GIANLUCA COSTANTINI
1917 LA DECIMAZIONE DELLA BRIGATA CATANZARO
ELETTRA STAMBOULIS
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Collana Kina Collana diretta da: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali
© Copyright 2014, Ass. cult. Eris © Copyright Giulia Sattolo, Glorie e miserie di una brigata © Copyright Matteo Polo, La brigata Catanzaro © Copyright Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Fucilazione e decimazione nel diritto italiano 1915-1918 © Copyright Massimo Vitale, Piombo italiano per un fante di Salcito
Ass. cult. Eris via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Novembre 2014 ISBN 9788898644070
INDICE
5 GLORIE E MISERIE DI UNA BRIGATA di Giulia Sattolo
12 LA BRIGATA CATANZARO di Matteo Polo
17 OFFICINA DEL MACELLO 103 FUCILAZIONE E DECIMAZIONE NEL DIRITTO ITALIANO 1915-1918
di Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato
115 PIOMBO ITALIANO PER UN FANTE DI SALCITO di Massimo Vitale
126 BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
GLORIE E MISERIE DI UNA BRIGATA di Giulia Sattolo
Q
U A N D O A M ETÀ G E N N A I O 1 9 1 5 A C ATA N Z A R O S I C O S T I T U Ì I L 1 4 1 O R E G G I M E N TO FA N T E R I A M I L I Z I A
M O B I L E E A G L I I N I Z I D I M A R Z O I L 1 4 2 O A V I B O VA L E N T I A ,
S I F O R M Ò U F F I C I A L M E N T E L A B R I G ATA C ATA N Z A R O. 1915. Erano passati appena 54 anni dall’unificazione del Regno d’Italia. Appropriandosi di una frase famosissima di Cavour, si può ben desumere che era stata completata bensì l’unità dal punto di vista territoriale geografico, ma che le disuguaglianze dal punto di vista sociale erano e molto intensamente, rimaste. Esse erano di natura propriamente endogena in quanto, il susseguirsi di diverse dominazioni avvenuto nei secoli precedenti aveva apportato alla creazione di diversi Stati all’interno del territorio della penisola, ma ovviamente questo aveva comportato la nascita di modus
operandi e forse anche vivendi fra i diversi Stati. L’industrializzazione permaneva al nord ma ancora il 70% della popolazione era dedita nel settore primario; l’agricoltura pertanto soprattutto al Sud rimaneva l’unica fonte di sussistenza dove era largamente diffuso il latifondo e scarsi erano gli investimenti produttivi accompagnati dal disinteresse dei proprietari per l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione. Sicuramente durante l’età giolittiana, fino al 1907 pertanto, ci fu un notevole sviluppo economico all’interno del Paese. 5
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Un fondamentale problema era ancora quello della pubblica istruzione. Bisognava organizzare scuole e portare l’insegnamento elementare fra una popolazione che era prettamente analfabeta. Nelle Regioni meridionali i sovrani borbonici avevano deliberatamente lasciato le masse cittadine e rurali nell’ignoranza e nella superstizione. Proprio al fine di porre rimedio a tale situazione nel 1860 venne estesa a tutto il Regno la “legge Casati” indetta dal ministro proponente Gabrio Casati. La legge stabiliva l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i primi due anni: le spese dovevano essere sostenute dai Comuni. Essa tuttavia trovò nella sua applicazione difficoltà di ogni genere. Un altro problema non indifferente era quello relativo all’organizzazione dell’esercito: enormi difficoltà infatti dovevano essere superate per unire e fondere fra loro le forze militari provenienti dagli Stati annessi per indurle ad accettare criteri e metodi propri dell’esercito piemontese. Grande malcontento suscitò il servizio militare obbligatorio, soprattutto nelle zone nelle quali venne introdotto per la prima volta; ad esempio la Sicilia. Per anni si sosteneva la teoria che questo venne considerato un atto di prepotenza dei nuovi venuti piemontesi. In realtà la partenza di una giovane recluta recava spesso un danno economico alla famiglia, specie se contadina, in quanto la privava di una persona che era forzalavoro. Ogni regione aveva pesi, misure, leggi e monete diversi, oltre che usi e co-
stumi spesso contrastanti fra di loro. Un problema non indifferente era quello della lingua: le differenze dialettali erano tali da rendere quasi estranee tra loro persone provenienti da regioni diverse. Nel Mezzogiorno l’espressione più grave di questo diffuso malessere fu il brigantaggio. Già diffuso nel Sud Italia al tempo dei Borboni come forma di protesta contro le violenze, i soprusi e le ingiustizie delle classi al potere, esso assunse dopo il 1860 proporzioni così preoccupanti da dare vita a una vera e propria guerra civile fra le forze governative, impegnate a ristabilire l’ordine e il rispetto della legge secondo metodi e tradizioni militari piemontesi, e le masse di contadini poveri, che, deluse dagli esiti della rivoluzione unitaria sul terreno sociale, vedevano ancora una volta frustate le loro aspirazioni al possesso della terra e si davano alla macchia per protesta contro la miseria, le tasse, il servizio militare e la pesante macchina burocratica e giudiziaria. Al centro delle rivendicazioni contadine vi era la questione delle terre demaniali. Con l’unità però la borghesia, padrona delle amministrazioni comunali, si impadronì di queste terre, abolì gli usi civici e diede un colpo mortale al sostentamento dei contadini poveri. La lotta, o meglio la guerriglia, che infuriò nel Sud tra il 1861-1865 causò la morte o in combattimento o per fucilazione di più di 5200 briganti e l’arresto di circa altrettanti, presentava, adoperando il termine usato dalla classe dirigente del tempo per liquidare semplicisticamente il fenomeno, complessi aspetti politici e sociali, camuffati dall’impropria 6
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denominazione di “brigantaggio”. Da un punto di vista politico, era chiaro che ad alimentare a distanza il brigantaggio erano i Borboni e i nobili rimasti a questi fedeli, allo scopo evidente di rendere più difficile l’assestamento del nuovo Stato, nella speranza che nel frattempo si potessero verificare condizioni internazionali favorevoli a un loro ritorno al potere; alla realizzazione dei piani borbonici collaborava anche lo Stato pontificio. Non meno gravi e complesse le motivazioni sociali, alla base delle quali stava l’estrema miseria che dominava la vita nelle campagne, dove il patrimonio terriero della borghesia meridionale si era venuto costituendo, più che a spese della proprietà nobiliare, a spese dei contadini, le cui condizioni, erano peggiorate (l’abolizione della feudalità fu decretata a inizio ’800 dal Regno Napoleonico). Per sopravvivere dovevano lavorare nei latifondi come braccianti e sottostare a patti agrari imposti dai nuovi padroni, rivelatisi ben più esigenti e avidi dei precedenti. Svanite con l’avvento dell’unificazione le speranze in una ripartizione delle terre demaniali, il malcontento dei contadini giunse all’esasperazione. Nel 1860 c’erano stati dei scarsi raccolti, e la disoccupazione dilagava. I contadini del Mezzogiorno provavano la fame e vivevano in condizioni disperate e proprio per questo diventarono complici dei briganti. Questi problemi permarranno: lo stato di completo abbandono in cui era rimasta l’Italia meridionale, l’arretratezza della sua economia basata su un’agricoltura primordiale, la miseria, le malattie diffuse, le attività criminali
di vaste associazioni a delinquere, il brigantaggio ma anche la camorra napoletana e la mafia siciliana, costituivano nel loro insieme dei complessi problemi da affrontare e da risolvere; problemi racchiusi in un’unica definizione: la questione meridionale. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale era questo pertanto il panorama del Mezzogiorno. I futuri fanti della Brigata Catanzaro erano cresciuti in questo clima; erano nativi della Calabria, ma anche della Sicilia, della Puglia e una minima parte del Molise. Agli inizi del ’900 la vita quotidiana era semplice, gli avvenimenti più lieti erano dati da un matrimonio e dall’evento tanto atteso e speciale di un figlio. Prima della chiamata per il fronte avevano vissuto nei loro paesi e aiutavano le loro famiglie nel lavoro prettamente agricolo, qualcuno era già sposato con prole. A vent’anni avevano fatto tutti la visita di leva: altezza, torace, costituzione, capelli, dentatura e colorito del viso erano i dati fondamentali. La loro statura solitamente si aggirava attorno al metro e sessanta centimetri, il torace ottantaquattro centimetri e il colorito era bello roseo. Alcuni di loro avevano un dato aggiuntivo: il fatto di saper leggere e scrivere. La stragrande maggioranza, purtroppo, era analfabeta. Al momento della fine della visita di leva, tutti i futuri soldati venivano lasciati in congedo illimitato. La maggior parte dei fanti apparteneva alle classi relative alla decade del 1880; essi saranno i primi a 7
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dover partire quando il messo porterà loro la richiamata alle armi. Costretti ad abbandonare il loro mondo al momento di doversi trovare a obbedire alla chiamata alle armi. Non erano a conoscenza sicuramente delle cause che scatenarono la Grande Guerra. Trento? Trieste? Luoghi lontani più di mille chilometri. Luoghi sconosciuti. E diversi. Geograficamente e socialmente. Purtroppo questo dualismo è veramente forte agli inizi del secolo scorso nel Regno d’Italia. Le loro età? Sono giovani, vengono fatti addestrare per tre mesi, imparano a obbedire e solo a obbedire. Sulle loro mostrine i colori sono quelli del rosso e del nero. Del sangue e della morte. Come il loro motto: «Portiamo i colori del sangue e della morte: ovunque vincitori». Adolfo Zamboni, colonnello del 141o fanteria, nelle sue memorie cantò con toni patriottici l’animo e le doti di questi fanti. Li descrisse minuziosamente. «Piccoli, bruni, fieri ed indomiti, i Calabresi non conoscevano viltà cresciuti nella religione del lavoro. Apparivano selvaggi, ed erano pieni di affetti nobilissimi, sembravano diffidenti, ed aprivano tutto il loro animo a chi sapeva guadagnarsi il loro amore; all’ingenuità ed al candore quasi puerili univano il coraggio e la risolutezza dei forti.» All’inizio, conferma Zamboni nelle sue memorie, essi venivano scherniti per il loro linguaggio diverso e strano, gli si appellava loro nomignoli dispregiativi, ma quando le loro gesta così valorose
iniziarono a mostrarsi e il loro valore e l’audacia a essere evidenti: «Quando poi si videro questi forti campioni muovere decisamente e costantemente all’assalto sanguinoso di posizioni inespugnabili [...] allora in tutto il Paese nostro si levò una voce concorde di ammirazione e di plauso e si benedirono quelle corti di giovani dalla salda fede e dal fervido entusiasmo». Sicuramente questa è una delle descrizioni che meglio rispecchia le caratteristiche dei fanti della Catanzaro. E infatti fu proprio così, la Brigata Catanzaro fu una tra le Brigate più valorose, sempre a combattere in prima linea, già alla fine del primo anno di guerra annoverava quasi 1000 morti, 3.814 feriti e 753 dispersi. Uno degli anni più importanti per la Brigata fu il 1916. Nel febbraio 1916 era scesa a riposo a Santa Maria la Longa, un piccolo paese del Friuli Venezia Giulia ed è proprio in questa sede (esattamente nel paese adiacente che è Bicinicco, nel campo di aviazione) che il reggimento visse un momento importante. In data 28 marzo 1916 venne consegnata la bandiera di guerra al 141o Reggimento Fanteria con la benedizione del cappellano militare don Manella Giovanni. Di questo episodio ritenuto glorioso ne scrisse sempre Zamboni e pochi giorni dopo se ne parlò con grande enfasi e orgoglio nel giornale «La Giovine Calabria», edito a Catanzaro ai tempi della guerra. Purtroppo due mesi dopo esatti, in seguito a una azione di guerra senza esiti positivi causata anche dalla confusione generata da un improvviso 8
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temporale che fece disperdere i soldati nel bosco nei pressi del monte Mosciagh, avvenne la prima fucilazione della Brigata. 12 fanti fucilati e 66 arrestati con rinvio a giudizio. Questo sarebbe stato il primo colpo doloroso per i fanti che rimasero impressionati dalla giustizia sommaria e dalla rigidezza delle norme militari. Nel mese di agosto del 1916 la Brigata si trovava sul Nad Logem conquistandolo in data 12 agosto. E fu proprio questo suo grande contegno e valore nonché la grande forza accompagnata dall’eroismo a far meritare la Medaglia d’Oro al 141o Reggimento concessa motu proprio dal Re in data 28 dicembre 1916 e la medaglia d’Argento al 142o. «Per l’altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al San Michele, ad Oslavia, sull’Altipiano Asiago, al Nad Logem, per l’audacia mai smentita, per l’impeto aggressivo senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai valorosi. (luglio 1915 - agosto 1916)». Questa fu la motivazione della medaglia conferita al 141o, per quello che concerne la motivazione relativa alla medaglia conferita al 142o, queste le parole adoperate: «Per il valore spiegato nei combattimenti intorno a Castelnuovo e Bosco Cappuccio; sull’Altipiano Asiago, al San Michele, nella regione di Boschini e a Nad Logem; per lo spirito aggressivo e l’alto sentimento del dovere sempre dimostrati. (luglio 1915 - agosto 1916)». Parole di vero tripudio e di grande elogio, nonché di stima verso questa Brigata.
Sicuramente l’animo dei fanti era in quel momento molto alto ed essi erano orgogliosi, ma si andava già verso la fine del secondo anno di guerra. Due anni lontani da casa, dagli affetti, la stanchezza iniziava a farsi sentire; fosse solo quella fisica, ma da padrona vi faceva il logorio dell’orrore quotidiano al quale essi ogni giorno dovevano assistere barricati nelle trincee. La morte era sempre presente. La fame, le malattie. Potevano forse bastare delle Medaglie a compensare e a placare i sentimenti di paura, angoscia ed esasperazione? Forse per un breve periodo. Forse... È proprio l’anno 1917 quello che segnò la vita di tutti i soldati italiani. Non si parlava più di guerra lampo. In Europa c’erano focolai politici di ispirazione socialista. Che anche i fanti potessero essere a conoscenza di quanto stesse accadendo non lo sappiamo. Sappiamo solo che la maggior parte di loro era analfabeta, che la politica sicuramente era l’ultimo dei loro pensieri, ma non per questo che essi fossero degli sciocchi, anzi. L’intelligenza c’era eccome, in quanto ci si stava rendendo conto che le promesse non erano più state mantenute; e che soprattutto i tempi si erano dilatati. Le settimane in trincea erano diventate mesi e i mesi avevano creato gli anni. Nell’estate del 1917 accadde quello che fanno tutte le persone sopraffatte dalla rabbia perché si sentono veramente prese in giro. Il popolo si ribella quando è stufo, stanco e deriso, nonché quando non si sente preso in considerazione. 9
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Nel mese di giugno alla Brigata venne promesso un mese di riposo. Promesso. È questa la parola chiave, e soprattutto tanto desiderata. Essi si trovano nuovamente a Santa Maria la Longa. Questo paesello contadino, diventato ormai paese di baraccamenti. Situato su una strada principale per la logistica degli spostamenti, ma troppo lontano dai luoghi desiderati. Non poteva offrire che qualche osteria questo paese. Forse qualche prostituta, ma per trovare postriboli ci si doveva recare a Udine. Come trascorrere le giornate afose, umide, calde in questa località? Passeggiando, bevendo, chiacchierando e rinfrescandosi nel fiumiciattolo che lo attraversa. I pidocchi... Quanti pidocchi... Bisognava toglierseli... E le giornate passavano anche spidocchiandosi. Ma non c’erano altri svaghi. Non poteva bastare questo a distrarre le menti e gli animi, sicuramente. Il desiderio di ritornare a casa, quello era sentito ed era diventata un’ossessione. La richiesta di non combattere più in prima linea e che venisse accettata era invece l’altro grande desiderio. I siciliani richiedevano le licenze già da mesi. Non concesse. Il malcontento incalzava, la noia pure. Dov’era il mare? Non qui. Tante, troppe pannocchie invece. Alte più di due metri attorniavano e racchiudevano il paese come a proteggerlo. Avranno sicuramente pensato che questo granoturco era veramente tanto. Gli agrumi qui erano degli sconosciuti... Le ragazze e la popolazione appa-
rivano agli occhi dei fanti forse schive. L’allegria era veramente lontana. Il Friuli era troppo coinvolto nell’inferno della Guerra che aveva dimenticato tutto ciò che era felicità e tutto era di un colore grigio. Le disgrazie però, non vengono mai da sole. Ed ecco che accadde quello che proprio non si sarebbe mai voluto. Infatti bisognava ripartire. Promessa infranta. Il riposo non c’era più. «Come? Che cosa? Questi generali che giocano alla guerra dietro alla scrivania sono pazzi...». La loro reazione fu un borbottio e proteste, all’inizio. Ma finì lì. E i generali andarono a dormire convinti che il giorno dopo si sarebbe partiti senza problemi. A dormire. Sì, a dormire, ma con delle differenze abnormi. Chi come i soldati su giacigli sporchi di paglia nei baraccamenti con i topi, i pidocchi e tutte le puzze, e chi invece nei comodi letti nella Villa Bearzi, che era diventata sede del Comando della Brigata Catanzaro. La notte del 15 luglio 1917 era calata, era il momento di agire, di ribellarsi. Spari, razzi, bombe, ammutinamenti, correre all’impazzata per il paese con fucili e forche in mano. Il paese era sotto assedio. Si va a cercare D’Annunzio, che la guerra la fa a parole mica con i fatti. Non c’è a Santa Maria quella sera. Si dice, caso strano... Fosse in qualche bordello. I soldati chiedono a grande voce un treno che li riporti nelle loro regioni. Arrivano da Udine i Carabinieri, le autoblindo, si chiude il paese con le transenne: i fanti sono accerchiati. 10
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Molti i morti e i feriti durante quella rivolta. Alle quattro del mattino si presume tutto sia finito. E arriva la sentenza sommaria: fucilazione. I fanti saranno fucilati. Chi i colpevoli? Non si è a conoscenza. Ma forse non è importante. L’importante è con la fucilazione, per i tenenti, i caporali e i sergenti, dare il buon esempio. Li si mise in fila e ogni dieci se ne estrasse uno. Una mostruosità. La vita dipendeva in quel momento da come la fortuna avesse disposto i numeri. In 28 verranno uccisi nel cimitero comunale di Santa Maria la Longa, chiamato Cimitero di Santa Cecilia. Definiti sobillatori, facinorosi dall’esercito. E pochi mesi prima invece, celebrati ed elogiati. I paradossi della vita o meglio delle persone. Per anni si è dato peso solo a una teoria politica molto probabilmente per non affrontare la tematica relativa alla vita nell’esercito italiano durante la Grande Guerra. È vero che alcuni giorni prima della rivolta avvenuta il 15 luglio 1917, erano stati fatti allontanare dei soldati definiti dei veri “organizzatori” perché fecero circolare delle cartoline e delle note di sottoscrizione in cui si andava accordando per rimanere solidali fra varie Brigate nel momento del bisogno soprattutto per rifiutare di muoversi, nel momento in cui fossero arrivate nuove disposizioni. Ma non ci sono prove del fatto che questa rivolta fosse organizzata da alcuni cosiddetti “caporioni”, che fosse una rivolta dai toni socialisti. È chiaro che all’intero di un gruppo ci fossero dei capi, o meglio dei leader, perché il loro carattere
era più forte ed erano considerati un punto di riferimento dagli altri soldati, ma questo non fa prescindere che questi “capi” appartenessero a qualche linea politica. Il giorno della fucilazione, avvenuta la mattina del 16 luglio 1917 verso le ore 6.30 circa (ora da prendere ancora non sul definitivo), era – pare quasi ci fosse un destino beffardo ad avere la meglio – il giorno dedicato alla Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, al quale i fanti erano devoti, in quanto in molte zone del Mezzogiorno è questa una data di ricorrenza e festa. Novant’anni dopo, saputa una parte parziale delle identità dei 28 fanti fucilati, la verità, la vera verità di cosa sia accaduto se n’è andata via con loro in grande segreto. E con grande dolore. E sempre destino volle che quella mattina ci fosse D’Annunzio come unico testimone, perché nessuno del paese di S. Maria la Longa aveva mai visto niente. Che l’omertà a questo punto sia invece di tutta la penisola italiana questo è poco ma sicuro. Solo due soldati del paese, Fabris e Del Mestre, in licenza in quel periodo, raccontarono quel poco che sapevano anni dopo a una rivista storica che si occupò del tragico fatto accaduto. Il resto lo sappiamo dal Poeta, che assistette immobile e impassibile, perché scioccato dall’evento, alla fucilazione. Tornò nel pomeriggio in cimitero a recare loro un ultimo saluto. E poco tempo dopo scrisse una delle memorie più toccanti e commoventi di quel giorno. E li celebrò da eroi dalle gesta memorabili donando loro il fiore della grandezza olimpica: l’acanto. 11
LA BRIGATA CATANZARO* di Matteo Polo
L
A BRIGATA CATANZARO ERA COSTITUITA DAL 141O REGGI MENTO DI FANTERIA, FORMATOSI A CATANZARO MARI NA IL 14 GENNAIO 1925, E DAL 142O, NATO A MONTELEONE DI CALABRIA (ORA CONOSCIUTA COME VIBO VALENTIA). Il primo marzo 1915, la Brigata prese Armata, la famosa «Armata del Carvita a Catanzaro, da cui prese il nome. so», agli ordini di Emanuele Filiberto Le sue mostrine avevano i colori rosso di Savoia, Duca d’Aosta. Infatti la bri(sangue) e nero (morte), mentre come gata fu impiegata per oltre due anni motto adottò la frase «Portiamo i cosul fronte del Carso, salvo due periolori del sangue e della morte: ovunque di, prima a Oslavia, nell’inverno del vincitori». 1915, poi sull’Altopiano di Asiago, La Brigata Catanzaro all’atto della durante la Strafexpedition. In prima mobilitazione del 24 maggio 1915 fu linea a Castelnuovo, e a Bosco Capdapprima inquadrata nelle truppe a puccio, nel 1916 combatté a Oslavia, disposizione del Comando Supremo e durante la Strafexpedition sul monte poi, dopo pochi giorni, fu inviata in Mosciagh e sul monte Cengio. TorFriuli dove fu inquadrata nella Terza nò poi sul monte San Michele, a Nad
* Il presente contributo rielabora e completa l'articolo di Giovanni Quaranta Un reggimento di Calabresi alla Grande Guerra pubblicato su «Calabria Sconosciuta», Anno XXVIII, n. 106, aprile-giugno 2005. 12
la brigata catanzaro
Logen, a Nova Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Prima di Caporetto fu a Lucatic, sul monte Hermada e infine a San Giovanni di Duino. La Brigata si distinse in numerosi episodi di guerra, e il 141o Reggimento lega definitivamente il suo nome ai combattimenti del monte Mosciagh, sulla cui vetta i fanti riescono a espugnare una posizione austriaca dotata di pezzi di artiglieria, dopo due ore di assalto all’arma bianca. Da lì deriva anche il suo nuovo motto: «Su Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone», che allude anche alla mancanza della sezione mitragliatrici, che pure ogni reparto dovrebbe avere. L’episodio fu citato sul Bollettino di guerra n. 369 del 29 maggio 1916, firmato da Cadorna, ed ebbe anche la prima pagina della «Domenica del Corriere», illustrata da Achille Beltrame. Tra le pagine della storia della Brigata Catanzaro, però, ve ne sono alcune tra le più tristi dell’intera storia del nostro esercito. Era il 27 maggio del 1916 e la Brigata era stata trasferita da alcuni giorni sull’Altopiano di Asiago. I tragici avvenimenti che culminarono con la fucilazione di 12 militari si svolsero sulle pendici del Mosciagh e furono la conseguenza dello sbandamento in condizioni difficili di quasi tutta la 4a compagnia del 141o. Il Col. Attilio Thermes, comandante del reggimento, in ottemperanza alle disposizioni emanate dal Comando Supremo, ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per 1 sottotenente, 3 sergenti e 8 militari di
truppa da estrarre a sorte nella ragione di 1 a 10. Per questo ordine il Col. Thermes fu il primo ufficiale italiano a essere citato in un Ordine del giorno del Comando. Questo episodio, comunque non intaccò il morale della Brigata che continuò sempre e comunque a fare il proprio dovere tanto che S.M. il Re, con decreto del 28 dicembre 1916, concesse motu proprio alla bandiera del glorioso 141o Reggimento la medaglia d’oro al valor militare con questa motivazione: «Per l’altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al San Michele, a Oslavia, sull’Altopiano di Asiago, al Nad Logem, per l’audacia mai smentita, per l’impeto aggressivo senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai valorosi. (luglio 1915 – agosto 1916)». Anche la bandiera del 142o ebbe la sua meritata decorazione con la concessione della Medaglia d’Argento al valor militare. Diversi mesi dopo, i soldati dei due reggimenti della Catanzaro furono protagonisti della più grave rivolta nell’esercito italiano durante il conflitto. Questo triste episodio si svolse a Santa Maria La Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo. La notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano, montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. I comandi, avendo avuto notizia da informatori di quanto doveva accadere, fecero infiltrare nei reparti alcuni carabinieri trave13
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stiti da fanti; si era inoltre disposta la dislocazione di più di 100 carabinieri nelle immediate vicinanze. Alle ore 22 del 16 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. Appena il Comando d’Armata ebbe notizia di quanto stava avvenendo dispose le opportune contromisure inviando sul posto altri carabinieri su autocarri, 4 mitragliatrici, 2 autocannoni e con il preciso ordine di intervenire in modo fulmineo e con estremo rigore. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba dopo l’intervento degli ufficiali della brigata e dei carabinieri con mitragliatrici ma, soprattutto, dopo l’arrivo e il posizionamento degli autocannoni. 16 militari presi ancora con l’arma scottante furono immediatamente condannati alla fucilazione. A questi avrebbero dovuto aggiungersi altri 120 uomini, ma per limitare le fucilazioni si dispose di procedere al sorteggio del decimo di essi e, quindi, altri 12 andarono ad aggiungersi alla lista. I 28 militari furono fucilati immediatamente nel cimitero di Santa Maria, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento. Dopo questo spiacevole fatto, i fanti della Catanzaro intrapresero la loro marcia verso il fronte dove continuarono a battersi per il resto del conflitto con la grinta e la disciplina che avevano sempre dimostrato, tanto da ottenere una seconda citazione sul Bollettino di Guerra del 25 agosto 1917 nel quale si riportava
che: «Sul Carso la lotta perdura intorno alle posizioni da noi conquistate, che il nemico tenta invano di ritoglierci. Negli incessanti combattimenti si distinsero per arditezza e tenacia le Brigate Salerno (89 o-90o), Catanzaro (141 o-142o) e Murge (259 o-260o)». Gli ultimi mesi della guerra furono trascorsi dallo stremato 141o nelle retrovie del Piave, a disposizione del Comando Supremo, dove in ottobre si incominciò a trasferire e attraverso una serie di marce raggiunse Mestre nei giorni della vittoria. Tutta la Brigata Catanzaro si imbarcò a Venezia sulla nave “Re Umberto” il 15 novembre 1918 e il 17 successivo sbarcò in una Trieste festante. Per oltre un anno il 141o rimase a presidiare la città, ospitato nella caserma “Oberdan”, fino a quando venne disciolto. Il 21 giugno 1920, nella caserma “Cernaia” di Torino, il cappellano militare Can. Chelli salutò con un appassionato discorso l’amata bandiera che i fanti baciarono a uno a uno, con le lacrime agli occhi. Il glorioso vessillo, adorno del più alto segno al valor militare, si inchinò l’ultima volta davanti alla tomba del Milite Ignoto e fu collocato «là dove si conservano le più fulgide reliquie della Patria». Dopo la guerra sarebbe scomparso dall’ordinamento dell’esercito, per tornare a figurare fugacemente soltanto tra il 1940 e il 1941 e poi ancora tra il 1975 e il 1995.
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Simboli Colori mostrine: rosso e nero Motto Dapprima era: «Portiamo i colori del sangue e della morte: ovunque vincitori»; dopo i fatti del monte Mosciagh sull’Altopiano dei Sette Comuni nel 1916 il motto diventò: «Sul Monte Mosciagh la baionetta recuperò il cannone». Ricompense al Valore Militare alla Brigata - 141o Reggimento: 1 Medaglia d’Oro – 1 Cav. Ord. Mil. Savoia - 142o Reggimento: 1 Medaglia d’Argento – 1 Cav. Ord. Mil. Savoia Ricompense al Valore Militare ai fanti della Brigata - 3 Medaglie d’Oro - 152 Medaglie d’Argento - 204 Medaglie di Bronzo - 2 Ordine di Savoia Perdite complessive della Brigata - 2.468 morti - 12.867 feriti - 2.203 dispersi Fonte: Stato Maggiore Centrale – Ufficio Storico, Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915–1918: brigate di fanteria, 8 volumi, Libreria dello Stato, Roma 1924-1929.
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