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~atropo 路 narrativa~ 13
juri di molfetta
una cittĂ perfetta illustrato da francesco frongia
Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.
Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Francesco Frongia © Copyright 2015, Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione giugno 2015 ISBN 9788898644124
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una cittĂ perfetta
Gli ottusi si attengono alle leggi perchÊ scelgono di non scegliere. I fuorilegge, essendo meno timorosi della sconcertante varietà dell’esperienza, andando anzi, leggermente matti per gli incontri nuovi ed estremi, cercheranno di scegliere anche quando nessuna scelta sembra essere a portata di mano. Tom Robbins, Natura morta con picchio
Prologo Settembre 1997
Sebbene non si ammanti della severità della vecchia sede del tribunale, al Procuratore Capo Mauro Landi il nuovo Palazzo di Giustizia appare altrettanto autorevole e imponente. È funzionale e moderno, essenziale e austero, in linea con il secolo che sta per iniziare. Il magistrato è molto soddisfatto dell’ufficio in cui si è trasferito da poche settimane, la luce vi viene accolta da due finestre squadrate, grandi dal pavimento al soffitto, l’aria sa di pulito e l’arredamento, improntato a un rigido funzionalismo, ha la bellezza dell’appena acquistato e riflette la leggerezza di un futuro ancora tutto da scrivere. È un giorno di sole di fine estate, inaspettatamente caldo per questo periodo dell’anno. È un sole che racconta di qualcosa che si conclude, ha una nota di melanconia che sa già di autunno. I suoi raggi entrano dalle finestre prive di tende, rimbalzano sul pavimento di legno chiaro, le pareti bianche e le ante a vetri di una libreria in mogano, unica concessione al classico, ricadendo amplifi9
cati al centro della scrivania. Lì, sul rosso di un’elegante poltrona di pelle, una linea retta in gessato nero: Mauro Landi. In cima a quella figura esile e filiforme, spiccano baffi affilati e impreziositi da una patina di brillantina, occhi calmi e decisi, un cranio liscio e lucido come una lampadina accesa a illuminare un’intuizione. Seduto sulla sua imponente poltrona come su un trono, Landi attende i suoi ospiti dietro una scrivania sottile di vetro e acciaio lunga quanto la parete, dalle forme lineari e semplici, ma in grado di incutere rispetto e anche un po’ di giusto timore (come dovrebbe fare la legge, direbbe lui). Dietro al Procuratore, una parete bianca con pochi orpelli, una laurea, una bandiera, qualche fotografia in bianco e nero: le tappe di una carriera. Dall’altra parte della scrivania, tre poltroncine verdi dallo schienale basso, come in segno di rispetto verso quella su cui siede il magistrato. Varcando la soglia la stanza risplende in un’essenziale simmetria. Landi ha indicato ai suoi ospiti le poltrone lasciando scorrere il braccio, un gesto perentorio, come un direttore d’orchestra armato di un nerbo di bue. I tre direttori di sezione del Dipartimento Investigazioni Generali e Operazioni Speciali hanno preso posto. Nessuno di loro conosce la ragione 10
per cui è lì, ognuno ne immagina l’importanza dalla presenza degli altri. Con naturalezza Umberto Rinaldi, numero uno dell’antiterrorismo, si è accomodato sulla poltrona al centro, proprio davanti al magistrato, lasciando che le rispettive eleganze si specchino compiaciute, gli altri due hanno occupato quelle ai suoi lati. Attilio Lopez, responsabile della sezione informativa, ha fatto leva su età e condizione fisica per guadagnare rapidamente quella alla sua destra, prendendo posto col sorriso del vincitore. Giovanni Pedrazzi, capo dell’investigativa, ha appoggiato su quella di sinistra i suoi anni di esperienza e alcuni chili in eccesso. Pedrazzi diffida di Landi e di chiunque ambisca a esserne il braccio destro. Landi è uomo di potere, uno dei rari esemplari di torinesi ancora esistenti: un torinese di sangue. A Giovanni Pedrazzi da Roma il potere piace, sono i torinesi che non vanno giù. In città non ne sono rimasti molti ma, purtroppo per lui, hanno la tendenza a concentrarsi lì dove c’è il potere. Landi si è alzato e si è spostato davanti a una delle grandi finestre, dando le spalle ai suoi ospiti. La luce lo ha avvolto fino a farne quasi sparire l’immagine sottile. Il nuovo Palazzo di Giustizia è un edificio di pochi piani eppure il suo sguardo può volare lontano. Dalla finestra del vecchio tribunale 11
gli occhi non potevano percorrere più di dieci metri, poi la vista si infrangeva contro il palazzo di fronte. Impossibile volgersi al futuro, progettare, pianificare, se non sei in grado di guardare lontano. Nella vecchia sede di via Corte d’Appello, il suo lavoro di amministratore della legge poteva solo concentrarsi sulla carta, sulle evidenze, sulle cose materiali, quelle legate alla contingenza. Era un lavoro da svolgere a testa bassa. Schedari, faldoni, documenti. Robe del vecchio secolo. Adesso è finalmente arrivato il momento di andare oltre. Ora, lo sguardo può volare libero. Il giudice Landi, adesso, ha la testa alta e vede lontano. Ciò che osserva sono chilometri quadrati di vecchie fabbriche ormai chiuse, un’ininterrotta trama di mattoni rossi e tetti spioventi, uno spazio vuoto e silenzioso. Landi ha incrociato le mani dietro la schiena e ha iniziato a parlare. La voce, a dispetto della sua immagine evanescente, gli è uscita piena e profonda. Come se a parlare fosse stata la luce stessa. «La città è piena di luoghi così», ha esordito, rivolto al panorama. «Ne erano il cuore. Da qualche anno il loro battito ha iniziato a rallentare, fin quasi a fermarsi. La grande fabbrica è finita e con lei sta morendo tutto ciò che le girava attorno. La fiat e l’indotto erano una città dentro la città, ma a breve presse e ciminiere non esisteranno più e tra un paio di decenni nessuno se ne ricorderà. Di loro, e 12
di tutto quello che hanno rappresentato, ne resterà traccia solo nei libri di storia, forse neanche lì». Poi, un po’ a sorpresa, voltando la testa in direzione dei suoi interlocutori, ha chiesto: «Sapete a quanto era il nasdaq questa mattina?». E si è interrotto, come per lasciare il tempo ai tre ispettori di azzardare una risposta. Un colpo di tosse ha tradito il nervosismo di Pedrazzi. L’indice di borsa dei titoli tecnologici sale ininterrottamente da mesi, ma è chiaro che non è la ragione per cui il Procuratore Capo ha chiamato nel suo ufficio i vertici provinciali della Digos. La domanda, in definitiva, è pura retorica, e la retorica è il piatto forte di Landi. Una pietanza che dispensa ai commensali a piccole dosi, godendo della loro crescente curiosità. «La ricchezza, una volta, nasceva lì dentro, e ci volevano braccia e sudore per costruirla. Oggi basta un dito indice». Senza smettere di dar loro la schiena, il magistrato ha alzato quello della sua mano destra, fingendo di premere su un mouse invisibile. «Click, compro. Click, vendo. E la ricchezza è lì, tra quei due movimenti quasi impercettibili e nei verbi che li accompagnano». E Landi si è finalmente voltato verso i suoi ospiti. «Comprare, vendere. Non c’è bisogno di alcun complemento oggetto. L’importante è avere qualcosa da vendere e che ci sia qualcuno disposto a comprarlo. Cosa sia quel qualcosa, alla fine, è relativo.» 13
Landi è ricomparso attraverso la luce, e con passo lento ma privo di incertezze è andato a sedersi dietro la sua scrivania. «Torino ha spazio, buchi da riempire, questo è quello che oggi può vendere per creare ricchezza, e questo è quello che intende fare. Il mondo è cambiato ed è arrivato il momento che cambi anche questa città. Il nostro compito, per il bene di tutti, è far sì che questo cambiamento avvenga senza intoppi. Nei prossimi anni la città sarà in mostra. Eventi e manifestazioni richiameranno turisti, manager, uomini di cultura. Ad aprile ci sarà l’Ostensione. Più di due milioni di pellegrini in una città che ormai ne fa sì e no novecentomila. Torino è in vetrina e questo evento sarà l’inaugurazione del negozio. Tutto dovrà essere sotto controllo. Non dovranno esserci problemi. Arriveranno pensando alla vecchia città, grigia e industriale, e dovranno trovarsi in un salotto raffinato. Senza ostentazione, una ricchezza così radicata da non richiederla. Aristocratica. Non il lusso di Milano, non ne abbiamo bisogno. Torino è colta e sa distinguere tra il necessario e il superfluo. E poi, se mi consentite un’espressione da agenzia pubblicitaria, Torino è giovane, è dinamica. Torino si muove agile, è capace di trasformarsi, di adattarsi al nuovo senza dimenticare il suo passato, le sue radici, la sua storia. L’Italia è nata qui, ma Torino ha saputo evolversi, non si è fermata ai Savoia. Torino è anche democra14
tica: non ha bisogno di mostrare il volto arrogante del potere, non è Roma, non ha bisogno di eserciti per sentirsi una capitale. Semplicemente lo è: ge-neti-ca-men-te.» Pedrazzi da Roma ha avuto un’improvvisa tensione muscolare. Si è accomodato meglio sulla poltrona e ha lasciato andare il respiro. L’Ispettore ha seguito le parole di Landi senza riuscire a celare un velo d’inquietudine. Al capo della sezione informativa non piace quello che sta accadendo alla città. Non è una questione morale o etica, è solo resistenza al cambiamento. Ama le cose stabili, prevedibili. Non gli piacciono le sorprese. «Ieri sono stato convocato dal Vescovo. C’erano anche il Prefetto, il Questore, il Sindaco e Ghigna, della Regione». Li ha pronunciati così, con tutte le maiuscole al posto giusto. Pausa. Landi ha puntato i gomiti sui braccioli e ha unito le mani come in una minacciosa preghiera. Poi ha ricominciato a parlare. «Credo che non ci sia bisogno che mi soffermi oltre sull’importanza di questo evento per la città.» Pausa, lo sguardo del magistrato ha passato in rassegna i volti dei tre ispettori in attesa di istruzioni. È arrivato al dunque e lo sanno. Landi ha sorriso, compiaciuto della loro efficienza. Da qui in poi la retorica e i giri di parole non servono più. 15
«È il momento di fare pulizia, ogni elemento perturbante deve essere allontanato dal centro. A mendicanti, senza tetto e ambulanti ci penseranno la Mobile, i Carabinieri e la Municipale. Il vostro compito è togliermi dai piedi anarchici e antagonisti, quelli delle case occupate e dei centri sociali. Voglio un’operazione decisa, devono essere sgomberati dal centro della città e messi in condizione di non avvicinarcisi. Sarete coperti dai media locali e nazionali, sono in contatto diretto con Pugliese e l’Ordine dei Giornalisti. Si scatenerà una tale campagna stampa che se proveranno a farsi vedere in centro saranno i cittadini stessi a cacciarli via, non ci sarà neanche bisogno di noi. Quello che ora ci serve è solo una storia, un casus belli che giustifichi un’imputazione che faccia paura, che risvegli fantasmi del passato. Terrorismo, voglio che si parli di terrorismo. Meglio se sotto c’è qualcosa di vero, ma non è necessario, non importa che ci siano abbastanza prove per arrivare a delle condanne. L’imputazione deve reggere qualche mese, mettere pressione, far loro paura e, soprattutto, fare paura alle persone perbene. Devono sentirsi il vuoto attorno e una pistola puntata alla testa. A quel punto, se la pistola sia carica o meno, avrà ben poca importanza». Si è fermato un attimo, chiedendosi se questa metafora sia sua, oppure se l’abbia letta da qualche 16
parte, magari sentita in qualche film americano. Poi ha ripreso a parlare, con un tono direttivo che non ammette repliche. «Riorganizzate le informazioni in vostro possesso, disponete nuove intercettazioni e pedinamenti. Potete metterci dentro quello che volete, ex brigatisti, autonomi, ultras, anarchici, leninisti, animalisti. Costruite connessioni, fate intuire legami, strategie pianificate, adombrate organizzazioni occulte, piani insurrezionali, obiettivi definiti. Avete carta bianca». «Lavoro di squadra?» ha chiesto Rinaldi. «No, non questa volta», ha risposto Landi con un sorriso affilato. Il Procuratore Capo sa come far rendere al meglio i suoi uomini. Competizione. C’è chi vince, c’è chi perde, e ci sono quelli come lui che raccolgono. «Voglio che lavoriate separatamente, ognuno nei propri ambiti di competenza. Lei Rinaldi si occuperà degli ex terroristi e degli autonomi. Non penso di dover dirle altro. So che posso fidarmi di lei e della sua esperienza». Rinaldi ha sorriso. Ha già alcune idee per la testa. Quella che Landi ha messo su ha il sapore di una gara e Rinaldi è uno che ama vincere. «Lopez, lei si farà carico degli anarchici vecchi e nuovi, quelli che ora si fanno chiamare... Mi aiuti, come si fanno chiamare? Squotter?» «Squatter, dottore, si fanno chiamare Squatter.» Landi ha sorriso. 17
«Squatter. Che termine simpatico. Squatter... Mi piace. È inglese, vero? La congiura degli squatter. Suona bene, non pensate anche voi che suoni bene? Si dia da fare Lopez, il terreno su cui sta andando a seminare ha l’aria di essere assai fertile.» Su queste parole Rinaldi si è voltato verso Lopez, cogliendone negli occhi una traccia di compiacimento. Le sue labbra hanno disegnato l’espressione sorpresa e rabbiosa di chi è appena stato morso dal proprio cane da guardia. «A lei, Pedrazzi, collettivi studenteschi e ultras». E non ha aggiunto altro, perché non c’era altro da aggiungere. L’Ispettore è sprofondato nella poltroncina verde, la sua espressione era quella della rassegnazione.
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IMMAGINE p5
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Parte prima Il tempo fa perdonare un sacco di cose.
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Io e Robi ci siamo persi quasi subito. Ho parcheggiato che il sole stava ormai tramontando, siamo scesi e ci siamo lasciati prendere dai soliti convenevoli. Nostalgia da vecchi compagni di classe, rimpatriata da reduci un po’ attempati che per una notte mettono da parte il presente e fanno finta che il tempo non sia passato. Lei è stata rapita da non so chi e portata verso il bar. Io, più abile e meno disponibile, ho distribuito saluti vaghi e poche frasi di circostanza e mi sono defilato. È lei che ha insistito perché venissi, ed è lei quella che è felice di essere qui, io sarei rimasto a casa, se lei non avesse insistito così tanto. Non ho nostalgia dei vecchi tempi, non ho alcuna voglia di ricordare e infatti, più la data del ventesimo compleanno della radio si è avvicinata, meno ho avuto voglia di far festa. «Piantala di fare quella faccia e alzati, sono giorni che non ti muovi da lì». Mi ha detto a casa, parlando ad alta voce per farsi sentire malgrado il rumore del fon con cui si stava asciugando i capelli. Non capivo perché ci tenesse così tanto. «Ce ne sono continuamente di serate in radio...», ho osservato. 23
«Appunto, Guido. Non c’è alcuna ragione per cui tu non debba venirci. È una serata come le altre, smettila con quell’espressione da funerale e vestiti.» Mi sono messo nei suoi panni (non è stato difficile, visto che indossava solo un accappatoio azzurro che le arrivava fino ai piedi) e ho visto quello che lei stava vedendo: un uomo in tuta che sul divano ingannava il tempo guardando in tv la replica di una partita di calcio giocata almeno trent’anni prima. Ho avuto pietà di me (e di lei), ho spento il televisore e sono andato a vestirmi. La sede della radio ha un ampio cortile, circondato da un basso fabbricato, vecchie officine e magazzini comunali in disuso. Bambini che giocano tra tavoli e sedie di plastica, cani che si inseguono. Il retro dell’unica palazzina di due piani, che ospita la radio vera e propria, ha un paio di finestre e un pergolato. Le finestre al piano superiore, quelle della saletta di regia, erano spalancate per far entrare il fresco di un tramonto di settembre. Sotto le finestre, all’ombra del pergolato, c’è un bancone da bar e Robi ha raggiunto gli altri lì sotto. Mi sono incamminato senza indugi verso un tendone circolare che ricorda quello di un circo, allestito al centro del cortile. Mi è sembrato un buon posto dove imboscarmi, in attesa che passi abbastanza tempo da poter tornare a casa. Ho compiuto un imperdonabile errore di valutazione di cui mi sono reso conto troppo tardi. Varcarne la soglia è stato come inciampare e ca24
dere di faccia in un album di fotografie. Una caduta così violenta che nelle foto ci sono cascato letteralmente dentro, come se avessi squarciato uno schermo di carta politenata. Accompagnate dal suono di una chitarra brasiliana, vecchie diapositive scorrono su uno schermo. Tutto intorno, lungo le pareti, ci sono cartelloni colorati pieni di immagini. Sono sospesi a mezz’aria con fili di nylon trasparente e sembra che ballino seguendo la musica, privi di peso. Sono note leggere di pianoforte e arpeggi di chitarra, e a metterla su è un armadillo con volto di donna e seno prosperoso, è lei che sceglie la colonna sonora di quello che non capisco se sia un sogno, o il tentativo di un ricordo indesiderato di venire alla luce. Fuori ho lasciato il cortile pieno di gente, qui dentro, all’improvviso, sono solo, a parte l’armadillo, che di me però non si cura. Il primo impulso è quello di scappare, ma quando mi volto scopro che non c’è più l’uscita, mi accorgo di essere prigioniero di una parete di tela cerata, di essere stato inghiottito da questo tendone che non ha alcuna voglia di lasciarmi andar via, probabilmente non prima di avermi completamente digerito. Chiedo alla dj se c’è un modo per uscire, ma senza neanche guardarmi mi fa segno di no con un dito. «Come si intitola la canzone che sta passando?» le chiedo, arrendendomi. Con le tre unghie della zampa solleva un lato della cuffia per sentire meglio la mia voce. 25
«Pioggia di marzo», risponde distrattamente, tornando ai suoi cd, «Ma nella versione italiana, quella cantata da Mina». Rassegnato come Giona in una balena sazia di ricordi, cammino sotto il tendone e passo in rassegna i cartelloni pieni di fotografie, ricordando i momenti in cui quelle immagini sono state fermate. Tra me e quegli scatti sento una distanza che sotterra i ricordi. Sono ruderi che affiorano dalla sabbia della memoria. Sono immagini di tanti anni fa, eppure sono volti noti, alcuni potrei averli incontrati questa mattina. C’è un cartellone in particolare che cattura la mia attenzione. Sopra sono incollate solo due foto, due ingrandimenti. In una c’è Elena che sta indossando le cuffie davanti al mixer e dietro di lei Ninja ride, fingendo di strozzarla. Accanto a Elena ci sono io, quindici anni più giovane. Nell’altra, un mio primo piano davanti a un microfono, ho un viso su cui l’adolescenza ha messo radici come un’acne dell’anima, eppure, quel capellone imberbe e depresso, sorride con un sorriso che sento di non essere più in grado di avere. I nostri volti fluttuano con gli altri e in quelle immagini c’è una leggerezza che sento ormai scomparsa, sepolta da un cumulo di avvenimenti, buttati l’uno sull’altro, come un mucchio di cose vecchie che non servono più. Qualcosa mi sfugge. Mi tocco la nuca e la vecchia ferita è ormai una cicatrice indurita: non sangui26
na più. I capelli sono rasati e radi e se non percepissi distintamente il contatto con la mia mano, non direi mai che la testa che sto accarezzando sia la stessa di quel ragazzo lì. «Imbecille, cosa avrai mai avuto da ridere?» dico al ventenne della fotografia, a bassa voce, come se fosse una cosa che riguarda solo me e lui. Una voce di donna si intromette in quello che mi piacerebbe fosse un dialogo, se quel ragazzo potesse rispondermi. «Il tempo fa perdonare un sacco di cose», dice la voce. Rispondo continuando a osservare il cartellone. Ho la tentazione di voltarmi, qualcosa da dentro mi impedisce di farlo. «Forse perché da così distante non si sente più il dolore e ci si può illudere che non ci sia mai stato, che a quei tempi sorridessimo sempre» e nella mia voce c’è risentimento, ma accompagnato da una nota di nostalgia che sorprende anche me. «Tutto questo mi sta mettendo melanconia.» «Anche a me» ammetto. A questo punto si presenta: «Mi chiamo Marta». «Io sono Guido» rispondo, e questa volta non posso fare a meno di guardarla, voltandomi lentamente alla mia sinistra, preoccupato per quello che potrei trovare. È alta due spanne più di me, veste di nero e mostra lunghe gambe velate da collant scuri. Ha capelli rossi di fuoco e gli occhi quieti e dolci di un lago di monta27
gna. Mi accorgo che è bellissima, ma è solo un pensiero. Sento una lama ghiacciata sferzarmi il viso. Per un attimo ho paura, ma me ne libero in fretta. Non ho voglia di averne. «Marta: Magnifica Ancora, Regalami Tristezza e Amore», sussurro tornando a guardare le fotografie. Sullo sfondo, Mina continua a cantare. È conchiglia di vetro, è luna e il falò è il sonno è la morte, è credere no è la pioggia di marzo, è quello che è la speranza di vita che porti con te. È su queste parole che inizio a capire. «Lo so chi sei», le dico, e so di non sbagliarmi. Marta non è sorpresa della mia rivelazione, dev’essere abituata a non passare inosservata. «Certo che lo sai, chiunque è in grado di riconoscere la morte, quando la incontra.» «Sei la mia morte, quindi?» «Diciamo che questa notte sono qui per te.» Immagino che dovrei sentirmi lusingato. Riguardo la mia foto appesa e mi ci specchio, come nelle acque di un fiume. Il volto che ho adesso mi piace di più, mi appare più sincero, più vero. Come se non avessi più nulla da dimostrare, o da nascondere. Mi lascio prendere sottobraccio e sento il contatto con il suo corpo. Non è freddo come pensavo. Il tendo28
ne è nuovamente aperto, ma il varco da cui ero passato, che prima era un lembo di tela legato su un fianco, ora è un portone spalancato sul buio. Mi lascio portare fuori e mentre usciamo l’armadillo mi fa un cenno di saluto. Fuori dal tendone è notte e non c’è traccia né di luna né di stelle. Anche se ovattate, distanti, sento le voci e la musica di una notte di festa, eppure il cortile è deserto. Oltre a noi, s’intravede solo una figura imponente adagiata su un esile sgabello davanti al bancone del bar, sotto al pergolato. «Ti va di bere qualcosa?» propone Marta. Accetto senza opporre resistenza. «Se non devi portarmi via, qual è il tuo compito?» le chiedo mentre ci avviamo. «Sono qui per farti ricordare». So a cosa si riferisce. È la ragione per cui qui, questa sera, non ci volevo venire, e anche quella per cui aveva ragione Robi a insistere perché lo facessi. «Sono passati quindici anni, non so se ho voglia di tornare indietro.» «Fidati di me», mi dice con dolcezza, «È la cosa giusta da fare, è il momento giusto per farla». È possibile non fidarsi della morte? Perché dovrebbe ingannare qualcuno, la morte? Cosa potrebbe ottenere che, in fondo, non sia già suo, dal primo pianto all’ultimo sospiro? E così, non ho altra scelta che seguire il suo consiglio e, camminando verso il bancone del bar, inizio a ricordare. 29
È strano, all’inizio. È come parlare di un altro io, qualcuno che ho conosciuto tanto tempo fa e che poi è scomparso, inghiottito da un androne buio, eppure so di essere quello lì, che anche lui è vero in questo improbabile gioco di doppi. Tra quest’uomo e quel ragazzo c’è uno spazio vuoto. Se esiste un rapporto, qualcosa che ci leghi, ho dimenticato cosa sia. Mi appare tutto troppo distante, come se non mi appartenesse più. Devo sforzarmi per arrivare a lui. Lo vado a cercare nella cantina polverosa della memoria e i ricordi si alzano come nuvole di sabbia, immagini confuse in improvvisi mulinelli. Per prima cosa arrivano gli odori: quello acre della nicotina stagnante, al risveglio, andando a preparare il caffè in cucina; il dolciastro dello zolfo che impregna i vestiti la domenica pomeriggio, tornando dallo stadio; e quello dei capelli di Elena, di notte, che sapevano di cannella e di pulito. Dopo è il turno dei rumori, che arrivano tutti insieme e devo tapparmi le orecchie, ma non serve a nulla, perché non è da fuori che si fanno strada, ma da qualche posto ben nascosto qui dentro la mia testa. Arrivano insieme, eppure riesco a distinguerli, uno a uno: tamburi e canzoni cantate in coro da centinaia di voci, il boato che segue un pallone finito in rete, il sottofondo ovattato di un bar in un pomeriggio d’inverno, con il gorgogliare del vapore nel bricco del latte caldo e lo sferragliare di un tram dietro la vetrina. E la musica, tanta musica, 30
come se ogni attimo di quella vita passata avesse la sua colonna sonora, come se quel ragazzo lo avesse vissuto con accanto una radio accesa. E infine arrivano le immagini. La prima è la camera di Elena. La parete dietro al letto è occupata da un foglio di carta da pacchi. Sopra c’è disegnata un’esplosione, un caos di facce urlanti, corpi nudi, scheletri di palazzi, un mondo interiore che dilania un corpo di donna, inondando l’esterno di fuoco e calore. Rabbia e amore. Corpi e incubi che si sciolgono in vapore. Quel disegno lo aveva fatto lei, a carboncino. La prima volta che lo vidi pensai di essere stato io il detonatore di quella splendida esplosione. Come al solito non avevo capito niente. Il ricordo di quegli anni è come quel quadro: tutto si sovrappone, non c’è cronologia, il rapporto causa effetto si perde in un unico flusso confuso. Tutto sta insieme, ed è quel tutto che vado a smuovere, risvegliando fantasmi. E scavando, ripulendo, facendo ordine, alla fine le ultime settimane si stagliano nitide su quel magma indistinto. Mio malgrado le ricordo, giorno per giorno. Attimo per attimo. E vedo anche lui, l’altro io che avevo sepolto nel giardino della memoria. Che speravo di non incontrare più. Vedendolo provo tenerezza e dolore. Vorrei potergli parlare, vorrei poterlo avvisare e impedirgli di commettere tutti quegli errori. Ma non posso farlo, 31
non posso cambiare ciò che è già accaduto. C’è troppa distanza tra me e lui. Non siamo più la stessa persona. È di lui, di quell’altro Guido, che inizio a ricordare, mentre Marta mi stringe a sé, portandomi verso il bar attraverso un cortile deserto.
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