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Marco Cubeddu

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Racconti di cucina

Racconti di cucina

MARCO CUBEDDU UN CUORE VAGABONDO, TRA ANSIE, PASSIONI, SCRITTURA E VITA

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Foto Giulia Ferrando

di DANIELE DETTORI V i dicono niente i romanzi Con una bomba a mano sul cuore, Pornokiller, Un uomo in fiam

me?

Se sì, avete già avuto modo di apprezzare Marco Cubeddu e la sua profondità di analisi dell’esistenza; in caso contrario, queste pagine rappresentano l’occasione giusta per conoscere da vicino lo scrittore genovese (ma sardo per parte di padre) che è stato biografo di Costantino della Gherardesca , attore per Lory Del Santo, allievo della Scuola Holden di Torino, viaggiatore con Pechino Express, e molto altro ancora. «Il viaggio con Pechinosi è tenuto in un momento molto ribollente della mia vita personale», ci racconta. «Mia mamma non stava bene e io ero ossessionato dall’idea di dovermi, in qualche modo, sistemare economicamente. La televisionesembrava la migliore opportunità per farlo; quindi ho vissuto quell’esperienza come un qualcosa che non sono riuscito a godermi fino in fondo perché avevo troppe aspettative, sia professionali che economiche. Diciamo pure che la precarietà del fare lo scrittore, così come la mia estrazione da figlio di impiegati statali con stipendio fisso, sono qualcosa che porto sempre con me: ecco perché anche oggi mi sento in parte un irresponsabile, uno che vive come un vagabondo, un homeless a Tenerife che scambia un posto dove piantare la tenda con del volontariato in un rifugio di cani abbandonati». Sì, perché Marco risponde alla nostra telefonata proprio da Tenerife, l’isola spagnola per eccellenza, la più grande e popolosa dell’arcipelago delle Canarie. Un simbolo turistico vissuto però da Marco in chiave tutt’altro che vip. Quando gli chiediamo per quanto tempo voglia trattenersi in viaggio, risponde sorridendo. «Non ne ho la più pallida idea. Per me è come una parodia di tutto quello che

dicevo di non voler essere; invece ho scoperto che mi affascina molto di più. Con la mia ragazza siamo stati nei campeggi, in qualche stanza in affitto, e adesso abbiamo la tenda piantata nel terreno di un inglese che è venuto qua con tutta la sua famiglia. Lui è costruttore, lei fotografa: stanno mettendo su casa in questa terra gigantesca, con un lago artificiale, una foresta che vogliono piantare per rendere verde anche una parte di deserto; insomma sono una famiglia grandiosa e lui fa volontariato in un rifugio di cani messo su da una signora belga, scampata due volte al cancro, la quale ha deciso di dedicare la sua vita agli animali abbandonati. Quindi, fondamentalmente, andremo a stare nel terreno di questo londinese e a fare anche noi volontariato. È un’avventura». Un’avventura. Proprio come quando, con indosso la divisa da pompiere, Marco si è trovato davanti alle situazioni più diverse. «La maggior parte di queste quando lavoravo a Torino. Dal garage, alle balle di fieno, alle macchine in fiamme, agli ascensori, passando per le persone che si vogliono buttare di sotto e per le quali c’è da gonfiare il telo. L’ho sempre vissuto come un mestiere che racchiude lo spirito migliore dell’umanità,

sia perché si aiuta chi ha bisogno sia perché si può alleggerirne i pesi. Penso alla bottiglia di vino sui luoghi del terremoto. È un lavoro che ho sempre vissuto anche come un privilegio. Mi piace quel rapporto quotidiano con una forma di eroismo che non è sbruffoneria, un andare a cercarsela, ma che anzi insegna profondamente quanto le cose contino meno delle persone. Ricordo molto bene anche la notte della ThyssenKrupp, nel 2007, quando da corso Regina Margherita si vedeva il fuoco. Quella volta sono stato testimone indiretto perché ero di servizio all’autoscala che doveva restare in caserma. Sono situazioni come quelle, tuttavia, a far emergere anche la parte di me che fa lo scrittore, che vuole narrare e descrivere ciò che prova in quel contesto. Penso che nell’essere artisti si sia anche un po’ voyeur». La domanda sulla morte – e su quale sia il rapporto di Marco con questa incognita – arriva di conseguenza. «Ne sono totalmente ossessionato, così come sono affascinato dalle catastrofi collettive. Potrei definirmi un ateo irrequieto, che in realtà sarebbe felicissimo di salutare l’esistenza di qualunque essere che si elevi dalla materia di cui è

fatto l’Universo. Qualsiasi brandello di senso possa effettivamente manifestarsi lo saluterei come una bellissima notizia, però non credo che esista. Mi piacerebbe se ci fosse un Dio che dicesse: “Non hai sprecato tutta la tua esistenza, ha avuto un senso”. Insomma, è complicato». Lo spazio ancora disponibile ci consente di indagare, brevemente, sui nuovi progetti editoriali. «Ho ripreso a scrivere un diario dopo dieci anni che non ne tenevo perché, dopo averne perso troppi o essere stati letti da ex fidanzate, avevo smesso di farlo. Adesso, però, sono in una fase in cui ho bisogno di scrivere solo per me stesso, di buttare via pagine su pagine che non siano neanche battute al computer, dove poi è fondamentale editare o vedere se c’è una virgola fuori posto. Ho bisogno che sia un flusso. Ho bisogno di fare cose diverse come scattare fotografie, conoscere persone, ascoltare le loro storie. Penso sia questo il progetto dei progetti. Da questo magma vengono fuori idee per romanzi, racconti, progetti, cantieri». Qualche consiglio di lettura? «Nabokov con il suo Lolita. Ma anche Philip Roth, Saul Bellow e, tra gli italiani, Alessandro Piperno e Michele Mari».

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