S&H Magazine n. 279 • Dicembre 2019

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CASU MARZU

L’amore proibito dei sardi di MANUELA PIERRO

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onostante il casu marzu si sia aggiudi­ cato nel 2009 il pri­ mato come formaggio più pericoloso al mondo, i sardi sembrano beffeggiarsi del ti­ tolo e continuano ad amarlo e a tutelarlo come uno dei marchi più prestigiosi e tra­ dizionali della Sardegna. Viene prodotto “clandestinamente” su tutta l’isola e trovarlo è sempre più difficile: il numero di estimatori cresce anche tra i “forestieri” che ne ricono­ scono il valore storico oltre

che apprezzarlo per le sue particolari caratteristiche ga­ stronomiche. Proprio a proposito delle sue radici, anticamente i pastori sardi credevano che il casu marzu fosse il risultato di eventi soprannaturali e magici; in realtà il processo che tra­ sforma un comune formaggio pecorino, caprino o vaccino in casu marzu, ossia formaggio marcio, è del tutto naturale: merito della Piophila casei, meglio conosciuta come mo­ sca casearia, che, attirata dal­ l’odore del formaggio con il primo caldo, depone le uova

all’interno della forma. Le lar­ ve che ne nascono si nutrono della pasta, creando una cre­ ma morbidissima, pungente e piccantina. Verosimilmente questo for­ maggio è nato per errore, la­ sciato alla mercé delle mosche da un pastore distratto o trop­ po impegnato, ma i sardi pro­ teggono con impegno e so­ lennità tutto ciò che li riguarda e, per facilitare questo pro­ cesso, negli anni hanno creato dei trucchi che ne favorissero la produzione: oltre ad ac­ corciare i tempi destinati alla salamoia, si scavano dei buchi

sulla calotta della forma di formaggio, all’interno dei quali viene versato olio in modo che la crosta si ammorbidisca e attiri gli insetti più veloce­ mente. Quando il formaggio ha raggiunto il giusto stadio di fermentazione, la forma viene aperta togliendo la parte superiore, altrimenti chiamata su tappu. In contrasto con la campagna denigratoria a livello mondiale, la Regione Sardegna ha ri­ chiesto il marchio DOP al­ l’Unione Europea e lo ha in­ serito nell’elenco regionale dei prodotti tradizionali agroa­ limentari. Schierati con il casu marzu vi sono anche numerosi docenti e studiosi, che negano nel modo più assoluto un reale rischio per la salute, visto che le larve della mosca casearia muoiono durante la digestione a opera dei succhi gastrici. A rafforzare questa tesi, va detto che in tutta Italia si con­ sumano formaggi con queste caratteristiche: in Abruzzo tro­ viamo per esempio il pecorino marcetto; in Calabria il casu du quaggiu, in Puglia e in Molise troviamo il casu puntu (ossia punto dalla mosca). De­ cisamente più goliardico il lin­ guaggio in Piemonte e Liguria, dove le larve che attaccano i formaggi vengono definite grilli o vermi che saltano. Per concludere, mi sembra doveroso fare un’osservazio­ ne: come può una secolare tradizione culinaria essere an­ che lontanamente scalfita da chi si limita a dare giudizi sen­ za conoscerne lo spirito? Non può, soprattutto se il popolo soggetto al giudizio è il popolo sardo!


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S&H MAGAZINE Anno XXIV - N. 279 / Dicembre 2019 EDIZIONE CAGLIARI+SASSARI

Direttore Responsabile MARCO CAU

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Ufficio Grafico GIUSEPPINA MEDDE Hanno collaborato a questo numero: DANIELE DETTORI, FRANCA FALCHI, HELEL FIORI, ERIKA GALLIZZI, ALESSANDRO LIGAS, ALBA MARINI, GIUSEPPE MASSAIU, MANUELA PIERRO, MARCO SCARAMELLA, ANTONIO TARALLO Redazione Sassari, Via Oriani, 5/a - tel. 079.267.50.50 Cagliari, tel. 393.81.38.38.2 mail: redazione@shmag.it

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Editore ESSEACCA S.r.l.s., Via Oriani, 5/a - Sassari Per la pubblicità: tel. 335.722.60.54

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Stampa Tipografia TAS S.r.l. - Sassari Social & Web

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18 03 Sapori di Sardegna

18 Lorena Piras

05 Fabrizio Raccis

20 Arte orafa Rocca

Casu Marzu, l’amore proibito dei sardi L’amore per la donna e il mistero tra le vie di Cagliari

06 Niente ricci nel piatto?

Il nuovo decreto regionale limita la pesca dei ricci di mare

08 Raimond Handball Sassari

Periodo straordinario per i rossoblù

10 Gianluca Piredda

Da Sassari alla conquista del mondo del fumetto

12 Gente di Sardegna

Grazia Deledda, la “voce delle foglie”

14 Il Crossing di Francesco Piu Il blues che unisce le culture

16 I Magnifici 3

Viaggio nel Natale: tre dolci delle feste

La vie en noir

Tra modernità e tradizione

issuu.com/esseacca Registro Stampa: Tribunale di Sassari n. 324/96. ROC: 28798. © 2019. Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre disegni, foto e testi parzialmente e totalmente contenuti in questo numero del giornale.

22 Le case campidanesi

A Quartu Sant’Elena e dintorni l’intimità delle dimore del passato

25 Dinamo Sassari

Biancoblù ai vertici della classifica di Serie A di basket

26 HITWEETS 28 Granito Rosa

Alla pietra sarda il titolo di Global Heritage Stone Resource

29 Il dentista risponde

Da quando esistono i dentisti? Panoramica della storia dell’Odontoiatria

30 Dillo a foto tue

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in Copertina

FRANCESCO PIU Foto di Sara Deidda


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FABRIZIO RACCIS L’amore per la donna e il mistero tra le vie di Cagliari di FRANCA FALCHI

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i sono parole che squarciano il cuore e arrivano dritte alla mente del lettore, si fanno messaggere d’amore elevando la donna in ogni suo istante. Sono le pa­ role di Fabrizio Raccis nelle quali la donna si trasforma in felino, seduce e ammalia diventando colei che fa anna­ spare il cuore, come un faro nella notte senza il quale si è destinati a va­ gare nel buio. La donna è poesia, è inno a quell’amore che, come successe a Re Davide di Gerusalemme ­ perso­ naggio biblico a cui l’autore si ispira ­ fa perdere la testa come travolti da un turbine. Scritto dopo tre anni di lontananza dalla poesia, Carne di Betzabea (Catar­ tica edizioni 2019) è la trasposizione in versi delle esperienze personali del­ l’autore, del suo rapporto con la donna

quasi in una forma di devozione. Il giovane autore cagliaritano, alla sua sesta rac­ colta di poesie, ri­ torna all’amore puro, vero e penetrante pur rimanendo lontano dai classici componimenti contemporanei. Le sue parole sono crude come lame affilate che fendono e squarciano met­ tendo a nudo l’autenticità della pas­ sione carnale, senza fronzoli né orpelli. Come il sale sulle ferite, bruciano e pu­ rificano nel dolore e nella schiettezza della verità. La vita quotidiana diventa il mezzo per narrare senza inibizioni l’amore carnale fatto di corpi che si cercano, che si desiderano, che si sfio­ rano con naturalezza e semplicità e non si può fare a meno di sentirsi coin­ volti. È una lirica nella quale ci ricono­ sciamo, un amore e un rispetto al quale aneliamo.

Fabrizio, con questa raccolta poetica, è alla sua decima pubblicazione. Nato nel 1983 a Cagliari, ha collaborato fin da giovanissimo con riviste locali e si è de­ dicato alla poesia sin dagli anni del liceo. Ha esordito come autore nel 2005 con La farfalla e altre poesie e ha proseguito alternando la poetica alla narrativa e ricevendo diversi premi come il prestigioso Premio Lauretum di Poesia nel 2011. Si è spesso dedi­ cato al mi­ stero se­ guendo la sua passione per il filone della lette­ ratura ame­ ricana fatta di gatti neri, cri­ mini efferati e corvi famelici alla Edgar Allan Poe come nella raccolta Racconti del mistero e del grottesco. I suoi racconti nar­ rano una Cagliari particolare, intrisa di suspense e tinte cupe, i cui abitanti si muovono nei vicoli bui e umidi del quartiere storico di Castello dove si ce­ lano misteri tra il gotico e il grottesco. Sono storie da brivido raccontate con finezza di dettagli che accompagnano il lettore con delicatezza sino ai momenti più truci e sanguinosi. La sua scrittura trasforma l’horror in poesia affron­ tando anche tematiche sensibili come il suicidio di un giovane, la violenza sugli animali randagi, frammisti alla presenza di creature grottesche e eventi paranormali.


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6 S&H MAGAZINE

Niente ricci nel piatto?

Il nuovo decreto regionale limita la pesca dei ricci di mare di ALBA MARINI

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novembre è ripartita la sta­ gione della pesca dei ricci, frutti di mare prelibati e amatissimi dai sardi, abituati a consumarli spesso nei chioschetti del lungomare. Le asso­ ciazioni animaliste non si erano fatte attendere e avevano portato avanti delle proteste prima che la stagione iniziasse, sperando di tutelare questi

animali dal rischio estinzione. Anche QuiEtica era intervenuta lanciando l’hashtag #iRicciMiPiaccionoInMare, volto all’astensione del consumo dei ricci durante la stagione di raccolta. L’associazione sarda ha come mission quella di diffondere la cultura etica nel mondo lavorativo, fra imprenditori, ar­ tigiani e liberi professionisti e valoriz­ zare la cultura del popolo sardo creando una rete di collaborazione fra

i soci. Sicuramente tra i comporta­ menti etici promossi figura anche il ri­ spetto della fauna marina, anche a discapito della tradizione enogastrono­ mica locale. Dopo le proteste, i gruppi FB come “Nessun riccio nel piatto” (non sotto­ valutiamo il potere dei social) e le prese di posizione di alcuni ristoranti, che qualcosa si smuovesse a livello le­ gislativo appariva imminente. La rispo­ sta della Regione è arrivata puntuale. L’Assessora dell’Agricoltura Gabriella Murgia ha firmato un nuovo decreto che limita la platea degli autorizzati alla pesca dei ricci.


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Innanzitutto, la stagione della pesca dei ricci è iniziata ufficialmente il 1° novembre e terminerà il 15 aprile 2020. Ma a chi sarà consentito racco­ gliere questi frutti di mare amatissimi? Gran parte della differenza la fanno le autorizzazioni. I pescatori marittimi professionali, iscritti nel registro dei pescatori marittimi, potranno pescare i ricci solo dall’imbarcazione mediante asta e “cannuga” (lo specchio per ricci), mentre i pescatori professionali subacquei, in possesso di autorizza­ zione per la pesca subacquea profes­ sionale, potranno farlo in apnea o con l’uso di apparecchi ausiliari per la re­ spirazione, esclusivamente a mano (o con uno strumento corto che permetta di staccare il riccio dal fondale). Prima dell’ultimo provvedimento preso in materia, anche chi esercitava la pesca per scopi ricreativi poteva pescare i ricci in apnea o immersione, a patto

che lo facesse solo manualmente e non usasse apparecchi ausiliari per la respirazione. Adesso il nuovo decreto firmato dall’assessora Murgia preclude completamente la pesca dei ricci ai pe­ scatori sportivi. Altre limitazioni riguardano il numero dei ricci “pescabili” e le dimensioni: un pescatore professionale subacqueo, per esempio, potrà raccogliere fino a 2 ceste (circa 1000 esemplari). La taglia minima di cattura è di 50 millimetri esclusi gli aculei. Quali sarebbero i possibili compro­ messi per tutelare la specie senza ri­ nunciare a un piatto così amato come la pasta con i ricci? Sicuramente uno studio della situazione attuale con la sperimentazione di un piano di ripo­ polamento potrebbero essere molto utili per trovare una soluzione che metta d’accordo tutti, in primis il no­ stro mare.


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Riccardo Stabellini

Allan Pereira

CHE RAIMOND, SIGNORI!

PERIODO STRAORDINARIO PER LA SQUADRA DI COACH PASSINO di ERIKA GALLIZZI foto CLAUDIO ATZORI

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eriodo di forma eccellente per la Raimond Handball Sassari, che sembra aver definitivamente tro­ vato la “quadratura del cerchio” e aver preso le misure al campionato di Serie A1 di pallamano. La squadra di coach Luigi Passino sta risalendo prepotente­ mente la classifica a suon di vittorie, e disputando delle ottime gare. Doveva essere un momento della stagione par­ ticolarmente ostico, visti i duelli “mica da ridere” previsti del calendario, invece si sta rivelando un periodo altamente proficuo, non solo in termini di risultati, ma anche dal punto di vista degli equilibri trovati, dell’affiatamento e l’amalgama di squadra. Ora la Raimond è sicura di sé, in piena fiducia, e affronta con mag­ giore serenità anche le difficoltà che, in ogni partita, sono sempre dietro l’angolo. Non si disunisce nei match “tirati” e punta dritta a fare bottino pieno.

È così che, nell’ultimo mese, ha inanellato un filotto di quattro vittorie consecutive, bloccando la corsa di avversari come i campioni e i vice­campioni d’Italia del Bolzano e del Pressano e assicurandosi il sesto posto in classifica, ad un solo punto dal quinto e con un margine di tre dal settimo. Oltre all’euforia delle vittorie, la Raimond ha anche un altro motivo per essere fe­ lice: l’atleta italo­brasiliano Allan Pereira ha potuto finalmente scendere in campo negli impegni ufficiali, dopo che si sono risolte positivamente le pratiche del passaporto e le “indagini” sui suoi an­ tenati italiani. E, per quanto sia difficile parlare di singoli in periodi così esaltanti, in cui è sempre il gruppo a portare certi risultati, non si può non sottolineare come proprio il “nuovo” atleta abbia dato grandissima solidità alla squadra, con la sua grande fisicità su entrambi i lati del campo. E Pereira (26 reti per lui negli ultimi quattro incontri), insieme al solito Stabellini, che si conferma miglior

Maksym Voliuvach

marcatore dei rossoblù con 57 reti totali, ed il portiere Voliuvach sono coloro che hanno lasciato una grande impronta in queste ultime partite. Il mese di dicembre vedrà i sassaresi impegnati col Fasano per l’ultima giornata del girone di andata del campionato, poi si disputeranno le qualificazioni alla Final8 di Coppa Italia (in programma a Siena, nel mese di febbraio 2020). Alle qualificazioni prenderanno parte 12 squadre secondo incroci basati sui ri­ sultati della stagione 2018/19 e perciò, già definiti (come anche gli accoppia­ menti dei quarti di finale della Final8), con la Raimond che se la vedrà col Pres­ sano. La vincente, incontrerà poi, ai quarti della F8, la squadra che la spunterà nello scontro tra Fasano e Cologne. Bol­ zano, campione d’Italia, e l’Ego Siena in qualità di società ospitante hanno già il pass per le finali. L’ultimo impegno del 2019 sarà la Su­ percoppa che si disputerà il 22 dicembre a Bolzano, tra i padroni di casa e il Pres­ sano. Poi la Serie A1 si fermerà per la pausa di fine anno.


studiomassaiu.it

assaiu io M port d u t S S per lo Informazione sanitaria a carattere informativo non promozionale e non suggestivo secondo il comma 282 della legge 248 del 04/08/2006. Direttore Sanitario Andrea Massaiu Odontoiatra, Iscrizione Albo Odontoiatri di Sassari n° 623


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di MARCO SCARAMELLA

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razie ad una grande passione per la scrit­ tura che coltiva fin da piccolo, è riuscito a lavo­ rare per grandi serie ameri­ cane come Winds of Winter, Warrior Nun, Free Fall, Air­ boy, Freeman, Dracula in

the West e Dago. Inizia a pubblicare da giovanissimo, a 15 anni, sulle pagine di Comix (edizioni Panini) inse­ rendosi tra i primi esponenti del fumetto indipendente italiano negli anni Novanta fino a che, nel 2000, esordi­ sce in America. Ha lavorato a diversi libri tra cui Sardegna

in Cucina (un successo tra gli shop online e i media), dove racconta la cucina sarda e ne offre le ricette tradizionali. Ha anche diretto molte rivi­ ste nazionali come Telefilm Magazine, l’edizione italiana di Sci­fi Now e l’edizione ita­ liana di Weird Tales. Lui è Gianluca Piredda, che man­

cava dalle pagine di S&H da ormai dieci anni. Nono­ stante i numerosi impegni di lavoro, Gianluca ci ha dedicato volentieri un po’ del suo tempo per raccon­ tarci qualcosa su di lui, e le novità sul suo lavoro. Gianluca ci racconta di es­ sersi avvicinato alla scrittura da bambino. Come tutti, da piccolo, giocava creando delle storie, dei personaggi, degli intrecci. A un certo punto ha sentito la neces­ sità di fermare su carta le storie che amava raccon­ tare. Il merito è stato anche quello di aver vissuto in una casa frequentata da libri, ri­ viste, fumetti e di sua mamma che gli ha tra­ smesso la passione per la narrativa inglese, per i clas­ sici, per l’epica greca. È stata lei a regalargli la prima mac­ china da scrivere. Come sei arrivato a pubbli­ care in America? Questo in che modo ha influito sulla tua carriera? Nel modo più semplice: pro­ ponendomi. Era la fine degli anni Novanta e, dopo una lunga gavetta, ho iniziato ad avere un po’ di visibilità nel nostro mercato. Mi arriva­ vano proposte interessanti, i giornali e le tv parlavano di me e così presi a contattare gli editori Americani. Era il 1999. Quell’anno conobbi Ben Dunn, ai tempi editore dell’Antarctic Press. Gli piacque una mia storia breve e mi chiese di svilup­ parla per farla diventare una graphic novel. Era Winds of Winter, una specie di fiaba dark che ebbe un notevole successo, al punto che uscì


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Freeman

in una doppia edizione: re­ golare e con un CD che con­ teneva la colonna sonora. Da lì è partito tutto. Nel 2001 l’Antarctic press mi af­ fidò Warrior Nun, il suo per­ sonaggio di punta, perché voleva che gli dessi un po’ delle tinte dark di Winds of Winter. Poi arrivarono altre serie, da Free Fall a Spek­ tral, poi ancora Airboy in­ sieme a Chuck Dixon e Ben Dunn, dei lavori per la Image Comics, la direzione di molte riviste, la radio, la tv, i libri… oggi la mia casa è l’Editoriale Aurea. A proposito di Warrior Nun, a breve arriverà anche su Netflix. Cosa puoi dire?

Dracula in the West

Warrior Nun non è un per­ sonaggio creato da me, quindi non sono coinvolto attivamente nel progetto. Conosco uno dei produttori, qualche attrice ma non so molto sul progetto, a parte quello che mi ha raccontato Ben Dunn, il creatore della serie, al ritorno dal set. Pare che sarà molto fedele al fu­ metto e avrà una decina di episodi, nello stile di Netflix. A dicembre sei presente contemporaneamente sui settimanali Lanciostory e Skorpio con Dracula in the West e Freeman.

Due western ma completa­ mente diversi. Ce ne parli? Freeman è la storia di uno schiavo che, per via di una serie di eventi, scappa dalla piantagione. In ogni episo­ dio racconto l’America di quegli anni e Theo, da pro­ tagonista, diventa quasi più un testimone oculare dei suoi tempi. I disegni sono di Vincenzo Arces, che coniuga perfettamente il suo stile italiano a una “gabbia” alla francese. Dracula in the West è una nuova rilettura del vampiro di Bram Stoker. Nella nostra serie, Dracula riesce a fug­ gire dalla Transilvania e, dopo un lungo viaggio in Eu­ ropa, si imbarca per gli Stati Uniti.

I disegni sono di Luca Lam­ berti, giovane promessa del fumetto nostrano. Se Freeman fornisce il pre­ testo per raccontare la sto­ ria dell’America del 1861, con Dracula in the West rac­ conto le superstizioni, i miti e le leggende degli indiani e delle popolazioni native. Sei anche alle prese con Dago, parlaci un po’ di lui. È una grossa responsabilità ed è un grande onore che l’Editoriale Aurea mi ha con­ cesso. Dago è un personag­ gio nato nei primi anni Ottanta dalla penna di Robin Wood e ha conquistato sin da subito i lettori di Lancio­ story, diventando un cult per i fan che lo seguono da quattro decenni. Oggi è pre­ sente in edicola con i suoi monografici, i cartonati della linea AureaComix, con gli in­ serti su Skorpio e le nuove avventure su Lanciostory. Io faccio parte dello staff che realizza le storie “a trazione italiana”. Quelle che sto scri­ vendo sono ispirate a fatti realmente accaduti, ambien­ tati ogni volta in una regione italiana diversa. Cosa bolle in pentola per il futuro? Tante idee, ogni giorno in redazione ne nasce una nuova. Una cosa è certa: il futuro sarà targato Aurea. Ringraziamo Gianluca per la disponibilità e vi ricordiamo che potete rimanere aggior­ nati sulle novità che riguar­ dano il suo lavoro seguendo la sua pagina Facebook e i suoi profili Instagram e Twitter.


GENTE DI SARDEGNA

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Un viaggio tra le anime che hanno contribuito alla storia artistica, sportiva, sociale e culturale della Sardegna. Una serie di cammei di donne e uomini nati in Terra Sarda che hanno portato il loro animo isolano nel mondo, alternando gli illustri personaggi del passato a quelli dei giorni nostri. di ANTONIO TARALLO

«Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta.»

GRAZIA DELEDDA LA “VOCE DELLE FOGLIE”

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lei, Grazia Deledda, lo era. In un contesto internazionale, come la consegna del Premio Nobel per la Letteratura, ricevuto nel 1927, questa sua radice sarda, così forte­ mente dichiarata, provoca, indubbia­ mente, un certo effetto. Non lo nascondiamo. Le parole sono tratte dal discorso che la famosa scrittrice, tenne davanti alla platea dell’Accademia Sve­ dese. Ma, faranno ancora più effetto, le parole che seguono perché si tratta di una vera e propria dichiarazione d’amore per la sua amata terra: “Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle mon‐


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tagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte pog‐ giato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua cor‐ rente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitu‐ dine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è for‐ mata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”. Se do­ vessimo, in pochissime righe, concen­ trare tutta la poetica della scrittrice, non potremmo ­ certo ­ trovare parole migliori di queste. Ed è proprio tutta questa “forza primi­ tiva” dell’ancestrale terra di Sardegna, quella che sgorga dalle pagine dei suoi romanzi che, ancora oggi, rappresen­ tano uno dei più densi momenti della Storia della Letteratura italiana. Se vo­ lessimo, per un attimo, far correre l’im­ maginazione, potremmo affermare ­ con un po’ di seriosa ironia ­ che, aprendo i suoi libri, potremmo benis­ simo sentire il vento della sua Nuoro, il frastornato rumore del mare di Sarde­ gna, scagliarsi, violento e dolce, sui verdi scogli. E, magari, dopo aver scorso le pagine dei suoi romanzi, po­ tremmo avere ­ addirittura ­ le mani sporche di salsedine, di fango. So bene che tutto ciò potrebbe sembrare una fiaba, ma ­ in fondo ­ era stato un noto critico letterario come Emilio Cecchi a scrivere, nella sua introduzione del 1941 all’edizione Mondadori di “Ro­ manzi e novelle” della scrittrice: “Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo (...) Sia i motivi e gli intrecci, sia il mate‐ riale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco”. E, la biografia della Deledda, potrebbe definirsi proprio una fiaba. “C’era una volta... una casa a Nuoro. Era il 28 settembre del lontano 1871. In questa casa, nacque Grazia Maria Cosima Damiana Deledda”. Sarà, poi, per tutti ­ semplicemente ­ Grazia De­ ledda. Era la quinta di sette figli. Il padre, Giovanni Antonio Deledda, lau­ reato in legge, non esercitava la pro­ fessione, preferendo, invece, la carriera di imprenditore e possidente. Sarà la madre, Francesca Cambosu, donna di “costumi severi” (così vor­ rebbe la dicitura nella fantomatica

fiaba), a educare Grazia che, dopo aver frequentato le scuole elementari, venne seguita privatamente da un pro­ fessore, ospite di una parente della fa­ miglia: italiano, latino e francese, queste le lingue con cui, Grazia, comin­ ciò a “giocare”. E poi, ci sarà la predo­ minante presenza della nonna, una presenza quasi divina, simile alle pic­ cole “fate sarde”, buone o cattive, a se­ conda della storia. E, in questo contesto dal profumo tutto familiare, si inserisce un’importante amicizia che segnerà la vita della giovane scrittrice. Questa amicizia ha un nome, un volto: Enrico Costa, scrittore, archivista e, seppur in maniera dilettantistica, noto storico sassarese. Fu quest’uomo a ri­ conoscere nella ragazza­donna, dai tratti fortemente marcati, dagli occhi colmi di malinconica gioia di vivere, doti letterarie non comuni. La diciassettenne Grazia, invia alla rivi­ sta romana “Ultima moda”, il suo primo scritto. In questo, non poteva non parlare della sua Sardegna, di quella terra così fortemente presente nelle “sue vene”. Parliamo, infatti, di “Sangue sardo”. Tra il 1888 ed il 1890, collabora intensamente con riviste ro­ mane, sarde e milanesi, incerta tra prosa e poesia. L’opera che segna l’ini­ zio della carriera letteraria è “Fior di Sardegna” (1892), che ottiene buone recensioni. Nel 1899 partirà alla volta di Cagliari, invitata da Maria Manca, direttrice della prima rivista femminile pubblicata in Sardegna “La donna Sarda”. Sarà una fondamentale tappa per “approdare” in un’altra città che, per lei, è sempre stata sinonimo di “fu­ turo”: è la Città Eterna, Roma. Ci andrà con chi diventerà poi suo marito, il se­ gretario all’intendenza di Finanza, Pal­ miro Madesani. Ma il ricordo per la sua Sardegna non vacillerà mai. Dirà, infatti, anni dopo, ormai affermata: “Talvolta mi avviene di pensare con commozione, che se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia Isola santa. L’ho nel cuore, come si ha nel cuore la casa della madre e del padre”. Solo nel 1959, la scrittrice, rivedrà la sua Nuoro. Qui, ai piedi del Monte Ortobene, nella pic­ cola chiesa detta “della Solitudine”, la immaginiamo ­ per concludere la no­ stra fiaba ­ ancora intenta ad ascoltare “la voce delle foglie”.


Foto Sara Deidda

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IL CROSSING DI FRANCESCO PIU IL BLUES CHE UNISCE LE CULTURE

di HELEL FIORI

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hi canta blues canta delle proprie radici. Questa è la regola. Più di tutti i parametri rit­ mici, più di tutti gli stereo­ tipi che legano questo genere alla povertà o alla vita dissoluta. Intendiamoci: è così che nasce. Quando gli schiavi africani delle piantagioni hanno dovuto trovare il modo per non impazzire hanno iniziato a cantare, e così la donna a cui chiede­ vano pietà era in realtà il pa­ drone della piantagione, e la bestia nera che li inseguiva

senza sosta era il suo cane, non il diavolo, che li inse­ guiva per sbranarli mentre fuggivano verso la libertà. E quando finalmente la schiavitù finisce i musicisti iniziano a portare quella musica nei club, e a tirar tardi la notte, e a mancare messa la domenica. E così il Predicatore dal pulpito da­ vanti a una chiesa semi­ vuota avvisa le donne che i loro uomini andranno all’In­ ferno, se continuano a suo­ nare il blues. Così anche se univa i musi­ cisti, i poveri, i reietti, il blues continuava a perpe­

trare il divario che passava tra i suoi estimatori e il resto della società. In cento anni però le cose sono cambiate: grazie agli sperimentatori (inteso anche come studiosi, non solo come dannati rockers anni ’60) il blues si è intrec­ ciato con altri generi, si è evoluto, si è lavato i denti e ha messo il vestito buono, così da avere libero accesso a saloni ben più sofisticati. È il patto a cui è dovuto scen­ dere per poter sedere ac­ canto agli altri generi e portare nella musica un po’ di quella sincerità fonda­ mentale al trasmettere il

proprio messaggio senza in­ dossare maschere. Lo sa bene Francesco Piu, trentotto anni, originario di Osilo ma ormai quasi citta­ dino del mondo. Francesco è un talento no­ strano molto noto nel pano­ rama blues internazionale, inizia a suonare la chitarra giovanissimo grazie al padre e allo zio, finché poco più che ventenne vince coi Blu­ juice il concorso regionale per gruppi “Blues from Sar­ dinia” al Narcao Blues Festi­ val. Negli anni successivi suona nei festival di Europa, Stati Uniti e Canada, incon­


Foto Gianfilippo Masserano

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trando artisti di fama mon­ diale fino ad arrivare a far da opening a leggende come Johnny Winter e Jim­ mie Vaughan, fratello di Steve Ray. Nel 2010 lo vo­ gliono all’International Blues Challenge di Memphis come rappresentante ita­ liano, nel 2015 suona al Par­ lamento europeo a Bruxelles per la presenta­ zione dell’European Blues Challenge 2016.

In poco più di dieci anni si è costruito un nome e ha con­ quistato grandi che l’hanno supportato nella produzione dei suoi album, uno su tutti il cantautore newyorkese Eric Bibb che ha prodotto il suo terzo disco, “Ma­moo Tones” del 2012 (progetto di trio acustico). Gli album ad oggi sono sette, dove Fran­ cesco si è divertito a misce­ lare diversi stili di black music senza restare asser­

vito a un unico stile. La sua musica infatti è una commi­ stione di blues, funky, rock e soul in chiave acustica, can­ tati con voce, chitarra, ar­ monica e altri strumenti inusuali. Lo incontriamo oggi per parlare della sua settima fa­ tica Crossing (Appaloosa Records) in cui il suo sound si arricchisce di inebrianti sonorità mediterranee non solo sarde, ma di tutto il bacino che ci accoglie, uti­ lizzando parecchi strumenti figli di queste terre antiche partendo dalle percussioni africane e spingendosi fino al Medio Oriente (ad es. con l’oud, un liuto arabo a manico corto dalle ascen­ denze persiane detto “lo Scià degli strumenti” e il bouzuki, il mandolino greco tipico della danza sirtachi), racchiudendo il tutto sotto una lente elettronica mo­ derna che lo attualizza e lo rende fruibile anche dai giovani meno avvezzi alle sonorità hoodoo ipnotiche del blues anni ’30 del Delta del Mississippi. L’album si compone di dieci pezzi ben noti ai musicisti perché figli di quel blue­ sman leggendario che ven­ dette la propria anima al diavolo in cambio del ta­ lento: L’idea di fare un disco tributo a Robert Johnson mi venne proposta due anni fa dall’associazione The Blues Place di Milano ed io accet‐ tai a patto che i riarrangia‐ menti non andassero nella direzione canonica del blues ma confluissero da questa parte dell’oceano. Un incon‐

tro di culture musicali che vuole essere un invito a me‐ scolarsi in quest’epoca di muri e intolleranza contro il “diverso”. La musica, nella sua libertà, è la dimostra‐ zione che più le culture si miscelano più è ricca ed in‐ teressante l’espressione arti‐ stica. Il risultato è davvero sor­ prendente, come sorpren­ dente è il video di Me and the Devil, brano traino del­ l’album, che ci scaraventa nella vita (morte?) di Robert Johnson grazie al visionario videomaker Bruno D’Elia alias Mezzacapa (eccellente e surreale, campano tra­ piantato in Sardegna, ha già lavorato con Marta sui Tubi, Fabi, Bersani, Gazzé). La promozione del disco con­ tinuerà con il tour italiano (già portato a Sassari e Ca­ gliari, a dicembre toccherà Olbia, Nuoro e Oristano; per le date sullo Stivale e i link ai social ufficiali riportiamo al sito francescopiu.com) del quale saranno disponibili i video live sul canale ufficiale YouTube, proprio per non di­ menticare la componente fondamentale dello scambio e della partecipazione. La condivisione con gli altri è in­ fatti uno degli elementi por­ tanti della musica di Francesco, quello che la nutre, e che speriamo potrà dare linfa al nuovo progetto che verrà messo in cantiere appena si concluderà il tour di Crossing.

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I Magnifici 3 Viaggio nel Natale: tre delizie dolci delle feste di DANIELE DETTORI

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i siamo. Ancora pochi giorni e il Natale, la cui atmosfera già si respira nelle vetrine e sui social, come ogni anno ci coglierà più o meno preparati con il suo bagaglio di aspetta­ tive e buoni propositi. Ma è un altro l’aspetto sul quale vogliamo soffermarci in questa pagina, col nostro consueto metro di misura: tre dolci che accompa­ gnano la festa della natività i quali, du­ rante i giorni che si snodano tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno, sono facili da trovare sulle tavole degli italiani in base alla latitudine geografica. Iniziamo il nostro viaggio dal freddo nord, dove in Piemonte è tradizione portare sulle tavole il suggestivo e gu­ stoso Tronchetto di Natale. Il nome non è casuale poiché questo dolce, dalla morbida composizione di farina, uova, lievito, burro, zucchero e cacao alle note

di brandy, richiama con la sua forma il caratteristico ceppo di legno che ali­ menta la fiamma dei caminetti. Anche l’esterno viene finemente lavorato, mo­ dellando il ricco amalgama di mascar­ pone, panna e crema di marroni, così da fargli assumere le sembianze della cor­ teccia. Il tronchetto sembra affondare le sue radici oltralpe, in particolar modo nell’alto nord, dal quale si sarebbe poi allungato in terra francese e da lì fino a noi. Servirlo a tavola, magari accompa­ gnato da foglie e bacche di frutta can­ dita o modellate con la pasta di zucchero, è simbolo di buon augurio, proprio come far bruciare il vero ceppo nel camino per i dodici giorni che tra­ scorrono tra il Natale e l’Epifania. Ci spostiamo verso il centro dello sti­ vale, in Toscana, dove in quel di Siena è tradizione, per Natale, portare sulle ta­ vole il Panforte. Questo dolce, oggi fa­ moso in tutto il mondo, sembra nascere all’incirca un millennio fa all’interno dei monasteri senesi, dove i frati lo prepa­ ravano con la collaborazione degli spe­ ziali: figure molto importanti all’epoca, che lavoravano il dolce con aromi e frutta secca conferendogli un gusto ricco e deciso. Non sorprende che il

panforte fosse una prerogativa di clero e nobiltà. Esisteva, tuttavia, anche una versione più popolare il cui sapore risul­ tava però più forte, nell’accezione di acido, a causa delle differenze di prepa­ razione: è proprio da questa che, proba­ bilmente, il dolce ha preso il nome. Nel corso dei secoli hanno visto la luce di­ verse varianti della ricetta e oggi è pos­ sibile prepararlo anche in casa con un importante valore aggiunto: il panforte ha infatti una lunga durata che per­ mette di conservarlo e gustarlo anche dopo le feste. Chiudiamo con un pizzico di campanili­ smo. Dalle nostre parti, infatti, la Coz­ zula è un’ottima alternativa a pandoro e panettone. Ne esistono, anche in que­ sto caso, alcune varianti ma qui ci rife­ riamo a quella che, a partire dal mese di novembre, accompagna i pasti col suo sapore aromatico e fragrante. Di forma rotonda e colore scuro, è una focaccia dolce artigianale, con uvetta e frutta candita, che si assapora riscaldata e spolverata di zucchero. Concedersene una fetta tra i tanti dolci di produzione industriale garantisce un assaggio dei tempi andati.

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LORENA PIRAS LA VIE EN NOIR di DANIELE DETTORI

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guardo felino (proprio come quello delle piccole gatte che cura amorevolmente) e atteggia­ mento misurato, ma è soprattutto per la sua voce che conosciamo Lorena Piras: possiamo infatti ascoltarla tutte le settimane in occasione della rubrica, dal titolo Nero d’Archivio, che conduce su Radio Venere. Si tratta di pillole noir capaci di riassumere, con poche ma funzionali pennellate, vicende cruente verificatesi nel circondario sassarese in particolare nel secolo a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento. «Io non invento nulla nelle storie che racconto», tiene a precisare Lorena. «Si tratta sempre di vicende realmente accadute, spaccati di vita che oggi riempirebbero le pagine di cronaca nera.» E, tornando indietro con gli anni, ci racconta il perché del suo inte­ resse verso questa materia. «Me ne sentivo attratta fin da bambina. Volevo

scoprire come certe cose accadessero e perché. Le mie coetanee sognavano di diventare ballerine o simili mentre io volevo lavorare in quest’ambito che allora non sapevo neppure definire. Seguivo Telefono Giallo, il primo Chi l’ha visto? e Blu Notte; Lucarelli per me è un idolo indiscusso. Erano anni, però, in cui dalle nostre parti, per una ra­ gazza, risultava difficile intraprendere studi mirati. Così ho seguito diversi percorsi, tra cui Scienze Politiche fin­ ché, nel 2017, ho conseguito un ma­ ster in criminologia a Roma. E quella passione che non sapevo definire ha trovato un titolo, anche di studio.» Dopo alcune esperienze sul campo – qui ricordiamo proprio quella matu­ rata nella Capitale, presso il Centro Orientamento Lavoro (COL) Carceri – Lorena segue attualmente un gruppo di detenuti, nella Casa del Parco del­ l’Asinara a Porto Torres, ammessi al la­ voro esterno secondo l’articolo 21 della legge 354/1975 sull’Ordinamento Penitenziario. «Con loro, insieme

anche a un’archivista, ci occupiamo del recupero di tutto il materiale docu­ mentale custodito all’Asinara. È, tra l’altro, un lavoro che si ricongiunge all’argomento della mia tesi di master, proprio dedicata all’art. 21. Un lavoro che dà grandi soddisfazioni e ti mette a confronto con persone dal vissuto dif­ ficile ma pur sempre esseri umani, spesso dotati di un talento che an­ drebbe però incanalato nel modo giu­ sto. Ma questo non è sempre facile da spiegare a chi si ha vicino.» Sì, perché serve una certa forza a chi sceglie di fare della criminologia la sua professione. Una predisposizione al rapporto diretto con chi si è spinto oltre la legge molto diversa da ciò che può apparire se si considera questa fi­ gura specializzata così come appare


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nei salotti televisivi. «Intanto occorre distinguere tra criminologia, che si oc­ cupa dello studio del reo, e criminali­ stica, che consiste nello studio sul campo, sulla scena del crimine. Quella che vediamo in tv, più che criminologia è tuttologia e ciò crea molta confu­ sione, generando e alimentando una morbosità eccessiva, al limite del voye­ rismo. C’è la tendenza a portare sem­ pre più in basso il livello del discorso e a soffermarsi su aspetti del tutto inutili quando non addirittura vergognosi. Ma, del resto, è il meccanismo delle tre S che caratterizzano la cronaca nera, “sesso, sangue, soldi”, ad at­ trarre lo spettatore medio; forse per­ ché viene portato a identificarsi con chi indaga o chissà, forse lo fa sentire al sicuro perché è toccata a qualcun altro e non a lui.» Arriviamo, quindi, a Nero d’Archivio. Prendendo le mosse da alcune pubbli­ cazioni in forma scritta, quella di tra­ sferire gli argomenti dalla carta stampata all’etere si è rivelata una con­ seguenza inaspettata. Inizialmente pensato come format per la diretta, Lorena ha preferito optare per il regi­ strato «sia per vincere l’ansia da micro­ fono, sia per poter ulteriormente controllare il risultato finale prima della messa in onda.» Un filtro in più a garanzia del prodotto. «Quando mi hanno proposto la ru­ brica, ho scelto di raccontare le storie così come le riportano i fascicoli sui quali conduco le ricerche, senza

chiasso o sensazionalismi. Lo trovo più utile e funzionale al trasmettere un messaggio di prevenzione nei con­ fronti di certe vicende. Nel corso delle puntate ci sono stati alcuni casi che ho trovato particolarmente significativi e che mi hanno colpito molto. Tra questi la storia di Francesca, uccisa a Rio Ga­ baru nel 1940 – giovanissima e da co­ noscenti – solo per rubarle dei soldi che neppure aveva con sé. L’autopsia ha rivelato che era incinta di pochi giorni. Non lo sapeva neppure lei. Un’altra vicenda molto forte è quella di signor Salvatore, ucciso a Sorso nel 1931. Ultrasettantenne e con problemi di vista, non essendo autosufficiente era stato accolto da una coppia che lo accudiva. Dopo avergli prosciugato tutti gli averi, però, è stato massacrato e gettato in un mondezzaio dell’epoca. Quando lo hanno trovato era ancora vivo e, prima di morire due giorni dopo, è riuscito a fare i nomi di chi lo aveva aggredito fugando ogni dubbio. Ricordo ancora un caso, quello di Cate­ rina: uccisa nel 1920 nel centro storico di Sassari e abbandonata ai giardini. Quella volta è stata una parente della vittima a chiedermi di fare una ricerca, perché sentiva parlare in casa di que­ sta storia quando era bambina. Ma i fascicoli dell’Archivio di Stato sono pieni di casi come questi e anche di più neri: tragedie dalle quali – pure dopo tanti anni e considerando il ripetersi sempre degli stessi eventi – non sem­ briamo aver imparato molto.»


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di MARCO SCARAMELLA

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e loro opere sono note in tutto il mondo grazie alla mostra itinerante Prendas contra s’ogu malu, che ha toccato città come Roma, Milano, Firenze, Il Cairo, Ginevra e New York, ottenen­ do un grande apprezzamento. I loro gioielli e gli amuleti tra­ dizionali si trovano perma­ nentemente in 4 musei, e i loro rosari sono esposti nelle sale Vaticane. Hanno creato opere per il Santo Papa Gio­ vanni Paolo II e per Benedetto XVI, per i presidenti della Re­ pubblica Cossiga, Scalfaro e Ciampi e per altre im­ portanti perso­ nalità della cul­ tura e dello spettacolo. Stia­ mo parlando del la­ boratorio orafo di Gio­

La storia recente vede Nanni Rocca, trasferitosi a Oristano nei primi anni Settanta, riu­ scire ad ottenere riscontro a livello internazionale. Nanni forma e manda a studiare Oreficeria Moderna ed Ore­ ficeria Antica suo figlio Pier­ luigi, la sesta generazione ora­ fa della famiglia. Pierluigi, di­ ventato Maestro di Oreficeria Etrusca e ricercatore storico, valorizza la ricerca e lo studio dei gioielli del territorio ori­ stanese: sia quelli di Tharros che quelli del Giudicato d’Ar­ borea. Nanni e Pierluigi continuano a produrre i loro gioielli con le tecniche tradizionali. Sono cambiate solo le fonti di alimentazione per le fiamme e per le fusioni. Inoltre esistono ancora le antiche s harro attrezzature orafe Bracciale T

vanni Rocca che, da sei ge­ nerazioni realizza i veri gioielli della cultura sarda, valoriz­ zandone la tradizione. Abbia­ mo chiesto a Pierluigi, figlio di Nanni, di raccontarci la sto­ ria di questa longeva attività. Pierluigi ci racconta che tutto nasce nella seconda metà del 1800 a Gavoi, quando Efisio Rocca dà inizio ad un’attività che si sarebbe tramandata sino ad oggi, di padre in figlio, per circa due secoli. Col pas­ sare del tempo, i Rocca si per­ fezionano nell’arte della fili­ grana, e inventano nuovi stru­ menti di lavoro.

dei Rocca, risalenti al 1800, come ad esempio una mac­ china da cucire Singer a pedali, adattata a tornio multifun­ zionale dal bisnonno di Pier­ luigi, che aveva conoscenze meccaniche e inventava mac­ chinari per agevolare e mi­ gliorare la qualità della pro­ duzione dei gioielli in filigrana. Questi gioielli, però, non na­ scono solamente dall’abilità dell’artigiano. Tutto comincia con la ricerca attraverso libri, visite ai musei, parlando con gli anziani o riesaminando i gioielli antichi della famiglia Rocca. In seguito si affronta la fase di progettazione con vari schizzi e disegni prepa­ ratori molto realistici, sia per le misure che per i dettagli delle lavorazioni. Il lavoro dei Rocca non ha solo un valore artistico ma anche culturale. Grazie alla loro produzione e alla loro minuziosa ricerca storica, col tempo, sono riusciti a ripro­ durre quasi tutte le tipologie di gioielli esistenti e a racco­ glierli nella loro collezione. Così è possibile conoscere e tramandare quasi tutte le tra­ dizioni ed i significati legati ai numerosissimi gioielli della cultura sarda. Pierluigi ci racconta che la mancanza di miniere di pietre preziose, e la fantasia dei committenti sempre più su­ perstiziosi, ha reso gli argen­ tieri sardi capaci di incastonare qualsiasi cosa: dai vetri colo­ rati ricavati da lampadari rotti, a conchiglie, a zanne e denti di animali, a teche e sacchetti contenenti preghiere ed in­ gredienti magici, a grani di rosari di giavazzo portati dalla


Foto Mariano Marcetti

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Puleu e Rosario sposa (sinistra). Rosario (destra)

Terra Santa che diventano il famoso Kokko. Il bottone sar­ do rappresenta il seno ma­ terno, in una società agropa­ storale dove i figli significano forza lavoro, si vuole scon­ giurare l’alta mortalità infantile e augurare fertilità. Il proble­ ma dell’arte orafa sarda arriva negli anni delle due guerre mondiali, dove la stragrande maggioranza dei gioielli viene donata alla patria o requisita e fusa per finanziare arma­ menti e rifornimenti per gli eserciti, o semplicemente ven­ duta per far fronte alla po­ vertà. Fortunatamente, le chiese e i musei sardi sono ricchi di gioielli antichi, e molti scritti ne danno testimonianza

descrivendo le donne sarde stracolme di gioielli. All’inizio di questo articolo abbiamo citato la mostra iti­ nerante Prendas contra s’ogu malu. Pierluigi ci racconta che si tratta di una collezione di oltre 200 gioielli, realizzati in­ teramente a mano, in argento, e con i materiali che venivano utilizzati tradizionalmente. Ciascuno di questi gioielli è opportunamente documen­ tato sia sotto il profilo storico, sia sotto il profilo dell’uso a cui era destinato, offrendo con ciò uno spaccato reale delle tradizioni e delle antiche simbologie sarde. Ogni ba­ checa contiene, infatti, degli amuleti divisi per tipologia

mostrare quanto lavoro c’è dietro ad ogni singola opera. Il loro canale di YouTube, @roccaprendas ha ottenuto oltre 36.000 visualizzazioni. Un successo prevedibile quello che i gioielli Rocca hanno an­ che sugli shop online come Amazon o Sardinia eCommer­ ce, perché da sempre negli scritti si legge dell’ammira­ zione dei viaggiatori rispetto alla gioielleria sarda: dagli ori di Tharros, alle filigrane degli abiti tradizionali, agli orna­ menti sacri. Gli studiosi e viag­ giatori li descrivevano nei par­ ticolari studiandone il signifi­ cato iconografico. In attesa di vedere il docu­ mentario che li riguarda, e che andrà in onda su Rai3 in primavera all’interno di Geo & Geo, ringraziamo Pierluigi e Nanni per la disponibilità e vi ricordiamo che potete re­ perire ulteriori informazioni su roccaprendas.it.

con didascalie che ne spiegano il significato apotropaico. Al­ l’interno dell’esposizione si possono ammirare anche le antiche attrezzature orafe s Is Papperi della famiglia Rocca, muleto A risalenti alla fine del 1800, e ancora funzionanti. La scelta della famiglia Rocca è ben precisa: usare la tecno­ logia per far co­ noscere le arti antiche, non per sostituirle. Foto­ grafano e filmano tutte le fasi di lavo­ razione, realizzando fotolibri e video per


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LA TRADIZIONE DELLE CASE CAMPIDANESI: A Quartu Sant’Elena e dintorni l’intimità delle dimore del passato di ALBA MARINI

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i è appena concluso nella provincia di Cagliari il progetto per far rivivere il fascino senza tempo delle case campidanesi. La novità di quest’anno risiedeva nella costruzione di una vera e propria rete per coordinare eventi e mo­ stre all’interno delle più importanti e belle case campidanesi di tutto il terri­ torio. Il nome del progetto è appunto “Lollas, Autumn Tastes of Sardinia” ed è abbastanza emblematico. Le Lollas, infatti, non sono altro che i porticati delle case campidanesi, vero e proprio centro della vita del passato, dove c’era posto per antichi mestieri e spezzoni di vita paesana. Le Lollas erano luogo di incontro e di scambio, ed era qui che il concetto di casa si ampliava, includendo i sapori e i profumi di una

terra intera. La Rete del progetto Autumn Tastes of Sardinia ha assunto il compito di coordinare la promozione delle ini­ ziative legate alle “Lollas” con l’obiettivo di creare un unico programma di mani­ festazioni, con un calendario coordinato sotto un marchio unico chiamato “Rete Lollas”. Quartu Sant’Elena è stato il co­ mune capofila di quest’edizione 2019: d’altronde, la terza città della Sardegna vanta una importante tradizione di case campidanesi. Ad aver sottoscritto un protocollo di intesa per la costituzione della Rete sono stati anche i comuni di Capoterra, Maracalagonis, Monserrato, Selargius e Sinnai. “L’idea di Rete Lollas trova la sua origine a Quartu Sant’Elena negli anni ’90, quan­ do l’assessore della Cultura di allora fece aprire le case campidanesi ai visitatori e turisti – ha dichiarato il sindaco di Quartu

Stefano Delunas – per poter ammirare oltre che le particolari caratteristiche ar­ chitettoniche, anche il grande patrimonio etnografico in esse custodito per secoli. La manifestazione ha avuto un grande successo di pubblico, anche perché l’offer­ ta era allora stata arricchita da mostre e laboratori, utili per far rivivere le antiche tradizioni legate al mondo agricolo a cui la cittadina, soprattutto per quanto ri­ guarda la tradizione vitivinicola, era ed è ancora molto nota”. L’evento, che ha visto i portoni di molte case campidanesi di Cagliari e hinterland aprirsi ai visitatori sardi e non, è stato molto ricco. Mostre fotografiche, de­ gustazioni di prodotti tipici della cucina sarda, spettacoli musicali, live painting, reading musicali e presentazioni di libri hanno animato i cortili aperti delle an­ tiche dimore quartesi.


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Ma cosa sono le case campidanesi? In cosa si differenziano dalle altre abitazioni? E soprattutto perché erano così impor­ tanti per la comunità? Dobbiamo im­ maginare le Lollas (o porticati in italiano) come punti di incontro, di commercio, come resto storico materiale di quegli eventi di socializzazione. Dentro le anti­ che case si vendevano prodotti, si pre­ parava il pane, si cucinava, si smistava il raccolto, si intrattenevano i rapporti con i vicini, si festeggiavano gli eventi, tra compleanni, matrimoni e nascite. La vita delle comunità, insomma, ruotava intorno alle Lollas. E persino la morte: anche le veglie funebri, infatti, si svol­ gevano all’interno della casa campida­ nese. Sa Lolla delineava il perimetro della vita personale e familiare, sepa­ randolo da quella pubblica. Nei centri abitati, in genere, ogni nucleo familiare viveva all’interno di una corte delimitata da muri perimetrali piuttosto alti, che garantivano la privacy ed era proprio sa Lolla ad interporsi tra il cortile recintato e la casa vera e propria. Come nei casi di Quartu e Monserrato, per far fronte alle esigenze economiche e di spazio, spesso le nuove strade pren­ devano addirittura origine dalla succes­ sione di piccole corti affiancate l’una al­ l’altra. Chi ha avuto la possibilità anni fa di acquistare un immobile di questo tipo ha fatto un grande affare: se ri­ strutturate con cura e con determinati accorgimenti a livello di arredamento le case campidanesi hanno un valore inestimabile e vantano uno spazio ben organizzato e piuttosto ampio. In alcuni paesi dell’hinterland cagliaritano come Serrenti e Sardara, l’architrave posto sul portale d’ingresso mostra ancora oggi le insegne professionali scolpite nella roccia dagli scalpellini locali. In molte case, infatti, veniva ospitata l’attività ar­ tigianale che coinvolgeva la famiglia pro­ prietaria. Per ottimizzare gli spazi, nel cortile si erigevano delle costruzioni som­ marie usate come ripari per i buoi, per il carro, per la legna, per il forno o per gli attrezzi da lavoro. A non mancare quasi mai nel cortile era il pozzo: spesso in co­ mune tra due abitazioni. Tutte le stanze

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A sinistra una casa campidanese di Selargius, in alto Casa Ofelia nel centro storico di Sestu e sopra il cortile interno di Sa Dom’e Farra a Quartu Sant’Elena.

della casa vera e propria davano su sa lolla, così come le porte e le finestre. Prendiamo alcuni esempi di case cam­ pidanesi a Quartu. Casa Murgia Casa­ nova, in via XX Settembre 116, è costituita da più abitazioni rurali e suddivisa in due piani, con muri portanti in ladiri (mattoni in terra cruda), seguendo l’ar­ chitettura tradizionale con loggiato a lolla e soffitti in ginepro e castagno. L’unica differenza con le altre case cam­ pidanesi è che non si affaccia su un solo lato ma su due: via XX Settembre e via Garibaldi. Lo stabile e il suo patrimonio mobile sono considerati una sorta di museo etnografico domestico della cul­ tura agropastorale della città di Quartu. Altro esempio celebre sempre a Quartu è la casa campidanese Sa Dom’e Farra (Casa della Farina), adibita a museo alla fine degli anni ’70 e rimasta inaccessibile per anni.



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DINAMO SASSARI AI VERTICI DELLA CLASSIFICA DI SERIE A

BIANCOBLÙ INCISIVI ANCHE IN COPPA di ERIKA GALLIZZI

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a Dinamo Banco di Sardegna Sas­ sari è uscita dal periodo di fuoco “novembrino”. Gare piuttosto diffi­ cili in campionato, con qualche sconfitta a cui hanno fatto da contraltare le vittorie in Europa (particolarmente bella e vi­ brante la gara vinta, di un soffio, con l’Unet Holon). In alcune partite, come con Venezia e Milano, il Banco avrebbe potuto giocare meglio e mantenere più alta la concentrazione, ma nonostante questo la classifica non ha “sofferto” più di tanto e i biancoblù sono lassù, ai piani alti. Interessanti, in generale, le cifre del Banco in campionato, dalle quali emerge la squadra più che il singolo. Intanto i biancoblù, che hanno agganciato la se­ conda posizione in classifica, vantano la miglior difesa del campionato, con una media di 70.7 punti subiti a fronte degli 81.1 realizzati e non portano marcatori nelle prime posizioni della speciale clas­ sifica. Per trovare un sassarese tra i “cecchini”, bisogna scendere alla 25ª posizione, dove si trovano appaiati Dway­ ne Evans e Miro Bilan con 13.4 punti a partita. Bilan è anche il terzo giocatore più preciso nel tiro da due punti del campionato, con una percentuale del 67.9%. Il miglior rimbalzista del Poz è Dyshawn Pierre, il quale sta giocando una stagione davvero straordinaria sotto tutti i punti di vista, che arpiona 7.2 pal­ loni per match. Pierre è anche quarto miglior tiratore da tre punti della Serie

A (48.6%), seguito da Marco Spissu con il 47.5%. Nel calcolo del plus­minus, la graduatoria è un trionfo dei colori bian­ coblù con, nell’ordine, Pierre, Evans, Bilan e Spissu nelle prime quattro posi­ zioni. Il miglior giocatore del Banco per valutazione, poi, è ancora Bilan, con una media di 19.5. Proprio Bilan, in quest’ultimo periodo, ha evidenziato una crescita di condizione esponenziale e sta mostrando tutto il suo bagaglio fatto di tecnica sopraffina ed esperienza. Considerando che la Di­ namo perderà probabilmente Jamel McLean, che vorrebbe far valere la clau­ sola di uscita dal contratto, poco contento per l’utilizzo e in cerca di nuove oppor­ tunità in squadre di Eurolega, la cosa non può che risultare particolarmente utile. Tutto mentre, naturalmente, la società sonda il mercato per non lasciare una casella vuota. Se nel mese di dicembre il Banco potrà contare su un po’ di riposo, nella pausa natalizia, dalla Fiba Basketball Champions League, non si può certo dire lo stesso per il campionato di Serie A. Calendario fitto di impegni e anche di una certa consistenza, ma almeno si giocherà tre volte su quattro in casa (con le due Bo­ logna e con Cremona, mentre l’unica trasferta sarà sull’ostico campo del Brin­ disi). In Coppa, invece, arriverà al Pala­ Serradimigni il Manresa, poi si volerà sul campo del Lietkabelis e si chiuderà l’anno di fronte ai propri tifosi col Turk Telekom.


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GRANITO ROSA

Alla pietra sarda il titolo di Global Heritage Stone Resource di ALESSANDRO LIGAS

L

a Borsa di Milano, il Ponte Palatino e l’argine del Lungo­ tevere a Roma, i bacini di ca­ renaggio di Venezia, di Taranto e Malta, la base del monumento a Bartolomeu de Gusmão a Santos in Brasile, sono soltanto alcuni dei monumenti realizzati con il Granito Rosa della Gallura. Una pietra “nata e cresciuta” nell’isola con una stra­ ordinaria e lunga storia di utilizza­ zione da parte dell’uomo che parte dall’era preistorica fino ai giorni no­ stri. Un viaggio nella storia e per il globo, che, a luglio di quest’anno, la sottocommissione Heritage Stones dell’IUGS (The International Union of Geological Sciences), ha premiato conferendole il titolo di Global He­ ritage Stone Resource (GHSR). “Un riconoscimento di elevata im­ portanza culturale e scientifica – spiega Nicola Careddu, ricercatore del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura (DICAAR) dell’Università di Cagliari e promo­ tore della candidatura assieme alla professoressa Silvana Grillo, petro­ grafa del Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche dell’Ateneo del capoluogo della Sardegna – che identifica tutte quelle pietre naturali utilizzate per un lungo periodo di tempo, che hanno un forte impatto nella storia, la cultura, l’architettura e l’arte oltre i confini di origine e la cui estrazione è ancora in corso. A far compagnia alla pietra Sarda ci sono altre 2 pietre italiane: il marmo di Carrara e la pietra Serena an­ ch’essa Toscana”. Una delle prime testimonianze del­ l’utilizzo del Granito Rosa risale alla

cultura Nuragica con la Tomba dei Giganti “Li Lolghi” (foto 1). Un grande sepolcro collettivo nuragico di 27 metri di lunghezza complessiva, sito nel territorio comunale di Arzachena, databile intorno al 1800 a.C. Poco distante, situato sul margine occi­ dentale del comune gallurese, risa­ lente al 1500 a.C. circa, troviamo un altro importante monumento co­ struito anch’esso con il granito Rosa: il Nuraghe di Albucciu (foto 2). “Un utilizzo della pietra che non si è esaurito per le costruzioni nuragiche – prosegue il ricercatore – ma che ha continuato nei secoli successivi: è stato utilizzato anche in epoca ro­ mana per monumenti, ville patrizie e per pavimentare strade sull’isola. A Capo Testa, ad esempio, è possibile riconoscere i segni delle antiche cave di questo periodo”. Una pietra con un aspetto attraente e solido usata anche per le abitazioni oltre che per pareti portanti e ar­ chitravi. Usata da est a ovest del globo passando per il medio oriente. Alcuni esempi sono il monumento ai caduti costruito a Ismalia, in Egitto, nel 1928­1930 per commemorare la difesa del canale di Suez durante la Prima guerra mondiale; la pavi­ mentazione della piazza pubblica nel Qasr Al­Hokm a Riyadh (Arabia Saudita). Il grattacielo “Queen’s Road Central” di Hong Kong (foto 3); il centro commerciale “Paragon”, a Singapore come anche il “One Fi­ nancial Square” di New York (foto 4) o il “Plaza Tower One” in Colorado. Con il granito sardo sono state scol­ pite opere d’arte di tutte le dimen­ sioni come anche elementi archi­ tettonici per molte chiese ed edifici, nonché arredi urbani.

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Il dentista risponde

Il Dott. Giuseppe Massaiu è un professionista di riferi­ mento e opinion leader in tema di Odontoiatria Naturale e Biologica, insegna in corsi frontali e on­line argomenti clinici ed extra­clinici legati al mondo della Odontoiatria e della Medicina Naturale, Posturale e Olistica oltre che del Management e del Marketing Odontoiatrico.

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Curiosità sul mondo odontoiatrico

DA QUANDO ESISTONO I DENTISTI? Breve panoramica della storia dell’Odontoiatria Due giorni fa, mentre stavo illustrando ad un paziente un passaggio di una in­ novativa tecnica implantologica, raccon­ tavo che questa disciplina esiste già da tanti decenni, con uno dei pionieri – ol­ tretutto italiano – come il dott. Stefano Tramonte, che iniziò a sviluppare la ma­ teria già dagli anni ’60 del secolo scorso. La conversazione è poi virata su di un’altra curiosità del paziente, ovvero da quando esiste la nostra professione. Devo ammettere che, per un momento, mi sono ritrovato in difficoltà a mia volta, perché è difficile individuare un momento di nascita preciso – a meno che non consideriamo la sola odonto­ iatria clinica moderna – per la nascita della figura del dentista. Ad ogni modo sono riuscito ad elaborare

una risposta abbastanza esauriente sul momento, ma poi è cresciuta in me – a mia volta – la curiosità di approfondire. Le prime testimonianze di “cure dentali” risalgono alla preistoria. Già tra i 9000 e i 7000 anni or sono gli archeologi hanno riscontrato tracce di fori nei denti praticate con frese rudimentali. In seguito, invece, verso il 2600 a.C. troviamo il primo uomo a vantarsi di appartenere alla nostra pro­ fessione. Nella tomba di Hesy­Re, uno scriba egiziano, viene rinvenuta la dicitura “Il più grande di coloro che si interessano ai denti di tutti i medici”. Insomma, mo­ destia a parte, di sicuro tale scritta è in­ dicativa di una certa specializzazione presente già nell’Egitto dei Faraoni. Ippocrate, nume tutelare della nostra medicina occidentale, e Socrate hanno

scritto numerosi trattati in cui discute­ vano dell’eruzione dei denti, delle estra­ zioni e della cura della carie e delle ma­ lattie gengivali. Abbiamo testimonianze simili anche da scritti di medici romani. Nel medioevo, invece, furono i monaci ad occuparsi delle cure odontoiatriche, perlomeno fino a quando una serie di editti papali proibì loro di eseguire atti chirurgici, compresa l’estrazione dei denti. Da quel momento, fino allo svi­ luppo della professione medica moderna, il ruolo dei dentisti passò ai temutissimi barbieri­chirurghi. Solo nel XVIII secolo apparvero i primi studi dentistici. Da allora ci avviciniamo finalmente ai nostri standard attuali. Nel 1780 viene progettato il primo spaz­ zolino e nel 1790 la prima sedia specifica per i pazienti con poggiatesta regolabile e braccio estensibile per predisporre gli strumenti odontoiatrici. Nel 1839, negli Stati Uniti, nacque la prima rivista dentale al mondo: l’Ame­ rican Journal of Dental Science. A metà secolo arrivò la prima anestesia con l’ete­ re. Nel 1864 il dott. Sanford C. Barnum sviluppò la diga di gomma, che serve ancora oggi per isolare l’area d’intervento lasciando il paziente in completa sicurezza. Sempre in quell’epoca andarono a svi­ lupparsi le prime forme di specializzazione universitarie e le associazioni di categoria, punto determinante per la nascita del­ l’odontoiatria moderna. Insomma, una storia tutta scientifica di ricerca e miglioramento, con l’obiettivo di risolvere uno dei problemi più comuni e diffusi sul nostro pianeta: la cura dei denti. Ogni mese il Dott. Massaiu risponderà ad uno di voi. Inviate le vostre domande a: dott.massaiu@shmag.it. www.studiomassaiu.it

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