~atropo · narrativa~ 26
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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali, Francesca Bianchi Grafica: Gabriele Munafò, Adam Tempesta Redazione: Anna Matilde Sali, Valentina Presti Danisi Illustrazioni di: Officina Infernale © Copyright 2021, Eris (Ass. cult. Eris) © Copyright 2021, Marco Boba Eris (Ass. cult. Eris) piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Luglio 2021 ISBN 9791280495020
Alle mie famiglie, a chi ama la vita e la libertà e a chi ne è privato, non solo umano.
Inverno
1 L’aria è densa nella stanza da pranzo, il silenzio è rotto dalle voci che escono da Radio Blackout, l’emittente cittadina indipendente, la “radio antagonista”. Anarchici, autonomi, centri sociali vari e tutti coloro che sono in conflitto con il sistema, trovano spazio e voce a quei microfoni, da anni. Andrea ascolta amareggiato, un altro pezzo del suo passato sta per essere inghiottito dal grande nulla, venticinque anni, manu militari, cancellati con un colpo di spugna. Non vuole crederci ma è così, con un dispiegamento di forze da operazione di guerra, stanno sgomberando l’Asilo, un posto occupato dagli anni ’90, un luogo pulsante nella vita della città, attivo, frequentato da decine di persone ogni giorno. Non riesce ad accettare che per volontà del ministro dell’Interno, o forse della sindaca, o forse tutti insieme appassionatamente, d’ora in poi quel luogo tornerà a essere abbandonato, uno spettro triste e silenzioso, destinato a rivivere soltanto nei suoi tanti ricordi che lo legano a quello spazio. Cammina avanti e indietro per la stanza, indeciso se uscire per andare a raggiungere le persone che si sono radunate a pochi metri dall’Asilo formando un presidio in corso Brescia, il corso che fiancheggia l’edificio assediato dalla polizia. Persone che come lui sono contrarie allo sgombero. Uscire o restarsene chiuso in casa con la sua tristezza, oggi è giovedì 7 febbraio, una data che ricorderà a lungo, probabilmente per il resto della sua vita. Un giorno mesto, da segnare sul calendario, come quando ti muore qualcuno di molto caro e negli anni seguenti non puoi
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fare a meno di associare la data a qualcosa di doloroso, a una mancanza inconsolabile. Guarda fuori dal vetro della porta del balcone, esce e ammira i tetti della città, ormai gli inverni sono tiepidi, rare le giornate di gelo, anche il cielo è diverso, i lunghi mesi in cui era sempre grigio non esistono più, spesso è azzurro. Ripensa con nostalgia alle nebbie che ammantavano tutto, l’odore dello smog umido, il freddo che ti penetrava nelle ossa. Sta facendo come i vecchi. Sente la paura di rincoglionire col passare del tempo. Ha deciso, resta in casa, non ha più voglia di scendere in strada per lottare e gettarsi nella mischia, non vuole più saperne dei momenti di tensione con la polizia. Ciò che più lo trattiene è la consapevolezza che quei momenti sono inutili. Essere incazzato e confrontarsi davanti agli uomini in divisa ormai vuol dire rischiare solo botte e galera. Poi c’è il senso di frustrazione che ha provato decine di volte quando si è sentito impotente davanti alla violenza e all’arroganza degli sbirri, la quasi impossibilità di reagire incisivamente. Non vuole più vedere quegli sguardi beffardi dei suoi nemici che lo guardano con derisione, quasi a dirgli “non siete un cazzo e noi facciamo quello che vogliamo” perché purtroppo è proprio così, forze preponderanti, impunità, miseria intellettuale, trivialità machista da caserma, puzza di burocrazia. Ogni poliziotto rappresenta questo per lui, cose con cui lui non vuole più averci a che fare, neanche con il pensiero. Sono anni che si è allontanato dalla lotta politica, ha smesso di organizzare e partecipare alle manifestazioni, niente più riunioni e assemblee, cortei e presidi d’estate e d’inverno, che erano per lui momenti di gioia e ora, dopo decenni, non lo coinvolgono più. Delle nuove leve non conosce nessuno e quelli della sua generazione non li frequenta quasi più, è diventato un solitario, l’unico contatto con quel mondo è Laura, la sua compagna, molto più giovane di lui, che invece quei luoghi li frequenta ancora. Lei, che ci sguazza felice e a proprio agio nel trascorrere ore in riunione, con decine di altre persone, a parlare nelle sale fumose di un posto occupato o dell’università, organizzare lotte, incontri o raccogliere fondi. Lei è una militante anarchica che partecipa
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ai presidi fuori dal cpr, i centri dove vengono rinchiusi, in attesa di espulsione dall’Italia, gli stranieri che non hanno i documenti in regola. Va ai cortei contro il tav a Torino e in Val di Susa, viaggia per l’Italia e l’Europa per partecipare a manifestazioni e lotte in cui crede. Molte volte l’ha vista alzarsi alle 5 del mattino e raggiungere i picchetti antisfratto, per aspettare insieme ad altri l’arrivo dell’ufficiale giudiziario e impedirgli con la propria presenza fisica di eseguire lo sfratto, frapponendosi tra lui e l’accesso al portone d’ingresso. Sono cose che a lui non danno più nessuno stimolo, nessun piacere, per lui la lotta deve essere anche gioia, non sacrificio. È consapevole che appartiene a un’altra era, si sente vecchio in confronto ai nuovi giovani, quelli che hanno 10, 20 e forse più anni meno di lui. È un momento in cui i suoi 45 anni gli pesano, gli sembra di avere addosso secoli, un tempo infinito che gli grava sulla schiena, di sconfitta in sconfitta ha visto l’umanità peggiorare, scivolare verso l’abisso della barbarie, correre a velocità folle verso l’autodistruzione, di anno in anno i governanti del mondo sono peggiorati, umanamente impresentabili, razzisti, neoliberisti, versioni del terzo millennio del fascismo, negazionisti della catastrofe ambientale in atto, Bolsonaro, Trump, Erdogan, Salvini. Uomini mediocri con grandi poteri, retrogradi antiabortisti, militaristi, sessisti, omofobi che anche il Papa si colloca a sinistra rispetto a loro. L’impossibilità di incidere sul presente, l’impotenza davanti a un nemico immenso lo caricano solo di rabbia e odio. Avesse un mitra con sé, ora andrebbe al presidio di solidarietà accanto all’Asilo e ammazzerebbe quanti più sbirri possibile, ma non ce l’ha, non ha mai voluto avere un’arma, proprio per paura che l’avrebbe potuta usare, quando gliene avevano proposta una aveva declinato l’offerta e ora si chiede se sia stata la scelta giusta. Resta a casa, ascolta Radio Blackout che ha stravolto il proprio palinsesto per potere raccontare in diretta l’evolversi della situazione, si tiene aggiornato minuto per minuto e prepara qualcosa da mangiare per sé e per Laura, casomai rientrasse. L’ultima volta che è stato all’Asilo occupato ci è andato con lei, era la consueta cena del martedì. Una tradizione iniziata agli albori
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dell’occupazione, quando c’erano ancora le lire, i saloni del posto si trasformavano in un ristorante: tavoli apparecchiati, scelta tra portate vegetariane o carnivore, occupanti o simpatizzanti che si improvvisavano camerieri e che facevano la spola tra i saloni e la cucina per portare i piatti in tavola. Tutto costava molto poco ma la qualità del cibo quasi sempre era su alti livelli, tanto che molti, che avevano iniziato a cucinare lì, nella vita avevano intrapreso la carriera del cuoco. Il ricavato di quelle cene andava tutto a sostenere coloro che erano vittime della repressione, la gente della Torino “alternativa” o “antagonista” si dava appuntamento a quei tavoli non solo per contribuire in modo economico a sostenere quelli in carcere o ai domiciliari, ma perché erano belle serate, bei momenti di incontro per tutti. Quella sera con Laura aveva provato un gran disagio in quel brusio di sottofondo, circondato da persone che non conosceva. Anche chi serviva gli era sconosciuto, dei vecchi abitanti di un tempo non vi era più traccia, faceva parte del ciclo della vita il ricambio generazionale, le persone arrivavano nei posti, ci vivevano per un po’ e poi dopo qualche anno cambiavano città o stile di vita o si andavano a occupare un altro posto, però non vedere nessuno del suo passato l’aveva lasciato spaesato. Immalinconito se ne era andato via appena terminata la cena. Laura è in strada da ore, ancora non si capacita che Andrea abbia deciso di rimanere a casa, a tristezza si aggiunge tristezza e a rabbia si aggiunge rabbia. Il quartiere intorno all’Asilo è militarizzato: da alcune ore checkpoint e camionette delimitano l’accesso alla zona che lo circonda, chi abita lì intorno deve fornire i documenti per poter rientrare in casa propria, sbirri schierati a ogni angolo, da quello che ha letto o che le è stato raccontato da gente molto più vecchia di lei che l’ha vista, la Belfast degli anni ’70 e ’80 era così. Le persone continuano ad arrivare, andarsene, un costante andirivieni di solidali che, aggirando i blocchi, riescono a raggiungere l’assembramento. Quell’occupazione è un simbolo e per molti è anche parte integrante della propria vita, malgrado i rischi di venire malmenati non possono fare a meno di essere lì. Ora sono bloccati e circondati all’angolo di corso Brescia e via Alessandria, quartie-
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re Aurora, vecchi palazzi dell’800, muri spessi costruiti in pietra e mattone pieno si mischiano a quelli sottili e tristi di case in cemento armato e mattoni vuoti, costruite intorno agli anni ’60, quando in pochi anni la città ebbe un’esplosione demografica e si trasformò in una metropoli industriale. Da un balcone al quarto piano, a volume altissimo, viene mandata Radio Blackout, allietando i sottostanti ma soprattutto coloro che dalla notte sono saliti sul tetto per resistere allo sgombero, in quella situazione la polizia evita di agire per prevenire cadute e questa da decenni è la tecnica utilizzata per impedire lo sgombero o eventualmente rallentarlo. In realtà non stanno resistendo in maniera attiva, semplicemente sono asserragliati là sopra, circondati dalla Digos, è quasi difficile da dov’è lei riconoscere i compagni dagli sbirri, però Laura li guarda bene e li riconosce uno per uno, sono suoi amici e amiche, non riesce a trattenere lacrime di furore. I piani di sgombero pensati dalla questura prevedevano un’irruzione fulminea e improvvisa dentro l’Asilo con forze soverchianti, decine e decine di uomini che dovevano entrare velocemente e spargersi in ogni angolo per bloccare gli occupanti nel sonno. L’operazione però non è riuscita, quando la polizia è entrata scavalcando il cancello che si affaccia sul cortile i suoi compagni erano già sul tetto. Dal giorno precedente era girato un allarme sgombero, le cose più importanti e di valore erano state portate via nella notte, ’fanculo stronzi. Sono ore che è sveglia, ore che subisce la prepotenza degli sbirri, era ancora buio quando è restata bloccata e circondata sotto il palazzo occupato di corso Giulio Cesare, ma lì non volevano sgomberare, si sono “solo” portati via le persone. Ancora non è ben chiaro cosa stia succedendo, ma a quanto pare lo sgombero e gli arresti sono motivati da accuse di associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Come da copione tutti i media già dal mattino stanno mandando la notizia “arrestati per terrorismo”. Non è la prima volta che succede, e ogni volta l’accusa cade, ma quando avviene i media non lo sbandierano ai quattro venti. Fuma avidamente l’ennesima sigaretta, non ha voglia di parlare con chi le si trova accanto, deve pisciare, se ne va al bar di Sasha, un bar gestito da un uomo dell’est Europa. Agli inizi era frequentato dagli accaniti consumatori d’alcol del quartiere, non dagli studenti o dagli
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artistoidi arrivati con la gentrificazione. Prezzi modici per alcolici di modica qualità, è una delle scuse che le adduce sempre Andrea per non frequentarlo, ma il motivo non è solo quello, lui non riesce a stare in mezzo agli altri. Anche se sono i suoi stessi amici o persone simili a lui. Che giornata di merda, che mondo di merda. Entra nel bar Mavvè, anche lui ha subìto lo stesso calvario: poche decine di persone tenute bloccate per ore dalla celere sul marciapiede nei pressi del palazzo occupato di corso Giulio Cesare, quando li hanno rilasciati era giorno fatto. A loro si sono aggiunti altri solidali che stazionavano nei pressi dell’Asilo ed è partito un corteo diretto verso il centro città poi tornato di nuovo verso il quartiere Aurora che ospita entrambe le occupazioni e anche Radio Blackout. Non erano in molti, ma il numero di persone col passare delle ore e il circolare delle notizie era aumentato, poi si erano aggiunti gli universitari. C’era stata una carica che aveva spezzato il corteo, un gruppo si era diretto verso l’altro lato della Dora, quello dove c’erano lei e Mavvè invece era stato bloccato per un bel po’ di tempo all’angolo tra l’inizio di corso Vercelli e corso Emilia, anche lì circondati dalla celere, angariati da quegli stronzi. In quell’angolo solitamente le facce bianche sono una rarità, ma in quelle ore non c’era più neanche l’ombra di uno “straniero”. In quello spiazzo così ampio, circondato da vecchi palazzi, alcuni fatiscenti, le uniche presenze umane erano il gruppo di persone bloccato dai poliziotti, che a loro volta erano circondati da altri manifestanti, il tutto nel silenzio irreale dove non passavano neanche le auto. È calata la sera, Andrea non è uscito, ha cucinato ma non ha mangiato, ha lo stomaco chiuso, la radio è sempre accesa, i ragazzi dell’Asilo hanno convocato un’assemblea nel cortile della radio per decidere tutti insieme come reagire e come rispondere all’attacco in corso e per fornire maggiori notizie sugli arresti. Non ne può più di restare in casa, ci va anche lui. Il cortile è pieno di gente, c’è poco da discutere, parte un corteo spontaneo, ci sono tutte le realtà cittadine, anche qualcuno degli autonomi. Stasera si va oltre gli scazzi e le divergenze politiche di anni e che hanno sempre giovato alla controparte. Ed
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era ora, almeno in queste circostanze. Dal cancello iniziano a uscire le persone, tantissimi giovani, le facce che lui conosce sono davvero poche, c’è anche Laura, ma lei non l’ha visto, Andrea si posiziona una decina di metri davanti allo striscione di apertura del corteo, la massa vestita di nero pare non abbia fine, quel cancello spalancato è come la pietra che nasconde il formicaio, sono centinaia, non si aspettava questa affluenza così numerosa. Senza tanto tergiversare il corteo si muove, nel silenzio della sera non c’è spazio per percepire il freddo dell’inverno, è un corteo quasi muto ma che emana tanta rabbia e che cammina veloce tra i palazzi anni ’60 e il muro delle vecchie officine comunali giallo scrostato e pieno di scritte. Il ponte sulla Dora, pochi vigili a distanza bloccano il traffico, le strade dell’antica periferia sono deserte, si prosegue veloci, sbirri non se ne vedono o se ci sono si tengono a distanza, si gira verso San Pietro in Vincoli, poche case vecchie e basse, officine, magazzini e alberi spogli. Si va oltre, compatti, arrabbiati, sono tanti i volti coperti, stasera si è “padroni” delle strade ma non c’è nessuno che se ne accorga. La via che taglia in due il Cottolengo, quelle mura austere paiono emanare la sventura di chi ci sta dentro, poveri, “handicappati”, persone sole e gente di chiesa. Le leggende metropolitane di un tempo narravano che all’interno ci fossero rinchiusi i “mostri”, gente deforme e persino l’uomo a due teste, tutti segregati e custoditi dalle pie mani di preti e suore, voci dimenticate dell’infanzia di Andrea, probabilmente ignote ai giovani manifestanti. Ancora camminando veloce e ancora senza vedere forze nemiche, si oltrepassa corso Giulio, la gente sta facendo incetta di bottiglie dai bidoni del vetro, si prosegue su via Andreis, in coda cassonetti incendiati, le prime avvisaglie della rabbia cominciano a manifestarsi. Si scende dalla via che parte dal grande mercato di Porta Palazzo e riscende fino alla Dora, i pochi negozi gestiti dai cinesi sono chiusi, i palazzi costruiti nel Ventennio appaiono deserti, come la strada. Si arriva al ponte di via Bologna, l’Asilo è a cento metri, sull’altra sponda a chiudere la via centinaia di sbirri, attimi di pausa, silenzio, elettricità nell’aria e paura, voglia di vendetta, voglia di spaccare tutto e di andare addosso alle forze dell’ordine.
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Stallo. Si evita lo scontro diretto, si prosegue sul Lungo Dora, cercando un ponte non presidiato. Sembra che questa parte di città sia stata svuotata completamente degli abitanti, ci si sente come a Fukushima, si percepisce solo il gelido scorrere del fiume da cui sale l’umidità. Il ponte di corso Regio Parco è libero, velocemente si arriva davanti alla Nuvola, la nuova sede della Lavazza, gli sbirri sono schierati a protezione di questa parte integrante del progetto di “riqualificazione” del quartiere. Da quando è stata inaugurata i prezzi delle case sono decisamente aumentati, è il primo passo per allontanare gli “indesiderabili”, insieme agli sgomberi, inizia così la speculazione. Il corteo si blocca a una ventina di metri dal cordone, silenzio irreale, poi una pioggia impressionante di bottiglie arriva sugli scudi e sui caschi degli sbirri. Arretrano di qualche metro. Il tempo di capire che sono finiti i proiettili di vetro e caricano. I giovani che tenevano lo striscione imbottito sono rimasti immobili al loro posto e vengono travolti dagli sbirri, due vengono arrestati, alle loro spalle il corteo si spezza per ricompattarsi nei pressi del ponte. Si va verso corso Regina, uno dei corsi più lunghi e più importanti della città, un grande viale centrale e, ai lati dei controviali, i binari protetti del tram, i tronchi nudi dei grandi platani sembra vogliano proteggere le auto parcheggiate sotto di loro. Il corteo resta sul viale centrale, delle luci si intravedono alle finestre degli appartamenti degli eleganti palazzi dell’800, ma nessuno si affaccia a vedere cosa sta succedendo. Gli sbirri inseguono a distanza, si procede velocemente e si arriva in piazza Santa Giulia. In queste strade le botteghe artigiane sono state sostituite da locali e ristoranti, ci abitano studenti che strapagano le stanze singole, l’università è a uno sputo e questa piazzetta è diventata il tempio dell’aperitivo. Ci si dovrebbe sciogliere, ognuno dovrebbe tornarsene a casa propria, ma la voglia di vendetta non si è ancora placata, forse non si placherà mai, nel frattempo c’è stato un altro fermato in corso Regina. In piazza si resta fermi qualche minuto, poi il grosso del corteo riparte a pastorizia. Andrea non prosegue, cerca Laura tra la poca gente che non ha proseguito, la trova con un bicchiere di birra.
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«Che fai resti o vieni da me?» «Ma c’eri anche tu al corteo?» «Sì.» «Finisco di bere e andiamo, mi aspetti?» «Sì.» «Come siamo logorroici stasera!» «Sì.» Andrea vuole tornarsene a casa, freme ma non le mette fretta, si apparta in un angolo appoggiato al muro, ripensa ai tanti momenti belli vissuti dentro l’Asilo e soprattutto a quelli che ci hanno abitato e che non ci sono più, il ricordo di quei morti è un dolore caldo e liquido che gli pervade il corpo. «Andiamo? Che hai, Andrea?» «Niente, sono troppo incazzato, non credevo che l’avrebbero fatto.» «Invece l’hanno fatto, però gli altri sono ancora sul tetto.» «È questione di ore, prima o poi dovranno scendere.» «Dai andiamo, sono stanca, ho bisogno di dormire, voglio ritornare al presidio domani mattina presto.» «Quando?» «Appena avrò dormito abbastanza o magari metto la sveglia.» Si allontanano dalla piazza affollata, passando accanto a quel che resta del gruppo di manifestanti, facendo lo slalom tra studenti e “professionisti” dell’aperitivo, ognuno con un bicchiere in mano, non è tranquillo, teme qualche brutto scherzo da parte degli sbirri. Intanto su corso Regina è ripreso il traffico. Ripercorrendo all’inverso un pezzo del corteo arrivano a piedi fino a Porta Palazzo, giusto in tempo per prendere al volo il tram che li porta dove abita, Barriera, quartiere ipocritamente definito “multietnico”. Dai finestrini sporchi Andrea osserva ipnotizzato la distesa della piazza semi deserta dove l’indomani mattina ci sarà il mercato, la pavimentazione in blocchi di pietra è ancora bagnata dal lavaggio quotidiano e riflette a specchio le luci gelide che illuminano la spianata, si sente stanco e spossato, incazzato per la tristezza che lo pervade e di cui non riesce a liberarsi.
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Si sveglia con la luce del giorno che inonda la stanza, Laura non c’è, gli ha lasciato un biglietto in cui gli augura una buona giornata, con calma si lava e si veste e va al lavoro. Non ha un lavoro fisso, per anni ha fatto il cuoco, ma sempre per periodi limitati, ora non vuole più saperne di stare chiuso in una cucina, conosce tanta gente in città, si arrangia con lavori occasionali. Oggi è il giorno in cui lavora per un’amica di Laura, una che ha aperto un grow shop, lui deve andare fuori città col furgone che lei gli mette a disposizione e caricare un paio di bancali di sacchi di terra, tornare in negozio e sistemare i sacchi in magazzino, quella mezza giornata di lavoro gli fa guadagnare 50 euro. Pur di non cucinare si adatta a fare di tutto, manovalanza con un muratore o un imbianchino, quello che gli propongono lui accetta, come tanti sta aspettando che ripartano le lavorazioni dei film. Grazie alle agevolazioni economiche per quelle produzioni che scelgono Torino per girare, la città si trasforma in un set cinematografico. Anche quel lavoro è manovalanza pura, si tratta di caricare e scaricare furgoni, però relativamente ben retribuita, sicuramente meno impegnativo e faticoso rispetto a chi fa traslochi. Impegnato alla guida del furgone si distrae dai brutti pensieri, guidare quel mezzo non suo gli mette un po’ d’ansia, decine di migliaia di euro sotto il culo sono una responsabilità, stranamente invece quando guida i mezzi del cinema è tranquillo, non gliene frega nulla se si rovinano. Finita la giornata lavorativa ritorna a casa, con un messaggio Laura gli ha fatto sapere che per questa sera dormirà a casa propria, ne è contento, vorrebbe che accadesse più spesso, invece quasi ogni notte dormono insieme e quasi sempre da lui. Più e più volte hanno discusso di questa cosa, lei vorrebbe convivere, avere una casa soltanto sarebbe più economico per entrambi, ma lui non ne vuole sapere, ha bisogno di solitudine e del proprio spazio.
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