Ventuno | Guillem López

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GUILLEM LÓPEZ



~atropo ¡ romanzo~ 22



GUILLEM LÓPEZ

TRADUZIONE DI FRANCESCA BIANCHI

ILLUSTRATO DA SONNY PARTIPILO


Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali Illustrazioni di: Sonny Partipilo Traduzione dallo spagnolo a cura di Francesca Bianchi

Titolo originale: La polilla en la casa del humo (Aristas Martínez, 2016, Spagna) © Copyright 2019, Eris (Ass. cult. Eris) © Copyright 2016, Guillem López © Copyright 2016, Aristas Martínez Ediciones Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Marzo 2019 ISBN 9788898644391


A Seta

La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ’sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no. Louis-Ferdinand CÉline, Viaggio al termine della notte Casa, casa, poche stanze, troppo abitate, soffocanti, da un uomo, da una donna periodicamente incinta, da un’orda di ragazzi e ragazze di tutte le età. Niente aria, niente spazio; una prigione insufficientemente sterilizzata; oscurità malattie e cattivi odori. Aldous Huxley, Il mondo nuovo Perché io so solo giocare con le parole, e fantasticare col cervello, ma in realtà sai di che cosa ho bisogno? Che andiate tutti al diavolo! Ecco di cosa. FËdor M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo



* Il patto è questo. Io vi racconterò la mia storia, quella vera, e voi la ascolterete, che vi piaccia o no, perché vi parlerò di tossici ed emarginati, di sesso, di violenza e di morte. Sicuramente lo sapete a cosa mi riferisco. Quella pulsione del cazzo quando vi dicono: non guardare in basso, invece voi lo fate, guardate, e quando tutto gira è già troppo tardi. È questa la realtà. Viviamo dentro a un abisso pieno di gallerie e tunnel. È buio, umido e puzzolente. Se chiudete gli occhi riuscite a immaginarvelo. Benvenuti nel pozzo. Qualcuno mi ha raccontato che, tempo fa, gli uomini e le donne della superficie iniziarono a scavare come dei matti, e arrivarono talmente in profondità da oltrepassare l’inferno. Nessuno sa perché lo fecero. La cosa importante è che è così che è nato il pozzo e che questo è il nostro lavoro: scavare senza sosta nuove cave e cunicoli. Forse, quando tutto sarà finito, vi riconoscerete nella folla che mi guarda inorridita mentre mi punta il dito contro. Io in realtà ci spero, siete la mia ultima speranza. Per il momento, come nelle migliori storie, non comincerò dall’inizio, ma da tre giorni dopo. Mi ero ritrovato senza lavoro. Avevo lasciato l’unico posto per cui qualcuno si degnava di pagarmi e l’avevo fatto senza avere né un piano né la minima idea di cosa sarebbe successo dopo. Ho passato quei tre giorni sbronzo e strafatto, bruciando i pochi risparmi che ave-

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vo. Quando mi sono risvegliato nel mio loculo, mangiato dalle pulci e assediato dagli incubi, ho deciso che era il momento di iniziare a preoccuparsi. Non avevo che qualche monetina, le caviglie scorticate, due piaghe sotto la lingua e il ricordo di un sogno tremendo: ero al lavoro e avevo un’erezione tale che Berretto, il mio caposquadra, si offrì di succhiarmelo. Poi iniziavamo ad azzuffarci di brutto e lui si buttava su di me con la bocca aperta e io provavo a fermarlo in tutti i modi. Terribile. Anche perché non avevo intenzione di tornare in miniera, neanche se quel disgraziato si fosse messo con tutto il suo impegno a maneggiare il mio uccello. Nel toccare il pavimento un brivido gelato morse i miei piedi scalzi. La grotta puzzava del sego caldo delle candele e di sudore acido. Erano già usciti tutti; erano rimaste solo le mosche che ronzavano sopra ai resti della colazione. Mi affacciai sulla caverna principale e mi ritrovai di fronte un gruppo di minatori koher. Lumini a olio luccicavano sui loro caschi. Le articolazioni idrauliche stridevano a ogni passo. La fuliggine nascondeva le cicatrici così come le giunture e i punti metallici che tenevano insieme carne e metallo. È quello il mio futuro, pensai. Scavare e morire, la prospettiva era quella per tutti. «Coglione.» Sentii dietro di me la voce stridula di Anca, mia unasorella. «Non dovresti essere al lavoro?» Quando mi voltai la intravidi nel buio. Il corpo scheletrico, coperto appena con degli stracci. «Tu, invece?» risposi. Lei si limitò a mostarmi la lingua, violastra, quasi blu. Poi sparì dietro la tenda del suo loculo. «Vaffanculo» biascicai. I minatori scomparvero nella caverna. Le lanterne illuminavano il tunnel con una successione di bolle dorate. In lontananza l’abisso ululava il suo alito puzzolente di umidità e zolfo. Mi appoggiai al parapetto e guardai in

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basso. Si vedeva un bagliore lontano e il pulsare dei forni e delle macchine lo sentivi nelle ossa. In quel momento, arrivarono le urla dei sacerdoti e i loro inni e, subito dopo, schiocchi di frusta e rintocchi di campane. È quello il mio futuro. A volte immaginavo me stesso di lì a qualche anno, ficcato dentro uno di quei meccaninsetti, con la pelle cucita a placche di metallo rivettato, un motore che ruggisce in mezzo alle gambe e sulla schiena le valvole e gli scarichi per il sudore. Era inevitabile. Di lì a qualche anno sarei stato trascinato al tempio e trasformato in un uomo, avrebbero benedetto le mie parti nuove e bruciato brandelli di carne e grasso in onore del dio della meccanica. È così che funziona nel pozzo, un posto dove le uniche luci sono quelle dei forni e non c’è altro suono all’infuori del tintinnio delle catene. «Unpadre ti ammazza quando scopre che non sei andato al lavoro.» Sentii di nuovo la voce di Anca. Mi girai e le mostrai i denti. Cazzo quanto la odiavo. * Ho passato gli ultimi quattro cicli della mia vita a sbriciolare pietre. Eravamo così piccoli che ci davano un martello piccolissimo, praticamente un giocattolo. Ti sedevi per terra, accanto a un mucchio di pietre stondate e dovevi farle a pezzi, più piccoli possibile. Poi arrivava Berretto, il caposquadra, li spazzava via con la sua pala e la polvere che rimaneva la portava al silo. Ancora oggi non riesco a immaginare il motivo di tutto ciò. Berretto era un idiota con una gobba enorme che gli impediva di sollevare la testa. Eppure eccolo lì, a comandare; ironia della sorte. E se la prendeva molto sul serio. Se non gli piaceva come lavoravi o i tuoi sassolini non gli sembravano abbastanza piccoli si toglieva il berretto di lana e ti picchiava con quello. A volte usava anche una sottile bac-

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chetta di metallo per frustarci, ma non succedeva quasi mai. Noi ragazzini ridevamo delle sue minacce e della sua voce roca. Col tempo ho capito che non era un cattivo caposquadra e che usava la sua stupidità come rifugio. Che fine farà? Morirà nello stesso modo in cui ha vissuto? Qua sotto ci sono molte domande senza risposta. È facile farsi fregare, perché appena inizi a pensare troppo, ti riempi la testa di supposizioni e finisci chissà dove; frughi in profondità come i minatori scavano in mezzo alle rocce e cosa trovi? Un’altra domanda e il senso di colpa. Nel mio caso parlo di quel ritardato di Berretto senza rancore, forse con un po’ di invidia. Quello fu il mio secondo fallimento nel mondo del lavoro. Quando ero poco più di un nanerottolo moccioso scuoiavo topi per il prelato della caverna nord. Girava voce che il sacerdote avesse un debole per i ragazzini. Io non ebbi mai nessun problema, ma Yello, che era un ciclo più piccolo di me, un giorno si buttò di sotto dal pozzo principale, senza un motivo apparente. Nessuno si chiese perché l’aveva fatto. Io me ne andai poco tempo dopo. Ero stufo di scuoiare topi. Frantumare pietre era altrettanto noioso ma pagavano meglio. Evidentemente la pazienza non è una delle mie qualità. Anca aveva ragione. Se unpadre avesse scoperto che avevo lasciato il lavoro mi avrebbe ammazzato. * Rimasi nascosto nel mio loculo finché non furono usciti tutti. Non era la prima volta. Quando unamadre era viva, aspettavo sotto le coperte ogni nuovo giorno. Non so perché. Guardarmi la commuoveva e se ne stava lì immobile, a osservarmi in silenzio con il suo occhio sano. Mi ricordo anche altre cose di lei, ma non ve le dirò adesso, e neanche in seguito. Non sono quel tipo di persona.

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Con unpadre era diverso. Non gliene fregava un cazzo di cosa facevo. Erano fatti miei. Niente lavoro, niente stipendio, e se alla fine della settimana non contribuivo alle casse familiari neanche con un misero cristallo arrivava il momento delle spiegazioni. Rovistai tra i resti della colazione di unpadre e degli unfratelli. Tozzi di pane ammuffito, ossa da ripulire e qualche sorso di vino. Non avevano lasciato granché. Da dietro la tenda sentii Anca succhiare rumorosamente. Con uno strattone scostai la tenda e la beccai con una mezza ciotola di brodaglia fredda. Quando provai a togliergliela mi soffiò come un ragnogatto e oppose resistenza con le unghie e con i denti, ma non poté far nulla. Si mise in un angolo a piagnucolare mentre io leccavo l’interno della scodella. Poi si rannicchiò ai miei piedi. Una cresta ossuta le deformava la pelle della schiena. Non era rimasto molto da ripulire, così si mise a leccare le mie dita sporche. Lo fece con una foga cieca, come un neonato. Abbandonò l’impresa dopo poco e senza guardarmi tornò nel suo loculo e chiuse la tenda. * La caverna iniziava a risvegliarsi. Uomini e donne infettavano la terra e i loro corpi emaciati vibravano nel buio. Lunga vita ai divoratori della pietra. Di lì a poco una folla cenciosa avrebbe iniziato a muoversi avanti e indetro nelle gallerie e nei tunnel. C’era un sovraffollamento di fame, pidocchi e miseria che ognuno si trascinava dietro con rassegnazione. Patetico. Un esercito di cadaveri ambulanti disposti a lavorare fino allo sfinimento per una misera paga e un posto sicuro dove dormire. Io ero diverso. Mi piace pensare che fossi diverso ed è per questo che ho lasciato il lavoro. Dovevo fare qualcosa, ma cosa? Immagino che qua sotto la domanda fatidica sia questa:

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che vuoi farne della tua vita? Che cosa vuoi fare di quello scampolo di tempo che ti rimane da quando ti tirano fuori dal secchio a quando ti buttano nel pozzo del riciclo? Domande, il veleno delle domande. E io senza un lavoro e senza idee, sempre arrabbiato, annoiato e arrabbiato. I miei vaneggiamenti intellettuali vennero interrotti da Unghia, un vecchio ballerino che andava in giro con un ombrello aperto sopra la testa. Nessuno sa dove lo avesse preso. Giravano voci che qualcuno lo avesse portato dalla superficie. Lui diceva che era un’eredità, anche se una volta disse di averlo trovato tra i denti di un coccodrillo morto. Nessuno gli dava retta. Era matto. Nel pozzo c’erano diversi svitati. Ognuno col suo marchio personale. Unghia aveva l’ombrello, Orbo Tre si dipingeva il corpo col gesso, Meloso andava in giro con Flor, un topo nero che portava sempre con sé dentro una sacca di pelle, Maná col suo tamburo di latta e molti altri; ogni galleria aveva il suo illuminato. E forse era la soluzione migliore qua sotto. L’ho scoperto da un po’. Unghia viveva meglio di tutti noi. Rideva di sé e degli altri, dei sacerdoti, delle guardie e delle loro bastonate, dei minatori e dei costruttori, dei chirurghi e delle bande di vampiri, rideva di tutto ma sempre con una nota macabra. A volte scommettevamo su quando lo avrebbero ritrovato col suo ombrello di carta infilato su per il culo. «Giovane!», disse quando arrivò dove ero io. «Giovane di gioventù eterna!» Non risposi. Non era necessario. Le parole non significavano nulla per Unghia. Schioccò le dita due volte e continuò per la sua strada, cantando e ballando. «I ragni hanno zampe in più», canticchiava. «È una fortuna se ne perdi una tu. Trallallà.»

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* Un po’ di tempo fa, Gago, uno degli unfratelli che vive nella nostra grotta, mi raccontò una storia su Unghia. Mi disse che era stato sacerdote del dio meccanico, che aveva vissuto in superficie, in una piramide di pietra, e che aveva volato su macchine alate, tipo dei pipistrelli di legno e metallo. Questo spiegherebbe il suo corpo non modificato, senza neanche un cavo né un circuito, perfino gli occhi sono quelli veri e non prismi multifocali come quelli dei venditori di bas. Gago mi spiegò che Unghia era impazzito quando il mondo in superficie si era sgretolato come una galleria di argilla ed era crollato a pezzi. Che il loro cielo infinito si era inquinato e che gli uomini dalla pelle scura si erano uccisi tra di loro. Unghia era fuggito nel sottosuolo, qui con noi. Perché l’avrà fatto? Quale persona sana di mente verrebbe a vivere volontariamente nel pozzo? Non bisogna dar troppo credito alle storie che racconta Gago. In parte perché continuiamo a mandare in superficie cristalli e zolfo e tanta altra merda che viene dalle profondità. Qualcuno che le compra c’è, anche se a noi non arrivano neanche le briciole di questi loschi traffici. E anche perché, come ogni sera, Gago puzzava di latte acido e i suoi denti erano marci come quelli di un tossico di bas. E perché è un maledetto figlio di puttana e non mi scordo di quando lui e gli altri unfratelli mi infilarono in un barile pieno di catrame e per poco la febbre non m’ammazza. Per me poteva cantare tutti gli inni del mondo, rimetterci entrambe le mani col suo meccapercussore o il culo in uno di quei vicoletti che frequentava per andarsi a comprare i funghi.

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* Voglio che sia chiara una cosa: unafamiglia mi vuole bene e io voglio bene a loro. È il nostro sacro vincolo. I sacerdoti della meccanica benedicono la unafamiglia. È la prima pietra su cui è stato costruito il pozzo. Tutto si regge sulla unafamiglia e sul vincolo. Unpadre, unamadre e degli unfigli di proprietà, in un loculo privato, dietro a una tenda, a succhiare gli ossi della zuppa. A volte, quando nel pozzo suona la campana del riposo, è quello l’unico rumore che si sente. Denti cariati che rosicchiano, succhiano il midollo della miseria. Lecca fuori, lecca dentro, perfora e taglia. È uno strano brusio, come un termitaio che non dorme mai. Ogni membro della unafamiglia dà quel che può e riceve quanto riesce a prendere. Così ti preparano alla vita reale. Unpadre e unfratelli sono adulti. Io e Anca non ancora. I loro corpi non sono più come erano in passato. Hanno sostituito parti ed elementi con organi meccanici che i monaci realizzano con rifiuti e ferraglia di scarto. Sono utili e lavorano bene. Ancora qualche ciclo e finiranno per diventare meccaninsetti, specialmente Ugo. Lui è un vero credente. Per due volte consecutive è stato eletto picconatore e scavatore di primo livello. Ricordo ancora la cerimonia nel tempio. Venne invitata tutta la unafamiglia e ci sedemmo in prima fila. La folla osservava in silenzio accalcandosi dietro alle grate. Non volevano perdersi nessun dettaglio. I sette eletti vennero cosparsi di olio e intonarono i cantici. Una decina di monaci batteva su tamburi di latta di ogni dimensione. Il Pater li fece giurare sul Manuale prima di raccogliere le loro offerte col bisturi e altri arnesi di ottima fabbricazione. Ugo offrì la lingua. Quando il chirurgo mostrò alla folla quella lampreda sanguinolenta si scatenò un’euforia improvvisa. Cazzo, era enorme. Gago si girò verso di me e sovrastando le grida disse che unamadre sarebbe stata

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orgogliosa. Io e unpadre non aggiungemmo altro. Penso che entrambi sapessimo che non era vero. Il mio rapporto con la unafamiglia consiste in un interminabile gioco in cui io mi nascondo e loro mi cercano. I monaci dicono che è l’età, che passa quando ti avvicini al momento in cui diventi adulto. Non so se sia così. La verità è che cerco di evitarli. Unpadre ormai non parla più. A volte sogno la sua voce ma è possibile che sia solo frutto della mia immaginazione perché non ricordo l’ultima volta che ha parlato. Nonostante tutto è un buon credente. Ha consacrato la sua vita e quella della unafamiglia al dio della meccanica. Forse se ne è pentito. Chi lo sa? L’unica cosa certa è che niente gli interessa ormai abbastanza da fargli aprire bocca. È un pezzo di carne da cui spuntano cavi e saldature. Qualunque cosa accada, se l’è meritata. * In quei giorni scoprii che non ero l’unico disoccupato perdigiorno del pozzo. Oltre alla fiumana di denutriti c’erano i fannulloni e anche quelli che non erano né vecchi né giovani e nessuno li voleva. Uomini e donne che non si erano sottoposti alle cerimonie chirurgiche e gironzolavano nei loro corpi originali, senza alcuna modifica. Ormai era troppo tardi. A quell’età la carne non accetta gli impianti né le connessioni del meccaninsetto. Non so perché succeda, ma tutti sanno che è così. Potrebbero farsi sostituire le gambe e gli occhi quasi ciechi, ma non servirebbe a nulla. Per il sistema sono inutili. E così passano il tempo ad aspettare la morte. Seduti sulle passerelle sospese o nei corridoi stretti, a masticare funghi, a fumare e a bere latte acido. Aspettano e basta, come me. Ci fu un periodo in cui facevo di tutto per morire il prima possibile. Scatenavo risse di continuo, con i mostri più

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orrendi e pericolosi che riuscivo a provocare. E infatti ho perso due denti, ho uno strano rigonfiamento tra due costole e a fatica riesco a chiudere la mano sinistra per via di una coltellata. Col passare dei cicli quella smania è scemata. Come succede agli uomini e alle donne di mezz’età. In fin dei conti, è questione di tempo. Loro raggiungeranno prima il loro obiettivo. Matematica del pessimismo. Comunque sia, avevo passato gli ultimi tre giorni a osservare tutti quegli uomini e quelle donne che non lasciano tracce quando camminano. Credo che stessi valutando varie possibilità. Sarei potuto diventare uno di loro? Forse, se fossi riuscito a evitare con qualunque mezzo la cerimonia che mi avrebbe fatto diventare adulto; se fossi fuggito dalla grotta e fossi scomparso per sempre; se avessi macinato chilometri e non più pietre e scatenato con la mia fuga l’ira dei sacerdoti. Il pozzo era un labirinto di gallerie e corridoi. Sarei potuto sgattaiolare via di notte e diventare un altro Unghia. Anche lui era privo di impianti e aveva ancora le sue mani e i suoi occhi lattiginosi e pure l’uccello in mezzo alle gambe. Fuggire senza abbandonare le profondità. Emarginarsi tra gli emarginati. Avevo solo bisogno di trovare un piano e il piano trovò me. * Ero diretto alla fumeria quando incontrai Marcio. Arrivava dalla salita della galleria sette e camminava in quel suo modo goffo, inciampando nella sua stessa ombra. I lampioni disegnavano bolle di gas blu che si riflettevano sulla sua testa pelata. Marcio era del mio stesso ciclo, anche se sembrava un vecchio con la dissenteria. Credo che non abbia mai fatto a botte e vinto. Ci pensava qualcun altro a vincere per lui. Era un miserabile vigliacco con le amicizie giuste. Lavorava come acquaiolo per gli scagnozzi di Papi Piszkos, il capo di tutti gli affari leciti

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