Il complotto delle statue - Riccardo Borgogno

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~atropo romanzo~



~atropo 路 narrativa~ 15




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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Silvia Rocchi © Copyright 2015, Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Novembre 2015 ISBN 9788898644179




Parte prima Le mozioni uccidono le emozioni



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14 febbraio 997 Ruggero saliva la scala a chiocciola che portava in cima alla torre della rocca di Sparone. La scala era tanto stretta che doveva strisciare di traverso, anche perché era grande e grosso. Sulla mano sorreggeva il piccione impaziente di spiccare il volo. L’uccello sarebbe stato libero, dopo aver assolto il servigio che Ruggero gli avrebbe affidato. Ormai sospettavano di lui, ne era sicuro, e quel servigio sarebbe stato l’ultimo. Il vescovo Warmondo d’Ivrea poteva ritenersi soddisfatto, non poteva esigere di più. Gli aveva promesso la salvezza dell’anima, e anche mille denari d’argento con cui avrebbe potuto andare lontano con Teresa, la fanciulla che amava e da cui avrebbe avuto molti figli. Gli mancava il respiro, ma per fortuna era arrivato. Un ultimo sforzo e il cielo azzurro si aprì intorno a lui, sulla cima della torre. Sentì la testa che gli girava, mentre lo sguardo precipitava nello strapiombo che circondava la rocca, rendendola inespugnabile, e che sembrava volerlo inghiottire. Vinse la vertigine cercando di pensare che lassù, vicino alle nuvole e alle aquile, nessun nemico, nessun pericolo sembrava poterlo raggiungere e minacciare.

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Purtroppo sapeva bene che non era così. Ma era l’ultima volta, si ripeté. Tirò fuori dalla bisaccia il piccolo pezzo di pergamena con il nome della località dove Arduino, signore di Sparone e marchese d’Ivrea, avrebbe incontrato i suoi alleati, i piccoli feudatari locali detti vassi e secondi militi, lo legò alla zampa del volatile, poi alzò il braccio oltre i merli di pietra. Il volatile aprì le ali e si levò nel vuoto, come solo gli uccelli e gli angeli sanno fare. Ruggero sorrise. Nella residenza di Warmondo lui e Teresa avrebbero avuto una camera tutta per loro e un valletto al loro servizio. Suo figlio sarebbe stato segretario del vescovo, sua figlia avrebbe sposato un cavaliere. Tirò fuori dalla bisaccia una mela, la addentò e cominciò a masticare. In quel momento si rese conto che qualcosa non andava, e impiegò un breve lasso di tempo a capire cosa. Il sibilo aveva rotto il silenzio e lo strido aveva seguito e interrotto il sibilo. Poi vide il suo piccione trafitto dalla freccia che piombava come un sasso nello strapiombo, e in quel momento Ruggero capì di essere morto. Sputò l’ultimo pezzo della mela, gettò quanto rimaneva del frutto e si precipitò giù per la scala. Questa volta per fare prima non si mise di traverso, incurante della pelle che rimaneva attaccata alle sporgenze della pietra. Balzò fuori dalla porta, e subito molte mani lo afferrarono, due pugnali gli vennero appoggiati alla gola. Aveva già visto i volti dei tre uomini che lo circondavano e sapeva che erano i luogotenenti più fidati di Arduino. Nessuno parlò. Gli uomini lo trascinarono lungo un altro corridoio e un’altra scala, questa volta in basso, sempre più in basso, nella tenebra rotta solo dal ba-

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gliore di una torcia, con le candele che erano l’unica forma di illuminazione dopo che la conquista del Mediterraneo da parte dei Saraceni aveva fatto scomparire l’olio da tutta Italia. Poco dopo erano in una sala che trasudava umidità e paura, nel ventre della rupe che sorreggeva la rocca. Arduino era lì, seduto su una gradino di pietra. Tutto era possente in lui, il mento barbuto appoggiato al pugno, le spalle su cui ricadevano i capelli lunghi, lo sguardo che comunicava ostinazione e rabbia, e che subito si fissò sul prigioniero. L’abbigliamento non era costituito dai colori sgargianti tipici dei signori, ma da una blusa di pelle color ferrigno, come pronto per la battaglia, e la battaglia ricordavano anche il pugnale appeso alla cintura borchiata, in cui era infilato un paio di guanti dello stesso colore tetro. Al suo fianco, un po’ discosto, vi era il cancelliere Gotofredo, nella sua tunica lunga fino ai piedi, al collo la bisaccia con le pergamene e gli strumenti del suo ufficio. Uno dei luogotenenti stava porgendo il piccione infilzato dalla freccia ad Arduino che strappò la freccia, sfilò il pezzo di cartapecora e lo porse al cancelliere affinché lo leggesse. Nello stesso momento i tre uomini costringevano Ruggero a inginocchiarsi davanti al suo signore che aveva tradito. Gotofredo riferì il contenuto del messaggio nell’orecchio di Arduino, che teneva lo sguardo ferocemente fisso sul servo infedele. Quando il cancelliere ebbe finito, si scostò e Arduino chiese: «Cosa dice il mio vicino Warmondo, vescovo di Santa Madre Chiesa?». Ruggero sentì la saliva che gli riempiva la bocca, e credette che non sarebbe mai più riuscito a proferire

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una sola parola. Fino a quando fosse rimasto vivo, naturalmente. Riprovò, e alla fine riuscì a soffiare: «Pietà». Credette che nessuno avesse udito, tanto flebile era stata la sua voce, ma Arduino aveva udito poiché si alzò e si avvicinò, afferrò il suo servo per i capelli, lo costrinse a sollevare la testa e disse: «Pietà?». I luogotenenti cominciarono a ridacchiare, ma smisero appena il signore li guardò. Arduino era più alto di tutti gli uomini presenti in quel luogo, le mani ora erano appoggiate una sull’elsa del pugnale e l’altra sulla cintura borchiata. «Se vuoi pietà, devi rispondere alle mie domande, e devi farlo con sincerità. Un buon signore deve essere capace di pietà, e io ambisco a essere un buon signore. Ecco la mia prima domanda. Cosa dice di me il vescovo Warmondo d’Ivrea?» «No… No…» Uno dei luogotenenti si abbassò e sussurrò all’orecchio di Ruggero: «Hai udito il nostro signore? Vuole essere pietoso con te. Ma tu devi rispondere alla sua domanda». Eseguito il suo compito, Gotofredo si era ritirato in un angolo, e pareva impaziente di lasciare quel luogo. Nessuno più badava a lui. Ruggero si fece forza e rispose: «Dice che siete posseduto dal diavolo… Che servite il diavolo…». Arduino non sembrò stupito né intimorito. Distolse lo sguardo e fece qualche passo nella sala di pietra come riflettendo tra sé. Poi si fermò e, senza voltarsi, chiese: «Che altro?», il tono era calmo e fermo. «Che fate esperimenti proibiti... Che fate parlare e muovere i morti... Che volete comandare la natura come

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solo Dio onnipotente può fare... E in questo modo potreste scatenare tutte le forze del male su questa terra...» «Che altro?» «Che per questo combattete Santa Madre Chiesa fondata da Gesù Cristo con il suo sangue e il sangue dei martiri… Per aprire la strada all’Anticristo… E che i vostri peccati attireranno il castigo di Dio onnipotente su tutto il genere umano.» «Che altro?» Ruggero abbassò di nuovo la testa e sarebbe crollato sul pavimento di pietra se gli armigeri non l’avessero sorretto. Riuscì solo mormorare: «No… No…». «Che altro?», ora Arduino aveva urlato, e le stesse sue guardie fidate fremettero. «Entro l’anno Mille!» ora gridò Ruggero, alzando il volto bagnato di lacrime. «Entro l’anno Mille dovete essere fermato, prima che l’Anticristo arrivi, e allora Dio sarà indulgente. Dopo l’anno Mille sarà troppo tardi, e saremo tutti perduti per l’eternità!». «Allora tu, mio caro Ruggero, tradendo la mia fiducia, hai salvato la tua anima». Ora il volto del marchese d’Ivrea pareva ispirato a una grande calma, le labbra inclinate in un sorriso, la mano tesa in segno di pace. «Mantengo la mia promessa di essere pietoso. Ti mando in paradiso prima che tu abbia il tempo di commettere altri peccati». La mano di Arduino scattò in avanti e afferrò il giovane, strappandolo dalle mani dei luogotenenti. Quasi sollevato da terra, Ruggero fu trascinato verso lo zoccolo di pietra e scomparve nel vano buio e nero. Il suo urlo risuonò breve

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e rapido, poi venne lo schianto sul cumulo di scheletri che da alcuni secoli si era formato in fondo all’abisso. Il marchese d’Ivrea fissò i suoi luogotenenti, i cui volti in quel momento erano tesi e chiusi. «E voi credete che io serva il diavolo?», fece un passo verso uno di essi e chiese: «Tu lo credi?». L’uomo scosse violentemente la testa. Arduino si spostò sul secondo e ripeté la domanda, e quello rispose «No, signore, certo che no!». Il terzo non attese nemmeno la domanda e disse subito: «No!». «Bene. Ma queste favole e menzogne circolano per opera dei miei nemici. Ruggero non era certo l’unico che Warmondo d’Ivrea e Pietro di Vercelli hanno assoldato per spiarmi. E saranno sempre di più coloro che lo crederanno. Dobbiamo fare in fretta. Dobbiamo colpire la fonte del male.» «Attacchiamo Warmondo?» «Non ancora. Warmondo è ancora troppo forte. Facciamola prima finita con il suo buon alleato Pietro. Ho anch’io le mie orecchie e i miei occhi dentro le mura di Vercelli. L’arcidiacono Gisalberto e l’arciprete Cunegondo mi dicono che è il momento adatto.» Arduino raccolse il piccione trafitto dalla freccia e lo buttò nel vano dove era scomparso il suo sfortunato padrone. C’era una volta un re che aveva tre figli e un giardino. Un albero di quel giardino produceva non delle comuni e normali mele, ma delle splendide e luccicanti mele d’oro. Il re era molto orgoglioso delle sue mele d’oro, e ogni mattina le contava per controllare che ci fossero tutte. Ma una mattina si accor-

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se che ce n’era una in meno, e andò su tutte le furie. Durante la notte qualcuno era entrato nel giardino e ne aveva rubata una. Allora chiamò il suo primogenito e gli ordinò – Figlio, stanotte farai la guardia al mio giardino, e impedirai che mi rubino un’altra mela d’oro – così il primogenito si appostò nel giardino, ma durante la notte si addormentò. Al mattino il re contò le mele d’oro, scoprì che ne mancava un’altra, andò di nuovo su tutte le furie, chiamò il secondogenito e gli ordinò – Figlio, stanotte farai la guardia nel giardino, e scoprirai chi è il ladro delle mie mele d’oro – così il secondogenito si appostò nel giardino, ma anche lui durante la notte si addormentò. Al mattino il re scoprì che mancava un’altra mela d’oro e andò di nuovo su tutte le furie. Il terzogenito propose al re – Padre, lascia che stanotte stia io di guardia nel giardino, e scoprirò il ladro delle mele d’oro –. Il re lo guardò perplesso e chiese – Figlio, se non sono riusciti a scoprirlo i tuoi fratelli che sono tanto più svegli e furbi, come puoi scoprirlo tu che sei il più tonto e tardo? – ma il terzogenito tanto disse e tanto fece che alla fine il re acconsentì a dargli l’incarico in cui gli altri due avevano fallito. Al tramonto il figlio minore si recò nel giardino, sedette accanto all’albero delle mele d’oro e, per non addormentarsi, ogni tanto si dava un pizzicotto… Il pizzicotto svegliò Brunetto di soprassalto. Balzò a sedere e si guardò intorno per capire se qualcuno si fosse introdotto nel giardino del re per rubare le mele d’oro, ma vide solo il viso sogghignante e butterato di Tommaso, nella penombra della camera nel sottotetto della locanda dell’Arciere rosso.

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«Hai poltrito abbastanza, Brunetto!» gracchiò Tommaso. «È ora di cominciare a lavorare, prima che arrivino i primi clienti!». Brunetto scese dal giaciglio e si alzò. La sua mente era ancora avvolta dal velo del sonno e del sogno, ma le sue braccia e le sue gambe, anche se indolenzite, sapevano cosa dovevano fare. Poco dopo era vicino al secchio e si gettò sul volto alcune gocce dell’acqua che lo riempiva. Evitò Tommaso, il figlio del padrone, che non perdeva occasione per comandarlo e deriderlo anche più del padrone stesso, anche se aveva tredici anni come lui. Brunetto arrivò nell’ampia cucina ingombra di pentole, vassoi, scodelle, pignatte e brocche. Su alcune mensole erano allineate le ciotole e i barattoli ricolmi di salvia, pepe, zafferano, anice, menta, verbena e rosmarino. Accanto al focolare si trovavano la catena, il mestolo per la minestra, l’alare, la graticola, il rampino per togliere la carne dal fuoco e il graticcio da cui fare sgocciolare il formaggio di latte di pecora. Brunetto cominciò ad azionare il mantice per ravvivare la brace che la sera prima aveva lasciato ardere sotto il cumulo di cenere. Era quello il suo primo compito della giornata da circa un anno. I prodotti del campo concessi alla sua famiglia dal signore di Ossola e Stazzona erano appena sufficienti per nutrire suo padre e i due figli maggiori che vi lavoravano, e sua madre e sua sorella che preparavano loro i pasti. Poi lui impiegava troppo tempo a imparare come si facevano le cose, sbagliava spesso, si dimenticava, e questo non andava bene, nel lavoro dei campi e nella cura delle bestie bisognava imparare in fretta, non si poteva

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perdere tempo, bisognava presto contribuire ai bisogni della famiglia. E allora suo padre aveva deciso che Brunetto andasse a lavorare nella locanda del borgo dove proprio in quel periodo stavano cercando uno sguattero. A dire il vero, non poteva dire di essere andato a stare peggio, nella locanda mangiava sicuramente più di quanto avrebbe mai potuto fare prima, quando il pasto quotidiano era costituito dalla polenta e dal pane di segale tutti i giorni dell’anno. I più vecchi gli avevano raccontato delle carestie di tanti anni prima, quando per non morire molti si erano ridotti a mangiare cani, topi e anche l’erba dei prati. Ma i più deboli erano morti ugualmente e i cadaveri che mostravano le costole erano ammucchiati ai crocicchi e davanti alle chiese. Uno stridio disperato interruppe i suoi pensieri, e Brunetto capì che Tommaso aveva tirato il collo a una delle galline nel pollaio che si trovava dietro la locanda. Infatti poco dopo Tommaso si affacciò e, con un grugnito soddisfatto, gettò la carcassa del volatile ai piedi di Brunetto. Il fuoco ormai era ravvivato, il fumo si stava addensando per la cappa, per cui Brunetto poté afferrare le zampe della gallina, sedersi e cominciare a strappare le piume.

Il vescovo Pietro era seduto sullo scranno, la schiena curva, gli occhi fissi sul pesante libro posato sul leggio. Le dita ossute sfogliavano rabbiosamente le pagine di cartapecora cucite con nervi di cuoio, che andavano avanti e indietro, come se il prelato non riuscisse a trovare quello che cercava. Eppure conosceva bene la Bibbia, l’aveva

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letta e riletta tante volte, nella solitudine della sua cella, e sempre aveva trovato una parola di conforto, il brano giusto per avvincere e convincere il suo uditorio, che fossero i fedeli durante la santa messa o un ambasciatore inviato da un signore o da un altro vescovo. Per muovere meglio le dita, Pietro si era sfilato i guanti rossi. Egli sembrava non sentire i rombi, i tonfi e le grida che venivano dall’esterno, da qualche parte di Vercelli, la sua città. Conosceva la loro causa. Arduino era alle porte e, nella sua infamia e blasfemia, sperava di entrare per commettere sacrilegio mettendo le mani addosso a un ministro di Dio. Erano suoi la catapulta da cui provenivano i proiettili infuocati che bersagliavano i bastioni, e l’ariete che martellava la porta. Ma non ci sarebbe riuscito. Tutti i cristiani di Vercelli si erano coalizzati per difendere il loro pastore, anche con vanghe e martelli, e avrebbero fermato gli scherani di Arduino. Se necessario, Dio avrebbe inviato i suoi arcangeli. Dapprima Pietro pensò al brano in cui Jahvè invia la morte su Sodoma e Gomorra, le due città sprofondate nel peccato, ma non era del tutto convinto. Poi si soffermò sulla pagina in cui Gesù Cristo predice che «Di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». Ma il dubbio persisteva. Le dita ossute tornarono rapidamente indietro. Un tonfo più forte degli altri fece tremare le pareti della stanza. Un bagliore rosso illuminò la notte, ma Pietro non lo vide, poiché non distolse gli occhi dalla Bibbia. Finalmente trovò la pagina che cercava. Sapeva che c’era, la sua memoria non l’aveva ingannato.

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La porta si spalancò e un domestico quasi cadde all’interno spinto dalla sua stessa foga. Pietro alzò gli occhi, ma il giovane per alcuni secondi non riuscì a parlare, quasi soffocato dal proprio fiato. «Fuggite, eccellenza! Fuggite e salvate la vita! Arduino è dentro Vercelli! I suoi uomini hanno aperto una breccia!» «I miei fedeli…» «I vostri fedeli sono tutti morti, eccellenza!» ora la voce del domestico era strozzata e gli occhi velati di lacrime. «E coloro che non sono morti sono fuggiti a nascondersi nelle cantine e nei ripostigli! La vendetta di Arduino contro coloro che vi hanno aiutato sarà terribile! Pochi resistono ancora sulla strada che porta qui, ma non sarà per molto!». Pietro non chiese cosa ne fosse degli arcangeli che Dio avrebbe dovuto inviare per proteggerlo. In quel momento il fragore e le urla risuonarono assordanti. Il vecchio e il giovane si voltarono di scatto verso la finestra, poi il giovane corse a guardare fuori e si voltò pallidissimo. «Per Santa Apollonia! Stanno entrando nel palazzo vescovile! Vi prego, eccellenza, fuggite subito! Forse riusciamo a uscire dalla porta posteriore!». Ma il vescovo aveva trovato ciò che cercava, ciò che avrebbe fermato il blasfemo, lì nelle pagine sacre. Il giovane non attese la risposta del suo superiore e scomparve di corsa dalla porta senza preoccuparsi di chiuderla. Ora il fragore era dentro l’edificio. I servi dell’Anticristo erano ormai vicinissimi, forse già sulle scale. Improvvisamente il silenzio avvolse ogni cosa. Non più

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cozzi di spade e lance né crolli di mura. Come se, tutti insieme, i feriti avessero smesso di lamentarsi e i vivi di combattere. Solo le lingue di fuoco continuavano a illuminare la notte, fredde e indifferenti alla morte e al dolore. Ora il dito del prelato era fermo sul punto del sacro libro che aveva scelto, come se temesse di perderlo nel momento in cui da esso dipendeva la sua vita. Molti uomini entrarono dalla porta rimasta aperta. Avevano scudi e lance. Più del sangue sulle armi, erano i loro lineamenti tirati e induriti a indicare che provenivano dalla battaglia. Il prelato si alzò lentamente in piedi, dietro al leggio, e fissò i nuovi arrivati che già si stavano muovendo verso di lui. Ma si fermarono, si guardarono l’un l’altro e abbassarono le armi. Pietro alzò la mano e tese l’indice verso gli uomini armati, che fecero un passo indietro. Un ordine venne dalle loro spalle, gli uomini si allargarono, e apparve un uomo più alto e grosso di tutti loro, vestito con una blusa di pelle color ferrigno, le mani nei guanti dello stesso colore tetro, una di esse stretta su un pugnale. E allora Pietro parlò. «Il re aveva ancora la parola sulle labbra, quando una voce venne dal cielo e disse – Sappi, o re Nabucodonosor, che il tuo regno ti è tolto! Tu sarai scacciato di mezzo agli uomini e abiterai con le bestie dei campi; ti daranno da mangiare erba come ai buoi, e passeranno sette tempi sopra di te, finché tu riconoscerai che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole!» A questo punto Pietro levò la mano dal sacro libro, passò intorno al leggio e mosse verso gli uomini, tendendo l’indice davanti a sé. Credevano forse di spaven-

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tare lui che era stato dieci anni rinchiuso nella prigione degli infedeli, nella lontana Alessandria, senza poter mai vedere il sole ma costretto a udire in lontananza l’oscena litania del muezzin? Gli uomini fecero un altro passo indietro, ma non Arduino, che ora fronteggiava il prelato. Sembrava davvero che non ci fosse più distinzione tra colui che per primo pronunciò quelle parole tanti secoli prima e colui che le ripeteva ora. Era il dio degli eserciti, in quella stanza, che tuonava contro il peccatore. «Nello stesso istante quella parola si adempì su Nabucodonosor. Egli fu scacciato di mezzo agli uomini, mangiò l’erba come i buoi, il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne delle aquile e le sue unghie diventarono come quelle degli uccelli!» Come se non avesse udito una sola delle parole che Pietro aveva pronunciato, Arduino ripose il pugnale nel fodero fissato alla cintura borchiata e fece un cenno ai suoi armigeri e disse: «Prendete questo vecchio pazzo». Alcuni uomini si mossero, con rumore di ferro e cuoio, ma si fermarono appena gli occhi del prelato si girarono e si posarono su di loro. Arduino capì che le parole e il tono avevano sortito il loro effetto e non ripetè l’ordine. Fu lui invece ad avanzare. La debole resistenza fu domata subito con un potente schiaffo sul volto, che strappò un mugolio al vescovo. Un secondo mugolio lo emise quando il secondo schiaffò lo gettò a terra. Poi le mani afferrarono la tonaca, e nemmeno essa resistette a lungo. Poco dopo il prelato era seminudo, tenuto in piedi per la gola, il volto rigato dalle lacrime.

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«Guardate!» gridò Arduino «Guardatelo bene! Vi sembra costui il profeta Samuele? O il saggio Mosè? O il valoroso Giosuè?». Nessuno degli uomini rispose. I volti pallidi degli armigeri indicavano che essi pensavano di stare osservando un sacrilegio da cui volevano allontanarsi al più presto. Ma Arduino continuava: «Fugate la vostra paura! La vostra reverenza è mal riposta! Costui crede di essere simile ai grandi uomini di cui legge e predica, mentre non è che un povero folle!». Per tutta la notte crepitarono le fiamme nella città di Vercelli, e continuarono gli scontri sempre più deboli, negli scantinati e tra le macerie dove gli ultimi fedeli di Pietro resistevano. Poi Arduino in persona apparve tra loro, sfidando le frecce, e promise la vita e l’incolumità a chi si fosse arreso. E allora tutti i superstiti si arresero, poiché sapevano che Arduino era uomo crudele e spietato, ma che manteneva sempre la parola data, cosa che non si poteva dire di molti dei signori e dei principi dell’epoca. Dalle rovine uscirono uomini sporchi di sangue proprio e altrui, a uno a uno gettarono spade, mazze e spiedi ai piedi del vincitore, e si diressero barcollando verso le loro case, sperando di trovare vivo qualcuno dei loro cari. Il giorno successivo Arduino, seduto nello scranno, davanti al leggio su cui era ancora aperta la Bibbia, ricevette l’atto di sottomissione dei notabili della città. Per suo ordine erano cessati i saccheggi e ora i suoi uomini e gli abitanti di Vercelli, fianco a fianco, si adoperavano per spegnere gli incendi e rimuovere i cadaveri e le macerie. Andando avanti e indietro con attrezzi da

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lavoro, essi cercavano di non alzare gli occhi, e di non guardare il vecchio vescovo Pietro che penzolava per il collo dal balcone del palazzo vescovile, già preda dei corvi.

L’odore dell’arrosto e della resina delle torce gonfiava l’aria dell’Arciere rosso, e le voci dei commensali si confondevano e si sovrapponevano formando un brusio indistinto. Brunetto e i suoi giovani compagni di lavoro, Gemma e Arnaldo, correvano qua e là ansimando a ricevere le ordinazioni e a soddisfarle. «La notizia è certa, vi dico!» stava esclamando uno dei commensali. «Il pontefice Gregorio V ha chiamato in Italia l’Imperatore Ottone III affinché venga a vendicare la morte di Pietro e l’incendio di Vercelli!». Il mantello, la cintura borchiata e il nastro che raccoglieva i capelli indicavano in lui un personaggio importante. «E allora Arduino si renderà conto di avere osato troppo, ed era tempo!» commentò uno dei suoi compagni di tavola. «Attento a non farti sentire! Non sarà facile stanarlo dalla sua rocca di Sparone, e ancora meno facile togliergli la marca d’Ivrea che re Guido donò al suo antenato Anscarico! E poi il tedesco non ha ancora accettato!», l’uomo si interruppe e si portò la coppa alla bocca, solo per scoprire che era vuota. Si guardò intorno in cerca di rifornimento e Brunetto, che stava ascoltando la conversazione, si affrettò a soddisfarlo, precedendo Arnaldo che era più lontano. In quel modo avrebbe potuto udire il seguito.

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«È vero, per san Pancrazio!» rincarò la dose un terzo commensale, «E il tedesco certo ricorda la lezione che suo padre Ottone II ebbe da quel senza Dio di Abul Kassem, l’emiro di Sicilia, sul campo di battaglia di Campo Colonna, presso Rossano, in Calabria! Quattromila cristiani morti! L’Imperatore costretto a ignominiosa fuga su una barca di pescatori greci! E l’onore dalla bionda Germania nella polvere!». «Giusto, quanto è vero che Gesù Cristo resuscitò dalla morte! L’Italia è un boccone troppo duro anche per chi porta la corona di Carlo Magno!» Solo la terza volta Brunetto si rese conto che Matilde lo stava chiamando. La grassa moglie del padrone era accanto alla porta della cucina. Brunetto la raggiunse facendosi largo tra gli uomini che gridavano e ridevano. «Hai portato la coscia di pollo al cliente sbagliato…» sibilò la donna «E hai rovesciato metà del vino mentre servivi un altro cliente». Brunetto stava per rispondere che era stato urtato, ma lo sguardo rabbioso della sua padrona lo convinse che nessuna giustificazione sarebbe stata accettata. La mano della donna si strinse sul braccio del giovane «Sei il più tardo e il più tonto, cerca di svegliarti se vuoi rimanere! È l’ultima volta che lo te dico! Ne trovo tanti migliori di te!». Appena la stretta si allentò, Brunetto si precipitò per rimediare al suo errore. Passando accanto al tavolo del ricco personaggio, lo udì esclamare: «Sì, però a Campo Colonna morì anche Abul Kassem!».

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15 aprile 1977 Camilo diede un’occhiata agli appunti sul foglietto che aveva davanti, posato sulla cattedra dell’Aula Magna di Lettere, a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche di Torino, su cui erano segnati tutti coloro che dovevano intervenire all’assemblea del movimento. Era il portavoce degli studenti universitari, seduti accanto a lui c’erano un rappresentante dei circoli del proletariato giovanile, uno del comitato disoccupati e uno del coordinamento delle piccole fabbriche. Altri foglietti erano sparsi sulla cattedra, insieme a volantini che regolarmente finivano con Contro il sindacato, contro il padrone, contro lo stato e vari giornaletti ciclostilati dai titoli fantasiosi, Puzz, Katu Flash, Buco Caldo, Gatto Nero. E poi molti mozziconi, alcuni schiacciati, altri ancora accesi e fumiganti. Portaceneri, nessuno. L’Aula Magna era strapiena. I partecipanti occupavano tutte le sedie, molti erano seduti sui banchi, soprattutto nella ultime file, e altri erano in piedi, sui gradini, fino alle porte sui due lati. La maggior parte erano giovani e giovanissimi, capelli lunghi, occhialoni, jeans stinti, giubbotti e giacconi di tutti i colori. Le femministe avevano occupato tutta la prima fila, con le loro gonne a fiori e gli zoccoli. Sull’ultima fila, come a incombere su tutti, erano gli india-

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ni metropolitani, con i volti dipinti di rosso, blu e giallo, fuggiti dalle riserve dei quartieri dormitorio, le Vallette, la Falchera, Nichelino, schiavi delle boite del lavoro nero, dei depliant pubblicitari da mettere nelle cassette delle lettere, delle penne biro montate in casa. «Questo movimento è certamente più maturo di quello del ’68. Il movimento del ’68 voleva solo cambiare la scuola, ha prodotto alcune leggi utili ma limitate. Noi oggi dobbiamo ricomporre un movimento che comprenda la produzione delle merci e la riproduzione della forza lavoro» il tono cominciava a stemperarsi nel brusio dell’assemblea «Sostituire il valore d’uso al valore di scambio.... Agire antagonismo per prefigurare una società altra... Il desiderio del proletariato giovanile... Innovare la qualità della vita...». Chi parlava indossava il giaccone a quadrettoni rossi e neri e portava una sciarpa multicolore al collo. Voleva farsi passare per intellettuale, pensò Camilo, e usa parole difficili e frasi involute. Per fare un discorso bastava inserire qua e là le parole ricomporre, destabilizzare e assetti sociali. Ma ci stava già pensando il vociare rabbioso e ironico a riportare al concreto il giovane e volenteroso intellettuale. «Calma, compagni, non facciamo cazzate! Il potere non aspetta altro, vuole farci passare per teppisti! Cadere nella trappola della violenza è il migliore regalo che possiamo fargli!». Il solito ragionevole, ovvero rompicoglioni. Chi voleva intervenire andava davanti alla cattedra, vi si appoggiava e parlava tenendo in mano il megafono, unico mezzo a disposizione per amplificare la voce umana,

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sottolineata e accompagnata dai cori di approvazione o scherno. A volte chi interveniva era costretto a tacere per lasciare il posto al duello verbale delle fazioni favorevole e contraria a quello che aveva appena detto, di solito corrispondenti a due settori dell’assemblea. Il compito di Camilo era regolare l’ordine degli interventi, invitare alla calma quando le interruzioni duravano troppo o uscivano troppo dall’ordine del giorno, che erano le prossime scadenze della mobilitazione cittadina. Camilo alzò gli occhi dagli appunti e guardò Claudia, seduta nella prima fila. La studentessa del liceo artistico, dalle fossette sulle guance e i capelli raccolti in due codini ai lati della testa, aveva le mani a coppa davanti alla bocca e stava gridando qualcosa, poi si girò verso la ragazza seduta al suo fianco, una piccoletta dai capelli ricci e i grandi occhiali, e risero insieme. Poi si accorse che lui la stava guardando, gli sorrise e gli fece un cenno di saluto. Stavano insieme dall’inizio del movimento. Si erano ritrovati una notte dopo l’occupazione di una ex caserma di vigili del fuoco trasformata in circolo del proletariato giovanile. Avevano parlato e avevano fatto l’amore. Il loro modo di intendere la rivoluzione era molto diverso, ma questo non aveva importanza. I loro corpi comunicavano molto meglio delle loro menti. I genitori di Camilo erano operai, quelli di Claudia invece erano un insegnante e un’artista che avevano fatto il ’68. Nel loro salotto si ritrovavano altri artisti, attori del teatro sperimentale, una volta Camilo aveva incontrato una pittrice pallida che indossava un lungo poncho e una psichiatra alternativa, anzi un’antipsichiatra,

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che spiegava che la malattia mentale non esisteva ed era un’invenzione del potere. La madre di Claudia ogni tanto si sentiva in dovere di dare consigli su come si fa militanza politica, come si concilia la militanza politica con l’arte e la cultura, citava Brecht e Majakowski. Nel suo salotto aveva conosciuto un anziano poeta che si era innamorato di Claudia, che aveva vent’anni di meno, e si era trasformato nel suo servitore più diligente, sempre il primo a porgerle il bicchiere o la sigaretta. Ma poi la madre gli aveva consigliato di lasciare perdere e lo aveva orientato su una sua amica della stessa età, e da allora Camilo non lo aveva più rivisto. L’intervento dello studente della Fgci dell’istituto Sommeiller fu sommerso da risate e sberleffi, che riportarono Camilo al presente. «Questo è un errore!» bisbigliò Gianni all’orecchio di Camilo, «Se lui è il rappresentante del suo istituto, se gli studenti di quell’istituto si riconoscono in lui, non possiamo fare altro che prenderne atto. Se il Sommeiller è una contraddizione interna al movimento, ignorarla vuole dire fare la politica dello struzzo». Camilo annuì, e scosse la testa. Era d’accordo con il rappresentante delle piccole fabbriche, ma se così reagiva l’assemblea lui non poteva farci niente. Il ferimento di Walter Rossi a Roma da parte dei fascisti, la legge Malfatti che voleva limitare gli accessi all’università, uniti alla crisi economica generale, avevano sconvolto tutte le previsioni degli economisti e dei politologi. Il proletariato giovanile, i diplomati e i laureati che non trovavano lavoro, non vedevano davanti a sé sbocco diverso dal sovvertimento

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generale, non volevano solo più soldi ma cambiare completamente la loro vita. Allegria e disperazione si mescolavano negli slogan, nei volti, nei gesti e nelle musiche degli Intillimani, degli Area e dei Ramones. Sui muri di Palazzo Nuovo le diverse anime del movimento erano rappresentate dalle scritte rosse, sulla parete in fondo all’Aula Magna campeggiava l’ironico e impietoso I quadri li appendiamo al muro, condanna senza appello per i fratelli maggiori che avevano cercato di fare la rivoluzione prima di loro. Il movimento del ’68 aveva etichettato come “baroni” i docenti universitari legati alla tradizione e alla disciplina, parte integrante del potere. Poi molti rivoluzionari del ’68 avevano conquistato a loro volta una cattedra universitaria, e si erano guadagnati l’appellativo di “baroni rossi”. I ragazzi dei circoli e dei collettivi leggevano i loro libri, ma nelle assemblee li fischiavano. Alcuni dei frequentatori del salotto dei genitori di Claudia erano esempi di quei fratelli maggiori. L’amica di Claudia, la piccoletta dai capelli ricci e gli occhiali, tutti la chiamavano Baba Yaga. Claudia aveva spiegato a Camilo che era il nome della strega del folklore russo, e glielo avevano attribuito perché alla sua amica piacevano molto le fiabe, i miti e le leggende. Forse gli aveva detto anche il nome vero, ma non se lo ricordava. La piccola e timida Baba Yaga invece non sopportava l’ambiente della famiglia di Claudia, e questo era frequente motivo di litigio tra le due ragazze, che poi risolvevano partendo insieme in autostop. Il che provocava un attacco di gelosia a Camilo, ma cercava di non darlo

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a vedere perchĂŠ un militante serio deve esser superiore a queste cose. La gelosia è una cosa da borghesi. Baba Yaga era timida a goffa, parlava poco e sempre a bassa voce. Non aveva un ragazzo fisso, ma Camilo aveva visto molti compagni avvicendarsi con lei. A mezze frasi tutti avevano detto che la ragazza era un tesoro in tutti i sensi, ma prima o poi veniva fuori qualcosa che li metteva a disagio, li allontanava, e infine veniva la rottura. Non sapevano dire esattamente cosa, ma il risultato era sempre lo stesso. La piccola strega russa non sembrava prendersela, continuava a parlare poco a bassa voce, mai nelle riunioni. Claudia e la sua amica partecipavano al femminismo che era esploso da pochi anni, dopo un lungo periodo di incubazione. Le compagne sostenevano che, dopo essersi ribellate alla condizione di angeli del focolare, ora si erano trovate a fare gli angeli del ciclostile. Allora tutte le militanti avevano abbandonato i loro incarichi nelle organizzazioni rivoluzionarie e avevano cominciato a riunirsi solo tra loro. Camilo tutte queste cose non le capiva. Soprattutto non capiva il vezzo di complicare cose tanto semplici, di ammantare di paroloni fatti tanto evidenti. Lo sfruttamento era soprattutto di classe e di classe doveva essere anche la lotta. Padroni contro operai, docenti contro studenti. Cosa c’entrava la questione tra uomini e donne? Le donne proletarie erano sfruttate come i loro compagni maschi dai borghesi, che a loro volta erano uomini e donne, a lui sembrava tanto ovvio. Ma le femministe affermavano che lo sfruttamento e l’oppressione non

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riguardavano solo la sfera economica ma anche quella emotiva, intellettiva, percettiva, sessuale, da qui l’importanza della musica, del corpo, della psicologia e persino della magia. Già, la magia. Come quello slogan, Tremate, le streghe sono tornate, molto a effetto ma del tutto fuori luogo. Le femministe avevano eletto le streghe del Medioevo a loro simbolo e modello. Sacerdotesse di riti precristiani, custodi del sapere ancestrale, in contatto con la natura e il cosmo e via sproloquiando. Ma le streghe altro non erano state che povere donne innocenti vittime della superstizione, e dietro c’erano i signori e i vescovi feudali che volevano mantenere il loro potere sul popolo. Camilo era spiacente per loro, bruciare qualcuno è sempre una cosa orribile, ma sempre solo di sfruttamento di classe si trattava, anche se in forme diverse. Le streghe confessavano la loro colpevolezza solo perché erano state torturate, non certo perché avessero davvero poteri magici, e nemmeno erano ribelli. Niente di tanto affascinante. Camilo non aveva dubbi. L’elemento irrazionale svolgeva la funzione di distogliere l’attenzione e le energie dal terreno fondamentale, quello economico e di classe, non a caso veniva riscoperto nei momenti di difficoltà e spacciato per grande innovazione. Non solo dalle femministe ma anche da certi compagni succubi del fascino per le cose strane e insolite. Non si rendevano conto del carattere borghese e controrivoluzionario di quelle cose e loro stessi, con le femministe, diventavano il veicolo dell’ideologia borghese, in nuove forme, all’interno del movimento rivoluzionario.

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I genitori di Camilo erano di un genere diverso. Gli scioperi li avevano sempre fatti, lui alla Fiat e lei alla Lavazza. Nelle agitazioni dei giovani non vedevano nulla di sostanzialmente diverso da quello che facevano loro, caso mai una maggiore effervescenza, leggerezza, allegria. Per loro la lotta di classe era soprattutto sacrificio, privazione, dedizione alla causa. Ma era una storia destinata a ripetersi. I ragazzi del ’77 dicevano «Basta con il vecchio modo di fare politica» riferendosi ai gruppi extraparlamentari nati nei primi anni ’70. I loro fratelli maggiori del ’68 avevano ugualmente detto «Basta con il vecchio modo di fare politica» riferendosi ai partiti di sinistra e al sindacato. Chissà se qualcuno in futuro avrebbe detto «Basta con il vecchio modo di fare politica» riferendosi agli indiani metropolitani e ai circoli del proletariato giovanile. Su uno dei muri dell’Aula Magna di Lettere campeggiava anche la scritta Le mozioni uccidono le emozioni. Nubi di fumo azzurro aleggiavano dolcemente, il profumo indicava chiaramente la natura della sostanza che molti stavano fumando. «Voi dovete dire da che parte state!» «Ognuno deve assumersi le sue responsabilità!» «Adesso non perdiamoci nei massimi sistemi!» «Dobbiamo chiedere quello che ci possono dare!» L’ultimo intervento si prestava alla facile accusa di riformismo, e fu bersaglio di fischi e pernacchie. Camilo stava cercando di ristabilire la calma quando l’assembramento intorno a una porta ondeggiò e si aprì per lasciare passare un ragazzo alto e magro, l’ampia camicia fuori dai pantaloni. Poco dopo era accanto alla presidenza e afferrava il megafono. Nessuno cercò di impedir-

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glielo. Le prime parole non furono udite da nessuno. Camilo si alzò e lo aiutò a regolare il volume del megafono. Molti invitavano i vicini al silenzio, tutti guardavano il ragazzo. Le parole uscirono in un soffio. «I fascisti hanno accoltellato un compagno e una compagna del circolo Cangaceiros!» Un boato scosse l’assemblea. Le grida, le proposte e le invettive si accavallarono, ma subito una si impose: «Tutti al Cangaceiros!». Tutti i volti dipinti, i giubbotti multicolori, le gonne a fiori, gli scarponi e gli stivali si ammassarono alle due uscite, calpestando volantini e giornali. Le mani di Camilo e Claudia si strinsero. 23 marzo 1999 La borsa era posata tra i due uomini, sul sedile posteriore della Croma in corsa sull’autostrada. Erano partiti da Torino un’ora prima, con il cielo coperto da nubi grigie e pesanti, ma ora il sole faceva capolino e strappava lampi argentei dal parabrezza, mentre il numero dei veicoli che seguivano e precedevano la Croma stava aumentando sensibilmente, per lo più camion e furgoni. I vetri dei finestrini erano chiusi. Avevano superato Chatillon, Aosta e Courmayuer e lo sfondo era costituito dalle sagome scintillanti e maestose delle montagne più alte d’Europa. L’orologio del cruscotto segnava le ore 10:33. «Mi spiace non aver avuto il tempo di vedere l’arco di Augusto, ad Aosta» rispose Aldo Ridolfi. «Non credo avrò l’occasione di tornare da queste parti per molto tempo».

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«Sono pochi che in mezzo a queste bellezze naturali» rispose Giovanni Garesio «Penserebbero a qualcosa di secoli fa». L’uomo dimostrava qualche anno in più del suo compagno di viaggio e indossava uno spezzato e un pull-over, entrambi dai colori tenui, forse poco formali ma in cui si trovava più a suo agio, almeno quando non era nell’esercizio delle funzioni pubbliche. «I Romani mi hanno sempre dato l’idea di grandezza e potenza. Per lo meno da quando ho letto Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano. L’ha scritto Gibbon nel ’700, ed è una lettura affascinante ancora oggi.» «Ma poi quell’impero è crollato.» «Dopo mille anni. Tutto prima o poi finisce. Prenda gli Stati Uniti, lo stato più potente di oggi. Ha solo trecento anni ed è in crisi. Crede che sopravvivrà tanto quanto l’Impero Romano?» Sull’ultimo punto i due uomini convennero e la discussione si interruppe momentaneamente. Adesso le montagne più alte d’Europa erano vicinissime, quasi sopra di loro. L’autista completò il sorpasso di un camion frigorifero che trasportava alimentari, poi si voltò verso i passeggeri. «Scusate…» disse l’autista, un giovanottone biondo con gli occhi protetti da un paio di occhiali da sole, «Tra poco siamo al traforo del Monte Bianco. Volete che ci fermiamo ora o che proseguiamo?». Con il permesso dei suoi superiori, si era tolto la giacca e la cravatta e aveva slacciato il colletto della camicia. Ma solo dopo aver lasciato il centro abitato. Ormai tutti si erano abituati alla sua presenza muta e impeccabile accanto ai due uomini,

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e le piccole libertà erano il loro piccolo segreto. Nelle incombenze di autista e aiutante l’agente Lucio Minardo si alternava con il brigadiere Dante Lattanzi, ma quel viaggio era toccato a lui. «Lei che ne dice?» chiese Ridolfi al suo compagno di viaggio. «Carburante ce n’è?» «Naturalmente» rispose l’autista, riportando l’attenzione alla strada. «Allora vai, Lucio» ordinò Garesio «La prossima sosta la faremo in Francia». «Allora tra poco tutto sarà finito?» chiese il colonnello Ridolfi dell’Arma dei Carabinieri. L’ufficiale era fiero di avere lavorato con il sostituto procuratore Garesio. Un lavoro lungo, faticoso e delicato, tra Italia, Francia e Germania, con alcune puntate alle banche in Svizzera e Lussemburgo. Avevano consultato e confrontato piani di volo, tabulati telefonici ed estratti bancari di aziende e privati. Non avevano fatto tutto da soli. Si erano fatti aiutare da specialisti della Polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza. Ma solo loro conoscevano la portata di cosa cercavano e di cosa avevano trovato. Gli altri si erano limitati a fornire il loro contributo tecnico, peraltro insostituibile, su singoli aspetti dell’indagine su cui erano stati appositamente interpellati. Poi loro avevano messo insieme i pezzi. «Finito per quanto riguarda noi» rispose Garesio. Il magistrato dimostrava meno dei suoi cinquant’anni e questo a volte lo danneggiava nei rapporti professionali, ma solo finché non aveva modo di dimostrare la sua

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competenza, e allora per chi l’aveva sottovalutato era troppo tardi per rimediare. «Di più noi non potremo fare. Ma con i dati che abbiamo raccolto l’indagine diventa pubblica e ufficiale. Abbiamo superato il punto di non ritorno. Nessuno potrà più bloccarla o deviarla». Aldo Ridolfi annuì. Per i due uomini quella era probabilmente l’ultima inchiesta, la più importante, che avrebbe coronato le loro carriere. Non era stata la solita indagine. Sfiorava l’incredibile. Se avessero detto qualcosa prima di avere in mano le prove, e prove solide, sarebbero stati presi per pazzi, e avrebbero ottenuto il solo risultato di mettere in allarme i responsabili. Di mettere in allarme Sekhmet. E lui non avrebbe corso rischi. Anche sapendo che nessuno ci avrebbe creduto, non avrebbe permesso che chi sapeva continuasse a vivere. «Adesso invece le prove le abbiamo» continuò il magistrato «Ma è molto importante come le usiamo. È così anche nelle scienze. Prima di cambiare un paradigma scientifico dominante, non basta che un solo esperimento dimostri il contrario. Ce ne vogliono molti, in condizioni controllate, verificabili da altri, e allora, solo allora, si decideranno a cambiare i libri di scuola». I due uomini lasciarono scivolare lo sguardo sul paesaggio, le cascine pulite e ordinate che spezzavano il verde brillante dei prati. «Aldo, cosa farà ora?» chiese Garesio. «Ah, non ho dubbi, tre mesi di ferie non me li toglie nessuno. Ho già parlato con il comando». Il colonnello pensò a Eleonora, sua moglie, che lo aspettava. Gestiva un negozio di antiquariato nel centro storico di Torino,

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che aveva ereditato dai suoi genitori e che era tutta la sua vita. Pochi clienti affezionati, tutti di una certa età, che venivano anche solo a passare il pomeriggio mentre lei mostrava loro gli ultimi arrivi. Ma ogni tanto capitava anche qualche giovane appassionato di storia. Unico rammarico, le lunghe assenze di Aldo, che però sarebbero finite. Avrebbero trascorso insieme gli anni che rimanevano loro da vivere in mezzo a scrigni, specchiere, candelieri e orologi a pendolo. L’ufficiale sorrise al pensiero. «E lei, Giovanni? So che ha ricevuto delle offerte da Roma.» Garesio sorrise al carabiniere che veniva fuori, sempre pronto a cogliere i minimi indizi. «Sì, è vero, ma non accetterò. Chi mi fa delle offerte non mi stima, vuole solo fare un dispetto a qualcun altro. E chi si oppone alla mia nomina non è che mi disprezza, è solo che vuole favorire qualcun altro. A Roma funziona così. No, io ho altri progetti. Sa quanto amo la storia e l’arte. Ma sono trent’anni che riesco a leggere solo fascicoli processuali e non metto piede in un museo o in una mostra. Ora finalmente...». Improvvisamente il sole cessò di esistere e l’auto fu immersa nella penombra surreale del traforo, alla luce bluastra dei neon. Erano nel traforo del Monte Bianco, uno dei più grandi e lunghi del mondo, 11600 metri, di cui 7640 in territorio francese e 3960 in quello italiano. Una sola canna a doppio senso di marcia, il piano stradale largo 7 metri. Dall’apertura nel 1965 il traffico di veicoli leggeri era raddoppiato mentre quello di veicoli pesanti era aumentato di 17 volte. Le coppie di fari delle auto che venivano nel senso opposto aumentavano il

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senso d’irrealtà. L’autista guardò lo specchietto retrovisore. «Mio Dio… Cos’è?» fece appena in tempo a mormorare. I due uomini seduti sul sedile posteriore si voltarono contemporaneamente e videro il globo di fuoco che dal fondo del tunnel si avvicinava e, avvicinandosi, si gonfiava. I veicoli che andavano verso di esso, appena entravano in contatto con quella cosa rossa e gialla cessavano di esistere, senza rumore, senza grida. L’unico suono era un fruscio melmoso e caliginoso, che saliva di intensità, simile al sibilo di un serpente. O a un rantolo. «Sekhmet… È stato lui!» disse il colonnello, e subito dopo il globo di fuoco inghiottì la Croma e i suoi occupanti.

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2008 – I A quarant’anni Milo era ancora un ragazzone corpulento, dall’aria che variava tra il trasognato e lo strafottente, non ancora imparanoiato dai primi capelli caduti, le grosse mani che non riuscivano a stare ferme. Aveva già letto tutti i racconti di Edgar Allan Poe ai tempi del liceo, ma questa era la versione illustrata con i disegni di Paul Scharff. La personalità tormentata dello scrittore americano era fedelmente rappresentata da quelle linee nere ed essenziali che formavano un coltello, un gatto nero, una maschera di terrore, una luna nel cielo nero. Sì, doveva proprio prenderla, ma prima doveva finire l’esame di tutte le bancarelle di via Po. Non poteva prendere tutti i libri che attiravano la sua curiosità, e una dolorosa scelta si imponeva. Per Milo andare per bancarelle era un rito che andava eseguito con cura e pazienza, non poteva limitarsi a un rapido sguardo ai libri esposti, li tirava fuori e li sfogliava. Quel rito lo celebrava da anni, da quando le bancarelle si trovavano ancora in piazza Carlina, davanti alla Biblioteca Nazionale. E aveva deciso di celebrarlo anche quella mattina, il tempo non gli mancava a causa del riposo forzato tra l’ultimo lavoro di merda pagato in nero e il prossimo. Aveva cominciato un’ora fa, con una

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buona colazione al Caffè Roberto, che aveva conosciuto quando frequentava Palazzo Nuovo, facoltà di lettere e filosofia, dopo aver parcheggiato in una via laterale la sua Vespa px 125, attualmente il suo unico mezzo di trasporto. L’aveva comprata su Secondamano perché doveva abbattere tutti i costi della sua vita, ma poi aveva constatato che in città era il mezzo più indicato, soprattutto quando doveva risalire al semaforo rosso una colonna di auto immobili in ognuna delle quali era seduta una sola persona chiusa nella sua incazzatura. Ora la folla si stava infittendo, molti si fermavano a sfogliare i libri, e già alcune trattative si erano avviate con i venditori. Alcuni studenti lo urtarono, chiacchierando animatamente e ridendo. Una ragazza con i capelli viola spingeva una bicicletta, un uomo con barba bianca e cappotto di cammello, che sembrava un professore in pensione, era immerso nella lettura di un libro, un ragazzo di colore proponeva senza molta convinzione la sua mercanzia di spugnette e fazzoletti di carta. Si trovavano sul lato reale di via Po, quello in cui i portici non si interrompono in corrispondenza delle vie laterali. Le bancarelle erano una delle sua poche attrattive, poi c’erano solo il Caffè Roberto, la libreria La Bussola e la Bottega della lirica. Il cinema King Kong era chiuso da anni e non si sapeva nulla del suo destino, e infine la segreteria dell’università. Milo teneva in una mano il libro di Poe, nell’altra mano il casco, indeciso sul da farsi. La sua attenzione fu attirata da un alterco alla prima bancarella, pochi metri più in là. Sul momento pensò che il ragazzo fosse uno degli studenti di Palazzo Nuovo

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che da via Po passavano a tutte le ore, con i loro zaini e cartelle. Il ragazzo aveva i capelli lunghi, indossava un k-way viola troppo largo e portava una borsa a tracolla. Sembra avere tredici o quattordici anni. Le scarpe Nike sembravano nuovissime, appena comprate. «Mi spiace, su quello che dici tu non ho niente» stava dicendo Alvaro, lo zuccotto di lana calzato in testa e lo sciarpone intorno al collo. Dopo tanti anni Milo conosceva più o meno tutti i venditori. «E mi sa dire dove posso trovarlo?» «No, non lo so.» «Come non lo sa? Avete anche voi le specializzazioni, chi tiene i libri antichi, chi i libri di foto, o no?» «Più o meno, ma per quello che dice lei non c’è nessuno specializzato», Alvaro stava assumendo un tono stizzito anche perché altri clienti, che avevano già in mano i libri prescelti, erano in attesa della sua attenzione. Milo posò il Poe illustrato da Paul Scharff e si avvicinò alla scena dell’alterco. Il ragazzo si stava guardando intorno sconsolato. A Milo non piaceva fare il ficcanaso, per cui preferì interpellare il venditore prima del diretto interessato. «Ciao, Alvaro, come va?» chiese. Il venditore alzò una mano per chiedergli di attendere, mentre cercava il resto da dare a un cliente, che intascò soddisfatto e se ne andò con una voluminosa raccolta delle immagini degli elenchi telefonici. Davvero c’era gente che collezionava di tutto. «Come al solito, e tu?» «Cosa voleva il ragazzo?» «Qualcosa sulla follia.»

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«Libri universitari?» Alvaro si scostò lo zuccotto per grattarsi i pochi capelli che gli erano rimasti. «E che ne so? Lui ha detto follia e basta». Milo si guardò intorno e si incamminò, facendosi largo tra la ressa, e poco dopo lo rivide. Il ragazzo era impegnato in una discussione con un altro venditore, probabilmente dello stesso tenore. Si avvicinò e lo toccò sulla spalla. «Scusami, ho sentito che ti interessi alla follia...» «E a te cosa te ne frega?» Ma l’interesse si era acceso negli occhi del ragazzo, che si puntarono su Milo, come in attesa di qualcosa. Il venditore, uno spilungone dalla barba nera avvolto in un soprabito dello stesso colore, lanciò un sorriso e un gesto di ringraziamento a chi lo aveva liberato da quell’importuno. Milo non sapeva perché lo stesse facendo. Forse quello sguardo in cui si mescolavano spavalderia e paura lo aveva riportato al tempo in cui aveva fatto l’insegnante e pensava che avrebbe continuato a farlo. Prima che molte cose andassero a puttane. Una volta conseguita, in ritardo, la laurea in lettere e filosofia, Milo aveva vinto un concorso e aveva insegnato lettere e storia al liceo classico Massimo D’Azeglio per alcuni anni. Fino al giorno in cui aveva deciso che era suo dovere dire al preside cosa pensava di lui, nel mezzo della riunione del collegio d’istituto, dopo di che si era alzato ed era uscito dalla sala docenti. Era arrivato il provvedimento disciplinare, niente di tragico, avrebbe potuto facilmente risolvere la situazione chiedendo scusa all’il-

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lustre offeso. Così gli aveva consigliato il rappresentante sindacale, che anche Milo aveva votato. Ma lui non l’aveva fatto e allora non c’era stato più niente da fare. Diffamazione davanti a testimoni e abbandono del posto di lavoro, il contratto di categoria parlava chiaro. Fu allora che aveva concepito l’idea di diventare uno scrittore, di vivere inventando e raccontando storie servendosi della parola scritta ma, nonostante i suoi sinceri sforzi, ancora non ci era riuscito. Ma non aveva rinunciato. «Cosa sai della follia?» Il ragazzo si toccò il volto, perplesso: «È una malattia, i pazzi stanno in manicomio, li ho visti in alcuni film...». Cominciamo male, «E hai mai conosciuto qualche pazzo, come li chiami tu?». «No.» Di male in peggio. Ma forse il ragazzo non voleva parlare a uno sconosciuto del disturbo mentale di un amico o un parente. «Hai mai letto qualche libro?». «No.» Se non aveva mai conosciuto un pazzo né letto un libro, allora non poteva certamente avvicinarsi all’argomento leggendo un libro trovato a caso su una bancarella, per scoprire magari che era un argomento noiosissimo e perdere ogni interesse. Milo gli disse che forse sapeva dove poteva trovarsi qualcosa che facesse al caso suo, ma improvvisamente il suo interlocutore cominciò a comportarsi in modo strano. Il suo sguardo scattava a destra e a sinistra, e lui aveva preso a girargli intorno. Ma non era un movimento senza senso. Il ragazzo si stava nascondendo da qualcuno. Milo seguì il suo

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sguardo spaventato, e vide due uomini in giacca e cravatta che, a loro volta, si stavano guardando intorno. Il loro abbigliamento e, soprattutto, i modi buschi con cui scostavano chi tagliava loro la strada stonavano decisamente con la consueta colorita clientela delle bancarelle. Il ragazzo stava per darsi alla fuga con un «Scusa, scusa, devo andare...» ma l’ex insegnante lo bloccò per un braccio, questa volta con più forza. Gli porse il casco dicendogli «Metti questo» e gli indico la via dove si trovava la sua Vespa. Milo parcheggiava dove capitava e a volte doveva perdere tempo a ricordarsi il luogo, ma per fortuna adesso non accadde. Mentre prendeva il secondo casco dal bauletto e sbloccava il cavalletto, il ragazzo seduto dietro, vide che i due uomini li avevano adocchiati e scattavano di corsa. Ma ormai stava già sfrecciando tra le auto incolonnate in via Po. Il cielo era limpido e in fondo alla via si vedeva la cupola della chiesa della Gran Madre. Superò rombando Palazzo Madama, già residenza delle due Madame Reali, da cui il nome, al tempo dei Savoia, e ora adibito a museo che Milo ogni tanto visitava, e si buttò per i Giardini Reali. Una o due volte si voltò, e gli sembrò di riconoscere i due uomini dentro una Croma che tentavano di tenergli dietro, ma senza successo e, dopo Porta Palazzo, non li vide più. Mezz’ora dopo la Vespa entrava in un cortile del quartiere popolare Barriera di Milano, nella zona Nord di Torino. Il luogo era ingombro di cartoni e casse traboccanti di oggetti, vestiti e cose strane, forse appena scaricati dal furgone parcheggiato vicino all’ingresso. Milo spense il motore e bloccò il cavalletto.

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«Siamo arrivati. A proposito, io mi chiamo Milo» e gli porse la mano. «Eric», entrambi si erano tolti il casco. Ora i capelli erano un po’ scomposti, ma lo sguardo era sempre spaventato. Si guardò intorno, forse per accertarsi che i suoi inseguitori non fossero lì. Milo lo invitò a entrare e poco dopo si trovavano in uno stanzone pieno di carta. Ma non era carta qualunque. Era carta colorata, stampata, disegnata, rilegata, copertinata. Pile di libri, libroni e libretti, che si appoggiavano le une alle altre come per sostenersi a vicenda. L’odore di polvere aleggiava tutt’intorno, ma non tanto intenso da infastidire. «Tutta roba che viene da cantine e soffitte» spiegò Milo. Eric cominciò a camminare tra i tavoli, e Milo lo seguì. Gialli Mondadori, Urania, Segretissimo e libri di ricette e bricolage, guide turistiche, riviste e cataloghi, l’enciclopedia della bicicletta, le opere complete di un oscuro poeta ungherese, il diario di guerra di Breznev, la storia delle scarpe e delle calze, il libretto delle Guardie Rosse, riviste e giornali, dalla Domenica del corriere ai fotoromanzi Bolero, Sogno e Lucky Martin, sia a colori che in bianco e nero. Case editrici che non esistevano più e che nessuno ricordava. E poi scatoloni traboccanti del materiale appena arrivato. Un uomo alto e robusto, con le maniche della camicia rimboccate e un sigaro tra i denti, si affacciò dall’altra stanza. «Ehilà, Milo, è da un po’ che non ti fai vedere!» «Ciao, Fausto, ho portato un amico a dare un’occhiata.» «Figurati, fai pure.» Milo ed Eric erano arrivati al reparto fumetti, in parte allineati in buon ordine su alcuni tavoli e mensole, la

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maggior parte impilati e ammucchiati sul pavimento o su panche. C’era ancora. Milo prese il volume e lo mostrò a Eric. La copertina presentava il titolo Silenzio, che sovrastava il volto di un personaggio che calzava un berretto con quattro punte, su ognuna delle quali c’erano altrettanti sonagli, come i jolly delle carte da gioco o i giullari del Medioevo. Eric lo aprì, «Ma è un fumetto!». «E allora?» «Roba per bambini!» «Prima leggilo e poi mi dici.» Milo conosceva quella storia che aveva letto molti anni fa, come pochissimi in Italia. Silenzio era il soprannome del protagonista, un ragazzo che viveva in un villaggio della provincia francese apparentemente felice, tra sole, fiori e uccellini, ma che nascondeva orribili segreti. Silenzio era incapace di parlare con gli altri esseri umani, solo il lettore conosceva i suoi pensieri e i suoi sentimenti. L’unica amica era la strega, una donna cieca che tutti temevano e fuggivano, ma che possedeva un antico sapere e inquietanti poteri. Una storia struggente senza lieto fine. «Quanto costa?» «Le cose qui non costano. Puoi tenerlo un po’ per leggerlo, se non ti piace lo riporti. Oppure puoi portare un altro libro dei tuoi per fare il cambio.» Eric mise Silenzio nella borsa che aveva a tracolla e stava per porre un’altra domanda quando fu interrotto da un gruppo di ragazzi che entrarono correndo, ridendo e spingendosi l’un l’altro. Fausto si rivolse a Milo:

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«Sono arrivati i ragazzi, hanno finito il loro lavoro, stiamo per metterci a tavola, vi fermate tu e il tuo amico?». Milo si voltò verso Eric e gli chiese: «Cosa ne dici?». «Ma... Non so...» «Hai qualche impegno?» «No, ma...» «Benissimo, allora.» Fausto se ne andò soddisfatto, e poco dopo Eric scoprì che il secondo stanzone era una cucina ben attrezzata. Ora erano tutti seduti intorno al tavolo dove Fausto e uno dei nuovi arrivati stavano collocando piatti, bicchieri e posate. Un altro ragazzo portò un vassoio di tagliatelle fumanti, su cui gli altri si buttarono. Eric guardava incuriosito i nuovi arrivati tra cui si era trovato seduto. Milo era davanti a lui. «Sei nuovo tu?» chiese uno dei ragazzi con i capelli rossi, seduto alla sua destra. «No... No...» «Io mi chiamo Tore. Come ti chiami?» Eric disse il suo nome e Tore rise soddisfatto. «Io invece sono Nico!» esclamò il ragazzo seduto alla sua sinistra. Eric non avrebbe saputo dire la loro età. Potevano avere i suoi stessi anni, ma anche qualcosa in più, dai venti ai trenta. Poco dopo tutti stavano mangiando. «Quale cantante ti piace?» chiese Nico. «Non so...» «A me piace Laura Pausini. Ho tutti i suoi dischi, nella mia camera.» «Per quale squadra tieni?» chiese Mimmo. «Non so....» «Io per il Toro. E sono anche bravo a giocare.»

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«Eric» chiese il ragazzo di colore seduto di fronte a Eric, di fianco a Milo, «Tu hai i genitori?» «Ho mio padre.» «E vai d’accordo?» «Non so...» «Come non sai? Ci parli o non ci parli?», il ragazzo di colore non si accontentava di risposte vaghe. Si sentiva il suo forte accento straniero. «Qualche volta.» «Se ci parli solo qualche volta allora non vai tanto d’accordo» spiegò Nico. Eric non replicò e cercò di concentrarsi sul mangiare. Milo lo osservava, e non gli sembrava che fosse spaventato né infastidito, solo un po’ disorientato. In quel momento arrivarono i secondi. Milanese con patatine. Tore protestò perché la sua razione era troppo scarsa e cercò di prendere una raziona supplementare. «Aspetta che abbiano mangiato tutti», cercò di rabbonirlo Fausto, apparso dietro di lui e posandogli una mano sulla spalla. Poco più in là uno dei ragazzi spruzzò dell’acqua in faccia al suo vicino che protestava, gli altri ridevano. «E che scuola fai?» chiese Nico. «Una scuola privata.» «E cos’è una scuola privata?»

Il sole del primo pomeriggio illuminava il cortile ed Eric giocava a pallone con i suoi nuovi amici. All’inizio non ne aveva nessuna voglia, ma Ahmed, il ragazzo di colore, aveva insistito. Milo e Fausto erano seduti su un

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divano sbrecciato, la gommapiuma gialla appariva dagli squarci nella stoffa rossa. «Come vanno le cose in cooperativa?» «Al solito. Lo stipendio è puntualmente in ritardo, o arriva in due tranche. Dicono che aspettano un finanziamento dalla Fondazione San Paolo, a cui abbiamo presentato un progetto. La Fondazione dice che prima di approvarlo vuole qualche altra integrazione. Michela ci sta lavorando. Ti ricordi di Michela, no? Adesso sta nel consiglio di amministrazione.» Milo aveva sempre lavorato, prima e dopo la sua esperienza di insegnante. Fattorino, barista, magazziniere, vendita porta a porta, non aveva mai rifiutato niente. Per un po’ aveva anche scritto le frasi d’amore sui biglietti di auguri e inviato barzellette alla Settimana Enigmistica. Ma quello che ancora ricordava con più piacere era stato il periodo da educatore senza titolo in una comunità alloggio presso una cooperativa, al tempo dell’università. Soggetti psichiatrici, per lo più adolescenti, lui li faceva leggere, scrivere, disegnare, dipingere, con loro mangiava, giocava a pallone e ping pong, litigando per i punti e sorbendosi le loro crisi, a cui faceva fronte come gli sembrava e gli riusciva meglio. C’era stata un gita al mare, una festa in cui avevano invitato gli ospiti e i relativi educatori di altre comunità, una corsa nel cuore della notte al Pronto Soccorso, pianti e risate. Non era durato, la cooperativa aveva perso l’appalto e la comunità aveva chiuso. C’erano le cooperative squalo che, sfruttando i tirocinanti e gli obiettori di coscienza, facevano all’ente pubblico prezzi stracciati. La battaglia degli

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anni ’70 per la chiusura dei manicomi si era trasformata nella gara al ribasso tra le cooperative per accaparrarsi gli appalti, in cui vinceva il più forte e il più furbo, o chi aveva i contatti politici giusti. I pazienti e i lavoratori erano diventati merce di scambio. Poi Milo si era laureato, mentre Fausto Maggioli era passato in quel centro di lavoro guidato, con tredici ragazzi che lavoravano nella svuotamento di cantine e soffitte con il furgone, alcuni nella falegnameria adiacente e nella manutenzione del Parco Michelotti. Ma Milo non aveva mai rinnegato quell’esperienza e non aveva interrotto i rapporti. Eric fece un tiro nella “porta” costituita da due sedie impagliate, e i suoi compagni di squadra risero e applaudirono. Fausto lo indicò con un gesto della mano. «Dici che fuggiva da qualcuno?» «Non me l’ha detto chiaramente, ma l’ho capito. E mi sembra di capire anche che abbia pessimi rapporti con suo padre, che dev’essere un tipo pieno di soldi. I due uomini che lo cercavano dovevano essere stati mandati dal padre. Ma non dev’essere tutto.» «Ah no?» «No. I cattivi rapporti con il padre sono tipici di quasi tutti i ragazzi della sua età, e non spiegano il suo interesse per la follia. Non è un argomento che interessa a molti al giorno d’oggi.» Sorrisero divertiti tutti e due, al pensiero che Eric non sembrava essersi reso conto di avere mangiato e di stare giocando con dei soggetti psichiatrici. I folli su cui cercava di sapere qualcosa.

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«Pensi di rivederlo ancora?» «Non lo so. Gli ho scritto su un biglietto il mio numero di telefono.» Il trillo annunciò a Milo che sul suo cellulare era arrivato un messaggio. Guardò e sorrise. Era Tammi. E il messaggio era: stronzo.

Tamara Marasà parcheggiò Blè. Blè era la sua Panda di seconda mano, sua madre la chiamava in quel modo per via del suo colore e anche lei aveva preso quell’abitudine. Era uscita dal Castello della Scarpetta di Mezzanotte, dove lavorava come commessa, per cui era vestita come meglio quel giorno le era riuscito, giacca di finta pelle, camicia di flanella, gonna di vigogna e scarpe di vernice stringate. Sbuffò al pensiero della discussione che forse la attendeva, slacciò la cintura di sicurezza, e afferrò come meglio poteva la voluminosa e pesante borsa della spesa posata sul sedile del passeggero. Sul sedile posteriore c’erano due o tre riviste, un maglione, un foulard, un ombrello e altri oggetti. Li aveva lasciati lì, in periodi diversi, per risparmiarsi la fatica di pensare a dove metterli in casa. Stava per andare ad abitare con Milo ed era assurdo portarli in casa ora. Ma sapeva che era una scusa per se stessa. Con Milo stava bene e sicuramente sarebbero andati ad abitare insieme, ma c’era ancora molto tempo. E gli oggetti rimasero lì ancora una volta, l’auto era un armadio in più. Certo che quello scherzo non doveva farglielo, dopo lo sbattimento che si era fatta per trovargli quell’appun-

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tamento di lavoro. Il professor Manlio Santopietro aveva scritto la storia dello sport in Italia dall’Unità ai giorni nostri. Solo che l’aveva scritta a mano, perché non possedeva un computer e non aveva mai imparato a usarlo, adesso cercava qualcuno che lo facesse per lui ed era disposto a pagarlo. Tanto la pubblicazione sarebbe stata pagata dal dipartimento universitario per cui lavorava. Attraverso un giro di conoscenze, Tamara era venuta a saperlo e aveva cercato di passare quel lavoro a Milo, e gli aveva fissato un appuntamento con il cliente. Certo non era il massimo, ma quattro soldi in tasca se li sarebbe messi, e lui cosa fa? Promette, promette, e poi non si presenta. Quando Santopietro le aveva telefonato per chiederle spiegazioni, Tamara non aveva potuto fare a meno di comunicare subito a Milo cosa pensava di lui. Era quasi buio, ma i lampioni non erano ancora accesi. Sentì il rumore di una saracinesca che si abbassava. Nel giardinetto vi erano solo pochi ritardatari, e più nessuno dei ragazzini che nel pomeriggio lo facevano risuonare di voci, risate e tonfi del pallone. La convivenza con sua madre sarebbe stata eccellente, se non fosse che l’energica e anziana genitrice non le aveva mai perdonato l’interruzione del lungo fidanzamento con Federico, direttore del personale in una ditta di elettrodomestici, colto, simpatico e con un sicuro avvenire. Prima della rottura spesso Federico era a pranzo da loro, invitato dalla madre a insaputa della figlia. Sua madre era ansiosa di vedere sistemata la figlia maggiore, ancora nubile dopo il matrimonio della figlia minore, il che era già una grave colpa. Per tutta la cerimonia e il pranzo del matrimonio di Raf-

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faella con Terenzio Sapelli, la signora aveva borbottato: «Tamara doveva essere la prima». Era ancora più ansiosa che entrambe le figlie le regalassero dei nipotini. Tamara e Federico non avevano mai litigato, avevano persino fatto tre vacanze insieme in Messico, Marocco e a Praga. Praga l’aveva voluto lei, era sempre stata curiosa di vedere la città dei maghi e della cabala, il cimitero ebraico, la cattedrale. I posti pieni di turisti vanno bene ogni tanto se proprio devi rilassarti e distrarti, ma non possono bastare. E tutte e tre le vacanze erano andate benissimo. La lontananza da tutte le persone che conoscevano aveva aumentato la loro intimità e conoscenza reciproca. E dalla conoscenza reciproca avevano capito di non essere fatti l’uno per l’altra. Le serate erano diventate sempre più lunghe e le giornate sempre più vuote. La madre aveva sperato a lungo che la rottura fosse temporanea e aveva perso le residue speranze quando la sua Tammi aveva cominciato a vedersi con quel Milo. Finalmente l’ascensore arrivò, e poco dopo madre e figlia erano accanto al tavolo della cucina su cui era posata la spesa appena fatta. Tamara si era tolta la giacca e le scarpe, sostituendole con una paio di pantofole. La stanza faceva anche da salotto, su una mensola sul muro era posato un televisore in quel momento acceso senza audio. Tamara sapeva che sua madre teneva il televisore sempre acceso, probabilmente accenderlo era la prima cosa che faceva al mattino e spegnerlo l’ultima che faceva alla sera. Guardò divertita le persone che in quel momento si agitavano muovendo silenziosamente la bocca sul piccolo schermo. Il televisore e il gatto erano

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la sue uniche compagnie, quando sua figlia non era in casa, cioè la maggior parte del tempo. «Cosa dici, c’è tutto?» «Se mi lasci controllare te lo dico, che c’è, hai fretta?» Nell’attesa, Tamara provvide alle necessità del grasso e vecchio gatto, anche la bestia seguì i suoi movimenti con sguardo vigile e alla fine, per dimostrare la sua soddisfazione, inaugurò subito la sabbia nuova e pulita nella vaschetta, come se non avesse aspettato altro. Ma era altro che preoccupava Tamara. «Hai preso le medicine?» «Le ho prese, le ho prese.» Tamara controllò la confezione, e prese mentalmente nota che entro pochi giorni avrebbe dovuto tornare dal medico per rinnovare l’ordinazione. Mentre la madre finiva il controllo della spesa, la giovane donna tirò fuori dal frigo il necessario per cucinare. «Come va con Milo? L’hai visto oggi?» «Certo che l’ho visto, va benissimo», lo scopo della risposta precisa e inequivoca era bloccare sul nascere ogni discussione. Ma la donna capì il significato della risposta, e non si arrese: «Tammi, tu pensi che a me Milo non piaccia?». «Mamma...» «A me piace molto, invece. Non mi è piaciuto, subito, lo ammetto, lo trovavo... Come dire? Scostante, sbruffone» la signora sottolineò le parole con una smorfia e un gesto, come per allontanare una cosa ormai dimenticata e superata, «Ma poi ho visto che sotto sotto ha un cuore d’oro. Ma tu hai bisogno di un uomo sicuro, solido, prati-

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co. Milo non so... Se ha preso la laurea e poi l’hanno preso come insegnante vuol dire che i numeri li aveva... Ma poi ha combinato un guaio e adesso cosa fa? E poi non si è presentato a quel bellissimo lavoro che tu gli avevi trovato, chiunque si sarebbe leccato le dita, coi tempi che corrono. E poi dimmi che non è un incosciente». «Mamma!» questa volta la giovane donna gridò e sua madre tacque intimorita. Assalita dal senso di colpa, Tamara decise che uno straccio di spiegazione glielo doveva. «Milo mi ha spiegato che proprio quel giorno ha incontrato un ragazzo che era in crisi, non ho capito bene per cosa, hanno attaccato a parlare, sai Milo com’è fatto, lo ha portato in un posto dove c’era gente che conosceva, del tempo della cooperativa. Si è dimenticato di guardare l’orologio, il tempo è passato e allora...», decise di tralasciare il dettaglio dei due inseguitori, chissà che romanzo si sarebbe fatta la brava donna. «E ti sembra una buona ragione...» «No che non è una buona ragione, ma Milo è fatto così, e così mi piace. Sul momento ero anch’io incazzata nera, ma poi mi ha spiegato e mi sembra che quello che ha fatto indica che è una bella persona. Certo...», esitò un po’ di fronte a quell’unica concessione alla genitrice, «A volte esagera o sceglie il momento sbagliato per fare le buone azioni. Ma del resto non ci sarà un ragazzo in fuga a ogni appuntamento di lavoro». A dire il vero Tamara non riusciva a liberarsi completamente del sospetto che Milo non sopportava quel lavoro di battitura e revisione della storia dello sport. Milo lo aveva sfogliato e non le era sfuggita la sua espressio-

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ne di disgusto, che lei peraltro condivideva ma che non avrebbe mai ammesso. Il che non significava che la storia del ragazzo non fosse vera. «Sì, sì» aveva ripreso la premurosa genitrice «Fatto sta che vuoi andare a vivere con lui che a quarant’anni non ha la mutua, non ha la pensione. Oggi chi non ha la mutua e la pensione è sempre sul filo del rasoio, se si ammala cosa fa? E quando è vecchio cosa fa?». Le mutue non esistono più da alcuni decenni, ma quella magica parola per la mamma racchiudeva la sicurezza senza la quale oggi è impossibile vivere. Viceversa se hai la mutua non ti può succedere nulla, sei in una botte di ferro, può crollare il mondo. Impossibile convincerla del contrario, nessuno oggi è in una botte di ferro, le botti di ferro non esistono più. Il controllo della spesa era finito con esito soddisfacente e il tavolo era sgombro, e Tamara cominciò a tagliare la verdura sul vecchio asse di legno. Aveva già acceso il fuoco sotto la padella con l’olio. «Anche papà ha fatto il falegname, il sarto, il tappezziere, l’elettricista. La casa era sempre piena di attrezzi diversissimi, che non c’entravano niente l’uno con l’altro.» «Però qualunque cosa si rompeva in casa, lui l’aggiustava.» «Forse quello era l’unico vantaggio. Ma era sempre insoddisfatto, sempre alla ricerca di qualcos’altro. Non dirmi che non te lo ricordi.» «Sì, sì, ma poi si è messo tranquillo.» «E così farà anche Milo. Fidati». Non ci credeva molto nemmeno lei. Milo voleva fare lo scrittore, e non si

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sarebbe “messo tranquillo” finché non ci fosse riuscito. Nel frattempo era anche disposto a fare altre cose, giusto per mantenersi, ma senza impegnarsi. Probabilmente si era identificato con quegli scrittori diventati famosi dopo anni di disagi e delusioni, come Jack London che aveva fatto il cercatore d’oro, il pugile, il giornalista, il pompiere, il boscaiolo, l’operaio. Anche Tamara non aveva nessuna fretta di sistemarsi, di fare la moglie e la madre. Dopo tanti lavori era finita a vendere scarpe e accessori. Il proprietario era uno stronzo che di abbigliamento, gusti e tendenze non capiva nulla, ci pensava Tamara a fare le ordinazioni, a sistemare i modelli in modo da valorizzarli al meglio e a trattare con clienti e fornitori. Era di fatto la direttrice, ma pagata in ritenuta d’acconto con l’eterna promessa dell’assunzione mai mantenuta. In casa ogni tanto faceva traduzioni dal francese e dallo spagnolo, soprattutto opuscoli e manuali, aveva cominciato per caso, erano rimasti soddisfatti e aveva continuato. In casa teneva un armadietto con tutti i suoi appunti, che la madre non poteva toccare. Un lavoro molto discontinuo, e pagato regolarmente in ritardo. A volte passavano un mese o due durante i quali alle sue telefonate rispondevano che per il momento non c’era nulla, ma quando finalmente le davano un lavoro lo volevano in tempi rapidissimi e doveva passare la notte in bianco. In quei casi per fortuna la mamma le preparava un caffè forte bollente, con contorno di biscotti e pasticcini, e Tamara era molto contenta di sentirsi coccolata e incoraggiata come quando era una scolaretta, ma non

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l’avrebbe mai ammesso con Milo nemmeno sotto tortura, ci teneva a tirarsela da giovane donna autonoma e intraprendente. Tutto sommato non era avida, le piaceva fare un viaggio ogni tanto e una serata a teatro una o due volte all’anno, avrebbe odiato lo stress da lavoro, correre avanti e indietro guardando l’orologio. In quel momento guadagnava quanto le bastava e aveva abbastanza tempo libero. È vero che andando a vivere con Milo avrebbe dovuto rifare molti conti. «A proposito, Tammi, è venuta tua sorella. Dice che ha trovato l’alloggio che potrebbe andare bene a te e a Milo.» Tamara si morse le labbra. Raffaella era sempre ansiosa di rendersi utile, e di questo le era grata, ma non aveva nessun senso dei tempi e dei modi. Quando aveva saputo che sua sorella e Milo avevano deciso di fare l’esperimento della convivenza, aveva deciso di aiutarli. Con suo marito gestiva un’agenzia di autonoleggio che, dopo i primi tempi difficili, ormai era ben avviata. I rapporti di Tamara con suo cognato Terenzio erano sempre stati ottimi, lei aveva fatto da baby sitter a loro figlia Noemi che adesso faceva le medie e giocava a pallavolo. Anche Milo andava d’accordo con entrambi, anzi, sembrava che Terenzio fosse l’unico ad apprezzarne l’umorismo surreale. Quando quei due attaccavano non la finivano più, e in quei casi Tamara doveva allontanarsi per non scoppiare. Il problema era un altro. La madre non avrebbe capito che la convivenza di Milo e Tamara aveva un motivo diverso dalla volontà della figlia ingrata di abbandonare

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l’anziana e affettuosa madre. Tamara contava di comunicare personalmente la decisione alla madre, ma la sorella l’aveva inopportunamente anticipata. «Ah sì? E dov’è?» ormai la frittata era fatta. «E che ne so? Chiedilo a Raffa, visto che è lei che te l’ha trovato». Più difficile del previsto, meglio battere in ritirata. «D’accordo, domani le telefono. Ti va bene orecchiette con sugo di verdura, pomodoro e mozzarella?» «Non ho fame.» «Come preferisci.» Tamara accese il fuoco anche sotto la pentola piena d’acqua e preparò le orecchiette, mentre l’anziana donna sedeva e accendeva una sigaretta. Sapeva che il fumo avrebbe fatto arrabbiare la figlia, ma Tamara non disse nulla. «San Salvario è un quartiere assolutamente inadatto» sbottò la madre, giunta al limite della sopportazione, rivelando di conoscere l’ubicazione della casa nuova. «Lontano degli uffici comunali, e mal servito dai mezzi pubblici». «Mal servito?» Tamara sedette e accavallò le gambe, tenendo d’occhio il fornello. «San Salvario è attaccato a Porta Nuova, si fermano un sacco di tram e pullman che vanno in tutte le direzioni, adesso c’è persino la metropolitana». «Non ci sono mezzi per venire qui. Ma forse era proprio quello che cercavi, andare lontano da qui.» «Mamma, io posseggo un’automobile. Verrò con la Blè.» «E se la Blè un giorno non parte?» «Verrò a trovarti in autostop.» «Sì, sì, prendimi anche in giro.»

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«Mamma, non ti prendo in giro, in un modo o nell’altro verrò a trovarti sempre. Anzi, ti verrò a prendere e ti porterò spesso a pranzo da noi.» La madre spense con rabbia la sigaretta non finita, si alzò e si chiuse nella sua camera sbattendo la porta. Per il momento poteva bastare.

L’autista portò morbidamente la Bmw all’interno del garage sotterraneo, poi scese e aprì la portiera posteriore. Roberto Vastano, impeccabile nel suo completo blu firmato, i capelli grigi e la pelle del volto e delle mani curatissimi, scese ed entrò nell’ascensore che, insonorizzato e morbido, lo portò nell’attico al centro del quartiere della Crocetta di Torino. Aveva avuto una riunione al mattino e ne avrebbe avuta un’altra al pomeriggio, ma quella questione doveva trattarla personalmente, non poteva delegarla a nessun altro. Il domestico in livrea disse: «Eric è nella sua stanza...», ma Vastano, senza ascoltarlo, stava già attraversando a grandi passi il salone usato per feste e ricevimenti, dove gli addetti della società di pulizie erano al lavoro efficienti e silenziosi. Per svolgere il loro lavoro avevano rimosso i quadri fiamminghi e gli arazzi seicenteschi, che ora erano posati nel corridoio, e il tappeto persiano era stato arrotolato. Avevano anche tirato il tendaggio e spalancato la portafinestra che dava sulla terrazza. Vastano salì una scala, senza bussare aprì la porta e si trovò di fronte a suo figlio, seduto su uno sgabello, che lo fissava come se lo attendesse. La stanza dif-

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feriva da quella dei ragazzi della sua età per un maggiore ordine, da dare quasi fastidio alla vista. Libri di scuola, attrezzi sportivi, cancelleria, non una matita fuori posto. In un angolo c’era lo scrittoio dove studiava e faceva i compiti, da cui Eric toglieva ogni cosa quando aveva finito, e forse lo spolverava anche. Nell’angolo opposto la Mountain Bike, che non usava mai, in un altro lo stereo con la raccolta di cd, che ascoltava molto. Non ce l’aveva costretto il padre, autoritario su altre cose, Eric era molto puntiglioso di suo. «Ciao, papà. Vuoi sapere cosa ho fatto ieri tutto il pomeriggio?» Era il pomeriggio in cui gli addetti alla sua sicurezza gli avevano riferito che era uscito senza permesso, lo avevano rintracciato in via Po, zona di punkabestia e barboni, e lo avevano di nuovo perso di vista quando era salito in Vespa con un tipo strano. Però avevano preso il numero di targa. «No, Eric. Il problema è un altro», l’uomo cercò uno sgabello e sedette. «Ho parlato con il preside del San Domenico Savio. Mi dice che il tuo rendimento è ancora sceso. Lui sa, come lo so io, che sei molto intelligente. Per cui non capisce cosa ti sta succedendo. Eric», l’uomo con il completo firmato cercò di essere condiscendente, ma sentì di non riuscirci. Gli mancava l’abitudine. «Forse posso aiutarti se mi dici qual è il problema». Sapeva che la droga non c’entrava, sottoponeva suo figlio a check up regolari, e non c’entrava nemmeno una ragazza, ci sarebbe stato qualche accenno, qualche telefonata.

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«Quale problema?» il tono di Eric era svogliato, come costretto a un’impresa faticosa e noiosa. «Comprami il diploma. E poi magari anche la laurea. I soldi li hai». Stava cercando di provocarlo, ma suo padre ormai lo conosceva troppo bene e non ci cascava. L’uomo e il ragazzo si fissarono per alcuni secondi. «Non dici niente?» «Ti ho risposto che...» «Intendevo qualcosa di sensato» adesso stava perdendo la pazienza, ma riuscì a non alzare la voce «Va bene. Allora decido io. Assumerò un insegnante per darti delle ripetizioni. Magari uno diverso per ogni materia». Vastano riteneva chiuso il colloquio, si era alzato e aveva già la mano sulla maniglia, quando suo figlio parlò. «Sono disposto a prendere lezioni di ripetizione solo da Milo Franzosi.» «Milo Franzosi? E chi sarebbe?» Eric mise la mano nella tasca del k-way viola posato sul letto, tirò fuori un pezzo di carta e lo porse a suo padre, che lo prese e lo osservò. Era un numero di telefono. «È un insegnante. Non è quello che cerchi?» «Come l’hai conosciuto?» Eric non rispose. Il suo sguardo riprese a vagare per la camera. Roberto Vastano temeva che, se avesse rifiutato, avrebbe inscenato una crisi isterica, come altre volte. Vera o simulata non avrebbe saputo dirlo, ma il risultato non cambiava. Magari non ci sarebbe stata nessuna crisi, ma suo figlio sarebbe andato dagli insegnanti imposti dal padre con il preciso intento di non fare nulla e non ricavare nulla, se non altro per ripicca. Vastano fece mentalmente un rapido calco-

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lo, come era abituato nel suo lavoro. Calcolò che l’obiettivo di fargli prendere lezioni di ripetizione lo aveva comunque ottenuto, e di quello doveva accontentarsi. La scelta dell’insegnante poteva lasciargliela. Il che non gli avrebbe impedito di compiere una piccola indagine su quel Milo Franzosi. Mise il foglietto in tasca e aprì la porta. In quel momento lo sguardo gli cadde sullo scrittoio, che quel giorno non era vuoto e pulito come sempre. Vi era posato un volume che non aveva mai visto, sulla copertina un buffo essere con il berretto con i sonagli, e quello strano titolo. Lo aprì e lo richiuse. «Un fumetto? Leggi fumetti, adesso?» «Perché, tu non hai mai letto fumetti?» «Non ne ho mai avuto il tempo. Ma se ti piacciono...» Il giorno stesso una delle segretarie di Roberto Vastano compose il numero sul pezzo di carta e trovò la segreteria telefonica. Allora lasciò registrato l’invito a Milo Franzosi a richiamare per fissare un appuntamento per concordare un’eventuale serie di lezioni di ripetizione per Eric Vastano «Che aveva già conosciuto».

Tamara guardò con disapprovazione l’uomo in pigiama e pantofole seduto sulla vecchia poltrona. Sapeva che lui non l’aveva mai cambiata non perché non potesse permetterselo ma per pigrizia. A quella poltrona Milo si era affezionato, ci stava bene e non aveva voglia di andare in giro a cercare e confrontare. «Cosa c’è? Mi sono appena svegliato, non sapevo che saresti arrivata così presto». Non voleva ammettere che

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aveva faticato a sollevare il suo grosso corpo dal letto, ma probabilmente la giovane donna lo aveva capito. Il ventre ormai trasbordava dalla giacca del pigiama slacciata. A intervalli molto irregolari cercava di fare un po’ di moto, corsa al mattino ed esercizi in casa, alcuni dei chili in eccesso erano andati al posto giusto e lui dormiva meglio a mangiava con più appetito. Ma poi la pigrizia riprendeva il sopravvento. «Veramente non vedo la differenza quando ti vedo dopo che ti sei svegliato da cinque ore. C’est toujours la meme chose.» Milo non sopportava il vezzo di Tamara, da quando aveva cominciato a fare traduzioni, di piazzare qua e là parole straniere. Sospettava sempre che volesse dirgli qualcosa di sgradevole che lui non potesse capire, anche se lei diceva che era solo per tenersi in esercizio. La guardò mentre si slacciava la giacca di finta pelle, apriva una sedia pieghevole incastrata in un angolo e sedeva. La finestra che dava sul piccolo cortile in quel momento era socchiusa. Due o tre libri erano aperti e posati qua e là, uno era un romanzo di heroic fantasy, almeno a giudicare dall’illustrazione della copertina. L’alloggio era una ex portineria, al pianterreno di un vecchio palazzo del centro storico. In realtà non era esattamente al pianterreno. L’ex portineria era costituita da due stanze una sopra l’altra, unite da una scala che costringeva Milo a fare un minimo di ginnastica ogni giorno. La stanza inferiore era nel piano ribassato, per entrare bisognava scendere tre gradini, e conteneva il bagno e l’angolo cucina. La stanza superiore era un po’

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sopra il pianterreno degli alloggi normali, ed era dotata di una portafinestra che le forniva la luce. Ma non permetteva di vedere un grande paesaggio, poiché dava sul cortile interno, tanto piccolo che poteva ospitare solo due o tre auto e qualche bicicletta. E la sua Vespa. Le due stanze erano piccole di per sé, e la scala interna le privava di un altro metro quadrato buono. Quell’alloggio che non era un vero alloggio, non lo voleva nessuno, e l’anziana proprietaria non aveva fatto obiezioni a fargli un prezzo modico. Ma un vantaggio ce l’aveva, era a pochi passi dal Balon, il grande mercato dell’usato di Torino, dove era possibile trovare praticamente di tutto, e dove Milo aveva trovato il lampadario, il tavolino e le sedie pieghevoli, uno scaffale dall’aria molto precaria ma che per ora reggeva sotto il peso dei suoi molti libri, e la famosa poltrona. Un vantaggio solo nella sua personalissima scala di valori, perché la sua compagna non era dello stesso parere. Milo allungò la mano e premette il pulsante della radio, sintonizzata sui 105.250 di Radio Black Out, stava andando in onda Backstage. Tamara allungò la mano a sua volta, e abbassò il volume. «Insomma, hai un appuntamento di lavoro, e questa volta ci vai, oppure non farti sentire da me mai più. Quand on ne travaille pas, on n’est qu’une bouche inutile. Compris?» «Stai insinuando che io…» «Lo so che lavori, non dico che non lavori. Hai fatto di tutto. Ma io ti sto proponendo un lavoro degno di questo nome. Un lavoro serio… Cioè, non è che i lavori che fai non siano seri» bloccò lui che tentava di obiettare. «In-

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somma, hai capito cosa voglio dire!», non nominò il mucchio di fogli dattiloscritti che si trovavano in cima a uno scaffale e che lui chiamava “il mio romanzo”, a cui aggiungeva una frase ogni tanto, un capitolo quando era in vena. Tamara l’aveva letto, man mano che i capitoli procedevano, e gli aveva fornito consigli che lui aveva seguito. Ma la conclusione ancora non si intravedeva, in realtà il romanzo era una manifestazione del suo entusiasmo, della sua voglia di fare sempre cose nuove. Era anche una dimostrazione della sua difficoltà a concludere qualcosa, come dimostravano anche i libri lasciati aperti. «Domani alle ore 11 appuntamento con il signor Roberto Vastano, padre di Eric, il tuo nuovo amico». Milo strabuzzò gli occhi come se dovesse lottare ancora con il sonno. Gli sembrava di ricordare che due giorni prima aveva trovato sulla segreteria telefonica un messaggio della segretaria di un certo Roberto Vastano, che lo invitava a richiamare per fissare un appuntamento. Ma non ricordava assolutamente di avere richiamato, né di avere nessuna intenzione di farlo. Rivedere quel ragazzo non gli sarebbe dispiaciuto, l’avrebbe fatto volentieri, ma che c’entrava il padre? Però ricordava di averlo detto a Tamara. Grave errore. Tamara sogghignò maliziosamente. «Cosa hai fatto?!» «Molto semplice. Ho visto il numero sul tuo cellulare, l’ho richiamato, mi sono presentata come l’assistente del professor Milo Franzosi e ho fissato l’appuntamento. Ahora no te escaparas.» Adesso Milo era inferocito. Se non aveva richiamato un motivo c’era. Quella storia non gli piaceva. Non gli

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piaceva l’idea di dare ripetizioni a un figlio di papà che doveva essere promosso a tutti i costi, che doveva un giorno dirigere l’azienda di famiglia, mentre le persone normali una lezione di ripetizione non potevano permettersela. Come i precettori che i patrizi dell’antica Roma facevano venire a casa per i loro rampolli. Aveva già tentato di esprimere questo concetto, ma Tamara sembrava non capire. Ricordava ancora il suo commento stizzito: «Per favore, questi discorsi non voglio nemmeno sentirli! È più democratico da parte tua fare lavori di merda guadagnando quattro soldi? Facendo guadagnare gente senza scrupoli che ti sfrutta, come quella stronzata dei biglietti di auguri? Altro che patrizi romani!». Milo non tentò di ripetere una battaglia che sapeva persa in partenza, ma la sua espressione doveva essere abbastanza eloquente perché la giovane donna gli sorrise, come per favorire il suo ascolto, e spiegò: «C’è una cosa che tu sai fare e ti piace fare, a parte scrivere, e quella cosa è insegnare. Io ti offro la possibilità di continuare a farlo. L’unico modo di continuare a farlo adesso è questa. In futuro si vedrà». Tamara avrebbe continuato se non fosse stato Milo, questa volta, a interromperla. «Va bene.» «Come dici?» «Ho detto che va bene. Hai ragione. E lo sai quanto mi secca darti ragione. Per fortuna capita raramente. Andrò a quell’appuntamento.» Tamara si appoggiò allo schienale della sedia e, come meritato premio, tirò fuori una sigaretta e l’accese. Il pa-

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drone di casa non fumava e non possedeva portacenere, lei si accontentò di un bicchiere sporco che era posato sull’armadietto accanto al letto. Era soddisfatta, ma sapeva che il più era ancora da fare. «Mi fa piacere, ma andrai da quel signore quando sarai pronto. Tu insegni bene, questo lo so io e lo sai tu, ma quella gente se ne accorgerà più avanti quando vedrà i risultati. Adesso non lo sa, adesso saprà solo quello che vede. Se dici di essere un insegnante devi darti un tono da insegnante. La laurea non basta. Domani ho il giorno libero, faremo un giro in centro a cercare dei vestiti.»

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