Rassegna stampa #verdesperanza

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Il Flauto politico di Vick… è magico ma non per tutti cronachemaceratesi.it/2018/07/21/il-flauto-politico-di-vick-e-magico-ma-non-per-tutti/1129565/ July 21, 2018

di Maria Stefania Gelsomini (foto di scena Alfredo Tabocchini) Il Flauto politico di Graham Vick incanta con la sua melodia metà Sferisterio. L’altra metà lo subissa di fischi. Raccontare nei dettagli uno spettacolo in cui c’è dentro il mondo è complicato. Il flauto c’è, ed è anche magico. C’è la potenza dell’amore, che alla fine abbatte i La prima del Faluto Magico allo Sferisterio (foto Falcioni) simboli del potere e redime l’umanità in un grande abbraccio collettivo, e ci sono le prove che l’uomo deve affrontare per sconfiggere l’oscurità. Ma tutto ciò che sta in mezzo, tra gli accampamenti dei profughi che fin da prima dell’ingresso degli spettatori brulicano di attività, e i fuochi d’artificio che esplodono sul finale, è il messaggio sociale, dichiarato, di Vick. Al quale interessa portare sul palco l’uomo e la società contemporanea con i suoi innumerevoli contrasti, le sue luci e le sue ombre. E lo fa riscrivendo interi dialoghi, adattando persino alcuni versi del libretto italiano di Fedele D’Amico, lo fa portando quella varia umanità sul palco, in mezzo al pubblico, ovunque. 1/21


La partecipazione degli spettatori alla scena è un pallino del regista inglese, che nello scambio osmotico fra palco e platea ritrova la sua cifra stilistica. Lo scorso anno al Festival Verdi di Parma nel suo Stiffelio aveva tolto le poltrone, costringendo il pubblico ad assistere in piedi allo spettacolo, un attore che partecipa emotivamente allo svolgersi della vicenda. Così allo Sferisterio, dove l’intera città sale simbolicamente sul palco attraverso i suoi cento rappresentanti, che poi sono i cittadini del mondo, e dove Tamino, prima dell’inizio del secondo atto, insegna al pubblico i due cori che dovrà cantare per lui durante il suo percorso iniziatico: “Non bisogna avere paura di essere stonati – esorta con microfono, felpa e cappellino da rapper (o forse da animatore di villaggio turistico?) – basta il cuore. Siete bravissimi!”

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Vick lo fa a discapito anche della stessa musica forse, messa al servizio di un progetto che chiede al direttore d’orchestra di entrare in buca in sordina e attaccare le prime note mentre gli spettatori stanno ancora prendendo posto, e che fa sovrastare le note corali finali dallo strepitio festoso dei fuochi d’artificio. In questo Flauto magico la parola prevale sulla musica, la necessità di comunicare un messaggio, di urlare una protesta sono più forti di tutto. La prosa irrompe dentro la lirica e le ruba il palcoscenico. Le continue incursioni fisiche e vocali, le voci urlate, le incitazioni, i commenti a volte risultano eccessivi, ma è un’insistenza voluta, piaccia o non piaccia, una contaminazione che interpreta l’intenzione del regista. Questo Flauto è uno spettacolo a sé, impossibile trovare un termine di paragone perché termine di paragone non esiste, tanto da lasciare disorientati anche gli immancabili puristi. Il regista ha riscritto una nuova opera di Mozart. E Mozart sarebbe stato d’accordo? Chi può dirlo. Il messaggio fortissimo del genio di Salisburgo, dice Vick, è la storia del potere dell’amore, e questa c’è.

Eliminati tutti gli elementi massonici, serpenti, piramidi e prove iniziatiche, l’apparato simbolico allestito da Mozart è sostituito da una panreligione, espessa da tre poteri che sottomettono l’uomo, e ancor di più la donna: il potere finanziario delle banche (il tempio della BCE), il potere della tecnologia (il tempio della Apple) e il potere della Chiesa (il Vaticano). Dei nuovi simboli è infarcita la narrazione, dalla ruspa iniziale (chi non ha immediatamente avuto davanti agli occhi l’immagine di Salvini in sella a quella ruspa), alla statua della Madonna con un nastro sulla bocca, una Madonna che si 3/21


può pregare, che può intercedere per noi ma che non parla mai, non esprime mai una sua opinione. Ci sono i cappucci arancioni degli iniziati, i cartelli portati in corteo dai profughi (“Non rubateci il futuro”, “La libertà non si compra”, “Siamo tutti stranieri nel mondo”, “Sono più forte della paura”, (foto di Fabio Falcioni) “Siamo in pericolo”, “Anche noi abbiamo una voce”) e la bandiera italiana con tre parole, una per ogni colore: diversità, uguaglianza, unità. Ci sono rappresentanti delle autorità civili e militari, alti prelati e operatori di borsa. C’è persino un Mark Zuckerberg con la classica t-shirt grigia.

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Il racconto nel complesso è pieno di gag esilaranti e di personaggi sopra le righe, a partire dall’uccellatore Papageno, un mattacchione amante delle donne che si presenta vestito da pollo, con un bel costume di piume gialle e cresta, una S di Superman sul petto e lo zainetto di consegna espressa sulle spalle (quando si toglie il copricapo ce l’ha davvero la cresta, blu) per pubblicizzare il take away Super-Pollo: per mestiere cerca polli per arrostirli e fornirli alla Regina della Notte e alle sue dame. È con l’arrivo di un’Astrifiammante seducente vestita di lamè, annunciata da lampi e colpi assordanti di tamburo come il suo nome merita, che Tamino e Papageno armati solo di un flauto e di un campanello iniziano il lungo viaggio per liberare Pamina (che Tamino ama già), figlia della Regina, rapita dal Gran Sacerdote Sarastro. Pamina, un’infantile e viziata bambolina vestita di rosa, caduta nelle grinfie del Moro Monostato, capo degli schiavi di Sarastro, ha paura e chiama la mamma. Papageno riesce a liberarla, e parlando parlando, combattuta fra le voci che la esortano a scappare e quelle che le consigliano di non fidarsi (i suoi dubbi incarnati), si arriva al duetto PaminaPapageno: i cittadini del mondo invadono palco e platea ballando abbracciati come tante coppie di innamorati. La via che dovrà seguire Tamino è costellata di tre semplici parole: costanza, fede, silenzio. Dovrà rispettarle e trovare una vera amicizia, solo così potrà finalmente vedere Pamina, che lo sta a sua volta cercando insieme a Papageno. Quando il Moro fa intervenire i poliziotti in assetto da sommossa, il tintinnio del campanello di Papageno addolcisce gli animi e tutti diventano amici in pace. Alla chiusura del primo atto Tamino e Papageno incappucciati vengono avviati al luogo delle prove e Salvina, ops Pamina, esce in groppa alla ruspa.

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Il secondo atto si apre in maniera più tradizionale per il maestro Cohen che arriva sul podio accompagnato dalla mascherina e dall’applauso del pubblico, ma si apre anche con l’insolito invito che Tamino rivolge alla platea di cantare per lui. Il pannello che si srotola sul muro dello Sferisterio a righe gialle e nere è lo specchio del sole e del buio. Come un novello predicatore, Sarastro fa un lungo discorso per ringraziare Iside e Osiride, e qualche volta si inceppa anche. Qualche incertezza, qualche dimenticanza, un po’ di emozione: sono cantanti, pazienza, non sono abituati a parlare sul palco! Il tempio della BCE viene girato e mostra una parata di missili pronti a essere sganciati, Pamina entra nel tempio della Apple ed è a questo punto che Sarastro, con voce stentorea, intima “Ora voi tutti alzatevi!” al pubblico, che si alza (non tutto) e canta (non tutto) i due cori insegnati da Tamino. I cento cittadini, allineati a ridosso del muro, incappucciati come Tamino e Papageno, fanno da corona alla scena. Lo scambio di battute fra i due protagonisti in attesa delle rispettive prove, impauriti ma non privi di sense of humor, strappa qualche risata. Viene ruotato anche il Vaticano da cui fuoriescono le tre Dame vestite da prete, con tailleur giaccca-pantalone nero, collarino e décolleté rosse di vernice.

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Sul retro, stagliata su un fondo giallo fosforescente, appare la Madonna incerottata. Mentre Monostato sta per usare violenza a Pamina, e tutt’intorno i cittadini si baciano, si accarezzano, si scambiano effusioni più o meno esplicite, arriva Astrifiammante. La Regina della Notte chiede alla figlia di uccidere Sarastro, e Pamina diventa improvvisamente Astrifiammante, esteriorizza la parte della madre che è dentro di lei, ha il suo stesso vestito, adotta le stesse movenze seduttive. Monostato ha sentito tutto e vuole ricattarla, ma Sarastro lo caccia, la felicità e l’amore vincono sull’inganno. È a questo punto che Papageno incontra, dentro un cassonetto dell’organico, la sua Papagena, sotto le mentite spoglie di una vecchia barbona ubriaca in cerca d’amore. Ci vorrà tutta la sua forza, ma alla fine riuscirà a resistere e la vecchia si rivelerà una Papagena giovane e grintosa fatta a sua immagine e somiglianza, cresta (fucsia) compresa. Durante la prova di Tamino, viene innescato il count-down dei missili. Papageno lo cerca dappertutto, persino fra i musicisti in buca “non abbandonare il tuo piccione viaggiatore” gli grida, infine sale da un’apertura sul pavimento del palco inseguito da una forte fiammata, rischiando di fare la fine del pollo arrosto. Papageno mentre canta si fuma una canna, sempre più allegro, rilassato, e la sua “colomba o canarina” diventa “colomba o cannarina” (con risatine del pubblico e qualche smorfia di disappunto).

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Papageno mentre canta si fuma una canna

Gli eventi si succedono in rapida successione: la disperazione di Pamina che vuole uccidersi ma viene disarmata e portata via in scooter dai tre Geni, l’ingresso degli uomini in tuta gialla e mascherina anti-contagio, i cento cittadini che si sfilano il cappuccio arancione quando finalmente Pamina e Tamino possono parlarsi. Ruota anche il tempio Apple: dietro c’è la vecchia quercia secca dove il padre di Pamina ha intagliato il flauto magico. I due innamorati vengono issati da due gruppi di cittadini, che prima li mettono a testa in giù e poi li risollevano con indosso un giubbetto di salvataggio. Tutti sono felici, solo il povero Papageno non trova uno straccio di donna, e medita di impiccarsi all’albero. I tre piccoli Geni gli ricordano di suonare il campanello e gli riportano il cassonetto, da cui esce stavolta la giovane pollastra Papagena. Fantasticano di avere tanti Papagenini e tante Papagenine, e non perdono tempo chiudendosi subito in una delle tende canadesi sistemate a bordo palco. All’ingresso di Astrifiammante e delle tre Dame con il Moro, cui la perfida regina ha promessa in sposa la figlia, si fa giorno. Il sole trionfa, la notte sparisce, Tamino e Pamina aprono le porte dei templi, poi insieme li scalano facendoli crollare uno sull’altro con un suggestivo effetto domino. In un abbraccio generale, tutti i duecento protagonisti dello spettacolo schierati sul palco improvvisano un balletto di felicità. 8/21


Un cast di cantanti giovani (in ottima forma fisica oltre che vocale), tutti debuttanti a Macerata, tutti debuttanti nel ruolo (tranne il baritono che lo ha già cantato in tedesco), e debuttanti nel ruolo in italiano, che non si risparmiano nella recitazione. Il pubblico ha dimostrato di apprezzarli per il doppio impegno, riservando tanti applausi a fine recita, come pure è stata apprezzata la direzione, non facile, del maestro Daniel Cohen. Su tutti svetta Pamina, il giovane soprano Valentina Mastrangelo, allieva di Mariella Devia, che accanto a un timbro davvero interessante, ha sfoderato una grande naturalezza e sicurezza in ogni passaggio. Bella voce e nessuna incertezza anche per il Tamino del tenore Giovanni Sala autore di una buona prova, come pure bravo e divertente è risultato il baritono Guido Loconsolo, interprete di un perfetto Papageno sbruffone contemporaneo. Completano il cast il basso Antonio di Matteo (Sarastro); il soprano Tetiana Zhuravel, che a parte la celebre aria della Regina della Notte nel secondo atto non ha brillato in maniera particolare; il tenore Manuel Pierattelli (Monostato); il soprano Paola Leoci (Papagena); il

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basso Marcell Bakonyi (Oratore); Marco Miglietta e Seung Pil Choi (Sacerdote e Armigero). Molto efficaci, incisive e credibili anche le tre Dame, Lucrezia Drei, Eleonora Cilli e Adriana Di Paola, deliziosa la prova dei tre Geni che accompagnano Pamino e Papageno verso il superamento delle prove e la realizzazione dei desideri, i giovani Pueri Cantores Ilenia Silvestrelli, Caterina Piergiacomi ed Emanuele Saltari. I dialoghi sono di Graham Vick e Stefano Simone Pintor, le scene e i costumi di Stuart Nunn, i movimenti mimici di Ron Howell, le luci di Giuseppe Di Iorio.

Se Vick si cimenta alla regia del Flauto per la quinta volta, dopo averlo messo in scena a Salisburgo, a Mosca e in inglese a Birmingham, dove dirige la Birmingham Opera Company da lui fondata nel 1987, anche per il maestro Cohen, grazie alla riscrittura del libretto e il conseguente adattamento musicale, può considerarsi un debutto, sebbene abbia già diretto l’opera mozartiana innumerevoli volte in Germania e anche in Israele in lingua ebraica. Esame superato per l’Orchestra Regionale delle Marche e per il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” rinnovato e rinvigorito sotto la guida del nuovo maestro Martino Faggiani, coadiuvato da Massimo Fiocchi Malaspina. Barbara Minghetti ha fortemente voluto Graham Vick e non ha perso occasione in questi mesi di sostenere il suo progetto. Per il resto, un insolito (e quasi sospetto) silenzio circondava questo Flauto magico prima dell’inaugurazione. Forse ci si aspettava, o si temeva, che l’opera di apertura avrebbe suscitato aspre polemiche? In ogni caso, ha avuto coraggio la nuova direttrice artistica a presentarsi al pubblico maceratese con 10/21


questo spettacolo. Poteva partire con maggiore cautela, accattivarsi pubblico e critica con un allestimento piĂš ruffiano. E invece no. Repliche il 29 luglio, il 4 e il 12 agosto. Flauto Magico: o lo ami o lo odi (Le video-interviste al pubblico)

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L’Elisir sulla spiaggia, un mare di applausi Un’ondata di calore travolge lo Sferisterio cronachemaceratesi.it/2018/07/22/lelisir-sulla-spiaggia-un-mare-di-applausi-unondata-di-calore-travolge-losferisterio/1130518/ July 22, 2018

di Maria Stefania Gelsomini Partiamo dalla fine, dalle due furtive lagrime. Gli spettatori in visibilio chiedono a gran voce il bis dopo la celebre aria di Nemorino, il tenore John Osborn e il maestro Francesco Lanzillotta lo concedono, sulle ali di un entusiasmo palpabile. Quasi un senso di liberazione, dopo le perplessità e i malumori della sera precedente, per un pubblico che viene a teatro per ascoltare, prima di tutto, della buona musica. Mai due opere sono state tanto distanti, eppure fra questo Flauto e questo Elisir non mancano – chi l’avrebbe mai detto – elementi (scenici) in comune: è l’anno dei sacchetti e dei cassonetti dell’immondizia, delle automobili, degli scooter, della droga, delle esplicite scene di sesso e persino delle secchiate d’acqua. È un puro caso, ma che in due allestimenti tanto lontani vengano utilizzati questi stessi elementi è indicativo del tempo in cui viviamo. Le problematiche che ci turbano arrivano, per vie diverse, sul palco. Curioso anche come quei simboli, messi in un certo contesto facciano discutere e facciano gridare allo scandalo, messi in un altro facciano persino divertire.

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Fresco e spumeggiante come il mare che c’è, ma non si vede, questo Elisir è il “magico liquore” del divertimento. Cambio totale di registro con la seconda opera in cartellone: dopo l’impatto per molti indigesto col Flauto magico firmato Graham Vick, si torna alla leggerezza con un tuffo nell’Elisir marino firmato Damiano Michieletto. Uno spettacolo che è ben rodato (è già stato messo in scena a Palermo, Siviglia e Madrid) e che funziona, al quale il pubblico riserva un’accoglienza decisamente calorosa. La cura Lanzillotta ha fatto effetto, e si vede. L’intenso lavoro con e sull’orchestra si è rivelato, questo sì, un elisir miracoloso, capace di rinvigorire un’orchestra, la Form, che negli ultimi anni non ha goduto di ottima salute. E di rianimare un coro che aveva bisogno di essere ringiovanito e riorganizzato, grazie alla scelta di portare a Macerata uno dei migliori maestri del coro in circolazione, Martino Faggiani. La musica con questo Elisir d’amore in versione integrale torna protagonista assoluta, con dei concertati bellissimi, con il giusto volume, le giuste voci. Donizetti non si fa prevaricare da Michieletto, ma anzi ne esalta l’allestimento originale e nobilita un libretto raffinato e pieno di citazioni colte. Che poi rustici e mietitori si rilassino su un lettino in riva al mare anziché in campagna fra i covoni alla fine poco importa, il sole del “lido Sferisterio” riesce ugualmente a sciogliere il pubblico. Il regista Damiano Michieletto trasporta un intero stabilimento balneare sul palcoscenico e lì, su una lunga distesa di sabbia, tra lettini e ombrelloni, fa muovere (e quanto li fa muovere) i protagonisti, tutti eccellenti attori. La scena è un continuo brulicare di varia umanità, esattamente quella che affolla le spiagge di Rimini (ma anche di Civitanova) d’agosto. C’è chi prende il sole mostrando un fisico da culturista, chi gioca a carte e chi a beach volley, c’è chi legge il giornale all’ombra, chi si scatta selfie e chi chiacchiera con gli amici spalmandosi la crema solare. La

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cura nei dettagli è quasi maniacale. Mai un calo di tensione, mai un attimo di pausa, lo spettatore resta incollato davanti allo “schermo” in carne e ossa che gli scorre davanti. Non manca proprio nulla nella spiaggia dello scenografo Paolo Fantin: il chiosco del Bar Adina, dove Giannetta prende ordinazioni e serve i suoi cocktail in minigonna jeans, la doccia, le palme, la torretta del bagnino, i materassini gonfiabili di plastica colorata, il maxi manifesto pubblicitario di un paradiso tropicale. La rumorosa frotta di bagnanti in costume, pareo e occhiali da sole è la fotografia a colori di una scena vista centinaia di volte. L’ingresso nel preludio di una coppia di anziani (ogni estate, in ogni spiaggia, c’è sempre una coppia di anziani che arriva per prima in spiaggia, la mattina presto) introduce alla perfezione lo spirito del melodramma giocoso e lo svolgimento delle azioni che si susseguiranno nel corso della convulsa giornata: lui spalma la crema abbronzante alla moglie, fanno un po’ di ginnastica e poi si mette a leggere il giornale sdraiato sul lettino. La giornata di mare sta per iniziare, la cameriera Giannetta apre il bar e il bagnino Nemorino apre gli ombrelloni, arrivano i bagnanti-coristi. Una festosa confusione che si blocca in un fermo immagine sottolineato da una luce colorata (e sempre sarà così nei momenti clou di tensione sentimentale) quando Nemorino, innamorato senza speranza della capricciosa Adina, intona la famosa cavatina “Quanto è bella quanto è cara”. Nemorino ha un aspetto modesto, si presenta in bermuda e infradito, non è certo uno dei tanti palestrati che esibiscono i muscoli in spiaggia. È un giovane dal cuore sincero ma non un sempliciotto, è l’ingenuo che regala un peluche alla sua amata irriconoscente (che infatti getta il pupazzo nella spazzatura), e subisce numerose umiliazioni, anche fisiche, da parte di Adina, poi del suo rivale Belcore e dei galletti impettiti che razzolano sulla spiaggia. Ne subisce di tutti i colori il povero Nemorino, bullizzato e deriso senza pietà. E intanto Adina se la spassa con diversi spasimanti davanti ai suoi occhi, e impartisce lezioni di ginnastica al gruppo dei vacanzieri che ripete scrupolosamente ogni suo movimento.

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Non c’è nulla, in questo Elisir, che non sia chiaro. L’attualizzazione della vicenda campestre ottocentesca e la sua trasposizione ai lidi degli anni Duemila fanno stridere necessariamente, in qualche passaggio, alcune parti del libretto, ma l’intenzione resta intatta, restano intatti la freschezza del racconto e il carattere dei personaggi. Primo fra tutti il biondo e fisicato Belcore, un “Paride vezzoso” che arriva a bordo di uno scooter fiammante, nella sua divisa bianca e occhiali a specchio. Un marinaio fanfarone e uno sciupafemmine seriale abituato a non perdere tempo, ci prova con tutte e stende Adina su un materassino subito dopo averle chiesto di sposarlo. Poi si cosparge di schiuma, si risciacqua, annaffia tutti con il tubo. Nemorino cerca di riavvicinarsi ad Adina (“Una parola o Adina” e duetto “Chiedi all’aura lusinghiera”), è sconsolato, mentre lei si fa spalmare la crema da quattro ragazzotti. Fra dispetti e gavettoni si annuncia l’arrivo in pompa magna del dottor Dulcamara su una jeep nera, preceduto da ammiccanti vallette in mini shorts e caschetto di capelli rosso fuoco, che esibiscono lattine gonfiabili giganti del “Full energy elixir”. Alex Esposito è un Dulcamara esplosivo, indossa con una personalità e una grinta fuori dal comune i poco raffinati panni del dottore imbroglione, che spaccia il suo elisir per miracolosa crema per la pelle e non solo: le bottigliette in mano sua diventano simboli fallici che promettono una sprizzante felicità ai vacanzieri creduloni, che portano in processione la nuova divinità del benessere e della bellezza. Mentre anche Nemorino acquista l’energy drink sperando di far innamorare Adina, le scafate Dulcamaragirls fumano uno spinello, riuscendo ad allontanare il poliziotto arrivato nel frattempo a controllare la spiaggia. La jeep del dottore riparte nel viavai rumoroso e colorato della spiaggia, è il momento per Nemorino di bere l’elisir (ovvero il Bordeaux vendutogli da Dulcamara): “Caro elisir sei mio”. Ubriaco, allegro, e convinto del miracoloso effetto della bevanda (domani verrà riamato), Nemorino ignora Adina, cosa mai successa prima! Il mare all’improvviso inonda il palcoscenico per la buffa nuotata di Nemorino, che inforcate pinne, maschera e una cuffia colorata, una di quelle a fiori che piacciono alle signore di una certa età, mima bracciate e cavalca un grosso pesce gonfiabile avvolto da una luce verde acqua, davanti agli occhi increduli di Adina, sempre più irritata. Fra i due partono dispetti, spintoni, una guerra a colpi di spruzzini, schermaglie amorose interrotte dall’arrivo dello spaccone Belcore, colpito da Nemorino con un’aragosta di plastica gigante. Una felicità interrotta dalla telefonata del capitano: il marinaio deve ripartire, Belcore chiede ad Adina di sposarlo il giorno stesso. Nemorino è disperato, e nel quartetto “Adina, credimi” ecco un altro fermo immagine collettivo, la spiaggia si blocca.

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Il primo atto si chiude male per il giovane innamorato, bullizzato da un Belcore infuriato che lo insulta, lo spinge a terra e gli rovescia addosso l’immondizia (peluche compreso), deriso da Adina che gli fa scoppiare una lattina in faccia, legato mani e piedi alla sedia da bagnino e umiliato dagli scagnozzi muscolosi al servizio del sergente Belcore, mentre la spiaggia festeggia le imminenti nozze e tutti bevono elisir. Con la finta pipì che fuoriesce dalle bottigliette e annaffia Nemorino, e la rappresentazione dei peccati dell’uomo contemporaneo (apparenza, superficialità, arroganza, vizio), si chiude il primo atto. Il secondo si apre con una scenografica maxi torta nuziale a tre piani che si gonfia sotto gli occhi degli spettatori, con le immancabili figurine degli sposi in cima e tante ciliegione rosse sugli strati. Gli invitati, in abiti di lamè come la promessa sposa, ci salgono sopra e vi si immergono come fosse una piscina. Tutto è pronto per le nozze, sul tetto del bar viene esposto lo striscione “Adina Belcore forever”. Il ritorno di Dulcamara, fasciato anche lui da un pantalone di lamè nero (è questo il suo colore), dà l’avvio a una sorta di addio al nubilato ad alta gradazione alcolica in cui Adina bendata viene sottoposta 5/15


ai pesanti scherzi di tre marinai-spogliarellisti. L’arrivo di Nemorino disperato interrompe gli amoreggiamenti del dottore. La storia è nota: ha bisogno di essere amato subito da Adina e per pagarsi un’altra dose di elisir accetta di partire soldato, ingaggiato da Belcore, il quale ubriaco marcio, con l’ennesimo drink in mano, se la spassa con due ragazze e lo fa vestire da marinaretto dai tre muscolosi marinai in costume, un look immortalato da foto ricordo e selfie di rito.

Nemorino è ridicolo e ridicolizzato, e il contrasto fra il suo aspetto e il suo canto si fa più stridente. Ma ecco un nuovo imprevisto. A Giannetta arriva la notizia che lo zio di Nemorino è morto e il giovane ha ereditato la sua immensa fortuna. Ora tutte lo vogliono, nella torta gonfiabile riempita di panna montata (o schiuma da bagno?) dove sguazzano le pretendenti tirano dentro pure Nemorino, che balla felice, convinto di averle fatte innamorare tutte con la seconda dose di elisir. Adina che assiste incredula alla scena, e viene scacciata dalle agguerrite rivali, scopre da Dulcamara che Nemorino ha venduto per amore la sua libertà e cambia atteggiamento (“Quanto amore”): ormai è innamorata. Rifiuta la droga che le offre il dottore-spacciatore, strappando la bustina di polvere bianca davanti ai suoi occhi (“Sciagurata! e avresti core di negare il suo valore?”), rischiando di finire strangolata da lui. È ormai sera, e il momento dell’aria più famosa dell’opera. Nemorino, ormai certo di essere ricambiato, canta “Una furtiva lagrima” sul tetto del chiosco, dove sul finale d’aria si accendono una ad una le rosse lettere cubitali della scritta ADINA. Osborn canta davvero bene e con grande intelligenza, la sua voce non è grande ma è perfetta per il ruolo e lui sa che non ha bisogno di spingere per arrivare in ogni angolo dello Sferisterio. E infatti mentre canta lo Sferisterio si ammutolisce, poi esplode in un applauso carico di “bravo” e di “bis”. Che viene concesso. Questo bagnino dal cuore puro ha vinto: quando Adina gli confessa il suo amore è incredulo, ma la gioia si scioglie nel bacio finale, quando anche la musica per un istante si ferma. Non resta che 6/15


restituire l’anello a quell’ubriacone di Belcore, la torta si sgonfia afflosciandosi su se stessa, i due innamorati si fanno le coccole sul lettino abbracciati al peluche tanto disprezzato. Nella scena finale, i poliziotti entrati a ripulire la spiaggia da furfanti e spacciatori, portano via in manette Belcore, salutato dai bagnanti che sventolano volantini dell’elisir. Scroscianti gli applausi per tutto il cast, il tenore americano John Osborn (Nemorino), da apprezzare anche per la perfetta dizione, e il basso-baritono Alex Esposito (Dulcamara) i due più acclamati dal pubblico, e poi Mariangela Sicilia (Adina), giovane soprano dalla carriera ormai lanciatissima che solo nel finale ha perso un po’ di agilità spingendo a tratti la voce più del dovuto, il baritono ucraino Iurii Samoilov (Belcore) e il soprano Francesca Benitez (una vivace e squillante Giannetta). Successo personale anche per il maestro Lanzillotta alla guida dell’Orchestra Regionale delle Marche, molto a suo agio in un’opera così briosa e divertente, e per il Coro guidato da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina. Consenso pieno anche per la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin, i costumi di Silvia Aymonino e le luci disegnate da Alessandro Carletti. Repliche il 27 luglio, il 5 e il 10 agosto. L’opera sarà trasmessa il 26 luglio in prima serata su Rai5. (Foto di scena di Alfredo Tabocchini) L’Elisir in spiaggia mette tutti d’accordo: «Meravigliosa, voto 10» (Le video-interviste al pubblico) Il Flauto politico di Vick… è magico ma non per tutti

7/15


Intramontabile Traviata Lo Sferisterio si specchia nella sua magia cronachemaceratesi.it/2018/07/23/intramontabile-traviata-lo-sferisterio-si-specchia-nella-sua-magia/1131007/ July 23, 2018

di Maria Stefania Gelsomini Dopo il verde anti-leghista del Flauto magico e il verde mare dell’Elisir d’amore, il tris di prime del Macerata Opera Festival si chiude con un evergreen: la Traviata di Giuseppe Verdi con la regia di Henning Brockhaus e le scene di Josef Svoboda, la famosa Traviata degli specchi. Il ritorno al passato (con l’“Addio del passato”) resta una garanzia. Nata nel 1992 sul palco dello Sferisterio, e tornata a casa più d’una volta (l’ultima nel 2014), nel frattempo ha girato l’Italia e il mondo, portando in alto il nome di Macerata in tutti i teatri. Ed è probabile che molti degli spettatori presenti ieri sera avessero già avuto modo di applaudirla, eppure sono ritornati. Perché c’è un legame particolare con questa Traviata, che Il baritono Luca Salsi, la vera star della serata sentiamo nostra. Un allestimento su cui è stato detto e scritto di tutto e di più, anche su Cronache Maceratesi. Non occorre ripetersi e raccontare per l’ennesima volta, per filo e per segno, la trama che tutti conoscono, gli espedienti registici, o descrivere la bellezza dei teloni che si riflettono nello specchio. L’impianto resta sostanzialmente lo stesso, ma Brockhaus, che non si stanca mai di rimetterla in scena, apporta a ogni ripresa delle piccole modifiche, aggiunge, toglie, carica i gesti di nuovi significati, di pari passo con un’idea e con un teatro che naturalmente si evolvono nel tempo. 1/10


Questa Violetta muore, come tutte le Violette, ma è una Traviata che non invecchia mai e il pubblico continua a premiarla, come ha fatto ieri sera, accogliendo con un inedito applauso il sollevarsi dello specchio prima ancora dell’attacco del preludio da parte della direttrice d’orchestra, l’americana Keri-Lynn Wilson. Violetta (il soprano Salome Jicia) nel primo atto Irresistibile per molti la tentazione di fotografarlo, e sebbene fosse vietato, decine di smartphone si sono accesi in platea per immortalare la scena. E non era mai successo, almeno qui a Macerata, che il pubblico applaudisse, per ben due volte, macchinisti e attrezzisti impegnati nel cambio scena del secondo atto, prima della festa di Flora. Scampato il pericolo pioggia che aveva aleggiato per tutto il giorno sull’arena, il grande specchio è tornato finalmente a risollevarsi. Per permettere allo spettatore di entrare in casa di Violetta, curiosando nelle “pompose feste” frequentate da nobili protettori e allegre cortigiane ingioiellate, o nella casa di campagna fuori Parigi dove Alfredo Alfredo, il tenore Ivan Ayon Rivas e Violetta si sono ritirati abbandonando lusso e mondanità, o di nuovo, nei bagordi della festa di Flora fra balli, alcol e gioco d’azzardo, danzatrici e matador, dove Alfredo rincorre Violetta e la umilia davanti a tutti ignaro del suo sacrificio d’amore. Ma è nel finale che lo specchio, sollevandosi di fronte al pubblico, lo 2/10


spoglia, rivelando appieno la sua magia emotiva e la sua forza tragica. Il pubblico ora cammina su quel pavimento nudo, entra nella camera spoglia di Violetta morente, si ritrova partecipe di un dramma che appartiene a ognuno di noi. Eppure, Violetta, Brockhaus la fa morire sola, né Annina, né il dottore, né Giorgio Germont né tanto meno Alfredo, che pure sono nella stanza, le sono fisicamente vicini.

Giancarlo Colis veste le cortigiane con luminosi colori pastello nella festa del primo atto e con sgargianti abiti rossi e neri d’ispirazione spagnola nella festa del secondo atto. Violetta ha quattro diverse immagini ben distinte: l’abito bianco luminoso della prima festa, della cortigiana spensierata (seppure già ammalata) arricchito da gioielli e una barocca parrucca bionda; l’abito modesto della vita in campagna con Alfredo; l’abito nero appariscente, coperto da un mantello argentato della festa di Flora, che ormai non la rappresenta più e la invecchia tragicamente; la semplice camicia da notte dei suoi ultimi attimi di vita. Essenziali, insieme ai costumi, per ricreare le pruriginose atmosfere delle festaiole parigine, le coreografie di Valentina Escobar, che muove perfettamente le masse in funzione delle intenzioni del regista, portando anche sul palco tre bravissimi danzatori di flamenco e una ballerina classica. Dal punto di vista vocale non è stata una serata memorabile, mettiamola così, per la Violetta del soprano Salome Jicia e l’Alfredo del tenore Ivan Ayon Rivas, alle prese probabilmente con l’emozione del debutto e la difficoltà di misurarsi con un teatro all’aperto. Voci potenti entrambe, a volte troppo urlata lei, a volte trattenuto e calante lui, non aiutati da una direzione lenta e a tratti davvero pesante (vedi il concertato del finale di secondo atto). Anche nella gestualità i due innamorati appaiono un po’ forzati, caricati, 3/10


come la Jicia nel celeberrimo “Amami Alfredo”, e a farne le spese è l’emozione. Chi invece questo palco lo conosce bene e canta in maniera impeccabile è il baritono Luca Salsi, la vera star della serata, che nel duetto del secondo atto è riuscito a trascinare anche Violetta, in ripresa dopo le difficoltà del primo atto. Che dire, il suo Germont sta una spanna sopra a tutti, ascoltarlo è un autentico piacere e quando arriva un fuoriclasse lo riconoscono anche gli spettatori meno esperti. A completare il cast di comprimari, Mariangela Marini (Flora Bervoix), Marianna Mennitti (la cameriera Annina), Silvano Paolillo (Gastone), Lorenzo Grante (il barone Duphol), Stefano Marchisio (il marchese d’Obigny), Giacomo Medici (il dottor Grenvil). Orchestra Regionale delle Marche diretta da Keri-Lynn Wilson, Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” diretto da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina. Applausi scroscianti per tutti, ma la super ovazione è solo per Luca Salsi. Repliche il 28 luglio, il 3 e l’11 agosto (il 28 luglio e l’11 agosto il ruolo di Giorgio Germont sarà interpretato da Alberto Gazale). (foto di scena di Alfredo Tabocchini)

4/10


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