Pausa caffé - Breve racconto spin off da Finzione infinita #2

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~atropo fantascienza~

SILVIO VALPREDA

PAUSA CAFFÉ

ILLUSTRATO DA MARCO MARTZ BREVE RACCONTO SPIN OFF DA

FINZIONE INFINITA


Questo testo è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo testo a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’autore rimane a disposizione.

Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Marco Martz

© Copyright 2015, Silvio Valpreda Eris (Ass. Cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org


Pausa CaffÉ

Non c’erano finestre in tutto il fabbricato. Una vaga sagoma sul muro esterno in cemento grigio poteva far presagire che qualcuna, in passato, ci fosse stata, ma poi fosse stata chiusa. Negli ultimi anni, molte aziende avevano scelto di far murare ogni apertura non indispensabile. Ufficialmente a causa della guerra e per via di quelle voci, secondo le quali il nemico fosse in grado di spiare all’interno degli edifici, ma ovviamente era anche perché la manutenzione di un muro era molto più economica di quella di una finestra trasparente. Il corridoio che portava dalla sala di lavoro all’area relax era quindi illuminato solo da un tenue bagliore artificiale, come tutto l’interno della struttura. Filina pensò che, pur avendo percorso quel tratto di corridoio almeno otto volte al giorno negli ultimi quindici anni, non era mai riuscita a capire se la parete che lo delimitava fosse una di quelle perimetrali della costruzione che ospitava la sua azienda, oppure si trovasse più all’interno e al di là vi fossero delle stanze. Filina era laureata in matematica e riteneva di avere sufficienti doti tecniche e pratiche, ciò no3


nostante non era mai riuscita a farsi un’idea chiara della corrispondenza tra il percorso che faceva per raggiungere la sua postazione di lavoro e la forma esterna della costruzione. A metà strada circa tra l’ingresso e il salone dei terminali, c’era una piccola rientranza foderata di materiale fonoassorbente dall’aspetto logoro. Su un tavolo grigio, dal ripiano macchiato, stavano le tazze con i nomi delle dipendenti, ordinate secondo l’orario di pausa. Un po’ più in alto, una teca nella parete ospitava una macchina somministratrice di bevande. Filina prese la tazza con il suo nome e la appoggiò nell’alloggiamento dell’apparecchio che immediatamente la riconobbe e la riempì in modo automatico di caffè con le caratteristiche di concentrazione, temperatura e quantità di zucchero che la macchina ricordava essere le sue preferite. Sul tavolo c’era ancora, un po’ spostata in disparte in un angolo, la tazza della sua collega Lena che se ne era andata. Da quando Lena si era licenziata, Filina trascorreva la sua pausa caffè da sola; non aveva trovato, tra le colleghe, qualcuna con la quale condividere quel momento d’interruzione del lavoro. Pensò di telefonarle. Ci pensava ogni volta che prendeva il caffè in ufficio, e sempre posponeva la telefonata alla fine dell’anno con l’intenzione di farla ca4


pitare con finta casualità come una routine di auguri. Filina e Lena non erano mai state propriamente amiche. Avevano un solo argomento di conversazione: entrambe vivevano sole allevando ciascuna un bambino. Lena cresceva il nipote, figlio del fratello, mentre Filina aveva un figlio. I due bambini erano circa della stessa età e i problemi delle due donne erano simili. Nient’altro di cui parlare, se non di questo, o comunque qualsiasi questione era ricondotta all’influsso che potesse avere sui propri bambini. Filina prese la tazza dall’erogatore e la trattenne con entrambe le mani per scaldarsele prima di bere il caffè. Appoggiò la schiena contro la parete rivestita di morbido isolante fonoassorbente pur sapendo che se fosse passato il supervisore l’avrebbe certamente redarguita per questo. L’ultimo giorno di lavoro di Lena, avevano parlato della guerra; ne avevano commentate in modo generico le ultime fasi e avevano formulato vaghi auspici di pace. Filina non era però così sicura di volere davvero la fine della guerra. Per tutta la sua vita era dovuta sottostare alle privazioni e alle difficoltà imposte dalla situazione bellica ormai perdurante. Adesso, nel momento in cui suo figlio, a nove anni, era riuscito a entrare in 5


una scuola premilitare, Filina pensava che finalmente la guerra, se fosse continuata, avrebbe potuto offrirle un riscatto. Lavorare in una delle grandi compagnie private di servizi di difesa dal nemico era un ottimo mestiere. Gli alunni più promettenti delle scuole premilitari potevano ambire a un contratto come graduato sin dal compimento del diciassettesimo anno di età. Comunque anche i militari di truppa erano retribuiti ottimamente e molto rispettati dalla società. Persino per lei avrebbero potuto esserci dei vantaggi diretti: la madre di un soldato godeva per legge di alcuni benefici e, di solito, le aziende belliche garantivano l’assistenza sanitaria ai parenti di primo grado dei loro dipendenti. Da un lato, come tutti, desiderava la pace e la sconfitta del nemico, d’altro canto, però, le sarebbe sembrato di aver avuto dalla guerra solo gli svantaggi e che, quando la bilancia avrebbe potuto voltarsi a suo favore, la pace l’avrebbe privata del riscatto. Suo figlio, come tutti i bambini, era cresciuto sottostando alle pesanti difficoltà imposte dalla guerra. Mancanza di beni fondamentali, paura, restrizioni della libertà per ragioni di sicurezza. Filina immaginava che una vita futura da civile in un mondo di pace non sarebbe mai potuta essere per lui altrettanto buona di una carriera da militare in periodo di guerra. 6


Filina si vergognò del suo pensiero, tuttavia non poté fare a meno di considerarlo valido. Svuotò la tazza dal residuo di caffè e la mise sul nastro trasportatore che la fece sparire dietro la parete. Nel pomeriggio l’avrebbe ritrovata, pulita, appoggiata sul ripiano in ordine secondo l’orario abituale della pausa di ciascun’impiegata. Non aveva mai confessato a Lena di sperare che la guerra continuasse. Non lo aveva mai confessato a nessuno, forse non lo avrebbe nemmeno mai confessato a suo figlio.


Cinque personaggi per cinque racconti ambientati nel mondo claustrofobico di Finzione infinita. Ombre secondarie del mondo apatico e conformista creato da Silvio Valpreda che in questi brevi spin-off diventano protagonisti e si muovono avidi tra le piaghe di una società affetta da cultura della guerra, crisi continua e totale anaffettività. Un mondo dove il racconto mediatico dello stato di emergenza ha riplasmato la convivenza sociale e le proprie aspettative, e l’unica possibilità di carriera è nell’indotto delle industrie belliche e della sicurezza. Attenzione: rischiate di sentirvi a casa. SILVIO VALPREDA

ILLUSTRATO DA MARCO MARTZ


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