane verso Lingue Straniere (PROTRAD). Esta publicación fue realizada con el estímulo del Programa de Apoyo a la Traducción (PROTRAD) dependiente de instituciones culturales mexicanas. Ass. cult. Eris Via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Aprile 2015 Isbn 9788898644131


A Oliviero e Luigi, anche loro abitanti dell’ozio





Fate fuori il vostro capo: licenziatevi La ricchezza di sopravvivenza implica il depauperamento della vita. Raoul Vaneigem

I. Basta soffrire! Avete la sensazione di lavorare sempre di più e di avere sempre meno (tempo, denaro, sogni, energia)? Siete convinti che le vostre vacanze siano troppo corte, o troppo care, o troppo noiose? Almeno una volta nella vita avete provato il desiderio di arrivare tardi al lavoro o di andarvene prima del tempo? Siete lavoratori autonomi (freelance) e ogni mese la vostra vita è appesa a un filo sottilissimo? Quante volte non avete pagato le tasse perché ve ne siete dimenticati, perché non avete avuto tempo o come gesto di ribellione? Avete mai pensato al fatto che le ore che impiegate per raggiungere il vostro luogo di lavoro e poi tornare a casa potreste passarle a fare l’amore? Da che età avete iniziato a trasformarvi in lavoratori multitasking? Avete diritto alla previdenza sociale? A cosa pensate durante le ore morte in ufficio? Detestate il vostro capo? Quante volte vi è capitato, anche fuori dall’orario di lavoro, di non riuscire a pensare ad altro che non fosse il lavoro? Qualcosa vi dice che lavorando pure la domenica non riuscirete mai a comprarvi una casa tutta vostra? Quante ore del vostro tempo libero passate a guardare la televisione? A sfogliare cataloghi di prodotti? A spendere il vostro stipendio? A leggere? A non far niente? Quante volte avete avuto la tentazione di sbattere in faccia al vostro capo la ricevuta della vostra busta paga? O magari siete dei produttori di beni immateriali (lavoratori creativi) senza capi, senza contratto, senza stipendio? Vi turba il pensiero di aver

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passato un’eternità a sudare sette camicie per comprarvi un impianto stereo dolby surround che non usate mai perché non ne avete il tempo? Realizzate il lavoro di tre o quattro persone e lo stipendio è quello di una sola? Da quanto tempo vivete sulla vostra pelle la nuova precarietà dei lavoratori cognitivi? Dormite bene? Avete avuto la sfortuna di aver lavorato per qualcuno che non vi ha mai pagato? Vorreste lasciare il lavoro ma vi spaventa l’idea di fare un salto nel buio o di rinunciare alla pensione? Quanti libri non avete comprato negli ultimi cinque anni perché altrimenti non sareste arrivati a fine mese? E comunque non ci arrivate lo stesso? Vi chiedete se ci sia una soluzione? Cosa potete fare? Basta soffrire! Fate fuori il vostro capo: licenziatevi… II. Uno stencil punta il dito contro di me (cronaca da Buenos Aires) Alla fine del 2004 ho passato un lungo periodo a Buenos Aires dove imperversava l’arte categorica dello stencil: il microcentro collasserÀ / war disney / figliare non È un obbligo / il consumo ci consuma / arresta il sistema. Sintesi, umorismo nero e un effetto estetico graffiante, come il terremoto neuronale che subiamo quando un’auto ci sfanala. svegliati, diceva un altro di questi oracoli di strada sotto a un’enorme sveglia a carica manuale, a indicare il livello di logoramento raggiunto dalla società post industriale. Il 2000 era stato l’anno dell’esplosione stencilista a Buenos Aires, come se le goccioline d’inchiostro delle bombolette – piene di rabbia ma quasi sempre lucide – ci stessero annunciando la tremenda batosta che stava per arrivare. Il tracollo finanziario, difatti, è arrivato solo qualche mese dopo che la classe media urbana iniziasse a lasciare impressa sui muri della città la sua totale assenza di fiducia nel sistema e nei suoi prezzi in dollari: la vostra vita È a rischio, dichiaravano le sagome di due persone in uno degli stencil più inquietanti e belli del quartiere Palermo di Buenos Aires.

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Ero andata a Buenos Aires in cerca dei libri che non trovavo più, dei film che in Messico non avrei mai visto (quelli del regista Mariano Llinás, ad esempio) e dell’umore acido, anticonformista e provocatorio del portegno post corralito1. Stavo insomma fuggendo dalla superficialità imperante nella letteratura messicana, nei cui tentacoli stavo cominciando stupidamente a restare imprigionata. Ero caduta nella trappola e ne ero cosciente: dopo diversi anni passati a scrivere nell’ombra e a vivere in uno stato di povertà funzionale, ho pensato che fosse arrivato il momento di cercarmi un lavoro e uno stipendio fisso e l’ho fatto persino con entusiasmo. Il principio di realtà è qualcosa di orribile. Molto presto mi sono resa conto che il lavoro è un purgatorio inutile, soprattutto se consiste nel vendere la tua anima all’industria culturale – indu1 Corralito: termine con cui si intende la misura di restrizione adottata durante la crisi economica argentina del 2001 che impediva ai detentori di conti correnti e casse di risparmio di disporre di contanti. La misura, imposta dal governo di Fernando de la Rua nel dicembre 2001, durò quasi un anno fino all’annuncio della liberazione dei depositi il 2 dicembre 2002. In seguito a tale avvenimento, il termine è stato adottato da tutti i paesi di lingua spagnola e non.

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stria spietata come qualunque altra – che negli ultimi decenni ha adottato un abominevole sistema “leonino”: orari del xix secolo, lavoratori sottopagati, ritardi nei pagamenti, nessun contratto né diritto a prestazioni sociali, nessuna garanzia; o cose persino più gravi come essersi venduta senza riserve a quella massa di merci indegne e spesso oscene, aver promosso una cultura omogenea al suo livello più basso, aver alimentato un disprezzo latente verso il pensiero e la scrittura e un vero e proprio culto al pop più triviale… Ho percorso quest’industria da un capo all’altro, dai festival di letteratura (dove i cantautori si spacciavano per scrittori) alle riviste letterarie (dove ogni giorno alle categorie estetiche si sostituivano quelle dell’ufficio commerciale).

Senza alcun tipo di gratificazione intellettuale, quel supplizio mi sembrava unicamente una forma di sfruttamento. Non era solo questo il problema. Lavoravo controvoglia quasi dieci ore al giorno, in un ambiente asfissiante e pieno di vuote ambizioni (troppo spesso ho sentito pronunciare queste due perle del linguaggio che rappresentano perfettamente l’ideologia della mia generazione: “posizionamento” e “aspirazionale”), curavo interessi che non solo non erano i miei ma che contraddicevano violentemente la mia idea – forse un po’ troppo ro-

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mantica – di letteratura. Nel pieno dello sconforto ho smesso di scrivere e ho cominciato a sentirmi sempre male. L’unica cosa che volevo fare la domenica era vedere le partite della Liguilla, le finali di campionato, e mangiare pollo arrosto davanti alla televisione. Ero l’incarnazione di quello che Adorno ha definito «il mostruoso apparato dei divertimenti»: orde di esseri umani che accumulano giornate di lavoro per assicurarsi la loro dose di nulla «nell’infimo paradiso dei week-end, quando la folla si comunica nella fatica e nell’abbrutimento» (Vaneigem). Quando mi è toccato intervistare il cantante pop Juanes ho capito di aver toccato il fondo. Sarà forse per questo che quando sono arrivata a Buenos Aires anche la spazzatura che si accumulava nelle strade (era in corso uno sciopero municipale) mi è sembrata affascinante. In quella città sembrava accadere tutto in modo diverso, c’erano più librerie, i film che si producevano erano più belli, c’era più letteratura (dilagante, incisiva, potente) e meno glamour. La cultura non sembrava essere un bene di lusso da contendersi né un curriculum da burocrate né un deserto spettacolarizzato. La letteratura ti assaliva come fanno le mosche, ovvero come qualcosa di naturale e leggermente sgradevole e seccante. Ho letto Copi, ho scoperto Cucurto, ho visto la versione cinematografica di Pornografia di Gombrowicz, ho trovato centinaia di libri che non sarebbero mai arrivati nelle cinque librerie che all’epoca erano rimaste a Città del Messico. In uno di questi libri, Acqueforti di Buenos Aires di Roberto Arlt, c’era scritto: «Ditemi voi se non è bello non far nulla! C’è chi vede nella nullafacenza non il contrario del fare, ma un piacere fisico, una felicità profonda… Poiché ogni fannullone, anche il più scansafatiche, è uno spirito contemplativo». Fu così che mi ritrovai circondata da un vero e proprio festino contro il lavoro: tutte le edizioni della casa editrice La Marca Editora, come il libro di Hakim Bey Zone temporaneamente autonome, un pasquino che ho divorato all’ombra di un albero nel quartiere Boedo, o l’antologia Con el sudor de tu frente: argumentos para la sociedad del ocio [Con il sudore della tua fronte: argomenti a favore della società

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dell’ozio], con Seneca in testa. Leggevo nei parchi, nei bar e nelle librerie, compravo un sacco di libri, mi dedicavo alla fannullaggine. Avevo così tanto tempo e così pochi soldi! La vita dovrebbe essere sempre così, ho pensato, semplice, modesta, oziosa e con il tempo per poter essere noi stessi. Un pomeriggio, mentre passeggiavo verso il quartiere San Telmo (era domenica e le strade erano deserte, sporche) ho trovato su un muro scrostato uno stencil che sembrava puntarmi il dito contro: fate fuori il vostro capo: licenziatevi. Era la faccia di Mr. Burns, il perfido capitalista de I Simpson, che faceva capolino in mezzo alla sporcizia della città. Sono rimasta pietrificata, come se all’improvviso tutti i miei sentimenti più nascosti

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avessero trovato in quello stencil la loro espressione più limpida: licenziarsi, questo avrei fatto appena tornata in Messico. Ho scattato una foto a Mr. Burns (in realtà facevo foto a tutti gli stencil, ero diventata una turista dei muri della città) e me ne sono andata. Come succede ogni volta che leggiamo un libro che ci sconvolge, da quel momento non ho mai smesso di chiedermi in cosa consistesse il potere di quella frase. Forse, penso adesso, nel fatto che non soltanto proclamasse la rivoluzione contro gli orologi timbracartellino, ma che incitasse anche alla rivolta contro la frustrazione autoinflitta e il conformismo. Ma la cosa più interessante era che, nel bel mezzo di una delle peggiori crisi occupazionali in Argentina, la scritta su quel muro aveva la sfacciataggine di incitare alle dimissioni di massa. Non era ironia, ma un revival del non lavorare mai, il proclama situazionista apparso nel 1953 sui muri di Parigi che aveva lanciato una critica radicale al carattere insaziabile dell’economia di mercato all’interno della quale la produttività non è altro che schiavitù mascherata da fugace fortuna. Non stupisce che una frase del genere fosse apparsa proprio su un muro di quella città che viene definita la “Parigi americana”. Durante gli anni novanta Buenos Aires si vantava di essere la capitale latinoamericana del rat race, mettendosi in un’assurda competizione con Londra, New York e Roma, le città più care al mondo, dove bisogna lavorare quindici ore al giorno per riuscire a pagarsi una topaia. La sopravvivenza aveva sostituito la vita, eppure la gioventù portegna, la borghesia illuminata, gli scrittori, gli amanti dello shopping sembravano felici in mezzo a tutti i loro fantastici confort. Forse è per questo motivo che il default argentino è riuscito a incarnare in modo così perfetto e così tragico lo sgretolamento del benessere contemporaneo e la fragilità delle sue false aspirazioni.

III. che lavori chi sta male Mai come adesso è diventato necessario riprendere il proverbio cinese: «Se il lavoro ti fa star male, lascia il lavoro». Cos’altro rappresenta la produttività se non una degenerazione

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del lavoro, un impulso malsano e autolesionista? Basta guardarsi in quello specchio che ogni giorno abbiamo di fronte e che si moltiplica all’infinito: quelle migliaia di workaholist solitari, donne esauste che hanno smesso di fare l’amore, ragazzi logorati dal disincanto la cui unica speranza è che arrivi il giorno della paga. Il concetto di futuro è un concetto svuotato, la sua validità non dura più di una settimana e nonostante questo la gente continua ogni giorno a fare sacrifici per il futuro, o per la pensione, per il mutuo o per la rata scaduta della fossa dove andrà a finire quando sarà morta. Il sistema di prenotazione dei loculi nei cimiteri è un fenomeno estremamente rappresentativo di questa nostra epoca suicida, così come l’ansia di lavoro con cui il popolo degli stipendiati reagisce agli insistenti richiami degli imprenditori della morte: «Siate previdenti: non diventate un peso per la vostra famiglia». Lungi dallo scandalizzarsi o anche solo dal rabbrividire, i sopraccitati dipendenti, gli assistenti amministrativi, i receptionist, i geometri, i secondini, i venditori di patatine fritte, i capi reparto, gli oscuri impiegati dei tribunali, quelli che ogni giorno si guadagnano la pagnotta, dopo aver ascoltato quelle minacciose parole si mettono a fare gli straordinari, come se potessero aggiungere un po’ di tempo al conto alla rovescia delle loro vite. Tutta questa gente che suda sette camicie per pagarsi a rate un appartamento e una bara delle stesse dimensioni, non è un’immagine terrificante? Lavorare e morire sono le punizioni divine per aver assaggiato il frutto proibito e da sempre noi esseri umani abbiamo vissuto la nostra vita cercando di sottrarci a esse. Perché mai adesso ci gettiamo istericamente tra le braccia dei nostri carnefici? Negli ultimi cento anni abbiamo assistito a una delle conversioni più infide della storia, la trasformazione della condanna biblica («Lavorerai col sudore della tua fronte») in scelta volontaria di autoflagellazione («Lavoro dunque sono»). Forse è per questo motivo che quando ho mandato il mio capo a farsi friggere, tutte le persone che sono ormai devote al loro giogo mi hanno guardato con disprezzo e persino con orrore. Il fatto è che a partire

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dal xix secolo una nuova morale, la morale del denaro, ha stabilito che “perdere tempo” è peccato. È finita l’era contemplativa, c’è rimasta soltanto la televisione. Ma io dico a tutti coloro che mi guardano allarmati che sono loro a preoccupare me. O anche, come recita quel detto che ho sentito da un cileno, «Se lavorare fa bene alla salute, che lavori chi sta male».

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Genealogia dell’ozioso

Razza d’Abele, dormi, mangia e bevi. Charles Baudelaire

C’è chi afferma che l’ozioso sa godersi la vita. E ha ragione, poiché nessuno prova per la vita un amore più intenso. Spensierato e contemplativo, viandante occasionale di vallate e città, l’ozioso sembra un sopravvissuto dell’Eden. Per lui la Terra non è un pianeta morto, un luogo riservato esclusivamente alle miserie del lavoro e della fatica, ma piuttosto un pianeta vivo, palpitante e pieno di mistero dove tutti noi, uomini e donne, potremmo vivere come pascià (o quantomeno come persone) se solo ce ne rendessimo conto, invece di preoccuparci ogni giorno del nostro conto in banca, impegnati come siamo nelle nostre false incombenze e a evitare di vivere la nostra (seppur, a volte, grama) vita. Provo per l’ozioso grande ammirazione e un’invidia segreta. Mi chiedo dove avrà trovato il biglietto gratuito per assistere allo spettacolo del mondo, da quale fonte miracolosa continua a distillare tempo per osservare la città che nessuno più osserva. «Per i ricchi il paesaggio è appeso nella cornice della finestra», diceva Benjamin, e ogni giorno da quella finestra gettano fuori uno sguardo languido e pieno di noia che poi saranno i loro impiegati a dover ripagare. Non certo l’ozioso che ha rinunciato al suo posto di lavoro per non dover più fissare il muro che vedeva dalla sua finestra. Che se ne fa di una cornice se può avere tutta la strada per sé! In tutte le città ci sono uomini del genere. Vagabondi con quell’aria di chi è altrove, che passano le ore seduti nei bar da quattro

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soldi a collezionare conversazioni da perfetti pelandroni filosofici. Hanno ridotto la loro esistenza alle necessità minime e non devono sborsare un centesimo per divertirsi a osservare la nostra farsa quotidiana, la macchinetta mangiasoldi che ci dice chi siamo, quello che dobbiamo ottenere, quanto dobbiamo spendere. Grazie all’ozioso la città può contemplare se stessa, enumerare le sue atrocità. Senza di lui, la sua esistenza non avrebbe senso. Ci sono città fortunate che conservano i loro corsi d’acqua, grandi fiumi che le attraversano e aiutano gli abitanti a prendersi una pausa da esse. Anche l’ozioso svolge un’importante funzione all’interno della città: non lasciandosi trascinare dal suo ritmo trepidante, mantenendosi a debita distanza dalla corsa sconsiderata del progresso, apre uno spazio metafisico nei bar e nelle osterie dove si sforza di non fare nient’altro se non lasciarsi attraversare – come un fiume – dalla corrente eraclitea del tempo. L’ozioso rende abitabile una città, la restituisce alla sua dimensione umana, perché il suo spirito è più antico della città stessa. In lui sopravvive un’anima nomade abituata alla vita selvaggia e all’aria aperta, estranea al giogo delle strutture sedentarie. Il suo è un universo compiuto che non si è lasciato abbindolare dalla vecchia storia del Peccato Originale, inesauribile fonte di giustificazioni più o meno grottesche che ha fatto in modo che alcuni continuassero a impastare il pane col sudore della fronte mentre altri se ne stavano spaparanzati a godersi la vita. Anche se il castigo della Provvidenza per aver colto il frutto proibito condannava l’umanità intera, nella realtà il lavoro è diventato la principale forma di espiazione per quelli che, per imperscrutabili motivi, sono nati sul “gradino più basso”. Schiavi, servi, lacchè, braccianti, facchini, lavoratori a giornata, al lavoro! Questa discriminazione è stata effettuata senza alcun criterio, a volte per legge divina, altre volte per un capriccio camuffato da destino. In ogni caso il mondo risulta diviso: da una parte quelli che comandano, dall’altra quelli che obbediscono. Eppure tutti potremmo arrampicarci sugli alberi

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– a turno o tutti insieme è una cosa da decidere – per cogliere mele e magari condividerle col nostro vicino! In fin dei conti la questione della sussistenza, ovvero, la volontà di rimanere in vita, è un bisogno naturale che accomuna l’umanità intera. E quindi perché mai alcuni dovrebbero starsene seduti mentre altri ricevono ordini? Cioran si è chiesto se l’istinto di dominio (all’origine della sopraffazione) non fosse diretta conseguenza del Peccato Originale, la materializzazione immediata della Caduta. Una cosa è certa: l’interpretazione sleale del castigo divino – fa lo stesso che si tratti della cacciata dal paradiso giudaico-cristiano o della fine dell’Età dell’Oro dei greci – ha sottratto alla maggior parte degli esseri umani un diritto che dovrebbe essere inalienabile e universale: il diritto a oziare. Nel frattempo una minoranza (nobili, vescovi, pezzi grossi, redditieri, notabili, banchieri) si occupava esclusivamente di garantire che venisse attuata la pena terrena, in cambio della promessa di una salvezza futura (se sei un bravo lavoratore, corretto e sottomesso, andrai in paradiso) trasformando la vita delle moltitudini anonime e grondanti sudore in una lunga attesa del fine settimana eterno. È questa la santa messa del lavoro a cui tutti partecipano, persino in un’epoca senza dèi ma piena di lavoro come questa, per la quale riempire un computer di dati non ha alcun merito spirituale. Per provare a immaginare una genealogia dell’ozioso – personaggio a cui tento invano di assomigliare – mi sono messa a rileggere alcuni brani della Bibbia, libro che sinceramente non prendo quasi mai in mano. Ho idea che lì dentro lo troverò nel suo stato naturale, appena prima di essere condannato dai cattolici, in seguito dai protestanti e adesso dai tecnocrati. Come si legge nella Genesi, Adamo ed Eva cercarono di suddividere equamente il castigo – la cosiddetta suddivisione del lavoro – tra i figli: a Caino sarebbe andata la proprietà della terra, Abele sarebbe diventato padrone di tutti gli animali da allevamento. Uno si sarebbe dedicato a coltivare la terra, l’altro ad allevare

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gli animali. I due fratelli devono aver avuto poco tempo libero per scherzare e giocare assieme sui pendii intorno agli ampi campi coltivati, cosa che, alla lunga, li avrebbe aiutati a creare un legame, scongiurando così l’epilogo fratricida. Un giorno Caino e Abele fecero le loro offerte a Dio (uno offrì un frutto della terra, l’altro sacrificò un agnello), ma Dio, sempre imperscrutabile, accettò soltanto l’offerta di Abele. Infuriato Caino, come tutti sanno, uccise il fratello. Le interpretazioni di questo episodio sanguinario non si fecero attendere. Tra tutte ce n’è una che vede in esso la nascita di una rivalità ancestrale, quella tra lavoratori e oziosi. Questo indicano anche le radici dei due nomi: Caino (dall’arabo gain, fabbro) potrebbe identificarsi con l’homo faber, l’uomo che costruisce strumenti, colui che esercita la sua volontà trasformatrice sulla materia. È lui a forgiare l’aratro per coltivare la terra, ma anche il martello per sferrare il colpo. La sua mano è attrezzata, è una mano che impugna il lavoro, una mano piena. Raramente le dita di questa mano si metteranno a tamburellare. È un fascio di muscoli: apre solchi, spiana la terra, indirizza i germogli, costruisce. È la mano del lavoratore. Grazie ai suoi strumenti, perfetta estensione del corpo, Caino e la sua discendenza riescono a dominare gli spazi inospitali e a creare un nuovo mondo artificiale. Sono i costruttori delle prime città, quelle che in seguito diverranno il simbolo della corruzione e della perdita di spiritualità. Caino ha un’anima sedentaria, mette radici nella terra che coltiva, crea le sue abitudini, rivendica diritti territoriali. Lo indica l’altra radice del suo nome, quella che proviene dal verbo ebraico kanah: acquisire, ottenere, possedere e quindi, governare, soggiogare. Caino è dunque il proprietario, colui che possiede e colui che pratica le arti della tecnologia necessarie a costruire le strade e a conquistare. In lui convergono le forze contrastanti della civiltà: gli strumenti da lavoro e le armi, l’invenzione creatrice e la violenza. Abele, dall’ebraico hebel: fiato, soffio, niente, appartiene invece alla stirpe dei nomadi, coloro che si spostano di continuo,

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come l’aria. Invece di stabilirsi in un posto come fa l’agricoltore, si sposta seguendo il suo gregge. Abel non è legato a nessun luogo in particolare, poiché la sua fonte di sussistenza è sempre con lui, ovunque vada. E si moltiplica senza che lui debba far niente! Nella prima suddivisione del lavoro della storia dell’umanità al pastore è toccata la parte meno dura, meno vincolata ai rigori del clima e allo sforzo fisico della vita agreste. Forse è per questo che, al contrario di Caino, Abele non si stanca. È più libero, più leggero e ha molto tempo a disposizione per oziare. Appena i suoi animali trovano un posto adatto per pascolare, lui si ritrova immerso in un tempo vuoto, rilassato, il tempo che l’homo ludens impiega per i suoi giochi e meditazioni. Osservatelo mentre è assorto all’ombra di un albero, mentre contempla le ore che passano come se le ore non esistessero. Tutto il contrario del tempo programmato di Caino, un tempo associato alla produzione, alla semina e al lavoro, un tempo utile attorno al quale viene organizzata tutta la vita. Abele è un abitante naturale dell’ozio, un essere pacifico ed errante, geloso della sua autonomia, estraneo alle gerarchie del villaggio. In lui non ha attecchito la volontà di dominio né l’ambizione di potere (forse per questo San Giovanni e Cristo lo considerano “un giusto”). Dal momento che non gli interessa lasciar traccia di sé – è appena un soffio, passeggero come la vita stessa – la sua esistenza si è svincolata da ogni obiettivo e la sua unica occupazione è osservare. Mentre ascolta il palpito del vento oppure osserva il corteggiamento degli uccelli, Abele sorveglia il suo gregge. Deve tenere gli occhi ben aperti e impara che anche quella è una forma di contemplazione: abitare il mondo con lo sguardo. Questa sua abilità ottica, esercitata senza sforzo durante il suo tempo libero, si trasforma in un’osservazione di natura diversa e darà origine alla speculazione intellettuale e alla vocazione artistica. Abele si è seduto a pensare in solitudine, il suo oziare è una forma di meditazione e forse, anche di malinconia. Non fu proprio questo il peccato dei suoi progenitori, il desiderio di conoscere? Ah, l’ozio, padre di tutti i vizi!

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Caino avrà sicuramente nutrito un’invidia segreta per l’ozioso. Perché, al contrario di lui, il pastore di pecore mostra tanto piacere nello svolgere le sue attività quotidiane? Forse perché nella sua transumanza Abele resta lontano dal fardello della civiltà e dai suoi infiniti artifici. Nella città di Caino ogni nuovo edificio porta con sé nuovi compiti, i doveri quotidiani raddoppiano, il peso delle gerle triplica e le sofferenze degli schiavi sono infinite. «O razza di Caino – scrisse Baudelaire – al tuo da fare non abbastanza ti sei dedicato». La vera sciagura delle città è che in esse non si smette mai di lavorare. Il desiderio di rendere la vita più confortevole vale davvero tutto questo affanno, tutto questo sfinimento? Se l’ozio è il fine ultimo del lavoro perché semplicemente non abbandonarsi a esso senza rimorsi? Questo è quello che fa Abele, una volta soddisfatte le necessità primarie. Abele potrebbe essere l’emblema di un popolo amante della semplicità, refrattario alla fama e alla ricchezza, obblighi imposti dallo stile di vita tradizionale. Essendo nomade il suo rifugio e tutti i suoi averi se li porta dentro, non accumula, non si lascia frenare dal peso della vita materiale; preferisce fluttuare, come fanno i suoi pensieri al calar del sole. Qualcosa di questa leggerezza, una leggerezza mal vista dalla stirpe di Caino, sopravvive nel luftmensch, termine yiddish che indica in tono dispregiativo il vagabondo, l’uomo non produttivo, senza lavoro né stipendio fisso che si dedica a perdere il tempo e si abbandona alle sue elucubrazioni. Perso tra libri e divagazioni, il luftmensch è letteralmente “un uomo dell’aria”, “un uomo che fluttua”. A cosa aspira? In che direzione si muove? Come Abele, questo ozioso non ha piani né progetti, è un figlio errabondo che continua a dare molte preoccupazioni a sua madre. Se Caino rappresenta la tecnica e la responsabilità dell’età adulta, suo fratello è invece un bighellone, un adolescente senza obblighi. Caino è pragmatico, Abele è loquace. Uno ama grattarsi la pancia, l’altro crede nella solerzia come in un dogma. Sono spiriti opposti sotto ogni punto di vista. E i due mo-

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di di abitare lo spazio a cui hanno dato origine, sedentario e nomade, rappresentano due modi, a volte inconciliabili, di affrontare i dilemmi della sopravvivenza: soccombere al peso del lavoro in nome del progresso o imparare a vivere in nome della vita stessa. È curioso che Dio disprezzasse Caino proprio perché durante il suo sacrificio aveva agito per mero senso del dovere invece di farlo con generosità, spinto da un amore puro, come invece aveva fatto Abele. (Se ci atteniamo a quanto afferma San Giovanni, Dio cercava gli uomini e non le cose che questi fabbricavano con le loro mani, così come preferiva ciò che cresceva naturalmente a ciò che si otteneva attraverso impulsi di avidità, come ad esempio l’aratro con cui si obbliga la terra a germogliare per poi lucrare sui suoi frutti). Chissà quanta rabbia avrà pulsato nelle tempie dell’agricoltore quando alla fine della giornata di lavoro è stato premiato il fratello, l’ozioso. Era davvero un buon motivo per ucciderlo. E così, in un raptus di rabbia distruttiva l’homo faber toglie di mezzo, una volta per tutte, l’homo ludens. Che significato ha tutto questo? Che alla fine il lavoro reprime lo spirito ludico, attitudine che può solo suscitare preoccupazione e sospetto in un mondo tanto folle da arrivare a concepire l’esistenza stessa come un castigo. In un mondo come questo, la penitenza distrugge il gioco, il dovere distrugge il piacere. E quella remota possibilità di rendere il lavoro un fatto gioioso, o quantomeno transitorio, dopo il quale l’uomo possa essere libero di dedicarsi a ciò che più gli piace, è stata abolita per la maggior parte delle persone sulle quali sono ricadute le incombenze più servili e meccaniche. È un peccato che sia stata proprio la stirpe di Caino a ispirare numerose generazioni votate al lavoro compulsivo che si sono susseguite nel tempo fino ad approdare alla scrivania di Benjamin Franklin che nel xviii secolo ha definito l’uomo come «un animale che fabbrica strumenti» e ha cancellato dalla sua agenda la possibilità di riposare. «Non perdere tempo. Sii sempre impegnato in qualcosa di utile. Evita ogni azione superflua» erano queste le note più acute del suo inno personale, l’inno

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dell’homo faber che ha fatto del tempo la principale risorsa da amministrare: «Ricordatevi che il tempo è denaro. Chi può guadagnare dieci scellini al giorno con il suo lavoro, e va a spasso oppure sta seduto pigramente mezza giornata, anche se spende solo una moneta da sei pence durante la sua passeggiata o il suo riposo, non dovrebbe calcolare questa come unica spesa; in effetti ha speso o piuttosto gettato via oltre cinque scellini». Quanta ragione aveva Vaneigem quando scriveva: «Le necessità dell’economia si conciliano male con il ludico. Nelle transazioni finanziarie, tutto è serietà: non si scherza con il denaro». Anche i romani avevano capito che la parola negotium, attività, occupazione, affare, significa proprio questo, nec otium, negazione dell’ozio. Per questo Cicerone che apparteneva a una cultura che disprezzava il lavoro e aveva trovato nell’ozio l’espressione più alta di libertà ammoniva: «Cosa può uscire di onorabile da una bottega? E cosa può produrre di onesto il commercio? Tutto ciò che si chiama bottega è indegno di un uomo onesto, [...] non potendo i commercianti guadagnare senza mentire, e nulla è più vergognoso della menzogna! Dunque, si deve guardare come un qualcosa di basso e vile il mestiere di tutti coloro che vendono la loro pena e la loro industriosità, poiché chiunque dà il suo lavoro per denaro vende se stesso e si mette al rango degli schiavi». (Cicerone poteva permettersi il lusso di fare questa affermazione proprio perché lui aveva degli schiavi). È possibile raggiungere un benessere che non danneggi nessuno? Forse solo attraverso la felicità semplice dell’ozioso, un essere libero che si abbandona al fluire della vita senza tentare di compiacere o sottomettere il prossimo. E anche se la Bibbia non dice nulla sulla discendenza di Abele (cosa che lascia supporre che non ebbe il tempo per crearne una), il suo spirito nomade e il suo amore per la ricchezza spontanea del gioco sono risorti nel corso della storia in molti luoghi diversi. Nei boschi di Walden, sulle sponde del Mississipi o nelle luride taverne di Parigi, tra girovaghi, cospiratori, vagabondi e flâneurs, il suo vagabondare risuona ancora come un inno del non fare.

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La sindrome del tempo libero

Era andata in spiaggia per non pensare. Non che fosse questa la sua intenzione (in realtà cercava l’esatto contrario) ma tutto intorno a lei, adagiata sulla sdraio di fronte alla magnifica vista sul porto, contribuì a darle la sensazione di essere arrivata fin lì solo per sentirsi infelice. Immagino questa scena mentre leggo un articolo sulla “depressione della sedia a sdraio”, una rara insidia psichica che minaccia i turisti del nuovo millennio, la sindrome beffarda di un mondo che ha perduto la capacità di godersi la vita. Ed eccola lì la direttrice finanziaria in bikini, lontana dagli impegni dell’ultimo minuto e finalmente libera dalla fretta e dalle telefonate. Eppure si sente mancare le forze. Prova a leggere qualcosa ma non ci riesce, vorrebbe guardare il tramonto ma non è in vena, una vodka riesce appena a smorzare la sua inspiegabile voglia di piangere. Non vedeva l’ora di fare quelle vacanze tante volte rimandate, e adesso che è arrivato il momento non riesce a godersele. L’ozio le provoca un malessere incomprensibile. E così, inquieta, si rigira sulla sedia a sdraio, tormentata da un insetto invisibile, meno prosaico della pulce di mare ma più vorace e per di più metafisico: la zanzara dell’horror vacui. «Niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo – ha scritto Pascal – […] Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto». L’unico desiderio della manager in vacanza è tornare al la-

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fate fuori il vostro capo: licenziatevi!

voro. Perché in quella condizione, immobile e costretta a contemplare il suo paesaggio interiore, viene ben presto assalita dalla sensazione incalzante di aver sprecato la sua vita e dalla certezza di non essere nessuno, fuori dal suo ufficio. L’insoddisfazione s’impossessa di lei mentre si spalma la crema abbronzante e non riesce a smettere di pensare a che persona sarebbe diventata se avesse seguito i suoi istinti giovanili. Si tratta dell’Angst di cui tanto ha scritto Connolly in La tomba inquieta, il rimpianto di aver accettato «per una conoscenza imperfetta di noi stessi, schemi di vita convenzionali». Gli psicologi austriaci che hanno coniato l’espressione «depressione della sedia a sdraio» attribuiscono questa patologia all’incapacità dei lavoratori di liberarsi dallo stress accumulato durante l’anno, l’affaticamento come causa d’angoscia. Quest’esperienza d’improvvisa perdita di senso potrebbe essere ricollegata anche a ciò che succede a quei pensionati che, lontani dal loro lavoro, muoiono di tristezza, uomini e donne giunti alla fine del loro percorso per i quali la vita appare, una volta svuotata della sua sterile meccanica, come una stanza sconfinata e completamente vuota. Il pensionato potrebbe diventare l’artista che organizza questo vuoto, plasmare finalmente la sua esistenza con le sue stesse mani, ma non ha il coraggio di farlo. Dopo una vita passata a salire in auto ogni mattina, entrare in ufficio, catalogare archivi interi, pranzare velocemente, tornare ai documenti, uscire dal lavoro, bersi una birra, tornare a casa, incontrare il coniuge, dare un bacio ai bambini, mangiare un panino con la televisione in sottofondo, andare a letto e addormentarsi, dopo aver ricoperto sempre lo stesso ruolo per quarant’anni, senza mai una parola di troppo né variazioni effettive, il pensionato espulso dal mondo del lavoro potrebbe diventare, finalmente, se stesso. Ignora però quale sia il suo vero ruolo, perché ha sempre vissuto una penosa reiterazione di clichés. E gli rimane poco tempo per scoprirlo, giusto quel che resta tra l’uscita del pubblico e l’inizio del prossimo spettacolo. Poco tempo, il corpo consumato e la

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esuli del tempo lento

memoria arrugginita, per arredare nuovamente la stanza vuota, per ricominciare da capo. Ha senso tutto questo? Ovunque nel mondo al lavoro è stato permesso di occupare lo spazio dell’identità, ci affanniamo di lavoro per essere qualcuno agli occhi degli altri. E se il lavoro è l’unica forma di realizzazione personale, allora andare in pensione è come se all’improvviso ci strappassero la faccia, come se entrassimo in un’esistenza senza più alcun valore. Per questo motivo, per molti pensionati che non sono stati educati all’uso fecondo del tempo, la pensione è solo l’anticamera della tomba. La faccenda diventa anche più grave quando vengono derubati delle loro pensioni, attualmente in balia delle velleità di Wall Street, conosciute anche col nome di fluttuazioni del mercato. L’economia di mercato disprezza la vecchiaia, ossessiva e improduttiva, tanto quanto la disprezzavano i ragazzi di Diario della guerra al maiale, angosciante romanzo di Bioy Casares dove un manipolo di ragazzi giura di sterminare definitivamente tutti gli anziani. Non vedo alcuna differenza tra il cinismo latente del sistema folle e criminale, con la sua implicita ferocia, in cui ci ritroviamo a vivere e quello spietato rastrellamento di vecchi lenti e ricurvi per le strade di Buenos Aires: dopo avergli spremuto fino all’ultimo centesimo, la società spedisce l’anziano verso la morte facendolo passare dall’ingresso secondario, senza più niente addosso. Non è più né un lavoratore né un consumatore, adesso è solo un ozioso e l’unica cosa che interessa alla banca è speculare sui suoi pochi risparmi. E se poi per un rovescio in borsa perde tutto quello che aveva? Poco importa. Il vecchio era a un passo dalla tomba. Sono rimasta tutto il giorno a pensare alla tristezza dei pensionati e alla depressione dei turisti, due mondi che quando si trovano casualmente a coincidere non possono che portare a esiti drammatici, come aveva intuito Michel Houellebecq nel suo reportage su un gruppo di pensionati in vacanza riportato nel libro La ricerca della felicità. Questi uomini e donne che hanno abbandonato la vita attiva un tempo erano stati dei giovani

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fate fuori il vostro capo: licenziatevi!

animatori ingaggiati per far divertire gli ospiti di un Holiday Inn Resort, un hotel immenso con oltre trecento camere, discoteca e terrazza per gli spettacoli all’aperto e persino un centro commerciale, una specie di città vera e propria dove tutto era a portata di mano, incluso un fantastico clima. «Una volta, eravamo animatori di villaggi vacanze; eravamo pagati per divertire la gente, per cercare di divertire la gente. Più tardi, sposati (il più delle volte divorziati), siamo ritornati in un villaggio vacanze, come clienti stavolta. Dei giovani, altri giovani, hanno tentato di divertirci. Personalmente, abbiamo tentato di stabilire delle relazioni sessuali con alcuni membri del villaggio vacanze (talvolta ex animatori, talvolta no). Talvolta ci siamo riusciti. Ma perlopiù abbiamo fatto fiasco. Noi ci siamo divertiti molto. Oggi, conclude l’ex animatore di un villaggio vacanze, non c’è davvero più alcun senso da dare alla nostra vita». Così la noia riversa sulla spiaggia quel che resta dell’ozio frantumato. Perché nell’avvicendamento generazionale degli animatori d’hotel (come nelle famiglie circensi) non sembra esserci variazione possibile, né passato, né presente, né futuro: ogni giorno inizia nuovamente, identico a se stesso, un circolo vizioso dove l’ozio è diventato un’estensione del lavoro. E nessuno si sorprende quando viene ritrovato il cadavere dell’ex animatore «che galleggiava in piscina». Concludendo. Guardo dalla mia finestra che non dà sul mare e non riesco a smettere di pensare alla pensione e alle vacanze (io che non ho un fondo pensionistico e vivo una vacanza permanente; è proprio per questo che faccio la scrittrice!) due facce squallide e morbose del falso ozio della nostra epoca, il modo in cui i tempi sempre più ristretti che la società concede all’uomo per l’autentico godimento di sé si trasformano nel loro opposto: una stagione all’inferno.

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