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L O U NGEDELICA Musica, passione ed emozione di MARCO SCARAMELLA
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el 2015 sono stati contattati da Malika Ayane che li ha scelti per aprire le sue date sarde di Cagliari e Sassari. Da questo momento in poi hanno aperto i concerti di importanti artisti internazionali come Robbie Williams, Kylie Minogue, Ricky Martin e dei OneRepublic nell’esclusiva location del Cala di Volpe. Ad oggi hanno all’attivo due album: uno di inediti intitolato Loungedelica, e uno di cover intitolato Acustic
Emotions. Loro sono i Loungedelica, fondati da Laura Cabras e Gianfranco Zedda. Abbiamo fatto due chiacchiere con Laura, che ci ha raccontato di questa loro avventura. Il progetto nasce nel 2007 dal fortunato incontro tra Laura e Gianfranco e dall’unione tra la lunga esperienza come chitarrista di lui e la melodiosa voce di lei. Da subito il duo inizia a preparare un proprio repertorio e, con le prime serate live nei locali, conoscono il primo musicista che poi entrerà a far parte della band,
il bravissimo sassofonista Marcello Carro. Con lui nel 2010 iniziano a fare delle serate in trio. Col tempo incontrano Matteo Marongiu ed Emanuele Pusceddu, rispettivamente gli attuali bassista e batterista della band. Fino a due anni fa, la formazione era completata da Andrea Schirru alla tastiera, sostituito poi da Riccardo Mannai. “Il nostro gusto musicale è abbastanza vario” — ci racconta Laura. “Ci piacciono moltissimo artisti come Sting, Amy Winehouse o Antonio
Carlos Jobim di cui facciamo molte cover.” Il repertorio dei Loungedelica, che in questi 12 anni è cresciuto per proporre qualcosa di sempre nuovo, comprende brani nazionali ed internazionali, arrangiati in chiave acustica, ma anche brani dance e frizzanti, in grado di far ballare il proprio pubblico. La band, quindi, parte da una base pop, passando per la bossanova e lo swing, per arrivare fino al soul. Com’è stato lavorare accanto ad artisti come Malika Ayane o Robbie Williams? Sono esperienze che non capitano tutti i giorni, ma che ci hanno fatto maturare molto e ci hanno fatto capire che bisogna viaggiare sempre coi piedi per terra ma a testa alta, consapevoli della nostra professionalità. Per questo vorremmo ringraziare i musicisti che collaborano con noi. Senza di loro non saremo quello che siamo diventati oggi. Siamo una famiglia in tutto e per tutto, sia in ambito musicale che nella vita di tutti i giorni. Che progetti avete per il futuro? Gianfranco ha ripreso a scrivere, perciò abbiamo in programma un nuovo disco di inediti che uscirà entro il prossimo anno. Inoltre abbiamo il desiderio di preparare un album di brani natalizi in collaborazione con altri musicisti. Speriamo di riuscirci. Ringraziamo Laura e Gianfranco e, se volete rimanere aggiornati sulle loro serate o sui nuovi lavori discografici, seguiteli su Facebook, YouTube e Instagram.
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Anno XXIV - N. 276 / Settembre 2019 EDIZIONE SASSARI+CAGLIARI
Direttore Responsabile MARCO CAU Ufficio Grafico GIUSEPPINA MEDDE
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Hanno collaborato a questo numero: CLAUDIO ATZORI, LUIGI CANU, DANIELE DETTORI, FRANCA FALCHI, HELEL FIORI, NIKE GAGLIARDI, ERIKA GALLIZZI, ALBA MARINI, GIUSEPPE MASSAIU, MANUELA PIERRO, MARCO SCARAMELLA Redazione Sassari, Via Oriani, 5/a - tel. 079.267.50.50 Cagliari, tel. 393.81.38.38.2 mail: redazione@shmag.it
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editoria.pubblicità.grafica grafica
Editore ESSEACCA S.r.l.s., Via Oriani, 5/a - Sassari Per la pubblicità: tel. 335.722.60.54
Stampa Tipografia TAS S.r.l. - Sassari Social & Web
$ shmag.it facebook.com/sehmagazine twitter.com/sehmagazine @sehmagazine
14 03 Loungedelica Musica, passione ed emozione
05 Mandorle di Sardegna Un generoso dono di Madre Natura
06 Su tenore La colonna sonora di un’isola
08 Kidburn Ho tanta voglia di Ottanta
10 Tuteliamo il nostro mare A Santa Teresa di Gallura il Centro Didattico Informativo del WWF Italia
12 Simone Piroddu Giovane promessa sassarese della lotta
14 Bosa Un paradiso di colori e storia
16 I Magnifici 3 Viaggio nell’arte italiana
18 Gli ebrei a Cagliari Storia di una comunità
20 Raimond Handball Sassari L’ambiziosa squadra sassarese inizia l’avventura nella A1 di pallamano
issuu.com/esseacca Registro Stampa: Tribunale di Sassari n. 324/96. ROC: 28798. © 2019. Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre disegni, foto e testi parzialmente e totalmente contenuti in questo numero del giornale.
22 Andrea Arru Da baby modello a giovane attore
25 Dinamo Sassari Chiavi della regia a Spissu, ma il corposo parco italiani perde Polonara
26 HITWEETS 28 Lola e Daniela Guide turistiche a sei zampe alla scoperta della storia antica
29 Il dentista risponde Di che cosa si può “ammalare” la bocca?
30 Dillo a foto tue
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in Copertina
BOSA: VEDUTA DEL FIUME TEMO
Foto stock.adobe.com | replica73
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La mandorla il generoso dono di Madre Natura alla Sardegna di MANUELA PIERRO
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e cercate un forziere di benessere, che possa ridurre il colesterolo, prevenire le malattie cardiovascolari, contrastare i radicali liberi, rinforzare le difese immunitarie, equilibrare il regolare decorso intestinale e rafforzare i denti e le ossa, non dovrete ricorrere alla magia o a lunghi viaggi, perché lo troverete qui in Sardegna. È la mandorla, un frutto dalle indiscutibili qualità micronutrienti la cui coltivazione specializzata risale ai primi anni del Novecento e si estendeva soprattutto nella zona del cagliaritano e di Sanluri. Oltre ad adattarsi benissimo al clima dell’isola, la sua coltivazione prolifica anche grazie alla ridotta quantità di acqua di cui queste piante necessitano, elemento addirittura fondamentale e risolutivo in una terra
che, storicamente, ha sempre dovuto affrontare il difficile problema della siccità. Ma le varietà di mandorlo sardo sono meno produttive rispetto alle altre nazionali o internazionali e, per quanto le caratteristiche qualitative e organolettiche siano in alcuni casi addirittura superiori alla media, la produzione isolana non basta a soddisfare la richiesta delle imprese dolciarie o delle industrie farmaceutiche e cosmetiche. Di seguito le specie autoctone più antiche diffuse nell’isola. La mandorla Schina de Porcu è ideale per la preparazione di dolci, specialmente per i Biancheddus. Ha una forma a cuore e i suoi semi sono molto piccoli. Ha una resa molto elevata, quindi apprezzatissima. La mandorla Arrubbia è coltivata specialmente nella zona
di Chia, nel sud dell’isola. Grazie alla grandezza del frutto e al suo sapore rustico, viene preferibilmente consumata da sola oppure nella preparazione dei confetti. La coltivazione della mandorla Cossu si estende invece in tutta l’isola, è generalmente conosciuta con il nome dialettale Mendula. I semi sono di media grandezza e vengono utilizzati soprattutto in campo dolciario e nell’estrazione degli oli essenziali. La mandorla Olla, dal guscio liscio e poco frastagliato, ha dei pori radi e molto piccoli. Il suo utilizzo è diffuso in campo dolciario, specialmente per la preparazione di torrone, amaretti, gueffus e candelaus. La tradizione culinaria in Sardegna, molto probabilmente grazie all’abbondanza delle colture, utilizza in modo costante questo frutto dalle mille
qualità nelle sue ricette. Primi della lista, gli amaretti, che si preparano con una sapiente miscela di mandorle dolci e amare; seguono il torrone, di cui la Sardegna vanta una antichissima tradizione tanto che durante feste e sagre si svolgono dimostrazioni pubbliche della sua preparazione. Come dimenticare i Sospiri di Ozieri, semplici oppure glassati o i gueffus, delicate palline di pasta di mandarle dall’aroma delizioso. E, dulcis in fundo, il gattò, conosciuto come su gateau de mendula, il croccante con miele, zucchero e limone che si prepara durante le grandi occasioni. Ancora una volta questo splendido popolo dà prova, con il suo spirito di adattamento, di riuscire a ricavare grandi capolavori dai doni preziosi di Madre Natura.
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SU TENORE
LA COLONNA SONORA DI UN’ISOLA
I Tenores di Neoneli e quelli di Bitti Remunnu ‘e Locu (a destra)
di NIKE GAGLIARDI
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iconosciuto come patrimonio orale e immateriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2006, il canto a tenore è un canto a quattro voci che rappresenta una delle più importanti forme artistiche tra quelle comprese nel patrimonio culturale sardo di matrice tradizionale. È importante anzitutto sottolineare come con la parola tenore si indichi tanto il tipo di canto quanto il gruppo di cantori che vi si dedica (e non il cantore singolo). Per quanto riguarda le origini di questa peculiare forma poetico-musicale, se si tiene conto della raffinatezza della sua struttura formale e della pluralità di varianti riscontrabili nei vari paesi in cui il canto a tenore è diffuso, esse sembrano perdersi nel tempo: le prime testimonianze scritte risalgono a un periodo compreso tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando questa modalità espressiva veniva già percepita come “antica”. Ciò che appare chiaro è che questa pratica rivestiva e ancora riveste un ruolo fondamentale in numerosi centri sardi, scandendo i momenti di
aggregazione sociale sacri e profani e dando vita a un patrimonio poetico che tuttora accoglie e restituisce, nella sua ricchezza di forme e contenuti, il ritratto delle differenti comunità isolane. Le cornici usuali delle performance di su tenore sono gli tzilleri (i bar) e le feste civili, religiose e familiari su un areale piuttosto esteso, che comprende un gran numero di paesi nel Nord e nel centro della Sardegna. Su tenore può essere sinteticamente definito come esecuzione polifonica che si avvale di una voce solista, sa boghe (la voce, appunto), la quale canta un testo poetico e viene accompagnata dagli altri tre cantori, su bassu, sa contra e sa mesu boghe i quali le forniscono una solida base armonica intonando sillabe nonsense (anch’esse suscettibili di variazioni a seconda dei paesi) e unendosi al cantore solista con successivi “blocchi” di accordi (corfos) caratterizzati da un cantato gutturale. Le formule melodico-armoniche utilizzate, ben note ai cantori, vengono variamente combinate seguendo uno schema formale tradizionale. Queste si alternano però in maniera non rigida,
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lasciando spazio all’improvvisazione e rendendo così ogni prassi esecutiva originale e irripetibile con abbellimenti e virtuosismi estemporanei che dipendono dalla sensibilità e dal gusto estetico dei componenti del tenore. Il repertorio poetico-musicale di questo canto è costituito da tre forme principali: il canto a sa boghe seria o boghe ‘e notte, che consiste in un
canto lento, malinconico. Fondato su due strutture di base, s’isterrida e sa zirada, è uno degli stili più noti e diffusi, di tematica amorosa, modulato su testi poetici costituiti da endecasillabi e legato all’usanza delle serenate notturne. Ulteriori forme sono invece la versione a tenore dei muttos, canti di contenuto umoristico o amoroso e, spesso, dagli accesi toni polemici, e il più vivace canto a boghe ‘e ballu (o canti a ballos), nato appunto per accompagnare i balli. Il canto a tenore è un simbolo identitario molto sentito dalle vecchie e dalle nuove generazioni, soprattutto in tempi in cui il declino della cultura agro-pastorale e lo spopolamento mettono a dura prova la conservazione di pratiche culturali la cui trasmissione si basa sull’oralità. Negli ultimi cinquant’anni, l’unicità di questa forma artistica ha destato l’interesse degli studiosi e di un pubblico sempre più vasto: il folk revival degli anni Settanta accende i riflettori sulla musica popolare e fa sì che alcuni gruppi di cantori divengano vere e proprie celebrità e instaurino proficue collaborazioni con artisti
internazionali, costruendo in questo modo ponti tra la musica di tradizione sarda e altri generi musicali. È il caso dei cantori di Neoneli, piccolo centro dell’oristanese, attivi dal 1976, con alle spalle tournée di centinaia di spettacoli nei cinque continenti e collaborazioni con artisti quali Giovanna Marini, Francesco Guccini, Angelo Branduardi, Ligabue, PFM, The Chieftains, Elio e molti altri. Attualmente costituito dal fondatore e direttore artistico Tonino Cau, Ivo Marras, Roberto Dessì, Peppeloisu Piras e Angelo Piras, il tenore vanta una nutrita discografia (per saperne di più rimandiamo al sito ufficiale tenoresneoneli.it) che rispecchia la volontà di intendere il canto tradizionale come qualcosa di vivo e mutevole, su cui è possibile innestare contenuti nuovi, legati all’attualità e con un loro specifico peso sociale e culturale: questo tenore inizia infatti la propria attività artistica scrivendo i primi testi di protesta relativi all’industrializzazione sfrenata, affrontando la delicata tematica delle basi militari in Sardegna, parlando di emigrazione. Altro tenore storico che ha attirato l’attenzione degli etnomusicologi e in merito al quale esiste una vasta documentazione (si veda, per citare un solo esempio, il documentario Alle radici della musica sarda – La storia dei Tenores di Bitti) è il gruppo bittese Remunnu ‘e Locu (tenoresdibitti.net), nato nel 1974, a cui peraltro si deve il merito di aver fondato, in collaborazione col comune di Bitti, la Scuola di Canto a Tenore per avvicinare i giovani a questa pratica canora. Anche i cantori di Bitti (Daniele Cossellu, Dino Ruiu, Mario Pira e Pier Luigi Giorno) possono vantare incontri e collaborazioni con artisti internazionali del calibro di Frank Zappa, Lester Bowie, Ornette Coleman e la scoperta da parte di Peter Gabriel, un incontro, quest’ultimo, suggellato dalla pubblicazione dei lavori del gruppo per l’etichetta discografica Real World. Queste sono soltanto due delle numerosissime realtà legate al canto a tenore che fioriscono in tutta la Sardegna, da Orune a Orosei, da Mamoiada a Oniferi: ognuna con un proprio specifico codice poeticomusicale e un repertorio tutto da scoprire.
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di HELEL FIORI
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’è da lavorare. C’è da essere seri. C’è da essere adulti. E si è adulti solo se responsabili, sicuri, un po’ induriti. Fa strano pensarsi cresciuti se ancora si seguono le emozioni. Se si sorride in un parco, se ancora ci si abbraccia, se si hanno dubbi. Eppure dentro ogni adulto, nascosta tra le mille cose da fare, c’è un’innocenza a cui batte forte il cuore quando incrocia uno sguardo, che si sente smarrita in cerca della propria strada, che cerca il coraggio per difendere le proprie idee.
Ce lo racconta Kidburn con la sua ultima produzione musicale “Three”, connubio di energia luminosa e voce morbida dalle sonorità inarrestabili degli Anni ’80. Rilasciato a giugno 2019 su tutte le piattaforme digitali in free streaming (Spotify, SoundCloud, YouTube, Bandcamp, Facebook, Instagram, Deezer, iTunes, AppleMusic, Amazon) già spopola sui mercati esteri. In Italia è una piccola perla segnalata tra gli appassionati del genere Synthwave, del quale Kidburn è un fedele percorritore. “Il ragazzino che brucia è un richiamo all’ardore generato dall’infanzia, momento cruciale e fondamentale dove la musica è entrata a
KIDBURN Ho tanta voglia di Ottanta
far parte inesorabilmente del mio DNA” ci spiega. “Da qui la scelta spontanea e non generata da logiche di tendenza dell’utilizzo di suoni che richiamano fortemente gli Anni 80. Una scelta artistica determinata dalla voglia di trascrivere in musica i momenti più spensierati, liberi e potenti, della mia vita artistica. Molti la chiamano 80’s nostalgia, in realtà per me è solo il vestito migliore con cui far sfilare le mie creazioni.” La paternità del progetto è tutta sua: classe 1984, cantautore, polistrumentista e produttore sassarese, prima di dedicarsi al progetto solista è stato protagonista di parecchie collaborazioni con voce e chitarra: questo probabilmente gli ha permesso di farsi un nome nel genere così da impegnarsi in un progetto più articolato. Per gli appassionati è facile rendersi conto che l’home recording non inficia il risultato, tanto che il singolo “Alone” a giugno si è piazzato trentesimo nella Top 100 Greece iTunes. L’Italia ancora sembra non essere pronta a riportare la Synthwave sulla cresta dell’onda, tuttavia il recente revival veicolato da serie come Stranger Things potrebbe essere il preludio di un’esplosione futura. Già la scorsa stagione sulle passerelle si è avuto il ritorno di volant e stivaletti, e sarebbe naturale assistere a un riaffermarsi degli 80s a trecentosessanta gradi. Imposizione calata dall’alto dei media? Difficile a dirsi: viene da chiedersi se le persone abbiano davvero voglia di Ottanta. Dalla nostra, possiamo dire che l’ascolto di Three di Kidburn non è passato senza colpo ferire: vi sfido a mettere play e non ritrovarvi davanti allo specchio mentre ballate e cantate dentro una spazzola, perché, come lui stesso ci ricorda, è una musica che brucia grazie all’ardore dell’infanzia, spen sierata, libera, illimitata, so gnante, incorruttibile, ed a volte lasciarsi andare è l’unica cosa che conta.
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TUTELIAMO IL NOSTRO MARE A SANTA TERESA DI GALLURA IL CENTRO DIDATTICO DEL WWF di ALBA MARINI
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uogo di incontro e di scambio culturale, colonna portante a livello territoriale per la tutela del mare e per la trasmissione delle notizie che lo riguardano. A luglio è stato inaugurato a Santa Teresa di Gallura il Centro Didattico Informativo del WWF Italia. Il progetto prevede la costruzione di una rete di centri territoriali che costituiscano un punto di riferimento per il pubblico, che attraverso di essi potrà avere accesso a mostre e laboratori sulla biodiversità, sulla flora, sulla fauna e sulla protezione degli oceani dall’inquinamento. Con la grande eco mediatica scatenata dagli scioperi del venerdì della sedicenne svedese Greta Thunberg, anche il tema del cambiamento climatico è entrato a far parte delle conversazioni quotidiane. Le tematiche ambientali hanno fatto breccia nei “piani alti”, ma anche nei cuori dei comuni cittadini che si sentono in dovere di tutelare il pianeta da tali sconvolgimenti. Il mare, si
sa, è al centro delle polemiche sulla tutela dell’ambiente non solo per la quantità di plastica che ogni anno finisce in acqua, ma anche per il surriscaldamento e il conseguente innalzamento del livello marino. Tutti questi cambiamenti, causati dalle attività antropiche, mettono a rischio gran parte della fauna acquatica poiché hanno un’influenza negativa sugli ecosistemi, che si alterano irreparabilmente. La Sardegna, come isola, porta il mare nella sua essenza. La costruzione del Centro WWF a Santa Teresa di Gallura si inserisce nel percorso già tracciato a Milano con Oasi 2030, un progetto realizzato in collaborazione con l’Università di Pavia, il BioMA, il Biodiversitario marino nella Riserva marina di Miramare a Trieste, il Casale Giannella (Casa del Mare) a Orbetello, il Museo della Biodiversità di Monticiano ed il Centro Ambiente di Morigerati - Oasi Grotte del Bussento. Per la ristrutturazione è stato fondamentale il contributo della Fondazione di Sardegna. La scelta di Santa Teresa di Gallura non
è certo casuale. Il World Wide Fund for Nature è l’organizzazione internazionale di protezione ambientale per eccellenza. Conosciuto in tutto il mondo, il WWF - reso ancor più iconico dal famoso logo del Panda - aveva scelto Santa Teresa come simbolo delle sue battaglie per la protezione del mare. La speranza, infatti, è tuttora quella che il Santuario dei Cetacei Pelagos esca dalla carta per diventare realmente l’area marina protetta più grande del Mediterraneo. Al centro dell’idea sono le Bocche di Bonifacio (stretto di mare che separa Santa Teresa dalla Corsica), il cui attraversamento - nonostante le prescrizioni internazionali - continua ad essere una fonte di rischi per veri e propri paradisi marini, compreso l’Arcipelago della Maddalena. Questa zona presenta infatti un elevato traffico di navi di ogni genere, incluse quelle adibite al trasporto di carichi pericolosi (petroliere, chimichiere e gasiere). Anche l’edificio scelto per la costruzione del Centro non è certo casuale.
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Infatti, è stato donato nel non lontano 1997 al WWF da Andrea Quiliquini, leader ecologista e cittadino di Santa Teresa, che aveva utilizzato quel cortile per mantenere e valorizzare specie di piante autoctone che correvano il rischio di estinzione. La ristrutturazione dell’edificio è stata fatta nel rispetto dell’architettura del paese e delle caratteristiche dell’edificio stesso. L’intonaco dei muri perimetrali è stato completamente restaurato lasciando a vista ampie porzioni delle pietre originali. Il recupero di due murales sulla parte esterna del muro perimetrale testimonia, invece, la presenza storica del WWF in Gallura. All’interno della corte sono stati anche messi a dimora alberi e piante tipici della macchia mediterranea. L’edificio può accogliere facilmente le scolaresche: i bambini, d’altronde, sono il nostro futuro. Una targa - posta sotto la bandiera del Panda - è stata ovviamente dedicata a Quiliquini, scomparso nel 2008. La dedica riporta una frase scritta dal fondatore del WWF Italia Fulco Pratesi «Ad Andrea Quiliquini che ha difeso con passione e generosità la sua Gallura e la natura della Sardegna. Con imperitura stima e riconoscenza». La creazione del Centro WWF di Santa Teresa di Gallura e di altri centri infor-
mativi e di tutela nel territorio nazionale e internazionale ha come obiettivo il favorire la sensibilizzazione dei cittadini nei confronti dei problemi che affliggono i nostri mari. Fa sempre discutere in modo acceso il ruolo che i rifiuti e, in particolare, la plastica killer giocano nell’inquinamento della Terra. Nove milioni di tonnellate di plastica finiscono nei nostri oceani ogni anno, ben 0,5 milioni di tonnellate solo nel Mediterraneo. L’incapacità nella gestione dei rifiuti e una ancora insufficiente apertura nei confronti dell’economia circolare, fanno sì che piatti, bicchieri, sacchetti usa e getta vengano riversati nel mare, minacciando la sopravvivenza di oltre 800 specie animali (numeri forniti da un rapporto pubblicato nel 2016 dalle Nazioni Unite). Particolarmente a rischio i cetacei, balene e delfini in testa, e le tartarughe, che scambiano spesso la plastica per cibo e la ingeriscono. Sardegna e mare sono una cosa sola. Le previsioni sul nostro destino sono poco confortanti: si stima che nel 2050 ci saranno più rifiuti plastici nei mari che pesci. Il Centro WWF di Santa Teresa di Gallura è un piccolo passo per diffondere consapevolezza ed evitare che la situazione degeneri. Il futuro dipende dalle scelte di oggi.
Simone Piroddu Giovane promessa sassarese della lotta italiana
Foto Kadir Caliskan
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di DANIELE DETTORI
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lasse 2002: il prossimo novembre saranno 17 anni. Nonostante la giovanissima età, Simone Piroddu è già pluricampione nazionale e quest’anno anche europeo di uno sport per niente semplice come la lotta stile-libero. Se, infatti, ciascuna disciplina presenta le proprie difficoltà, la lotta libera somma alla necessaria prestanza fisica un’abilità tutta individuale nel gestire il contatto e le prese con l’avversario. Pochi secondi nei quali occorre studiare e capire la personalità di chi si ha davanti per aggiudicarsi l’incontro. Abbiamo incontrato Simone al PalaSerradimigni di Sassari, un pomeriggio di agosto, per conoscere meglio alcuni segreti di questo sport da campioni. Chi meglio di Simone potrebbe raccontarceli? «La lotta libera ce l’ho nel DNA», precisa. «L’hanno praticata mio nonno, mio zio, mio padre, mia madre (che ha iniziato con il pattinaggio ma ha cambiato sport dopo aver conosciuto mio padre) e la mia sorellina. Era impossibile, per me, non praticarla. Tra l’altro hanno tutti riscosso ottimi risultati: mio zio Gianfranco si è classificato con buone posizioni agli europei e ai mondiali, mio nonno, mio padre e mia madre agli italiani. La mia sorellina ha partecipato quest’anno agli europei. Facile capire, quindi, come gli esordi di Simone siano stati molto naturali. «Ho cominciato quando avevo circa quattro anni, grazie a mio padre che mi portava in palestra e mi invogliava facendomi prendere parte ad alcune gare. Da lì in poi ho sempre avuto tutto il sostegno possibile. Le mie prime gare sono state negli italiani quando ero piccolino a Roma (in quell’occasione ottenni un bronzo) e negli internazionali disputati a Mozzanica. Vinsi contro francesi e ungheresi, un bel ricordo per me.» Non si pensi, però, che prepararsi per
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le tante gare sia una passeggiata. «Intanto gli allenamenti variano sempre, perché la lotta ha bisogno di sviluppare e mantenere attive diverse qualità: la forza, l’elasticità, l’agilità. Si fanno quindi stretching, pesi, tecnica, esplosività, organico, parecchia resistenza nei circuiti. È un aspetto che mi piace tantissimo. Io mi alleno la mattina presto, mezzoretta di corsa alle 7:00, poi alle 10:00 con un’ora e mezzo circa di esercizi e di nuovo la sera alle 18:00, più o meno due ore. Accanto all’allenamento c’è poi un regime alimentare da seguire. Trattandosi di uno sport che prevede diverse categorie di età e di peso, sono costretto a seguire alcune diete soprattutto per essere performante nella mia categoria che è la 55 kg. Normalmente ne peso 64, quindi per essere performante a 55 devo iniziare circa un mese e mezzo o due mesi prima a regolare il cibo, mangiare pulito, evitare le schifezze.» In effetti, come dicevamo in apertura, la lotta richiede molta disciplina perché, per battere l’avversario, non tutto è permesso. Cominciamo allora col capire come funziona questo sport per chi non lo avesse mai seguito. «La cosa più semplice è schienare l’avversario, cioè portare tutte e due le spalle per circa un paio di secondi a terra. Quando si portano le due spalle perfettamente a terra è finita. Poi ci sono i punteggi, più complessi da spiegare: possiamo dire che, a seconda della presa e delle cadute vengono attributi dei punti per ciascun lottatore. Se nessuno riesce a schienare l’altro, vince chi ha più punti.» Un aspetto importante per chi gareggia, poi, è quello legato all’esplosività: «Con questo termine si indica l’atto di attaccare alle gambe il nostro avversario. Si deve essere rapidi perché in un secondo dobbiamo lasciare la nostra
posizione (siamo fermi) e arrivare alle sue gambe senza quasi neanche farci vedere, così da non dare il tempo di difendersi. Per questo si dice che, in un attimo, si deve “esplodere”.» Capita, talvolta, di dover fare i conti anche con chi non gioca proprio pulito. «Si, succede. Poco, ma succede. Può capitare che vengano eseguite delle leve, magari delle contro-articolazioni che non sono permesse perché ci si può far male seriamente, degli strangolamenti. In questi casi, comunque, non posso intervenire più di tanto. Posso solo sopportare finché l’arbitro non agisce e tutt’al più chiamarlo io.» Non possiamo quindi fare a meno di chiederci quale sia, in un simile turbinio di emozioni, lo stato d’animo di chi si appresta a salire sul tatami, il tappetino sul quale si svolge la lotta. «È un po’ difficile da rendere in parole. Si potrebbe dire che, nei confronti dell’avversario, si prova rispetto ma anche rabbia perché si tratta pur sempre di uno sport da combattimento ed è necessario essere un po’ cattivi. È importante non avere paura di nessuno ma rispetto di tutti. E poi si pensa sempre ai sacrifici fatti in palestra, durante la preparazione, quindi si cerca di lottare al meglio e di portare a casa la medaglia. O almeno ci si prova.» Abbiamo ancora qualche riga per scoprire Simone nel privato: com’è, cioè, dopo aver portato a casa una nuova medaglia. E anche per chiedergli la sua ricetta del successo. «Mi piace uscire con gli amici, usare la mia moto, andare a fare un giro sulle strade. Ogni tanto mi piace anche andare a mangiare fuori, nei periodi in cui non sono a dieta. Il mio piatto preferito rimangono però le lasagne di mia mamma. Quanto al successo, arriva se ci sono serietà, costanza e tanti sacrifici».
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BOSA UN PARADISO DI COLORI E STORIA I
ntense e variopinte pennellate di colori energici, roccaforte di antiche tradizioni folcloristiche e artigianali, natura, arte, mare e cultura che si fondono in un connubio che toglie il fiato. Tutto questo è Bosa, splendida cittadina che sorge sulla costa occidentale del centro-nord Sardegna e che ha una storia antica e misteriosa come quasi tutti i centri abitati del Logudoro. Pare che il suo nome facesse già bella mostra su un’epigrafe dell’epoca fenicia andata perduta (o forse mai esistita) oppure, secondo un’altra versione, l’etimologia sarebbe comunque antichissima e risalente all’età di Tolomeo. Ma la vera Bosa ha un cuore assolutamente medievale, con il suo borgo feudale e le strade lastricate di ciottoli, con il suo castello Malaspina, le scalinate in trachite e le casette a schiera scavate nella roccia le cui tinte pastello delle facciate sono diventate col tempo il segno di riconoscimento della città su tutte le guide turistiche del mondo.
Il Castello Malaspina, conosciuto anche con il nome del colle su cui si erge, Serravalle, è senza dubbio il monumento più apprezzato e visitato. Fu fatto costruire dai conti di Malaspina, ma la datazione è ancora oggetto di studi sia per i numerosi eventi che vi si sono svolti, sia perché è stato probabilmente costruito in più fasi e più periodi. Dopo la costruzione del castello, i bosani si trasferirono alle pendici del colle per ricevere la protezione della potente famiglia aristocratica e questo stock.adobe.com | Alice
di MANUELA PIERRO
spostamento urbano di massa diede origine allo stupefacente borgo medievale di Sa Costa che conserva il fascino e l’atmosfera del tempo. Dentro le mura del castello, nell’ampia piazza d’armi, sorge la chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos, che vanta una serie di affreschi risalenti al 1370. Nonostante l’intreccio di correnti derivanti da popoli invasori (gli arabi che venivano dal nord Africa e gli Aragonesi dalla Spagna), Bosa è riuscita a mantenere sempre la sua identità e questo fortissimo sentimento di appartenenza si avverte dalle tradizioni che restano immutate. Cultura e tradizioni. Famosissimi il Karrasegare e la processione di S’Atti tidu, spettacolari le maschere tradizionali che si snodano frenetiche tra le strade cittadine e antichissimo il canto corale che risale addirittura al 1400, quando cioè Bosa ottenne il rango di città regia e sede vescovile. Da non dimenticare il costume tradizionale femminile, tra i più belli dell’isola, che affonda le sue radici nel 1800, quando le nuove tendenze in fatto di moda arrivavano dalla costa a
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Bosa prima che in altri luoghi. Il costume tradizionale è composto dalla unnedda, ossia la gonna, generalmente rossa o nera, realizzata con due diversi tipi di lavorazione del tessuto: una liscia e una plissettata con una balza bianca o azzurra in taffetà. Le donne più ricche usavano la saja, ossia un copricapo di lana molto pregiata e importata, mentre le altre usavano l’orbace, la tipica lana sarda. Di grande pregio sono i ricami floreali sul grembiule, sulla balza e sul copricapo in tonalità vivaci e preziose. Il corittu, cioè il giacchino di lana, è spesso decorato con una grande quantità di bottoni d’oro o d’argento, che tintinnano a ogni aggraziato movimento. Il bustino, di colore azzurro, è realizzato con tessuti damascati o di seta e sono completati da nastri e occhielli. A completare l’abito bosano è la ca mija, una camicia di lino o cotone increspata e molto lavorata coperta sulle
spalle dal muc caloru, un fazzoletto di colore bianco che dona austerità ed eleganza. Artigianato e gastronomia. L’identità bosana non si limita però a vivere della preziosa collaborazione di Madre Natura e del fascino che da sempre suscitano le tradizioni. I talenti di artigiani, orafi e gioiellieri sono il fiore all’occhiello. Il corallo: già dai primi anni del 1200, grazie alla libertà di pesca, i bosani si sono impegnati nel completo dominio dei loro fondali. Da questa pesca audace si ottengono interi cespugli di splendido corallo che, opportunamente lavorati, divisi e integrati all’arte orafa, riescono a diventare pezzi unici di straordinaria bellezza. Il filet: come sappiamo, alcune delle attività artigianali più diffuse in Sardegna sono la tessitura e il ricamo. Il filet di Bosa (foto a sinistra) è un merletto di pregiata fattura che deve le sue origini alla modesta opera di tessitura delle reti da pesca.
I primi ricami subirono l’influenza delle corti saracene; successivamente questi elementi si fusero alla tradizione locale e i disegni divennero ancora più preziosi, con motivi geometrici (rombi, onde, spirali e bordure), d’ispirazione vegetale (grappoli d’uva, tralci di vite, melograni o fiori) o animale (pavoncelle, colombi, cervi e cavalli). I monaci bizantini ispirarono i ricami religiosi e la vita di corte invece ispirò il ricamo di stemmi araldici. Enogastronomia. Tra mare e terra sono sempre nati dei matrimoni felici. La cultura enogastronomica di Bosa è il frutto di questa unione ben riuscita, col suo pregiatissimo vino, la Malvasia, che deve invecchiare almeno venticinque mesi prima di essere gustato lentamente e con solennità e con la famosa zuppa alla bosana (nel cerchio sopra), i cui ingredienti, aragosta, seppie, gamberi e scampi, soddisfano anche i palati più esigenti. E così, misteriosa, solitaria e sospesa in un’atmosfera quasi eterea, Bosa conquista il cuore di tutti coloro che la visitano e fa sospirare ai ricordi romantici che evoca.
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Viaggio nell’arte italiana: tre grandi artisti per tre grandi città di DANIELE DETTORI
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re artisti, questo mese, che hanno attraversato l’Italia visitandone le più grandi città. Tre artisti le cui opere hanno fatto la storia e che sono conosciuti in tutto il mondo. Tre nomi: Leonardo, Michelangelo, Caravaggio. Leonardo da Vinci è il genio per eccellenza. Una cultura capace di spaziare a 360° in tutti i campi della conoscenza. Disegno, progettazione, architettura, pittura, anatomia, musica e botanica sono stati solo alcuni dei suoi interessi. Siamo negli anni a cavallo tra la metà del 1400 e il primo ventennio del 1500. Nato ad Anchiano, una frazione del Comune di Vinci in provincia di Firenze, quello che sembra il cognome è in realtà una attribuzione di provenienza da parte della famiglia paterna. Parlando di Leonardo, il pensiero corre a Parigi, fra le stanze del Louvre dove è custo-
dita ed esposta la Gioconda, ma è proprio a Firenze che il quadro è stato concepito e iniziato, così come tantissime altre sue opere oggi conservate in città alla Galleria degli Uffizi (foto 1). Firenze dà i natali a Leonardo anche artisticamente, presso la bottega del Verrocchio dove entra a lavorare come apprendista dopo che suo padre ne fiuta il talento per il disegno e la scultura. Anche Michelangelo Buonarroti può vantare l’esposizione a Firenze di alcuni suoi capolavori. Il David ne è l’esempio più noto: conservato presso la Galleria dell’Accademia per favorirne la conservazione, una copia è esposta all’aperto in Piazza della Signoria. Sarà tuttavia Roma la città sulla quale ci concentreremo parlando di lui. Intanto la cupola (o “Cupolone”) della celebre Basilica di San Pietro è opera sua. Michelangelo ci lavorò fino alla morte, nel 1564, disegnandola e realizzandola fattivamente. Ma nella città dei papi le sue opere sono tante e diverse. Tra le sculture, tecnica nella quale eccelleva, ricordiamo la Pietà, realizzata in marmo di Carrara e dalla storia turbolenta (l’opera fu vandalizzata nel 1972 e successivamente restaurata e protetta da una teca), ma anche il Mosé, perfetto nella sua realizzazione, al
quale pare che l’autore abbia chiesto “Perché mi guardi e non favelli?” Infine, per quanto alcuni sostenessero il suo non eccellere nella pittura, ricordiamo che Michelangelo ha affrescato la Cappella Sistina (foto 2), ininterrottamente sede dei conclavi per l’elezione dei papi dal 1878. Con Caravaggio (pseudonimo di Michelangelo Merisi, nato a Milano e non nel paese col nome del quale è conosciuto e da cui provenivano invece i genitori) ci spostiamo nel mondo della pittura tout-court. Cresciuto negli anni della peste, entrò apprendista nella bottega di Simone Peterzano, a sua volta allievo del pittore Tiziano. A Milano, presso la Pinacoteca Ambrosiana, è conservata la Canestra di Frutta (foto 3), una delle sue opere più note sulla quale ritorna un leitmotiv dell’artista: il dipingere alcuni oggetti leggermente in bilico sulla superficie dove poggiano. Caravaggio ha operato anche al centro-sud Italia, vivendo in città come Roma, Napoli, Messina, Palermo, Siracusa e persino nell’isola di Malta. Le sue opere sono sparse fra le città che lo hanno ospitato e la sua – tutto sommato – recente riscoperta gli è valsa l’effige sulla vecchia banconota da 100.000 lire.
GLI EBREI A CAGLIARI Storia di una comunità
di ALBA MARINI
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ancano le testimonianze storico-artistiche. Mancano le tracce architettoniche delle sinagoghe. Eppure gli ebrei a Cagliari vissero eccome e, anzi, crearono la più importante comunità ebraica della Sardegna. Come lo sappiamo? Alcune lettere di Papa Gregorio Magno attestano la presenza degli ebrei nel capoluogo sardo a partire dal VI secolo d.C. In uno di questi scritti – datato 599 – il pontefice invitava l’allora vescovo di Cagliari Gianuario a garantire agli ebrei la libertà di culto. Infatti, un ex ebreo convertito al cristianesimo aveva suscitato le ire del rabbino per aver disseminato oggetti cristiani all’interno dell’oratorio della sinagoga. Altra traccia documentaria dell’esistenza della comunità ebraica cagliaritana l’ha lasciata lo storico sardo Severino, il quale accennò a un incendio che nel 790 aveva
parzialmente distrutto il luogo di culto. Ma dove vivevano gli ebrei di Cagliari? Vista la loro tendenza a vivere in comunità dovevano occupare una parte specifica della città e concentrare al suo interno le loro attività economiche, religiose e familiari. Tra la dominazione pisana e quella aragonese agli ebrei fu concesso di vivere nel quartiere Castello, precisamente nella cosiddetta Giudaria, che si estendeva tra l’attuale via Santa Croce – chiamata inizialmente via della Fontana e poi Ruga Judeorum (via dei Giudei) – e via Stretta. Non ha niente a che vedere con il passato ebraico della città di Cagliari, invece, il Ghetto degli ebrei, un edificio attualmente adibito a polo espositivo e posizionato sul Bastione di Santa Croce, a picco sulle mura di cinta del quartiere di Castello. Anche se effettivamente gli ebrei abitarono la zona di Santa Croce,
il cosiddetto Ghetto degli ebrei nacque come caserma nel 1738, in epoca sabauda, e non fu mai un ghetto vero e proprio sul modello, per esempio, del ghetto di Venezia. Gli ebrei cagliaritani furono scacciati definitivamente nel 1492 così come avvenne in ogni dominio spagnolo, motivo per il quale non ci fu nessun isolamento forzato in una zona particolare della città. Quando gli aragonesi iniziarono la loro campagna di conquista nei confronti dell’isola, gli ebrei appoggiarono finanziariamente l’impresa dell’infante Alfonso d’Aragona. È probabile che, a seguito della conquista, questi ebrei provenienti dalla Spagna si siano uniti alla comunità già esistente a Cagliari, per lo più composta da artigiani, medici e commercianti. Inizialmente la posizione della Corona nei confronti degli ebrei fu quella di una spiccata tolleranza: probabilmente per la possibilità della comunità ebraica
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La Basilica di Santa Croce. Foto Giova81
di garantire un appoggio economico, gli aragonesi permisero agli ebrei di “occupare” la Giudaria a Castello e gli offrirono protezione. Mentre in gran parte d’Europa gli ebrei subivano talvolta vere e proprie persecuzioni e venivano isolati dal resto della popolazione, a Cagliari la comunità si era stabilita volontariamente nella Giudaria, senza incorrere in alcun tipo di confinamento obbligato, seguendo il modello spagnolo di tolleranza e collaborazione economica. Pur godendo di una certa protezione, gli ebrei erano comunque soggetti alle norme valide per il resto dei cittadini cagliaritani. Chi erano gli ebrei Cagliaritani? Come abbiamo accennato, le attività nella Giudaria si concentrava su tre versanti: l’artigianato, le professioni mediche e – in modo particolare – il commercio. La vita artigiana e mercantile era molto vivace: fabbri, calzolai, conciatori e falegnami lavoravano a stretto contatto con i venditori di stoffe, gli uomini di bottega e i cambiavalute. Fu il 1492 a porre fine alla storia della comunità ebraica a Cagliari. La data della caduta di Granada, della scoperta dell’America, della morte di Lorenzo il Magnifico segnò per sempre il destino degli ebrei. Il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona portò alla nascita del cattolicissimo Regno di Spagna. La Sardegna, come possedimento aragonese, entrò a far parte della nuova corona spagnola. Gli ebrei vennero tassati in tutto il Regno e Ferdinando II
si fece portavoce di una nuova politica repressiva che culminò con il Decreto dell’Alhambra del 1492. L’editto prevedeva l’espulsione di tutti gli ebrei che non si fossero convertiti al cattolicesimo e l’espropriazione di tutti i loro beni. La piccola comunità di Cagliari cessò di esistere e gli ebrei esiliati si rifugiarono nei vicini porti della penisola italiana, in Turchia e in particolare nel Nord Africa, incrementando le comunità già esistenti nel Maghreb. Ad essere cancellata non fu solo la vivacità dell’operosa comunità ebraica cagliaritana, ma anche la sua cultura. Gli ebrei che si erano convertiti al cristianesimo furono costretti a consegnare i loro possedimenti alla Corona, cadendo spesso - a causa della loro ambiguità religiosa - nelle grinfie dell’Inquisizione, insieme a bruxas, presunte fattucchiere e personaggi politici scomodi. A seguito dell’editto, la sinagoga di Cagliari (che secondo i recenti studi doveva vantare un’estensione notevole) fu abbattuta per far spazio alla Basilica di Santa Croce. Con essa sparirono le poche tracce lasciate da una comunità che con il suo innato senso per gli affari doveva aver avuto una certa importanza in una città come Cagliari, che si affaccia sul mare. La religione ebraica subì un vero e proprio processo di demonizzazione, finendo per alimentare leggende popolari e superstizioni. La sinagoga divenne un simbolo demoniaco, luogo di perdizione dove avvenivano sacrifici umani.
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LA RAIMOND HANDBALL SASSARI INIZIA L’AVVENTURA NELLA A1 DI PALLAMANO
L’AMBIZIOSA SQUADRA SASSARESE, PROFONDAMENTE RINNOVATA, ESORDIRÀ NELLA MASSIMA SERIE IL 7 SETTEMBRE Da sinistra: Riccardo Stabellini, Bruno Brzic e Giovanni Nardin
di ERIKA GALLIZZI foto CLAUDIO ATZORI
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a Raimond Handball Sassari è pronta per iniziare la propria avventura nella Serie A1 maschile di pallamano. Dopo la scorsa, entusiasmante annata, segnata dalla promozione nella massima categoria, la società presieduta da Luana Morreale si è “buttata” nel mercato, col suo Direttore Sportivo Andrea Giordo ed il confermatissimo allenatore Luigi Passino, per costruire una squadra naturalmente rinnovata, ma ambiziosa e competitiva. L’estate della pallamano sassarese è iniziata con l’ufficializzazione dell’arrivo del
terzino sinistro della Nazionale, Riccardo Stabellini. Bolognese classe ’94, vanta una grande esperienza in A1 nella quale ha raggiunto, con la maglia del Conversano, una finale scudetto. Il secondo acquisto, invece, è stato quello che ha interessato l’importante ruolo di centrale, guida dell’attacco, affidato a Bruno Brzic, nativo di Zadar, in Croazia, ma di passaporto italiano. Giocatore esperto e di sicuro affidamento, ha girato in lungo e in largo l’Italia. La sua carriera ha fruttato, fino a questo momento, un bottino di due scudetti e due Coppe Italia, e lo ha portato a collezionare presenze anche con la Nazionale. Ma è arrivata anche la “gio-
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Da sinistra: Francesco Mbaye, Esteban Taurian e Felipe Braz
ventù”, con la firma del pivot Davide Cirilli, classe ‘97 esordiente nella massima serie, ma di ottime prospettive. Arriva da Camerano, dove, dopo aver centrato la promozione in A2, lo scorso anno è stato avversario della Raimond. Proseguendo nella “linea verde” di qualità, la Raimond ha portato a Sassari l’ala sinistra, nazionale Under-19, Giovanni Nardin. Ha giocato il campionato di A1 con le maglie di Oriago (sua città natale) e del Fondi. Con la Nazionale di categoria è stato protagonista dell’EHF European Championship giocato a Tbilisi, nell’estate del 2018. Tra i pali, invece, ci sarà l’ucraino Maksym Voluivach. Giocatore di grandi qualità, “rookie” del campionato italiano, arriva dalla Lituania dove ha difeso la porta del Klapeida Dragunas, aggiudicandosi campionato e coppa nazionale. Il sesto colpo di mercato è stato, poi, il pivot brasiliano ventiquattrenne Felipe Roberto Braz. Vincitore di tre titoli brasiliani con l’Esporte Club Pinheiros, ha poi giocato in Ungheria e Spagna. Con i suoi 198 cm e i 109 kg conferirà fisicità alla squadra sassarese. Al mancino italoargentino Esteban Taurian è stato affidato il ruolo di terzino destro. Elemento prezioso, con esperienza e concretezza come marchi di fabbrica. Le passate esperienze in Italia, a Fasano e Benevento, gli sono valse anche la convocazione in Az-
zurro e ha poi vinto uno scudetto in Argentina, con il Ferro Carril Oeste. Il sigillo al mercato, invece, è stato messo con la firma del terzino (può giocare indifferentemente sia a destra che a sinistra) brasiliano Allan Pereira, capocannoniere del campionato italiano, per due anni, con la maglia della Pallamano Valentino Ferrara. Alle grandi doti di realizzatore abbina la solidità difensiva data dal suo strapotere fisico e avrà il compito di far fare il salto di qualità alla formazione sassarese. Ai nuovi arrivati, si aggiungono le importanti conferme: il veterano Chicco Manca, “mister utilità” Fabio Del Prete, l’indispensabile Matteo Bomboi, l’espertissimo portiere Eugenio Casada (che sarà anche preparatore dei “custodi della porta”), il pari-ruolo Marco Spanu, il capitano Francesco Mbaye, l’ala Francesco Masia e il pivot Lorenzo Vosca, che coadiuverà anche coach Passino, oltre ad essere il preparatore fisico della squadra. Il roster è completato dai tre sedicenni Andrea Delogu, il siciliano Cristian Giuggino ed il portiere Riccardo Melis. L’esordio in campionato della Raimond Handball Sassari è fissato per sabato 7 settembre, alle ore 19:00, sul campo della Banca Popolare Fondi, mentre il 14 ci sarà la prima casalinga al PalaSantoru (ore 18:00), contro il Conversano.
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di FRANCA FALCHI
ANDREA ARRU DA BABY MODELLO A GIOVANE ATTORE
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iso pulito, quasi angelico, un lungo ciuffo biondo che lascia intravedere gli occhi azzurri come il cielo e un sorriso che esprime tutta la trasparenza dei suoi 12 anni. Andrea Arru, attore giovanissimo che in realtà sogna di fare il calciatore, proprio in questi giorni sta ultimando le riprese di “Calibro 9” al fianco di Marco Bocci, Michele Placido e Alessio Boni sotto la regia di Toni D’Angelo e sta per intraprendere il suo primo vero ruolo da protagonista in “Glass boy”, libera-
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Andrea con Marco Bocci e Alessio Boni (a sinistra)
mente tratto dal romanzo “Il ragazzo di vetro” di Fabrizio Silei e adattato alla regia di Samuele Rossi. Una carriera, iniziata per gioco a sei anni, come modello in sfilate di moda e campagne pubblicitarie per grossi marchi come Armani, Ferrè e Original Marines che lo ha portato ad appassionarsi al teatro e al cinema. Lo incontro nella periferia di Ploaghe, in una casa immersa in un bosco di querce dove vive coi genitori e i suoi tre cani. Mi racconta delle sue passioni, del grande amore per il calcio che pratica insieme al nuoto, del desiderio di una moto, di videogiochi e youtuber. Il cinema e la recitazione sono una cosa in più, un gioco folle e divertente che svolge però con determinazione e impegno. Predilige i ruoli drammatici ma si dichiara pronto a interpretare anche qualcosa di comico o più leggero. Studia con facilità i copioni e non gli pesa provare più volte la stessa scena. Gli piace la sfida, adora le competizioni ma nel modo corretto e franco proprio dei bambini. La sua vita si divide tra scuola, sport, amici, lezioni di recitazione teatrale nella compagnia Boboscianel e cine-
matografica con Maurizio Pulina per perfezionare i linguaggi comunicativi ed esprimere le emozioni. Prima di avere ruoli importanti, ha partecipato a diversi casting ottenendo piccole parti in alcuni cortometraggi ma anche maggiori come in “Resurrection” di Alfredo Moreno dove ha assunto sembianze da horror. (I film di terrore ora non gli fanno più paura, vedere i trucchi gli ha tolto la suspance.) È stato poi protagonista ne “Lo scarabocchio” di Mirko Zaru che affronta il tema del mutismo selettivo e verrà distribuito in tutte le scuole. Non sa ancora che effetto farà vedersi in un grande schermo, né ha un’idea di dove lo porterà questa avventura, per il momento vive nel presente senza un progetto a lungo termine, sfrutta la sua grande dote naturale e la vede come un divertimento puro, apprezza l’esperienza del set, le attenzioni della troupe e le coccole del trucco e del camerino dedicato, senza farsi impressionare dai lunghi periodi lontano da casa e da scuola con un istitutore privato e coi genitori a disposizione a turno, o dal calibro dei nomi famosi con cui si trova a recitare.
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COLPO DI SCENA IN EXTREMIS: LA DINAMO SASSARI SALUTA ACHILLE POLONARA CHIAVI DELLA REGIA A SPISSU, MA IL CORPOSO PARCO ITALIANI HA PERSO UNA PEDINA IMPORTANTE di ERIKA GALLIZZI foto LUIGI CANU
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na finale scudetto persa solo in volata ed una striscia di vittorie impressionante ed entusiasmante: riparte da qui la Dinamo Banco di Sardegna Sassari di coach Gianmarco Pozzecco, per la nuova avventura nella Serie A di basket e nella Fiba Basketball Champions League. Si voleva un’impostazione diversa, quest’anno, nella quale puntare molto sugli atleti italiani. Si sono aperte le porte del ruolo di playmaker titolare per l’idolo di casa, Marco Spissu, sono stati trattenuti il capitano Jack Devecchi, il pivot Daniele Magro, Stefano Gentile e Lorenzo Bucarelli (in prestito a Cagliari fino allo scorso anno) e si è aggiunta un’altra pedina “tricolore”, la guardia Michele Vitali, nell’ultima stagione ad Andorra. Però, a fine agosto, è arrivata la doccia fredda della partenza di Polonara, “liberato” per poter firmare con l’ambizioso Baskonia. Il parco stranieri, invece, è partito dalla conferma dell’ala canadese Dyshawn Pierre e si è poi arricchito con l’arrivo del play-guardia statunitense Curtis Jerrells, che ha vestito le maglie di club blasonati come Belgrado, Fenerbahce, Besiktas, Milano, Galatasaray e Hapoel Gerusalemme. A presidio delle plance, invece, è arrivato il centro della Nazionale croata Miro Bilan, direttamente dalla squadra campione di Francia Asvel LyonVilleurbanne. Ottime qualità tecniche, solidità, grande impatto in attacco e ra-
pidità per correre il campo a dispetto della sua taglia sono i suoi marchi di fabbrica. La società sassarese ha, inoltre, firmato l’ala dell’Illinois Dwayne Earl Evans, che lo scorso anno ha disputato il campionato tedesco con il Ratiopharm Ulm. Per lui opzioni sia in post basso che fronte a canestro e capacità difensive su più ruoli. Con l’addio di Polonara, invece, è arrivato la versatile e dinamica ala forte Jamel McLean, dal Lokomotiv Kuban, già vista in Italia con la maglia di Milano. La squadra sta svolgendo la propria preparazione, come di consueto, al Geovillage di Olbia, dove si è aggregato il pivot Marco Maganza, reduce da un lungo stop per problemi fisici, e stanno lavorando anche i giovani locali Marco Antonio Re, Christian Martis e Luca Sanna. Dopo gli impegni del precampionato, con tornei e amichevoli “in giro” per l’Isola, i biancoblù faranno il proprio esordio stagionale ufficiale nella Supercoppa che si disputerà a Bari il 21 e 22 settembre e vedrà la partecipazione, oltre che del Banco, di Venezia, Brindisi e Cremona. Proprio quest’ultima sarà l’avversaria della Dinamo in semifinale, sabato 21 alle ore 18. La finalissima che assegnerà il primo trofeo stagionale, invece, è in programma il giorno successivo alle ore 20:30. Lo start del campionato è fissato per giovedì 26 settembre (ore 20:30), con la Dinamo che farà visita alla Openjobmetis Varese, mentre il 29 ospiterà Pesaro. Per la coppa europea, invece, si dovrà attendere ottobre.
#cinguettii tecnologici a cura di Marco Cau
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DANIEL A
& LOL A GUIDE TURISTICHE A SEI ZAMPE ALLA SCOPERTA DELLA STORIA ANTICA di HELEL FIORI
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cegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua, diceva Confucio. Se in più come socio hai un cane, il lavoro si trasformerà in gioia. Daniela Madau è una Guida Turistica della Sardegna di stanza a Norbello (OR); laureata in Storia dell’Arte, ad oggi lavora anche come social media manager specializzata nella promozione del territorio. Lola è una beagle di quattro anni e mezzo che le ha fatto scoprire una diversa tipologia di viaggio, facendo di lei una dog travel blogger. Il dog tra veling, simpaticamente indicato come “viaggio a sei zampe”, consiste nel mappare gli itinerari e le strutture che accolgono i cani permettendo loro di go-
dersi la vacanza tanto quanto noi. Essendo una blogger, Daniela pubblica tutti i loro viaggi su damadelguilcier.com (Da.Ma del Guilcier), blog dal nome a cui è molto affezionata perché profuma di Medioevo: nasce dall’accostamento delle sue iniziali con la regione storica di appartenenza, il Guilcier. Anticamente chiamata Guilcieri, era una curatoria in una zona strategica del giudicato d’Arborea attraversata dal Tirso e dalla importante via di comunicazione che collegava Kalaris (Cagliari) con Turris Libisonis (Porto Torres). Un punto nevralgico, che richiama al movimento: uno degli obiettivi di Daniela e Lola infatti è diventare un punto di riferimento per amministratori e operatori culturali così da valutare insieme l’offerta pet friendly. Un altro loro obiettivo è quello di mo-
strare che una vita a sei zampe è possibile: Daniela ha imparato quali attenzioni avere in qualità di padrone, come educare Lola e come farla essere a proprio agio tra le persone, così che ormai la “archeodog” è largamente apprezzata dai followers di Facebook e Instagram (@damadelguilcier). Vivendo giornate così piene, abbiamo chiesto loro qual è l’ultimo pensiero prima di dormire. Daniela dice: “Ogni notte ripenso alla giornata appena trascorsa e a quanto sia fortunata nel gestire un lavoro che amo con una socia davvero unica, nella terra che amo e nel mio piccolo pezzetto di mondo dove ho deciso di vivere. Sogno a occhi aperti, sperando di poter realizzare il nostro sogno: essere consulenti a 360° in modo da poter proporre un servizio ottimale a coloro che vogliono strutturare e conoscere mete, non necessariamente dog friendly.” Lola risponde col suo entusiasmo: “Cibo? Sì, confermo cibo e coccole! A parte cibo e coccole, coccole e cibo, osservo Daniela dormire e veglio perché il suo sonno sia tranquillo. Penso a quanto io sia fortunata nel far parte di un progetto ambizioso e a volte folle (Dani non me ne vorrà) ma che ci permette di vivere sempre insieme ogni fantastica giornata!”.
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Il Dott. Giuseppe Massaiu è un professionista di riferimento e opinion leader in tema di Odontoiatria Naturale e Biologica, insegna in corsi frontali e on-line argomenti clinici ed extra-clinici legati al mondo della Odontoiatria e della Medicina Naturale, Posturale e Olistica oltre che del Management e del Marketing Odontoiatrico. stock.adobe.com | agephotography
Curiosità sul mondo odontoiatrico
DI CHE COSA SI PUÒ “AMMALARE” LA BOCCA?
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na delle curiosità più comuni tra i miei pazienti è il sapere quali problematiche e malattie possono svilupparsi nella loro bocca. Sembra un pochino morboso, ma a quasi tutti gli operatori nel campo sanitario arrivano decine di domande giornaliere che riguardano questo argomento. I più insistenti, lo scrivo giusto per sdrammatizzare, sono quei pazienti ipocondriaci che hanno già fatto parecchie ricerche a casa sfruttando dottor Goo gle e desiderano ulteriori conferme e dettagli dal proprio medico di fiducia. Quando parliamo del campo odontoiatrico le domande ver-
tono sempre sugli stessi elementi: il cavo orale nella sua totalità, i denti e le ossa di supporto, le gengive o l’articolazione temporo-mandibolare. Partiamo dalla patologia più nota di tutte, ovvero la carie. Questa è causata dalla placca, ovvero da quell’accumulo di residui organici deviati dal cibo che si depositano e permangono sui denti quando non vengono puliti bene ogni volta o con la giusta frequenza ogni volta che si mangia. Se la carie evolve e non viene eliminata e degenera, raggiungendo quella parte vitale del dente chiamata polpa, diventa pulpite, che genera il classico “mal di denti” che fa
correre dal dentista. L’accumulo di placca può creare anche la formazione di tartaro, che se non eliminato porta verso la malattia parodontale, quella che i nostri nonni chiamavano “piorrea”. Questa interessa la gengiva, il legamento di base e l’osso alveolare, ovvero tutta quella parte che sostiene il dente. Se non intercettata per tempo, questa infezione farà prima muovere i denti, causare sanguinamento spontaneo, cattivo alito e nelle fasi più avanzate porterà alla loro perdita. Sono quelle situazioni dove denti morfologicamente sani sono persi (estratti o caduti spontaneamente) senza che sia presente carie su essi. Ritornando alla bocca in generale, possiamo trovare afte e ascessi. Queste sono infiammazioni che possono essere causate da diversi fattori legati alle cure sui denti non fatte o fatte male, all’alimentazione, alle abitudini scorrette (basta anche una spazzolata troppo energica che irrita eccessivamente una sezione del cavo orale) o alle parafunzioni, ad esempio quando teniamo i denti sempre stretti o mastichiamo inavvertitamente le guance. Possiamo poi avere eventi acuti, da trauma, e allora parleremo di fratture o lussazioni del dente. A seconda del loro grado di complessità questi
possono essere risolte con interventi di ricostruzione, di devitalizzazione o perfino, se non è possibile operare altrimenti, con l’estrazione del dente danneggiato. Su questa falsariga rientrano anche i grandi traumi facciali, che di norma richiedono l’intervento diretto del chirurgo maxillofacciale. Parlando di articolazione temporo mandibolare entriamo nella Gnatologia. Questo è un argomento a me molto caro, in quanto vi ho dedicato negli anni parecchio studio teorico e pratico. In questi casi il dentista deve relazionarsi non solo con i rapporti fra le ossa di mascella e mandibola, ma anche con i muscoli masticatori, della lingua, le vie aeree e altre fasce muscolari e organi collegati nell’ottica di risolvere le problematiche legate alla masticazione, alla deglutizione e alla respirazione. Ad ultimo, ma non per importanza, abbiamo le situazioni più gravi: le patologie autoimmuni e quelle cancerose, a cui a breve dedicherò degli articoli appositi in questa rubrica relativi alla loro prevenzione, gestione e cura. Ogni mese il Dott. Massaiu risponderà ad uno di voi. Inviate le vostre domande a: dott.massaiu@shmag.it. www.studiomassaiu.it
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