S&H Magazine n. 272 • Maggio 2019

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Jenny Sturm - stock.adobe.com

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ALL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI SI STUDIA UNA PLASTICA PRODOTTA DAGLI SCARTI DEL LATTE di ALESSANDRO LIGAS

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n un futuro molto vicino a noi dagli scarti della produzione del latte si potranno produrre bioplastiche biodegradabili. Questo è in sintesi uno dei tanti progetti di ricerca del team dell’Università di Cagliari guidato dal professor Aldo Muntoni, docente di Ingegneria Sanitaria Ambientale della Facoltà di Ingegneria e Architettura, che si pone l’obiettivo di unire la salvaguardia dell’ambiente con la valorizzazione delle risorse del territorio. “L’ateneo - racconta il docente - ha da oltre venti anni in essere una serie di ricerche che hanno l’obiettivo di gestire i residui, rifiuti solidi o liquidi, biodegradabili che se immessi nell’ambiente comporterebbero delle problematiche gravi ma che, se adeguatamente trattati, renderebbero alcuni cicli produttivi economicamente più virtuosi preservando l’ambiente e le risorse fossili non rinnovabili”.

Il progetto non è ancora concluso e gli studi sono oggetto di brevetto e, ad oggi, al laboratorio del dipartimento proseguono incessanti gli studi. “Il siero è il prodotto principale della lavorazione del latte durante la produzione del formaggio - specifica il docente -. Su dieci litri di latte si produce un chilogrammo di formaggio e sette/otto litri di siero che soltanto in parte verrà utilizzato per produrre la ricotta. A sua volta questa lavorazione produce un altro scarto che si chiama scotta”. Sono proprio questi due rifiuti liquidi gli attori principali della ricerca. Scarti di attività agricole che hanno una caratteristica importante ossia essere biodegradabili. “All’interno dei nostri laboratori - prosegue il professore - non facciamo altro che sfruttare questa biodegradabilità per la produzione di biopolimeri o altri prodotti utilizzabili nell’industria farmaceutica, cosmetica e nutraceutica, o che hanno valenza energetica,

come nel caso della produzione combinata di idrogeno e metano o etanolo; da un punto di vista energetico studiamo anche processi ancora più avanzati che sfruttano la capacità di alcuni batteri di convertire l’energia chimica dei rifiuti biodegradabili direttamente in energia elettrica. In definitiva, attraverso una serie di procedure caratterizzate dall’azione di batteri siamo in grado di convertire il residuo, sia liquido che solido, in qualcosa di utile. Con particolare riferimento alla produzione di biopolimeri il processo si articola su più fasi che riguardano la trasformazione del siero e della scotta, la acclimatazione di specie particolari di batteri, l’accumulo di biopolimeri all’interno della cellula batterica e l’estrazione degli stessi. Tutti questi processi sono integrabili e combinabili nell’ambito del concetto di bioraffineria per rifiuti”. All’Università di Cagliari questi processi vengono applicati anche ad altri residui organici quali le vinacce, le acque di vegetazione derivanti dalla produzione dell’olio di oliva o i reflui zootecnici, sempre in un’ottica di bioraffineria. “Un approccio questo - conclude il docente - che andrebbe a far cadere la contraddizione etica insita nelle bioraffinerie di prima generazione e consistente nella sottrazione di prodotti e aree agricoli al ciclo alimentare per destinarli alla produzione di prodotti ed energia”.


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S&H MAGAZINE Anno XXIV - N. 272 / Maggio 2019 EDIZIONE SASSARI+CAGLIARI

Direttore Responsabile MARCO CAU

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Ufficio Grafico GIUSEPPINA MEDDE Hanno collaborato a questo numero: DIEGO BONO, LUIGI CANU, DANIELE DETTORI, FRANCA FALCHI, ERIKA GALLIZZI, ALESSANDRO LIGAS, ALBA MARINI, GIUSEPPE MASSAIU, ANNALISA MURRU, MANUELA PIERRO, MARCO SCARAMELLA Redazione Sassari, Via Oriani, 5/a - tel. 079.267.50.50 Cagliari, tel. 393.81.38.38.2 mail: redazione@shmag.it

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Editore ESSEACCA S.r.l.s., Via Oriani, 5/a - Sassari Per la pubblicità: tel. 335.722.60.54

Stampa Tipografia TAS S.r.l. - Sassari

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Social & Web

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18 03 Bioplastiche biodegradabili All’Università di Cagliari si studia una plastica prodotta dagli scarti del latte

05 Giovanna Mulas Diario di viaggio di una scrittrice

06 CEAS Monte Minerva Tra il bosco e il roseto

08 Quilo Sa Razza Messaggero del rap sardo

10 Nora Virtual Tour A spasso nel tempo con i visori VR

12 EcoSardegna Un mare di sostenibilità

14 Elena Ledda Luce Mediterranea

18 Massimo Fenu e il Krav Maga Un sardo forma gli istruttori italiani

issuu.com/esseacca

20 Clamore L’album d’esordio dei Clàmor

22 Turismo Giapponese in Sardegna

Registro Stampa: Tribunale di Sassari n. 324/96. ROC: 28798. © 2019. Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre disegni, foto e testi parzialmente e totalmente contenuti in questo numero del giornale.

Le Sardegiappe fanno conoscere la Sardegna ai turisti nipponici

24 Viaggio in Italia La Puglia

25 Dinamo Banco di Sardegna Quasi certa di giocare i Playoff e a un passo dalla Europe Cup

26 HITWEETS 28 Hertz Cagliari Dinamo Academy Ancora A2 per la squadra rossoblù

29 Il dentista risponde Voglio mettere un impianto ma ho poco osso

30 Dillo a foto tue

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in Copertina

ELENA LEDDA

Foto Pierluigi Dessì / Confinivisivi


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Giovanna Mulas Diario di viaggio di una scrittrice di DIEGO BONO

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l mondo è un ricettacolo di esperienze ed ogni viaggio è un nuovo contatto di culture diverse, un’espansione della propria conoscenza, l’obiettivo ultimo di ogni grande artista. Giovanna Mulas è una stupefacente scrittrice nuorese (classe 1969) che ha fatto del coraggio e dell’audacia il proprio punto di forza narrativo. Giornalista e autrice di opere

dall’impronta originale e delicata (Dannati, La consistenza dell’acqua, Caronte), nonché vincitrice di numerosi riconoscimenti (tra cui il “Premio internazionale per l’Arte e la Cultura” nel 2008 e il “Premio alla Carriera” nel 2010), l’autrice sarda ci presenta la sua nuova fatica letteraria, avventurosa, profonda e permeata di un forte senso di divulgazione: Diario di viaggio di una scrittrice. Amazzonia, Colombia, Isole Canarie, Turchia (Catartica Edizioni).

Un saggio che assume la forma di un diario, raccontando le avventure e le esperienze di una donna, la stessa autrice, alla scoperta dei paesi più complicati dal punto di vista sociale e politico, in cui la repressione armata, la limitazione di emancipazione e di libertà, la censura, l’oppressione e le ingiustizie diventano parte della cultura popolare. Un libro che ci insegna a riflettere, pregno di dubbi, di idee, di domande sui luoghi e sulla politica, che volge lo sguardo anche verso noi stessi instillandoci una riflessione. Noi non vediamo... o non vogliamo vedere? Per rispondere a questa e ad altre domande ho chiesto aiuto alla stessa Mulas. Salve Giovanna, innanzitutto, come nasce l’idea per quest’opera? Il libro è nato come semplici appunti di viaggio durante la mia presenza in Colombia, come prima artista sarda nella storia dell’evento e in rappresentanza dell’Italia, al Festival Internazionale di Poesia Premio Nobel, in Medellin. Inoltre, con mio marito Gabriel (poeta argentino) abbiamo voluto fortemente riunirci e confrontarci con indigeni e soldati armati fino ai denti al fine di portare arte e poesia anche in Amazzonia, a Leticia e nella terribile Triple Frontera. Ha riscontrato importanti differenze culturali tra i posti visitati e il nostro paese? Tutta l’educazione dell’Occidente è basata sul principio di emulazione e competizione;

ogni ragazzo viene invitato a imparare rapidamente per gareggiare coi compagni e superarli con ogni mezzo in ciò che erroneamente chiamiamo “rivalità amichevole”. In Oriente invece lo spirito di “non separazione” è acquisito fin dall’infanzia, creando un ambiente di unione e di forte senso comunitario. Progetti futuri? Presto in Romania e in Egitto, dove recentemente è stato tradotto il mio operato, mentre durante i prossimi mesi vedrà la luce, per Ciesse Edizioni, il romanzo inedito La Teoria delle Cento Scimmie, post apocalittico, e I Cancelli del cielo per l’AG Book Publishing, contro il femminicidio, problema più che mai attuale che é, nel bene come nel male, appartenente al mio vissuto di donna e madre.


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CEAS Monte Minerva Tra il bosco e il roseto di FRANCA FALCHI

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ella splendida cornice naturale dell’ampio terrazzo trachitico che si affaccia sulla valle del Temo, nel nord ovest della Sardegna, il CEAS Monte Minerva occupa quella che un tempo era la tenuta di caccia dei nobili Diez, nella località omonima. Frequentata in passato dai Savoia, ora ospita laboratori, aule didattiche e sala convegni, mentre la casa padronale, trasformata in locanda, permette corsi residenziali per scuole e turisti. Affidato dal Comune di Villanova Monteleone all’associazione Le Cicale, il Centro, offre servizi educativi con strumenti innovativi e attività ludico-emotive da effettuare sia in classe che all’aperto. Con passeggiate sensoriali nel bosco alla ricerca di colori e profumi, laboratori creativi in aula sui materiali di scarto, si stimolano gli alunni verso un naturale senso del rispetto della natura. Tra le peculiarità riconosciute al Centro vi è quella di proporre agli utenti contenuti educativi in modo accattivante ed efficace, e ne è esempio il gioco Tutti in tavola, dove, affi-

dandosi alla fortuna e alle proprie capacità di mimare, disegnare o rispondere alle domande, si affronta il tema del mangiar sano e sostenibile, promuovendo un consumo rispettoso dell’ambiente. L’intera area è inserita da tempo nel progetto europeo Natura 2000 e area SIC per il paesaggio caratteristico e il pregio naturalistico. Il patrimonio archeologico annovera, nei dintorni del CEAS, quattro domus de janas con ambienti pluricellulari ed una protome taurina di età nuragica scolpita all’ingresso di una di queste. La querceta domina i suoi versanti con sughere, lecci e roverelle secolari e il tipico sottobosco con ginestre, eriche e ciclamini, e essenze endemiche quali la Morisia monantha e il Crocus minimus. Sono numerose le specie animali di grande interesse comunitario come il gatto selvatico, il topo quercino, la volpe, la martora, l’astore sardo e lo sparviere oltre che la maestosa aquila reale. Tra le falesie è ancora possibile avvistare il grifone, oggetto di recupero e reintroduzione col progetto Life che prevede la liberazione di alcuni


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Rosa Cardinal de Richelieu

Rosa gallica versicolor

esemplari donati da Spagna e Olanda in uno degli ambienti storicamente frequentati. Il vecchio giardino della tenuta è invece affidato all’Agenzia Forestas, nell’ambito degli interventi di salvaguardia e recupero ambientale, e ospita un vivaio forestale e la ricostruzione di un’area unica in Sardegna: l’antico roseto. Creato nel progetto di valorizzazione del territorio e con l’idea di testimoniare la presenza umana dal Medioevo ad oggi attraverso le rose antiche, tra geometrie di siepi di ligustro, secondo i canoni del giardino all’italiana, ospita diverse varietà di rose di epoca storica, dalla più antica Gallica versicolor a quelle inglesi e cinesi dei nostri tempi. Nei Weekend delle rose, negli ultimi due fine settimana di maggio, si può usufruire della visita guidata e partecipare ai laboratori a tema.


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di MARCO SCARAMELLA

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QUILO SA RAZZA Messaggero del rap sardo

ono stati i primi a dimostrare che produrre del rap in lingua sarda è possibile. Sono tornati dopo un lungo silenzio e con molto da dire. Parliamo di Sa Razza, il primo gruppo ad incidere su vinile un pezzo rap in lingua sarda, tracciando, così, un piccolo-grande sentiero per tutti coloro che, tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ‘90 in Sardegna, si stavano avvicinando al mondo dell’hip hop. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Alessandro Sanna, Quilo, fondatore, ultimo superstite e memoria storica di Sa Razza. Sa Razza è un progetto musicale nato verso la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90, in una cantina di Iglesias. La crew si avvicina alla cultura Hip Hop in un periodo in cui non esistevano internet o i social, perciò la maggiore influenza arriva dalla radio e dalla ricerca di cassette e dischi di rap americano, funk e soul. “Così, ci siamo appassionati al rap, una delle discipline della cultura Hip Hop, perché a livello musicale, di scrittura e di rime riusciva ad arricchirci maggiormente” ci racconta Quilo. Sono gli anni delle posse, movimento attivo in Italia tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, sviluppatosi parallelamente ai movimenti dei centri sociali, e che tratta temi di politica e di impegno sociale. Sa Razza registra un demo su cassetta che inizia a girare nell’ambiente under-


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ground e che, per una serie di fortunati eventi, finisce nelle mani del celebre dj Luca De Gennaro, che cura un programma di hip hop e black music, su Radio Rai. Grazie a questa cassetta demo, Sa Razza partecipa ad un grande festival a Torino per poi incidere due brani in vinile, In Sa Ia e Castia in Fundu, prodotti dalla Century Vox l’etichetta di Isola Posse e dei Sud Sound System. Da questo momento in poi Sa Razza si esibisce sia in Sardegna che nel resto della penisola, e partecipa a tantissime jam session, girando per i maggiori centri sociali italiani. Nel 1993 aprono il concerto dei Beastie Boys a Reggio Emilia insieme a Frankie hinrg mc. Sa Razza subisce diverse evoluzioni nel tempo. Nel 1994, a Torino, inizia l’esperienza di SR Razza caratterizzata da un sound un po’ G-funk, inserendosi tra i precursori di questo stile in Italia. Da questo periodo, contraddistinto dalla voglia di sperimentare che identifica Sa Razza, nel 1996 nasce un album, Wessisla. Nel 2001, con una formazione completamente diversa, Sa Razza pubblica un nuovo album dal titolo E.Y.A.A., prodotto dalla Cinevox di Roma, che li porta in giro per tante piazze, tanti festival e discoteche, raggiungendo un pubblico più vasto. Il desiderio di tornare a fare rap sardo porta a conclusione l’esperienza di Sa Razza nel 2003, con Grandu Festa. Così nascono i Malos Cantores, insieme a Micho P, in un’esperienza che prosegue fino al 2007. Da questo momento in

poi Quilo si dedica alla sua etichetta discografica, Nootempo Sardinia indie Factory, mosso dal desiderio di produrre e aiutare altri artisti. Quali sono i temi che avete trattato nei vostri testi? Siamo nati con l’idea precisa di dare un messaggio, e di trasmettere qualcosa alla gente. Abbiamo iniziato a trattare temi sociali, per cercare di portare al pubblico il disagio e la protesta che si vivevano in quel periodo. Allo stesso tempo, penso che la musica sia anche intrattenimento, quindi c’è stato spazio anche per il divertimento e l’ironia. Oggi tutto è più “fashion”, tutto è basato sull’apparire, piuttosto che sul trasmettere qualcosa. Sei tornato sulla scena dopo molto tempo con due nuovi singoli. Raccontaci di cosa parlano. Beatpolarism gioca con le due parole Beat e Bipolarismo, creando un neologismo che, provocatoriamente, diffonde una nuova patologia. Il brano nasce un paio di anni fa sul beat di Gangalistics, bravissimo artista sassarese che vive e lavora a Liverpool. È un pezzo dark e anche molto trip hop, con un testo criptico che è un manifesto della nostra generazione affetta da un beatpolarismo fatto di social, di like e fake news, che seppelliscono la nostra vera identità. Un mese dopo è uscito Nie, un pezzo completamente diverso. È una classica ballata hip hop e rappresenta una

dedica alla Barbagia, a mia madre e a Fonni che è un paese che ho nel cuore per tanti motivi. Soprattutto è una dedica alla Sardegna, terra meravigliosa che non è fatta solo di spiagge e mare. Il beat è stato prodotto da Rhamez, un artista di Oristano che apprezzo molto. A breve uscirà dell’altro materiale, perché la mia scelta è stata quella di non pubblicare un album, ma di far uscire canzoni a raffica. In questo nuovo materiale tratterò dei temi a me cari, che sono legati anche alla mia visione politica.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Il futuro per me non esiste, vivo nel presente. Quindi la mia intenzione è quella di mandare avanti noontempo.net che è una mia grande passione e che, tra l’altro, si sta espandendo a Liverpool grazie a Gangalistics. Ringraziamo Quilo per la bella chiacchierata. Per rimanere aggiornati sulle ultime novità che lo riguardano, potete seguire la sua pagina Facebook e il canale YouTube di @nootempo e il sito nootempo.net.


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di ALBA MARINI

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a realtà virtuale applicata alla nostra eredità storica è la nuova frontiera del turismo culturale. Ce lo conferma il Nora Virtual Tour che ha preso ufficialmente vita a marzo del 2019, dopo anni di gestazione. Il progetto è nato da un accordo tra l’Università di Padova e la Soprintendenza Archeologia di Cagliari, è stato diretto dal prof. Jacopo Bonetto ed è stato realizzato sotto la supervisione dell’archeologo Arturo Zara. Un impegno di eccellenza per un patrimonio culturale da rivalorizzare. Nora sorge sul promontorio di Capo di Pula, a ovest di Cagliari, ed è ricordata dalle fonti letterarie come la “più antica città della Sardegna”. Fu fondata dai Fenici e fu poi successivamente occupata dai Punici e dai Romani. Al periodo fenicio risale la celebre Stele di

Nora, datata tra il IX e l’VIII sec. a.C. e ora conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Della città fenicio-punica rimangono pochissimi cenni: il tophet, le fondamenta del cosiddetto Tempio della Dea Tanit e alcune “buche di palo” nei pressi del mare, che fanno presumere l’installazione di tende o simili da parte dei mercanti fenici. Ben più visibili sono i segni lasciati dalla civiltà romana. I resti (purtroppo non in ottime condizioni) dell’acquedotto, del teatro e dell’anfiteatro, del foro e delle terme testimoniano quanto Nora fosse strategicamente importante: scelta inizialmente come capitale della provincia di Sardegna e Corsica, fu poi municipio. L’idea dei creatori del Nora Virtual Tour parte proprio dalla consapevolezza dell’importanza storica della città di Nora e dall’esigenza di mostrare ai visitatori e ai turisti ciò che solo un

esperto può veder emergere dalle rovine: un antico splendore, la bellezza delle sale delle terme del periodo romano e la visuale aerea della città fenicia. Un vero e proprio viaggio nel passato, un’esperienza immersiva garantita dalle potenzialità della realtà virtuale. La possibilità di paragonare il prima e l’ora, un passato di monumenti che stanno in piedi con le rovine del presente: tutto questo rende il nuovo tour unico nel suo genere. L’utilizzo dei visori virtuali è stato un vero colpo di genio. Si tratta di un sistema capace di catturare l’attenzione del visitatore e che aggira anche problemi pratici come quello della luce. Per esempio, in alcune visite guidate basate sulla ricostruzione di siti archeologici o monumenti, si adoperano i pannelli interattivi oppure particolari app per gli smartphone che permettono di vedere le immagini dei tempi


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che furono. In un’area all’aperto, però, questi sistemi non sono del tutto funzionali. A seconda dell’intensità della luce del sole e dell’orario, potrebbe risultare difficile guardare gli schermi. Con i visori virtuali questo non avviene. Quelli del sito di Nora sono stati realizzati grazie ai fondi Arcus e le immagini della VR sono frutto del lavoro di modellatori 3D esperti, che hanno ricreato ambienti credibili sulla base di una lunghissima ricerca scientifica. In questo modo è possibile rendere fruibili i resti della storia, ormai deteriorati dal tempo. Come sono stati realizzati i rendering in 3D? Per prima cosa è stato progettato un modello di elevazione, ossia la rappresentazione delle quote dell’an-

tico territorio fenicio e poi romano in formato digitale. Grazie a uno studio approfondito sui materiali usati dai Romani per la costruzione degli edifici della Nora antica, come i blocchi di arenaria, i mattoni di fango, le lastre di marmo e le travi di legno, è stato possibile realizzare immagini ancora più realistiche e accattivanti. In modo da rendere il tutto più verosimile, nel sito sono stati piazzati dei punti luce come candelieri e bracieri, in modo da dare l’effetto dell’illuminazione esistente al tempo. Come si svolge il tour? Una guida con tablet alla mano conduce i visitatori all’interno del sito. Il suo tablet controlla, grazie al Bluetooth, sei visori contemporaneamente, montati sulle

teste dei turisti. L’itinerario proposto prevede diversi stop in aree specifiche del sito. Il luogo di partenza è il Colle di Tanit che, pur non essendo un vero e proprio colle, viene chiamato così perché costituisce il punto più alto dell’area peninsulare di Nora. Da qui i turisti possono avere una visuale privilegiata del panorama attuale confrontandolo, usando i visori, con quello del passato. Il colle è l’unico punto in cui è possibile immergersi nella coinvolgente realtà fenicia. I resti lasciati da questa civiltà, infatti, sono così esigui da non aver permesso di realizzare altre ricostruzioni attendibili. Quello che viene offerto ai visitatori in questa prima fase è la visione aerea della città fenicia: la realtà virtuale è capace di catturare l’attenzione rendendoli partecipi di un “volo di rondine” sul passato. Per passare da un punto all’altro i visitatori si tolgono il visore per poter paragonare ciò che hanno visto nell’ambiente simulato con le rovine. Negli stop successivi al Colle di Tanit, le ricostruzioni sono tutte basate sui resti degli edifici romani: di particolare impatto sono quelle delle terme e del teatro. Nei vari luoghi di interesse i turisti sono lasciati liberi di immergersi a 360° nella realtà virtuale, muovendosi con i visori. Una descrizione della ricostruzione accompagna l’esperienza. La guida può vedere, inoltre, ciò che ogni visitatore sta vedendo utilizzando il suo tablet e rispondere così ad ogni domanda in modo personale ed esaustivo. Il tour completo ha una durata di 90 minuti e per garantirsi l’accesso è necessaria la prenotazione al numero 070/9209138. Il sito, gestito dalle cooperative La Memoria Storica e Semata, è aperto tutto l’anno dalle 10:00. L’ultimo tour disponibile della giornata parte alle 17:30 in alta stagione e alle 16:30 in bassa stagione. Il prezzo è di €7,50 per gli adulti e di €4,50 per i bambini.


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ECOSARDEGNA: UN MARE DI SOSTENIBILITÀ di MANUELA PIERRO

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l nostro splendido pianeta sta attraversando, ormai da anni e a causa della scelleratezza dei suoi abitanti più “evoluti”, un periodo di gravissima allerta ambientale. Ultimamente, poi, gli occhi sono puntati sui nostri oceani, soffocati da tonnellate di plastica e di altri rifiuti che non vengono differenziati. A questo delirio si aggiunge un abuso indiscriminato di poche specie ittiche (ritenute molto più appetibili a livello commerciale) e a un conseguente spreco di specie valutate come meno pregiate, meno conosciute ma comunque indiscutibilmente di ottima qualità. La Sardegna, con le sue acque cristalline, sembra immune a questo tipo di problematiche ambientali, ma già da qualche anno ci si sta adoperando per una pesca “sostenibile”. Sostenibile è la pesca che sfrutta solo ciò che serve senza il minimo spreco, proponendo un consumo basato sul pescato locale, stagionale e di specie poco conosciute o definite “neglette”, ossia povere. Questo tipo di pesca considera il mare e tutte le sue risorse un bene comune, da tutelare soprattutto per le generazioni future. Per tutelare i nostri mari, però, saper scegliere cosa e quando pescare non basta. Alcune attrezzature possono cau-

sare danni addirittura irreparabili alla biodiversità e ai fondali marini. Per ovviare a questo problema, le aree marine protette ben pianificate e ben gestite possono aiutare e garantire la sopravvivenza delle specie marine. Inoltre, già da qualche anno, esistono in commercio attrezzature da pesca molto innovative che riducono sensibilmente gli impatti negativi e contribuiscono a salvaguardare la salute dei nostri oceani. Allora ecco una guida utilissima e completa sulle specie ittiche che abbondano sulle nostre coste, da scegliere per praticare un consumo responsabile e per difendere la biodiversità del nostro mare.

Barracuda o Luccio di mare (Sphyraena sp.): detto anche aruzzu in dialetto locale, è ricco di proteine, di vitamine B12 e D e minerali come il potassio. Può essere consumato in umido oppure arrosto con le patate.

Boga (Boops boops): si pesca tutto l’anno ed è un pesce dalle carni magre con un

altissimo contenuto di ferro. Si cucina in umido o al forno con olio, aglio, prezzemolo e vino rosso.

Zerro o Mennola (Spicara sp.): i nomi locali sono mendurella e zarrettu e si trova tutto l’anno, specialmente in estate. La sua polpa è molto magra e viene consumata soprattutto arrosto, insieme alla più “nobile” sardina.

Murena (Muraena helena): si può pescare tutto l’anno e la sua polpa bianca è molto proteica. Carne ottima per fritture, zuppe o in agrodolce.

Occhiata (Oblada melanura): detta anche ucciadda, è ricca di calcio e fosforo. Ideale da cucinare al cartoccio o al sale, gli esemplari più piccoli possono andare


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bene invece per zuppe o come condimento per la pasta.

può essere cotto al vapore, in tegame o al forno.

Pagello bastardo (Pagellus acarne): il suo nome locale è basuccu e si trova tutto l’anno. La sua carne gustosa è piena di calcio, magnesio, potassio e di vitamine A e D. Buono al forno, fritto o marinato.

Tanuta (Spondyliosoma cantharus) in dialetto locale cantara o tanudda si pesca specialmente in estate e può essere bollita, cotta al forno o alla griglia.

Perchia o Sciarrano (Serranus sp.): o sar­ raina, ha una polpa ricca di Omega 3 ed è molto digeribile grazie ai pochi grassi. Si può gustare in umido o in zuppa.

Pesce prete (Uranoscopus scaber) detto cuccu, è uno degli ingredienti della zuppa di pesce con un alto contenuto di calcio, ferro e selenio.

Tordo pavone (Symphodus tinca): in dialetto locale ruccari, è un’altra tipologia di pesce da zuppa.

Tracina (Trachinus draco e radiatus): chiamata anche trasgina e pescata tutto l’anno, vanta un’alta concentrazione di Omega 3 ma ha le spine dorsali e opercolari velenose. Anche questo è ottimo nelle zuppe.

Salpa (Sarpa salpa): detta anche saippa, contiene ferro, calcio, potassio, fosforo e vitamina A. Ha vari utilizzi in cucina e

Sgombro occhione o Lanzardo (Scomber japonicus): o uccioni, è ricco di Omega 3 e vitamine, può essere consumato sfilettato e condito con una semplice marinatura.

Sugarello (Trachurus sp.): conosciuto anche come suredda o sabarellu, si trova principalmente in estate. Si tratta di un pesce azzurro ricco di Omega 3 e sali minerali, consigliato per tutti i tipi di preparazioni, ma attentamente spinato e senza pelle. Oltre alla pesca tradizionale, da qualche anno è molto incoraggiato il pescaturismo. Si tratta di una pratica altamente sostenibile che permette ai pescatori professionisti autorizzati di condividere con tutti l’esperienza della pesca. Gli ospiti possono così assistere e partecipare a un’operazione di pesca e, perché no, gustare il frutto del proprio lavoro. La pesca ecosostenibile parte sì dai pescatori, ma va divulgata nel web e nelle scuole per avere risultati significativi. Sensibilizzare i più giovani attraverso la conoscenza e la promozione è un passo importante, perché non si può sperare in un futuro migliore se non diamo agli uomini e alle donne del futuro il mezzo per poter agire per il bene collettivo e dell’ambiente. E noi dobbiamo fare la nostra parte, sia perché avere una coscienza ambientale responsabile è vitale sia perché sappiamo bene che la Sardegna ha un gran bisogno di mantenere viva l’economia senza che questo gravi sulla natura che ci circonda.


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di DANIELE DETTORI foto PIERLUIGI DESSÌ

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uando le sonorità sarde incontrano l’amore per la propria terra e un’apertura mentale piacevolissima rivolta a progetti di sviluppo, promozione dei talenti e salvaguardia della cultura, è facile che si stia parlando con Elena Ledda. Noi abbiamo avuto il privilegio di farlo e, nelle righe che seguono, ripercorriamo questo incontro con l’artista che, a più voci, è stata definita come l’erede della grande Maria Carta.

ELENA LEDDA LUCE MEDITERRANEA

Quando si è avvicinata al mondo della musica? È stato da bambina. Ricordo la prima volta che mi sono esibita in pubblico: avevo nove anni. Poi, dai 12 ai 16 giravo nelle piazze per fare i primi spettacoli. Professionalmente, però, ho cominciato a 16 anni, quando ho messo su il duo con mio fratello e ho iniziato gli studi al conservatorio. La sua famiglia come ha accolto questa passione musicale? Molto bene anche perché, nella mia famiglia, la musica era un qualcosa di quotidiano. Mia mamma ha sempre raccontato che il mio bisnonno suonava la chitarra. Mio zio materno suonava l’organo e il pianoforte e la sorella di mio padre, che si chiamava come me (infatti dico sempre che la vera e autentica Elena Ledda è lei), ha sempre cantato. Forse io stessa ho iniziato anche per un’emulazione nei suoi confronti. L’adoravo, era la mia zia prediletta, la mia madrina, aveva il mio nome e quindi era anche

facile immedesimarsi e, in qualche modo cercare di imitarla. Era molto brava e io mi chiedevo come avrei potuto fare per essere alla sua altezza. Anche mio fratello suona la chitarra, con lui ho inciso i miei primi dischi e fatto i miei primi spettacoli; abbiamo suonato insieme per una ventina d’anni. Mia sorella, invece, ha studiato canto e insegna canto lirico. Insomma, in qualche modo i miei genitori l’hanno presa come una cosa normale. Quali differenze nota tra i suoi esordi e oggi? Oggi provo malinconia per i giovani che, purtroppo, non vivono quel fermento culturale che ha sperimentato la mia generazione. Trovo che per un giovane interessato all’attività musicale oggi sia molto più complicata, a meno di realizzare prodotti prettamente commerciali. Perfino fare la gavetta è difficile: i locali chiedono di portare pubblico ma quello è un compito del locale stesso o al massimo di un promoter, non di chi suona o canta. Ecco che allora, chi non ha altri mezzi, si rivolge ai talent dai quali, però, emerge solo una piccolissima parte di meritevoli. Cosa suggerisce per superare questo stallo? Intanto l’aiuto delle famiglie, che è la base. Poi è fondamentale l’educazione allo studio. Bisogna cambiare il pensiero di questi ultimi vent’anni che vede lo studio come qualcosa di non più necessario. La più grande aspirazione, spesso, è fare la ragazza o il ragazzo immagine. Di per sé non c’è niente di sbagliato ma se l’aspirazione di una persona è fare quel lavoro per non studiare, allora già questo è uno


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sbaglio. Studiando, magari laureandosi o comunque preparandosi, si acquisisce la conoscenza per fare bene quello che si vuole. I nostri nonni lo sapevano e anche i nostri genitori, tant’è che i figli hanno sempre migliorato la condizione sociale rispetto a chi veniva prima. Oggi non solo non ci si laurea ma spesso non si finisce neanche la scuola dell’obbligo. Quando si studia si hanno gli strumenti per difendersi e farsi rispettare, oltre che per fare al meglio anche il lavoro più umile. Nelle sue canzoni affronta spesso temi sociali importanti… Affronto i temi che mi colpiscono in quel momento. Amargura è uscito una quindicina di anni fa: da allora questi argomenti non sono cambiati molto: la guerra, l’incomunicabilità tra le persone (che poi è la causa delle guerre), i femminicidi e così via.

Quando le persone non si capiscono succedono sempre tragedie. Certamente, tra Amargura e Lantias, l’ultimo disco uscito nel 2018, questa esigenza è diventata ancora più forte perché i femminicidi sono aumentati in maniera esponenziale, gli attentati e le guerre sono diventati incontrollabili e si presentano sotto diverse forme. È una guerra anche quella che viviamo nel Mediterraneo, lo dico in quasi tutti i nostri spettacoli. Il Mediterraneo è stato la culla della nostra cultura e in questo momento ne è la bara, non solo perché nelle sue acque ci finiscono i nostri fratelli ma perché la nostra stessa cultura sta morendo. C’è qualcosa che non sta funzionando. Ecco, questa esigenza ha portato a scrivere un disco come Lantias dove simili argomenti sono molto più forti. Quali progetti la attendono in futuro? Non ho mai progetti per il futuro perché sto sempre sul presente. Quando hai tanti impegni nel presente per il futuro rimane poco tempo (ride, ndr). In realtà ho un’attività sempre frenetica perché sono molto curiosa per natura e quindi mi occupo di diverse cose. Oltre ai concerti per Lantias c’è Cantendi a Deus, il progetto di canti sardi che, tra l’altro, ha appena vinto un prestigioso premio assegnato dalla Radio polacca come secondo disco più bello degli ultimi 25 anni. Poi Bella Ciao, altro progetto nel quale figuro come unica rappresentante sarda, i tour all’estero, l’attività dell’Associazione Elena Ledda Vox e i prossimi concerti a Cagliari, Sant’Antioco, Iglesias e ancora Portoscuso, Livorno e via, ovunque ci si muova!



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COSMETOLOGIA

IL PROF. BORELLINI IN ESCLUSIVA IN SARDEGNA CON 2 GIORNATE DI ALTA FORMAZIONE

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l 22 e il 23 settembre 2019 il Prof. Umberto Borellini sarà a Cagliari per dedicare due giornate esclusive all’etica cosmetologica. I posti sono limitati con prenotazione obbligatoria per TopFormYou. L’obiettivo? Insegnare a leggere correttamente le etichette dei cosmetici secondo lo standard INCI. Cos’è l’INCI? L’International Nomenclature of Cosmetic Ingredients è l’elenco degli ingredienti cosmetici espresso secondo una nomenclatura standard e riportato nelle etichette dei prodotti. Spesso risulta ostico da leggere e comprendere, ma è proprio per questo

motivo che nasce il corso tenuto dal Prof. Borellini. Nell’era di internet i clienti sono diventati sempre più esigenti e attenti e vogliono conoscere cosa stanno mettendo a contatto con il proprio corpo. Il corso INCI 1 e INCI 2 è rivolto ai professionisti del benessere, ma non solo. Anche gli appassionati del settore beauty, sempre più attratti dalla cosmetica green, possono partecipare. Si tratta di un percorso culturale, dove metodo, passione e formazione si uniscono per garantire un’esperienza unica, dedicata a chi desidera riprendere in mano con coscienza la propria professione o scoprire come prendersi

cura di pelle e capelli in modo consapevole. Chi è il Prof. Borellini? Laureato in Farmacia a Trieste nel 1985, ha conseguito poi una laurea in Psicologia a San Pietroburgo per poi specializzarsi all’Università degli studi di Milano in Scienze e tecnologie cosmetiche. Come docente di Cosmetologia ha lavorato nelle migliori università italiane, dalla Sapienza di Roma alla Scuola di Medicina ad indirizzo Estetico Agorà di Milano. Nel 1999 ha fondato insieme a Cesare Manca e Stefano Anselmo la MBA (dalle iniziali dei tre), ossia la Making Beauty Academy, dove ancora insegna Cosmetologia. Il prof. Umberto Borellini è anche autore di diversi libri relativi al settore cosmetologico, come “Cosmetologia. Dalla Dermocosmesi funzionale alla cosmeceutica” edito da Ala; “Cosmetologia”, edito da Les Nouvelles Esthetiques, giunto alla decima edizione e tradotto anche in rumeno; “La Divina Cosmesi”, edito da Mondadori. Il Prof. Borellini è consulente editoriale per diverse riviste divulgative come TopSalute, StarBene, Corriere della Salute, Salute di Repubblica. Oltretutto è lui stesso autore di articoli sulla dermocosmesi per riviste professionali anche straniere, come Les Nouvelles Esthetiques, Esthetitaly, Mabella, La pelle, Evoluzione estetica, Bellezza in Farmacia e molte altre. Tra le sue prime formulazioni si ricorda Lipocaffeine, la prima in Italia a base di caffeina e per altro ancora in commercio dal 1990. Ad essa sono seguite almeno altre 300 formulazioni, dalle creme alle lozioni, dai patches ai deodoranti. Al momento, Umberto Borellini continua ad insegnare, a mettere la sua conoscenza della materia a disposizione degli iscritti ai suoi corsi in tutta Italia. Ma non solo: attualmente è anche direttore e consulente per l’industria cosmetica, farmaceutica e nutraceutica.

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MASSIMO FENU: KRAV MAGA,

UN SARDO FORMA GLI ISTRUTTORI ITALIANI di ANNALISA MURRU

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ra le discipline che trattano la difesa personale, ce n’è una che deriva dall’addestramento militare israeliano e che tutt’ora viene sfruttata in ambito militare e security. È il Krav Maga, il cui esponente italiano nel mondo è il cagliaritano Massimo Fenu. Quasi 46enne, divenne istruttore di Krav Maga nel 2011 dopo anni di esperienza nel campo delle arti marziali, iniziata, un po’ controvoglia, all’età di 12 anni. Si aggiorna

costantemente allenandosi almeno una volta all’anno in Israele e dal 2018 insegna anche all’estero. Ha investito molto sulla formazione, meritando di entrare nell’International Team, del quale fanno parte i professionisti che formano gli istruttori, e attualmente ricopre la carica di direttore di Krav Maga Global Italia. Una figura di riferimento per coloro che desiderano appropriarsi del metodo Krav Maga Global, il quale ha inevitabilmente subito un adattamento all’uso civile per

conformarsi alle leggi e alle reali situazioni di pericolo che si possono verificare nella vita quotidiana. Fu Imre Emerich Lichtenfeld, militare israeliano e talentuoso lottatore, a fondare una scuola di Krav Maga dopo il pensionamento, nel 1964. Tra i suoi allievi, il brillante Eyal Yanilov, colui che sviluppò il sistema dotandolo di un metodo e che lo esportò in tutto il mondo. Oggi il Krav Maga si serve dell’arte marziale per delineare una difesa personale focalizzata principalmente sulla prevenzione e sull’equilibrio mentale della persona nel gestire in sicurezza e con lucidità le circostanze in cui venga minata l’incolumità propria o altrui. Massimo è anche Mental Coach certificato dal 2003 e spiega che, quando decise di partecipare al corso istruttori di Krav Maga, ebbe una folgorazione: scoprì, infatti, una


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disciplina che coniuga indissolubilmente la parte atletica con quella psicologica, in cui è necessario possedere la determinazione giusta per portare a termine l’azione richiesta, nel minor tempo possibile. Era proprio quello che stava cercando. Perché l’aspetto psicologico è così importante? Perché migliora la persona. Il nostro obiettivo non è formare degli spartani, ma creare cittadini migliori, ed era anche l’obiettivo del fondatore del sistema, infatti uno dei suoi motti era “Sii così abile da non aver bisogno di uccidere”. Ci sono persone che si approcciano, anche al combattimento, con l’idea di avere potere sugli altri, ma il punto è avere potere su se stessi. Tu pensa a cosa succede nella tua mente quando una persona ti aggredisce: un caos totale. Se non sei in grado di controllare per primo te stesso, come pensi di poter gestire una situazione? Il combattimento è il modo, spesso molto efficace, per gestire l’ansia. Affrontare un aspetto così connesso con la nostra natura più intima, quindi col fatto che se noi siamo qua è perché l’uomo ha imparato a sopravvivere, a combattere in qualche modo, dà un rafforzamento enorme a se stessi. In cosa differiscono i programmi pensati per donne e bambini? Per quanto riguarda le donne, quello che si fa è aiutarle a disinnescare alcuni presupposti culturali e educativi che nella nostra società vengono dati per scontati.

Ad esempio, “le donne non combattono”, o “le donne non hanno nessuna speranza contro un uomo”. In termini biomeccanici, è ovvio che un fisico di 50 chili non parte in vantaggio contro un fisico di 80 chili, ma l’obiettivo è far capire quali sono le dinamiche con cui si sviluppa un’aggressione, che tipologie di aggressioni esistono, quali sono i loro vantaggi rispetto a un uomo se parliamo di aggressione uomo-donna e quali sono le meccaniche di aggressione in termini di mentalità. Inoltre, le donne hanno bisogno non solo di capire, ma anche di discutere tra di loro, elaborare le informazioni e portare le esperienze personali. Con i bambini, innanzitutto si facilita il range di movimento, secondariamente si sviluppano gli schemi naturali: correre e nascondersi, due skill estremamente importanti, in particolare se parliamo della sproporzione che ci può essere tra un adulto e un bambino; inoltre il bambino deve imparare a non fidarsi di tutti gli adulti e a comunicare ai genitori qualsiasi cosa che sia fuori dall’ordinario. Questo meccanismo spesso salta, nel senso che il bambino non sempre ha la capacità di discernere quello che è giusto da quello che non lo è, ma se insegniamo al bambino a raccontare, sarà poi il genitore a decidere se la situazione andava bene oppure no. La lezione è un enorme gioco e ha un ritmo molto più accelerato rispetto a quello di una lezione per adulti. Che clima si respira agli incontri di formazione in Israele? Ci sono i migliori maestri e si riuniscono i migliori istruttori e praticanti del mondo, quindi mi alleno con persone valide, scambio conoscenze, esperienze... Il viaggio è lungo e costoso, i controlli alla frontiera sono pesanti, però il grosso vantaggio consiste nel fatto che là ho la possibilità di lavorare con persone che hanno vasta esperienza operativa sul campo e capisco perché certe situazioni di difesa personale si stanno evolvendo. Chi meglio di uno che lavora, ad esempio, in un corpo speciale, può dirti se un certo tipo di addestramento funziona o no? Tutte le persone che ho conosciuto che rischiano la pelle nel lavoro che fanno, sono persone alla mano, rilassate, professionali in allenamento; sono le persone con cui ti fai meno male, in quanto non hanno bisogno di dimostrare nulla.


20 S&H MAGAZINE Marco Camedda e Laura Tuveri

CLAMORE: L’ALBUM D’ESORDIO DEI CLÀMOR di DIEGO BONO

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l panorama musicale sardo non smette mai di stupire e sfornare nuovi ed eccezionali talenti, dalle sonorità varie e multiformi, la cui bravura riesce ad oltrepassare le coste della nostra Isola raggiungendo e conquistando i palchi di tutta l’Italia con la propria espressività. È il caso dei Clàmor, band sassarese dai toni elettronici che strizzano l’occhio al pop di-

scostandosi dalla più classica musica italiana, regalando quelle acustiche fresche e moderne che hanno garantito loro un successo nazionale, tanto da portarli nel 2013 ad essere i vincitori dell’Ichnusa Music Contest, a diverse collaborazioni con chi non ha bisogno di presentazioni, i Tazenda, e nel 2014 ad essere finalisti all’Area Giovani di Sanremo con il brano Tutti cantanti.

Il gruppo vede la luce nel lontano 2012 da un’idea del frontman e tastierista Marco Camedda (figlio di Gigi, tastierista e seconda voce dei celebri Tazenda), che propone a Ilenia Romano (figlia del batterista del popolare gruppo Bertas), cantante dalla voce scintillante e seducente, l’idea di un progetto nuovo, brioso e innovativo. Dopo diversi anni il duo comprende di aver bisogno di nuovi elementi per garantire

una maggiore ampiezza sonora e una diversificazione melodica, e così comincia l’estenuante ricerca all’interno del panorama musicale sardo di artisti che possano abbracciare la concezione di lavoro di Marco, apportando idee e avvalorando il progetto. Si susseguono diverse formazioni artistiche, professionisti eclettici entrano ed escono lasciando parti della propria visione musicale, sino a giungere alla vincente squa-


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dra attuale che vede Marco Camedda (unico membro originario) ancora alla sua tradizionale doppia tastiera, Pier Piras al basso gentile, ma ritmato, la nebidese Laura Tuveri alla guida di una voce calda e incantevole, Gabriele Cau e la sua sconfinata tecnica alla chitarra e la forza dirompente di Marcello Canu alla batteria. Un sodalizio forte e tenace, che ha portato alla pubblicazione del travolgente album d’esordio Clamore, un cd composto da otto tracce tra cui Ringrazio, Presto, Su, Come foschia e anche Tutti cantanti (che diede loro il successo a Sanremo) dalle tematiche molteplici su società, mondo e sentimenti, ma unite da un senso comune. Si alternano gli intramontabili ritmi elettronici, impronta sti-

listica del gruppo, a idee rock e pop, con chitarre elettriche, sound spezzati e “progressive”, lasciando però posto anche a pezzi punk come Il diversivo (che ci riporta alle sonorità dei mitici Prozac+) e a ballate più intense e leggere come In volo libero in cui il pianoforte permette alle capacità di Laura di esprimersi in tutta la sua grandezza. Per comprendere meglio la storia di questa formidabile band e cosa si nasconde dietro il primo album ho posto qualche domanda allo storico leader Marco Camedda. Ciao Marco, innanzitutto, come nasce questo incredibile legame tra di voi? Per la verità ci conoscevamo già tra di noi, essendo tutti musicisti full time e professionisti, ma ognuno lavorava

a progetti differenti, con i propri intenti e visioni, finché pian piano non ci siamo resi conto di essere sulla stessa lunghezza d’onda e di voler comunicare determinate cose attraverso la stessa musica. Quali sono le principali ispirazioni musicali che accompagnano ogni vostro successo? Sembrerà una frase fatta, però dentro i nostri progetti c’è veramente di tutto: pop, rock, black music, elettronica, classica, canzone d’autore. Pensiamo che la musica sia un mezzo potentissimo e porsi dei limiti a livello culturale sia estremamente limitante in questo periodo storico. Ma quale filosofia muove i vostri testi? Con i nostri testi vogliamo metterci a nudo, cercare di essere trasparenti, raccontarci e raccontare la nostra percezione, le nostre idee e pensieri riguardo a quello ci circonda, troppo spesso invisibile. Arriviamo al vostro album d’esordio: perché “Clamore”? Beh, “Clamore” è stato il primo brano che abbiamo pubblicato, vista la quasi assonanza col nome della Band abbiamo pensato che fosse il nome perfetto per il nostro primo album. È arrivato quasi spontaneo. Immagino il grande impegno necessario per dare origine a questo progetto, è stato davvero così difficile partorirlo?

Difficilissimo! Riuscire a far coesistere diverse personalità e convogliarle verso un unico obbiettivo è inevitabilmente faticoso ma è anche il modo migliore per capire chi ci sta e chi no, questo spiega perché è rimasto solo un elemento della formazione originale dei Clàmor, e così come la formazione, molte cose sono cambiate dal progetto iniziale, ma il risultato ci riempie di soddisfazione! Cosa volete trasmettere e quali sono state le tematiche che avete scelto di racchiudere in questo disco d’esordio? Non c’è una tematica precisa, ma è importante che ogni testo e canzone vada ascoltato e compreso di per sé, perché l’esperienza che ogni ascoltatore ha dell’album deve essere intima e personale. Vogliamo che siano gli ascoltatori a interpretare i messaggi, nel modo che li rispecchia più nel loro profondo. E ora? Nuovi progetti per il futuro? Porterete “Clamore” in giro per la nostra Isola e in territorio nazionale? Sì, stiamo attualmente chiudendo le prime date regionali e probabilmente ci vedrete anche come Opening Act per diversi concerti dei Tazenda, una band vicina al nostro cuore sin dagli esordi, che ci ha sempre supportati, con cui, sia in ambiti familiari che professionali, siamo cresciuti e vogliamo crescere.


22 S&H MAGAZINE

Turismo Giapponese in Sardegna:

Le Sardegiappe fanno conoscere la Sardegna ai turisti nipponici di ALESSANDRO LIGAS

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i chiamano Carla Deidda e Giorgia Cesaracciu, sono due guide turistiche, e nel 2014 hanno creato il progetto Viaggi di Sardegna con l’obiettivo di far conoscere la Sardegna ai giapponesi. “In arte siamo le Sardegiappe – raccontano all’unisono le due guide turistiche -. Ci identifichiamo così, per questa nostra natura ambivalente. Nate e cresciute a Cagliari, quindi sarde, che hanno scoperto e coltivato, durante gli anni della carriera universitaria, una grande passione per il Giappone, per la sua storia, la sua cultura e non ultimo per il giapponese stesso, che pur essendo una lingua molto difficile, ci dà tante

soddisfazioni. Così è nata la nostra parte più giappa”. Carla e Giorgia sono due ragazze che hanno coniugato la loro passione per le lingue e il turismo con l’amore per la propria terra costruendosi un lavoro nato davanti ad una tazzina di caffè. “Si tiravano le somme di quello che si era realizzato – racconta Carla -. Ma soprattutto di quello che avremmo voluto fare specialmente con il giapponese. Ci sembrava assurdo che dovessimo mettere da parte anni di studio della lingua. Da quel momento abbiamo iniziato a fantasticare sull’idea di un lungo ponte che potesse unire queste due isole lontane. Mattoncino dopo mattoncino, questo

ponte lo abbiamo iniziato a realizzare veramente”. “Viaggi di Sardegna” in giapponese si dice sardinia tabi e da cinque anni è uno dei pilastri del ponte che si sta costruendo tra le due isole lontane circa 10.000 chilometri. Due territori distanti accomunati da tratti unici ma anche da profonde differenze. “Ci assimila il fatto di vivere su un’isola e quindi di avere un po’ di tratti originali che ci contraddistinguono dai nostri vicini di mare – racconta Giorgia -. Ci accomuna il fatto di essere popolazioni ospitali, un aspetto questo che ci viene riconosciuto spesso e volentieri. Ma allo stesso tempo sono tanti i tratti che ci differenziano. Noi viviamo in un mondo dove la vita, rispetto a certe loro città, scorre lenta e rilassata, mentre loro, specie nelle grandi città sono travolti da una grande frenesia e da un’organizzazione meticolosa anche nella gestione delle attività quotidiane. Loro ancora hanno un grande senso di rispetto per la comunità, per la natura che li circonda, e potremmo dire che le cose funzionano perché pensano più al bene di tutti, mettendolo in primo piano rispetto al proprio, caratteristica che forse noi stiamo tendendo a perdere”. La Sardegna è il posto ideale per il turista nipponico. Si parte dalla visita di una città come Cagliari, Alghero, Bosa o Castelsardo, per poi proseguire verso aspetti noti e poco noti della cultura isolana. Dalle visite alle cantine alle lezioni di cucina, dai paesaggi baciati dal mare a quelli dell’interno dell’isola, senza dimenticarci di visitare i nuraghi. “I giapponesi cercano in Sardegna un posto che non faccia parte del circuito delle mete turistiche tradizionali italiane - specificano le due guide turistiche -. Cercano un posto tranquillo, dove poter fare nuove esperienze, spesso legate anche al fare piuttosto che al solo vedere. Una meta dove poter assaggiare del buon cibo e bere del buon vino. Cercano un po’ di relax facendo una passeggiata nelle stradine di un qualche borgo o nella natura. Vogliono vedere il mare, i


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suoi magnifici colori, ma solo per fotografarlo o goderne della vista, mai per fare un bagno o prendere il sole come facciamo noi. Non è nella loro cultura!”. Le sardegiappe viaggiano da sud a nord e da est ad ovest in un continuo vai e vieni alla scoperta dell’Isola, mettendo in mostra gli aspetti più peculiari della Sardegna e facendo entrare i turisti nipponici all’interno della storia e della cultura sarda, anche grazie alla scoperta dell’enogastronomia locale. “È l’aspetto che apprezzano forse più di ogni altra cosa, – proseguono le guide turistiche – amano mangiare e assaggiare cibi nuovi, cibi legati al territorio o alla sua stagionalità. Amano gustare lentamente ogni pietanza per capirne meglio il sapore, vogliono vedere da dove viene, come è stata prodotta e spesso desiderano realizzarla con le loro mani grazie ai vari laboratori e lezioni di cucina che proponiamo”. Non solo cibo, la Sardegna viene apprezzata anche per l’unicità della nostra storia. “Quando visitiamo i

nuraghi - proseguono - rimangono stupiti. Sanno che sono una delle nostre peculiarità e davanti alla loro maestosità tentano di dare il loro parere su come o chi possa essere arrivato a costruire cotanto splendore”. La Sardegna piace, attira e affascina. Si rivolgono ad un vasto pubblico (giapponese) e non ad uno specifico target. “Chiunque ami viaggiare e scoprire nuove realtà è il benvenuto - raccontano -. Molti turisti si sono innamorati della nostra isola a tal punto da voler coltivare questo amore anche una volta tornati a casa loro. I giapponesi poi, nello specifico, quando si innamorano di un posto, tendono a voler tornare e infatti tanti sono ritornati 2 o 3 volte. Ci rimproverano solo il fatto di non essere abbastanza presenti nella loro isola con informazioni o pubblicità. Pochi sanno dove sia la Sardegna, conoscono l’Italia, ma non l’Isola. Non sanno cosa si possa vedere e le meraviglie che offre”. Ulteriori informazioni su sardiniatabi.com.


I Trulli di Alberobello, il Castello Angioino di Gallipoli e vicoli medioevali di Bari

di DANIELE DETTORI

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l tour che questo mese scegliamo di intraprendere vede protagonista lo splendido tacco d’Italia. Decidiamo di atterrare all’aeroporto di Foggia: così facendo potremo godere appieno del territorio e delle bellezze pugliesi, attraversando tutta la Regione da nord a sud lungo un itinerario ideale che non mancherà di lasciare il segno. Intanto, già che siamo nei pressi della città, un giro in centro ci permette di visitare i luoghi su cui sorgevano le antiche mura e di passare per la cattedrale costruita nel 1170. Foggia è un vero e proprio forziere che racchiude un patrimonio di storia sacra, con le sue antiche chiese e le opere d’arte capaci di calare il visitatore in scenari esclusivi. Attraversiamo in auto il Ta-

voliere delle Puglie, che rappresenta per grandezza la seconda distesa pianeggiante d’Italia dopo quella Padana, e arriviamo nel territorio del Parco Nazionale del Gargano. L’area, che comprende il cosiddetto sperone d’Italia a voler considerare la vista satellitare dello stivale, si estende per oltre 120mila ettari e racchiude un ecosistema molto complesso che spazia fra ambienti montuosi, forestali e marini ospitanti numerose specie animali e vegetali. Non è il solo, per la verità, che incontriamo nel nostro viaggio. Dopo questo breve spostamento nel nord ovest della Regione, riprendiamo la marcia verso sud alla volta di un’altra area protetta, istituita nel 2004: si tratta del Parco Nazionale dell’Alta Murgia. Qui le realtà spaziano dai classici ambienti naturali a luoghi fuori dal tempo come le miniere di bauxite nella frazione

Quel viaggio attraverso l’Europa che, nel corso dell’Ottocento, i giovani intraprendevano per conoscere il mondo, lo proponiamo qui lungo il Bel Paese, alla scoperta delle nostre Regioni d’Italia.

VIAGGIO IN ITALIA

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PUGLIA di Murgetta, la valle dove sono state rinvenute orme di dinosauro ad Altamura, i resti del castello svevo a Gravina in Puglia, i parchi archeologici e via dicendo. Da qui a Bari il passo è breve e ci permette, in serata, di godere del tramonto sulla costa adriatica dall’incantevole lungomare. Bari è una città dalle diverse facce: poetica e misteriosa di notte, tra le luci soffuse dei vicoli medioevali; a misura d’uomo e turistica di giorno, tra le chiese, i musei e il castello costruito per volere di Ruggero il Normanno. Ha poi un lato nascosto e tuttavia di facile scoperta: le strade sotterranee che, grazie ai percorsi guidati, permettono di risalire i secoli e scoprire i segreti di questa città. Se, tra uno spostamento e l’altro, vorrete mangiare un boccone, la cucina pugliese non mancherà di soddisfarvi. Noi, tra-

dizionalisti incalliti, ordiniamo un piatto abbondante di orecchiette alle cime di rapa e per secondo della cervellata: una salsiccia di carne suina e bovina arricchita con pecorino e spezie. Il nostro viaggio prosegue visitando Alberobello, la città dei trulli. Queste costruzioni realizzate tradizionalmente in pietra, tondeggianti e dal tetto conico sono riconosciute dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità dal 1996. Tempo e spazio sono tiranni. Costeggiamo il Parco Naturale Terra delle Gravine e scendiamo fino a Gallipoli, caratteristica città salentina affacciata sul Mar Ionio dove si disputa annualmente la finale di Miss Mondo Italia. Risaliamo passando per Lecce e giungiamo all’aeroporto di Brindisi, giusto in tempo per il volo che ci farà salutare dall’alto l’indimenticabile Puglia.


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DINAMO SASSARI QUASI CERTAMENTE AI PLAYOFF E A UN PASSO DALLA EUROPE CUP

Coach Pozzecco ha cambiato volto alla squadra, che ha infilato una serie impressionante di vittorie di ERIKA GALLIZZI Foto LUIGI CANU

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una Dinamo Banco di Sardegna incredibile quella dell’ultimo periodo. Coach Gianmarco Pozzecco ha letteralmente cambiato volto alla squadra e “testa” ai giocatori, che hanno ripreso ad avere fiducia nelle proprie capacità, oltre che “quintalate” di attributi. Tutto questo, in campo, si è tradotto in una striscia di sette vittorie consecutive in campionato, a cui si aggiungono quelle in Fiba Europe Cup, compreso il successo nella gara di andata di finale. Insomma, la Dinamo non perde più e ha trovato una invidiabile (e vincente) solidità mentale. Tra le vittorie dell’ultimo mese spiccano quelle, peraltro sufficientemente autoritarie, colte con la Virtus Segafredo Bologna (90-72) e in casa della capolista A|X Armani Exchange Milano (93-79). Nella prima delle due partite il Banco ha trovato il bandolo della matassa nella seconda parte, dopo una prima parte piuttosto equilibrata, sospinta dalle ottime giocate di Pierre e Cooley, mentre in terra meneghina è arrivata la “gara perfetta”, come ha detto lo stesso coach Pozzecco in sala stampa. Dinamo sempre avanti, con belle accelerate e concretezza. Sono poi arrivate anche le vittorie con la Sidigas Avellino (105-84), a Pesaro (88-81) e al PalaSerradimigni contro la Germani Basket Brescia (95-87). Con Avellino il Banco ha sofferto nella prima parte, per poi scatenarsi nella seconda, bucando con impressionante continuità la retina avversaria; a Pesaro, invece, dopo un ottimo avvio, la Dinamo ha dovuto aspettare il terzo quarto per riuscire a distendersi nel proprio gioco, con Smith, Pierre, Cooley e McGee sugli scudi. L’ultima frazione, invece, è stata caratterizzata da un discreto pathos, con Pesaro rientrata in diverse occasioni sul -1, prima che Thomas e Polonara, orchestrati da un sublime Smith, chiudessero la contesa. Nel match giocato con Brescia, infine, i biancoblù hanno dovuto tribolare un po’. Dopo aver raggiunto la doppia cifra di vantaggio nel secondo quarto, infatti, al rientro in

campo dopo l’intervallo Brescia ha infilato una serie incredibile di triple ribaltando il vantaggio. Ma una perfetta ultima frazione dei sassaresi, guidati in panca dal vice-allenatore Edoardo Casalone per l’espulsione di coach Pozzecco dovuta ad un doppio tecnico, ha prolungato la striscia vincente. Due sole partite al termine della regular season: a Trieste e in casa con Cantù. In Fiba Europe Cup, invece, la Dinamo ha compiuto percorso pressoché netto. I sassaresi hanno pareggiato, 83-83, il match di ritorno dei quarti di finale col Pinar Karsiyaka, poi si sono sbarazzati, in semifinale, del Hapoel Holon con un secco 2-0 (94-89 e 105-75). Nella gara di andata della finale, invece, hanno sconfitto, di fronte ai propri tifosi, con Spissu, Thomas e Polonara monumentali, i tedeschi del S. Oliver Wurzburg per 89-84, non riuscendo purtroppo a mantenere il vantaggio di 11 lunghezze raggiunto a 2’ dalla fine. Manca solo un passettino per alzare la coppa. Coach Gianmarco Pozzecco


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HERTZ CAGLIARI: SARÀ ANCORA A2 LA FORMAZIONE DI COACH IACOZZA HA CENTRATO LA SALVEZZA DIRETTA di ERIKA GALLIZZI

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a Hertz Cagliari Dinamo Academy farà ancora la Serie A2 di basket. La squadra allenata da coach Alessandro Iacozza ha centrato la salvezza diretta, senza quindi la necessità di disputare la “lotteria” dei playout, con un rush finale di qualità e sostanza. Dopo un anno di alti e bassi, sofferenza, esonero di coach Paolini, rebus che sembravano irrisolvibili, è stato dunque centrato l’obiettivo stagionale. Cagliari avrà ancora la A2 di basket, almeno questo è ciò che ha sancito il campo. In realtà, non è ancora detto che sarà così,

perché l’ambiente cestistico nazionale parla di titolo sportivo in vendita. E non sarebbe una sorpresa, visto che la scintilla verso questa squadra, a Cagliari, non è mai realmente scoccata ed il seguito è sempre rimasto piuttosto modesto. Lo stesso proprietario, Stefano Sardara, non ha mai nascosto la sua delusione per questo e aveva già “minacciato” lo spostamento della squadra. Considerando poi che la Legabasket sta ragionando sull’opportunità di introdurre, dall’anno prossimo, l’obbligo per tutte le società di Serie A (quindi anche per la Dinamo Sassari) di avere obbligatoria-

mente una squadra Under20 per la disputa della “Junior League”, ecco che potrebbero sorgere problemi di “sostenibilità”. Tornando a quel che ha “raccontato” il campo nell’ultimo mese, la Hertz ha centrato tre vittorie su quattro gare disputate. Bucarelli e compagni hanno prima battuto la Bakery Piacenza (87-73), sfatando il tabù PalaPirastu, poi hanno perso sul campo di Jesi (102-111, sconfitta che poteva costare carissima), infine hanno chiuso il campionato con una doppietta di vittorie di valore, con la Fortitudo Bologna (94-78), promossa in Serie A, e sul campo del

Montegranaro (104-102). Con Piacenza l’Academy ha dominato la gara per lunghi tratti, con un piccolo calo sul finire del secondo quarto, prima di portare il match definitivamente sui propri binari al rientro in campo dopo l’intervallo. Nell’occasione, Miles, Diop e Johnson sugli scudi. A Jesi la squadra di coach Iacozza è stata costretta ad inseguire fin dall’inizio, con i padroni di casa che si sono allontanati sempre di più in una partita che non è stata di certo caratterizzata da grandi prestazioni difensive, mentre con la Lavoropiù Fortitudo Bologna la Hertz ha fatto un colpaccio, per quanto i bolognesi fossero già nel periodo dei pieni festeggiamenti per il ritorno in Serie A. Buon lavoro dell’Academy nel respingere gli assalti degli ospiti, con Diop e Miles che hanno risolto il match nell’ultima frazione. Sul campo della XL Extralight Montegranaro, infine, è arrivato il successo che ha sancito la salvezza. Avvio fortissimo e determinato per la Hertz, anche se poi il match, con l’andare dei minuti, si è via via equilibrato. Anche nell’ultimo quarto Cagliari ha lanciato la fuga con Diop, Allegretti, Miles e Bucarelli poi è stata ripresa dai veregrensi, con la partita che si è risolta grazie alla freddezza dei cagliaritani dalla lunetta, nel punto a punto finale.

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Il dentista risponde

Il Dott. Giuseppe Massaiu è un professionista di riferimento e opinion leader in tema di Odontoiatria Naturale e Biologica, insegna in corsi frontali e on-line argomenti clinici ed extra-clinici legati al mondo della Odontoiatria e della Medicina Naturale, Posturale e Olistica oltre che del Management e del Marketing Odontoiatrico.

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Curiosità sul mondo odontoiatrico

Voglio mettere un impianto ma ho poco osso. Che cosa si può fare?

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a moderna Implantologia Dentale ha aperto la strada a riabilitazioni della bocca e del sorriso mai viste prima. Tutte le volte in cui, a causa di malattie della bocca o di incidenti, si sono andati a perdere uno o più denti, questa soluzione arriva a sostituire l’approccio tradizionale del passato, focalizzato sulle dentiere o comunque sulle protesi mobili. Talvolta può capitare che per varie ragioni, spesso le stesse che hanno portato alla perdita del dente, non vi sia una sufficiente quantità di osso ma-

scellare o mandibolare su cui “fissare” l’impianto in titanio sopra il quale verrà applicato il dente fisso. Alcune delle cause più comuni sono la parodontite (prima chiamata piorrea), che nelle sue forme più avanzate attacca non solo le gengive ma anche l’osso sottostante il dente, facendolo infine cadere. Ancora, il riassorbimento osseo: questo si sviluppa naturalmente dopo la caduta di un dente (per qualsiasi ragione sia accaduto), in quanto l’organismo “reputa” che non ci sia più bisogno di osso visto che non è più pre-

sente un dente da sostenere. Infine, l’età o in relazione a rare predisposizioni genetiche, l’osteoporosi. In tutti questi casi l’osso non scompare del tutto ma si assottiglia, rendendo più probabile un rigetto dell’impianto dentale, in quanto questo non trova una sufficiente base su cui essere fissato in sicurezza. In tal caso, se si vuole portare avanti un trattamento implantare, si procede attraverso l’operazione di rigenerazione ossea chiamata GBR. Le tecniche sono diverse e si adattano alle specificità del caso, permettendo nella quasi totalità delle volte di ultimare con successo la terapia e ripristinare tutti i denti mancanti, regalando al paziente un nuovo sorriso.

Una delle più comuni è la ricostruzione con biomateriale e membrana, che consente di creare il giusto volume osseo mancante sia sulle arcate inferiori che su quelle superiori. Si avvia un processo dove le cellule del nostro corpo rimodellano la nuova sostanza e la integrano nel tessuto osseo naturale, facendolo crescere fino a tornare allo stato originario. Il materiale per la rigenerazione ossea può essere sia sintetico (ma biocompatibile, come ad esempio le ossa di bovino liofilizzate) sia osso proprio, prelevato da altre zone. I tempi di stabilizzazione del materiale osseo aggiunto con quello naturale variano da caso a caso, ma rientrano in un range di 6-12 mesi. Ad ogni modo, per tutto questo periodo sarà possibile applicare protesi provvisorie per garantire uno stile di vita normale mentre si dà il giusto tempo al nostro organismo per ristabilirsi e permettere l’inserimento sicuro dell’impianto dentale definitivo e dei denti fissi. Ogni mese il Dott. Massaiu risponderà ad uno di voi. Inviate le vostre domande a: dott.massaiu@shmag.it. www.studiomassaiu.it

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