Oggi tocca a me. Una guerra per bande

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juri di molfetta

oggi tocca a me una guerra per bande illustrato da erika bertoli


Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Erika Bertoli

© Copyright 2013, Ass. cult. Eris via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione ISBN 9788890693946


Prefazione

Oggi tocca a me, è il titolo di questa storia ambientata in Val di Susa, e più precisamente a Chiomonte, durante la famosa giornata del 3 luglio 2011. Quel giorno è toccato proprio a tutti fare la propria parte in quei momenti che in qualche modo hanno segnato un punto di svolta per quanto riguarda il percorso, ormai ventennale, dell’opposizione valsusina al progetto di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità. Se i fatti di quel giorno hanno rappresentato un capitolo epico della storia della valle, per chi li ha vissuti sono stati un’esperienza indimenticabile. Nel bene e nel male. Nel romanzo di Juri si intrecciano le vicende di diversi personaggi che si son ritrovati a vivere insieme alcuni momenti di quella manifestazione, svoltasi pochi giorni dopo lo sgombero manu militari della Libera Repubblica della Maddalena che ha posto fine a un’esperienza molto particolare su cui vale la pena spendere due parole per capire le premesse che hanno portato al compiersi del 3 luglio. Non capita molto spesso nella vita di poter vivere in un territorio dove per 40 giorni si elimina 5


la sovranità dello Stato e si sperimenta la condivisione di spazi e pratiche tra persone diverse tra loro per età, estrazione socio-culturale e approccio alla vita. Tutto questo è successo in una porzione del territorio di Chiomonte tra il maggio e il giugno 2011; alcune decine di ettari le cui vie di accesso erano interdette agli uomini in divisa e presidiate da persone che, con animo e passione, difendevano questa porzione di valle dalle brame distruttrici della megamacchina capitalista. È stato così che tra barricate, pranzi comunitari, assemblee e momenti di svago hanno trovato il compimento anni di impegno del Movimento no tav e si sono create le premesse per lo svilupparsi di tutte quelle iniziative che a partire dal 3 luglio hanno dato corpo al passaggio di fase epocale che quel periodo rappresenta per la lotta no tav. Come ben si evince dalla storia narrata nelle prossime pagine, ognuno dei protagonisti di quel giorno ha messo in gioco se stesso in un turbinio di emozioni, gioie e sofferenze. Non tutti hanno vissuto allo stesso modo quegli eventi, le reazioni del dopo sono state anche contraddittorie e probabilmente questo è il motivo che ha spinto Juri a scrivere questo testo e a sostenere, a commento di quel giorno: «È stata una figata!». È quello che penso realmente pure io, perché sono veramente tanti i lati positivi che emergono nonostante gli aspetti deprecabili di 6


quel giorno: feriti, arrestati e massiccio uso di gas lacrimogeni sulle persone e sulla natura. Vorrei approfondire quindi ciò che di interessante è emerso dai fatti di quel giorno, per dare anche una lettura politica che si sposi con la componente romantica che ben risalta dalle pagine seguenti. «Siamo tutti black block» è la frase che è passata alla storia e che ben ha rappresentato lo stato d’animo prevalente degli attivisti no tav rispetto alle letture date dai mass media e dalla Questura sui fatti di quel giorno. Durante la conferenza stampa del giorno dopo è stata unanime da parte delle diverse componenti del Movimento la rivendicazione implicita delle pratiche messe in atto attorno alle maledette recinzioni fortificate. Assedio doveva essere e assedio è stato, pietre contro lacrimogeni e idranti. Di fronte alle insistenze dei giornalisti, che tentavano di ridurre il tutto a un campo di battaglia organizzato dagli anarchici e dai centri sociali, donne e pensionati si sono scagliati contro di essi cacciandoli in malo modo. Questa serie di elementi ha decretato un passaggio epocale, presente da alcuni anni allo stato embrionale, nel percorso politico che permea i movimenti di lotta del dopo anni ’70. In seguito al riflusso degli anni ’80 e all’instaurarsi di una pace sociale più o meno dichiarata, a partire dalla fine 7


degli anni ’90 si assiste alla ripresa di movimenti di critica e azione su larga scala attorno alle tematiche antiglobalizzazione che hanno la loro massima espressione in Italia con le giornate del G8 di Genova 2001. Le tematiche ambientali e le ingiustizie sociali, che allora erano molto meno evidenti e considerate rispetto a quanto lo siano oggi a causa della crisi economica, sono state il punto di partenza che ha fatto ripartire il coinvolgimento di settori sociali diversi tra loro per estrazione culturale e percorso politico. A queste basi si aggancia negli anni l’istanza tutta valsusina del rifiuto di una nuova linea ferroviaria Torino-Lione ad alta velocità, ma è solo dopo l’autunno 2005 che la Val di Susa in lotta irrompe sullo scenario nazionale e l’Italia altermondialista si accorge che esiste un movimento in grado di dare veramente fastidio agli ingranaggi del potere apparentemente inossidabili. Attorno alla questione tav in Val di Susa si fanno accordi di governo, vanno in crisi partiti e sindacati, si palesano logiche di interesse e speculazione su cui si è fondata per decenni la Repubblica italiota. È proprio in Val di Susa che viene superata, spero definitivamente, quella empasse che ha caratterizzato i movimenti di lotta su larga scala dopo i fatti di Genova 2001, dove gli atteggiamenti delle due macrocomponenti (mi riferisco con un po’ di gene8


ralizzazione ai Social Forum e alla galassia antagonista/black block) del movimento di allora hanno segnato la momentanea depressione delle istanze no global che avevano un potenziale notevole anche su scala planetaria. Con un’alchimia tutta da studiare e da interpretare, nella Val di Susa no tav convivono anime dalla tendenza più cittadinista (per prendere a prestito una definizione che viene maggiormente usata in Francia e che descrive la propensione ad accettare leggi e istituzioni come referenti per una società più giusta) e anime più radicali e intransigenti che guardano alla lotta contro il tav come una critica più ampia ai meccanismi della società capitalista in toto. I grandi numeri in termini di partecipazione e coinvolgimento popolare, che derivano da un radicamento territoriale importante, rappresentano per le istanze no tav una grande potenzialità e determinano per i suoi militanti più attivi ed esposti una certa protezione e garanzia di solidarietà. Inoltre, le pratiche di azione diretta si sono dimostrate efficaci e fonte di speranza per proseguire la lotta in maniera proficua quando la dialettica politica ha fallito nel suo ruolo. Questa particolare condizione ha preservato l’autonomia del movimento dai tentativi di “mettere il cappello” da parte di qualsivoglia componente politica: è stata sempre l’eterogeneità a prevalere. 9


È così che assistiamo, in maniera evidente e clamorosa proprio in seguito al 3 luglio, al silenzio e alla accettazione dei fatti, non privo di sofferenza, da parte degli eredi (o reduci?) dell’esperienza dei Social Forum. Dall’altra parte, negli anni, c’è stata la presa d’atto obbligata, da parte delle componenti dell’ala più radicale, che il movimento no tav in valle è composto da coloro che tirano pietre e vanno a votare allo stesso tempo. Ovvero da persone che si definiscano pacifiche e predicano la nonviolenza, ma che sono disponibili a mettersi in gioco direttamente coi loro corpi e che hanno saputo costruire una comunità di lotta con caratteristiche di umanità e solidarietà forse senza precedenti in Italia negli ultimi decenni. Tutti questi aspetti si realizzano per lo più sulla spinta di emozioni piuttosto che a partire da percorsi teorici o da ideologie preconfezionate. Lasciandoci quindi alle spalle le dinamiche dissociative e di accusa reciproca che hanno contraddistinto e indebolito i movimenti negli anni passati, facendo allontanare e sfiduciando tante persone che cominciavano a impegnarsi in prima persona nelle varie lotte, ora le prospettive che si sono aperte anche e soprattutto grazie alla Val di Susa, attendono attori protagonisti per mettere in scena e affrontare le sfide che già sono in corso e che si svilupperanno a partire dalle contraddizioni sempre più profonde 10


che si stanno aprendo in seguito all’impoverimento diffuso e alle criticità ambientali esplose ormai in ogni territorio. Il consiglio è quello di fare sempre attenzione a riconoscere quelle che sono scelte fallimentari o errori imperdonabili a cui abbiamo assistito anche recentemente da parte di alcune lotte (No Dal Molin, una per tutte) o al ritorno delle vecchie logiche, molto radicate nei contesti delle metropoli purtroppo, a cui abbiamo assistito in maniere emblematica a Roma il famoso 15 ottobre 2011, quando formazioni politiche della frammentata sinistra più o meno extraparlamentare, hanno tentato in vari modi di gestire, frenare e infine condannare la rabbia latente di migliaia di giovani di una generazione delusa e incazzata. Per quanto riguarda il qui e ora in Val di Susa, il movimento no tav si trova in questo momento davanti a una situazione potenzialmente favorevole che deve saper cogliere e sfruttare se vuole continuare a dare concretezza ai suoi propositi. La rinuncia definitiva a quest’opera passa necessariamente dallo smantellamento del cantiere di Chiomonte; dopo che una rassegnazione strisciante sembrava apparire nei mesi scorsi, aiutata dalla “stanchezza” degli attivisti più presenti e dalla molteplicità delle conseguenze derivanti dalle inchieste giudiziarie, la mutazione profonda del quadro politico e le inco11


gnite da essa derivanti sembra abbiano rilanciato le volontà e le possibilità del movimento. Se si saprà approfittare delle crepe che si sono create, le reti del cantiere/fortino andranno giù e la storia aprirà un nuovo capitolo, altrimenti dovremo confrontarci con gli scavi che avanzano provocando ferite laceranti nelle montagne e nei cuori dei valsusini e si concretizzerà lo scenario di una valle ulteriormente militarizzata con ulteriori cantieri a Susa e altrove. Quindi è il caso di porre in essere, in maniera rivista e attualizzata, quel motto del famoso guerrigliero sudamericano che troverete citato più volte nelle pagine seguenti: «Creare uno, due, tre, molti… 3 luglio». Adesso tocca a noi! Luca Abbà

dalla Libera Repubblica della Maddalena in esilio 27 febbraio 2013, un anno dopo

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«Le montagne la sapevano lunga. Ci guardavano e non ci giudicavano, non eravamo niente. Nei loro milioni di anni ne avevano viste di cose. Avevo nel fondo del taschino una caccola di fumo afgano. Svuotai pazientemente una sigaretta e ci feci una canna. Riempii i polmoni di fumo, il calore si scioglieva nell’aria fredda. Mi ripromisi che un giorno le avrei incontrate tutte quelle cime, una per una per sentire cosa avevano da raccontare.» Boris

«Solo quelli che tentano l’assurdo otterranno l’impossibile.» Maurits Escher



Prologo 1 16 gennaio 1996 Tu–Tum... Tu-Tum...


Dicevano che il suo amore fosse sordomuto, ma per lui non era un problema. Si era innamorato di quell’uomo fin dal primo momento. Le sue mani grosse e callose si erano allungate, lo avevano abbracciato e stretto al proprio corpo caldo. Dicevano che puzzasse di vino e sudore, ma per lui neanche quello era un problema. Era l’odore di casa, perché stretto tra quelle braccia si sentiva a casa. Avevamo passato insieme quelle lunghe settimane di inverno, qualche rara passeggiata e poi via, nuovamente al caldo del cappotto, tra le sue braccia. A poco a poco quell’odore gli si era come tatuato addosso. Altro che vino e sudore: calore e amore. Un cuore che batte come unica voce. Una musica tutta per lui, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Poi arrivò quell’ultima assurda notte di gennaio. L’uomo che amava dormiva come sempre sul bordo della fontana, quella con quattro statue, due uomini e due donne, che rappresentano le stagioni. 16


Dormiva sempre lì, perché quelle grandi figure di marmo hanno qualcosa di magico. Qualche strato di cartone per isolarsi dalla pietra fredda e un sacco di coperte per scaldarsi. Lui riposava al caldo del suo petto. Tu-tum, tu-tum, tu-tum. Che musica... L’auto con la luce blu si fermò pochi metri più in là, l’uomo in divisa scese e si avvicinò. Lui lo osservò, nascosto tra le coperte. Faccia cattiva, passo deciso. «Ti vuoi alzare? Minchia, ma quanto puzzi! Mi senti pezzo di merda?» «No che non ti sente, è sordo» «Non ci puoi stare qui, pezzente» «Oh bella, e perché non ci può stare? Siamo sempre stati qui la notte, è mica tua questa fontana!» «Cazzo, vuoi rispondere? Mi stai prendendo per il culo?» «No che non ti prende per il culo, è sordo e anche muto. Tu piuttosto, non è che sei un po’ ritardato? Cos’è, non ci arrivi?» «Ora ti insegno io a fare il furbo, coglione... puzzi troppo, lo sai cosa ti ci vuole? Un bel bagno, ecco di cosa hai bisogno.» L’uomo in divisa alzò il piede e lo appoggiò contro l’uomo infagottato. Lui sporse la testa, sperando di impietosirlo. Di fermarlo. Si guardarono negli occhi, solo un attimo. 17


«Quanto sei brutto», sussurrò l’uomo in divisa. Poi spinse col piede. Un calcio. Lui e il suo amore che rotolano e finiscono in acqua. Coperte e vestiti lo tirano giù. Freddo. Sentì il cuore del suo amore fermarsi. Tu... tum... tu......... tum............ Si liberò da quell’ultimo abbraccio e riguadagnò il bordo della fontana. L’auto con la luce blu si allontanò con stridore di gomme e lui si girò verso le statue, freddo e bagnato. Vide la Primavera e l’Estate, animarsi e prendere vita. Vide spuntar loro le ali, il marmo farsi duttile e leggero per liberare due figure angeliche. Gli angeli si tuffarono nella fontana e sollevarono il suo amore. Il suo amore era nudo e sorridente. Tutti e tre volarono verso il cielo e tutto tornò immobile come prima di quella assurda follia. Poi arrivò un’altra macchina. Una ragazza scese. «Ma allora non capisci un cazzo», gridò sbattendo la portiera. «Vai a farti fottere, lesbica di merda», rispose il ragazzo da dentro l’auto, e se ne andò. La ragazza lo vide e lo prese in braccio. Lo annusò e disse: «Puzzi, però mi piace». Lui pensò che forse sarebbero potuti andare d’accordo. Lei se lo 18


infilò sotto la giacca per scaldarlo e si incamminò verso casa. Lui pensò: «Ok, se vuoi andare d’accordo con me devi rispettare due regole. Prima: non mi laverò mai, hai capito? Questo è il mio odore. Che ti piaccia o no, è l’odore del mio amore. Seconda: ti vorrò bene, ma il mio amore l’ho già dato a un’altra persona. Quindi niente ordini, niente imposizioni, niente guinzaglio. Se voglio me ne vado per i fatti miei, ok?». «Nessun problema» sussurrò lei. «Niente bagno, niente guinzaglio». Solo a questo punto lui si lasciò andare e appoggiò la testa sul suo petto. «Cucciolo di cane, posso almeno dartelo un nome?» «Fai tu, tanto non sono obbligato a risponderti. Regola numero due...» Poi prese sonno, tra quei grandi e caldi seni. Il petto di lei faceva tu-tum, tu-tum e una nuova vita stava incominciando, sia per Lui che per il suo amore, a spasso nel cielo con gli angeli di pietra.

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Prologo 2 27 giugno 2011 Non Fare Cazzate, Teppa


C’è qualcuno fermo all’angolo di via Borgaro sotto il temporale, ma nessuno gli presta attenzione. Aspetta che arrivi il Teppa, che è in ritardo, come l’estate, che quest’anno sembra non voglia saperne di farsi vedere. È un giorno di pioggia, ma non gli dà fastidio. Lascia che l’acqua lo attraversi e nutra l’attesa col suo canto monotono e imprevedibile. Resta immobile, racchiuso in un’inaspettata lama di luce ritagliata in un temporale violento. Le strade sono scivolose, una trappola per animali imprudenti. Bisognerebbe andare piano con lo scooter, ma il Teppa a queste cose non ci bada. Se si sente allegro il Teppa smanetta col gas e oggi è felice come può esserlo un sedicenne delle popolari di Madonna di Campagna con in tasca un etto di ottima coca. Oro di cristallo. Il Teppa si sente un pugile. Parla pochissimo, non è uno come gli altri, non fa il buffone per farsi vedere. Dice le cose giuste, non parla a vanvera 21


e sa tirare di boxe perché glielo ha insegnato suo fratello. Quel qualcuno lo vede arrivare dal fondo della via. Le sue labbra disegnano un sorriso. I suoi occhi si illuminano. Sente il suo viso bagnarsi. Fa finta che sia pioggia. Giuseppe, Beppe. Il Teppa. Per tutti ormai si chiama così e così deve imparare a chiamarlo anche lui, che può attraversare muri e gocce di pioggia, ma non può modificare un storia già scritta. Ha lasciato nelle mani del Caso la matita con cui è stata disegnata la vita di quel ragazzo e ora che la riprende tra le dita può solo cercare di migliorarne il colore, ma non può cambiare l’immagine. Il Teppa è cresciuto ed è venuto su con le spalle larghe e lo sguardo deciso. Sembra non aver paura di niente. La rabbia lo attraversa senza trovare spigoli a cui aggrapparsi. Ha le palle il Teppa, e questa è l’unica cosa che ha in comune con il fratello maggiore. Per il resto sono come la Luna e il Sole: lui una roccia dura e insondabile, l’altro un insieme contorto di rabbia e paure, una trama di nervi tirati al limite, un cavo di rame rosso attraversato da corrente ad alto voltaggio, qualcosa che ti basta vederlo per capire che è meglio starne a dovuta distanza. Eppure sono legati da un filo d’anima che danza tra i loro destini, che vibra come la corda tesa tra due bicchieri di carta, che trasporta la voce dei 22


loro cuori e nessuna cosa materiale può interromperne la vibrazione. È un legame nato nel dolore e nella mancanza. Quando due anime si saldano su quel che non c’è, nulla di quel che c’è può dividerle. E nulla può spaventarle. Non ha paura di niente il Teppa. Per esempio: se uno stronzo con un’Alfa 33 bianca gli si para davanti senza dare la precedenza, proprio come sta accadendo ora, lui schiaccia il freno e si butta di lato, che magari ci guadagna anche qualcosa dall’assicurazione. Ma oggi, contrariamente a quanto pensa il Teppa, è un brutto giorno, e non solo per via della pioggia. Il Teppa inizia ad averne il sospetto quando da terra vede la targa della macchina: Roma. Scritto tutto intero, senza sigle. Il sospetto cresce quando vede sull’asfalto il pacchetto che teneva in tasca. Non ha più alcun dubbio quando tutte le porte dell’Alfa si aprono, il guidatore appoggia uno stivaletto accanto al pacchetto e lo raccoglie. «Minchia che sfiga!» pensa il Teppa. «Tutto ha inizio», pensa quel qualcuno a cui nessuno bada. Lo sbirro scarta l’involucro da un angolo, ci infila un dito e se lo passa sulle gengive. Che faccia di merda. Quella faccia il Teppa la fotografa mentalmente. Mentre si spalma la coca sulle gengive 23


sembra un topo col formaggio in bocca. La stessa espressione di godimento assoluto. Faccia di Topo. «Bene bene, questa la teniamo noi, ché ci sono colleghi che in questi giorni hanno molto da fare e hanno bisogno di qualcosa che li tenga su, non è vero?». Risata degli altri tre. «Sei un bravo ragazzo, si vede che sta dalla parte della legge, non è vero?». Altra risata. «E ora ti togli dal cazzo e ti dimentichi questa storia. Sono stato chiaro?». E non aspetta la risposta. Rumore di portiere che si chiudono. Stridore di gomme sull’asfalto. Il Teppa resta solo, seduto in mezzo alla strada. Consegnandogli il pacchetto, poche ore prima, Benza gli aveva parlato con tono calmo, mettendogli un braccio attorno alle spalle. «Mi hai capito? Mi sto fidando, falla girare e portami i soldi e vedrai che andrà tutto bene, ok?». Benza è grosso e cattivo. Con la faccia pulita e inquietante sembra uscito dal film Quei Bravi Ragazzi. Ma il Teppa era tranquillo. Tutto sistemato: tutto già piazzato tra i vari gruppi del quartiere in partenza per le vacanze. Trentamila euro: diecimila per Benza, che gli ha girato l’etto praticamente a prezzo di costo e pure a credito (anche se in fondo tutta questa storia parte proprio dal Benza, glielo deve un favore), e il resto per l’avvocato. 24


Avrebbe tirato fuori suo fratello da quel posto di merda, lo avrebbe salvato. Nella vita non puoi farne a meno di un fratello. I genitori ti capitano e non è che puoi chieder loro troppo. Arrivano fin dove arrivano, il resto è affar tuo, ma un fratello è un dono, soprattutto un fratello maggiore. Uno su cui puoi contare, uno che ti spiega le regole del mondo parlando la tua lingua. Un fratello non lo si lascia nella merda. «Raccogli il resto dei soldi e me li porti e vedrai che in pochi giorni te lo rispediscono a casa: bello e incazzato come al solito. È la tua occasione Teppa, non la sprecare» «Tranquillo Benza, non faccio cazzate» «Tranquillo è morto, Teppa, è morto tanto tempo fa.» Infatti, neanche mezz’ora dopo averlo salutato, la cazzata l’ha fatta. E pure grossa. Enorme. Con quel carico avrebbe risolto un sacco di problemi. Ora invece ha un sacco di problemi in più. «Ti ritrovo Faccia di Topo. Ti ritrovo e ti faccio il culo. Parola d’onore», promette il Teppa sollevando lo scooter da terra. E il Teppa è uno che all’onore ci tiene parecchio e le promesse le mantiene. Poi si allontana, smanettando con rabbia. Continua a piovere, anche nello spicchio di luce di quel qualcuno che tutti ignorano.

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oggi tocca a me 3 luglio 2011


Capitolo 1 Guerra per bande


Maurizio pensa che trovarsi alla Sacra di San Michele a quest’ora della notte non abbia senso. Che sia una gran cazzata. Non può che finire male. Molto male. Un’altra delle imprese disperate in cui si fa trascinare dal Teppa. Vaffanculo pure a lui e alla sua idea di dormire in giro e poi prendere il treno. In incognito, ha detto il Teppa, niente scooter, niente targhe e il treno lo si prende a metà strada così non diamo nell’occhio. Il Teppa ha detto così e Giamaica è convinto che sia stato lui a trascinarlo fin lì. Non è andata così, ma Giamaica non può saperlo. C’è qualcuno, invisibile, che tira i fili e che li ha condotti in quel posto affinché le energie della terra entrino in loro. Quel qualcuno sa che capita così, in certi posti del pianeta. Le pietre hanno un’anima e gli uomini la prendono in prestito insieme alla loro forza, antica come il Tempo. Quel qualcuno li osserva, avvolto nell’ombra del bosco alle loro spalle. Gli alberi parlano con una brezza fresca e cantano nenie ristoratrici per guerrieri improvvisati. Ba29


sterebbe appoggiare la schiena sul prato per sentirle, ma Maurizio non si lascia toccare dalle energie della terra e dall’anima delle pietre. Giamaica ha pensieri più bassi. Più piccoli. Più urgenti. Per questo se ne resta seduto lasciando che la mente si aggrovigli in inutili e contraddittorie conclusioni. Maurizio pensa che forse suo padre ha ragione, quando dice che quelli come il Teppa fanno i duri ma sono degli sfigati, dei perdenti nati, gente destinata a prendersela nel culo. Suo padre ha poche regole, ma chiare: stai dalla parte del più forte e fotti il prossimo prima che sia lui a fottere te. Anche suo padre è un’anima sorda ai richiami del cielo e cieca ai messaggi della terra. Lui la terra la violenta ogni giorno, dall’alto di una ruspa, ed è abituato a pensare che ci sia una leva giusta per fare qualsiasi cosa. Basta sapere qual è e come usarla. Il padre di Giamaica è convinto che a tutti gli uomini la vita consegni un libretto delle istruzioni per costruire la propria esistenza secondo regole chiare e scritte altrove. Basta saperle leggere, e infatti la maggior parte della gente le rispetta. Ed è la “Maggior Parte” quella che va seguita. Al padre di Giamaica non piacciono quelli che smarriscono il libretto, o peggio lo buttano via. Al padre di Giamaica non piace la “Minor Parte”: roba che non serve a niente, scarti di produzione da smaltire in discarica. 30


Maurizio lo chiamano Giamaica, perché ha la pelle scura e l’uccello del diametro di una lattina di Coca Cola. Giamaica è convinto che il Teppa sia uno in gamba e che suo padre sia uno stronzo, ma ora inizia a pensare che forse non abbia tutti i torti. E poi è sempre suo padre e va rispettato. Questione di gerarchie. «E se ci beccano?» domanda. Il Teppa prova a cambiare argomento. «Che hai detto a tuo padre?» «Che andavo al mare da amici, ma non è di lui che ho paura» «...» «Pensavo agli sbirri. Hai sentito anche tu in televisione, ce n’è un casino: polizia, carabinieri, guardia di finanza. Ci mancano solo i vigili urbani. Non possiamo farcela». Il Teppa tira fuori il libro dalla tasca interna del giubbotto di jeans, lo apre e lo illumina con la pila: «Uno dei principi fondamentali della guerriglia è che non deve in nessun modo impegnarsi in un qualunque combattimento se non si è sicuri vincere. Non andiamo lì a fare i cazzoni Giamaica, stai sereno». Giamaica non è per niente in pace. Non è certo un libro di Ché Guevara che può tranquillizzarlo. Soprattutto perché il libro è di Panza, e Panza è proprio un coglione. «Forse era meglio se restavamo in zona, Teppa» 31


«E a far che?» Giamaica non ha risposte. Il casino in cui si trova il Teppa è troppo grosso per starsene in zona a non fare un cazzo come al solito. «Panza dorme?» «Si è preso mezza tenda, bisognerà prenderlo a calci», risponde Giamaica. Poi estrae due Marlboro dal pacchetto e per un po’ se ne stanno in silenzio a guardare il panorama. Dietro di loro, la sagoma scura della Sacra indica la direzione. L’ombra di un dito di pietra puntato verso il cielo. Il futuro incombe alle loro spalle. Fa troppa impressione per guardarlo negli occhi. Più rassicurante concentrarsi sulle sicurezze di ciò che si conosce meglio: le luci di Torino, distese all’orizzonte come una vecchia e rassicurante coperta. «È che non capisco che cazzo ci andiamo a fare in mezzo agli squotter, tu non li reggi gli alternativi» «Ho cambiato idea, va bene? Ho voglia di farmi crescere i capelli e puzzare un po’, ti dà problemi? Tu goditi l’avventura, il resto sono cazzi miei» «Sono anche miei, Teppa. Ti seguo, ma non mi raccontare minchiate. Non prendermi per il culo. Ti girano i coglioni per la coca, ci sta, ma davvero pensi di trovarlo in mezzo a quel casino? E anche se ci riesci? Cosa pensi di ottenere? E poi Panza che cazzo ci fa con noi?» «Mi inventerò qualcosa, non lo so. Comunque 32


voglio beccarlo quel pezzo di merda. Il Panza ha la tenda, lo zaino e lo scooter ed è meno coglione di quel che sembra, fidati di me» «E quel libro?» «È saggezza, Giamaica, saggezza pura. Per una volta fidati anche di Panza.» Impossibile. Per Giamaica fidarsi di Panza è davvero impossibile. Per combattere la noia, d’estate, quasi ogni notte, Teppa, Giamaica e Panza danno fuoco a qualcosa in giro per la città. A volte sono le automobili di lusso che mai potranno guidare, a volte i citofoni delle case in cui mai potranno vivere, a volte i bidoni della raccolta carta, semplicemente perché bruciano bene ed è più facile. Madonna di Campagna non offre molte attrazioni. Case popolari di inizio ’900, coi cortili abbandonati e le facciate scrostate, resistono come assediate da palazzi quasi borghesi, che hanno iniziato a venir su come funghi negli anni ’80. Le popolari c’erano prima e quindi, malgrado del passato non ne sappiano molto (e non interessi neanche un granché), gli inquilini di queste vivono gli abitanti dei condomini borghesi come degli intrusi. È quasi una guerra silenziosa, combattuta contro un esercito in continua ascesa, perché i palazzi si stanno mangiando, anno dopo anno, le vecchie fabbriche dismesse e ogni metro quadro edificabile. Cubi di cemento colora33


to. Tutto quanto, attorno a loro, si sta trasformando, nulla cambia nella loro vita. Ma se la vita resta la stessa, anche il contesto non deve mutare, perché l’esperienza insegna che ogni cambiamento non può che essere verso il peggio. E perché una Madonna di Campagna ha la sua dignità, sa di qualcosa che ha un suo territorio, piccolo, sfigato, ma suo. Una Madonna di “Città” non è altro che un angolo di asfalto attraversato da milioni di auto senza che nessuno la degni di uno sguardo. Una Madonna di “Città” non conta un cazzo. È una tra le tante. Questo pensano i ragazzi delle case popolari. E così, se da bambini si sfogavano in capannoni abbandonati sfondando vetri e porte con assi da cantiere, oggi l’oggetto del loro disperato luddismo sono i nuovi edifici della decantata Spina 3, chi li abita e, naturalmente, chi li difende. Madonna di Campagna è ormai una zona di passaggio, una terra di nessuno tra il benessere del centro e le vere periferie. Quelli di Madonna di Campagna, in definitiva, non se li caga nessuno, perché non incutono paura e rispetto come quelli delle Vallette, né avranno mai i soldi e le possibilità di Campidoglio o Santa Rita. A quelli delle popolari di Madonna di Campagna i soldi piacciono, ma più che altro ciò che inseguono è il rispetto. Per questo incendiano il loro quartiere: per renderlo una vera e rispettabile periferia. 34


Panza è diverso dagli altri due: non è grosso e cattivo, non veste alla moda. Panza legge, usa la testa. Quando danno fuoco ai bidoni per la raccolta carta, spesso Panza ci guarda dentro e se trova un libro interessante se lo prende e lo aggiunge a quelli che ha a casa. La casa di Panza è piena di libri. Anche i suoi genitori leggono un sacco e questa è una cosa che nelle popolari di Madonna di Campagna li rende degli eccentrici. A Panza i libri piacciono, ma ci tiene anche a essere uno degli altri e non gli piace farsi notare. Quindi non parla mai della sua famiglia, tanto fuori luogo tra le popolari quanto tra i palazzi benestanti. Non che se ne vergogni o che i suoi genitori non gli vadano a genio, ma ha già abbastanza problemi con quell’aria da bravo ragazzo che si porta stampata in volto che non è il caso di fornire nuovi argomenti per le prese per il culo di gente del calibro di Giamaica. Panza qualche giorno fa ha trovato un piccolo tascabile dal titolo Guerra per Bande, con in copertina la foto del Ché, ma non quella delle magliette, un’altra in cui è di profilo e sorride, e siccome ha trovato interessante il titolo lo ha salvato e si è messo a leggerlo. Poi quel libro è diventato il loro libretto delle istruzioni, una guida che conviene leggere con attenzione, dovendosi addentrare in territorio ostile. Giamaica osserva il suo amico che tiene lo sguardo fisso sul panorama. Ha la faccia cattiva il 35


Teppa. Giamaica pensa che ha gli occhi da tigre e in sottofondo inizia a sentirsi la colonna sonora di Rocky, sempre più forte, a fare da sfondo allo sguardo del Teppa. Il Teppa risponde al cellulare. «Sì. No. Ti ho detto che non c’è problema, è tutto a posto. Dopodomani a casa mia. Non lo so a che ora, ti chiamo io, ora hai rotto il cazzo», e richiude il cellulare e lo spegne. Poi nessuno parla più. Restano i rumori della notte, le luci della città in lontananza e quel qualcuno che li guarda, invisibile ai loro occhi. Il Teppa cerca di svuotare la mente e rilassarsi. Suo fratello gli ha raccontato che i pugili fanno così alla vigilia di un incontro importante. Giamaica ricorda il pomeriggio appena passato e continua a pensare che ritrovarsi lassù sia una gran cazzata. Quel pomeriggio erano a casa di Panza a svuotagli il frigo. Mentre Giamaica preparava i panini Panza leggeva dei brani di Guerra per bande ad alta voce. Il Teppa ascoltava e intanto guardava la tv senza volume. Massimiliano Suma, il giornalista del Tg Regionale, parlava da un qualche posto in mezzo alle montagne, ma il Teppa non sentiva la sua voce irritante. Andava bene così. Al Teppa Suma 36


non piace, è un fatto istintivo. Il Teppa lo guardava muovere le labbra senza alcun suono e pensava che la verità è ciò che appare, e sono i tipi come Suma che decidono cosa deve apparire. Poi è passato un video con le forze dell’ordine che invadevano un piazzale avvolto dai gas lacrimogeni, poi gente che scappava lungo sentieri di montagna e il viso di una donna che gridava qualcosa. Il Teppa ha guardato e ha pensato che gli sbirri avessero combinato una delle loro solite porcate, ma era anche consapevole che, se avesse alzato il volume, avrebbe sentito la voce di Suma raccontare qualcos’altro e che quel qualcos’altro, per tutti quelli che lo stavano ascoltando, da allora in poi sarebbe stata la verità. Improvvisamente gli si è come illuminato il volto. Aveva visto qualcosa. «Noi siamo una banda e una banda è fatta per fare la guerra» ha detto. «E dove minchia la trovi la guerra da ’ste parti?», ha chiesto Giamaica svuotando il barattolo di Nutella. «... Non la finire!», ha implorato Panza, senza che nessuno gli desse retta. Il Teppa ha indicato il televisore. Sullo schermo si vedeva una casa su una montagna presidiata da poliziotti e carabinieri. C’erano alcuni agenti in primo piano che parlavano tra loro 37


e sorridevano con la loro solita faccia da stronzi. Poi una sequenza con candelotti lacrimogeni che piovevano dall’alto e sembrava davvero un film di guerra, uno di quelli con gli americani in Vietnam. «Lì!», ha detto. L’attenzione del Teppa si era fermata su un gruppetto di agenti. In mezzo a loro Faccia di Topo sorrideva. Gli altri avevano uno sguardo che il Teppa conosce bene, perché gli è stato rivolto decine di volte. È lo sguardo del tossico davanti al pusher. Ci sono colleghi che in questi giorni hanno molto da fare e hanno bisogno di qualcosa che li tenga su. Così il Teppa ha capito dov’è la sua coca e ha deciso di andare a riprendersela, perché il Teppa è uno che ha stracciato con sdegno il libretto di istruzioni per stare al mondo e si è messo a montare a caso i pezzi della sua vita, senza curarsi di ciò che ne verrà fuori, perché la vita è il processo e non il risultato, perché il Teppa sa che quando hai finito di montare tutti i pezzi della scatola, qualsiasi cosa apparirà, sarà il giorno in cui saluterai il mondo, la fine del film, e solo un cretino vuol sapere il finale di un film prima di guardarlo. Il Teppa deve almeno provarci a recuperare la coca. Non ha idea di come fare, ma ha un sacco di gente che la sta aspettando ed è in debito di diecimila euro con Benza. E servono i soldi per tirare fuori suo fratello dalla merda. E il Teppa non è uno 38


che lascia un fratello nella merda. «Quello è lo sbirro dell’altro giorno, andiamo a prenderlo» «Ma sei scemo!?», si è lasciato scappare Panza. «Sssshhhh!! Muto, e porta rispetto...», l’ha rimproverato Giamaica. Marco ha i capelli chiari e ordinati come solo una madre potrebbe disporre. Niente gel, niente creste e ciuffi alla Giamaica. Come se non bastasse, è basso e ciccione. Per questo lo hanno soprannominato Panza, almeno da quando ha iniziato a girar loro attorno come un bastardino in cerca di padrone. Per Giamaica, Panza è davvero un coglione, ma visto che il Teppa lo difende, alla fine si è arreso e ne tollera la presenza. Per il Teppa, Panza ha coraggio e testa sulle spalle, due doti su tre per farne un buon pugile. Peccato sia una mezza sega. Il Teppa è il capo e Giamaica lo seguirebbe anche in capo al mondo, non importa che faccia una cazzata, un capo va seguito. Panza invece è il soldato semplice e deve stare muto e obbedire. «Andiamo, spacchiamo quel che vogliamo e la colpa ricade su quelle zecche degli squotter. Se poi recuperiamo la coca bene, altrimenti ci siamo divertiti. Ci state?». Agli altri è parsa una buona idea. Solo il Panza ha obiettato: «Ma noi che cazzo ne sappiamo di ’ste cose, fare casino a una manifestazione non è come dar fuoco alle macchine per strada» 39


«È tutto qui dentro, Panza. È tutto qui dentro», ha risposto il Teppa prendendogli il libro dalle mani, «è tutto qui dentro». Giamaica e il Teppa se ne sono andati a dormire. Quel qualcuno che li guida a loro insaputa no, lui non ha più bisogno di dormire ormai da molti anni. Lui resta nell’ombra a godersi la notte. Il bosco lo accoglie con braccia fresche e robuste. Un cinghiale gli si avvicina e si rotola sulla terra fresca, poi gli siede accanto. Ha lo sguardo stanco e felice. «Nottata difficile?» «La mia scrofa sta partorendo, otto cuccioli, puoi immaginarlo?» «Ti servirà una tana più grande» «La tana non è mai troppo piccola, è il cuore che deve farsi più grande per abbracciarli tutti. Guai se qualcuno restasse fuori, morirebbe di freddo» «Ce la farai, cinghiale» «Certo che ce la farò, non sono mica un uomo...» L’uno accanto all’altro contemplano il panorama in silenzio. Regnano i rumori del bosco, la città in lontananza e un cielo pieno di stelle. La loro luce irradia il mondo di forza e coraggio. I tre ragazzi, nel sonno, si abbeverano alla fonte. Forza e coraggio. Domani ne avranno bisogno. Sarà una bella giornata, l’estate è finalmente arrivata.

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