~atropo ¡ narrativa~ 19
francesco cusa
racconti molesti illustrato da daniele la placa
Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.
Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Daniele La Placa © Copyright 2017, Eris (Ass. cult. Eris) © Francesco Cusa Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Giugno 2017 ISBN 9788898644414
Questa idea dello stile, dell’omogeneità della narrazione, come se la vita poi fosse quest’ordine, questa sistematicità; orbene, questa storia della coerenza stilistica in una raccolta di racconti, mi indispone oltre misura.
Esseri sovrannaturali
Dio
Era costretto a compiere azioni efferate. Conosceva la legge del karma. Toccava le mani di donne e uomini. Il suo dolore. Soprattutto quando si trattava di uccidere i bimbi. L’orrore delle morti atroci. Nessuna poteva essere uguale. Alcuni andavano torturati. Altri semplicemente soppressi. Non poteva esserci innocenza. Unico suo conforto era il mostrare il senso. Le sue mani si aprivano in uno squarcio. Mostrava loro il cammino. E allora tutti indistintamente sorridevano, improvvisamente placidi, pronti a ogni supplizio. Questo era giusto. L’equilibrio. Nessuna entità. Nessun senso. Nessuna declinazione di divenire. Per lui. Non resse. Quel tempo finì. Nacque la cecità. La morte.
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Il Mostro
Guardava regolarmente le persiane semichiuse. D’inverno come d’estate. Contava gli spazi di luce. Quasi sempre di numero dispari. Amava la danza delle polveri, il lieve canto della pendola, il ticchettio dell’orologio da polso. Era il pomeriggio a schiudersi, un’orchidea nella notte diurna del cieco. Era un mostro. Un essere senza cuore né anima. Tuttavia fingeva. Sapeva essere amabile. La moglie, del tutto ignara, preparava torte e biscotti, nell’imbrunire della casalinga. A lui interessava quella stasi, quel limbo concreto e materico di insensato nulla. Soli e senza figli, i due coniugi erano giunti alla fine del loro tempo senza sfiorarsi. Senza capirsi. Credendo d’amarsi. Questo almeno era in lei. In lui, perfino questa miserabile acquiescenza, era finzione. Fissava le finestre e la luce che filtrava dalla porta, al pomeriggio. Questo era il suo desiderio. La sua stessa ragione
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dell’essere al mondo. Probabilmente quel concentrarsi sulla disumana festa, sul sabba perenne che si consuma nell’indefinito morfologico. E dunque sedeva sulla sedia di vimini, quella scomoda e scricchiolante, sedeva e puntava dritte le braccia, tenendo fisse le mani sulle ginocchia secche. Sedeva con gli occhi grifagni. Scrutava. E poi contava. Nove. Tredici. Undici. Uno. Laddove “uno” stava per porta d’ingresso. Ogni tanto il telefono. Talvolta una commissione da sbrigare. La spesa. Le bollette no, per quello c’era il mattino nauseabondo. Morì nella benedizione del prete. La moglie continuò a preparare torte e biscotti ancora per qualche anno. In un armadio le sue pantofole marroni. La notte e il buio perenne, la fine del suono, l’odore del baratro. Un armadio chiuso. Delle pantofole marroni.
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Il gatto con gli stivali
Un mercoledì, Lucia, nell’aprire il cassonetto dei rifiuti, si ritrovò faccia a faccia con il Gatto con gli Stivali. Due occhiazzi tanti che facevano impressione pure con la luce del mattino. Il Gatto con gli Stivali dentro alla monnezza. «Esprimi un desiderio, Lucia.» «Ma, che sei il genio della lampada? Scusa.» «Esprimi un desiderio. Hai il tempo della chiusura del cassonetto. Della molla. Lascia la presa.» «… Ma…» «Esprimi un desiderio» fece quella voce gattesca «non pensarci troppo, la prima cosa che ti viene in mente. Presto!» «Vorrei morisse mio marito!» «Fatto.» «No. Davvero? Come?» «Ictus. Non ha sofferto.» «Neanche un po’? Peccato…»
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«Poi? Sbrigati non c’è molto tempo.» «Più soldi! Tanti soldi!» «Tanti quanti?» «Tantissimi!» «Che taglio? Che moneta? Euro? Dollari?» «Dollari!» «Quanti!» «… Milioni!» «Come? In accredito? Conto corrente? Contanti?» «Contanti!» «Ok. Li trovi nell’armadio. Poi?» «… Eh… Ah! Mia figlia! Un marito!» «Un marito? Che marito? Come. Nero, cinese, svedese?» «Uno coi soldi!» «Ma… li hai adesso i soldi…» «Un marito insomma per mia figlia.» «Ho capito. Ma come deve esser…» Il cassonetto si richiuse. Lucia provò a riaprirlo più volte. Del Gatto con gli Stivali non c’era più traccia. Tornò di corsa a casa facendo le scale a due a due, a rotta di collo. Trovò il marito Gianni morto stecchito sul divano, una montagna di dollari che fuoriuscivano dall’armadio a muro, e sua figlia Carmela di otto anni in braccio a un tizio albanese in canottiera. Il suo nome era Roman. Questi fumava, fumava, fumava. Lucia lo guardò dritto
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negli occhi. Lui mosse lentamente lo sguardo per ogni anfratto della cucina sporca. Poi sorrise ampiamente, mostrando la sua dentiera a quaranta carati. Il ronzio del frigorifero in quella torrida mattina d’agosto divenne assordante.
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Roulette Russa
Era sempre vestito in maniera impeccabile. Cappotto, giacca e cravatta. Per non dire delle bretelle: sempre rosse sgargianti. Lo detestavo. Troppo stretto il colletto delle camicie, sempre inamidate, e poi quell’andare incerto, dovuto alle scarpe nuove di zecca, il faccione paonazzo… Non lo potevo sopportare. La parte superiore del collo pareva esplodere in fattezze anfibie. Sempre tirato a lucido, attraversava tutti i giorni il Boulevard St. Etienne per venire a prendere il caffè nel bar in cui lavoravo. Ero dunque costretto a servirlo, con mio sommo ribrezzo. Aveva dita tozze e unghie troppo lunghe. Un non so che di adunco in quella grifagna maniera d’afferrare il croissant, con modi da rapace. Lo scrutavo con la coda dell’occhio, non certo senza il disgusto che anni di servizio e professione riuscivano a dissimulare dietro ampi sorrisi di facciata. Osservavo il suo mento retrattile ungersi
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di burro, la sua lingua viola leccare le labbra sottili con la velocità del rettile. Ogni mattina il signor Poiron mi fissava con occhi acquosi, dava una bella stretta all’orologio da tasca e, puntualmente, alle otto e trenta spaccate, messe da parte tazzina e salvietta, con un orrido schiocco di palato cominciava a raccontare una maledetta storia. Tre uomini nel bosco. Nella notte. Nella bufera. Nel gelo. Due pistole puntate alle tempie. Una sola sparerà. C’è Jack, figlio del pastore protestante, padre incestuoso, c’è Jimmy, il garzone del mulino, fidanzato con la figlia del pastore; entrambi puntano le canne sul cranio di Oswald, il giardiniere della Casa Coloniale, che ha ammazzato il cane di Jimmy per puro divertimento. Il particolare fondamentale è che Jimmy non sa che il padre si scopa la sua Molly e dunque non capisce perché “adesso” Jack gli sta puntando una pistola alla testa, quando è chiaro che è Oswald ad aver ammazzato quella povera bestia senza un motivo. Che è lui lo stronzo. Perché quella Colt alle tempie? Stiamo parlando del padre della sua Molly, perdio! Non era forse per questo che erano venuti nel bosco? Per sparare alle gambe di Oswald? Le cose stanno così, dice Jack. Ora Jimmy fa’ il bravo bambino e getta via la pistola. Da bravo bambino. Lì sulla neve. Facendo dei movimenti lenti. Mooolto lenti. Senza essere nervosi. Senza scatti. Che qui nessuno vuol farsi male. Ma c’è un problema. Quale proble-
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ma? Il problema è che Oswald ride, ride e poi ride con la bocca sdentata e i denti cariati, mentre qualcosa ulula nella boscaglia, ma non c’è tempo per capire cos’è. Il dannato problema è che quel coglione di Oswald comincia a urlare, a dire che quello è un cane del cazzo, che lui gli ha sparato in mezzo alla fronte, che alla fin fine era un cane da nulla e che lui ammazza tutte le bestie che vuole, perché se a lui gira prende e spara ai cani e a tutto ciò che si muove tramite zampe. Vengono gli istanti di silenzio. Quelli assurdi, buoni per assaporare il gelo terribile, quei frangenti neutri, fatti apposta per mirare le volute di calore emanate dai corpi nella notte splendente e siderale. Non è questo il momento di stare col naso all’insù, tuttavia. Si sente il rumore del respiro, il fiato corto di Jimmy. Si sente il digrignare del pellame, il gelo del ferro sulle tempie, come il morso di un coyote congelato. Poi entra in gioco la terza pistola. E siamo alla scena iniziale. Tre uomini nel bosco. Nella notte. Nella bufera. Nel gelo. Tre pistole puntate alla tempie. La pistola è adesso quella che Oswald punta sulla fronte di Jack, con grande stupore di Jack, con tutto un mastodontico stupore di Jack. Sì. E la ficca proprio nel mezzo della sua bella fronte rugosa, figlia di tutti quei venti urlanti nella tramontana, pigmento corroso dai gelidi flagelli che si abbattono per quelle valli disgraziate ogni giorno comandato del Signore. Oswald dice queste testuali parole: dillo al ragazzo che ti scopi
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tua figlia. Dice queste parole e preme la canna al centro delle sopracciglia del vecchio, che ora fa gli occhi storti come quelli degli uomini dal senno perduto… Pagava il conto e se ne andava. Senza salutare. Ogni giorno un pezzetto di storia. Di storie. Questa è una fra le tante. Non le finiva mai. Era una sorta di tortura sottile. Quel giorno tornò al pomeriggio, con mio sommo stupore. Prese il caffè e si sedette al tavolino che dava sulla strada, quello di fianco al finestrone opaco in stile impero. Fuori la pioggia, la nebbia e il trambusto nell’aria che sapeva di carbone. I primi anni del Novecento, adesso li scorgo in tutto lo splendore decadente di quella assurda aspettativa, nel fumo concreto che noi vedevamo dissiparsi nella gioia della macchina. Con mia grande sorpresa, Poiron provò ad allentare la cravatta, a mettersi comodo. Arrivò perfino a slacciarsi di quel poco le scarpe, che dovevano attanagliare le sue caviglie con ferocia. Eravamo soli. … E dice queste testuali parole: dillo al ragazzo che ti scopi tua figlia. La mano di Jimmy ora trema. Come, che dice questo pazzo. Che razza di storia è mai questa. Non fare brutti scherzi Jimmy, fa Oswald. È vero. Io ho ammazzato il tuo cane, puoi starne certo, ma lui si fotte la ragazzina, la tua Molly dalle trecce rosse e dalle morbide carni. La prende di notte e fa i suoi porci comodi, il vecchio. La prende da dietro. E poi lo racconta agli ami-
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ci. Ma è brava la Molly lo sai? Ha imparato col tempo a godere in silenzio. Almeno Jack racconta a noi tutti che a lei piace. È vero o no Jack che a lei piace? Crepitii. Lo stridore della neve sotto le suole degli stivali. Jack non parla. Semmai preme decisamente la Colt sulle tempie di Jimmy, per quanto possibile, come a dire di non far scherzi, di mantenere la calma. Una silente dichiarazione di autorità. Ma i rapporti di forza adesso paiono stravolti. C’è una sacra furente rabbia nel ragazzo. Qualcosa di santo nel suo sguardo che adesso è limpido e fermo, diretto alle rocce innevate, alle stelle aguzze come lame, al ghiaccio che preme sui fusti di sequoia. Era chiara la storia del cane, l’accordo era di portare qui Oswald e fargliela pagare. Ma ora? Come si mettevano le cose ora? Oswald chiede al ragazzo di pensarci bene, di ponderare, di stabilire se è più grave punire chi ha sparato a un cazzo di cane oppure il padre della tua ragazza, uno che se la scopa alla notte e va a raccontarlo da sbronzo agli alcolizzati, nelle taverne di Cotton Creak. E poi, continua Oswald, io non ho ammazzato nessun cazzo di fottutissimo cane. Cioè, io ne ammazzo pure a volte di cani, ma non il tuo Bill, ecco. È che non mi piace che mi si accusi, che diamine. O forse, continua Oswald, magari mi sono sbagliato. E la bestia che ho fatto secca non è proprio il tuo Bill… ecco… Del resto, tu hai visto il cadavere del tuo cane figliolo? Lo hai visto? O te lo ha riferito il vecchio? Jimmy ora è confuso e sbuffa e fa il fumo con le narici.
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No che non ha visto il cadavere di Bill. Sì che il vecchio gli ha detto che Bill era stato ammazzato da Oswald. Il fatto è che Bill è sparito. E poi c’è quella vecchia storia dei confini tra i Brown e i Mitchell… Tu vecchio bastardo hai fatto fuori Bill? E tutto questo per farmi ammazzare Oswald? Per tutta una questione di confini e proprietà? Di metri di terra? Tu disgraziato ti scopi Molly, tua figlia, la mia piccola Molly? Figliolo stai calmo, implora Jack. Ma il ragazzo è tutto una furia fremente, tutto un ribollire di carni, di fuoco, di sangue che pompa nelle vene. Il ragazzo è un treno che dovrebbe andare a mille, sparato a tutta velocità sulle rotaie. Tutto accade in un lampo. Tre colpi. Grumi di sangue e di ossa in una cascata di melograni. La fiamma. Il rumore sordo dei crani. Tutto è disposto, perfettamente, in una trinacria di corpi. Una ghirlanda di foglie aguzze, nel cielo spinato, splendente d’un cirro, quasi un vezzo sulla luna piena. Poi l’ululare delle bestie, della discesa famelica. Quindi le fauci sulle carcasse, un rimestare di budella che sa d’orchestrazione subumana. Qualcosa si muove, ancora, nelle pupille di Jimmy, una dissolvenza lieve, un profumo, una carezza sulle cose amate. Poi il rosso e l’avorio delle zanne, e ancora il bianco spumeggiante e quello adamantino dei ghiacci stellari e siderali, tanto distanti quanto più prossimi. Poiron tossì e si chinò sulle scarpe. Prese il cappello e uscì senza salutare. Lo osservai claudican-
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te prendere la china del marciapiede mentre con le mani facevo tintinnare le monetine che aveva lasciato sul tavolo. Una sinistra musichetta che elessi a mio carillon, mantra malefico, esorcismo nei confronti di quell’uomo che tormentava la mia vita con queste assurde storie. Mi licenziai l’indomani. Persi il posto, ma non gli consentii piÚ di tormentarmi con le sue storie mozzate, circoli viziosi di trame contorte e avvincenti, che mi facevano ammattire.
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