Ragni di Marte

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~atropo · narrativa~ 28




Collana Atropo Collana diretta da Anna Matilde Sali e Francesca Bianchi Grafica e illustrazioni di Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali, Martina Campanini Traduzione dallo spagnolo a cura di Francesca Bianchi Revisione a cura di Valentina Presti Danisi Titolo originale: Arañas de Marte (Valdemar, 2017, Spagna) © Copyright 2017, Guillem López © Copyright 2022, Eris (Ass. cult. Eris) Quest'opera è stata pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura e dello Sport della Spagna.

Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Febbraio 2022 ISBN 9791280495037


A mia madre, che è stata anche figlia.



Ma come sono estranei i vicoli della Città-Dolore. Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke

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La vita è come un interrogatorio in cui Dio fa la parte del poliziotto buono e di quello cattivo. All’ultimo secondo tutti confessano i delitti propri e quelli altrui in un autodafé che mette fine all’agonia. Parecchia arte sacra tratta questo tema. Il fatto è che di fronte al dolore l’unica reazione possibile è quella di volerlo evitare a ogni costo. Congratulazioni, torturatori di ogni latitudine. Gli altri possono tranquillamente dare la colpa al proprio cervello primitivo, quel serpente che un tempo fummo e che continua a strisciarci dentro. Anche se non ci sono solo cattive notizie. Se esiste qualcosa che ci rende umani, tra

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le varie manie, è la capacità di dominare l’istinto di conservazione, o almeno di dimenticarcene per un po’. La storia ce lo dimostra: soldati che vanno all’assalto del nemico, un anonimo passante che si getta tra le fiamme per salvare uno sconosciuto, turisti che nuotano in mezzo agli squali o quel maestro elementare che infila il cazzo in un buco nei bagni della stazione. Al di là della morale e di tutte le altre fesserie inizia il regno delle dipendenze non chimiche, degli orgasmi e dei dogmi religiosi. Si basa tutto sul dolore e sul fatto di non volerlo provare sulla propria pelle. Arnau e Hanne hanno organizzato una festa in casa. Non nel senso letterale del termine. In realtà è una commemorazione, un anniversario. La differenza principale sta nel fatto che gli invitati piangono e si abbracciano. C’è anche qualche risata, poche, di quelle che si sgretolano come cenere. Oggi è passato un anno dalla morte del figlio e gli psicologi dicono che fa bene fare queste cose: chiamare a raccolta la famiglia e gli amici, condividere il lutto, ridere, piangere e cose così. Buttare fuori tutto per non farlo diventare un lugubre peso. E così hanno fatto, sfidando il proprio dolore. Un altro incomprensibile retaggio atavico. Qualsiasi cosa in nome della terapia e delle consuetudini. E che altro potremmo fare? Esiste qualcosa che possa davvero consolarci? C’è sempre qualche im-

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becille – di quelli che portano a esempio la propria esperienza – che dicono «Il tempo cura ogni ferita.» E noi, nella camera mortuaria, dobbiamo sopire la rabbia per evitare di saltargli al collo, ammazzarlo di botte e straziare il suo corpo come ammonimento per altri mentecatti. Perché perdere un figlio è una perversione della natura, il collasso delle nostre prospettive borghesi per l’Europa del futuro. Una volta che la mappa delle aspettative è stata distrutta, fatta a brandelli, la realtà crolla e si perde l’orizzonte di una vita felice o, se non altro, ordinaria. La cicatrice rimane per sempre perché il cambiamento è totale. Di colpo smettiamo di essere padri o madri, e a quel punto di noi che resta? Che cosa siamo? Perché non esiste un nome per un padre e una madre che perdono un figlio? È peggio che essere orfani, vedove o vedovi. Non meritava neanche un nome? Sono cose che succedono nel primo mondo, quasi sempre agli altri, quasi sempre. Arnau è seduto sul bracciolo del divano. Intorno a lui una decina di persone disseminate in tutto il salotto. Alcune piangono e si soffiano il naso con dei fazzoletti di carta. Poi ridono. C’è una sorta di vergogna per sé e per gli altri in tutto questo. Supponiamo che la psicologia funzioni, e pure che abbiano ragione i buddisti e che quel figlio non sia mai stato davvero loro, e che abbiano soltanto con-

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diviso del tempo insieme, un regalo sotto forma di giorni, mesi e anni. Devono ritenersi fortunati. Ecco, l’ho detto. Come in uno di quei convegni in cui ti spillano quattrocento euro per aiutarti ad accettare il fatto che il tumore che hai nel petto è il risultato della tua bassa autostima. Stiamo scherzando? Non potete dire sul serio. Arnau vuota il bicchiere in un sorso, sospira e sente aprirsi negli occhi la valvola dell’acido. Sono passati mesi dall’ultima volta che ha pianto e non vorrebbe farlo adesso, mentre guarda un video di Joan, il figlio morto, e ripensa a quel giorno. Estate. Nel giardino sul retro. Aveva comprato delle pistole ad acqua. È stato divertente. La sera poi la telecamera aveva smesso di funzionare e aveva dovuto portarla ad aggiustare. Nelle immagini Joan in costume da bagno cammina sul prato e si tuffa in piscina. Ancora papà, ancora. Aveva sei anni. L’anno dopo gli diagnosticarono un sarcoma di Ewing. Nel femore sinistro si era formato un tumore maligno e, dato lo stadio avanzato, l’amputazione fu una scelta ineluttabile. Gli tagliarono la gamba all’altezza dell’inguine. Abbiamo perso solo un pezzo, si disse mentre aspettava fuori dalla sala operatoria, Joan se la caverà, se la caverà. Poi arrivarono i dati. Un caso su centomila; tasso di sopravvivenza dell’ottanta per cento. Un momento, e che succede all’altro venti per cento? Metastasi. Pediatria e on-

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cologia. Padri e madri che piangono di nascosto nei bagni dell’ospedale. Disegni da bambini che un’infermiera stacca dalla testata di un letto vuoto. Domenica pomeriggio, film su Antena Tres. Si alza in piedi e posa il bicchiere. I cubetti di ghiaccio tintinnano. Accanto a lui un uomo con la giacca a quadri e le toppe sui gomiti gli dà delle pacche su una spalla. Funziona. Ridono e piangono, quindi funziona. Il filmato finisce e si alternano singhiozzi, colpetti di tosse e mezze parole. Non si può negare che si sono tolti un peso di dosso, o l’hanno abbandonato da qualche parte. Una donna si alza e lo abbraccia. Gli dice qualcosa all’orecchio che lui non capisce anche se risponde di sì. Sul tavolo ci sono delle fotografie sparpagliate, un ventaglio cubista di ricordi. Dicono che il primo anniversario è quello più duro. Lui questo non può ancora dirlo, ma è passato davvero molto in fretta. Un anno intero. Il dolore è un centro di gravità impossibile che altera il tempo e lo spazio. Hanno vissuto in una grotta, in un luogo buio e freddo nonostante fosse estate. Che cos’è quella cosa che chiamano tempo e che misurano usando delle sfere? Perché vogliono barattarlo con il ricordo del figlio? A volte lui sente ancora il suo odore in qualche angolo. Sente il suo odore, l’odore di suo figlio morto. Arnau se ne sbatte del tempo.

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Va verso il tavolo e si versa una vodka con succo d’arancia. Nessuno ha toccato cibo. Si guarda intorno. Non vede Hanne. Tra un paio d’ore saranno tutti tornati alle loro vite. Abbracceranno i figli prima di metterli a letto e rivolgeranno una preghiera atea al demiurgo delle statistiche e della cronaca nera. E liberaci dal male, amen. Arnau e Hanne resteranno in quel luogo che chiamano casa e che, in un certo modo, continua a esserlo. Mezzi addormentati, fatti di diazepam e whisky perché le circostanze lo richiedono. Scivoleranno nella domenica e il lunedì tutto ricomincerà daccapo. Lui tornerà nello studio di architettura e Hanne nel pozzo dentro cui si è rinchiusa da tempo. Ognuno affronta le cose come può e lei era sua madre. Fine dell’elenco delle giustificazioni. Esce sulla terrazza. È una giornata autunnale, anche se calda. Le piccole onde provocate dall’attrezzo per pulire il fondo della piscina sbattono contro il bordo di pietra. Foglie secche navigano senza meta sulla superficie cristallina del cielo. Le sdraio sono rovesciate. Apre la bocca per chiamarla, ma all’ultimo ci ripensa e non dice niente. Si gira. Abbandona la vodka sul tavolo, evita un paio di conversazioni e si affaccia in cucina. Hanne non è neanche lì. Dentro di lui scatta un allarme: Non avresti dovuto lasciarla sola, non oggi. E l’ha fatto, senza

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volerlo, ma l’ha fatto. Si erano seduti a vedere quei video amatoriali e lei era dietro di lui, in piedi, con le braccia incrociate e le mani perse nelle maniche e il cuore nello stomaco. «Non dovresti lasciarla da sola», gli avevano detto, «per nessun motivo, potrebbe fare qualche sciocchezza, capisci?» Sciocchezza, la definizione clinica di una cosa così grave. Il rimorso fa la sua comparsa e lui farfuglia un sonoro «Merda.» Attraversa il salotto con fretta dissimulata. Ma perché tanta discrezione? Non è forse casa sua? Non è suo figlio quello che è morto? Dovrebbe concedersi tutta l’isteria del mondo, eppure non lo fa. Arnau salta i primi scalini come un ballerino che esce di scena sullo sfondo e fa il suo ingresso nella camera da letto. Sulle lenzuola, le grinze lasciate da un corpo sdraiato fino a poco prima. Si gira verso il bagno e, stavolta, la chiama. «Hanne!» La maniglia fa resistenza. Sente il rubinetto aperto. Prova un immediato sollievo e respira. «Hanne?» Lo dice con la testa appoggiata all’anta di legno. «Tutto bene?» Il sollievo però sfiorisce alla stessa velocità con cui appare, spazzato via dal panico. Aggredisce la maniglia. «Hanne! Apri la porta! Hanne!»

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A quel punto familiari e amici iniziano a sospettare qualcosa. Sentono i colpi e corrono su per le scale. Arnau riesce a forzare la porta proprio mentre gli altri irrompono in massa, come un pubblico terrorizzato al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo. Teste dagli occhi enormi, sproporzionati, spuntano sopra le sue spalle, ma nessuno si avvicina, hanno rispetto del piccolo palcoscenico improvvisato del bagno. C’è una pausa drammatica, forse solo di un secondo o due, il tempo sufficiente a trovarla distesa tra il water e il piatto della doccia. Si dimena in modo convulso, come un pesce fuori dall’acqua. Le braccia rigide, le mani come artigli. Arnau corre a soccorrerla, a recuperare il suo viso. «Hanne!» grida mentre si precipita dentro. La solleva appena. I suoi occhi sono delle sfere bianche. È scossa ancora da piccole convulsioni. Schiuma alla bocca. «Chiamate un’ambulanza!» L’acqua scorre nel lavandino, fugge via senza guardarsi indietro e nessuno fa nulla. Un orologio da parete segna le sette e trentasei minuti. Lo studio del dottore è il set di una telenovela. I diplomi alle pareti, le fotografie di famiglia, i manuali di neurochirurgia; sembra tutto

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finto ad eccezione delle piante di plastica. Sono seduti davanti alla scrivania. Hanne ha l’aria stordita, anestetizzata. Non si sono scambiati neanche una parola da quando sono arrivati all’ospedale. Monosillabi. Lei ha avuto un attacco. Epilessia, a quanto pare. Ha battuto la testa e adesso ha un bel cerotto sulla fronte e un livido sul mento. Arnau si siede un po’ più indietro. Le prende la mano e le dice «Andrà tutto bene, sta’ tranquilla.» E come già altre volte Hanne fa sì con la testa ed evita il suo sguardo, come un animale maltrattato. Arnau sospira, le lascia la mano e si rimette a sedere, un po’ più indietro. La porta si apre ed entra il dottore. È un tipo giovane, di quelli che non ti danno del lei per stabilire una certa vicinanza, la giusta e necessaria empatia con il cliente. «Ciao Hanne» saluta e si siede. Apre una cartella. Dà un’occhiata veloce. «Come ti senti?» «Indolenzita» risponde lei. La sua voce è secca, le labbra secche. La mascella si rifiuta di allentare la stretta. Deglutisce. «E stanca.» «Beh, è normale dopo un attacco epilettico.» «Io non sono epilettica.» «Non dico che tu lo sia» precisa il dottore. «Hai avuto un attacco epilettico. Può dipendere da molte cose.»

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«Quali?» «È quello che cercheremo di capire.» Si interrompe. Guarda entrambi e poi di nuovo lei. «Vorrei che mi raccontassi cos’è successo esattamente. Che ne dici?» Hanne scosta i capelli dalla faccia e con le unghie sfiora il livido sulla fronte. «Ero a letto» spiega. «Ho sentito caldo e mi girava la testa. Mi sono alzata e sono andata in bagno. Ho aperto il rubinetto, mi sono sciacquata il viso. Mi sono guardata allo specchio e una luce mi ha accecato. Poi mi sono svegliata nell’ambulanza.» «Puoi descrivermi quella luce? Era un flash fotografico?» «No. All’inizio era come una nebbia e poi è diventato un alone molto brillante.» Il dottore prende appunti. Il rumore della penna che graffia la carta è fastidioso. Hanne solleva il mento e socchiude le palpebre. Riesce a malapena a intravedere una calligrafia illeggibile. «Perché eri a letto?» chiede di nuovo il dottore. «Ti sentivi debole, avevi la nausea?» «Sì, credo di sì» risponde lei incerta. «Eravamo… È l’anniversario della morte di mio figlio e ci hanno detto, il terapeuta ha detto che sarebbe stato meglio passarlo in famiglia guardando dei video e cose del genere. Forse… avevo bisogno di stendermi un attimo.»

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Il dottore annuisce e sussurra «Capisco.» Anche se forse no, non capisce, perché abbassa lo sguardo sulla sua cartella clinica. E di nuovo scrive a lungo. Lei osserva il movimento della mano sui fogli. Non è la mano di un dottore. Dalle falangi spuntano peli neri. Le dita sono grosse e le unghie squadrate. Scrive come scriverebbe un macellaio, affilando un coltello contro l’altro. Quando finisce pugnala il paragrafo con un punto e a capo. Si schiarisce la voce e riparte con un’altra domanda. «Hai avuto degli svenimenti negli ultimi mesi?» «No.» È un no perentorio, che nasce al centro del palato, si allunga ed esplode sulle labbra di Hanne che disegnano in modo quasi perfetto l’ultima lettera. No. No a tutto. È una dichiarazione di intenti, un breve manifesto individuale. «Voglio dire…» Il dottore sorride. Gli hanno appena chiuso una porta in faccia. «Non dev’essere per forza un attacco di convulsioni. Potresti quasi non essertene accorta. Un’assenza, come se perdessi coscienza mentre guardi la televisione o leggi un libro… Hai mai avuto la sensazione di esserti persa un discorso o un pezzo di film?» «Non lo so. Può darsi.» Il dottore rimastica questa risposta con aria scettica. Hanne si accorge che si sta preparando ad attaccare, indugia. È abituata a essere guardata co-

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sì dalle persone, con gli occhi torvi, come si guarda una bambola vudù. «Com’è stato l’ultimo anno? Dopo la morte di…» Ci pensa due volte e abbassa lo sguardo. «Voglio dire… Vedo nel tuo fascicolo che sei sotto trattamento psichiatrico. Hai cominciato con il Celexa e il Paxil e, da un po’ di tempo, il Wellbutrin. Non è un problema, è normalissimo. Fai uso di droga? Alcol? Fumi?» «Solo roba legale. Sì, bevo e fumo, ma non tanto.» «Quanto è “non tanto”?» «Qualche bicchiere il pomeriggio o la sera. Non tanto. Fumo un pacchetto al giorno o un po’ di più.» «Precedenti episodi di depressione?» «Nessuno» esita come se dietro di lei ci fosse un poliziotto che incrocia le braccia sul petto. «Beh… i primi anni, subito dopo aver avuto Joan. Lasciai il lavoro di ricercatrice e ci misi un po’ a ripartire e a riprendere il lavoro. Poi, per dei periodi, sono stata in cura.» «Assumevi dei farmaci?» «A volte.» «Senza ricetta?» «A volte.» «Quando sei tornata al lavoro?» «Mai più. Scrivo per delle riviste e collaboro con l’Università. Scrivo anche per siti specializzati e blog; l’ho fatto, tempo fa.»

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«Eri in cura da un…?» «Una psicologa. Dopo la morte di Joan mi ha mandato da uno psichiatra.» Il dottore ripassa con un dito la cartella clinica di Hanne, ma in realtà sta solo prendendo tempo prima di sparare la domanda successiva. «Hai mai avuto pensieri suicidi?» Stavolta Hanne sospira e sorride ironica, come se le avessero fatto una critica che, in qualche modo, si aspettava. «Non capisco che c’entri… No. Mai.» Il dottore dirige lo sguardo verso Arnau. Lo fa senza dissimulare e Hanne sbuffa e guarda dall’altra parte. Batte i tacchi per terra e, per via delle oscillazioni, è cosciente delle proprie ginocchia, che vanno su e giù. Si pianta le unghie nelle cosce e torna a guardare davanti a sé, la bocca arricciata in una grinza. «Bene» conclude il dottore. Annuisce diverse volte, forse troppe. «Vediamo. Dall’encefalogramma e dai sintomi io direi che hai avuto un attacco parziale complesso di epilessia del lobo latero-temporale. So che sembra strano ma non è così insolito, viste le circostanze. Potrebbe essere dovuto a una depressione prolungata – a cui tutto fa pensare –, a un’ansia ricorrente o a una lesione accidentale o tumorale. Come ho già detto, io scommetto che si tratta

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delle prime due. Tuttavia, dalla risonanza magnetica abbiamo visto qualcosa che non mi piace.» «Ho un tumore?» Il dottore intrappola la sorpresa in un grugnito e poi in un sorriso tirato che cancella subito. «Lasciami spiegare» dice. «Perché me ne avete fatte due?» Il dottore si passa la lingua sulle labbra e guarda Arnau. Intuisce com’è fatta Hanne o se lo immagina. È una di quelle che prendono l’iniziativa, di quelle che sculacciavano i figli nel cortile della scuola e che fanno domande anche se conoscono già le risposte. Una che tira fuori le unghie e si difende perché si sente fuori posto, messa sul patibolo del senso di colpa da ormai troppo tempo. Per cui, in un certo senso, è confusa e insieme arrabbiata, ma anche sfinita, e questo la fa sentire come una leonessa in gabbia. «Perché non ci sembrava attendibile il risultato della prima» spiega senza neanche l’ombra di un sorriso sulla faccia. «E adesso lo è?» Non risponde. Si alza in piedi. La luce si abbassa con un comando vocale e dal soffitto vengono proiettati sei cervelli che restano sospesi in aria. Alcuni sui toni del blu, altri del giallo e altri ancora del rosso brillante. «Hanne,» dice «ti presento il tuo cervello.»

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Con un leggero movimento delle mani, seleziona un’immagine, la ingrandisce e si introduce al suo interno. «In entrambe le risonanze compaiono delle macchie nel lobo temporale destro. Sono piccole, ma se ingrandiamo l’immagine puoi vederle qui, qui e qui.» Ogni volta che ne indica una in quel cielo di materia bianca si illumina una stella. «Sono ovunque. Ne ho contate tredici ma potrebbero essercene di più.» «Quindi» interviene Arnau, «sono tumori?» «Così tanti? No. Nelle risonanze il tessuto tumorale appare come una macchia scura, questo è certo, ma ha forma irregolare e con protuberanze di diversa densità e colorazione più chiara. Ma qui…» Il dottore osserva la costellazione formata da quei punti nel cervello di Hanne. Lo fa nel modo in cui lo farebbe uno sciamano, come se fosse in grado di interpretare il mondo a partire dal caos. «Qual è il problema?» «Sono delle piccole sfere» rivela. «Semplici buchi nella massa cerebrale.» Li osserva e solleva una mano prima dell’inevitabile. «È assurdo, sì. Voglio dire che… non è molto logico. Ho pensato a un problema tecnico per questo ho fatto ripetere l’esame.» «Quindi» continua Hanne, «qual è la diagnosi?» Il dottore torna alla scrivania. Le immagini olografiche scompaiono e la luce riacquista intensità.

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«Per il momento, non mi pronuncio» risponde. «Non posso, né devo, fare una diagnosi senza avere risultati sicuri. Lunedì ti faranno dei prelievi, analisi e anche un’iniezione lombare. Ti avviso: fa male. In funzione dei risultati ci muoveremo in un senso o nell’altro.» «Ma…» «Sta’ tranquilla, non abbiamo ancora dati certi. Le prime analisi mi dicono che potrebbe essere un tumore, ma ho bisogno di qualcosa in più perché quelle macchie nere non corrispondono a niente di tutto quello che ho visto finora. Voglio che ti riposi. Non pensarci troppo. Pensi di riuscirci?» «Va bene.» «Hai avuto vuoti di memoria ultimamente?» «No.» «Ti farò delle domande.» Hanne fa una smorfia. «Qualche problema?» chiede il dottore. «So che sei ancora confusa, ma tu cerca di essere sincera e rispondimi la prima cosa che ti viene in mente. D’accordo?» Arnau fa sì con la testa. Quel gesto è un atto di ammenda. Lei si nasconde dietro i capelli che le piovono sugli occhi. Il dottore prende tempo e fa scorrere le dita tra i fogli della sua cartella clinica. «Come ti chiami?» le chiede.

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«Hanne Janssen.» «Dove sei nata Hanne?» «A Dordrecht, Olanda.» «E vivi?» «Qui, a València.» «Puoi dirmi il tuo indirizzo?» «Camí de Montcada, 418, València. È una vecchia casa colonica ristrutturata.» «Di cosa ti occupi?» «Sono biologa marina, ma non sono più in attività.» «Come si chiamava tuo figlio?» «Joan.» «E tuo marito?» «Arnau Arnal, l’architetto.» «Sì, lo conosco.» Un sorrisetto se ne scappa verso gli angoli della bocca del dottore. Arnau si sporge in avanti e le stringe la spalla, con una sorta di vigore fraterno. «Come vi siete conosciuti?» «Durante… è abbastanza scontato. Durante un matrimonio. Io conoscevo lo sposo, lui la sposa… un classico.» «Che giorno è oggi?» prosegue il dottore. «Sabato.» «Di che anno?» «Non ho viaggiato nel tempo.» Sorride, final-

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mente, e il dottore risponde con un movimento di sopracciglia di fronte al quale lei si arrende, come farebbe un secchione in classe. «È il 7 novembre del 2032.» «Chi sono io?» «Un dottore» risponde lei e si stringe nelle spalle con un sorriso beffardo. «Non ho idea di come ti chiami.» «Sono Aleix Mestre. Non mi sono presentato. Scusami.» Sfoglia gli appunti e sospira. «Bene, penso che adesso la cosa migliore che possiate fare sia tornare a casa e riposarvi. All’ingresso vi daranno un appuntamento per lunedì e tra qualche giorno ci rivediamo con i risultati. Hai altre domande?» «Sì» gli dice lei, si volta e indica Arnau. «Chi è quest’uomo?»

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