The art of living Copyright © 2007 by Sayagyi U Ba Khin Memorial Trust of Massachusetts, Inc. c/o Vipassana Meditation Center, 386 Colrain–Shelburne Road, Shelburne MA 01370–9672, U.S.A. Pubblicato la prima volta negli Stati Uniti da Harper & Row, 1987. L’arte di vivere BUR Rizzoli: luglio 1990 BUR Rizzoli Supersaggi: aprile 1998
Biblioteca Vipassana è un progetto editoriale che comprende una collana di testi per la conoscenza e l’approfondimento della tecnica di meditazione Vipassana, come insegnata da S. N. Goenka, nella tradizione di U Ba Khin. Coordinatore responsabile: Pierluigi Confalonieri. La presente edizione de L’arte di vivere, a cura della Redazione Biblioteca Vipassana, è caratterizzata da un’accurata revisione della traduzione originale di Maria Angela Falà, e da titolo e veste grafica nuovi. La ruota in copertina – logo della collana – è un simbolo di trasformazione e di cambiamento di direzione. Nel discorso “Sulla messa in moto della ruota del Dhamma”, il Buddha spiegò l’importanza di invertire la direzione della ruota della vita, che va verso la sofferenza, e di cominciare a farla ruotare verso la liberazione, descrivendone il modo, la via. Per informazioni: redazione@bibliotecavipassana.it www.bibliotecavipassana.it
ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn
978–88–548–4235–9
Progetto grafico e copertina: Stefania Maranzano Impaginazione: Professionalità per l’Editoria – Roma I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: Novembre 2011
La saggezza è la cosa principale, perciò acquista saggezza: e con tutta questa saggezza acquista conoscenza. Proverbi, 4, 7
Sommario Presentazioni S. N. Goenka
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Prefazione
XIX
William Hart
Introduzione
XXV
William Hart
La meditazione Vipassana I corsi di dieci giorni Racconto: Nuotologia
XXVII XXVIII XXXII
La meditazione Vipassana CAPITOLO PRIMO LA RICERCA
p. 3
L’indagine di Siddhattha Gotama, il Buddha Il Nobile Ottuplice Sentiero Domande e risposte Racconto: Percorrere il sentiero
6 9 13 18
CAPITOLO SECONDO IL PUNTO DI PARTENZA
21
La materia La mente L’inesistenza dell’io Domande e risposte Racconto: Il Buddha e lo scienziato
24 25 27 30 33
XI
La meditazione Vipassana CAPITOLO TERZO LA CAUSA IMMEDIATA
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La legge di causa ed effetto I tre tipi di azioni La causa della sofferenza Domande e risposte Racconto: Il seme e il frutto
38 39 40 43 47
CAPITOLO QUARTO LA RADICE DEL PROBLEMA
49
Che cos’è la sofferenza L’attaccamento L’origine interdipendente: la catena di causa ed effetto La via d’uscita dalla sofferenza Il flusso della esistenza Domande e risposte Racconto: I sassi e il burro CAPITOLO QUINTO LA PRATICA DELLA CONDOTTA MORALE
51 52 54 58 60 62 66 69
Il valore della condotta morale La giusta parola La giusta azione I precetti morali Il giusto mezzo di sostentamento La condotta morale durante il corso Domande e risposte Racconto: La ricetta medica
72 74 75 76 77 79 81 88
CAPITOLO SESTO LA PRATICA DELLA CONCENTRAZIONE
91
Il giusto sforzo La giusta consapevolezza Le difficoltà necessarie La giusta concentrazione
XII
94 97 100 101
Sommario
Domande e risposte Racconto: Un dolce di latte tutto curvo
103 110
CAPITOLO SETTIMO LA PRATICA DELLA SAGGEZZA
113
Il giusto pensiero La giusta comprensione La meditazione Vipassana Impermanenza, inesistenza dell’io, sofferenza L’equanimità La via che conduce alla liberazione Domande e risposte Racconto: I due anelli
119 120 122 127 128 129 134 139
CAPITOLO OTTAVO CONSAPEVOLEZZA ED EQUANIMITÀ
141
Il deposito delle reazioni passate Sradicare le vecchie reazioni Domande e risposte Racconto: Nient’altro che vedere
144 148 153 159
CAPITOLO NONO LA META
Il raggiungimento della verità ultima L’esperienza della liberazione La vera felicità Domande e risposte Racconto: La bottiglia d’olio CAPITOLO DECIMO L’ARTE DI VIVERE La sofferenza dell’io La spirale verso la liberazione Il valore pratico della meditazione Domande e risposte
XIII
163 166 171 173 178 183 185 188 189 190 196
La meditazione Vipassana
Racconto: I rintocchi dell’orologio La malattia L’incontro L’inizio dell’insegnamento
200 201 202 204
APPENDICE A L’IMPORTANZA DELLA SENSAZIONE
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Il cuore dell’insegnamento La sensazione L’impermanenza della sensazione L’anello mancante I fondamenti della consapevolezza L’osservazione e la comprensione Come osservare la sensazione Il fine ultimo
209 211 212 212 213 215 217 218
APPENDICE B PASSI SULLE SENSAZIONI
221
NOTE
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GLOSSARIO DEI TERMINI PALI
231
I CORSI DI MEDITAZIONE VIPASSANA
241 243 244 245 246 247
Il finanziamento dei corsi L’universalità L’utilità di Vipassana nella società La meditazione Vipassana per dirigenti La pace nell’individuo e nella società VIPASSANA IN ITALIA E NEL MONDO
249
BIBLIOTECA VIPASSANA 259
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Presentazione Per l’edizione inglese del 1987
S
arò sempre grato alla meditazione Vipassana per i cambiamenti che ha arrecato alla mia vita. Prima mi sembrava di vagare in vicoli ciechi, poi, imparando questa tecnica, ho trovato la strada maestra. Sin da quando ho iniziato a seguire questa via, e con il trascorrere degli anni, ad ogni passo la meta si è fatta più chiara: la liberazione da tutte le sofferenze, la piena illuminazione. Non posso dire di averla raggiunta, ma non ho alcun dubbio che questa via conduca là. Sarò sempre grato a Sayagyi U Ba Khin per avermela insegnata, e alla catena di maestri che hanno mantenuto vivo l’insegnamento dal tempo del Buddha attraverso i millenni. In nome di costoro, incoraggio tutti voi a intraprendere questa strada, affinché possiate trovare la via per uscire dalla sofferenza. Migliaia di occidentali, uomini e donne, l’hanno già appresa, ma finora mancava un testo che descrivesse in modo preciso ed esteso questo tipo di Vipassana. Sono lieto che un serio meditatore si sia cimentato per colmare tale lacuna. Possa questo libro aiutare chi già pratica la meditazione Vipassana ad approfondirne la comprensione e incoraggiare altri a sperimentarla, in modo che sempre più persone possano sperimentare la felicità della liberazione.
XVII
La meditazione Vipassana
Possa ogni lettore imparare questa “arte di vivereâ€?, per trovare pace e armonia dentro di sĂŠ e generare pace e armonia per gli altri. S. N. Goenka Bombay, aprile 1986
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Presentazione Per l’edizione italiana del 1989
P
er il suo carattere scientifico e pratico, la tecnica di meditazione Vipassana è perfettamente adeguata al mondo moderno, sia orientale che occidentale, pur essendo antica e originaria dell’India. Molti di coloro che hanno letto questo libro in inglese l’hanno trovato interessante e prezioso. Sono lieto che attraverso le traduzioni in altre lingue, tra cui l’italiano, sia stato reso più ampiamente disponibile. Spero che i lettori italiani possano trovarvi ispirazione per sperimentare di persona ciò che è Vipassana, e goderne così i benefici nella vita di ogni giorno. S. N. Goenka Bombay, agosto 1989
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Prefazione di William Hart
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ra i vari tipi di meditazione, il metodo Vipassana insegnato da Goenka è unico. Questa tecnica è una via semplice e logica per conseguire un’effettiva pace mentale e condurre una vita felice e utile. Mantenuta viva per lungo tempo nella comunità buddista di Myanmar, Vipassana non contiene di per sé alcun elemento di natura settaria, e può essere accettata e applicata da persone di ogni provenienza. Satya Narayan Goenka, nato in una famiglia tradizionalmente induista, è stato industriale tessile e capo della comunità indiana in Myanmar. Nel 1955, mentre era alla ricerca di una cura per le dolorose emicranie che lo affliggevano fin dalla giovinezza, incontrò Sayagyi U Ba Khin che, al ruolo pubblico di dirigente statale, univa il ruolo privato d’insegnante di meditazione. Da lui apprese Vipassana e scoprì una disciplina che, trascendendo ogni barriera culturale e religiosa, non solo alleviò i sintomi del suo malessere fisico, ma andò ben oltre. Infatti, durante gli anni in cui s’impegnò nella pratica e nello studio sotto la guida del maestro, Vipassana gradualmente trasformò la sua vita. Nel 1969 ebbe da U Ba Khin il permesso d’insegnarla; quell’anno si recò in India e iniziò a te-
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William Hart
nere corsi, reintroducendo Vipassana nella sua terra d’origine. In un paese ancora profondamente diviso in caste e religioni, i suoi corsi attraevano migliaia di persone di ogni provenienza. Altrettanti occidentali, affascinati dalla natura pratica del metodo, cominciarono a parteciparvi. Goenka stesso è un esempio delle qualità della meditazione Vipassana: è una persona pragmatica, alle prese con le difficoltà della vita quotidiana e capace di affrontarle con incisività, mantenendo in ogni situazione una straordinaria calma mentale. Insieme a questa calma, ha una profonda compassione per gli altri e una grande capacità di generare empatia verso tutti. Non c’è nulla di solenne in lui: la sua ironia è coinvolgente, e la utilizza quando insegna. I suoi allievi ricordano a lungo il suo sorriso, la sua risata e il motto che ripete spesso: “Siate felici!”. Vipassana gli ha portato felicità, ed egli è desideroso di condividerla, insegnando la tecnica che gli è stata così utile. Egli stimola i suoi studenti a essere responsabili di se stessi e a non dipendere dal maestro, invitandoli a dedicarsi alla pratica e alla ricerca della verità dentro di sé. Li incoraggia, inoltre, a vivere felicemente nel mondo, sottolineando che la prova concreta dell’efficacia di Vipassana è proprio la sua applicazione nella vita quotidiana. In Myanmar, per tradizione, l’insegnamento della meditazione era prerogativa dei monaci buddisti, ma pur essendo Goenka un laico, come il suo maestro, ha conquistato la fiducia di autorevoli monaci in Myanmar, India e Sri Lanka, grazie alla sua chiarezza d’esposizione e all’efficacia della tecnica. Alcuni di loro hanno partecipato ai corsi tenutisi sotto la sua guida.
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Prefazione
Per mantenere la purezza della meditazione, Goenka continua a ripetere che l’insegnamento non deve diventare un affare, perciò i corsi e i centri che operano sotto la sua direzione sono senza fini di lucro. Egli non riceve alcun compenso per il suo impegno, e neanche gli assistenti che ha autorizzato a tenere corsi in sua vece. Offre Vipassana come un servizio all’umanità. Questo libro è il primo studio esteso del suo insegnamento, redatto sotto la sua guida e con la sua approvazione. Le fonti da cui ho attinto sono, in primo luogo, i discorsi da lui tenuti durante un corso di Vipassana di dieci giorni e, in misura minore, i suoi articoli in lingua inglese. Li ho utilizzati liberamente, prendendo a prestito gli schemi degli argomenti, la trattazione di punti specifici, ed anche gli esempi dai discorsi, a volte riportando intere frasi. Durante i corsi, le spiegazioni dell’insegnante accompagnano passo dopo passo l’esperienza meditativa dei partecipanti. Qui, invece, il materiale è organizzato a favore di chi non ha praticato la meditazione. Ho, perciò, cercato di presentare l’insegnamento come viene sperimentato: una progressione logica che fluisce dal primo gradino fino alla meta finale. Alcune parti conservano deliberatamente un tono discorsivo: l’intento è rendere, con vivezza, il modo di insegnare di Goenka. Alla fine di ogni capitolo, troverete un racconto e una serie di domande e risposte. Alcuni di questi racconti sono tratti dalla vita del Buddha, altri dalla ricca tradizione indiana di novelle popolari, altri ancora provengono dall’esperienza personale di Goenka. Li ho proposti con le sue parole, per presentarli in modo fresco, diretto e con l’accento sulla loro importanza per la pratica meditativa. Essi alleggeriscono l’atmosfera
XXIII
William Hart
molto intensa dei corsi e offrono motivo d’ispirazione, perché illustrano i punti centrali dell’insegnamento in una forma che ne facilita la comprensione. Perciò, ho voluto presentare una selezione tra le numerose storie raccontate nei corsi. Le domande e risposte sono tratte da conversazioni di Goenka con gli studenti, durante i corsi ed in altre occasioni. Le citazioni del Buddha nel testo sono tratte dalla raccolta dei discorsi (Sutta Piµaka)*. Per dare maggiore uniformità al libro, ho tradotto dal pali (lingua parlata ai tempi del Buddha, n.d.r.) tutte le citazioni, attenendomi all’esempio dei maggiori traduttori moderni. Tuttavia, poiché questo è un testo divulgativo e non specialistico, non ho tradotto “parola per parola”, ma ho cercato di rendere in termini semplici il senso di ogni passo, come appare alla luce dell’esperienza meditativa. La traduzione di alcune parole o passaggi potrà sembrare poco ortodossa, ma, nella sostanza, spero di aver reso il significato più autentico dei testi originali. I termini buddisti sono citati nella forma pali nonostante, in alcuni casi, la forma sanscrita sia più familiare ai lettori. Per esempio, il termine pali dhamma è usato invece del sanscrito dharma, kamma in luogo di karma, nibb±na in luogo di nirvana, saªkh±ra in luogo di samsk±ra. In generale, per fa
* (n.d.r. = nota della redazione) Gli insegnamenti del Buddha, nei primi secoli dopo la sua morte, furono tramandati oralmente e solo in seguito raccolti in testi scritti, che costituiscono un vero e proprio canone. Tale raccolta è suddivisa in tre parti, chiamate “ceste” o “canestri”, da cui il nome di Tipiµaka: ti = tre, piµaka = canestro, conosciuta anche come Canone pali. Sutta piµaka è la parte che contiene i discorsi, i sermoni e i dialoghi del Buddha, e di alcuni dei suoi principali discepoli.
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Prefazione
cilitare un’immediata comprensione, ho contenuto l’uso di parole pali; talvolta ho preferito utilizzare il termine pali piuttosto che un lungo giro di parole, perché esso riassume alcuni concetti non familiari al pensiero occidentale, che sarebbe arduo esprimere con una sola parola. Per i termini pali in corsivo, invio al glossario in fondo al volume. Sono grato a tutti coloro che mi hanno aiutato a realizzare questo testo. In particolare, desidero esprimere la mia profonda gratitudine a Goenka, per aver esaminato il lavoro durante la stesura e, in misura ancora maggiore, per avermi guidato nei primi passi su questo sentiero. Lui è il vero autore di questo lavoro: io mi sono limitato a presentare la sua trasmissione dell’insegnamento del Buddha, e mi ritengo responsabile di qualsiasi mancanza.
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Introduzione di William Hart
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upponete di avere la possibilità di liberarvi da tutte le responsabilità sociali per dieci giorni, e di poter vivere in un luogo tranquillo, isolato e protetto da ogni occasione di disturbo. In tale luogo si provvederà alle vostre esigenze di vitto e alloggio, mentre dei volontari baderanno, nel limite del ragionevole, che non vi manchi nulla. In cambio, vi si chiederà di evitare i contatti con gli altri e, a parte le attività essenziali, di trascorrere tutte le ore di veglia con gli occhi chiusi, mantenendo la mente focalizzata su un determinato oggetto di attenzione. Accettereste l’offerta? Supponete di aver saputo che una tale possibilità esiste e che persone come voi, non solo hanno la volontà, ma anche il desiderio di trascorrere del tempo in questo modo. Come definireste la loro attività? Fissarsi l’ombelico? Oppure contemplazione, fuga, ritiro spirituale, introversione o introspezione? L’impressione comune in merito alla meditazione, sia in senso negativo sia positivo, è che essa sia un ritiro dal mondo; ma la meditazione non è una fuga, può anzi essere un mezzo per incontrare il mondo, al fine di comprenderlo e di comprendere se stessi.
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William Hart
Ogni essere umano è condizionato a presumere che il mondo reale sia di fuori, e che vivere significhi entrare in contatto solo con la realtà esterna, cercando continuamente stimoli, sia fisici sia mentali. La maggior parte di noi non ha mai considerato la possibilità d’interrompere i contatti con l’esterno per vedere ciò che accade all’interno di se stesso. L’idea di agire in tal modo potrebbe sembrarci tempo sprecato, come trascorrere ore e ore a fissare le righe di uno schermo televisivo senza programmi. Piuttosto che le profondità nascoste dentro di noi, preferiremmo esplorare l’altra faccia della luna o il fondo dell’oceano. In realtà, l’universo può essere esplorato dentro noi stessi, attraverso l’osservazione continua del nostro corpo e della nostra mente. Senza indagare il nostro mondo interiore, non potremo comprendere la vera realtà, perché continueremo a restare legati solamente alle nostre convinzioni e opinioni su di essa. Per esempio, siamo selettivi nelle opinioni che abbiamo su di noi. Quando ci guardiamo allo specchio, tendiamo ad assumere la posa più dignitosa e l’espressione più gradevole. Allo stesso modo, creiamo un’immagine mentale di noi stessi enfatizzando le qualità, e minimizziamo i difetti, omettendo alcuni lati del nostro carattere. Vediamo, quindi, l’immagine che creiamo, non la realtà. Vipassana è una tecnica per osservare la realtà da ogni punto di vista; invece che con un’immagine costruita di sé, il meditatore si confronta con una verità completa, non censurata, e di cui sarà difficile accettare alcuni aspetti.
XXVIII
Introduzione
Osservandoci, potremo arrivare a conoscere direttamente la realtà e imparare, così, a gestirla in modo positivo e costruttivo.
La meditazione Vipassana Un modo per esplorare il mondo interiore è la meditazione Vipassana, insegnata da Goenka. Essa è un metodo pratico e razionale che consente di esaminare la realtà del proprio corpo e della propria mente, di portare alla luce e di risolvere le difficoltà, di sviluppare le proprie potenzialità, orientandole verso il bene proprio e altrui. Goenka ha appreso Vipassana dal maestro Sayagyi U Ba Khin, al quale era stata insegnata da Saya U Thet, maestro della prima metà del novecento, assai conosciuto in Myanmar. A sua volta, Saya U Thet era stato allievo di Ledi Sayadaw, famoso monaco vissuto tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Risalendo nel tempo, non si ricordano altri nomi d’insegnanti di questa tecnica; coloro che la praticano, ritengono che Ledi Sayadaw l’abbia appresa da maestri appartenenti alla catena d’insegnanti che l’avevano mantenuta viva per intere generazioni fin dall’antichità, quando l’insegnamento del Buddha era stato, per la prima volta, introdotto in Myanmar. La tecnica, così tramandata, concorda con il significato letterale delle parole del Buddha sulla meditazione. Nell’antica lingua indiana pali, Vipassana significa “introspezione, visione penetrativa, osservazione e comprensione profonda della realtà, così come è”: questa è l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Attraverso la pratica della meditazione, egli fece esperienza di tutte le verità che insegnò, esponendo-
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William Hart
le nei suoi discorsi, in modo tale da dare istruzioni pratiche e particolareggiate, affinché altri potessero sperimentare la fine della sofferenza e la liberazione. Nonostante le sue parole, tramandate dai testi canonici, siano considerate autentiche e tutto ciò che spiegò nei discorsi possa essere ampiamente accettato intellettualmente, l’interpretazione delle sue istruzioni su come meditare appare difficile, senza un’esperienza di meditazione. La tecnica Vipassana è straordinaria per chiarezza e comprensibilità, per l’assenza di dogma e, soprattutto, per i benefici che si possono ottenere praticandola. Preservata per innumerevoli generazioni, essa rispetta precisamente le istruzioni date dal Buddha, ne chiarisce parti a lungo sembrate oscure, e offre i risultati da lui descritti.
I corsi di dieci giorni Oggi è insegnata in corsi della durata di dieci giorni, durante i quali i partecipanti accettano di seguire un codice di comportamento. Per tutto il tempo del ritiro, non lasciano il luogo in cui si tiene il corso e non hanno contatti con il mondo esterno. Si astengono dal leggere, dallo scrivere, e da altre pratiche, religiose e non; si astengono da ogni attività sessuale e da ogni sostanza intossicante. Per i primi nove giorni, osservano il silenzio fra loro, mentre possono discutere di questioni inerenti alla meditazione con l’insegnante, e comunicare con i responsabili per gli aspetti pratici. Durante i primi tre giorni e mezzo, praticano un esercizio di concentrazione mentale preparatorio all’apprendimento della tecnica di Vipassana vera e
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Introduzione
propria, che è insegnata il quarto giorno. Le altre parti del metodo sono introdotte giorno per giorno, in modo che la tecnica sia presentata nella sua completezza. Il decimo giorno, la pratica del silenzio viene interrotta, per permettere ai meditatori di riadattarsi ad una condizione di estroversione, ricominciando a comunicare tra loro. Il corso si conclude nella mattinata dell’undicesimo giorno. Tale esperienza può riservare sorprese ai partecipanti. Da subito si accorgeranno che la meditazione è un lavoro duro! Sperimenteranno che essa non ha niente a che vedere con il luogo comune che la vuole come inattività o rilassamento. È necessaria, infatti, un’applicazione continua per indirizzare il processo mentale nella direzione voluta. Gli studenti sono esortati a mettercela tutta, ma senza tensione; e finché non impareranno come fare, l’esercizio potrà essere anche frustrante. Un’altra sorpresa sarà che le esperienze di queste conoscenze profonde, ottenute con l’auto–osservazione, non sono tutte piacevoli. Con la meditazione, infatti, a volte può sembrare che, invece di trovare la pace interiore, non si trovi che turbamento. Durante il corso, l’orario, la sistemazione e la disciplina, potranno sembrare insostenibili; le istruzioni, i consigli dell’insegnante e la tecnica stessa, inaccettabili. Un’altra sorpresa, tuttavia, sarà che le difficoltà ad un certo momento scompariranno. Gradualmente i meditatori impareranno a compiere sforzi senza sforzo, a mantenere un’attenzione rilassata, un coinvolgimento distaccato, e verranno assorbiti completamente dalla pratica. A quel punto, il tipo di sistemazione non sembrerà più importante, la disciplina diventerà un utile supporto e le ore passeranno rapidamente. La mente diverrà calma come un lago di
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William Hart
montagna, che rispecchia perfettamente i dintorni, e nello stesso tempo rivela le sue profondità a quelli che lo guardano più da vicino. Quando si farà strada questa chiarezza, ogni momento sarà colmo di conferme, bellezza e pace. Così, il meditatore scoprirà che la tecnica funziona realmente. Anche se qualche passo potrà sembrargli un grande salto egli si accorgerà che è sempre possibile compierlo. Alla fine dei dieci giorni, poi, si potrà rendere conto del lungo viaggio che ha compiuto. Si accorgerà di essersi sottoposto a un processo analogo a quello di un’operazione chirurgica, dove una ferita viene incisa col bisturi per mettere a nudo la lesione al fine di rimuovere l’infezione; è doloroso, ma senza di questo la ferita non può guarire. Una volta che l’infezione è eliminata, ci si libera anche del dolore, e ci si avvia verso la guarigione. È così che il meditatore riesce a liberarsi da alcune tensioni e raggiunge un migliore equilibrio mentale, e questo avviene perché il metodo Vipassana agisce in profondità, producendo cambiamenti che persistono dopo il corso. Il meditatore, infatti, verificherà che l’energia mentale acquisita e tutto ciò che ha imparato durante il corso, potranno essere applicati nella vita quotidiana, per il suo vantaggio e per il bene degli altri. La sua vita diventerà più armoniosa, fruttuosa e felice. Questo libro non è un manuale di fai–da–te per praticare la meditazione Vipassana, e chiunque lo usi in tal modo, lo fa a proprio rischio. La tecnica va appresa esclusivamente in un corso, dove l’ambiente adatto e una guida, adeguatamente preparata, sostengono il meditatore. La meditazione è una seria disciplina, specialmente Vipassana, che affronta gli stati mentali profondi. Non ci si dovrebbe mai av-
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Introduzione
vicinare ad essa con leggerezza. Se la lettura di questo libro v’ispira a provarla, potete rivolgervi a uno dei centri elencati in fondo al volume. Il proposito della presente pubblicazione è di offrire una visione generale del metodo Vipassana, così come insegnato da Goenka, nella speranza che aiuti ad ampliare la comprensione degli insegnamenti del Buddha, e della tecnica di meditazione che ne costituisce l’essenza.
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William Hart
Racconto
Nuotologia
U
na volta un giovane professore stava viaggiando per mare. Uomo assai colto e carico di titoli accademici, aveva poca esperienza della vita. Tra l’equipaggio della nave, c’era un vecchio marinaio analfabeta. Ogni sera il marinaio, molto impressionato dalle conoscenze del giovane professore, gli faceva visita in cabina, per ascoltare le sue dissertazioni. Una sera, dopo alcune ore di conversazione, il marinaio stava andandosene, quando il professore gli chiese: – Ditemi, vecchio marinaio, avete studiato geologia? – Che cos’è? – La scienza della terra. – No, non sono mai stato a scuola. – Allora avete sprecato un quarto della vostra vita. Il vecchio marinaio se ne andò rattristato. – Se una persona così istruita dice questo, certamente deve essere vero, ho sprecato un quarto della mia vita! La sera seguente, il professore gli chiese: – Ditemi, avete studiato oceanografia? – Che cos’è? – La scienza del mare. – No, non ho mai studiato niente. – Allora avete sprecato metà della vita.
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Introduzione
Il vecchio se ne andò ancora più triste: – Ho sprecato metà della mia vita, così dice quest’uomo tanto istruito. Di nuovo, la sera successiva, il professore gli chiese: – Ditemi, avete studiato meteorologia? – Che cos’è? Non ne ho mai sentito parlare. – Ma come! È la scienza del vento, della pioggia, del tempo. – No. Non sono stato a scuola, non ho mai studiato. – Non avete studiato la scienza della terra in cui vivete, non avete studiato la scienza del mare, sul quale vi guadagnate da vivere, non avete studiato la scienza del clima che incontrate ogni giorno? Avete sprecato tre quarti della vita. Il marinaio era molto infelice: – Quest’uomo istruito dice che ho sprecato tre quarti della mia vita! Deve essere senz’altro vero. Il giorno seguente fu il turno del vecchio marinaio. Corse alla cabina del giovane e urlò: – Professore, avete studiato nuotologia? – Nuotologia? Che volete dire? – Sapete nuotare, professore? – No, non so nuotare. – Professore, avete sprecato tutta la vostra vita! La nave ha urtato contro uno scoglio e sta affondando. Chi sa nuotare potrà raggiungere la spiaggia vicina, ma chi non sa nuotare, annegherà. Mi dispiace, professore, ma di sicuro avete perso tutta la vostra vita. Potete studiare tutte le “ologie” del mondo, ma se non imparate la nuotologia, i vostri studi sono inutili. Potete leggere e scrivere libri sul nuoto, potete dibattere sui suoi sottili aspetti teorici, ma come vi può aiutare tutto questo, se vi rifiutate di entrare in acqua?
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La meditazione Vipassana
CAPITOLO PRIMO
La ricerca
O
gnuno di noi cerca pace e armonia, perché mancano alla nostra vita. Tutti desideriamo essere felici, lo consideriamo un nostro diritto. La felicità è la meta cui tendiamo, anche se spesso è difficile da raggiungere. Tutti noi, di quando in quando, sperimentiamo insoddisfazione, turbamento, irritazione, disarmonia, sofferenza; e, anche quando siamo liberi da tali negatività, possiamo sicuramente ricordare un periodo in cui esse ci hanno tormentato e prevedere che potrebbero ritornare. Comunque sia, le dovremo affrontare, compresa la sofferenza della morte. La nostra insoddisfazione personale, inoltre, non resta limitata a noi stessi, perché tendiamo a farne partecipi gli altri. L’atmosfera attorno a una persona infelice è così carica d’inquietudine, che se ne rimane influenzati. In tal modo le tensioni individuali, combinandosi fra loro, generano tensioni sociali. È questo il problema fondamentale della vita: la sua natura insoddisfacente. Avvengono cose che non vogliamo, mentre le cose che vogliamo non si realizzano. Ignoriamo le cause che sono all’origine di questo processo, proprio come ignoriamo quale sia l’inizio e la fine della nostra esistenza.
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La ricerca
L’indagine di Siddhattha Gotama, il Buddha Venticinque secoli fa, in India, un uomo decise di indagare la causa della sofferenza umana. Dopo anni di ricerca e di tentativi, condotti con vari metodi, scoprì una via per giungere alla più profonda comprensione della propria natura, e sperimentare la totale libertà dalla sofferenza. Raggiunta la meta più alta – la liberazione da infelicità e conflitti – dedicò il resto della sua vita ad aiutare gli altri, mostrando loro la via per conseguirla. Questa persona – Siddhattha Gotama – conosciuto come il Buddha, letteralmente “Illuminato”, dichiarò sempre di non essere altro che un uomo. Come accade ai grandi maestri, intorno alla sua persona fiorirono numerose leggende, storie meravigliose sulle sue passate esistenze e sui suoi poteri magici, ma tutti questi racconti concordano sul fatto che non si dichiarò mai di origine divina o ispirato da un dio. Quali che fossero le sue particolari doti, erano doti eminentemente umane, che egli aveva portato alla perfezione. Di conseguenza, tutto ciò che egli realizzò, è nelle possibilità di ogni essere umano che agisca come lui. Il Buddha non insegnò né una religione, né una filosofia. Chiamò il suo insegnamento Dhamma*, ovvero legge, la legge di natura. Non ebbe interesse per speculazioni intellettuali, non promulgò
* (n.d.r.) Dhamma: deriva dalla radice indoeuropea dhr
che significa sostenere, stabilizzare. Dhamma è difficilmente traducibile ed ha molti significati: l’ordine che stabilizza e governa l’universo, la legge morale con i doveri religiosi e sociali, la dottrina o legge, predicata dal Buddha (v. Glossario). Nell’insegnamento del Buddha, Dhamma significa: fenomeno,
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CAPITOLO PRIMO
dogma, discusse solamente dell’eliminazione della sofferenza, e offrì una soluzione pratica e universale per questo problema universale. Ora come sempre – egli disse – parlo della sofferenza e di come eliminarla 1. Il fine di tutti i suoi sforzi fu di scoprire la verità delle leggi di natura, così come molti illuminati fecero prima di lui, e così come molti faranno dopo di lui. Affermò di non avere il monopolio della verità, e non rivendicò un’autorità particolare come maestro, in cui credere per fede o per la logica del suo insegnamento. Al contrario, disse che è giusto dubitare e verificare tutto ciò di cui non si ha diretta esperienza. Non credete a tutto ciò che vi si dice, o a tutto ciò che è stato tramandato dalle generazioni passate, e neppure a ciò che è opinione corrente, o a ciò che dicono i testi sacri. Non accettate qualcosa come vera, semplicemente basandovi su una deduzione o su un’illusione, sull’apparenza esteriore, o sulla parzialità di una certa prospettiva, o in base alla sua plausibilità, o perché il vostro maestro vi dice che è così. Quando voi, per esperienza, riconoscete: “Questi principi non sono benefici, sono biasimevoli, condannati dai saggi, se adottati e messi in pratica, producono danno e sofferenza”, allora li dovete abbandonare. E quando, per esperienza, riconoscete: “Questi principi sono benefici, non biasimevoli, lodati dai saggi, se adotelemento, stato mentale, oggetto mentale, caratteristica, qualità. Nel presente testo si è preferito, ove possibile, utilizzare questi termini invece della parola Dhamma.
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La ricerca
tati e messi in pratica, conducono al benessere e alla felicità”, allora li dovete accettare e mettere in pratica2. L’autorità più alta è la propria esperienza della verità. Nulla deve essere accettato solo per fede. Dobbiamo esaminare ogni cosa per verificare se è logica, pratica, benefica; ma, per comprendere un insegnamento, non è sufficiente analizzarlo con la ragione. Se vogliamo trarne beneficio, dobbiamo sperimentarlo. Il Buddha diceva sempre che insegnava solo ciò che aveva sperimentato, e incoraggiava gli altri a sviluppare, da soli, tale conoscenza, diventando essi stessi l’autorità cui riferirsi: Ognuno di voi sia un’isola per se stesso, sia un rifugio per se stesso: non c’è altro rifugio. Sia la verità la vostra isola, sia la verità il vostro rifugio: non c’è altro rifugio3. L’unico vero rifugio nella vita, l’unico terreno solido su cui stare ben saldi, la sola autorità, che può dare una guida e una protezione sicura, è la verità, la legge della natura, sperimentata e verificata di persona: il Dhamma. Perciò il Buddha raccomandò di dare la più grande importanza all’esperienza diretta della verità. Spiegò, nel modo più chiaro possibile, quello che lui stesso aveva sperimentato, e diede istruzioni precise per giungere alla personale realizzazione della verità. L’insegnamento che ho presentato non ha due versioni, una resa pubblica e una tenuta segreta. Nulla è stato tenuto nascosto nel pugno chiuso del maestro4. Non insegnò una dottrina esoterica per pochi eletti, né fu interessato a fondare un particolare
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gruppo religioso o un culto incentrato sulla sua persona. La personalità di chi insegna, sostenne, è di minor importanza rispetto all’insegnamento. Egli desiderò far conoscere la legge della natura in modo chiaro ed esauriente, per il beneficio di tutti. A un discepolo che mostrava venerazione alla sua persona, disse: A cosa ti serve guardare questo corpo, che è soggetto al disfacimento? Chi vede il Dhamma, vede me; chi vede me, vede il Dhamma 5. La devozione verso una persona santa, non è sufficiente a liberare qualcuno; non ci può essere liberazione o salvezza, senza l’esperienza diretta della realtà. Pertanto, la supremazia è della verità, e non di chi ne parla. Si deve rispettare chiunque insegni la verità, ma la via migliore per mostrare tale rispetto è impegnarsi per sperimentare di persona tale verità. Quando, verso la fine della vita, gli furono tributati molti onori, il Buddha commentò: Non è così che si onora un Illuminato, non è così che gli si mostra rispetto, non è così che deve essere stimato, o riverito o venerato. Sono il monaco o la monaca, il seguace e la seguace laici, che procedono con costanza lungo il sentiero di Dhamma, dal primo passo fino alla meta ultima, praticando il Dhamma nel giusto modo, coloro che onorano, stimano, rispettano, riveriscono e venerano al massimo grado l’Illuminato6.
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La ricerca
Il Nobile Ottuplice Sentiero Insegnò una via che tutti possono seguire e la chiamò Nobile Ottuplice Sentiero. Nobile perché chi lo segue, è destinato a diventare una persona dal cuore nobile, una persona santa, liberata dalla sofferenza; Ottuplice perché è una pratica costituita da otto parti collegate tra loro; e Sentiero perché si deve seguire un cammino (ben definito) che porta alla comprensione e visione profonda della vera natura di tutte le cose, e conduce alla realizzazione della verità ultima. Qualsiasi nome scegliamo di dare a questa verità, sia esso nibb±na, paradiso o qualsiasi altro, non ha importanza. Farne esperienza è la cosa più importante. Occorre imparare a riconoscere la realtà apparente, e penetrare al di là da essa, per poter percepire verità sempre più sottili, sino alla verità ultima, e sperimentare la libertà dalla sofferenza. E il solo modo per sperimentare la verità, è di guardare dentro noi stessi. Abituati a guardare fuori, interessati a ciò che accade e a ciò che fanno gli altri, raramente abbiamo cercato di esaminare noi stessi, la nostra struttura mentale e fisica, le nostre azioni. Siamo degli sconosciuti ai nostri stessi occhi, e non ci rendiamo conto di quanto sia dannosa questa ignoranza, e di quanto siamo schiavi delle nostre forze inconsce. Occorre dissipare quest’oscurità interiore per conoscere la verità; occorre sviluppare una profonda conoscenza della nostra natura, per comprendere la natura stessa della vita. Il sentiero mostrato dal Buddha è il sentiero dell’introspezione, dell’auto– osservazione:
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Proprio all’interno di questo corpo, che contiene la mente con le sue percezioni, ho potuto conoscere l’universo, la sua origine, la sua fine e la via che conduce alla sua fine7. L’intero universo e le leggi della natura, per mezzo delle quali esso opera, possono essere sperimentati solo all’interno di noi stessi. Il sentiero è anche un processo di purificazione, perché non cerchiamo la verità in noi stessi per curiosità intellettuale, ma per un preciso scopo. Osservandoci, infatti, diventiamo consapevoli, per la prima volta, delle nostre reazioni condizionate, dei pregiudizi che confondono la nostra visione mentale, che ci nascondono la realtà, e producono sofferenza. Ci accorgiamo delle tensioni accumulate, che ci turbano e ci rendono infelici, e comprendiamo che possono essere sciolte. Impariamo, allora, a lasciare che avvenga la loro graduale dissoluzione, e far sì che la mente diventi pura, calma e felice. La sola comprensione intellettuale e la fiducia nelle parole del Buddha non ci aiuteranno a liberarci dalla sofferenza. Questi aspetti hanno valore, se ci ispirano a mettere in pratica l’insegnamento. Sarà solo grazie a un’applicazione e a uno sforzo costante, che potremo sperimentare dei benefici concreti nella nostra vita. Il Buddha disse: Una persona può recitare alla perfezione molti testi, ma, se non li mette in pratica, è sventata, come il bovaro che conta solo le mucche degli altri, e non gode delle ricompense, proprie della vita di un ricercatore di verità. Un’altra può essere capace di recitare solo poche parole dei testi, ma, se conduce una vita di Dhamma, procedendo
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passo dopo passo verso la meta finale, allora può godere delle ricompense della vita di un ricercatore di verità 8. Il sentiero deve essere seguito e l’insegnamento messo in pratica, altrimenti non darà risultati. Non è necessario definirsi buddista per praticarlo. Le etichette sono irrilevanti. La sofferenza non fa distinzioni, è comune a tutti, e così il rimedio, per essere utile, deve essere applicabile a tutti. La pratica non è riservata solo a monaci ed eremiti, ma è necessario dedicare un determinato periodo di tempo al suo apprendimento, per poi poterla applicare alla vita quotidiana. Lasciare la propria casa e le responsabilità sociali, come i monaci, per dedicarsi totalmente a questo cammino, consentirà di progredire più rapidamente. Chi è coinvolto invece nella vita sociale, impegnato a far fronte alle diverse responsabilità, potrà dedicarvi un tempo minore; ma, sia per i monaci che per i laici, l’insegnamento deve essere messo in pratica, perché dia risultati. Questa via conduce dalla sofferenza alla pace: man mano che progrediremo nella pratica, la nostra vita diventerà più felice, più armoniosa. Nello stesso tempo i rapporti con gli altri diventeranno più pacifici e armoniosi. Invece di aumentare le tensioni della società, potremmo dare un contributo positivo per la felicità e il benessere di tutti. Seguire il sentiero è vivere la vita della verità e della purezza: questo è il giusto modo di mettere in pratica l’insegnamento, questa è l’arte di vivere.
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CAPITOLO PRIMO
Domande e risposte
Domanda: Lei fa riferimento al Buddha, quindi insegna Buddismo? Goenka: Non mi occupo di “ismi”. Insegno quello che ha insegnato il Buddha: il Dhamma. Egli non ha mai insegnato “ismi”, e non ha insegnato ad un gruppo religioso in particolare. Ha insegnato un’arte di vivere, a beneficio di tutti. Rimanere nell’ignoranza è dannoso per tutti: sviluppare la saggezza è un bene per tutti. Ognuno può praticare questa tecnica e trarne beneficio. Ognuno deve diventare un buon essere umano. Un cristiano diventerà così un buon cristiano, un ebreo un buon ebreo, un musulmano un buon musulmano, un indù un buon indù, un buddista un buon buddista. Come diventare buoni essere umani: è questa la cosa più importante. Insegna mah±y±na o h²nay±na? (vedi Glossario, n.d.r.) Nessuno dei due. La parola y±na, di fatto, significa “veicolo che porterà alla meta finale”, ma le si dà erroneamente una connotazione di parte. Il Buddha non ha mai insegnato per qualche specifico gruppo, religioso o laico che fosse. Ha insegnato il Dhamma, che è universale. È quest’universalità che mi ha attratto verso il suo l’insegnamento, ed è da esso che ho tratto giovamento; quindi è questo che offro a tutti, con tutto il mio amore e la mia compassione. Per me, Dhamma non è né mah±y±na né h²nay±na.
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Lei parla del condizionamento. Questo tipo di meditazione non è anch’esso una forma di condizionamento della mente, anche se positivo? Al contrario, è un processo di decondizionamento. Invece di imporre qualcosa alla mente, rimuove le caratteristiche non benefiche, affinché rimangano in essa solo le qualità positive e benefiche. Attraverso questo processo di eliminazione, la mente diviene pura e riscopre la sua natura, che è fondamentalmente positiva. Sedersi in una certa posizione, per un determinato periodo, e dirigere l’attenzione in un certo modo, non è una forma di condizionamento? Se lo fate meccanicamente, come fosse un gioco o un rito, allora condizionate la mente, e questo sarebbe un uso sbagliato di Vipassana. Quando la tecnica è praticata in modo corretto, vi rende capaci di sperimentare personalmente la verità. E da questa esperienza si sviluppa naturalmente la comprensione che elimina ogni condizionamento. Non è egoistico dimenticare il mondo, e limitarsi a starsene seduti a meditare tutto il giorno? Lo sarebbe se fosse fine a stesso, ma meditare è un mezzo per raggiungere un obiettivo non egoistico: una mente equilibrata. Quando il corpo è malato, andate in ospedale non per rimanerci per sempre, ma quanto basta per recuperare la salute, di cui beneficerete nella vita. Frequentate un corso di meditazione per lo stesso motivo: ottenere l’equilibrio mentale, da utilizzare per il bene vostro e degli altri.
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Rimanere felici e in pace anche quando ci si confronta con la sofferenza altrui, non è forse pura insensibilità? Essere sensibile alle sofferenze degli altri non significa che si debba diventare tristi. Al contrario, dovete rimanere calmi ed equilibrati, così da poter alleviare le sofferenze altrui. Se anche voi diventate tristi, accrescete l’infelicità attorno a voi, non aiutate gli altri e non aiutate voi stessi. Perché non viviamo in pace? Perché ci manca la saggezza. Una vita senza saggezza è una vita d’illusioni, agitazione e sofferenza. La nostra prima responsabilità è di vivere una vita sana, armoniosa, buona per noi e per tutti. Perciò, impariamo ad usare le nostre facoltà di auto–osservazione, che ci consentono di sperimentare la realtà dentro di noi. Perché è necessario seguire un corso di dieci giorni per apprendere questa tecnica? Se poteste fermarvi per un periodo più lungo sarebbe sicuramente meglio. Ma dieci giorni sono il tempo minimo per comprendere lo schema della tecnica. Perché dobbiamo rimanere per dieci giorni nel luogo in cui si tiene il corso? Per compiere un’operazione sulla vostra mente. Gli interventi chirurgici devono essere eseguiti in ospedale, in sale operatorie protette da fonti d’infezione. Allo stesso modo, un’operazione sulla mente può
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essere compiuta senza influenze esterne, solo se si rimane per tutto il tempo entro i confini del luogo dove si svolge il corso. Una volta terminati i dieci giorni, l’operazione sarà conclusa e potrete tornare in contatto con il mondo. Questa tecnica guarisce malattie fisiche? Sì, come risultato secondario. Quando le tensioni mentali si dissolvono, molti disturbi psicosomatici se ne vanno. Se la mente è turbata, tendono a svilupparsi sintomi fisici; se la mente diviene calma e pura, essi, automaticamente, tendono a regredire sino a scomparire. Ma, se vi prefiggete come scopo la cura del malessere fisico invece della purificazione della mente, non raggiungerete né l’uno né l’altro. Chi segue il corso con l’obiettivo di curare una malattia, concentra l’attenzione solo su questo: “Oggi va meglio? No, non va meglio... Oggi sto migliorando? No, nessun miglioramento!”. E tutti i dieci giorni se ne vanno in questo modo. Se l’intenzione è di purificare la mente, allora molti malanni scompariranno, come risultato della meditazione. Qual è lo scopo della vita, secondo lei? Uscire dall’infelicità. Gli esseri umani hanno la meravigliosa capacità di scavare a fondo dentro sé stessi, di osservare la realtà e uscire dalla sofferenza. Non usare questa capacità significa sprecare la propria vita. Utilizzatela per vivere una vita equilibrata e felice. Lei parla di “essere sopraffatti” dalla negatività. Che cosa pensa del caso contrario, cioè di “essere sopraffatti” dalla positività, per esempio dall’amore?
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La “positività” è la vera natura della mente. Quando la mente è libera dal condizionamento, è sempre piena d’amore – amore puro – e ci si sente in pace e felici. Se si rimuove la negatività, allora rimane la positività, rimane la purezza. Che tutto il mondo possa essere sommerso da questa positività!
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La ricerca
Racconto
Percorrere il sentiero
A
S±vatthi, città nell’India del nord, c’era un grande centro, dove la gente si recava per meditare e ascoltare gli insegnamenti del Buddha. Per anni, un giovane ci era andato ogni sera, ma senza mai mettere in pratica le istruzioni. Una volta arrivò in anticipo e trovò il Buddha da solo. Gli si avvicinò e gli disse: – Signore, c’è una domanda che continua a venirmi in mente e a far sorgere in me dei dubbi. – Davvero? Non ci dovrebbero essere dubbi sul sentiero; meglio chiarirli subito. Qual è il problema? – Signore, sono molti anni che frequento questo luogo, e ho notato che ci sono molti eremiti intorno a voi, monaci e monache, e che alcuni di loro sono con voi da anni. La mia impressione è che molti abbiano raggiunto lo stadio finale e che, di conseguenza, siano pienamente liberati; vedo, inoltre, che altri hanno ottenuto dei cambiamenti nella loro vita, e sono migliori di prima. Ma, ci sono anche molte persone, compreso me, che sono rimaste com’erano, o che sono persino peggiorate. Perché accade questo? La gente viene da voi, perché siete un grande uomo pienamente illuminato, una persona tanto compassionevole e potente. Perché non
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usate il vostro potere e la vostra compassione per liberarli tutti? Il Buddha sorrise e disse: – Ragazzo, dove abitate? E dove siete nato? – Vivo qui a S±vatthi. – Sì, ma i tratti del vostro viso indicano che non siete di queste parti. Di dove siete originario? – Sono di R±jagaha, la capitale del Magadha. Mi sono stabilito a S±vatthi alcuni anni fa. – Avete forse interrotto tutte le relazioni con R±jagaha? – No, ho ancora dei parenti là, degli amici ed anche degli affari. – Allora certamente dovrete recarvi da S±vatthi a R±jagaha abbastanza spesso. – Sì, ci vado molte volte l’anno, vado e poi ritorno a S±vatthi. – Avendo percorso molte volte la via che va da qui a R±jagaha, di sicuro la conoscerete bene. – Sì, la conosco perfettamente. Potrei dire che, avendola percorsa tante volte, la ritroverei a occhi chiusi. – E i vostri amici, quelli che vi conoscono bene, di certo sanno che siete originario di R±jagaha, che vi siete stabilito qui, che ci andate spesso, e che, perciò, conoscete molto bene la strada da qui a R±jagaha? – Sì. Tutti quelli che mi sono vicini sanno che ci vado spesso, e che conosco perfettamente la strada. – Allora può accadere che qualcuno vi chieda di spiegargli il percorso da qui a R±jagaha. Gli nascondete qualcosa o glielo spiegate in modo chiaro? – Che cosa c’è da nascondere? Glielo spiego nel modo più chiaro che posso: dirigiti verso est, poi prosegui andando diritto fino a che raggiungi
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La ricerca
Benares, da lì continua fino a Gay± e infine arriverai a R±jagaha. Lo spiego con molta chiarezza, signore. – E queste persone cui date spiegazioni dettagliate, arrivano tutte a R±jagaha? – No, certo non tutte, signore! Solo coloro che avranno completato tutto il percorso, raggiungeranno R±jagaha. – È proprio questo che voglio farvi capire, ragazzo. La gente viene da me sapendo che ho percorso tutto il sentiero da qui al nibb±na, che lo conosco perfettamente, e mi domandano: “Qual è il sentiero per raggiungere il nibb±na, per la liberazione?”. Non avendo nulla da nascondere, glielo spiego in modo chiaro: “Questo è il sentiero”. Se qualcuno si limitasse ad annuire, dicendo: “Ben detto, ben detto, un sentiero molto buono, ma non voglio muovervi un passo; un sentiero meraviglioso, ma non voglio prendermi la briga di percorrerlo”, come potrebbe raggiungere la meta finale? Non posso caricarmi nessuno sulle spalle per portarlo alla meta finale. Nessuno può condurre un altro, portandolo sulle proprie spalle, fino alla meta finale. Al massimo, con amore e compassione, può dire: “Questo è il sentiero, e in questo modo io l’ho percorso. Impegnatevi, seguitelo anche voi, e raggiungerete la meta finale; ma ognuno deve compiere il cammino da sé, deve compiere ogni passo sul sentiero da solo. Chi è avanzato di un passo, è di un passo più vicino alla meta. Chi ha fatto cento passi, è di cento passi più vicino alla meta. Chi ha fatto tutti i passi, ha raggiunto la meta finale. Solo voi potete percorrere il sentiero.
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CAPITOLO SECONDO
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L
a fonte della sofferenza è dentro di noi: quando avremo imparato a comprendere profondamente la nostra natura, avremo trovato la soluzione al problema della sofferenza, e potremo iniziare a risolvere i nostri problemi e i problemi del mondo. Ma in realtà che cosa sappiamo di noi? Ognuno è convinto di essere importante e unico, ma la conoscenza che abbiamo di noi stessi è superficiale; ad un livello più profondo non ci conosciamo affatto. Eppure tutti i grandi saggi hanno consigliato: “Conosci te stesso”. Il Buddha esplorò la sua realtà interiore fino a comprendere che ogni essere umano è composto di cinque differenti processi vitali (che chiameremo aggregati*): quattro mentali e uno fisico.
* (n.d.r.) Aggregato: nei testi antichi sono enumerati cinque aggregati, che costituiscono l’insieme dell’individuo: l’aggregato corpo e i quattro aggregati mentali: le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali (pensiero discorsivo, volizione, immaginazione, emozione) e la coscienza (intesa come la presa di coscienza dei dati sensoriali). I cinque aggregati, sia considerati singolarmente sia insieme, non sono da considerare come un io, un’entità, o una personalità, ma, (come spie-
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La materia L’aspetto fisico è la nostra parte visibile, quella subito percepita dai sensi, ma quanto poco la conosciamo in realtà! Possiamo controllare il corpo superficialmente, nel senso che lo possiamo far muovere con la nostra volontà, ma il funzionamento degli organi interni è fuori dal nostro controllo e dalla nostra comprensione. Andando a un livello più sottile, non abbiamo nessuna percezione delle incessanti reazioni biochimiche che avvengono in ogni cellula del corpo. Eppure, anche questo è solo un aspetto superficiale, e non la realtà ultima del fenomeno della materia; lo stesso corpo, che ci sembra solido, è, in realtà, composto di particelle subatomiche e di spazi vuoti. E persino queste particelle subatomiche non hanno solidità reale, poiché il tempo di esistenza di ognuna è molto meno di un trilionesimo di secondo. Esse nascono e svaniscono in continuazione, come un flusso di vibrazioni. Questa è la realtà ultima del corpo e della materia che il Buddha comprese 2500 anni fa. Gli scienziati moderni, con le loro ricerche, hanno riconosciuto e accettato questa realtà ultima dell’universo materiale, senza tuttavia diventare persone illuminate. Per sete di conoscenza, essi hanno indagato la natura dell’universo utilizzando l’intelletto, e si sono affidati a strumenti tecnologici per verificare le loro teorie. La motivazione del Buddha fu, invece, il desiderio di trovare una via d’uscita dalla sofferenza e, per questa sua ricerca, non usò altro gato più avanti), come processi in continua trasformazione. Ciò che è definita esistenza individuale, è l’attività continua di questi aggregati.
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CAPITOLO SECONDO
strumento che la propria mente. La verità che scoprì derivò dalla sua esperienza e non da uno sforzo intellettuale. Egli sperimentò che l’intero universo materiale è composto di particelle, chiamate in pali kal±pa, “unità indivisibili”. Con infinite varianti, queste unità possiedono le qualità fondamentali della materia: massa, coesione*, temperatura e movimento. Combinandosi tra di loro, esse formano strutture che sembrano essere permanenti, ma che, in realtà, sono impermanenti, essendo composte di particelle subatomiche che sorgono e svaniscono continuamente. Questa è la realtà ultima della materia: un flusso di onde o particelle che nascono e muoiono ininterrottamente. Questo è il corpo che ciascuno di noi chiama “me stesso”.
La mente Contemporaneamente ai processi fisici, c’è il processo psichico, la mente. Sebbene non possa essere toccata né vista, sembra più intimamente connessa a noi stessi del corpo: possiamo immaginare un’esistenza futura senza il corpo, ma non senza la mente. Tuttavia di essa conosciamo ben poco, e ben poco riusciamo a tenerla sotto controllo. Quante volte essa rifiuta di fare ciò che vogliamo, e fa ciò che non vogliamo! E se il nostro controllo sulla mente cosciente è debole, l’inconscio sembra addirittura fuori dal nostro potere e dalla nostra (n.d.r.) Coesione molecolare. In fisica, proprietà che hanno i corpi di tenere più o meno saldamente unite tra loro le parti che lo compongono. *
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comprensione, pieno di forze di cui non siamo consapevoli e che potrebbero anche non piacerci. Così come esaminò il corpo, il Buddha esaminò la mente, e comprese che essa è formata da quattro processi: coscienza, percezione, sensazione e reazione. Il primo processo, la coscienza, viññ±ºa, è la parte ricettiva della mente, l’atto di consapevolezza indifferenziata o cognizione; essa registra il verificarsi di ogni evento, recepisce ogni stimolo fisico e mentale, annota i dati grezzi dell’esperienza senza assegnare etichette o dare giudizi. Il secondo processo mentale è la percezione, saññ±, l’atto del riconoscere. Questa parte della mente identifica qualsiasi cosa sia stata registrata dalla coscienza; distingue, etichetta e divide in categorie i dati grezzi, li valuta ed emette giudizi positivi e negativi. Il terzo processo è costituito dalla sensazione, vedan±. Appena si riceve uno stimolo, sorge una sensazione, segnale che qualcosa sta avvenendo. Fino a quando non si valuta lo stimolo, la sensazione rimane neutrale. Una volta che si attribuisce un giudizio ai dati in arrivo, la sensazione sorta viene ritenuta piacevole o spiacevole, secondo la valutazione data. Se la sensazione è ritenuta piacevole, sorge il desiderio di prolungare e intensificare l’esperienza. Se è ritenuta spiacevole, quello di mettervi fine, di mandarla via. E questo è appunto il quarto processo: la reazione, saªkh±ra,1. La mente reagisce alla sensazione con desiderio, se la ritiene piacevole, e con avversione, se la ritiene spiacevole. Per fare un esempio, quando udiamo un suono, la coscienza si mette al lavoro. Appena il suono è stato registrato come “parole”, è la percezione ad attivarsi, valutandole, come
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CAPITOLO SECONDO
positive o negative. Poi si manifesta la sensazione. Se le parole sono di approvazione, il giudizio sarà positivo, e la sensazione sarà ritenuta piacevole; se le parole sono offensive, il giudizio sarà negativo, e la sensazione sarà ritenuta spiacevole. A questo punto, inizia il processo reattivo, perché, se la sensazione sarà reputata piacevole, inizieremo a provare piacere, desiderando una quantità maggiore di parole di approvazione, se la sensazione sarà reputata spiacevole, inizieremo a sentirci scontenti, desiderando che le offese finiscano. Ogni volta che i sensi ricevono uno stimolo, avviene questa stessa sequenza: coscienza, percezione, sensazione, reazione; quattro funzioni mentali ancora più fluttuanti delle effimere particelle che compongono la realtà materiale. Ogni volta che i sensi vengono in contatto con un oggetto, i quattro processi mentali si manifestano con la rapidità del fulmine, e ciò avviene al momento di ogni contatto. Questo processo si manifesta così rapidamente che non siamo consapevoli che sta avvenendo. Ne possiamo prendere coscienza solo quando si manifesta una reazione particolarmente intensa.
L’inesistenza dell’io L’aspetto più singolare, che emerge dalle rivelazioni del Buddha sulla struttura dell’essere umano, è che non esiste alcun io. Che sia occidentale, orientale, cristiano, ebreo, musulmano, indù, buddista, ateo o altro ancora, l’uomo ha la certezza congenita che, da qualche parte dentro di sé, esista un io, un’identità permanente. Noi agiamo pre-
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supponendo che la persona di dieci anni fa, sia la stessa persona che esiste ora, la stessa che esisterà fra dieci anni e, forse, anche la stessa che esisterà in una vita futura dopo la morte. Quale che sia la filosofia, la teoria o il credo che consideriamo vero, viviamo con la convinzione radicata: “Io ero, io sono, io sarò”. Per sfatare questa istintiva convinzione di possedere un’identità, il Buddha non si rifece ad ipotesi o a teorie, ma espose una verità che aveva sperimentato, e che è sperimentabile da tutti. L’illuminato ha messo da parte tutte le teorie, perché ha visto la realtà della materia, della sensazione, della percezione, della reazione e della coscienza, il loro sorgere e svanire 2 . Egli scoprì che ogni essere umano, al di là delle apparenze, è un aggregato di processi correlati tra loro e in continua trasformazione. Ogni processo è il risultato del precedente, in una sequenza continua che si ripete per tutta la vita. La progressione ininterrotta di eventi, intimamente connessi, dà l’apparenza della continuità, dell’identità, ma si tratta di una realtà apparente e non della verità ultima. Possiamo dare un nome a un fiume, ma in realtà esso resta un flusso d’acqua che continuamente scorre. Possiamo pensare alla luce di una candela come a un qualcosa di costante, ma, se la osserviamo da vicino, vediamo che in realtà la fiamma nasce da uno stoppino che brucia per un istante, ed è subito sostituita da una nuova fiamma, istante dopo istante. Anche la luce di una lampadina elettrica consiste in un flusso costante, paragonabile a quello di un fiume: in questo caso si tratta di un flusso di energia, prodotta dalle oscillazioni ad al-
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tissima frequenza, che si susseguono nel filamento. Ad ogni attimo qualcosa di nuovo nasce, come prodotto del passato, e nell’attimo successivo, qualcos’altro sorge per prendere il suo posto. La successione degli eventi è così rapida e incessante che è difficile da discernere. Eppure il processo avviene. Il Buddha comprese che anche l’individuo non è un’entità finita e immutabile: c’è solo un processo che fluisce, momento dopo momento; non esiste un “essere” reale, ma un flusso che continuamente si trasforma e si rinnova, in un processo continuo di divenire. Naturalmente, per poter interagire nella vita quotidiana, dobbiamo accettare le apparenze esterne, e considerare gli altri come individualità ben definite e non mutevoli. Ma la realtà esteriore esiste solo in superficie. A livello profondo, la verità è che l’intero universo, animato e inanimato, è in costante stato di divenire, di nascere e svanire. Il corpo fisico non è altro che un flusso di particelle subatomiche in costante mutamento, e i processi di coscienza, di percezione, di sensazione e di reazione mutano ancor più rapidamente di quelli fisici. Questa è la realtà ultima di noi stessi. È questo il corso degli eventi in cui siamo implicati. Se lo comprenderemo a fondo, attraverso l’esperienza diretta, troveremo la strada che ci condurrà fuori dalla sofferenza.
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Il punto di partenza
Domande e risposte
Domanda: Quando parla di “mente”, non sono sicuro di cosa intende. Mi è impossibile localizzare la mente. Goenka: È ovunque, in ogni atomo. Ovunque sentite qualcosa nel corpo, là c’è la mente. È la mente che sente. Allora, dicendo mente, non vuole indicare il cervello? Oh no, no! Pensare che la mente sia solo nella testa è un concetto sbagliato. La mente è in tutto il corpo? Certamente sì, tutto il corpo contiene la mente, tutto il corpo! Lei parla dell’esperienza dell’io solo in termini negativi. Non c’è un lato positivo? Non c’è un’esperienza dell’io che riempia di gioia, di pace, di estasi? Con la meditazione si scopre che i piaceri sensoriali vanno e vengono. Se questo io realmente ne gioisse, se fossero “miei” piaceri, allora l’io dovrebbe avere qualche potere su di essi. Essi, invece, nascono e svaniscono al di fuori del mio controllo. In questo caso, che cos’è l’io? Non sto parlando di piaceri sensoriali, ma di quelli a un livello molto profondo.
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CAPITOLO SECONDO
A quel livello l’io non ha alcuna importanza. Quando si raggiunge quel livello, l’ego si dissolve. C’è solo gioia. La questione dell’io, allora, non si pone neppure. D’accordo, invece di io, parliamo allora dell’esperienza della persona. È la sensazione stessa che sente, nessuno la sente (non c’è un “qualcuno” che la sperimenta). Le cose stanno solo avvenendo, ecco tutto. Sembra che ci debba essere un io che sente, ma, con la pratica, capirete che non esiste alcun io. E, a quel punto, questa domanda non avrà più ragione di essere. Sono venuto qui perché sentivo che il mio io ne aveva bisogno. Sì, è vero. Per scopi convenzionali, non possiamo sfuggire dall’io o dal “mio”; ma attaccarci ad essi, considerarli reali nel senso ultimo, ci porterà solo sofferenza. Mi domando se ci sono persone che provocano la nostra sofferenza? Nessuno vi causa sofferenza. La sofferenza nasce dentro di voi, quando generate tensioni nella mente. Sapendo come evitarlo, diventa facile rimanere in pace e felici in ogni situazione. E quando qualcuno ci fa del male? Non dovete permetterlo. Ogni volta che qualcuno fa qualcosa di sbagliato, fa male agli altri e nello stesso tempo a se stesso. Se gli permettete di fare del male, lo incoraggiate a farlo. Usate tutta la vostra
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forza per fermarlo, ma solo con benevolenza, con compassione e simpatia. Se agite con odio o ira, allora aggravate la situazione. Ma non potrete avere benevolenza per una tale persona, a meno che la vostra mente non sia calma e in pace. Una volta appreso, con la pratica, come sviluppare la pace dentro di voi, il problema potrà essere risolto. A quale scopo cercare pace dentro di noi quando non c’è pace nel mondo? Il mondo sarà in pace, solo quando ognuno sarà in pace e felice con se stesso. Il cambiamento deve partire a livello individuale. Se la foresta s’inaridisse e voi voleste ridarle vita, dovreste innaffiare ogni albero. Per un mondo di pace, imparate ad essere in pace con voi stessi. Solo allora porterete la pace nel mondo. Posso capire come la meditazione sia in grado di aiutare persone infelici, disadattate, ma per chi si sente soddisfatto della sua vita, per chi è già felice? Chi rimane soddisfatto dai piaceri superficiali della vita, ignora i turbamenti profondi della mente. S’illude di essere una persona felice, ma i suoi piaceri non sono duraturi, perché le tensioni generate nell’inconscio si accumulano, e continuano a crescere per apparire, prima o poi, al livello mentale conscio. Quando accade ciò, questa cosiddetta persona felice diventa triste. E allora, perché non iniziare a lavorare subito per evitare di finire in una simile situazione?
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CAPITOLO SECONDO
Racconto
Il Buddha e lo scienziato
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a realtà fisica cambia costantemente, ad ogni istante. Questo è ciò che il Buddha comprese esaminando se stesso. Con la mente molto concentrata, penetrò la realtà del suo corpo e della sua mente, e scoprì che l’intera struttura materiale è composta di particelle subatomiche che compaiono e scompaiono continuamente. In uno schiocco di dita o in un battito di ciglia, egli disse, ognuna di queste particelle compare e scompare trilioni di volte. “Incredibile”, penserà chi considera solo la realtà visibile del corpo, apparentemente tanto solida, immutabile e permanente. Una volta, pensavo che la frase “trilioni di volte” fosse soltanto un’espressione da non prendere alla lettera. E invece la scienza moderna ha confermato quest’affermazione. Anni fa, il premio Nobel per la fisica fu assegnato ad uno scienziato statunitense che si era dedicato allo studio delle particelle subatomiche. Era già noto che queste particelle compaiono e scompaiono continuamente, e con grande rapidità; perciò egli realizzò uno strumento che calcolasse quante volte, in un secondo, una particella compare e scompare. Molto appropriatamente, chiamò “camera a bolle” lo stru-
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Il punto di partenza
mento che aveva ideato, e scoprì che, in un secondo, una particella subatomica compare e scompare dieci volte alla ventiduesima. La verità scoperta dallo scienziato è la stessa sperimentata dal Buddha, ma che differenza tra i due! Alcuni miei allievi americani, tornati in patria dopo aver frequentato corsi in India, gli fecero visita, e si resero conto che, nonostante la sua scoperta, egli era una persona qualunque, con tutto il suo bagaglio di infelicità. Non si era liberato dalla sofferenza, non era diventato una persona illuminata, perché non aveva sperimentato la verità. Per arrivare alla sua scoperta aveva usato l’intelletto. Credeva a questa verità, perché aveva fiducia nello strumento che aveva ideato, ma non aveva sperimentato la verità di persona, esaminando se stesso. Uno scienziato non dovrebbe limitare le sue ricerche al mondo esteriore, ma estendere le indagini al mondo interiore, fare esperienza della verità, come fece il Buddha. La comprensione della verità a livello personale cambierà gli schemi abituali di comportamento della mente, e allora si comincerà a vivere secondo la legge di natura. Ogni azione sarà diretta al proprio bene e a quello degli altri. Se manca questa esperienza interiore, la scienza può venire usata a fini distruttivi, ma se diventiamo scienziati ricercatori della realtà interiore, faremo un uso appropriato della scienza per la felicità di tutti.
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CAPITOLO TERZO
La causa immediata
I
l mondo reale non regge il paragone con quello delle fiabe, in cui tutti vivono felici per sempre. La vita è imperfetta, incompleta, insoddisfacente e ci obbliga a prendere atto della verità dell’esistenza della sofferenza. Perciò, diventa importante domandarsi: la sofferenza ha una causa? E, in caso affermativo: è possibile eliminare tale causa, in modo che anche la sofferenza possa essere eliminata? Se gli avvenimenti che provocano la nostra sofferenza fossero circostanze casuali, su cui non abbiamo controllo o influenza, allora saremmo impotenti, e dovremmo abbandonare la ricerca di una via d’uscita. Ma il Buddha comprese che la sofferenza non è frutto del caso. Ci sono cause dietro la sofferenza, come ci sono cause per tutti i fenomeni: la legge di causa ed effetto, kamma, è universale ed è fondamentale per l’esistenza. Queste cause non sono fuori dal nostro controllo: possiamo influire su di esse ed eliminarle.
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La causa immediata
La legge di causa ed effetto Alla parola kamma (o karma, nella più diffusa forma sanscrita) è generalmente attribuito il significato di “fato o destino”, che è proprio l’accezione contraria a quella data dal Buddha a questa parola. Per destino, infatti, s’intende qualcosa al di fuori del nostro controllo, qualcosa di prestabilito per ognuno di noi. La parola kamma, invece, letteralmente significa “azione”, e il Buddha la scelse per indicare che le nostre azioni sono la causa di tutto ciò che ci succede: Tutti gli esseri sono responsabili delle loro azioni, sono eredi delle loro azioni, hanno origine dalle loro azioni, sono legati alle loro azioni; le loro azioni sono il loro rifugio. Così come le loro azioni sono vili o nobili, vili o nobili saranno le loro esistenze 1 . Tutto ciò che sperimentiamo nella vita è il risultato delle nostre azioni. Di conseguenza, tutti possiamo diventare padroni del nostro destino, diventando padroni delle nostre azioni. Ognuno di noi è responsabile delle azioni che danno origine alla sua sofferenza. Ognuno di noi ha i mezzi per porre fine alla sofferenza provocata dalle sue azioni. Ciascuno è maestro di se stesso, ciascuno costruisce il proprio futuro 2 . Tendiamo, invece, ad agire come l’uomo che non ha imparato a guidare, e siede con gli occhi bendati al volante di un’auto in corsa, su una strada piena di traffico. Non è possibile che raggiunga la destinazione senza incidenti. Pensa di essere lui a guidare la
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CAPITOLO TERZO
macchina, ma in realtà è la macchina a guidare lui. Se vuole evitare incidenti, e arrivare a destinazione, deve togliersi la benda dagli occhi e imparare a guidare il veicolo per portarsi fuori dal pericolo il più rapidamente possibile. Anche noi dobbiamo togliere la benda dagli occhi, per diventare consapevoli di ciò che facciamo, e imparare a compiere quelle determinate azioni, che ci possono condurre verso la destinazione prefissata.
I tre tipi di azioni I tre tipi di azioni sono: l’azione fisica, l’azione vocale e l’azione mentale. Comunemente si dà maggior importanza alle azioni fisiche, minore alle azioni vocali e ancor meno alle azioni mentali. Colpire fisicamente una persona ci sembra più grave che insultarla, ed entrambe le azioni ci sembrano più gravi di un pensiero malevolo. In effetti, questo è lo stesso criterio di giudizio applicato dalle leggi degli uomini, in ogni parte del mondo. Secondo il Dhamma, che è la legge della natura, è l’azione mentale quella più importante. L’azione fisica e l’azione vocale, infatti, assumono un significato completamente diverso, in base alle intenzioni con cui si compiono. Per esempio, un chirurgo usa il bisturi per operare d’urgenza un uomo in pericolo di vita, l’intervento non ha successo e il paziente muore. Un assassino usa il pugnale per colpire a morte la sua vittima. Queste azioni fisiche hanno lo stesso risultato, ma se si considerano le intenzioni mentali, esse sono agli antipodi. Il chirurgo agisce per compassione, l’assassino per odio; le conseguenze che avranno, a livello mentale, saranno radicalmen-
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te diverse, perché diversa è la motivazione con la quale hanno agito. Il chirurgo ne trarrà beneficio perché ha agito per compassione, l’assassino soffrirà, perché ha agito con odio. Anche nel caso della parola, l’aspetto più importante è l’intenzione. Un uomo discute con un collega e lo insulta, definendolo pazzo. Sta esprimendo ira. Lo stesso uomo vede suo figlio che gioca nel fango, e teneramente lo chiama pazzo. Sta esprimendo amore. In entrambi i casi è stata pronunciata la stessa parola, ma per esprimere due opposti stati mentali. È l’intenzione delle parole che genera differenti frutti. Azioni vocali, azioni fisiche, e i loro effetti, sono dirette conseguenze dell’azione mentale. Si giudicano in relazione all’intenzione che esprimono. L’azione mentale è il vero kamma, la causa che darà i frutti nel futuro. Comprendendo questa verità il Buddha annunciò: La mente precede tutti i fenomeni, la mente è la cosa più importante, ogni cosa è prodotta dalla mente. Se parlate o agite con una mente impura, la sofferenza vi seguirà, come la ruota di un carro segue l’animale da tiro. Se parlate e agite con una mente pura, la felicità vi seguirà, come un’ombra che non svanisce mai 3.
La causa della sofferenza Qual è l’attività mentale che determina il nostro destino? Se la mente non è altro che coscienza, percezione, sensazione e reazione, quale di queste
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CAPITOLO TERZO
dà origine alla sofferenza? Ebbene, ognuna di esse è coinvolta in qualche misura nel processo della sofferenza, ma le prime tre sono principalmente passive. La coscienza recepisce i primi dati dell’esperienza, la percezione li inserisce in una categoria, la sensazione segnala ciò che è accaduto nei passaggi precedenti. Il compito di queste tre azioni mentali è quello di classificare le continue informazioni che riceviamo; ma, quando la mente inizia a reagire, alla passività subentrano attrazione o repulsione, piacere o dispiacere. Sarà questa reazione a mettere in moto una catena di eventi. All’origine di ogni catena di eventi c’è la reazione, saªkh±ra. Ecco perché il Buddha disse: Qualsiasi sofferenza sorga, la sua causa è la reazione. Se non ci fossero più reazioni, allora non ci sarebbe più sofferenza 4. Il vero kamma, la vera causa della sofferenza, è la reazione della mente. Ogni fugace reazione di piacere o dispiacere, può avere conseguenze minime, ma il suo ripetersi ha un effetto cumulativo. La reazione, infatti, ripetuta momento dopo momento, s’intensifica e si trasforma in bramosia e avversione. Il Buddha chiamò questo fenomeno taºh±, letteralmente “sete”, per descrivere l’abituale comportamento della mente, tesa a desiderare insaziabilmente ciò che non ha, e ad essere, in ugual misura, irrimediabilmente insoddisfatta di quello che ha5. Più la bramosia e l’insoddisfazione aumentano d’intensità, più profonda è la loro influenza sui nostri pensieri, sulle nostre parole e sulle nostre azioni, e più grande è la sofferenza che ne deriva.
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Alcune reazioni, disse il Buddha, sono come linee tracciate sull’acqua: appena disegnate, svaniscono. Altre sono come linee tracciate sulla sabbia: se disegnate al mattino, spariranno durante la notte, cancellate dalla marea o dal vento. Altre sono come linee incise nella roccia con scalpello e martello. Anch’esse scompariranno a causa dell’erosione, ma ci vorrà moltissimo tempo6. Per tutta la vita, incessantemente, la nostra mente continua a generare reazioni, eppure, alla fine di ogni giorno, saremo in grado di ricordare solo quelle che ci hanno maggiormente colpito. Così, dopo un mese, ricorderemo quelle che ci hanno impressionato di più. E dopo un anno, solo quelle che hanno lasciato il segno più intenso. Queste profonde reazioni sono assai pericolose, e conducono ad un’immensa sofferenza. Il primo passo per uscirne è proprio quello di accettare che questa realtà della sofferenza esiste, riconoscendola come basilare presupposto della nostra esistenza. Se prenderemo atto di ciò, potremo cominciare a comprendere che cos’è la sofferenza e perché soffriamo. Imparando a comprendere la nostra natura, non guideremo più l’auto bendati, ma potremo dirigerci consapevolmente verso il sentiero che conduce alla fine della sofferenza.
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CAPITOLO TERZO
Domande e risposte Domanda: La sofferenza non è forse connaturata nella nostra vita? Perché dobbiamo cercare di sfuggirle? Goenka: Siamo così coinvolti nella sofferenza, che ci sembra innaturale potercene liberare; ma, quando si sperimenta la genuina felicità, che scaturisce dalla purezza mentale, ci si rende conto che è questo lo stato originario e naturale della mente. L’esperienza della sofferenza può nobilitare una persona e aiutarla a fortificare il carattere? Sì, è proprio attraverso la sofferenza che si raggiunge la nobiltà d’animo; questa tecnica ci insegna ad osservare la sofferenza oggettivamente, al fine di raggiungere questo scopo. Se, invece, continuiamo a lasciarci coinvolgere in essa, a caderci dentro, continueremo ad essere infelici. Controllare le proprie azioni non è come una sorta di repressione? No, perché dobbiamo solo osservare oggettivamente quello che sta avvenendo. Se siamo adirati e cerchiamo di nascondere la collera o di tollerarla, allora sì, c’è repressione. Ma, osservandola con equanimità, scopriremo che la collera prima o poi si dissolve, se ne va. Ci liberiamo dalla collera quando impariamo ad osservarla.
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Come possiamo vivere spontaneamente, se dobbiamo osservarci in continuazione? Saremmo così impegnati ad esaminarci, che non potremmo agire spontaneamente. Non è questo il riscontro delle persone che completano un corso di meditazione. In realtà, si tratta semplicemente di applicare una tecnica, che vi consente di osservare voi stessi, ogni volta che ne avete bisogno. Non è necessario meditare continuamente ad occhi chiusi per tutta la vita; ma, sicuramente, una pratica regolare rinforza la vostra mente, proprio come l’esercizio fisico rinforza il vostro corpo. La cosiddetta “azione libera e spontanea” è, in realtà, una reazione, ed è sempre dannosa. Imparando ad osservarvi, scoprirete di essere in grado di mantenere l’equilibrio mentale in ogni situazione. Essendo equilibrati, saprete scegliere liberamente le vostre azioni, che saranno sempre positive, benefiche per voi stessi e per gli altri. Esistono avvenimenti fortuiti, accidentali, che avvengono senza una causa? Nulla avviene senza una causa. È impossibile. Talvolta i nostri sensi limitati e il nostro intelletto non la possono discernere con chiarezza, ma questo non significa che non ci sia. Intende forse dire che ogni cosa nella vita è predeterminata? Certamente le nostre azioni passate danno frutti, buoni o cattivi. Esse determinano il tipo di vita che conduciamo, la situazione generale in cui ci troviamo. Ciò non significa che qualsiasi cosa ci accada sia predeterminata, prestabilita dalle nostre azioni
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CAPITOLO TERZO
passate, e che non possa accadere nient’altro. Non è così. Le nostre azioni passate influenzano il corso della nostra vita, orientandola verso esperienze piacevoli o spiacevoli; ma è nel momento presente, mentre stiamo sperimentando sensazioni piacevoli o spiacevoli, che abbiamo la libertà di scegliere quale azione compiere, e così cambiare il nostro futuro. Infatti, la natura ci ha dato la capacità di essere padroni delle nostre azioni, ed è proprio con tale padronanza del momento presente che possiamo orientare il nostro futuro. Anche le azioni degli altri ci influenzano? Naturalmente siamo influenzati da chi ci circonda e dall’ambiente intorno a noi, così come le nostre azioni condizionano gli altri e il nostro ambiente. Le guerre, per esempio, con il loro seguito di distruzione e di enormi sofferenze, hanno luogo perché la maggioranza è favorevole alla violenza. Se la mente delle persone fosse pura e piena di pace, non vi sarebbero guerre. La radice del problema è nella mente di ogni essere umano, e, poiché la società è composta di singoli individui, se ognuno inizia a cambiare, cambierà anche la società, e le guerre saranno eventi rari. Come possiamo aiutarci l’un l’altro se ognuno deve confrontarsi con i risultati delle proprie azioni? Le nostre azioni mentali influenzano gli altri. Quando la nostra mente è carica di negatività, queste possono nuocere a chi viene in contatto con noi. Se colmiamo la mente di positività e benevolenza verso gli altri, queste avranno un effetto benefico su
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coloro che ci circondano. Non possiamo controllare le azioni degli altri, ma possiamo diventare padroni di noi stessi, per esercitare un influsso positivo su coloro che ci stanno intorno. Perché essere ricchi è considerato un buon karma? Se è così, significa che la maggior parte di chi vive in Occidente ha un buon karma e la maggior parte di chi vive nel Terzo Mondo ha un karma sfavorevole? La ricchezza, da sola, non è un buon karma. Se diventate ricchi ma restate infelici, qual è il vantaggio della vostra ricchezza? Essere ricchi e anche felici, realmente felici: è questo un buon karma. La cosa più importante è essere felici, ricchi o non ricchi. Non è innaturale non reagire mai? Ci sembra naturale reagire perché conosciamo solo questo comportamento. Invece, se abbiamo una mente pura, ci sarà naturale rimanere distaccati, pieni d’amore, compassione, benevolenza, gioia ed equanimità. Imparate a sperimentare questo positivo modo d’essere. Come possiamo essere coinvolti nella vita senza reagire? Con la meditazione non si diventa inattivi e indifferenti, ma s’impara ad agire in modo equilibrato e armonioso, positivo e saggio. Quando sarete in grado di cambiare gli schemi abituali della mente e passare dalla reazione all’azione, allora avrete ottenuto qualcosa di grande valore. Vipassana vi porta verso questo cambiamento.
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CAPITOLO TERZO
Racconto
Il seme e il frutto
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d ogni causa corrisponde un effetto. Ad ogni seme corrisponde un frutto. Ad ogni azione corrisponde un risultato. Un contadino semina due semi nello stesso terreno: uno di canna da zucchero, e uno di neem, pianta tropicale molto amara. I due semi sono nella stessa terra, ricevono la stessa acqua, lo stesso sole, la stessa aria: la natura dà loro lo stesso nutrimento. Due pianticelle iniziano a crescere. E che cosa accade all’albero neem? Cresce amaro in ogni sua fibra, mentre la canna da zucchero cresce dolce in ogni sua fibra. Perché la natura o, se preferite Dio, è stato buono con uno e crudele con l’altro? No, la natura non è crudele né buona, bensì opera secondo leggi fisse, e aiuta le qualità del seme a manifestarsi. Le sostanze nutritive aiutano i semi a rivelare la qualità in essi latenti. Il seme della canna da zucchero ha la qualità della dolcezza, quindi la pianta non potrà essere che dolce. Il seme dell’albero neem ha la qualità dell’amaro, quindi la pianta non potrà essere che amara. Ad ogni seme corrisponde il frutto. Il contadino va dall’albero neem, s’inchina tre volte, gli gira attorno cent’otto volte e poi offre
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fiori, incenso, candele, frutti e dolci, quindi inizia a invocare: – Ti prego, neem, concedimi dei manghi dolci, voglio manghi dolci! Il povero neem, però, non glieli può dare, non ha il potere di farlo. Se qualcuno vuole manghi dolci, deve piantare semi di mango; così non avrà bisogno di lamentarsi e invocare aiuto. I frutti che otterrà saranno proprio manghi dolci. Ad ogni seme corrisponde un frutto. Le nostre difficoltà e la nostra ignoranza derivano dal fatto che non stiamo attenti quando piantiamo i semi. Continuiamo a piantare semi di neem e, quando viene il tempo di cogliere i frutti, ecco che vogliamo manghi dolci. Continuiamo a lamentarci e a pregare, sperando nei manghi, ma non funziona7.
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CAPITOLO QUARTO
La radice del problema L a verità della sofferenza deve essere esplorata fino alla radice 1.
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a notte in cui raggiunse l’illuminazione, il Buddha sedette in meditazione, risoluto a non alzarsi, fino a quando non avesse compreso come nasce la sofferenza e come può essere eliminata.
Che cosa è la sofferenza Il Buddha comprese chiaramente che l’esistenza della sofferenza è una realtà incontrovertibile, anche se molto difficile da accettare. La sofferenza comincia con l’inizio della vita. Anche se non serbiamo alcun ricordo della nascita, quest’esperienza è un grande trauma, infatti nasciamo piangendo. Poi, nel corso della vita, incontriamo la sofferenza della malattia e della vecchiaia. Eppure, per quanto malati possiamo essere, per quanto vecchi e decrepiti, nessuno di noi vorrebbe mai morire, perché la morte è una grande infelicità. Tutti affrontiamo queste sofferenze, e, mentre la nostra vita scorre, siamo costretti ad affrontarne altre, sia fisiche che mentali. La felicità ci sfugge: non riusciamo ad avere ciò che vogliamo e ci succedono cose che non vogliamo.
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La radice del problema
Sono tutti casi di sofferenza, evidenti a chiunque si fermi a riflettere. Al futuro Buddha, però, non bastarono le argomentazioni intellettuali. Continuando a indagare dentro di sé sulla reale natura della sofferenza comprese che l’attaccamento ai cinque aggregati è la causa della sofferenza 2. A livello profondo, la sofferenza nasce per l’attaccamento eccessivo che ognuno di noi sviluppa per il proprio corpo e per la propria mente, con le sue cognizioni, percezioni, sensazioni e reazioni. Ci attacchiamo con forza alla nostra identità, quando in realtà ci sono solo processi in evoluzione. La sofferenza nasce da questo attaccamento a un’immagine irreale di noi stessi, a qualcosa che è in costante mutamento.
L’attaccamento L’attaccamento si manifesta in differenti modi. Uno di questi è la ricerca continua della gratificazione dei sensi. Per esempio, il tossicomane si droga perché desidera sperimentare la sensazione piacevole che la droga gli procura, anche se sa che, drogandosi, aumenterà la sua dipendenza. Allo stesso modo, noi sviluppiamo dipendenza verso i desideri: non appena un desiderio è soddisfatto, ne creiamo un altro. L’oggetto è secondario, in realtà facciamo in modo di prolungare all’infinito la condizione del desiderare, perché questo stato fa sorgere in noi una sensazione piacevole che vogliamo continuare a sentire.
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CAPITOLO QUARTO
Il desiderare diventa un’abitudine che non riusciamo ad abbandonare, una dipendenza. Il tossicodipendente gradualmente sviluppa assuefazione, e ha bisogno di dosi sempre maggiori di droga; noi, mentre cerchiamo di soddisfare i nostri desideri, li rendiamo più forti, e così essi si trasformano in bramosia. È una via senza uscita: finché continueremo a desiderare, non potremo essere felici. Un altro grande attaccamento è quello verso l’io, l’ego, l’immagine che abbiamo di noi stessi. Per ognuno di noi, il proprio io è la persona più importante del mondo. Infatti, ci comportiamo come se tutto dovesse girare intorno a noi. Se riflettiamo, possiamo renderci conto che tendiamo a voler organizzare il mondo a nostro piacimento, cercando di attrarre, come fossimo calamite, ciò che è piacevole, e di respingere ciò che è spiacevole. Nessuno di noi, però, è solo al mondo: ognuno di noi è costretto a entrare in contatto con gli altri e ne è influenzato. E non limitiamo l’attaccamento all’io, ma lo estendiamo al “mio”, a tutto ciò che ci appartiene. Sviluppiamo attaccamento a ciò che possediamo, perché lo associamo all’immagine del nostro io, che, in tal modo, ne risulta rinforzata. Quest’attaccamento non causerebbe problemi se quello che chiamiamo “mio” durasse per sempre, e se l’io ne potesse godere eternamente; ma, prima o poi, l’io viene separato dal “mio”, e in quel momento la sofferenza sarà tanto più intensa, quanto più grande sarà stato l’attaccamento. L’attaccamento si estende anche alle nostre opinioni e alle nostre credenze: siamo convinti che esse siano le migliori, e ogni volta che le sentiamo criticare ne restiamo turbati. Quando cerchiamo di spiegare le nostre opinioni e gli altri non le accettano, ci infastidiamo. Non siamo capaci di accettare che ognuno di
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La radice del problema
noi ha le proprie convinzioni. Sarebbe davvero più utile lasciare da parte le nozioni preconcette e dedicarsi alla ricerca della verità, invece di perdersi in discussioni sulla validità o meno delle varie opinioni. Ma l’attaccamento alle nostre idee ce lo impedisce. Poi c’è l’attaccamento alle cerimonie religiose. Si tende ad attribuire più importanza alle manifestazioni esteriori della religione, piuttosto che all’essenza dei suoi contenuti, e ai suoi valori intrinseci e universali. Ci si definisce religiosi perché si assiste a cerimonie, ma, senza la sua essenza, l’aspetto formale della religione è un guscio vuoto. Recitare preghiere o partecipare a funzioni non ha valore, se la mente rimane colma di malevolenza e collera. Per essere veramente religiosi è necessario sviluppare un’attitudine religiosa: purezza di cuore, amore e compassione. Dimenticando questa essenza, si rimane infelici. Tutte le nostre sofferenze, di qualunque genere, sono collegate all’uno o all’altro di questi attaccamenti. Attaccamento e sofferenza vanno sempre di pari passo.
L’origine interdipendente: la catena di causa ed effetto Che cosa causa l’attaccamento? Come ha origine? Analizzando la propria natura, il futuro Buddha scoprì che esso si sviluppa a causa di reazioni mentali momentanee di piacere e dispiacere. Ogni più piccola, inconscia reazione della mente, si ripete e s’intensifica, momento dopo momento, fino a trasformarsi in una potente attrazione o in
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CAPITOLO QUARTO
una fortissima repulsione o in ogni sorta di attaccamento. L’attaccamento, quindi, è la forma intensificata di una reazione momentanea, ed è questa la causa diretta e immediata della sofferenza. Che cosa causa le reazioni di piacere e dispiacere? Analizzandosi ancor più profondamente, il Buddha osservò che la sensazione è la causa della reazione: proviamo una sensazione, che riteniamo piacevole, e iniziamo a desiderarla; ne proviamo una, che riteniamo spiacevole, e iniziamo a rifiutarla. Perché sorgono le sensazioni? Che cosa le causa? Egli comprese che esse hanno origine da un contatto: contatto dell’occhio con un oggetto, contatto dell’orecchio con un suono, contatto del naso con un odore, contatto della lingua con un sapore, contatto del corpo con qualcosa di tangibile, contatto della mente con un pensiero, un’emozione, un’idea, una fantasia o un ricordo. Sperimentiamo il mondo con i cinque sensi e con la mente, e ogni volta che un oggetto o un fenomeno entra in contatto con queste sei basi dell’esperienza sensoriale, sorge una sensazione, che valutiamo come piacevole o spiacevole. E perché avviene questo contatto? Il futuro Buddha sperimentò che il contatto avviene perché esistono le sei basi sensoriali, cioè i cinque sensi fisici e la mente. I fenomeni nel mondo sono innumerevoli: visioni, suoni, odori, sapori, oggetti, pensieri ed emozioni. Perciò, per tutto il tempo in cui i nostri recettori sono in funzione, il contatto è inevitabile. Perché esistono le sei basi sensoriali? Perché esse sono gli strumenti essenziali attraverso i quali fluiscono mente e materia. E perché c’è questo flusso di mente e materia? Da che cosa ha origine? Come hanno origine mente e
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La radice del problema
materia? Il futuro Buddha comprese che essi hanno origine dalla coscienza*, l’atto cognitivo che sorge a ogni contatto dei cinque sensi e della mente con un oggetto o un pensiero. Se avviene, ad esempio, un contatto con il senso dell’olfatto, sorge la coscienza olfattiva, cioè la presa di coscienza che qualcosa sta avvenendo alla porta di questo senso. Da qui sorge l’errata convinzione che c’è un’identità che sta conoscendo, che quindi separa il mondo in conoscitore e conosciuto, soggetto e oggetto. A ogni istante la coscienza sorge e, nel momento successivo, prende una forma leggermente diversa. La coscienza fluisce e muta attraverso tutta l’esistenza. Alla fine arriva la morte, ma la coscienza non si ferma: senza alcun intervallo, assume ancora una forma nuova. Qual è, dunque, la causa di questo fluire della coscienza? Egli sperimentò che essa ha origine dalla reazione. La mente è costantemente reattiva, ed ogni reazione crea un momento di coscienza che si perpetua nel momento successivo. Più una reazione è forte, più intenso è l’impulso che suscita. Una leggera reazione di un istante, sostiene il fluire della coscienza solo per un istante. Se, poi, quella reazione momentanea di piacere o dispiacere s’intensifica in bramosia o avversione, allora, acquista forza e sostiene il fluire della coscienza * (n.d.r.) La coscienza ha due funzioni: una, immediata, è l’atto cognitivo. L’altra, protratta nel tempo, è quella di accumulare tutte le attività mentali che avvengono durante un’esistenza e che costituiscono i nostri condizionamenti. Da questo substrato, alla fine di ogni esistenza, emerge una reazione che determinerà e formerà la coscienza, con le sue due funzioni, della successiva esistenza.
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per molti istanti, per minuti, per ore. Se la reazione di bramosia o avversione s’intensifica ancora, ne sostiene il flusso per giorni, mesi e anni. Se, durante la vita, una persona tende a ripetere e intensificare alcune reazioni, esse sviluppano una forza sufficiente per sostenere il fluire della coscienza, non solo da un istante all’altro, da un giorno all’altro, da un anno all’altro, ma da una vita all’altra*. Che cosa causa la reazione? Egli comprese che le reazioni avvengono a causa dell’ignoranza: siamo inconsapevoli del fatto che reagiamo; siamo all’oscuro della natura impermanente e senza io della nostra esistenza; e ignoriamo che l’attaccamento ad essa ci procura sofferenza. Non conoscendo la nostra vera natura, reagiamo alla cieca. Non sapendo neppure di aver reagito, persistiamo nelle nostre reazioni e permettiamo loro di intensificarsi. A causa dell’ignoranza, diventiamo prigionieri dell’abitudine a reagire. Ecco come la ruota della sofferenza inizia a girare: Quando c’è ignoranza, nasce una reazione; se nasce una reazione, si manifesta la coscienza; se c’è la coscienza, si manifestano mente e materia; dove ci sono mente e materia, sorgono i sei sensi; i sei sensi danno luogo al contatto; se c’è contatto, c’è una sensazione; la sensazione produce desiderio e avversione; desiderio e avversione producono l’attaccamento; se c’è l’attaccamento, inizia il processo del divenire; * (n.d.r.) La coscienza (come attività mentale con le sue due funzioni) si comporta come l’energia nel mondo materiale: si trasforma senza mai scomparire.
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La radice del problema
se c’è il processo del divenire, avviene la nascita; la nascita causa l’invecchiamento e la morte, oltre al dolore, al pianto, a sofferenze fisiche e mentali, a tribolazioni di ogni genere. È così che si crea il cumulo di tutte le nostre sofferenze 3. Questa catena di causa ed effetto, chiamata “origine interdipendente”, ci ha portato nel nostro presente stato di esistenza, dove dobbiamo affrontare la sofferenza. Il Buddha vide questa verità con chiarezza: la sofferenza ha origine dall’ignoranza della nostra vera natura e del fenomeno definito io, e si perpetua a causa dell’abitudine mentale alla reazione. Accecati dall’ignoranza, generiamo reazioni di bramosia e avversione, che si trasformano in attaccamento; questo conduce ad ogni tipo d’infelicità. L’abitudine a reagire determina e plasma il nostro futuro. Ignoranza, bramosia e avversione sono le tre radici da cui nascono tutte le sofferenze della nostra vita.
La via d’uscita dalla sofferenza Dopo aver compreso cos’è la sofferenza e qual è la sua origine, il futuro Buddha si domandò come poterla eliminare. Rifletté sulla legge di causa ed effetto o kamma: Se questa causa c’è, ci sarà questo effetto. Se questa causa non c’è, questo effetto non ci sarà. Se una causa sorge, l’effetto è destinato a sorgere. Se la causa viene totalmente eliminata, l’effetto viene totalmente eliminato4.
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CAPITOLO QUARTO
E capì che il processo del sorgere della sofferenza può essere rovesciato: Se l’ignoranza viene sradicata, viene meno la reazione; se non c’è più reazione, viene meno la coscienza; se viene meno la coscienza, mente e corpo non si manifestano più; in assenza di mente e corpo, i sei sensi non ci sono più; mancando i sei sensi, manca il contatto; se non c’è più contatto, non c’è più sensazione; se non c’è più la sensazione, finiscono desiderio e avversione; finiti il desiderio e l’avversione, non c’è più attaccamento; senza attaccamento, non c’è più processo del divenire; venendo meno il processo del divenire, non avviene più la nascita; se non c’è più nascita, non ci sono neppure invecchiamento e morte, né dolore, pianto, sofferenze fisiche e mentali e tribolazioni. Si smette così di accumulare sofferenze 5. Se mettiamo fine all’ignoranza, allora non ci saranno più reazioni, con il loro seguito di sofferenze, e potremo sperimentare la vera pace, la vera felicità. La ruota della sofferenza può mutarsi nella ruota della liberazione. Questo è ciò che Siddhattha Gotama, il Buddha, fece per conseguire l’illuminazione. Questo è ciò che insegnò: Compiendo azioni negative vi contaminate. Non compiendo azioni negative vi purificate 6. Ognuno è responsabile delle reazioni che causano la sua sofferenza; ognuno può imparare a eliminarla, accettando questa responsabilità.
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La radice del problema
Il flusso della esistenza Con l’insegnamento dell’origine interdipendente il Buddha spiegò il processo di rinascita o sams±ra. Nell’India dei suoi tempi, questo concetto era comunemente accettato, mentre oggi, a molti potrà sembrare una teoria estranea o insostenibile. Prima di accettarla o rifiutarla, potremmo, però, tentare di comprendere di che cosa si tratta e di che cosa non si tratta. Il ciclo delle ripetute esistenze, sams±ra, è la successione delle vite passate e future. Le nostre azioni sono le forze che ci spingono di vita in vita. La qualità infima o alta della nostra prossima vita dipenderà dalle azioni vili o nobili che abbiamo compiuto in questa. Il Buddha tuttavia comprese che in ogni tipo di esistenza può esservi sofferenza, e dichiarò che, piuttosto che impegnarsi per ottenere una rinascita felice, il nostro scopo dovrebbe essere la liberazione definitiva da tutte le sofferenze. Quando ci liberiamo dal ciclo della sofferenza, sperimentiamo la vera felicità, una felicità più grande di quella che può darci qualsiasi piacere del mondo, e il Buddha insegnò il metodo per sperimentare tale felicità già in questa vita. Sams±ra, però, non corrisponde alla diffusa idea della trasmigrazione dell’anima o del sé, che mantiene la stessa identità attraverso più reincarnazioni. Il Buddha spiegò che questo è proprio ciò che non accade, e ripetutamente affermò che non esiste un’identità immutabile, che passa da una vita all’altra: Proprio come da una mucca proviene il latte, dal latte la cagliata, dalla cagliata il burro, dal burro fresco il burro
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CAPITOLO QUARTO
chiarificato, dal burro chiarificato la scrematura grassa. Quando c’è il latte, non si pensa che sia cagliata o burro fresco o burro chiarificato o scrematura. Così, ogni volta, va considerato reale solo lo stato di esistenza presente e non il passato né il futuro 7 . Comprese e insegnò che il processo del divenire si perpetua da un’esistenza all’altra, fino a quando le nostre azioni gli danno impulso. E disse che, anche per chi non crede che ci sia un’altra esistenza oltre la presente, la comprensione dell’origine interdipendente può essere un importante e sempre attuale insegnamento: in ogni momento in cui, per ignoranza, reagiamo, sperimentiamo sofferenza; quando impariamo a non reagire, sperimentiamo la pace che ne deriva. Il paradiso e l’inferno possono essere sperimentati in questa vita, in questo corpo, nel momento presente. Anche colui che non crede in un altro mondo, né in una ricompensa futura per le buone azioni, né in una punizione per le cattive, può vivere felicemente, già in questa stessa vita, mantenendosi libero dall’odio, dalla malevolenza e dall’ansia 8. Sia che crediamo o non crediamo in esistenze passate o future, la cosa più importante, per noi, è risolvere i problemi della vita presente, problemi che sono causati proprio dalle nostre reazioni. Imparando a non reagire, potremo superare le nostre difficoltà, uscire dalla sofferenza, e sperimentare così la felicità della liberazione.
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La radice del problema
Domande e risposte
Domanda: Ci possono essere bramosie e avversioni benefiche, per esempio combattere contro l’ingiustizia, bramare la libertà, temere i malanni fisici? Goenka: Avversione e bramosia non possono mai essere benefiche. Vi renderanno sempre tesi e infelici. Agire con bramosia o avversione per raggiungere uno scopo, seppure encomiabile, non vi farà bene. Certamente dovete agire per proteggervi dai pericoli. Se agite, però, sopraffatti dalla paura, svilupperete un complesso che alla lunga sarà dannoso per voi. Se combattete contro l’ingiustizia pieni di odio, potrete sì avere successo, ma quell’odio si radicherà nella vostra mente e vi nuocerà. Dovete combattere contro l’ingiustizia e proteggervi dai pericoli, ma fatelo con mente equilibrata, senza tensioni. Con tale serenità potrete anche prodigarvi per fare qualcosa di buono, per amore degli altri, perché una mente equilibrata è sempre utile e vi sosterrà nell’ottenimento di risultati migliori. Cosa c’è di sbagliato nel desiderare cose materiali per avere una vita più confortevole? Non c’è nulla di sbagliato se c’è un’esigenza reale, purché lo facciate senza attaccamento. Per esempio, se avete sete e desiderate dell’acqua, non c’è nulla di dannoso in questo; avete bisogno di acqua e quindi fate in modo di procurarvela, per placare la sete. Se, però, una necessità diventa un’ossessione, invece di
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CAPITOLO QUARTO
aiutarvi vi farà del male. Impegnatevi per ottenere ciò di cui avete bisogno, e quando non riuscite a ottenerlo, ebbene, sorridete e tentate ancora, in un modo diverso. Se ci riuscite, rallegratevi di ciò che avete ottenuto, ma senza attaccamento. Che cosa pensa della pianificazione del futuro? Anche questa potrebbe definirsi attaccamento? Ancora una volta, dipende quanto siete attaccati ai vostri piani. Ognuno di noi deve provvedere al proprio futuro. Se i vostri progetti non hanno successo, e iniziate a lamentarvi, certamente contavate troppo su di essi. Se non avete successo e riuscite ugualmente a sorridere, pensando: “Ho fatto del mio meglio. In cosa ho sbagliato? Proverò ancora!”, allora state lavorando in modo distaccato e rimarrete sereni. Fermare la ruota dell’origine interdipendente sembra una specie di suicidio, di auto–annullamento. Perché dovremmo volerlo? Cercare l’annientamento della propria vita è certamente dannoso, così come l’essere attaccati ad essa oltre misura. Impariamo a lasciare che la natura faccia il suo corso, senza bramare nulla, neanche la liberazione. Ma lei ha detto che quando la ruota dei saªkh±ra si fermerà, non ci sarà più rinascita. Sì, ma ciò è ben lontano. Interessatevi della vita presente! Non preoccupatevi per il futuro. Rendete buono il vostro presente, e il futuro sarà automaticamente buono. Certo è che quando tutti i condi-
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La radice del problema
zionamenti mentali, saªkh±ra, responsabili di ogni nuova nascita, saranno eliminati, il processo di vita e morte si fermerà. Non è forse anche questo un annullamento, un’estinzione? Sì, l’annullamento dell’illusione dell’io, l’estinzione della sofferenza. Questo è il significato della parola nibb±na: l’estinzione del “bruciare”. Bruciamo costantemente nella bramosia, nell’avversione e nell’ignoranza. Quando il “bruciare” si fermerà, anche la nostra infelicità avrà fine, e ciò che rimarrà sarà solo positivo. Descrivere il nibb±na con le parole non è possibile, perché è qualcosa che va al di là del campo sensoriale. Dovete sperimentarlo, solo così saprete di che cosa si tratta. Allora la paura dell’annullamento scomparirà. Che cosa accade poi alla coscienza? Perché preoccuparsene? Non aiuta speculare su qualcosa che può solo essere sperimentato e non descritto. Questo non fa che distrarre dallo scopo reale, che è l’impegnarsi per arrivarci. Quando raggiungerete quel livello, ne gioirete, non ci sarà più questa domanda, si dissolverà, e non ne avrete più altre. Impegnatevi per raggiungerlo. Come può funzionare il mondo senza attaccamento? Se i genitori sono distaccati, allora non si prenderanno cura dei figli. Com’è possibile amare ed essere coinvolti nella vita, senza attaccamento? Distacco non significa indifferenza, è corretto definirlo “santa indifferenza”. Come genitori, è vostro
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CAPITOLO QUARTO
compito prendervi cura dei figli con tutto l’amore possibile, ma senza attaccamento. Fatelo per amore. Un esempio: state curando un malato che, nonostante le vostre attenzioni, non guarisce. Lamentarsi per questo sarebbe inutile. Con mente equilibrata dovreste cercare un’altra cura per aiutarlo. Questa è la santa indifferenza: né inazione né reazione, ma azione concreta e positiva. Molto difficile. Sì, ma è ciò che bisogna imparare.
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La radice del problema
Racconto
I sassi e il burro
U
n giorno, un giovane si recò dal Buddha piangendo e lamentandosi. Il Buddha gli chiese: – Che cosa c’è, ragazzo? – Signore, il mio vecchio padre è morto. – Che possiamo farci? Se è morto, piangere non lo riporterà indietro. – Sì capisco, piangere non lo riporterà indietro, ma sono venuto da voi con una richiesta speciale: per favore, fate qualcosa per mio padre! – Come? Cosa mai potrei fare per vostro padre? – Signore, vi prego, fate qualcosa. Siete una persona tanto potente, certamente sapete cosa fare. Guardate i sacerdoti, i venditori d’indulgenze e i questuanti che celebrano riti per aiutare i morti! Appena un rito è celebrato quaggiù, la porta del regno dei cieli si apre e il defunto può entrare; è in questo modo che ottiene il visto d’ingresso. Voi che siete così potente, celebrate un rituale per il mio defunto padre! Così, non solo otterrà il permesso di entrarvi, ma avrà la garanzia di potervi soggiornare a vita! Per favore, fate qualcosa per lui! Il poveretto era così sopraffatto dal dolore, che non era in grado di comprendere alcun ragionamento logico, e così il Buddha dovette usare un altro modo per aiutarlo a capire.
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CAPITOLO QUARTO
Gli disse: – Andate al mercato e comprate due vasi di terracotta. Il giovane era molto felice, pensando che il Buddha avesse acconsentito a celebrare un rito per suo padre. Corse al mercato e tornò con due vasi. – Bene – disse il Buddha – ora riempitene uno di ghee (burro liquido indiano n.d.r.). Il giovane lo fece. – Adesso, riempite l’altro di sassi. Il giovane ubbidì. – Ora chiudeteli e sigillateli bene. Il giovane eseguì anche questo. – E ora andate a depositarli nel laghetto laggiù. Il giovane lo fece, ed entrambi i vasi affondarono. – Ora – disse il Buddha – prendete un bastone e rompete i vasi. Il giovane si rallegrò moltissimo, pensando che il Buddha stesse celebrando un rito meraviglioso per suo padre. Secondo un’antica tradizione indiana, quando un uomo muore, il figlio porta il feretro sul luogo della cremazione, lo depone sulla pira e lo brucia; poi, quando il corpo è bruciato per metà, prende un grosso bastone e gli rompe il cranio. Secondo le vecchie credenze, il cranio deve essere aperto perché, appena il cranio è aperto quaggiù, lassù la porta del regno dei cieli si apre. Il giovane cominciò a pensare tra sé: “Il corpo di mio padre è stato bruciato e ridotto in cenere ieri. Simbolicamente, il Buddha ora vuole che io rompa i vasi, perché anch’essi si aprano!”. Era molto felice di come si stava svolgendo il rito. Impugnò con forza il bastone e, come aveva chiesto il Buddha, li ruppe. Subito il burro contenuto in uno di essi uscì e venne a galla spargendosi sulla superficie dell’acqua. I sassi contenuti nell’altro vaso, invece, rimasero sul fondo.
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Allora il Buddha disse: – Bene, ragazzo, questo è il massimo che posso fare. Ora chiamate sacerdoti e operatori di miracoli, chiedete loro di recitare: “Oh sassi, sassi, risalite, risalite alla superficie! Oh burro, scendi, scendi sul fondo!” e vediamo se avviene. – Signore, perché mi prendete in giro! Come potrebbe essere possibile ciò? I sassi, più pesanti dell’acqua, sono destinati a restare sul fondo: non possono riemergere, questa è legge di natura! Il burro è più leggero dell’acqua ed è destinato a rimanere in superficie: non può scendere, questa è legge di natura! – Ragazzo, conoscete così bene le leggi della natura, ma non avete compreso questa semplice legge: se durante la vita vostro padre ha compiuto azioni pesanti come sassi, ora è destinato ad affondare, nessuno può riportarlo su. Ma se tutte le sue azioni sono state leggere come questo burro, per forza è destinato a salire, chi potrebbe tirarlo giù? Quando comprenderemo le leggi di natura e ci comporteremo in accordo ad esse, potremo porre fine alla nostra infelicità; cercate di realizzare questa verità quanto prima9.
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CAPITOLO QUINTO
La pratica della condotta morale
I
l nostro compito è quello di eliminare la sofferenza, sradicandone le cause: ignoranza, bramosia e avversione. Per raggiungere questo scopo il Buddha cercò, scoprì, seguì ed insegnò un metodo, che chiamò Nobile Ottuplice Sentiero*. Quando gli fu chiesto di descriverlo in poche parole, il Buddha rispose: Astenersi da azioni malvagie, compiere solo azioni buone, purificare la mente: questo è l’insegnamento delle persone illuminate 1. Un’esposizione molto chiara, che può essere accettata da ognuno di noi. Tutti, infatti, siamo d’accordo sul fatto che si dovrebbero evitare le azioni dannose e che si dovrebbero compiere quelle benefiche; ma come definire ciò che è benefico e ciò che è dannoso, ciò che è buono e ciò che è nocivo? Quando cerchiamo di farlo, ci basiamo su opinioni, preferenze e * (n.d.r.) Per una definizione del Nobile Ottuplice Sentiero v. il Glossario sotto la voce “ariya aµµhaªgika magga ”.
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La pratica della condotta morale
pregiudizi personali, oppure su valori e principi della nostra tradizione. Perciò, la definizione che ne deriva, è limitata, di parte, e non accettabile da tutti. Il Buddha spiegò, con chiarezza, che, se un’azione reca danno agli altri e disturba la loro pace e armonia, è un’azione colpevole, un’azione dannosa; se invece un’azione aiuta gli altri, e contribuisce alla loro pace e armonia, è un’azione nobile e benefica. L’altro aspetto essenziale di questa via è la completa purificazione della mente. Un arduo obiettivo, che non possiamo conseguire solo partecipando a cerimonie religiose o attraverso ragionamenti filosofici. Per ottenere la totale purificazione mentale è necessario raggiungere la più profonda comprensione della nostra natura e impegnarci sistematicamente per rimuovere i condizionamenti, che sono la causa del sorgere della sofferenza. Il Nobile Ottuplice Sentiero è suddiviso in tre parti: la prima è la condotta morale – chiamata in pali s²la – e cioè l’astensione da tutte le azioni fisiche e vocali che possono arrecare danno agli altri; la seconda è la pratica della concentrazione, sam±dhi, attraverso la quale si sviluppa la capacità di controllare e dirigere coscientemente i processi mentali; la terza è la saggezza, paññ±, che si acquisisce attraverso lo sviluppo di un’osservazione e di una comprensione profonda e purificatrice della propria natura.
Il valore della condotta morale Il primo passo, indispensabile per chi desidera praticare la meditazione, è seguire un codice di condotta morale: l’astenersi dal pronunciare parole e dal compiere azioni che possono recare danno agli
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altri. Comportandoci in tal modo, contribuiamo al nostro benessere e ad evitare la disgregazione della società. Da un’analisi più approfondita, potremo comprendere che è necessario astenersi dalle azioni nocive, non solo perché danneggiano gli altri, ma anche perché danneggiano noi stessi. È impossibile, infatti, commettere una cattiva azione – insultare, rubare, compiere atti sessuali che danneggiano altri, uccidere – senza prima aver generato nella mente una intensa agitazione, una forte bramosia o avversione. Questi stati mentali ci rendono immediatamente infelici, e le loro conseguenze ci renderanno ancora più infelici nel futuro. Il Buddha disse: Bruciare ora, bruciare in futuro, chi fa del male soffre doppiamente. Essere felice ora, essere felice in futuro, la persona virtuosa gioisce doppiamente2. Non è necessario aspettare dopo la morte per sperimentare il paradiso o l’inferno, perché li sperimentiamo ogni giorno, già in questa vita, dentro di noi. Quando commettiamo un’azione negativa, sperimentiamo il fuoco infernale della bramosia e dell’avversione. Quando compiamo un’azione positiva, sperimentiamo il paradiso della pace interiore. Un’altra ragione per intraprendere la pratica della condotta morale è l’aspirazione ad analizzare la nostra natura, al fine di raggiungere una profonda comprensione della nostra realtà. Per fare ciò, la mente deve essere molto calma e tranquilla. È impossibile vedere nelle profondità di uno specchio d’acqua, quando è agitato, pertanto una profonda introspezione può avvenire solo quando la mente è
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libera da qualsiasi turbamento. Ogni volta che compiamo azioni negative, la mente è pervasa dall’agitazione; perciò, solo astenendoci da esse, potremo raggiungere lo stato di tranquillità necessario per investigare la nostra realtà interiore. Mantenere una retta condotta morale è indispensabile per il meditatore che voglia raggiungere la meta finale della liberazione. Infatti, sarebbe illogico e controproducente compiere azioni che rinforzino proprio le abitudini mentali che cerchiamo di sradicare, perché ogni azione dannosa è causata e accompagnata da bramosia, avversione e ignoranza. E, commettendo tali azioni, retrocediamo di due passi, per ogni passo che compiamo sul sentiero. Seguire una condotta morale è quindi una pratica utile sia alla società, sia al singolo individuo. Ognuno di noi ne trarrà beneficio, sia nell’affrontare la vita quotidiana, sia nel progredire nella pratica meditativa. Nel Nobile Ottuplice Sentiero la pratica della condotta morale comprende le seguenti tre parti: giusta parola, giusta azione, giusti mezzi di sostentamento.
La giusta parola Giusta parola, ossia parlare in modo limpido e benefico. Il Buddha descrisse in questo modo chi la mette in pratica: È colui che dice la verità ed è fermo nella sua sincerità, degno di fede, sicuro, leale con gli altri. Riconcilia i litiganti e incoraggia l’unità. Ama l’armonia, ricerca l’armonia, gioisce dell’armonia e crea armonia con le sue parole. Il
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suo dire è garbato, piacevole per l’orecchio, gentile, scalda il cuore, è cortese, gradevole a molti. Egli parla al momento opportuno, secondo i fatti, secondo ciò che è utile, secondo il Dhamma e il codice di condotta morale. Le sue parole meritano di essere ricordate, sono tempestive, ben ragionate, ben scelte e costruttive 3. Per praticare la giusta parola dobbiamo evitare di mentire (e di non essere completamente sinceri, dicendo, per esempio, mezze verità), di riferire qualcosa che può suscitare discordia, calunniare, diffamare, pronunciare parole dure che possono turbare, fare pettegolezzi, chiacchierare senza motivo, perdendo tempo e facendolo perdere agli altri. L’astensione da questo linguaggio porta automaticamente alla giusta parola.
La giusta azione Il Buddha descrisse così chi mette in pratica la giusta azione: Avendo deposto il bastone e la spada, egli è attento a non recar danno a nessuno, pieno di gentilezza, alla ricerca del bene per tutte le creature viventi. Libero da ogni ambiguità, la sua condotta è quella di un essere puro. Per praticare la giusta azione dobbiamo astenerci da azioni immorali. Esse sono: uccidere qualsiasi essere, rubare, compiere atti sessuali che danneggiano gli altri (come l’adulterio e la violenza), intossicarsi fino a perdere il controllo. Evitando queste azioni ci comporteremo automaticamente in modo giusto e corretto.
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I precetti morali Per i laici, coinvolti nella vita sociale, il metodo migliore per vivere conformemente ad una giusta condotta morale è quello di osservare i seguenti cinque precetti: 1) astenersi dall’uccidere qualsiasi essere; 2) astenersi dal rubare; 3) astenersi da una condotta sessuale che danneggi gli altri; 4) astenersi dal mentire; 5) astenersi dall’assumere sostanze intossicanti. La condotta morale è condizione indispensabile per meditare. E quando, nel corso della vita, si potrà avere l’opportunità di accantonare temporaneamente – anche per pochi giorni o anche per uno soltanto – i problemi quotidiani, per dedicarsi alla purificazione della mente e alla propria liberazione, la condotta dovrà essere più rigorosa che nella vita quotidiana. Nel tempo dedicato a questo serio impegno, sarà importante evitare azioni che possano distrarre o interferire con la pratica. Perciò, si osserveranno, oltre ai cinque già menzionati, altri tre precetti: 6) non mangiare dopo mezzogiorno; 7) astenersi da ogni piacere sensoriale e ornamento fisico; 8) non usare letti troppo confortevoli. Sarà richiesta, come aggiunta al terzo precetto, la completa astinenza da attività sessuali.
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L’osservanza delle regole aggiuntive e la castità, favoriscono la calma e l’attenzione necessarie per il lavoro interiore, e aiutano a liberare la mente da tutte le interferenze esterne. Gli otto precetti vanno osservati tutti solo nel periodo dedicato alla meditazione intensiva. Concluso tale periodo, i laici potranno fare di nuovo riferimento ai primi cinque. Gli eremiti, i monaci e le monache, che hanno scelto di vivere senza una casa, osservano dieci precetti. In aggiunta ai primi otto, essi si astengono dall’accettare denaro. Gli eremiti, infatti, devono sostentarsi solo con la carità, per essere liberi di dedicarsi completamente alla purificazione della mente, a beneficio proprio e di tutti. Quando osserviamo questi precetti, siano essi cinque, otto o dieci, siamo certi che le nostre parole e le nostre azioni non recano danno a noi e agli altri. Queste regole non sono vuote formule dettate dalla tradizione, ma strumenti pratici chiamati, appropriatamente, “passi che consolidano la pratica”.
Il giusto mezzo di sostentamento Ognuno di noi deve mantenersi in modo onesto. Attenendoci ai seguenti due criteri, saremo sicuri di rispettare la condotta morale nella nostra vita lavorativa: rispettare i cinque precetti, così da non danneggiare gli altri, e astenersi dal compiere azioni che potrebbero incoraggiare altri a trasgredirli. Per esempio, un lavoro che implichi l’uccisione sia di esseri umani sia di animali, non è un giusto mezzo di sostentamento. E, anche se l’uccisione dell’animale è compiuta da altri e si ha solo a che fare con
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parti come pelle, carne, ossa o altro, è comunque un lavoro non giusto, perché derivante da azioni errate altrui. Commerciare in liquori o droghe può essere molto remunerativo, ma, anche se non se ne fa uso personalmente, venderli incoraggia altri ad intossicarsi, e quindi a danneggiarsi. Gestire una casa da gioco consente forti guadagni, ma coloro che la frequentano potrebbero rovinarsi. Anche vendere veleni o armi è assai lucrativo, ma nuoce alla pace e all’armonia dei popoli. Nessuno di questi è un giusto mezzo di sostentamento. Per svolgere rettamente il proprio lavoro, è necessaria anche una giusta attitudine mentale. Ad esempio, un medico non dovrebbe sperare in un’epidemia per lavorare di più, e un commerciante sperare in una carestia per aumentare i guadagni. Il lavoro e i mezzi di sostentamento non dovrebbero arrecare danni agli altri, né direttamente né indirettamente. Ogni essere umano è membro della società, ha degli obblighi verso di essa, con il suo lavoro serve il prossimo e, in cambio, riceve una rimunerazione per vivere. Anche il monaco e l’eremita hanno un preciso lavoro da compiere, con il quale si guadagnano le elemosine: purificare la loro mente a beneficio di tutti. Se sfruttano gli altri, ingannandoli con riti magici o con false promesse di crescita spirituale, non hanno un giusto modo di sostentamento. Qualsiasi compenso riceviamo, va utilizzato per mantenere noi e la nostra famiglia; ma una parte di quello che riusciamo a risparmiare, dovrebbe essere donata e utilizzata per il bene degli altri. In questo modo, la nostra attività diventa un giusto mezzo di sostentamento.
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La condotta morale durante il corso La giusta parola, la giusta azione e il giusto mezzo di sostentamento sono comportamenti che vanno messi in pratica, perché diano benefici a noi e agli altri. Il corso di Vipassana offre la possibilità di applicarli; essendo un periodo destinato alla meditazione intensiva, viene richiesto ai partecipanti di rispettare gli otto precetti. Chi frequenta il corso per la prima volta e chi ha problemi di salute, può consumare un pasto leggero la sera. I partecipanti devono, inoltre, rispettare il silenzio fino all’ultimo giorno di corso; è permesso parlare con l’insegnante e con gli organizzatori, ma non con gli altri meditatori. In questo modo si limitano le distrazioni, ed essi possono vivere e meditare insieme senza disturbarsi. In un’atmosfera tranquilla e pacifica, è così possibile dedicarsi al delicato compito dell’introspezione. Il costo del cibo e dell’alloggio, che i partecipanti ricevono, è stato già sostenuto da altri meditatori; così, per dieci giorni, essi vivono quasi come monaci, usufruendo della carità altrui. Impegnandosi nella ricerca della realtà interiore, lavorano per il bene proprio e degli altri, e praticano un modo corretto di sostentamento. La pratica della condotta morale è parte integrante del sentiero. Senza di essa non ci possono essere progressi, perché la mente sarebbe troppo agitata per compiere il delicato lavoro di indagare la propria realtà interiore. Chi asserisce che lo sviluppo spirituale è possibile anche senza seguire un codice di condotta morale, non sta certamente
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seguendo l’insegnamento del Buddha. Si potranno forse sperimentare vari stati di estasi, ma queste esperienze non saranno vere realizzazioni spirituali. Senza la pratica della condotta morale non si può liberare la mente dalla sofferenza e sperimentare la verità ultima.
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CAPITOLO QUINTO
Domande e risposte
Domanda: Cercare di compiere giuste azioni è una forma di attaccamento? Goenka: No, è semplicemente fare del proprio meglio, comprendendo che i risultati sono al di là del nostro controllo. Lasciate i risultati alla natura. Allora dobbiamo essere disposti a commettere degli errori? Se commettete un errore, accettatelo e cercate di non ripeterlo. Se vi capita di sbagliare ancora, sorridete di nuovo e provate un’altra volta, tentando un’altra strada. Se potete sorridere di fronte al fallimento, non c’è attaccamento. Ma se il fallimento vi deprime e il successo vi esalta, c’è senz’altro attaccamento. Quindi, l’azione corretta è solo lo sforzo di compierla, non il risultato? Esatto, il risultato sarà automaticamente buono se l’azione è buona. Non abbiamo il potere di scegliere il risultato, ma possiamo scegliere la nostra azione. Fate il meglio che potete. È da considerarsi sbagliata un’azione che arreca, accidentalmente, del male a un altro? No, ci deve essere l’intenzione di fare del male, e si deve riuscire a provocare un danno, solo allora un’azione negativa è completa. La pratica della con-
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dotta morale non va portata all’estremo, non è né pratico né benefico. D’altra parte, è pericoloso essere così sventati nelle azioni da recar danno agli altri, e poi scusarsi dicendo che non se ne aveva l’intenzione. Che differenza c’è tra un comportamento sessuale corretto e uno scorretto? È una questione di volontà? No, il sesso ha un suo posto nella vita del laico. Non va forzatamente soppresso, perché l’astinenza forzata produce tensioni, che a loro volta creeranno altre difficoltà. Tuttavia, chi dà sempre libero sfogo agli impulsi sessuali, e ha rapporti con chiunque, non potrà mai liberare la mente dalla passione. Evitando questi due estremi, ugualmente dannosi, c’è la via di mezzo: la relazione sessuale tra due persone che si sono impegnate l’una con l’altra, una sana espressione della sessualità che permette lo sviluppo spirituale. E se entrambe praticano Vipassana, quando sorgerà la passione, la osserveranno. Così non sarà né repressione né licenziosità. Per mezzo dell’osservazione è possibile liberarsi dalla passione. Una coppia avrà rapporti sessuali, ma gradualmente raggiungerà lo stadio in cui il sesso non avrà più significato. Questo è lo stadio dell’astinenza reale, naturale, nel quale la mente non è neppure sfiorata dall’idea della passione. Quest’astinenza dà una gioia che va oltre la soddisfazione sessuale. Ci si sente sempre contenti e in armonia. Imparate a sperimentare quest’autentica felicità. In Occidente molti pensano che i rapporti sessuali tra due adulti consenzienti siano leciti. Chi ha rapporti sessuali con una persona, con un’altra e poi con un’altra ancora, moltiplica la passione
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e l’infelicità. Bisogna impegnarsi con una sola persona o scegliere il celibato. Che cosa pensa dell’uso di droghe per sperimentare stati diversi di coscienza? Alcuni studenti mi hanno riferito che, con l’uso di droghe psichedeliche, sono passati attraverso esperienze simili a quelle avute con la meditazione. Non importa che questo sia o non sia vero, resta il fatto che avere un’esperienza indotta da una droga, è una forma di dipendenza da un agente esterno. Apprendete, invece, come diventare padroni di voi stessi, in modo da poter investigare la realtà, ogni volta che lo desiderate. Un’altra differenza molto importante, è che l’uso di droghe fa perdere a molti l’equilibrio mentale e li danneggia, mentre l’esperienza della verità, attraverso la pratica, rende i meditatori più equilibrati, senza arrecare loro alcun danno e senza danneggiare gli altri. Per rispettare il quinto precetto ci si deve astenere totalmente da sostanze intossicanti o solo dall’intossicarsi? Dopo tutto, bere con moderazione, senza ubriacarsi, non mi sembra particolarmente dannoso; oppure affermate che bere anche un solo bicchiere di alcol significa contravvenire alla condotta morale? Chi desidera davvero svilupparsi sul sentiero, evita le sostanze intossicanti. Questi due precetti, il comportamento sessuale e l’uso di sostanze intossicanti, devono essere ben compresi dagli occidentali. Bevendo anche solo una piccola quantità, gradualmente si sviluppa bramosia per l’alcol. La gente non se ne accorge, ma compie il primo passo verso la dipendenza, che è certamente dannosa.
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La dipendenza inizia da un solo bicchiere. Perché fare il primo passo verso la sofferenza? Chi pratica seriamente la meditazione e un giorno beve un bicchiere di vino, senza pensarci o per convenienza sociale, quel giorno troverà la sua meditazione debole. Questa è l’esperienza di molti meditatori. La gente spesso dice: – Se ti fa sentir bene, deve essere giusto. Perché non vede la realtà. Quando agite con avversione, vi accorgete subito del turbamento mentale che sorge in voi. Un’azione, che nasce dalla bramosia, sembra piacevole a un livello superficiale della mente ma, nella realtà, a un livello più profondo, provoca sempre agitazione. Per ignoranza ci sembra di star bene. Quando comprenderemo che, compiendo tali azioni, ci facciamo del male, con naturalezza smetteremo di compierle. Mangiare carne è trasgredire un precetto morale? No, a meno che non abbiate ucciso voi stessi l’animale. Se una persona trova della carne cucinata per lei, e la gradisce come qualsiasi altro cibo, non c’è trasgressione. Certamente, mangiando carne s’incoraggiano indirettamente altri ad uccidere, e quindi a trasgredire un precetto. Mangiare carne è dannoso anche a un livello più sottile. Gli animali, poiché sono incapaci di osservarsi, non hanno la possibilità di purificare la loro mente, e generano quindi in ogni istante bramosia e avversione. Siccome ogni fibra del loro corpo è permeata di bramosia e avversione, le persone che mangiano carne riceveranno questi stimoli. Un meditatore cerca di sradicare bramosia e avversione, quindi troverà utile evitare tali cibi.
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È questo il motivo per cui durante un corso la dieta è vegetariana? Sì, è la scelta migliore per la meditazione Vipassana. Raccomanda una dieta vegetariana anche nella vita quotidiana? È utile anche questo. Per un meditatore è accettabile arricchirsi? Sì. Se vi arricchite e, attraverso la meditazione, coltivate equilibrio mentale, sarete felici. Se mantenete equilibrio mentale, anche se non vi arricchite, sarete felici lo stesso. È necessario guadagnarsi da vivere, ma fatelo onestamente. Lavoro in una zona dove vi sono molti poveri che chiedono l’elemosina. So anche che tra di loro vi sono alcuni che si drogano. Mi chiedo se dare loro del denaro, non li incoraggi a drogarsi. Ecco perché dovete fare attenzione che ogni donazione elargita sia utilizzata correttamente. In caso contrario non aiuterebbe nessuno. Invece di dare soldi, renderete loro un vero servizio aiutandoli ad uscire dalla tossicodipendenza. Qualsiasi cosa decidiate di fare, fatela con saggezza. Se qualcosa, nel nostro modo di lavorare, ha degli effetti negativi, o se quello che produciamo può essere usato in modo improprio, allora anche il nostro lavoro diventa un mezzo di sostentamento non corretto? Dipende dalle intenzioni. Se una persona è interessata solo ad accumulare denaro e pensa: “Finché
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faccio soldi, non m’importa che altri siano danneggiati”, allora questo è un modo sbagliato di guadagnare. Se, invece, ha l’intenzione di essere utile alla società e, nonostante questo, qualcuno viene danneggiato, non può essere biasimata per questo. L’azienda per cui lavoro produce uno strumento che, fra le altre cose, è usato per ottenere dati sulle esplosioni atomiche. Mi hanno chiesto di occuparmi di questo prodotto e, in qualche modo, non mi sembra giusto. Se qualcosa sarà utilizzata solo per nuocere, certamente non dovete essere coinvolti. Se può essere usata sia per scopi positivi che negativi, non siete responsabili dell’uso che altri possono farne. Fate il vostro lavoro con l’intenzione che gli altri lo utilizzino esclusivamente a fini leciti. Non c’è nulla di sbagliato in questo. Che ne pensa del pacifismo? Se per pacifismo s’intende l’inazione di fronte all’aggressione, certamente è sbagliato. Bisogna agire in modo positivo ed essere pratici. E cosa pensa dell’uso della resistenza passiva, insegnata da Mahatma Gandhi e da Martin Luther King? Dipende dalla situazione. Se un aggressore non capisce altro linguaggio che quello della forza, la si deve usare, mantenendo sempre l’equanimità. Altrimenti si deve usare la resistenza passiva: non per paura, ma come atto di coraggio morale. Fronteggiare a mani vuote un’aggressione armata richiede coraggio, per farlo si deve essere preparati a morire. La morte ar-
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CAPITOLO QUINTO
riverà certamente, prima o poi. Si può morire con paura o con coraggio. Gandhi era solito dire ai suoi seguaci che dovevano affrontare un’opposizione violenta: – Che le ferite siano sul vostro petto e non sulla vostra schiena. Lei ha detto che si possono avere meravigliose esperienze durante la meditazione anche senza l’osservanza dei precetti. Quindi, non le sembra dogmatico e categorico sottolineare così fortemente la condotta morale? Coloro che non danno importanza alla condotta morale non possono fare progressi sul sentiero, e questo l’ho notato sulla base dell’esperienza di molti studenti. Possono frequentare i corsi per anni e avere, appunto, meravigliose esperienze di meditazione, ma senza che nella loro vita ci siano cambiamenti. Restano agitati e infelici perché stanno solo giocando con Vipassana, così come hanno giocato con altre discipline. In questo modo non vanno da nessuna parte e sprecano la loro vita. Chi vuole davvero servirsi della meditazione per cambiare la vita in meglio, deve praticare la condotta morale con molta attenzione.
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La pratica della condotta morale
Racconto
La ricetta medica
U
n uomo si ammala e va dal medico. Questi lo visita e gli prescrive delle medicine. Tornato a casa, pieno di fiducia, l’uomo mette nella stanza di preghiera una fotografia ed una statua del medico. Poi si siede davanti e incomincia a tributare loro onori: s’inchina tre volte e offre fiori e incenso. Quindi recita solennemente la ricetta: – Due pillole il mattino! Due pillole il pomeriggio! Due pillole la sera! Tutti i giorni recita la ricetta, perché ha grande fiducia nel suo medico, ma fare soltanto questo non lo guarirà. Decide di saperne di più sulla ricetta, e così va di nuovo dal medico e gli chiede: – Perché mi avete prescritto questa medicina? In che modo potrà giovarmi? Il medico, pazientemente, glielo spiega: – La sua malattia è questa, e la causa della malattia è quest’altra: se prenderà la medicina prescritta, essa eliminerà la causa della malattia. Quando la causa sarà eliminata, la malattia automaticamente sparirà. L’uomo pensa: “Meraviglioso! Il mio medico è così intelligente! Le sue ricette sono così utili!”. Va a casa e inizia a litigare con vicini e conoscenti insi-
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CAPITOLO QUINTO
stendo: – Il mio medico è il migliore! Tutti gli altri sono degli incapaci! Ma, che cosa ottiene comportandosi così? Può continuare a discutere per tutta la vita, ma questo non lo aiuterà per niente. Solo se prenderà la medicina, uscirà dall’infelicità e dalla malattia. Solo così, la medicina lo aiuterà. La persona saggia è come un medico: spinta da compassione, consiglia come uscire dalla sofferenza, spiegando come prendere la medicina. Ma chi lo ascolta, per ottenere risultati, deve mettere in pratica gli insegnamenti. Avere fiducia nel medico è utile, se ciò incoraggia il paziente a seguirne i consigli. Capire come agisce un medicamento è utile, se questa comprensione incoraggia ad assumerlo. Ma, senza prendere effettivamente la medicina, non si può curare la malattia. E, quindi, ciascuno deve prendere la propria medicina.
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CAPITOLO SESTO
La pratica della concentrazione
L
a causa della sofferenza risiede nelle nostre azioni mentali. Infatti, se ci conteniamo nelle azioni vocali e fisiche, ma lasciamo che la mente continui a ribollire in bramosia, avversione e altre azioni mentali dannose, prima o poi esse emergeranno violentemente e ci spingeranno a trasgredire i precetti. In questo modo danneggeremo noi stessi e gli altri, e non potremo essere felici. A livello intellettuale comprendiamo che è sbagliato commettere azioni dannose e, da sempre, in tutte le religioni, si sottolinea l’importanza di attenersi ad un codice di disciplina morale; ciò nonostante, quando arriva una tentazione, la mente ne è spesso sovrastata e così si trasgredisce. Un alcolizzato può rendersi perfettamente conto che l’alcol gli fa male e che, quindi, non dovrebbe bere; ma, quando nasce il desiderio, lui s’intossica. Non può frenarsi, perché non ha controllo sulla sua mente. Dobbiamo, quindi, diventare padroni della nostra mente e affrontare il problema alla radice. Possiamo farlo con la pratica della meditazione, che in pali è chiamata bh±van±, termine che significa “sviluppo mentale”. Ai tempi del Buddha, il significato di questa parola era diventato vago, perché la pratica era caduta in
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La pratica della concentrazione
disuso. Oggi, la più comune traduzione di bh±van± è meditazione, ma questo vocabolo è usato con riferimento a svariate attività, dal rilassamento mentale ai sogni a occhi aperti, dalle libere associazioni fino all’autoipnosi. Ed è anche riferita a qualsiasi tipo di esercizio mentale o di elevazione spirituale, sino ad attività come leggere, parlare, ascoltare o riflettere su temi edificanti. Tutto questo è ben lontano da ciò che il Buddha intendeva significare. Egli riferiva questo termine a specifici esercizi mentali, a precise tecniche per concentrare e purificare la mente, cioè la concentrazione (sam±dhi) e la saggezza (paññ±). L’esercizio della concentrazione è definito “sviluppo della tranquillità” (samatha-bh±van±) e quello della saggezza “sviluppo della comprensione o visione profonda” (vipassan±-bh±van±). La pratica meditativa inizia con la concentrazione (seconda parte del Nobile Ottuplice Sentiero), che comprende: il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione. Lo scopo di questo esercizio è quello di imparare a controllare i processi mentali, per sviluppare la padronanza della propria mente.
Il giusto sforzo Il primo passo nella pratica dello sviluppo mentale è il giusto sforzo. La mente viene facilmente sopraffatta dall’ignoranza, influenzata da bramosia e avversione. Sta a noi rinforzarla e renderla salda e stabile, per farla diventare uno strumento utile a esaminare la nostra natura ai livelli più profondi; per scoprire, e quindi eliminare, i nostri condizionamenti.
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CAPITOLO SESTO
Il medico, per diagnosticare la malattia del paziente, preleverà un campione di sangue per esaminarlo. Quindi dovrà mettere a fuoco il suo microscopio e mantenerlo su questo oggetto. Solo così potrà analizzare il campione, scoprire la causa della malattia e individuare la cura per eliminarla. Analogamente, se vogliamo trasformare la nostra mente in uno strumento adatto ad esaminare la nostra realtà più sottile e profonda, dobbiamo imparare a metterla a fuoco, e mantenerla focalizzata su un singolo oggetto di attenzione. Il Buddha insegnò varie tecniche per concentrare la mente, indicando il metodo più adatto per ciascun discepolo, ma, la tecnica più appropriata per esplorare la realtà interiore, quella che lui stesso praticò, è la consapevolezza della respirazione: ±n±p±na-sati. Il respiro è un oggetto di concentrazione alla portata di tutti, perché tutti respiriamo dal momento in cui veniamo alla luce fino al momento della morte; è quindi universalmente accessibile ed accettabile. Per iniziare, i meditatori, dopo aver scelto un luogo tranquillo e privo di distrazioni, si siedono, assumono una posizione eretta e confortevole, e chiudono gli occhi. Favoriti da questa situazione di quiete e stabilità, rivolgono l’attenzione dal mondo esteriore a quello interiore. Possono così constatare che il respiro è l’attività più evidente nel corpo e quindi dirigono tutta la loro attenzione su questo oggetto: il respiro che entra ed esce dalle narici. Non si tratta di un esercizio di respirazione, bensì di consapevolezza. Lo sforzo non è quello di controllare il respiro, ma quello di prendere coscienza di come il respiro stesso si manifesta: se è lungo o corto, pesante o leggero, forte o delicato. I meditatori devono focalizzare l’attenzione sul respiro il più
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La pratica della concentrazione
a lungo possibile, evitando le distrazioni, per non interrompere la continuità della consapevolezza. Quando cominciamo a meditare, ci accorgiamo subito di quanto sia difficile. Se ci sforziamo di focalizzare la mente sulla respirazione, iniziamo a lamentare dei dolori alle gambe. Se cerchiamo di eliminare i pensieri che ci distraggono, ecco che si presentano alla mente migliaia di ricordi, progetti, speranze, paure. Una di queste cattura la nostra attenzione, e dopo un po’ ci rendiamo conto che abbiamo completamente dimenticato il respiro. Ricominciamo con rinnovata determinazione ma, poco dopo, ci rendiamo conto che la mente si è di nuovo distratta, e che non ce ne siamo accorti. Quando ci dedichiamo a questo esercizio, comprendiamo che la mente è al di fuori del nostro controllo. Come un bambino viziato che prende un giocattolo, si annoia e ne prende un altro, e un altro ancora, così essa corre da un pensiero a un altro, da un oggetto di attenzione a un altro, incapace di rimanere nel momento presente. Questa è un’abitudine profondamente radicata nella mente, è il modo in cui si è sempre comportata; eppure, quando iniziamo a indagare la vera essenza della nostra natura, ci accorgiamo che queste distrazioni poco per volta diminuiscono. Sforzandoci di fissare l’attenzione sul respiro, cominciamo a cambiare gli schemi mentali abituali, e impariamo così a rimanere nella realtà del momento presente. Quando notiamo che la mente divaga, con calma e pazienza, la riportiamo alla consapevolezza del respiro. Se non ci riusciamo, riproviamo ancora e ancora, sorridendo, senza tensione; senza scoraggiarci, continuiamo a ripetere l’esercizio. Le abitudini di una vita non si cambiano in pochi minuti, per cui il
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giusto modo di compiere sforzi, per sviluppare la consapevolezza della realtà del momento presente, è una pratica continua e ripetuta, coltivata con molta calma e molta pazienza. Il Buddha descrisse quattro tipi di giusto sforzo: Prevenire l’insorgere di stati d’animo malvagi e nocivi; abbandonarli qualora dovessero sorgere; generare stati d’animo benefici, se ancora non ci sono; mantenerli senza interruzione, se ci sono, sviluppandoli fino alla piena maturità e perfezione1. Praticando la consapevolezza del respiro, si praticano contemporaneamente i quattro tipi di giusto sforzo sopra citati. Quando ci sediamo tranquilli e fissiamo l’attenzione sul respiro, senza l’interferenza di alcun pensiero, attiviamo e manteniamo un salutare stato di autoconsapevolezza. Ci sforziamo di non cadere in distrazioni e di non perdere di vista la realtà. Se sorge un pensiero, non lo seguiamo, e manteniamo l’attenzione sul respiro. In tal modo, sviluppiamo la capacità di focalizzare la mente su un determinato oggetto e di resistere alle distrazioni: due qualità essenziali per ottenere una corretta concentrazione.
La giusta consapevolezza Osservare la respirazione è anche un mezzo per sviluppare la giusta consapevolezza. La nostra sofferenza proviene dall’ignoranza: reagiamo, perché non sappiamo quello che stiamo facendo, perché non ci conosciamo in profondità. Per la maggior parte del tempo, la mente si perde in fantasie e il-
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lusioni, ricorda esperienze piacevoli e spiacevoli, e pensa al futuro con desiderio o con paura. Persi in bramosie e avversioni, non siamo consapevoli di ciò che sta realmente avvenendo, e di ciò che stiamo facendo nell’istante presente. Eppure, questo istante, il presente, è proprio il più importante. Non possiamo vivere nel passato, perché se né è andato. Non possiamo vivere nel futuro, perché ancora non esiste. Possiamo vivere solo nel presente. Se siamo inconsapevoli delle nostre azioni presenti, siamo condannati a ripetere gli errori del passato, e non potremo mai riuscire a realizzare i nostri sogni nel futuro. Se siamo in grado di sviluppare la capacità di essere consapevoli del momento presente, possiamo servirci del passato, come guida, per regolare le nostre azioni future. Questo è il sentiero del qui ed ora, della consapevolezza del momento presente. L’osservazione ininterrotta di ogni inspirazione ed espirazione è il metodo che ci aiuta a sviluppare la consapevolezza di noi stessi nel momento presente: in questo momento sto inspirando, in questo momento sto espirando. Inoltre, la concentrazione sul respiro fa da ponte fra la parte conscia e quella inconscia della mente; infatti il respiro funziona sia consciamente sia inconsciamente. Possiamo decidere di respirare in un modo particolare, di controllare la respirazione, e persino smettere di respirare per un po’; ma, anche quando smettiamo di controllare la respirazione, essa continua automaticamente. Per mantenere più facilmente la nostra attenzione possiamo, per esempio, respirare per un po’ leggermente più forte, ma appena la consapevolezza del respiro diventa stabile, dobbiamo
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lasciare che il respiro riprenda la sua normalità. Il nostro compito, infatti, è quello di osservare il respiro proprio così come è, come si manifesta spontaneamente (pesante o leggero, profondo o superficiale, lungo o corto, veloce o lento). In questo modo, attraverso la consapevolezza della respirazione naturale, cominciamo ad osservare il funzionamento automatico del corpo, un’attività che generalmente è inconscia. Dall’osservazione del respiro intenzionale, siamo passati all’osservazione della realtà più sottile del respiro naturale; da una realtà superficiale, abbiamo iniziato a muoverci verso la consapevolezza di una realtà più profonda. Un’altra ragione per dedicarsi a questa pratica è che essa ci permette di diventare consapevoli del momento in cui, nella mente, sorgono bramosia e avversione. Il respiro, infatti, agisce come riflesso del nostro stato mentale. Quando la mente è calma e in pace, il respiro è regolare e sottile; mentre, ogni volta che nella mente sorgono ira, odio, paura o passione, il respiro diventa irregolare, pesante o veloce. In questo modo ci avverte del nostro stato mentale, e ci consente di affrontarlo. Il respiro, inoltre, è un oggetto di concentrazione molto idoneo alla pratica, perché nei suoi confronti non possiamo sviluppare bramosia e avversione. Così, quando la mente è pienamente concentrata sul respiro, è libera dalla bramosia, libera dall’avversione, libera dall’ignoranza. E, poiché il nostro scopo è di liberare la mente da qualsiasi negatività, dobbiamo fare attenzione che ogni attimo della pratica sia puro e benefico. Ogni momento in cui noi non reagiamo, è un momento di purezza della mente, un momento
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molto importante, perché comincia ad indebolire i nostri condizionamenti.
Le difficoltà necessarie Durante la pratica della consapevolezza, le reazioni che abbiamo accumulato sono stimolate e iniziano ad emergere, manifestandosi sotto forma di difficoltà, sia fisiche sia mentali, che ostacolano i nostri sforzi. Possiamo sperimentare l’impazienza di progredire, che è una forma di bramosia, o la collera, che è una forma di avversione, o lo scoramento, perché i progressi ci sembrano lenti. A volte siamo sopraffatti dalla sonnolenza appena ci sediamo per meditare, oppure siamo agitati, tanto da non riuscire a star fermi, oppure cerchiamo scuse per evitare di meditare. Talvolta lo scetticismo può minare la volontà di proseguire, causando dubbi, a volte ingiustificati e irrazionali: sul nostro insegnante, sull’insegnamento stesso, o sulla nostra capacità di meditare. Quando sorgono queste difficoltà, ci viene persino in mente di abbandonare la pratica. Dobbiamo comprendere che lo scopo della meditazione è la purificazione della mente. La purificazione avviene attraverso un processo che fa emergere i nostri condizionamenti, strato dopo strato. Questo processo è già in corso anche in questa fase iniziale di consapevolezza della respirazione, e questi ostacoli sorgono perché stiamo avendo successo. Ogni difficoltà che incontriamo è un segnale positivo, perché significa che il processo di purificazione è iniziato. Alcuni condizionamenti se ne andranno e poco per volta le difficoltà nella pratica diminuiranno.
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La giusta concentrazione Fissare l’attenzione sul respiro favorisce lo sviluppo della consapevolezza del momento presente. La giusta concentrazione consiste nel mantenere questa consapevolezza il più a lungo possibile, momento dopo momento. Ogni giorno, nel compiere le azioni abituali, dobbiamo essere concentrati; tuttavia, questa non è sempre la giusta concentrazione. Per esempio, possiamo concentrarci per soddisfare un desiderio o per affrontare una paura. Il gatto aspetta il topo fuori dalla sua tana, concentratissimo, pronto a catturarlo appena compare. Il borsaiolo si concentra sul portafoglio della vittima, aspettando il momento opportuno per rubarlo. Il bambino che ha paura, è concentrato, immobile, nel buio della sua stanza, aspettando cosa può accadere. In nessuno di questi casi c’è la giusta concentrazione, cioè quella finalizzata alla liberazione. La giusta concentrazione, chiamata sam±dhi, è quella focalizzata su un oggetto libero da bramosia, avversione e ignoranza. Praticando la consapevolezza del respiro, scopriamo quanto sia difficile mantenerla ininterrottamente. Nonostante la ferma determinazione a non distogliere l’attenzione, in qualche modo essa scivola via. Scopriamo di essere come l’ubriaco che, convinto di camminare lungo una linea retta, sta invece ciondolando e procedendo a zigzag. A causa della nostra ignoranza e delle nostre illusioni, infatti, continuiamo a vagare nel passato e nel futuro, persi in bramosie e avversioni, e siamo incapaci di mantenere una consapevolezza prolungata. Non dobbiamo scoraggiarci per queste difficoltà, ma comprendere che ci vuole molto tempo per cambiare le abitudini mentali, sedimentate
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nel corso di anni. Il cambiamento sarà possibile solo attraverso un lavoro costante, ininterrotto, paziente e perseverante. L’esercizio consiste semplicemente nel riportare l’attenzione al respiro, non appena ci accorgiamo di averla persa. Se lo facciamo, cominciamo a modificare la tendenza della mente a perdersi dietro ogni distrazione e, attraverso una pratica ripetuta, diventerà possibile riportare l’attenzione sul respiro sempre più rapidamente. Con gradualità, i periodi di distrazione si accorceranno sempre più, mentre aumenteranno quelli di consapevolezza prolungata, di sam±dhi. Quando la concentrazione si rafforza, cominciamo a sentirci rilassati, felici e pieni di energia. A poco a poco, mentre meditiamo, ci accorgiamo che il respiro cambia, diviene più lieve, regolare. A volte può sembrare che la respirazione sia del tutto cessata; questo avviene perché, appena la mente si tranquillizza, il corpo si rilassa e il metabolismo rallenta, per cui è richiesto meno ossigeno. Quindi, può accadere che alcuni abbiano esperienze inusuali, per esempio, vedere delle luci o avere visioni o udire suoni fuori dall’ordinario. Tutte queste cosiddette “esperienze extrasensoriali“ sono solo segnali, indicano che la mente ha conseguito un più alto livello di concentrazione; ma, per se stesse, non hanno nessuna importanza, e non bisogna prestar loro attenzione. L’oggetto della consapevolezza rimane il respiro, tutto il resto è distrazione. E nemmeno ci dobbiamo aspettare che tali fenomeni si manifestino; in alcuni casi avvengono e in altri no. Tutte queste esperienze inusuali sono unicamente pietre miliari, e segnalano un progresso sul sentiero. Talvolta queste pietre miliari sono presenti, ma non ci accorgiamo di
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loro perché siamo assorti nella pratica. Se, quando le notiamo, le scambiamo per la meta finale e sviluppiamo attaccamento verso di esse, ci areniamo e smettiamo di fare progressi. Le esperienze sensoriali inusuali che si possono avere sono innumerevoli. Coloro che praticano la meditazione Vipassana non le cercano, perché l’obiettivo è la comprensione profonda della realtà, al fine di giungere alla liberazione dalla sofferenza. Continuiamo, perciò, a prestare attenzione solo al respiro. Come già detto, quando la mente è più concentrata, il respiro diviene più leggero e più difficile da osservare; per rimanere consapevoli, allora, dobbiamo affilare ulteriormente la nostra concentrazione, esercitando uno sforzo più intenso. Continuiamo ad affilare la mente in questo modo, a rendere più acuta la concentrazione, perché diventi uno strumento capace di scoprire e osservare anche la realtà interiore più sottile, quella che è al di là della realtà apparente. Vi sono molte altre tecniche usate per sviluppare la concentrazione: la ripetizione di una parola, per esempio, o di un’azione fisica, o ancora, l’osservazione continua di un’immagine. Se ci concentriamo seguendo questi metodi, diventiamo così assorbiti nell’oggetto di attenzione, che possiamo sentirci come in uno stato di estasi. Sebbene tale stato sia, senza dubbio, molto piacevole, prima o poi finisce, e noi ci ritroviamo nella vita con gli stessi problemi di prima. Queste tecniche agiscono sviluppando uno strato di pace e di gioia alla superficie della mente, ma lasciano intatti i nostri condizionamenti in profondità, non li eliminano. Gli oggetti usati per ottenere la concentrazione non sono collegati con l’osservazione continua della
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nostra realtà. La beatitudine che ne deriva è cercata e prodotta intenzionalmente, non è la conseguenza naturale e spontanea del processo di purificazione, che coinvolge le profondità della mente. La giusta concentrazione non utilizza queste tecniche, che favoriscono l’ebbrezza spirituale. Anche seguendo l’insegnamento del Buddha si possono sperimentare vari stati di assorbimento mentali, che sono chiamati jh±na. Il Buddha ne praticò otto, ma non furono questi a liberarlo. Perciò, quando li insegnava, spiegava che la loro funzione era unicamente quella di aiutare a sviluppare la comprensione profonda della realtà. Come le pietre poste a mo’ di guado, aiutano ad attraversare il fiume, così i meditatori dovrebbero sviluppare la facoltà della concentrazione, non per sperimentare stati di beatitudine o di estasi, ma per forgiare la mente, in modo da poter essere in grado di esaminare a fondo la propria realtà, ed eliminare i condizionamenti che causano la sofferenza. Questa è la giusta concentrazione.
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Domande e risposte
Domanda: Perché insegna a sviluppare la consapevolezza del respiro concentrandosi sulle narici e non sull’addome? Goenka: In questo tipo di Vipassana è necessaria una concentrazione particolarmente forte. Più l’area di attenzione è limitata, più forte sarà la concentrazione richiesta. Per sviluppare tale grado di concentrazione, l’addome è troppo esteso. L’area più adatta è quella delle narici. Ecco perché il Buddha indicò quest’area. Mentre si pratica la consapevolezza del respiro, è permesso contare i respiri o ripetere “dentro” mentre s’inspira e “fuori” mentre si espira? No, non ci deve essere verbalizzazione. Se ogni volta aggiungete una parola alla consapevolezza della respirazione, gradualmente la parola diventerà predominante e vi dimenticherete del respiro. Ripeterete “dentro” o “fuori”, senza alcuna attenzione all’atto di inspirare e di espirare. La parola diventerà un mantra. Rimanete solo con il respiro, il semplice respiro e nient’altro che il respiro. Perché la pratica della concentrazione non è sufficiente per la liberazione? Perché, sebbene con la concentrazione si sviluppi purezza mentale, i condizionamenti non vengono eliminati, ma solo soppressi. È proprio come se qualcuno pulisse una cisterna di acqua fangosa,
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aggiungendovi una sostanza come l’allume: esso fa sì che le particelle di fango, sospese nell’acqua, si depositino sul fondo, lasciando l’acqua cristallina. Allo stesso modo, la concentrazione purifica e rende cristallino il livello superficiale della mente, ma, nell’inconscio, resta un deposito d’impurità. Per raggiungere la liberazione, queste impurità devono essere rimosse. E per rimuovere le impurità dalla profondità della mente, si deve praticare Vipassana. Non è sbagliato dimenticare il passato e il futuro, e prestare attenzione solo al momento presente? Non è così che vivono gli animali? Se dimentichiamo il passato con i suoi errori, li ripeteremo. Questa tecnica non v’insegnerà a dimenticare del tutto il passato o a non avere interesse per il futuro. Quello che ci rende la vita infelice è la radicata abitudine della mente a immergersi nei ricordi, a correre dietro a sogni, desideri, progetti e preoccupazioni per il futuro, ignorando che cosa accade nel momento presente. Con la meditazione s’impara a mantenere uno stabile punto d’appoggio nella realtà presente. Con questa solida base è possibile trarre insegnamenti dal passato e giuste previsioni per il futuro. Ho notato che, quando medito e la mente divaga, una bramosia, a volte, comincia a manifestarsi; allora penso che sia una cosa sbagliata e mi agito. In casi come questo, come devo comportarmi? Per quale motivo essere agitati a causa della bramosia? Accettate il fatto: “Oh guarda, c’è bramosia” ecco tutto. E smetterete di agitarvi. Quando
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vi accorgete che la mente ha vagato, è sufficiente che accettiate questo fatto e automaticamente essa tornerà al respiro. Non create tensioni, perché così facendo sviluppate avversione. Accettate la realtà, è sufficiente. Le tecniche di meditazione erano già presenti nello yoga. Che cosa c’era di nuovo nella meditazione insegnata dal Buddha? Lo yoga attuale è in realtà uno sviluppo posteriore: Patanjali visse circa 500 anni dopo il Buddha e il suo Yoga Sutra ne fu influenzato. Certo, le pratiche yoga erano già note in India e il Buddha le sperimentò, prima di conseguire l’illuminazione. Tuttavia, esse erano limitate a s²la, la pratica della condotta morale, e a sam±dhi, la concentrazione fino al livello dell’ottavo stadio di assorbimento, stadio che è ancora nel campo dell’esperienza sensoriale. Il Buddha scoprì il nono stadio di assorbimento, e cioè Vipassana, il metodo della comprensione profonda, che permette di raggiungere la meta finale della liberazione, che è al di là dell’esperienza sensoriale. Mi accorgo di avere la tendenza a sminuire gli altri. Come posso cambiare? Con la meditazione. Se l’ego è forte, si cerca di sminuire gli altri, di abbassare il loro valore e accrescere il proprio. La meditazione, invece, dissolve naturalmente l’ego. E, quando esso si dissolve, non è più possibile fare qualcosa che offenda un altro. Impegnatevi e il problema si risolverà. A volte mi sento in colpa per ciò che ho fatto.
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Sentirvi in colpa non vi aiuterà, causerà solo danno. Il senso di colpa non ha posto in questo insegnamento. Se vi accorgete di aver agito in modo sbagliato, accettate il fatto senza cercare di giustificarlo o di nasconderlo. Potete anche andare da qualcuno che rispettate e confidargli: “Ho commesso questo errore, ma in futuro starò attento a non ripeterlo”. E poi meditate; e scoprirete di poter superare tutte le difficoltà. Perché tendo a rinforzare l’ego? Perché continuo a voler essere “io”? Perché questo è ciò che la mente è stata condizionata a fare, a causa dell’ignoranza. Ma Vipassana può liberarvi da questo condizionamento. Imparerete a pensare agli altri, invece di pensare sempre a voi stessi. Come avviene questo cambiamento? Il primo passo è riconoscere quanto siamo egoisti ed egocentrici. Finché non prenderete atto di questa verità, non potrete liberarvi da questo eccessivo attaccamento alla vostra persona. Man mano che proseguirete nella pratica, vi accorgerete che anche il vostro amore per gli altri è egoistico. Capirete di amare qualcuno perché vi aspettate qualcosa da lui, (ad esempio che si comporti in un modo che vi piace) e che, nel momento in cui questo qualcuno non si comporta così, il vostro amore svanisce. Così vi domanderete se amate questa persona o voi stessi. La risposta vi diventerà chiara con la pratica di Vipassana (e non cercandola a livello intellettuale). Con questa esperienza inizierete a lasciare
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da parte il vostro egoismo, imparando a sviluppare amore reale per gli altri, un amore altruistico, quello di chi dona senza aspettarsi niente in cambio. Quando dice “Siate felici”, l’altra faccia della medaglia per me è “Siate tristi”! Perché essere tristi? Uscite dalla tristezza! Giusto, ma pensavo che stessimo lavorando per raggiungere un equilibrio. È l’equilibrio che rende felici. Senza equilibrio c’è infelicità. Siate equilibrati, siate felici! E perché non: “Siate equilibrati, non siate niente”? L’equilibrio rende felici, non vi annulla. Si diventa positivi quando la mente è equilibrata.
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Racconto
Un dolce di latte tutto curvo
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ue ragazzi molto poveri vivevano mendicando cibo di casa in casa, in città e in campagna. Uno di essi era cieco dalla nascita e l’altro lo aiutava; così se ne andavano insieme per trovare da mangiare. Una volta il ragazzo cieco si ammalò. Il suo compagno gli disse: – Rimani qui e riposati. Andrò io in giro a mendicare per tutti e due e ti porterò qualcosa da mangiare. – E se ne andò a chiedere l’elemosina. Quel giorno gli fu dato un piatto molto gustoso: un budino di latte all’indiana, il khir. Non lo aveva mai assaggiato e gli piacque moltissimo. Ma sfortunatamente, non aveva un contenitore con cui portarlo al suo amico, e così lo mangiò tutto. Quando ritornò dal compagno gli disse: – Sono molto dispiaciuto, oggi mi è stato dato un piatto delizioso, un dolce di latte, ma non ho potuto portartelo. Il ragazzo cieco gli chiese: – Com’è questo dolce di latte? – Oh, è bianco. Il dolce di latte è bianco. Cieco dalla nascita, non capiva: – Che cos’è il bianco? – Non sai che cos’è il bianco? – No. – È l’opposto del nero.
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– E il nero cos’è? – Egli non sapeva neppure cosa fosse il nero. – Cerca di capire, ti prego, è bianco! – Ma il ragazzo cieco non poteva capire. Così il suo amico si guardò intorno, vide una gru bianca, la acchiappò e gliela portò: – Ecco, bianco è come quest’uccello. Non potendo vedere, allora il ragazzo cieco allungò la mano per toccare la gru: – Ah, ora capisco cosa sia il bianco! È soffice. – No, no, non ha niente a che fare con l’essere soffice. Bianco è bianco! Cerca di capire. – Mi hai detto che è come la gru e io l’ho esaminata. La gru è soffice. Allora bianco significa soffice, quindi il dolce di latte è soffice. – No, non hai capito. Prova ancora. Di nuovo il ragazzo cieco esaminò la gru, passando la mano su e giù dal becco al collo, dal corpo fino alla punta della coda. – Ah, ora ho capito. È tutto curvo! Il dolce di latte è curvo! Il ragazzo cieco non può capire perché non ha la facoltà di sperimentare che cosa sia il bianco. Allo stesso modo, se non sviluppate la facoltà di sperimentare la realtà così com’è, per voi essa sarà sempre tutta curva, distorta.
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CAPITOLO SETTIMO
La pratica della saggezza
L
a condotta morale e la concentrazione – s²la e sam±dhi – non sono insegnamenti esclusivi del Buddha. Entrambi erano già conosciuti e messi in pratica prima della sua illuminazione; infatti, sappiamo che, mentre cercava la via per la liberazione, il futuro Buddha apprese da due maestri dell’epoca la concentrazione. Ancora oggi, condotta morale e concentrazione sono consigliate da molte tradizioni spirituali; con la base di un comportamento morale, con l’aiuto di preghiere, rituali, esercizi di austerità come i digiuni e l’esercizio di varie forme di meditazione, è possibile raggiungere uno stato di assorbimento mentale profondo. Si tratta dell’estasi, sperimentata dai mistici di molte religioni; anche se non sviluppate fino a tale livello, le due pratiche sono utili perché acquietano la mente, distogliendo l’attenzione da situazioni in cui altrimenti si reagirebbe con bramosia e avversione. Altre rudimentali tecniche di concentrazione, come contare lentamente fino a dieci per frenare uno scoppio d’ira, ripetere una parola o un mantra, o concentrarsi su un oggetto, funzionano perché, quando l’attenzione è mantenuta intenzionalmente su un oggetto specifico, la mente si calma e si pacifica.
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La pratica della saggezza
La calma acquisita in tal modo, però, non è vera liberazione, perché, anche se molto utile, la pratica della concentrazione opera solo al livello della mente conscia. Il Buddha realizzò l’esistenza dell’inconscio, che chiamò anusaya*. Egli convenne che un metodo efficace per affrontare bramosia e avversione, e non esserne sopraffatti, è quello di distrarre la mente. Ma si rese anche conto che, in questo modo, le impurità non sono eliminate del tutto, perché vengono spinte nelle profondità dell’inconscio, dove restano assopite e sempre pericolose. Ad un livello superficiale della mente può esserci uno stato di pace e armonia, mentre, nelle sue profondità, vi è un vulcano addormentato di negatività che prima o poi esploderà. Il Buddha disse: Se le radici rimangono intatte e solide nel terreno, una pianta tagliata butterà ancora nuovi getti. Se l’abitudine latente alla bramosia e all’avversione non viene estirpata alle radici, la sofferenza sorgerà continuamente rinnovata 1. Sino a quando il condizionamento rimarrà a livello inconscio, alla prima occasione riapparirà, provocando sofferenza. Per questo motivo, dopo aver raggiun * (n.d.r.) Anusaya : letteralmente significa “propensione, inclinazione”. Si riferisce a una tendenza latente nella personalità, che diviene operante e in grado di condizionare e produrre conseguenze morali. Questa inclinazione è chiamata proclività, perché in conseguenza della sua pertinacia, tende a creare le condizioni per far sorgere un’altra inclinazione. (Il Buddha ha indicato sette inclinazioni: attaccamento all’esistenza, attaccamento agli oggetti del desiderio, ostilità, orgoglio, nescienza o ignoranza, opinione erronea, dubbio). Visuddhi Magga XXII. 60.
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to i più alti stadi nella pratica della concentrazione, il Buddha si rese conto di non aver raggiunto la liberazione. E così decise di continuare la ricerca della via di uscita dalla sofferenza, che conduce alla felicità. Vide che c’erano due possibilità. Una era quella di seguire il sentiero dell’indulgenza, che permette il soddisfacimento di tutti i desideri, e che la maggior parte delle persone segue, consapevolmente o no. Gli fu chiaro, però, che questa strada non portava alla vera felicità. Infatti non c’è nessuno al mondo che può soddisfare sempre tutti i propri desideri, e nessuno a cui non accade mai nulla di indesiderato. È inevitabile soffrire per le delusioni, e provare insoddisfazione, quando i desideri restano inappagati; e si soffre anche quando si ottiene ciò che si desidera, per paura che l’oggetto conquistato svanisca o che il senso di gratificazione si esaurisca, com’è naturale che accada. Nel cercare, ottenere e perdere ciò che si desidera, si è sempre agitati. Il futuro Buddha, essendo figlio di re, sapeva che questo modo di vivere non porta alla pace. L’altra possibilità era il sentiero dell’autocontrollo, la scelta deliberata di astenersi dal soddisfare i propri desideri. Nell’India di 2500 anni fa, questa determinazione era portata all’eccesso, fino al punto di evitare tutte le esperienze piacevoli e infliggersi quelle spiacevoli: si credeva che questo comportamento avrebbe purificato la mente, guarendola dal suo continuo oscillare tra bramosie e avversioni. Queste austere pratiche sono comuni a tutte le tradizioni spirituali, e il futuro Buddha le sperimentò per anni, fino a ridursi in uno stato di estrema magrezza, senza per questo liberarsi. Punire il corpo non purifica la mente. Per praticare, con equilibrio, l’autocontrollo, è sufficiente
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astenersi dal gratificare quei desideri che implicano azioni dannose o sono in contrasto con il codice di condotta morale. Esso non va spinto agli estremi reprimendo tutti i propri desideri, perché, in questo modo, le tensioni mentali aumentano e i desideri repressi si accumulano come acque in piena dietro una diga, che, prima o poi, cederà, dando il via ad un’inondazione distruttiva. Sebbene sia di grande beneficio, la condotta morale non può essere rispettata solo con la forza di volontà, perché i condizionamenti sarebbero solo soppressi, non eliminati; e anche la pratica della concentrazione può aiutare solo parzialmente, perché non arriva ad influenzare i livelli mentali più profondi, dove si trovano le radici delle impurità. Solo estirpando queste radici, non avremo più bisogno di reprimerci, e il nostro comportamento non arrecherà più danno, perché sarà scomparso l’impulso a compiere azioni negative. Fino a quando non libereremo la nostra mente dai condizionamenti, non saremo né al sicuro né in pace. Il Buddha se ne rese conto e capì che era necessario trovare il modo per penetrare nelle profondità della mente, raggiungere le impurità proprio dove esse si annidano, ed estirparne le radici. Attraverso la pratica di Vipassana, parola pali che significa “sviluppo della comprensione o visione profonda della propria natura”, poté sviluppare la saggezza necessaria per penetrare la verità ultima e raggiungere l’Illuminazione. Questa saggezza, chiamata paññ±, è l’elemento peculiare del suo insegnamento. Egli ripeté spesso: Se è sostenuta dalla moralità, la concentrazione è molto fruttuosa, molto benefica. Se è sostenuta dalla concentrazione, la saggezza è molto fruttuosa, molto benefica.
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Se è sostenuta dalla saggezza, la mente si libera da tutte le impurità 2. Lo scopo della pratica della condotta morale e della concentrazione, al di là del loro grande valore intrinseco, è quello di condurci alla saggezza. Attenendoci a un codice di moralità, evitiamo di compiere azioni che ci rendono agitati e, con la concentrazione, rendiamo sempre più calma la nostra mente, preparandola all’introspezione. Poi, attraverso lo sviluppo della saggezza, possiamo trovare una giusta via di mezzo tra gli estremi di indulgenza e repressione, e penetrare nella realtà interiore, liberandoci da ignoranza e attaccamento. La saggezza comprende la pratica del giusto pensiero e quella della giusta comprensione, altre due parti dell’Ottuplice Nobile Sentiero.
Il giusto pensiero Per iniziare a meditare con Vipassana, non è necessario avere la mente libera dai pensieri. È sufficiente avere una consapevolezza continua, che, momento dopo momento, ci permetta di osservare le sensazioni. I pensieri potranno rimanere, ma, proseguendo nella pratica, ci accorgeremo che il loro genere sarà mutato, perché l’esercizio della consapevolezza del respiro ci permetterà di calmare la mente e di diminuire bramosia e avversione. Inoltre le difficoltà incontrate all’inizio, verranno in parte superate. La mente diventerà più tranquilla, almeno a livello conscio, e ci accorgeremo di cominciare a pensare alla pratica, a questo cam-
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mino che abbiamo iniziato a percorrere, a questa via per uscire dalla sofferenza. Questo è il giusto pensiero, necessario per intraprendere il passo successivo: la giusta comprensione.
La giusta comprensione Soltanto pensare alla verità non è abbastanza. Occorre sperimentarla, sviluppando la giusta comprensione della realtà; ciò è possibile andando al di là della realtà superficiale e apparente, per vedere le cose come sono realmente, non solo come appaiono, e scoprire così la verità ultima della realtà: ecco la vera saggezza. Ci sono tre tipi di saggezza: la saggezza di altri, che viene accettata senza metterla in discussione (sutamay± paññ±), la saggezza intellettuale (cint±-may± paññ±) e la saggezza basata sull’esperienza (bh±van±may± paññ±). Letteralmente, suta-may± paññ± significa “saggezza ascoltata”: quella saggezza che si accetta e che si decide di fare propria, dopo aver letto o ascoltato insegnamenti altrui; o perché è parte della cultura a cui si appartiene; o per la speranza di una ricompensa o per il timore di un castigo, dopo la morte. Il secondo tipo di saggezza è quella che proviene dalla comprensione intellettuale. Dopo aver letto o ascoltato un insegnamento, si riflette e lo si esamina. Se, a livello intellettuale, si verifica che è razionale, benefico e pratico, lo si accetta. Anche in questo caso, si tratta di una conoscenza che non è stata sperimentata, ma che è frutto di un ragionamento sull’esperienza altrui. Il terzo tipo di saggezza nasce dall’esperienza, dalla realizzazione personale della verità. È la sag-
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gezza vissuta e sperimentata, che cambia la nostra vita, trasformando profondamente la mente. Nella vita quotidiana, non è né utile né necessario sperimentare sempre di persona ogni cosa. Per esempio, è sufficiente accettare l’avvertimento che il fuoco brucia, oppure prenderne atto per deduzione; mentre sarebbe sconsiderato buttarsi tra le fiamme per verificarlo. Nella pratica meditativa, invece, la saggezza che deriva dall’esperienza è essenziale, perché, solo attraverso di essa, potremo liberarci dai condizionamenti. La saggezza acquisita da altri e quella proveniente dalla ricerca intellettuale, sono utili solo se ci ispirano e ci conducono verso il terzo tipo di saggezza, quella che nasce dall’esperienza. Accettare acriticamente, accontentarsi di capire, studiare e contemplare la verità a livello intellettuale, senza compiere alcuno sforzo per sperimentarla, costituiscono ostacoli alla personale comprensione della verità. Ognuno di noi deve compiere lo sforzo di sperimentare la verità e può farlo con la meditazione. Questa è la vera saggezza. Soltanto questa esperienza libererà la nostra mente, perché solo all’interno di noi stessi possiamo avere un’esperienza viva e autentica della realtà. Anche la realizzazione della verità ottenuta da un altro non potrà liberarci: persino Siddhattha Gotama, il Buddha, poté liberare solo se stesso. Chi ha realizzato la verità ci può solo ispirare, offrendoci una traccia da seguire, ma ognuno di noi deve impegnarsi per conto proprio. Ciascuno di voi deve lavorare e compiere il proprio sforzo, coloro che hanno raggiunto la meta finale vi mostreranno solamente la via 3.
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Alcuni maestri, ai tempi del Buddha, affermarono di insegnare le stesse cose da lui insegnate. In realtà i loro insegnamenti si basavano solo sui primi due tipi di saggezza4. Il contributo specifico del Buddha all’umanità, fu la scoperta di un metodo che ci consente di realizzare personalmente la verità e di sviluppare una saggezza basata sull’esperienza: questo metodo è la meditazione Vipassana.
La meditazione Vipassana Vipassana è talvolta descritta come un lampo di comprensione profonda, un’improvvisa intuizione della verità; ma, di fatto, si tratta di un metodo graduale che il meditatore segue, fino ad arrivare al punto in cui può giungere a questa profonda intuizione. La meditazione Vipassana è, infatti, chiamata in pali vipassan±-bh±van±, cioè sviluppo della comprensione o visione profonda. La parola passan± significa “vedere” e si riferisce al tipo ordinario di visione che abbiamo quando apriamo gli occhi. Il termine Vipassana, invece, si riferisce a un tipo di visione speciale: l’osservazione della realtà all’interno di noi stessi, che si raggiunge scegliendo le sensazioni fisiche come oggetto di attenzione. La tecnica consiste, appunto, nell’osservazione sistematica e imparziale delle sensazioni all’interno di noi stessi, che ci permette di conoscere la vera realtà della mente e del corpo. Perché la sensazione? Perché percepiamo qualsiasi realtà mediante la sensazione, che si manifesta in noi quando qualche cosa entra in contatto con i cinque sensi fisici e con la mente. Queste sei basi
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sensoriali sono le vie d’accesso attraverso le quali sperimentiamo il mondo. Il Buddha descrisse così questo processo: Se qualcuno prende due pezzetti di legno e li strofina l’uno contro l’altro, la frizione sviluppa un calore in grado di generare una scintilla. Allo stesso modo, come risultato di un contatto che si è sperimentato come piacevole, sorge una sensazione piacevole, come risultato di un contatto che si è sperimentato come spiacevole, sorge una sensazione spiacevole, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come neutro, sorge una sensazione neutra 5. Il contatto di un oggetto con la mente o con il corpo produce una scintilla di sensazione. È attraverso questa sensazione che sperimentiamo il mondo con tutti i suoi fenomeni, fisici e mentali. Per sviluppare la saggezza basata sull’esperienza, dobbiamo diventare consapevoli di quello che sta succedendo dentro di noi, e ciò diventa possibile osservando le sensazioni. Le sensazioni fisiche sono strettamente connesse con la mente e, come il respiro, offrono un riflesso dello stato mentale. Quando oggetti mentali – pensieri, idee, fantasie, emozioni, ricordi, speranze, timori – vengono in contatto con la mente, sorgono differenti sensazioni. Ogni pensiero, emozione, azione mentale è accompagnato dalla corrispondente sensazione all’interno del corpo. Quindi, osservando le sensazioni fisiche, osserviamo anche la mente. La consapevolezza delle sensazioni è indispensabile per esplorare fino in fondo la verità, perché ogni cosa che incontriamo nella vita fa sorgere una
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sensazione all’interno del corpo. Essa è il crocevia dove s’incontrano mente e corpo. Sebbene sia di natura fisica, è uno dei processi mentali (v. capitolo secondo). Sorge nel corpo ed è sentita dalla mente. In un corpo morto o nella materia inanimata non ci può essere sensazione perché là non vi è mente. Le sensazioni si avvicendano senza sosta nel nostro corpo. Ogni contatto, mentale o fisico, produce una sensazione. Ogni reazione biochimica dà origine a una sensazione. Nella vita quotidiana, la mente conscia non ha la concentrazione necessaria per essere consapevole di tutte le sensazioni e può accorgersi solo di quelle più intense. Quando, invece, con la consapevolezza del respiro, addestriamo la mente a concentrarsi, sviluppiamo la facoltà che ci permette di sperimentare la realtà di ogni sensazione che sorge dentro di noi. Come un giardiniere, quando estirpa le erbacce dal giardino, deve essere consapevole delle radici nascoste e della loro importanza vitale, così noi, se vogliamo comprendere a fondo la nostra natura, dobbiamo essere consapevoli di tutte le sensazioni, anche di quelle che normalmente ignoriamo. Nella pratica della consapevolezza della respirazione lo sforzo consiste nell’osservare il respiro naturale, senza controllarlo o regolarlo; nella pratica di Vipassana è necessario osservare le sensazioni, così come appaiono, senza desiderare che sorgano particolari tipi di sensazioni o evitare quelle che non ci piacciono. Lo sforzo è di far scorrere l’attenzione, sistematicamente, dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa, rimanendo consapevoli di qualsiasi sensazione si manifesti nel corpo, osservandola oggettivamente. Possono manifestarsi sensazioni
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di caldo, freddo, pesantezza, leggerezza, prurito, palpitazione, contrazione, espansione, pressione, dolore, formicolio, pulsazione, vibrazione e altro. Non dobbiamo cercare qualcosa di straordinario, ma semplicemente osservare le naturali sensazioni fisiche, così come si manifestano. E nemmeno dobbiamo tentare di scoprire la ragione di una sensazione: essa può essere sorta a causa di particolari condizioni atmosferiche, per la posizione in cui siamo seduti, per i postumi di una precedente malattia, per la debolezza fisica o per il cibo ingerito. La ragione non è importante e non ci deve interessare. L’importante è essere consapevoli della sensazione che proviamo, in quel determinato momento, nella parte del corpo in cui l’attenzione è concentrata. Quando ci dedichiamo a questo esercizio per la prima volta, ci accorgiamo di essere capaci di percepire le sensazioni in alcune parti del corpo e non in altre; questo accade perché, non essendo la facoltà della consapevolezza pienamente sviluppata, siamo in grado di sperimentare solo le sensazioni intense e non le più lievi. Continuiamo, comunque, a rivolgere l’attenzione ad ogni parte del corpo, muovendo la consapevolezza sistematicamente, seguendo un ordine, senza permettere all’attenzione di essere distratta dalle sensazioni più forti. Con la concentrazione, abbiamo sviluppato l’abilità di fissare l’attenzione su di un oggetto prescelto. Utilizziamo ora tale abilità per spostare la consapevolezza su ogni parte del corpo, sempre in un ordine determinato, senza tralasciare le parti in cui la sensazione è poco chiara o lieve, e senza lasciarci attirare da quelle più forti, senza soffermarci su qualche sensazione particolare e senza cercare di evitar-
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ne alcuna. In tal modo arriveremo, gradualmente, a sperimentare le sensazioni in ogni parte del corpo. Quando s’intraprende la pratica della consapevolezza della respirazione, il respiro è spesso pesante e irregolare. Poi, man mano che si procede, si calma e diventa più fine. Allo stesso modo, all’inizio della pratica di Vipassana, spesso si sperimentano sensazioni intense e spiacevoli, talvolta dolorose, che sembrano durare a lungo. Possono anche sorgere, nella mente, forti emozioni, pensieri dimenticati per lungo tempo, ricordi che possono arrecare disagio fisico e psicologico. Gli ostacoli di bramosia, avversione, pigrizia, agitazione e dubbio (che impediscono di progredire durante la pratica della consapevolezza del respiro) possono ricomparire in modo così forte, da renderci impossibile il mantenere la consapevolezza delle sensazioni. In tale situazione, per calmare e affinare di nuovo la mente, sarà necessario tornare, per qualche tempo, alla pratica della consapevolezza del respiro. Pazientemente, senza scoraggiarci, ci impegneremo a ristabilire la concentrazione, tenendo presente che tutte queste difficoltà, in realtà, sono segnali del nostro successo. Infatti, alcuni condizionamenti sepolti in profondità sono stati stimolati e hanno cominciato ad apparire a livello conscio, turbando la mente. Se persisteremo nello sforzo, senza generare tensioni, la mente, gradualmente, riacquisterà la tranquillità e la concentrazione. Pensieri ed emozioni intense scompariranno, e potremo ritornare alla consapevolezza delle sensazioni. Con una pratica continua e ripetuta, le sensazioni intense tenderanno a dissolversi in sensazioni più sottili e uniformi e, alla fine, saremo consapevoli delle onde di vibrazioni, che sorgono e vanno, senza sosta e con grande rapidità, nel nostro corpo.
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Ai fini della meditazione è irrilevante che le sensazioni siano piacevoli o spiacevoli, intense o sottili, uniformi o varie. Il nostro compito di meditatori è solo quello di osservarle con oggettività. Non dobbiamo interrompere la nostra osservazione, né quando le sensazioni spiacevoli ci procurano disagio, né quando siamo attratti da quelle piacevoli, e non dobbiamo permettere a nessuna di esse di distrarci o attirare indebitamente la nostra attenzione. Cerchiamo di osservare noi stessi, con lo stesso distacco che lo scienziato ha verso i suoi esperimenti di laboratorio.
Impermanenza, inesistenza dell’io, sofferenza Perseverando nella meditazione, comprenderemo un fatto basilare: le nostre sensazioni mutano costantemente. Ad ogni istante, in ogni parte del corpo, sorge una sensazione, e ogni sensazione è indice di mutamento. Ad ogni istante avvengono cambiamenti – reazioni elettromagnetiche e biochimiche – in ogni parte del corpo. Ad ogni istante, e più rapidamente ancora, i processi mentali cambiano e si manifestano attraverso dei mutamenti fisici. Questa è la realtà della mente e della materia: mutevolezza e impermanenza, in pali anicca. Ogni cosa cambia, incessantemente, dentro di noi, sia a livello fisico che mentale. Tutto, nel mondo esterno, si trasforma continuamente. Se l’impermanenza è una realtà che, prima, potevamo solo intuire a livello intellettuale, con la pratica di Vipassana abbiamo la possibilità concreta di sperimentarla
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dentro la struttura del nostro corpo. L’esperienza della transitorietà delle sensazioni ci farà prendere atto della nostra natura effimera. Ogni particella del corpo, ogni processo mentale è in uno stato di continuo fluire. Non c’è niente che permanga oltre il singolo istante, nessun nucleo a cui potersi aggrappare, nulla che si possa chiamare “io” o “mio”. Ognuno di noi è una combinazione di processi in continuo mutamento. Arriveremo anche a comprendere un’altra verità fondamentale: la non esistenza di un io reale, di un sé o di un ego permanente, anatt±. L’ego, a cui siamo così attaccati, è un’illusione creata dalla combinazione di processi fisici e mentali, che sono in costante fluire. Dopo aver esplorato il corpo e la mente fino ai livelli più profondi, verificheremo che non c’è un nucleo immutabile, un’essenza che sia indipendente dai processi, nulla che sia esente dalla legge dell’impermanenza. C’è solamente un fenomeno impersonale, che cambia continuamente, al di fuori del nostro controllo. Allora, diverrà chiara un’altra realtà. L’attacca mento a ciò che è impermanente, transitorio, illusorio e fuori dal nostro controllo è sofferenza, dukkha.
L’equanimità Come si fa a non essere infelici? Come si può vivere senza soffrire? Invece di perseverare nell’abitudine a desiderare, continuamente, solo esperienze piacevoli e a rifiutare quelle spiacevoli, dobbiamo imparare ad osservare ogni fenomeno mentale e fisico oggettivamente, con equanimità, senza reagire. Sembra abbastanza semplice, ma che fare quando,
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ad esempio, ci sediamo con l’intenzione di meditare per un’ora e dopo dieci minuti ci fanno male le ginocchia? Cominciamo subito a odiare il dolore, a volere che se ne vada. Poiché non se ne va, lo rifiutiamo, ed ecco che esso aumenta ancora di più; al dolore fisico si aggiunge quello mentale, e la sofferenza si acuisce ulteriormente. Quando invece riusciamo ad osservare in maniera distaccata, anche solo per un momento, il dolore fisico, ci liberiamo, sia pur temporaneamente, dall’illusione che ci fa credere che si tratta del nostro dolore, e che siamo noi a sentire quel dolore. Quando possiamo esaminare quella sensazione oggettivamente, come un medico esamina il dolore di qualcun altro, allora ci accorgiamo che il dolore cambia continuamente, non è stabile, continua a trasformarsi ad ogni istante, se ne va, ricomincia, cambia di nuovo. Nel momento in cui comprendiamo, per esperienza, questa realtà, scopriamo che il dolore non può più sopraffarci. Forse se ne andrà via rapidamente, forse no, ma non sarà più così importante. Allora non soffriremo più per il dolore, perché potremo osservarlo con distacco.
La via che conduce alla liberazione Possiamo liberarci dalla sofferenza sviluppando consapevolezza ed equanimità. La sofferenza nasce dall’ignoranza della nostra realtà. Nel buio di questa ignoranza, la mente reagisce ad ogni sensazione con piacere o dispiacere, desiderio o avversione. Ogni reazione crea sofferenza immediata, e mette in moto una catena di eventi che, in futuro, porterà altra sofferenza.
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Come si può rompere questa catena di cause ed effetti? Per determinate cause (v. capitolo quarto: L’origine interdipendente), la vita è cominciata, il flusso di mente e materia ha avuto inizio. Che cosa possiamo fare? Dovremmo forse suicidarci? No, questo non risolverebbe. Nel momento in cui ci si uccide, la mente è colma d’infelicità, colma di avversione; una tale azione non può condurre alla felicità. La vita ha avuto inizio e da essa non si può scappare. Allora si dovrebbero distruggere le sei basi dell’esperienza sensoriale? In questo caso si dovrebbero distruggere occhi, lingua, naso e orecchie, ma come distruggere il corpo? Come distruggere la mente? Si tratterebbe di nuovo di suicidio, ossia di un atto non risolutivo. Allora si dovrebbero distruggere gli oggetti propri di ognuna delle sei basi sensoriali, tutte le cose visibili, i suoni e così via? Non è possibile. L’universo è pieno di oggetti, come distruggerli tutti? Dato che le sei basi sensoriali esistono, è impossibile evitare il contatto con i rispettivi oggetti; e, appena avviene il contatto, proviamo una sensazione. Ed è proprio questo il punto in cui la catena può essere spezzata: infatti, nell’istante in cui sorge la sensazione, si manifesta una reazione di piacere o dispiacere. Queste inconsce e momentanee reazioni, cominciano immediatamente a moltiplicarsi e intensificarsi fino a trasformarsi in bramosia, avversione e attaccamento, rendendoci infelici subito, e gettano le basi per altra infelicità nel futuro. È un’abitudine che ripetiamo meccanicamente. Con la pratica di Vipassana, possiamo, invece, sviluppare la consapevolezza di ogni sensazione e la qualità dell’equanimità: la capacità di non reagire. Possiamo imparare ad esaminare la sensazione in modo imparziale, senza che ci piaccia o ci dispiac-
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cia, senza bramosia, avversione e attaccamento. Le sensazioni, invece di darci l’impulso a generare nuove reazioni, diventano occasione per realizzare la saggezza, la comprensione profonda della realtà: tutto ciò che è impermanente, transitorio, è destinato a cambiare, a sorgere per poi sparire. La catena è stata spezzata, la sofferenza è stata fermata. Non essendoci più alcuna nuova reazione di bramosia o avversione, non ci sarà nessuna causa da cui la sofferenza potrà scaturire. La causa della sofferenza è la nostra azione mentale, ovvero la reazione di piacere o dispiacere che, per ignoranza, generiamo nella mente. Quando la mente è consapevole della sensazione, e mantiene l’equanimità, non c’è reazione, e quindi non ci sono i presupposti per il sorgere della sofferenza. Il Buddha disse: Tutti i saªkh±ra [tutte le cose esistenti, n.d.r.] sono impermanenti. Quando realizzerete ciò, con vera comprensione profonda, allora vi staccherete dalla sofferenza: questo è il sentiero della purificazione 6. Qui, la parola saªkh±ra ha un significato molto ampio. Essa indica sia la reazione mentale sia il risultato di tale azione, il suo frutto. Da un certo seme, un certo frutto. Ogni cosa che incontriamo nella vita è, in ultima analisi, il risultato delle nostre azioni mentali. Nel senso più ampio, quindi, saªkh±ra significa tutto ciò che si è formato e composto in questo mondo condizionato. Quando il Buddha dice: “Tutte le cose esistenti (saªkh±ra) sono impermanenti”, si deve intendere ogni cosa che esiste nell’universo, sia essa mentale o fisica. Quando osserviamo
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questa verità, con la saggezza basata sull’esperienza, la sofferenza scompare, perché abbandoniamo la sua causa, cioè l’abitudine a generare bramosia e avversione. Questo è il sentiero della liberazione. Lo sforzo sta nell’apprendere a non reagire, a non aggiungere nuove reazioni a quelle già accumulate. Sorge una sensazione ed ha inizio una reazione di piacere o di dispiacere. Se non siamo consapevoli di quest’azione mentale transitoria, essa si ripete e si intensifica fino a trasformarsi in bramosia ed avversione, diventando un’emozione forte, che opprime la mente conscia. Siamo imprigionati dall’emozione, e tutti i nostri migliori propositi sono spazzati via. Il risultato è che compiamo azioni fisiche e vocali, dannose per noi e per gli altri. A causa di un momento di reazione cieca, ci procuriamo dolore e sofferenza, ora e in futuro. Se, invece, siamo consapevoli del punto in cui il processo di reazione inizia – se siamo cioè consapevoli della sensazione – possiamo scegliere di non permettere alle reazioni di aver luogo e di intensificarsi. Impariamo ad osservare la sensazione senza reagire, senza provare né piacere né dispiacere per essa: semplicemente osserviamo il suo sorgere e svanire. In questo modo, la bramosia e l’avversione non ci possono sopraffare. La mente rimane in equilibrio, in pace. Siamo felici subito, poiché non abbiamo reagito, e lo saremo anche in futuro perché non abbiamo creato condizioni di infelicità. Questa capacità di non reagire è di grande valore; infatti, quando siamo consapevoli della sensazione all’interno del corpo, e al tempo stesso manteniamo l’equanimità, in quegli istanti, la mente è libera. All’inizio, durante la meditazione, questi momenti di consapevolezza equanime saranno brevissimi;
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la maggior parte del tempo la mente resterà invischiata nella vecchia abitudine a reagire alle sensazioni, alimentando il circolo vizioso di bramosia, avversione ed infelicità. Con una pratica ripetuta, tuttavia, quegli attimi diventeranno secondi, e poi minuti, finché l’abitudine alla reazione scomparirà, e la mente sarà in pace. Ecco come la sofferenza può essere fermata. Ecco come possiamo smettere di procurarci infelicità.
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Domande e risposte
Domanda: Perché seguire un ordine preciso nel far scorrere l’attenzione lungo il corpo? Goenka: Perché vi state impegnando a esplorare la realtà della mente e della materia. Per farlo, è necessario sviluppare la capacità di percepire le sensazioni in ogni parte del corpo, in modo da riuscire a percepire e osservare tutta la gamma delle sensazioni. Nessuna parte dovrebbe rimanere inosservata e insensibile. Il Buddha così descrisse la pratica: In ogni luogo dentro i confini del corpo, dovunque ci sia vita nel corpo, si sperimentano sensazioni 7. Se permettete all’attenzione di muoversi a caso da una parte all’altra, di saltare da una sensazione ad un’altra, istintivamente la mente sarà attratta dalle zone in cui vi sono sensazioni più intense. La vostra osservazione rimarrà incompleta e superficiale. È essenziale, quindi, muovere sempre l’attenzione con ordine. Come capire che non stiamo creando delle sensazioni? Fate una prova. Se dubitate che le sensazioni che provate siano reali, potete darvi due o tre ordini, provare ad autosuggestionarvi. Se le sensazioni cambiano a vostro comando, significa che non sono reali. In tal caso lasciate da parte questa esperien-
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za e ricominciate a osservare il respiro per un po’. Se invece scoprite di non poterle controllare, e che non cambiano a vostro piacimento, allora scacciate i dubbi e accettate l’esperienza come reale. Se queste sensazioni sono reali, perché non le proviamo nella vita quotidiana? A livello inconscio le provate sempre. La mente conscia ne è inconsapevole, ma in ogni momento la mente inconscia prova sensazioni nel corpo e reagisce ad esse. Questo processo avviene ventiquattro ore su ventiquattro. Con la pratica di Vipassana, si abbattono le barriere che separano il conscio dall’inconscio. Si diventa consapevoli di ogni cosa che accade all’interno della struttura fisica e mentale. Permettere a noi stessi di provare deliberatamente dolore fisico può sembrare masochismo. Lo sarebbe, se vi si chiedesse di sperimentare solo dolore, ma vi si chiede di osservarlo oggettivamente. Quando osservate senza reagire, la mente inizia a penetrare oltre la realtà apparente del dolore, fino a raggiungere la consapevolezza della sua natura più sottile, che consiste in vibrazioni che nascono e svaniscono ad ogni istante. Quando sperimentate questa sottile realtà, il dolore non può più sopraffarvi. Siete voi i padroni di voi stessi, siete liberi dal dolore. Il dolore può essere un segnale che c’è insufficienza di sangue in qualche parte del corpo. È saggio ignorare tale segnale? Questo esercizio non causa danni. Altrimenti non ve lo raccomanderemmo. Migliaia di persone hanno
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praticato questa tecnica. Non conosco un solo caso in cui qualcuno, che si stava esercitando in modo corretto, si sia fatto del male. L’esperienza comune è che il corpo diventa docile e flessibile. Il dolore andrà via, quando imparerete ad affrontarlo con mente equilibrata. È possibile praticare Vipassana osservando una delle sei porte dei sensi, per esempio, osservando il contatto degli occhi con un’immagine e delle orecchie con un suono? Certamente, ma anche in quest’osservazione ci deve essere la consapevolezza della sensazione. Ogni volta che avviene un contatto a queste sei porte dei sensi – occhi, orecchie, naso, lingua, corpo, mente – si produce una sensazione. Rimanendone inconsapevoli, si perde di vista il punto in cui inizia la reazione. Il contatto, con la maggior parte dei sensi, avviene solo ad intermittenza; ad esempio a volte le orecchie possono udire un suono e a volte no. Ai livelli più profondi, invece, ad ogni istante c’è un contatto tra mente e materia, che fa sorgere costantemente sensazioni: per questa ragione, osservare le sensazioni nel corpo è la via più adatta per sperimentare l’impermanenza. Prima di tentare di osservare le altre porte dei sensi, è necessario padroneggiare questa via. Come può esserci progresso, se dobbiamo solo accettare e osservare ogni cosa così come viene? Il progresso si misura dallo sviluppo dell’equanimità. Non avete altra scelta che l’equanimità, perché non potete cambiare le sensazioni, e non potete creare le sensazioni. Possono essere gradevoli o sgra-
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devoli, di questo o di quel tipo, ma se mantenete l’equanimità, perdendo l’abitudine mentale alla reazione, state certamente progredendo. Questo accade nella meditazione, ma nella vita? Quando nella vita quotidiana c’è un problema, bisogna fermarsi il tempo necessario per osservare le nostre sensazioni con mente equilibrata. Quando la mente è calma ed equilibrata, qualsiasi decisione si prenda sarà buona. Quando la mente è turbata, la decisione sarà una reazione. Imparate a trasformare il vostro comportamento, in modo da passare da reazioni negative ad azioni positive. Allora, se non si è in collera o critici, ma si nota che qualcosa può essere fatto in modo diverso, e migliore, si può andare avanti e agire? Sì, bisogna agire. La vita è fatta per l’azione, non bisogna diventare inattivi, ma l’azione va compiuta con mente equilibrata. Oggi stavo impegnandomi per sentire una sensazione in una parte del corpo che era intorpidita, e non appena la sensazione è sorta, la mente ha fatto un sobbalzo, mi sono sentito come se avessi segnato un punto per la mia squadra. Ed ho sentito un urlo dentro di me: “Bene!” Poi ho pensato: “No, non voglio reagire così”. Mi chiedo: come posso assistere ad una partita di pallacanestro o di calcio, e non reagire? Nelle varie situazioni di una partita di calcio, scoprirete di divertirvi un mondo se “agirete”, invece di reagire. Infatti, il piacere accompagnato dalla tensione della reazione, non è vero piacere. Quando non
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reagiamo più, la tensione scompare, e solo allora possiamo cominciare a godere la vita. Allora posso saltare su e giù e gridare come voglio? Sì, con equanimità. Fatelo con equanimità. E che cosa faccio se la mia squadra perde? In quel caso potrete sorridere e dire: – Siate felici! –. Siate felici in ogni situazione! Mi sembra un presupposto fondamentale. Sì!
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I due anelli
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n uomo ricco morì in età avanzata, lasciando due figli. Per qualche tempo essi continuarono a vivere secondo l’usanza indiana tradizionale, in un’unica famiglia allargata. Poi litigarono, decisero di separarsi e di dividere al cinquanta per cento le proprietà. A transazione avvenuta, trovarono un pacchettino che il padre aveva nascosto con cura. Lo aprirono e vi trovarono due anelli: uno aveva un diamante di notevole valore, l’altro era un semplice anello d’argento da poche rupie. Vedendo il diamante, il fratello più anziano, preso dall’avidità, cominciò a spiegare al giovane: – Mi sembra che quest’anello non sia proprietà di nostro padre ma, piuttosto, un bene ereditato dagli antenati, e per questo l’ha tenuto separato dalle altre proprietà. Poiché è stato conservato in famiglia per generazioni, deve rimanere per la generazione futura; ed essendo il primogenito, lo conserverò io. È meglio che tu prenda l’anello d’argento. Il più giovane sorrise e rispose: – Va bene, sii felice con l’anello di diamanti. io sarò felice con quello d’argento. Entrambi se li infilarono al dito e se ne andarono per la loro strada. “È comprensibile che mio padre abbia custodito l’anello di diamanti, che è di grande valore, ma per-
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La pratica della saggezza
ché conservare un comune anello d’argento?”, pensava il più giovane. Lo esaminò attentamente e vide una scritta incisa all’interno: “Anche questo cambierà”. “Ecco il motto di mio padre”, pensò, “Anche questo cambierà”. E rimise l’anello al dito. Entrambi i fratelli dovettero affrontare gli alti e i bassi della vita. Quando arrivava la primavera, il fratello più anziano, si esaltava, perdendo l’equilibrio mentale. Quando arrivava l’autunno o l’inverno, era colto da depressione. Divenne teso e sviluppò una forte ipertensione. Incapace di dormire, iniziò ad assumere sonniferi, tranquillanti e ogni sorta di farmaci, sempre più forti. Le sue condizioni peggiorarono, al punto che fu necessario sottoporlo a elettroshock! Questo era il fratello con l’anello di diamante. Il fratello più giovane, quando arrivava la primavera ne godeva. Guardando il suo anello si diceva: “Anche questo cambierà”. Quando cambiava, poteva sorridere e dire: – Bene, sapevo che stava per cambiare. È cambiato, ecco tutto! Quando l’autunno o l’inverno arrivavano, di nuovo guardava il suo anello e pensava: “Anche questo cambierà”. Non si lamentava mai, sapendo che tutto sarebbe cambiato. E tutto davvero cambiava, passava, finiva. Negli alti e bassi della vita, durante tutte le vicissitudini egli sapeva che nulla è eterno, che ogni cosa viene solo per andarsene. Così non perse l’equilibrio mentale e visse una vita felice e in pace. Questo era il fratello con l’anello d’argento.
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CAPITOLO OTTAVO
Consapevolezza ed equanimità
I
fondamenti della meditazione Vipassana sono la consapevolezza e l’equanimità; sono entrambe essenziali, e se l’una o l’altra è debole, non è possibile avanzare sul sentiero. Come un uccello ha bisogno di due ali uguali per volare correttamente, un carro di due ruote della stessa dimensione per non girare in tondo, così il meditatore deve coltivare queste due qualità in egual misura, per raggiungere la meta. Se siamo consapevoli, ma privi di equanimità, più diventiamo coscienti e sensibili alle sensazioni, più aumentano le probabilità di reagire, e di conseguenza aumenta la nostra sofferenza. D’altra parte, se siamo equanimi, ma ignoriamo le sensazioni, la nostra equanimità è superficiale, perché non ci accorgiamo delle continue reazioni che si avvicendano nelle profondità della mente. È necessario, quindi, impegnarsi per sviluppare sempre più consapevolezza ed equanimità. Per raggiungere la consapevolezza della totalità di mente e materia, nella loro natura più sottile, non è sufficiente aver cognizione degli aspetti superficiali del corpo e della mente, come i movimenti fisici e i pensieri; occorre sviluppare la con-
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Consapevolezza ed equanimità
sapevolezza di tutte le sensazioni, anche di quelle più sottili e impercettibili, e nello stesso tempo rimanere equanimi nei loro confronti. Occorre essere consapevoli di tutto ciò che accade in noi senza reagire, comprendendo che ogni sensazione è un fenomeno impermanente, in continuo mutamento. La saggezza reale è quella che nasce da questa osservazione continua ed equanime della realtà così come è, e dalla constatazione della natura impermanente di ogni sensazione. Il Buddha la definì: yath±-bh³ta-ñ±ºa-dassana, ovvero “saggezza che nasce dall’osservare la verità, così come si manifesta”. Quest’atteggiamento di osservazione oggettiva della realtà, favorisce l’eliminazione di tutti i nostri condizionamenti di bramosia e avversione. Agendo in tal modo, non saremo più gli artefici della nostra infelicità, e la nostra sofferenza sarà eliminata.
Il deposito delle reazioni passate Coltivare consapevolezza ed equanimità: questa è la via per smettere di generare nuove reazioni, e così nuove infelicità. Ma c’è una dimensione della nostra sofferenza ancor più radicata, con la quale dobbiamo confrontarci. A causa delle nostre reazioni passate, vecchi condizionamenti si sono accumulati nel nostro inconscio formando un deposito e, anche se da oggi non generassimo nuove reazioni, tali condizionamenti continueranno a causarci sofferenza. La parola saªkh±ra, abitualmente tradotta come reazione, condizionamento mentale e attività di volizione della mente, significa anche “formazione”, cioè “azione che produce frutti”, intendendo con
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CAPITOLO OTTAVO
ciò, sia l’atto del suo formarsi attraverso la reazione, sia ciò che è stato formato, ossia il risultato della reazione avvenuta. Ogni reazione è l’ultimo passo, il risultato di una sequenza di processi mentali, ma può anche essere il primo passo, la causa di una nuova concatenazione di eventi mentali*. Ogni saªkh±ra è formato dai processi reattivi e, al tempo stesso, in qualità di reazione, condiziona anche i processi mentali successivi. Il condizionamento opera influenzando la seconda funzione mentale, la percezione (v. capitolo secondo), e non la coscienza, che, fondamentalmente indifferenziata e non discriminante, ha il solo scopo di registrare i contatti che avvengono nella mente e nel corpo. La percezione è discriminante, e attinge dal deposito delle esperienze passate per valutare e catalogare ogni fenomeno, ogni nuova esperienza. In altre parole, giudichiamo e classifichiamo ogni nuova esperienza, basandoci sulle nostre passate reazioni e sui condizionamenti da esse generati. È così che le vecchie reazioni di bramosia e avversione influenzano la nostra percezione del presente. Invece di vedere la realtà così com’è, la vediamo come attraverso lenti affumicate. La nostra percezione del mondo esterno e di quello interno è distorta e oscurata dai nostri condizionamenti; di conseguenza la sensazione, che * (n.d.r.) La duplice funzione del saªkh±ra è spiegata nell’insegnamento sull’origine interdipendente (v. capitolo quarto): come secondo anello della catena, saªkh±ra è la pre– condizione del sorgere della coscienza (cioè la reazione che determina un nuovo movimento di attività della coscienza); come attività reattiva, costituisce l’ultimo della serie dei processi mentali, dopo coscienza, percezione e sensazione. Questa reazione di bramosia e avversione alla sensazione è l’inizio di una nuova fase di attività fisica e mentale.
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Consapevolezza ed equanimità
nasce neutra, viene immediatamente percepita come piacevole o spiacevole. L’abitudine della mente a valutare e a reagire è rafforzata ad ogni nuova reazione, e aumenta la percezione distorta della realtà. Continuando a reagire in base a queste distorsioni, diamo vita a sempre nuovi condizionamenti, capaci di deformare ulteriormente la nostra percezione. Questo processo si ripete incessantemente. Ogni reazione diventa la causa di future reazioni, tutte condizionate dal passato e capaci di condizionare il futuro. Così il processo si autoalimenta. Ogni reazione mette in moto una catena di eventi che dà il via a nuove reazioni, che a loro volta innescano altre reazioni, in una sequenza di eventi che si ripete all’infinito, creando un circolo vizioso. Ogni volta che reagiamo, rafforziamo l’attitudine mentale alla reazione. Ogni volta che sviluppiamo bramosia e avversione, rafforziamo la tendenza della mente a continuare a generarle. E, quando questo schema mentale si è ben radicato, ne diventiamo prigionieri. Per esempio, un uomo impedisce ad un altro di ottenere l’oggetto che desidera. Chi non ha potuto soddisfare il suo desiderio giudicherà l’altro negativamente e lo detesterà. Quest’opinione – profondamente impressa nella sua mente inconscia – non è basata su considerazioni circa il carattere di colui che lo ha ostacolato, ma solo sul fatto che gli ha impedito di soddisfare un desiderio. Ad ogni successivo incontro con quella persona, egli porterà impresso nella mente il suo giudizio iniziale, che susciterà sensazioni spiacevoli, alle quali nuovamente reagirà, accrescendo la sua avversione, e il giudizio negativo si rafforzerà. Ecco il circolo vizioso. Anche se i due si rincontreranno dopo un intervallo di vent’anni, la persona frustrata ancora proverà la stessa antipatia
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CAPITOLO OTTAVO
per l’altro. In vent’anni, il carattere di quell’uomo potrebbe essere totalmente cambiato, ma egli lo giudicherà secondo i criteri dell’esperienza vissuta in precedenza. La reazione non avverrà nei confronti dell’uomo in sé, ma dell’opinione che egli si è formata su di lui, basata sulla prima reazione. Un altro esempio: un uomo aiuta un altro ad ottenere un oggetto desiderato. La persona che è stata aiutata giudicherà l’altro positivamente e lo stimerà. Anche in questo caso, l’opinione sarà basata sul solo fatto che lo ha aiutato a soddisfare il suo desiderio, non su un’attenta considerazione del carattere. L’opinione positiva sarà registrata nella mente inconscia e connoterà ogni successivo incontro, facendo sorgere sensazioni piacevoli, che avranno come effetto una simpatia ancora più forte, che a sua volta rafforzerà ulteriormente l’opinione iniziale. Per quanti anni possano trascorrere tra un incontro e l’altro, lo stesso modello si ripeterà ogni volta. Sia la persona frustrata che quella gratificata non reagiranno all’individuo in se stesso, ma esclusivamente all’ opinione basata sulla prima reazione. È così che ogni reazione del passato influenza la reazione nel presente; questa determinerà a sua volta altre reazioni, innestando un processo di moltiplicazione delle reazioni, che non porteranno altro che sofferenza. Pensiamo di confrontarci con la realtà esterna, mentre in realtà, stiamo reagendo alle nostre sensazioni, che sono condizionate dalle nostre percezioni, a loro volta condizionate dalle nostre reazioni. E, anche se “da ora” smettessimo di generare nuove reazioni, dovremmo comunque fare i conti con quelle accumulate nel passato. Per questo motivo, permane latente in noi, la tendenza a reagire, che può riaffermarsi in qualsiasi circostanza.
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Consapevolezza ed equanimità
Finché persisterà questo condizionamento, non saremo liberi dalla sofferenza. Come sradicare le vecchie reazioni? Per trovare una risposta, è necessario comprendere a fondo il metodo della meditazione Vipassana.
Sradicare le vecchie reazioni Vipassana consiste nell’osservazione delle sensazioni del corpo. Lo scopo è arrivare a comprendere che ogni sensazione indica un cambiamento, mentale o fisico; e quindi non dobbiamo interessarci alla causa della sensazione, sarebbe solo una inutile perdita di energia. Essendo mente e corpo interdipendenti, spesso non ci è possibile distinguere dove sta avvenendo il mutamento, perché ciò che accade in un ambito si riflette nell’altro. A livello fisico (v. capitolo secondo), il corpo è composto di particelle subatomiche che in ogni momento nascono e svaniscono con grande rapidità, manifestando, in un’infinita varietà di combinazioni, le qualità basilari della materia: massa, coesione, temperatura e movimento; esse danno origine all’intera gamma delle sensazioni corporee. Vi sono quattro possibili cause per il sorgere di queste particelle subatomiche (due fisiche e due mentali). La prima è il cibo che mangiamo, la seconda è l’ambiente in cui viviamo. La terza è la reazione mentale in corso, e la quarta sono le reazioni mentali accumulate nel passato, che influenzano lo stato mentale presente. Il corpo ha bisogno di cibo, ma anche senza ali menti non collassa subito; può continuare a soste-
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CAPITOLO OTTAVO
nersi per settimane, consumando le energie accumulate. Quando tutte si sono esaurite, il corpo muore: il flusso fisico arriva alla fine. Allo stesso modo, la mente deve restare attiva per sostenere il fluire della coscienza, e l’attività mentale è la reazione. Secondo l’insegnamento dell’origine interdipendente, la coscienza ha origine dalle reazioni (v. capitolo quarto). Ogni reazione mentale dà impulso al fluire della coscienza, ma, mentre il corpo richiede cibo solo a intervalli, la mente richiede stimolazioni continue. Senza queste, il fluire della coscienza non può continuare neanche per un istante. Per esempio, se si genera avversione, la coscienza che sorge nel momento successivo, sarà il prodotto di questa avversione. E il susseguirsi delle reazioni di questo tipo darà alla mente sempre nuovi impulsi e, di conseguenza, energia alla coscienza per riprodursi. Imparando a non reagire, evitiamo di dare nuovi stimoli alla mente; che cosa accade, allora, al flusso psichico? Esso non si ferma subito, perché una delle reazioni accumulate nel passato affiora alla superficie della mente per alimentarlo e sostenerlo. A causa del sorgere di questa passata reazione mentale, la coscienza continua per un altro momento e, a livello fisico, nasce un particolare tipo di particella subatomica, che noi percepiamo come sensazione fisica. Per esempio, sorge un condizionamento passato di avversione, il quale si manifesta attraverso particelle che sperimentiamo nel corpo come sensazioni di bruciore. Se reagiremo con fastidio, creeremo nuova avversione, dando energia al fluire della coscienza: in questo modo impediremo ai vecchi condizionamenti di emergere in superficie e andarsene. Se, invece, non reagiremo alla sensazione, non daremo vita a nuovi condiziona-
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menti, dando la possibilità a quelli passati di emergere e di andarsene. Nell’istante successivo, sorgerà un’altra reazione del passato, manifestandosi come sensazione. E se di nuovo non reagiremo, essa se ne andrà, consumando parte di quell’energia accumulata in passato, che sarebbe servita a sostenere il flusso della coscienza. Le reazioni accumulate nel passato affioreranno, una dopo l’altra, alla superficie della mente (manifestandosi come sensazioni); se manterremo consapevolezza ed equanimità verso di esse, gradualmente i condizionamenti passati saranno sradicati. Finché permarranno condizionamenti di avversione, tuttavia, la tendenza inconscia della mente sarà quella di reagire con avversione alle esperienze spiacevoli. E, finché permarranno condizionamenti di bramosia, la mente tenderà a reagire con bramosia ad ogni situazione piacevole. Anche queste risposte automatiche potranno essere eliminate con la pratica di Vipassana: osservando continuamente le sensazioni piacevoli e spiacevoli con equanimità, indeboliremo gradualmente la tendenza a generare bramosia e avversione, fino ad annullarla. Quando un certo tipo di risposte condizionate sarà sradicato, saremo liberi da quel tipo di sofferenza. E quando tutte le risposte condizionate saranno state sradicate, la mente sarà completamente libera. Dopo aver compreso questo processo il Buddha affermò: In verità, impermanenti sono le cose condizionate, avendo esse la natura del nascere e del passare. Se nascono e vengono estinte, il loro sradicamento porta la vera felicità 1.
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Ogni reazione nasce e scompare, per sorgere di nuovo nell’istante successivo, in un ciclo infinito di ripetizioni. Quando svilupperemo saggezza, e cominceremo ad osservare oggettivamente, senza reagire, l’abitudine mentale alla reazione si esaurirà, il ciclo delle ripetizioni s’interromperà, e avrà inizio l’eliminazione dei condizionamenti. Strato dopo strato, le reazioni del passato emergeranno e saranno sradicate. Tante più reazioni e condizionamenti del passato avremo sradicato, tanta più felicità godremo: la felicità della libertà dalla sofferenza. Quando tutte le reazioni del passato saranno sradicate, sperimenteremo la felicità illimitata della piena liberazione. In ogni momento, per tutta la vita, abbiamo generato reazioni, ma, quando impareremo a rimanere consapevoli ed equilibrati, vi saranno momenti in cui non reagiremo, e quindi non genereremo nuove reazioni. Questi momenti, per quanto brevi, saranno molto potenti e metteranno in moto il processo di purificazione. Perché ciò avvenga, non dobbiamo proprio fare nulla, ma solo astenerci da ogni reazione. Qualunque sia la causa delle sensazioni che proviamo, dobbiamo osservarle con equanimità. Con una pratica paziente, ripetuta e continua, i momenti equanimi aumenteranno, e i momenti reattivi diminuiranno. Come l’atto di accendere la lampada disperde l’oscurità nella stanza, così il momento di consapevolezza ed equanimità elimina le vecchie reazioni. Il Buddha narrò la storia di un uomo che aveva compiuto molte opere di carità, concludendola in questo modo: Anche se costui ha compiuto gli atti più caritatevoli, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui rifugiarsi col cuore
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disponibile nell’Illuminato, in Dhamma e in tutte le persone sante. E dopo aver fatto questo, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui impegnarsi col cuore disponibile nei cinque precetti. E dopo di ciò, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui coltivare la benevolenza verso tutti, giusto il tempo necessario a mungere una mucca. E una volta fatto tutto questo, sarebbe stato ancor più fruttuoso per lui sviluppare la consapevolezza dell’impermanenza, giusto per il tempo necessario a schioccare le dita 2.
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CAPITOLO OTTAVO
Domande e risposte
Domanda: Oggi ho trovato una nuova posizione in cui era facile sedere a lungo senza muovermi, mantenendo la schiena eretta, ma non ho potuto provare molte sensazioni. Mi chiedo se le sensazioni verranno, o se devo ritornare alla vecchia posizione. Goenka: Non cercate di creare sensazioni scegliendo una posizione scomoda. Se quello fosse il modo giusto di praticare, vi chiederemmo di sedere su un letto di chiodi! Tali estremi non aiutano. Scegliete una posizione confortevole, in cui il corpo sia eretto, e lasciate che le sensazioni vengano naturalmente. Le sentirete perché esse ci sono. Non cercate di crearle, lasciate che si manifestino per conto loro. E nemmeno aspettatevi di percepire sensazioni già provate in precedenza. Ho provato sensazioni più sottili delle precedenti. Nella mia prima posizione era arduo rimanere seduto, anche per poco, senza muovermi. Allora è bene che abbiate trovato una posizione più confortevole. Ora lasciate che la sensazione sia naturale. Forse alcune sensazioni forti sono scomparse, ed è il momento per voi di incontrare quelle più sottili, ma la mente non è ancora tanto acuta da sentirle. Per renderla più acuta, siate consapevoli della respirazione per un po’, in questo modo la concentrazione migliorerà, e vi sarà più facile sentire le sensazioni sottili.
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Consapevolezza ed equanimità
È meglio provare sensazioni forti, per eliminare le reazioni del passato? Non soltanto, perché alcune impurità si manifestano anche con sensazioni molto sottili. Osservate qualsiasi cosa appaia, lieve o intensa che sia. Dobbiamo cercare di identificare quale tipo di sensazione è associata ad ogni reazione? Sarebbe un’inutile perdita di energia. Come se lavando un vestito, ci si soffermasse su ogni macchia per capirne la causa. Questo non aiuterebbe nel lavoro di pulizia; quel che aiuta è avere e usare, nel modo giusto, un sapone da bucato. Se il vestito è lavato correttamente, tutto lo sporco scompare. Allo stesso modo, chi ha ricevuto il sapone di Vipassana, deve usarlo per rimuovere le impurità della mente. Chi cerca la causa di particolari sensazioni, sta facendo un’analisi intellettuale, che non gli permetterà di sperimentare, attraverso le sensazioni, la realtà dell’impermanenza e dell’illusione dell’io. In questo modo, non potrà liberarsi concretamente dalla sofferenza. Sono confuso a proposito di chi osserva, e di chi o cosa viene osservato. Nessuna risposta intellettuale può essere soddisfacente. Ognuno deve indagare per proprio conto per scoprire chi è questo io. Bisogna continuare ad esplorare, ad analizzare. Cercate se c’è qualche io da qualche parte e, se lo trovate, osservatelo, ma se non trovate niente, allora dovete accettare: “Questo io è un’illusione”.
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CAPITOLO OTTAVO
Alcuni tipi di condizionamenti mentali non sono forse positivi? Perché cercare di sradicarli? I condizionamenti positivi ci stimolano a impegnarci per raggiungere la liberazione dalla sofferenza, ma una volta che questo scopo sarà raggiunto, tutti i condizionamenti, positivi e negativi, dovranno essere abbandonati. È come se usassimo una zattera per attraversare un fiume: una volta attraversato, che senso avrebbe proseguire il viaggio portandosela dietro? Una volta che avrà servito lo scopo, la zattera andrà abbandonata3. Allo stesso modo, chi si è liberato non ha più condizionamenti. Non ci si libera grazie ai condizionamenti positivi, ma grazie alla purezza della mente. Perché sperimentiamo sensazioni spiacevoli quando iniziamo a meditare con Vipassana, e perché le sensazioni piacevoli arrivano dopo? All’inizio, Vipassana sradica le impurità mentali più grossolane. Per esempio, quando puliamo un pavimento, prima raccogliamo i rifiuti più grossi e dopo la polvere più fine. Analogamente con Vipassana: prima vengono sradicate le impurità mentali più grossolane, mentre le più sottili rimangono nelle profondità della mente per apparire in seguito come sensazioni piacevoli. Sviluppare bramosia per queste sensazioni piacevoli è fuorviante, perché si rischia di scambiare una piacevole esperienza sensoriale come la meta finale. Per sradicare tutte le reazioni condizionate bisogna continuare ad osservare ogni sensazione oggettivamente. Ha affermato che ognuno ha i suoi panni sporchi, ed anche il sapone per lavarli. Oggi mi sento come se fossi rimasto pres-
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Consapevolezza ed equanimità
soché senza sapone! Questa mattina la meditazione è stata molto intensa, ma nel pomeriggio, ho cominciato a sentirmi realmente disperato e arrabbiato, e a chiedermi quale fosse l’utilità di tutto ciò. È stato come se, proprio quando la meditazione era più forte, sorgesse un nemico interno – l’ego forse – a mettermi fuori combattimento. Sentivo inoltre di non avere la forza per combatterlo. C’è un modo per ritirarsi, mettersi in disparte, così da non dover combattere tanto duramente? Mantenere l’equanimità, ecco la via più intelligente! Quello che avete sperimentato è assai naturale. Quando vi sembrava che la meditazione andasse per il meglio, la mente era equilibrata e penetrava in profondità nell’inconscio. Come risultato di tale operazione, una reazione del passato è stata smossa nelle profondità della mente ed è emersa alla superficie; così, nella seduta successiva, avete dovuto affrontare una burrasca di negatività. In tale situazione l’equanimità è essenziale, altrimenti la negatività potrebbe sopraffarvi e impedirvi di continuare a meditare. Se l’equanimità è debole, bisogna applicare la consapevolezza del respiro. Quando arriva una grossa burrasca, bisogna gettare l’ancora e aspettare che passi. In questi casi è il respiro che funge da ancora. Utilizzatelo, e la burrasca passerà. È bene che questa negatività sia emersa, perché solo così potrete liberarvene. Se saprete conservare l’equanimità, essa scomparirà facilmente. Se non provo dolore, posso ugualmente avere dei benefici? Se siete consapevoli ed equilibrati – dolore o no – state certamente progredendo. Non è necessario sentire dolore per compiere progressi sul sentiero.
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CAPITOLO OTTAVO
Se non c’è dolore, accettate il fatto che non c’è dolore. Bisogna solo osservare ciò che c’è. Ieri ho avuto un’esperienza in cui tutto il mio corpo si sentiva come dissolto, come se ovunque ci fosse solo una massa di vibrazioni. Sì? Mentre accadeva, ho ricordato che da bambino avevo avuto un’esperienza simile. Per tutti questi anni ho cercato una via per provare ancora questo tipo di esperienza. Ed eccola di nuovo. Sì? Naturalmente volevo che l’esperienza continuasse, la volevo prolungare, ma è cambiata e se n’è andata. Allora ho cercato di farla tornare, ma senza successo. Anzi, da questa mattina ho avuto solo esperienze grossolane. Sì? E poi ho compreso che mi stavo solo rendendo infelice nel cercare di ottenere quell’esperienza. Sì? E ho compreso che in realtà non siamo qui per fare esperienze particolari. Giusto? Giusto. Che in realtà siamo qui per imparare ad osservare ogni esperienza senza reagire. Giusto?
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Giusto. Allora, ciò di cui tratta questa meditazione è lo sviluppo dell’equanimità. Giusto? Giusto! Mi sembra che ci voglia un’eternità per eliminare una alla volta tutte le reazioni del passato. Sarebbe così, se un singolo momento di equanimità eliminasse una singola reazione, ma la consapevolezza delle sensazioni vi porta al livello più profondo della mente e vi permette di tagliare le radici dei condizionamenti. In questo modo, se consapevolezza ed equanimità sono forti, in un tempo relativamente breve potrete eliminare interi complessi di condizionamenti. Quanto tempo occorre per portare a termine questo processo di purificazione? Ciò dipende da quanto grande è il deposito di condizionamenti, e da quanto forte è la vostra meditazione. Non potete calcolare il vostro deposito, ma potete essere certi che più meditate seriamente, più vi avvicinate alla liberazione. Continuate a lavorare determinati a raggiungere la meta, e vedrete che la raggiungerete più presto di quanto pensiate.
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CAPITOLO OTTAVO
Racconto
Nient’altro che vedere
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n eremita, che viveva dove ora sorge Mumbai, era un autentico santo. Tutti quelli che lo incontravano, lo veneravano per la sua purezza mentale e molti affermavano che era pienamente liberato. Avendo udito ciò che dicevano di lui, cominciò a chiedersi: – È possibile che io sia davvero pienamente liberato? – Persona di grande onestà, si esaminò attentamente e vide che nella sua mente c’erano ancora tracce d’impurità. Egli sapeva che, finché le impurità non fossero scomparse del tutto, non avrebbe potuto raggiungere lo stadio della perfetta santità. Allora chiese a quelli che lo onoravano: – C’è qualcuno completamente liberato, oggi, nel mondo? – Sì – replicarono. – C’è il monaco Gotama, chiamato il Buddha, che vive nella città di S±vatth². È considerato pienamente liberato e insegna la tecnica che gli ha permesso di conseguire la liberazione. – Devo andare da quest’uomo – decise l’eremita. – Devo imparare da lui la via. Così partì, ed attraversando a piedi tutta l’India centrale, arrivò a S±vatth² (situata nel nord dell’India, nell’attuale Stato dell’Uttar Pradesh, n.d.r.) e raggiunse il centro di meditazione del Buddha. Subito domandò dove fosse possibile trovarlo.
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Consapevolezza ed equanimità
– È uscito per elemosinare il cibo in città. Aspettate qui e riposatevi dal viaggio, ritornerà tra poco – rispose un monaco. – Non posso aspettare. Non ho tempo per aspettare! Mostratemi la strada che ha preso e la seguirò. – Va bene, dato che insistete, la strada è quella. Potete trovarlo lì. Senza perdere un momento, l’eremita si mise di nuovo in cammino e arrivò nel centro della città, dove vide un monaco che andava di casa in casa elemosinando cibo. La meravigliosa atmosfera di pace e armonia che lo circondava, convinse l’eremita di essere proprio al cospetto del Buddha. Allora si avvicinò, s’inginocchiò in mezzo alla strada e gli toccò i piedi. – Signore – disse – mi è stato detto che siete pienamente liberato e che insegnate una via per ottenere la liberazione. Vi prego, insegnatemela. Il Buddha rispose: – Sì, vi posso insegnare questa tecnica, ma non ora, perché non è né il luogo né il tempo opportuno. Andate e aspettatemi al centro di meditazione. Vi rientrerò presto e ve la insegnerò. – No, non posso aspettare. – Ne siete certo? Neanche per mezz’ora? – No, non posso aspettare! Chissà, tra mezz’ora potrei anche esser morto. In mezz’ora potreste morire voi. In mezz’ora tutta la fiducia che ho in voi potrebbe venir meno e allora non sarei più in grado di imparare la tecnica. Ora, signore, è il tempo. Per favore, insegnatemela ora! Il Buddha lo guardò e comprese: – Sì, a quest’uomo resta poco tempo, morirà fra pochi minuti. Devo insegnargli il Dhamma, subito. Ma come posso farlo, qui in mezzo ad una strada? Allora pronunciò poche parole soltanto, che racchiudevano tutto l’insegnamento:
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CAPITOLO OTTAVO
Nel vostro vedere ci sia solo il vedere; nel vostro sentire nient’altro che il sentire; nel vostro odorare, assaporare, toccare nient’altro che odorare, assaporare, toccare; nel vostro conoscere nient’altro che il conoscere. Quando un oggetto viene in contatto con uno dei sensi, non ci deve essere alcuna valutazione. Quando valutiamo l’esperienza come buona o cattiva, piacevole o spiacevole, iniziamo a vedere la realtà in modo distorto, perché le nostre reazioni ci impediscono di vederla così come è. Per liberare la mente da tutti i condizionamenti, dobbiamo imparare a bloccare l’impulso a valutare ogni esperienza. Dobbiamo imparare ad essere consapevoli di ciò che sta accadendo, senza valutare e senza reagire. L’eremita aveva una mente così pura che quelle istruzioni gli bastarono. Seduto sul bordo della strada, fissò la sua attenzione sulla realtà interiore: senza valutare, senza reagire, osservò il processo dei cambiamenti interiori. E nei pochi minuti che gli rimanevano da vivere, raggiunse la meta finale della liberazione4.
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CAPITOLO NONO
La meta Qualsiasi cosa abbia la natura del nascere, ha anche la natura del finire 1.
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are esperienza di questa realtà è l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Mente e corpo sono un insieme di processi che si formano e si dissolvono costantemente. La sofferenza nasce, quando sviluppiamo attaccamento verso questi processi effimeri e senza sostanza. Se comprendiamo, a livello di esperienza, la loro natura impermanente, il nostro attaccamento ad essi svanirà. Ecco lo scopo per il quale i meditatori s’impegnano: comprendere la transitorietà della propria realtà fisica e mentale, attraverso l’osservazione del continuo mutamento delle sensazioni fisiche nel corpo. Ogni volta che si manifesta una sensazione, non si reagisce ad essa, ma si osserva il suo nascere e svanire. In questo modo, si permette alle reazioni del passato di emergere alla superficie della mente e di andarsene. Quando non ci saranno più condizionamenti, reazioni e attaccamenti, la sofferenza finirà e si sperimenterà la liberazione. È un compito arduo, che richiede molto tempo e un’applicazione costante, ma i benefici compaiono ad ogni passo. Solamente esercitandosi con pazienza, perseveranza e continuità il meditatore può avanzare verso la meta.
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La meta
Il raggiungimento della verità ultima Ci sono tre livelli di progresso sul sentiero. Il primo è la conoscenza teorica della tecnica (pariyatti), il secondo è l’esperienza pratica (paµipatti), il terzo è la realizzazione della verità, che si raggiunge con la meditazione, penetrando nelle profondità della propria natura (paµivedha). Il Buddha non negò l’esistenza di un mondo apparente di esseri, strutture, forme, colori, sapori, odori, dolori e piaceri, pensieri ed emozioni, ma affermò che questo non è la realtà ultima. Dietro l’apparente solidità delle cose, dei corpi, di tutte le forme esteriori che percepiamo composte, vi è una realtà molto più sottile, che non possiamo vedere con la vista ordinaria. Abituati a cogliere differenze, fare distinzioni, solo in base a ciò che percepiamo con i sensi, continuiamo a distinguere, a valutare e giudicare, e quindi a generare antipatia o piacere che, intensificandosi momento dopo momento, innestano il processo che porta all’avversione e alla bramosia. Lo scopo della pratica della meditazione Vipassana è proprio quello di andare oltre le apparenze, per vedere in profondità, imparando a percepire quei fenomeni sottostanti, che compongono la realtà apparente. Con questa visione profonda, ci sarà più facile abbandonare l’abitudine alla bramosia e all’avversione, perché, non soffermandoci più sulle apparenze delle cose – verso le quali producevamo giudizi e distinzioni – prenderemo atto della costante impermanenza della realtà. Dopo aver sperimentato che la realtà ultima della materia e della mente è un flusso continuo di vibrazioni, non sarà più possibile creare distinzioni e fare differenze. Ogni investigazione della nostra realtà interiore parte dalla considerazione degli aspetti più evidenti
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di noi stessi: le diverse parti del corpo e i vari organi. Un’ispezione ravvicinata rivelerà come alcune parti del corpo siano solide e altre liquide, alcune in movimento e altre ferme. Potremo anche percepire la temperatura corporea distinguendola da quella esterna. Queste osservazioni, che possono aiutarci a sviluppare una maggiore consapevolezza, costituiscono, tuttavia, un esame della realtà molto superficiale e perciò connotato ancora da preferenze, distinzioni, pregiudizi, bramosie e avversioni. La meditazione, gradualmente, ci conduce oltre quest’apparenza e, attraverso l’esercizio della consapevolezza delle sensazioni fisiche, ci rivela una realtà più sottile, prima ignorata. Cominciando ad essere consapevoli dei diversi tipi di sensazione nelle diverse parti del corpo, ci accorgeremo che sorgono, sembrano permanere per qualche tempo, e poi si dissolvono. Questo è uno stadio di conoscenza non più superficiale, ma ancora nella sfera della realtà apparente. Per questa ragione, nemmeno a questo livello, saremo liberi da discriminazione, bramosia e avversione. Continuando a praticare con diligenza, prima o poi, ci accorgeremo della vera natura delle sensazioni: esse sorgono e si dissolvono con grande rapidità in tutto il corpo. Penetrando al di là dell’apparente solidità del corpo, arriveremo a percepire quei fenomeni sottili che lo costituiscono, e cioè le particelle subatomiche che costituiscono la materia. Sperimenteremo la loro natura effimera, constatando come nascano e scompaiano continuamente. Tutto ciò che sentiamo all’interno del nostro corpo, sia esso solido, liquido o gassoso, sarà percepito come una massa di vibrazioni indistinte. Allora, finalmente, il processo di discriminazione tra bello o brutto, piacevole o spiace-
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vole, finirà. Avremo sperimentato, all’interno della struttura del corpo, la verità ultima della materia: un flusso costante che sorge e si dissolve. Allo stesso modo, anche la realtà apparente dei processi mentali può essere penetrata sino ai livelli più sottili. Quando una sensazione sorge a causa di un contatto e la mente, condizionata dalle reazioni del passato, la valuta come piacevole o spiacevole, ha luogo una prima, fugace e inconsapevole reazione alla sensazione sorta. Se questa reazione viene, immediatamente, rinforzata dal susseguirsi di reazioni dello stesso tipo, si produce un condizionamento di bramosia o avversione. Questo è il comportamento abituale della mente, ma, a causa della nostra ignoranza, noi ci accorgiamo delle reazioni solo quando sono diventate intense; e, solo allora, incominciamo a discriminare tra piacevole e spiacevole, buono e cattivo. Quando ci limitiamo ad osservare le sensazioni senza reagire, ci accorgiamo, invece, che anche una forte, consolidata emozione si manifesta come tanti momenti di piacere e avversione, ossia di momentanee reazioni alle sensazioni. E, una volta che una forte emozione si dissolve nelle sue manifestazioni più sottili, non ha più il potere di sopraffarci. Dall’osservazione delle sensazioni intense, procederemo verso la consapevolezza delle sensazioni più sottili, di natura uniforme, che nascono e svaniscono costantemente in tutta la struttura fisica. Per la grande rapidità con cui le sensazioni compaiono e scompaiono, potranno essere sperimentate come un flusso di vibrazioni, una corrente che si muove attraverso tutto il corpo. Ovunque fisseremo l’attenzione, all’interno della struttura fisica, saremo consapevoli del nascere e dello svanire. E ogni volta che nella
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mente sorgerà un pensiero, saranno consapevoli delle sensazioni fisiche che lo accompagnano, del loro sorgere e passare. L’apparente solidità del corpo e della mente si dissolverà, e noi sperimenteremo la realtà ultima della materia, della mente e delle formazioni mentali: null’altro che vibrazioni, oscillazioni, che sorgono e svaniscono con grande rapidità. Colui che sperimentò questa verità disse: Tutto il mondo è in fiamme tutto il mondo va in fumo. Tutto il mondo sta bruciando, tutto il mondo è in vibrazione 2. Per raggiungere l’esperienza della dissoluzione dell’apparente solidità di corpo e mente, in un flusso costante di sottilissime vibrazioni, bhanga, dobbiamo sviluppare consapevolezza ed equanimità, fino a diventare capaci di osservare le realtà interiori più sottili, proprio come lo scienziato osserva i più minuti fenomeni, aumentando l’ingrandimento del microscopio. Una volta che si saranno dissolti i dolori e le tensioni, cominceremo a percepire sensazioni anche in quelle aree del corpo che prima erano insensibili. Ogni volta che si sperimenta il sorgere e lo svanire dei processi fisici e mentali, si sperimenta beatitudine e gioia. Si ottiene l’immortalità, come l’ha realizzata il saggio 3. L’esperienza di percepire un flusso di sensazioni in tutto il corpo è certamente molto piacevole; ci si sente in pace, felici, colmi di beatitudine. Compiaciuti per questa condizione, potremmo pen-
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sare che si tratti della meta finale, mentre è solo una stazione di transito. Dovremo ancora avanzare sul sentiero, per sperimentare la verità ultima, che è al di là di mente e materia, e raggiungere la completa libertà dalla sofferenza. Il significato delle parole del Buddha diventerà chiaro attraverso la pratica meditativa. Penetrando dalla realtà apparente sino a quella sottile, inizieremo a godere del flusso delle vibrazioni attraverso il corpo. Poi, a un tratto, il flusso se ne andrà e di nuovo faremo esperienza di sensazioni intense e spiacevoli in alcune parti, mentre altre parti rimarranno insensibili; potremo inoltre sperimentare un’intensa emozione nella mente. Se cominceremo a provare avversione per questa situazione, e a desiderare che il flusso ritorni, sarà perché non avremo compreso Vipassana. L’avremo scambiata per un gioco, il cui scopo è quello di ottenere esperienze piacevoli, ed evitare o eliminare quelle sgradevoli; lo stesso gioco che abbiamo fatto per tutta la vita: il circolo senza fine di attrazione e repulsione, che conduce solo all’infelicità. Dopo aver provato l’esperienza di dissoluzione, potremo sperimentare ancora sensazioni forti; questo non sarà un passo indietro, ma piuttosto un progresso. Infatti, se manterremo la saggezza e rimarremo equilibrati in quella circostanza, avremo l’opportunità di sbarazzarci di qualche condizionamento. È in questo modo che la sensazione diviene un mezzo per liberarci dalla sofferenza. Osservando le sensazioni spiacevoli senza reagire, sradicheremo l’avversione. Osservando le sensazioni piacevoli senza reagire, sradicheremo la bramosia.
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Osservando le sensazioni neutre senza reagire, sradicheremo l’ignoranza*. Perciò, nessuna sensazione, nessuna esperienza è intrinsecamente buona o cattiva. È buona se, chi la prova, mantiene l’equilibrio; è cattiva se fa perdere l’equanimità. Con questa conoscenza, potremo utilizzare ogni sensazione come uno strumento per sradicare i condizionamenti. Questo è lo stadio dell’equanimità verso tutti i condizionamenti, saªkh±ra-upekkh±, che, passo dopo passo, conduce alla verità ultima della liberazione, il nibb±na.
L’esperienza della liberazione La liberazione da tutti i condizionamenti e da tutte le sofferenze è possibile. Il Buddha chiamò questa esperienza nibb±na, e così la descrisse: C’è una sfera di esperienza, che sta di là dell’intero campo della materia, dell’intero campo della mente, che non è né questo né un altro mondo, né entrambi, né luna, né sole. È ciò che io non definisco né sorgere, né svanire, né durare, né morire, né rinascere. Essa non ha sostegno, non ha sviluppo, non ha fondamento. Essa è la fine della sofferenza 4. * (n.d.r.) Le sensazioni neutre sono le sensazioni fisiche che la mente considera come né piacevoli né spiacevoli, verso le quali rimane indifferente. È importante osservare con saggezza anche queste (e cioè sperimentarne la loro natura impermanente, il loro continuo sorgere e passare), in modo da sradicare l’ignoranza, che qui si manifesta con l’essere inconsapevoli di questo tipo di sensazioni neutre e della loro transitorietà.
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C’è un non nato, un non divenuto, un non creato, un non condizionato. Se non ci fosse un non nato, un non divenuto, un non creato, un non condizionato, come si potrebbe conoscere un modo per liberarsi dal nato, dal divenuto, dal creato, dal condizionato? Ma dal momento che c’è un non nato, un non divenuto, un non creato, un non condizionato, allora conosciamo una via per liberarci dal nato, dal divenuto, dal creato, dal condizionato 5. Il nibb±na non è uno stato al quale si perviene dopo la morte, ma qualcosa che si può sperimentare dentro di sé, anche in questo stesso momento. È descritto in termini negativi, non perché sia un’esperienza negativa, ma perché non c’è altro modo di descriverlo, se non specificando ciò che non è. Ogni lingua ha parole adeguate per rappresentare l’intera gamma dei fenomeni fisici e mentali, ma non ci sono parole o concetti per descrivere qualcosa che è al di là di mente e materia, e che sfida tutte le categorie, tutte le distinzioni. Qualsiasi altra raffigurazione potrebbe solo confondere. Più che discuterne o cercare di analizzarne l’essenza, ciò che importa è sperimentarlo. Il Buddha affermò: La nobile verità della cessazione della sofferenza deve essere realizzata per conto proprio. Ognuno deve realizzare la nobile verità della cessazione della sofferenza in se stesso. Per sperimentare la verità ultima della liberazione è necessario, in primo luogo, penetrare oltre la realtà apparente, e sperimentare come la mente e il corpo non siano altro che vibrazioni in continuo mutamento, che sorgono e passano. Più si
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penetrerà oltre la realtà apparente, più si abbandoneranno bramosia, avversione e attaccamento. È così che, un passo dopo l’altro, si raggiungerà l’esperienza del nibb±na. Quando? Nessuno può dirlo: dipenderà in parte dall’accumulo dei propri condizionamenti, in parte dagli sforzi compiuti per sradicarli. Potremo, però, verificare se stiamo progredendo verso di esso: ogni volta che rimarremo perfettamente equanimi di fronte alle differenti situazioni della vita, in quel preciso momento, ci staremo già liberando. Ecco la caratteristica di questo insegnamento: dà subito risultati. Estinzione della bramosia, estinzione dell’avversione, estinzione dell’ignoranza: questo è ciò che si definisce nibb±na 7. Il nibb±na è uno stadio che raggiungeremo naturalmente dopo aver imparato a non reagire. E questo sarà possibile solo sviluppando la qualità essenziale dell’equanimità, la più alta espressione della mente, che ci permetterà di arrivare alla verità ultima.
La vera felicità Una volta, al Buddha fu chiesto di spiegare cosa fosse la vera felicità. Egli elencò varie azioni benefiche che possono condurre ad autentici stati di felicità. Esse rientrano in due categorie: le azioni che contribuiscono al benessere degli altri (come l’adempiere a tutte le responsabilità nei confronti della famiglia e della società), e le azioni che purificano la mente. Infatti, il proprio bene non è separabile dal bene degli altri.
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Il Buddha concluse: Di fronte agli alti e bassi della vita la mente rimane sempre equilibrata, non si lamenta, non genera impurità, si sente sempre sicura; questa è la felicità più grande 8. Il perfetto equilibrio mentale, la vera liberazione, è essere padroni di noi stessi, forti della certezza che nulla ci potrà più sopraffare, e che potremo accettare con un sorriso qualsiasi cosa la vita ci offra. In ogni situazione, piacevole o spiacevole, voluta o non voluta, non proveremo ansia, ma ci sentiremo totalmente sicuri, perché in possesso di quella saggezza che proviene dalla comprensione dell’impermanenza. Questa è la felicità più grande. L’equanimità non è fredda indifferenza, né silenziosa accettazione, né l’apatia di chi cerca di sfuggire ai problemi della vita, nascondendo la testa nella sabbia. L’assenza di bramosia e avversione non implica un’attitudine di distacco, in cui si gode della propria liberazione, senza darsi pensiero per la sofferenza degli altri. Al contrario, questa equanimità è chiamata appropriatamente “santa indifferenza”, perché è espressione di purezza mentale. È una qualità dinamica: la mente, libera dall’abitudine alla reazione, può intraprendere azioni positive, produttive e benefiche per se stessi e per gli altri. Con l’equanimità sorgeranno le altre doti che caratterizzano una mente pura: la benevolenza, l’amore che cerca il bene degli altri senza aspettarsi nulla in cambio, la compassione per le debolezze e le sofferenze altrui, la gioia e la simpatia per il successo e la fortuna del prossimo. Queste quattro qualità sono
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l’inevitabile risultato della pratica di Vipassana. Così, se prima cercavamo di conservare tutto il buono per noi e di scaricare sugli altri le esperienze negative, ora comprenderemo che la nostra felicità non può essere conseguita a spese del prossimo, e che donare felicità, è fonte di felicità. Avendo trovato la via per uscire dalla sofferenza, desidereremo che anche gli altri la sperimentino. Questa è la conclusione logica della meditazione Vipassana: la benevolenza verso tutti gli esseri, mett±-bh±van±. Tale disposizione d’animo, senza la meditazione, è solo superficiale perché nelle profondità della mente restano ancora bramosia e avversione; con la pratica della meditazione, invece, in qualche misura, il processo reattivo si ferma, per cui l’abitudine all’egoismo scompare, e la benevolenza fluisce con naturalezza dalle profondità della mente. Sostenuta dalla forza immensa della mente pura, la benevolenza può diventare un potente strumento di pace, e contribuire a creare nel mondo un’atmosfera armoniosa e benefica. Alcuni pensano che essere sempre equanimi, significhi non godere più la vita nelle sue infinite varietà, come se un pittore con una tavolozza variopinta, decidesse di usare solo il grigio, o come chi, con un pianoforte a disposizione, suonasse sempre e solo un’unica nota. Questa è una concezione sbagliata di equanimità. Il problema vero è che il piano è scordato e non sappiamo come suonarlo. Premere i tasti in nome dell’auto-espressione creerà soltanto dissonanze, ma se impariamo ad accordare e a suonare lo strumento correttamente, potremo fare musica con tutta la tastiera, dalla nota più bassa alla più alta, e allora ciascun suono creerà armonia e bellezza.
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Il Buddha disse che, purificando la mente e conseguendo la “saggezza fino alla sua massima perfezione”, si possono sperimentare: gioia, beatitudine, tranquillità, consapevolezza, piena comprensione, vera felicità 9. Con una mente equilibrata si può godere al meglio la vita. Si può assaporare completamente una situazione piacevole, senza dispiacersi quando finisce, perché si comprende che ogni cosa è destinata a passare. In presenza di una situazione spiacevole non ci si sente turbati, ma si cerca un modo per cambiarla; e, qualora questo non fosse possibile, non ci si preoccupa, ma si resta in pace, comprendendo che anche ogni esperienza spiacevole è destinata a passare. Così, mantenendo la mente libera dalle tensioni, la vita può essere più piacevole e produttiva. Quando la sofferenza è rimossa, il sorriso affiora spontaneo. Chi ha la mente pura non va in giro col viso arcigno. A volte, gli studenti di Sayagyi U Ba Khin in Myanmar, venivano criticati per il loro contegno, giudicato non confacente a dei meditatori di Vipassana. La critica non riguardava il loro comportamento, riconosciuto serio durante i corsi, ma l’atteggiamento dopo i corsi, perché gli studenti sorridevano contenti. Quando queste critiche giunsero all’orecchio di Webu Sayadaw, uno dei monaci più autorevoli del paese, egli replicò: – Sorridono, perché possono sorridere. Il loro, infatti, era un sorriso pieno di gioia profonda, di Dhamma. Quando si è imparata la via per la liberazione, ci si sente naturalmente felici. Il sorriso viene dal cuore,
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perché è espressione di pace, equanimità, benevolenza, e resta luminoso in ogni situazione. Questa è la vera felicità. Questo è il fine dell’insegnamento delle persone illuminate.
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Domande e risposte
Domanda: Possiamo trattare i pensieri ossessivi allo stesso modo con cui trattiamo il dolore fisico? Goenka: Basta accettare il fatto che nella mente c’è un pensiero ossessivo o un’emozione. Qualcosa, che era stato profondamente represso, è affiorato a livello conscio. Non cercatene le ragioni, limitatevi ad accettare l’emozione, così come è. E assieme ad essa, che tipo di sensazione state provando? Non ci può essere un’emozione senza una sensazione a livello fisico. Incominciate a osservare quella sensazione. Quindi, dobbiamo osservare la sensazione collegata con quella particolare emozione? Osservate qualsiasi sensazione sorga. Non potete scoprire quale sensazione sia collegata con quell’emozione; non cercate di farlo, perché significherebbe indulgere in uno sforzo inutile. Quando c’è un’emozione, qualsiasi sensazione si provi nel corpo è collegata ad essa. Perciò, limitatevi ad osservare le sensazioni, e a comprendere: “Queste sensazioni sono impermanenti, così come questa emozione. Allora, vediamo un po’ quanto dura”. Scoprirete che, osservando le sensazioni, taglierete le radici dell’emozione, ed essa passerà, se ne andrà. Intende dire che l’emozione e la sensazione sono la medesima cosa?
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Sono le due facce della stessa moneta. L’emozione è mentale e la sensazione è fisica, ma sono in relazione. Di fatto, ogni emozione o qualsiasi cosa sorga nella mente, si manifesta insieme ad una sensazione nel corpo. È una legge di natura. L’emozione in se stessa, è un contenuto mentale? Un contenuto mentale, certamente. La mente è anche tutto il corpo? È strettamente collegata a tutto il corpo. La coscienza è in tutti gli atomi del corpo? Sì. Ecco perché la sensazione, collegata con una particolare emozione, può nascere ovunque dentro il corpo. Mentre osservate le sensazioni in tutto il corpo, state anche osservando la sensazione collegata con quell’emozione. Così non ne sarete sopraffatti. Se non siamo in grado di aver consapevolezza delle sensazioni, la meditazione è ugualmente proficua? Sì, perché anche se osservate solo la respirazione, la mente comunque si calma e si concentra. Ma dovrete imparare a percepire le sensazioni, per fare in modo che il processo di purificazione possa operare ai livelli più profondi; le reazioni infatti iniziano con le sensazioni, che si manifestano continuamente. Durante la vita quotidiana, quando abbiamo momenti liberi, è utile fermarsi e osservare le sensazioni?
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Sì. Anche a occhi aperti, quando non avete altro da fare, siate consapevoli delle sensazioni all’interno di voi stessi. Come fa un maestro a riconoscere se un allievo ha sperimentato il nibb±na? Ci sono vari modi per verificare quando qualcuno sta effettivamente sperimentando il nibb±na; per questo un insegnante deve ricevere una formazione appropriata. Come possono, i meditatori, riconoscerlo da soli? Dai cambiamenti che intervengono nella loro vita. Chi ha realmente sperimentato il nibb±na diventa una persona nobile, santa, con una mente pura. Non trasgredisce in alcun modo i cinque precetti di base, non nasconde gli errori, ma li ammette apertamente e cerca, in tutti i modi, di non ripeterli. Non ha più attaccamento a riti e cerimonie, perché comprende che ciò che conta, è l’esperienza della verità. Ha un’incrollabile fiducia nel sentiero che conduce alla liberazione, e, quindi, non cerca più altre strade. E, infine, in lui l’illusione dell’ego è completamente frantumata. Se qualcuno afferma di avere sperimentato il nibb±na, ma la sua mente è impura come prima e le sue azioni restano nocive, allora dice qualcosa di non vero. Il suo stile di vita deve mostrare che l’ha davvero sperimentato. Che differenza c’è tra psicoanalisi e Vipassana? Con la psicoanalisi si cerca di portare alla coscienza quegli avvenimenti del passato, che hanno esercita-
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to una forte influenza sulla mente, condizionandola. Vipassana conduce il meditatore ai livelli più profondi della mente, proprio dove inizia il condizionamento. Ogni episodio che si cerca di far affiorare con la psicoanalisi, ha registrato anche una sensazione a livello fisico. Così, osservando le sensazioni fisiche con equanimità, il meditatore permette ad innumerevoli strati di condizionamento di emergere e scomparire. Egli si confronta con le radici del condizionamento e può liberarsene. Qual è il significato profondo di compassione? È il desiderio, senza attaccamento, di servire la gente, di aiutarla ad uscire dalla sofferenza. Chi piange sulla sofferenza degli altri, si rende solo infelice. Non è questo il sentiero di Dhamma. Chi prova vera compassione, cerca di aiutare gli altri con amore, avvalendosi di tutte le proprie capacità. E, se fallisce, sorride e cerca un altro modo per aiutare. Questa è la vera compassione, quella che nasce da una mente equilibrata. Vipassana è il solo modo per raggiungere l’illuminazione? L’illuminazione si raggiunge esaminando se stessi ed eliminando i condizionamenti. E, fare questo, è Vipassana, qualsiasi nome gli vogliate dare. Alcuni non hanno mai sentito parlare di Vipassana, e tuttavia in essi il processo è iniziato spontaneamente. In India è successo a molti santi, così almeno si deduce dalle loro testimonianze; ma essi non avevano appreso il procedimento con gradualità, e non poterono spiegarlo agli altri con chiarezza. In questo corso si apprende, passo per passo, il metodo che porta all’illuminazione.
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La meta
Lei definisce Vipassana un’arte di vivere universale, ma persone di altre religioni, che la praticano, non potrebbero confondersi? Vipassana non si propone come religione, e tanto meno si pone in competizione con altre religioni. Ai meditatori non viene chiesto di accettare acriticamente una dottrina filosofica, ma solo di aderire a ciò che sperimentano come vero. Non la teoria, ma la pratica è la cosa più importante: condotta morale, concentrazione e comprensione profonda della realtà che purifica la mente. Quale religione potrebbe obiettare a questi valori? E come potrebbero confondere qualcuno? Date importanza alla pratica e verificherete che tali dubbi si risolveranno automaticamente.
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CAPITOLO NONO
Racconto
La bottiglia d’olio
U
na madre mandò il figlio dal droghiere a comprare dell’olio, con una bottiglia vuota e dieci rupie. Il ragazzo andò e si fece riempire la bottiglia, ma mentre tornava a casa, cadde, la rovesciò e si versò metà dell’olio. Vedendo la bottiglia mezza vuota, tornò dalla madre piangendo: – Ho perso metà dell’olio! Ho perso metà dell’olio! – Era molto infelice. La madre mandò un altro figlio, con un’altra bottiglia e altre dieci rupie. Anch’egli si fece riempire la bottiglia e sulla via del ritorno cadde, la rovesciò, e di nuovo metà dell’olio andò persa. Raccolta la bottiglia, ritornò dalla madre molto felice: – Guarda, ho salvato metà dell’olio! La bottiglia era caduta e poteva anche rompersi. L’olio aveva iniziato a versarsi, avrei potuto perderlo tutto. Invece ne ho salvato la metà! Entrambi i ragazzi tornarono dalla madre nella stessa condizione, con una bottiglia per metà vuota e per metà piena. Mentre uno piangeva per la metà vuota, l’altro era felice per la metà piena. Allora la madre inviò il terzo figlio, con un’altra bottiglia e altre dieci rupie. E anch’egli cadde sulla via del ritorno, rovesciò la bottiglia e metà dell’olio si versò. Il ragazzo raccolse la bottiglia e, come il secondo fratello, arrivò dalla madre tutto felice
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La meta
esclamando: – Ho salvato metà dell’olio! – Siccome questo figlio praticava Vipassana, era pieno di ottimismo ma anche di realismo; si rese conto che, se metà dell’olio si era salvata, metà era andata persa. Così disse alla madre: – Andrò al mercato, lavorerò duro per tutto il giorno, guadagnerò cinque rupie e ricomprerò l’olio. Per questa sera avrò riempito la bottiglia. Questo è Vipassana: ottimismo, realismo e buona volontà.
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CAPITOLO DECIMO
L’arte di vivere
L
a comprensione dell’impermanenza è il filo conduttore che attraversa tutto l’insegnamento del Buddha: Meglio un sol giorno di vita sperimentando la realtà del nascere e dello svanire, che cent’anni di esistenza rimanendo ciechi di fronte a questa realtà 1. Il Buddha paragonò la consapevolezza dell’impermanenza al vomere che il contadino utilizza per estirpare le radici; al culmine del tetto, alto più di tutte le travi che lo sostengono; al potente sovrano, capace di governare i suoi vassalli; alla luna, il cui splendore oscura le stelle; al sole nascente, che disperde l’oscurità dal cielo 2. Le sue ultime parole furono: Tutti i saªkh±ra – tutte le cose composte – sono soggette al decadimento. Esercitatevi con diligenza per comprendere questa verità 3.
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L’arte di vivere
La sofferenza dell’io Fra i pregiudizi che abbiamo su noi stessi, il più radicato è quello secondo cui esiste un io. Diamo una tale importanza a questo io, da considerarlo il centro dell’universo, eppure siamo solo uno degli innumerevoli esseri che popolano la terra, e il nostro pianeta è solo uno tra le innumerevoli galassie esistenti. Pur rendendoci conto di quanto è piccolo questo io, se paragonato all’immensità dello spazio e del tempo, dedichiamo la vita a cercare di soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni, ritenendo che sia questa la via per raggiungere la felicità. Il pensiero di vivere in un altro modo ci sembra quantomeno innaturale, eppure ognuno di noi sa quanto si soffre nel rimanere sempre chiusi in sé stessi, preoccupati esclusivamente per i propri desideri, le proprie paure, le proprie identità. Finché resteremo confinati in questa prigione, incapaci di essere aperti alla vita e agli altri, di cercare una vera realizzazione, l’ossessione dell’ io ci farà soffrire. Senza negare o reprimere il nostro io, occorre che ci liberiamo da questa errata convinzione su chi veramente siamo. Occorre che ci rendiamo conto che, il cosiddetto io, non è altro che un fenomeno effimero e in costante mutamento, perché è solo l’esperienza della natura transitoria del nostro corpo e della nostra mente, che può liberarci dalla trappola dell’egoismo e dell’infelicità. Quando l’illusione della permanenza è frantumata, scompare anche l’illusione dell’io, e la sofferenza che l’accompagna. Con la meditazione Vipassana possiamo sperimentare la natura effimera del sé e del mondo: questa è la chiave che apre la porta della liberazione.
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CAPITOLO DECIMO
La spirale verso la liberazione La giusta comprensione viene per prima 4. I primi passi sul Nobile Ottuplice Sentiero sono la giusta comprensione e il giusto pensiero. Riconoscere che c’è la sofferenza (giusta comprensione), e decidere di affrontarla (giusto pensiero), sono gli elementi indispensabili per iniziare questo cammino. Se così non fosse, il pensiero di impegnarsi a meditare per liberarsi dalla sofferenza, neanche si affaccerebbe alla mente. Con questa comprensione, si potrà quindi iniziare l’effettiva meditazione. Seguendo un codice di condotta morale, si coltiverà la concentrazione, sviluppandola con la consapevolezza del respiro. Si passerà poi all’osservazione equanime delle sensazioni, che ci permetterà di sperimentare la natura impermanente di ogni cosa. Sarà ancora la giusta comprensione del sorgere e passare di ogni sensazione, che farà nascere nuovamente il giusto pensiero: è inutile reagire con bramosia e avversione a sensazioni e situazioni, che sono per loro natura transitorie. Con la saggezza di questa equanimità, basata sulla giusta comprensione dell’impermanenza delle sensazioni, si attiverà il processo che, gradualmente, libererà la mente da bramosia, avversione e ignoranza. Man mano che la mente si purificherà, sorgeranno pensieri colmi di benevolenza e compassione (il giusto pensiero), e, con una mente pura, sarà impossibile persino pensare di far del male agli altri. Parlare correttamente, agire correttamente e guadagnarci da vivere senza danneggiare nessuno diverranno le basi per una vita serena e pacifica. Con la tranquillità che deriva dalla condotta morale, di-
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verrà più facile sviluppare la concentrazione; e più forte sarà la concentrazione, più penetrante sarà la nostra saggezza. Condotta morale, concentrazione e saggezza (s²la, sam±dhi e paññ±), sviluppate fino al più alto livello, ci condurranno infine alla liberazione da tutte le sofferenze. Ecco come il Nobile Ottuplice Sentiero diventa una spirale ascendente verso la liberazione, in cui la giusta comprensione e il giusto pensiero si fanno sempre più profondi e puri. Ognuna di queste tre pratiche, s²la, sam±dhi e paññ±, sostiene l’altra. Esse vanno coltivate insieme e con pari impegno, per approfondire, nel giusto modo, tutti gli aspetti del cammino. Possiamo paragonarle alle tre gambe di un tripode: per farlo stare in piedi devono esserci tutte e tre, ed essere di eguale misura. Il Buddha disse: Dalla giusta comprensione proviene il giusto pensiero; dal giusto pensiero proviene il giusto parlare; dal giusto parlare proviene la giusta azione; dalla giusta azione provengono i giusti mezzi di sussistenza; dai giusti mezzi di sussistenza proviene il giusto sforzo; dal giusto sforzo proviene la giusta consapevolezza; dalla giusta consapevolezza proviene la giusta concentrazione; dalla giusta concentrazione proviene la giusta saggezza; dalla giusta saggezza proviene la giusta liberazione 5.
Il valore pratico della meditazione Vipassana ci può essere utile per affrontare le innumerevoli situazioni e difficoltà che si presentano nella vita. Imparare a governare una barca non ci assicura che faremo solo viaggi tranquilli, così come
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apprendere Vipassana non ci garantisce che non avremo problemi. Le burrasche sono destinate a venire, nel mare come nella vita. E cercare di evitarle è del tutto inutile. Il giusto atteggiamento è, piuttosto, quello di utilizzare ciò che abbiamo appreso allo scopo di “uscire illesi dalla burrasca”. Per fare buon uso di questa tecnica dobbiamo, innanzitutto, comprendere la vera natura del problema. Per ignoranza, siamo abituati a incolpare gli altri e gli eventi, considerandoli causa diretta delle nostre infelicità. Di conseguenza, incanaliamo le nostre energie nel tentativo di modificare le situazioni esterne. Ma quando, con la pratica di Vipassana, ci accorgiamo di essere noi i veri responsabili della nostra felicità o infelicità e di come la nostra abitudine a reagire ciecamente sia la vera fonte dei nostri problemi, allora, la nostra prospettiva cambia. Ci rendiamo conto dell’importanza di porre la massima attenzione alle burrasche interne provocate dalle reazioni della nostra mente e di come sia necessario bloccarle. Nel cercare un modo per farlo, comprenderemo anche che non basta decidere di non reagire, perché i condizionamenti latenti, al nostro livello inconscio, continueranno a emergere, creandoci problemi. La vera soluzione, dunque, consiste nell’imparare a osservare noi stessi nella prospettiva di un’auto trasformazione: abbastanza facile da capire, ma davvero impegnativo da mettere in pratica. Innanzitutto, come osservarci? Osservare l’emozione (dissociata dalla causa o dalle circostanze che l’hanno provocata), senza rimanerne coinvolti, va oltre le capacità della maggior parte di ciascuno di noi. Per esempio, quando nella mente compare una reazione negativa di ira, odio o paura, ne siamo generalmente sopraffatti ben prima di ricor-
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darci di osservarla. Di conseguenza, ci esprimiamo con azioni, vocali o fisiche, negative e dannose. Solo dopo che il danno sarà stato fatto, riconosceremo l’errore e ci pentiremo, ma per ricascarci, di nuovo, all’occasione successiva. D’altro canto, se anche fossimo in grado di ricordarci d’osservare, per esempio, una reazione d’ira, non riusciremmo a farlo, poiché, non appena provassimo, ci troveremo a ricordare la persona o la situazione che ci ha fatto adirare. E questo, al contrario, farebbe crescere piuttosto che diminuire la nostra rabbia. Potrebbe sembrare, dunque, una situazione senza via di uscita. Ma il Buddha trovò la soluzione. Indagando la realtà ultima di mente e materia, egli sperimentò che, quando nella mente sorge una reazione, a livello fisico avvengono due cambiamenti. Uno è facilmente riconoscibile: il respiro cambia. L’altro è di natura più sottile: nel corpo ha luogo una reazione biochimica, che si manifesta sotto forma di sensazione. Così, pieno di compassione, l’Illuminato insegnò la meditazione, attraverso la quale possiamo sviluppare la capacità di osservare la respirazione e le sensazioni. Questa capacità di osservazione dei mutamenti che hanno luogo dentro di noi, ci consente di accorgerci delle reazioni che avvengono. In questo modo, continuando ad osservare la respirazione e la sensazione senza reagire, potremo frenare l’irruenza di tali reazioni e impedire, infine, che si manifestino. Tuttavia, l’abitudine a reagire è così profondamente radicata in noi, che occorrerà del tempo prima che essa venga eliminata del tutto. Nonostante ciò, a mano a mano che perfezioneremo la nostra pratica, noteremo che un cambiamento in meglio starà già avvenendo. In alcune occasioni, durante
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la vita quotidiana, invece di reagire cominceremo a osservarci. E, gradatamente, questi momenti di osservazione aumenteranno, mentre i momenti di reazione diverranno meno frequenti. Inoltre, ci accorgeremo che anche quando reagiremo, l’intensità e la durata delle nostre reazioni si ridurrà e ritroveremo più rapidamente l’equilibrio. In seguito, anche nelle situazioni difficili, saremo in grado di osservare la respirazione e la sensazione, mantenendoci calmi ed equilibrati. Con questa profonda equanimità, saremo capaci di agire in maniera efficace e positiva. Pian piano, cambierà il nostro modo di rapportarci con il prossimo. Invece di rispondere impulsivamente, sapremo, in ogni occasione, scegliere una risposta benefica e positiva. Resteremo calmi ed equilibrati, quando dovremo affrontare qualcuno in preda all’ira, e potremo così aiutare gli altri a superare l’emozione del momento, e a sviluppare un’attitudine costruttiva. L’osservazione delle sensazioni ci farà comprendere che, ogni volta che siamo sopraffatti dalle negatività, soffriamo; perciò, quando vedremo altri che reagiscono, comprenderemo che essi stessi stanno soffrendo. Così, quando avremo a che fare con persone adirate (con qualcuno che sta reagendo), invece di reagire a nostra volta, cercheremo di fare il possibile per aiutarlo a uscire dalla sua sofferenza. Perché solo rimanendo noi stessi in pace e sereni, è possibile adoperarsi efficacemente per il prossimo. Sviluppare consapevolezza ed equanimità non ci renderà passivi, alla mercé di altri o indifferenti alle sofferenze altrui, cioè assorti al solo conseguimento della nostra pace interiore. Al contrario, questo cammino si rivelerà come uno stile di vita, capace di insegnarci ad assumere la piena responsabilità
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del nostro benessere e, al tempo stesso, a pensare al prossimo in modo proficuo ed equilibrato, mantenendo l’equilibrio della mente. Per esempio, vedendo, un bambino affondare nelle sabbie mobili, qualcuno potrebbe perdere la testa e buttarsi a sua volta in esse per tentare di soccorrerlo, facendo così, anch’egli, una brutta fine. La persona saggia, invece, senza perdere la calma, cercherà un ramo con cui raggiungere e trarre in salvo il bambino. Non è utile seguire gli altri nelle sabbie mobili di bramosia e avversione. È meglio aiutarli a radicarsi nel terreno solido dell’equilibrio mentale. Nonostante la nostra determinazione a vivere in pace, talvolta potrà essere necessaria un’azione di forza. Per esempio, potrebbe capitare di spiegare a qualcuno, con un linguaggio gentile, che sta commettendo un errore, che potrebbe danneggiare altri oltre che se stesso. Se l’interessato ignorasse l’avvertimento, bisognerebbe passare ad azioni più energiche. Prima di agire in tal senso, dovremmo però esaminare noi stessi, per stabilire se la nostra mente è in uno stato di equilibrio, e se nutriamo sentimenti di amore e compassione per la persona che si sta comportando male. Se agiamo motivati dall’amore e dalla compassione, infatti, non potremo sbagliare, e l’azione di forza che compiremo diventerà benefica, utile. Quando, per esempio, vediamo un prepotente aggredire una persona indifesa, abbiamo la responsabilità di fermarlo. Qualsiasi essere umano ragionevole lo farebbe, anche se probabilmente mosso da collera per l’aggressore e da pietà per la vittima. A mano a mano che, con la pratica, comprenderemo quale sia l’origine di ogni sofferenza, diverremo capaci di provare compassione per entrambi, avendo ben chiaro che la vittima va protetta dal danno e
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l’aggressore dal danneggiare se stesso con il proprio comportamento. Ma quando ci troveremo a mettere in atto un’azione di forza, non basterà limitarci a giustificarla a priori. Dobbiamo capire che, prima di passare alle maniere forti, è molto importante essere, in quel preciso momento, in pace e in armonia con noi stessi per poter agire con compassione e imparzialità. Se non abbiamo pace ed armonia in noi, non possiamo neppure trasmetterle agli altri, e nemmeno lavorare per creare pace intorno a noi. L’azione equanime ha risonanza perché è silenziosa, ricca di ripercussioni che influenzeranno positivamente molti, attorno a noi. La principale causa della sofferenza risiede, dunque, nella nostra negatività mentale. Sviluppare consapevolezza ed equanimità va a beneficio di tutti. Anche, semplicemente, evitando di accrescere le tensioni esistenti, già compiremo un’azione benefica. Quando la mente, poi, diventerà pura, l’infinita varietà della vita si spalancherà ai nostri occhi, e potremo così gioire e condividere con gli altri la vera felicità.
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Domande e risposte Domanda: Possiamo parlare ad altri della meditazione? Goenka: Certamente, non ci sono segreti in questa pratica. Potete parlarne a chiunque. Se qualcuno fosse interessato ad apprenderla, consigliategli di partecipare ad un corso. Almeno la prima esperienza deve svolgersi durante un corso di dieci giorni, sotto la guida di un insegnante qualificato. Occorre una specifica formazione ed una salda padronanza della pratica per guidare qualcuno nella meditazione. Pratico yoga. Come lo posso integrare con Vipassana? Durante il corso, non è permesso perché distrarrebbe gli altri. Quando sarete a casa, potrete praticare sia Vipassana sia yoga, cioè gli esercizi fisici delle posizioni e il controllo del respiro. Lo yoga è molto benefico per la salute e può essere senz’altro praticato con questa tecnica. Per esempio, assumere una postura yoga e poi osservare le sensazioni fisiche, sarà di certo più benefico della sola postura; invece, le tecniche di meditazione yoga, che comprendono mantra e visualizzazioni, sono l’opposto di Vipassana. Non mescolatele con Vipassana. E i diversi esercizi respiratori dello yoga? Sono utili come esercizi fisici, ma non mescolate queste tecniche con la consapevolezza del respiro,
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¾n±p±na, che richiede l’osservazione del respiro
naturale così come è, senza controllarlo. Utilizzate come esercizio fisico il controllo del respiro e ¾n±p±na per la meditazione. Se provassi attaccamento per il raggiungimento dell’illuminazione? Se fosse così, vi state dirigendo di gran carriera proprio nella direzione opposta. Non potrete sperimentare l’illuminazione finché avrete attaccamenti. Potreste farvene un’idea, ma poi continuate ad osservare la realtà del momento così come è, e lasciate che l’illuminazione venga; e se non viene, non ve ne preoccupate. Continuate a esercitarvi e lasciate che la legge di natura, il Dhamma, faccia la sua parte. In questo modo non c’è attaccamento, e l’illuminazione verrà. Dunque, medito solo per meditare? Sì. Avete la responsabilità di purificare la vostra mente. Consideratela una responsabilità, ma fatelo senza attaccamento. Non per ottenere qualcosa? No. Qualsiasi cosa verrà da sola. Lasciate che accada naturalmente. Qual è la sua opinione circa l’insegnamento della meditazione ai bambini? Durante la gravidanza la madre dovrebbe praticare Vipassana, così che anche il bambino in grem-
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bo ne possa beneficiare. Se avete già figli, potete condividere con loro questo cammino. A conclusione del corso, avete appreso la tecnica di mett±bh±van±, che consiste nel condividere la propria pace e la propria armonia. Se i bambini sono piccoli, indirizzate loro mett± quando dormono e dopo ogni meditazione, così che anch’essi ne abbiano beneficio*. Quando saranno più grandi, sarà bene spiegar loro qualcosa sulla meditazione, perché la comprendano e la accettino. Se sono in grado di capire qualcosa di più, insegnate loro a praticare la consapevolezza del respiro per pochi minuti. Non esercitate pressioni su di loro, limitatevi a farli sedere con voi, perché osservino il respiro per pochi minuti, poi lasciateli andare a giocare. La meditazione sarà come un gioco per loro, saranno contenti di esercitarsi. Ma, la cosa più importante è vivere una vita equilibrata, felice, essere un buon esempio per i bambini. L’atmosfera di casa, tranquilla e armoniosa, li aiuterà a crescere in modo sano e felice. È la cosa migliore che potete fare per i vostri bambini. * (n.d.r.) Mett± è una parola dai molteplici significati: benevolenza verso gli altri, disponibilità ad aiutare, bontà, buona volontà. I commentatori di pali definiscono metta come il forte desiderio per il benessere e la felicità degli altri. È essenzialmente un’attitudine altruistica di amore, solidarietà e fratellanza. Attraverso la pratica di mett± abbandoniamo risentimento, rancore, asprezza, animosità di qualunque genere, e sviluppiamo benevolenza verso tutti gli esseri, compassione per le sofferenze altrui, gioia compartecipe per la felicità degli altri e amore verso tutti gli esseri. Questa tecnica, chiamata meditazione di benevolenza, viene insegnata alla fine del corso dei dieci giorni.
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Grazie per questo meraviglioso insegnamento. Ringraziate Dhamma! (la verità, la legge di natura, n.d.r.). L’insegnamento è importante, io sono solo uno strumento. E ringraziate voi stessi, per aver saputo impegnarvi seriamente ad imparare la tecnica. L’insegnante parla, spiega, ma se voi non v’impegnate, non potete ottenere niente. Siate felici, e continuate a lavorare sodo.
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Racconto
I rintocchi dell’orologio Estratto dal discorso di Goenka tenuto il decimo giorno di corso
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o avuto la grande fortuna di essere nato in Myanmar, la terra di Dhamma, dove questa tecnica meravigliosa è stata tramandata per secoli nella sua forma originaria. Circa un secolo fa mio nonno vi giunse dall’India e vi si stabilì. Ho anche avuto la grande fortuna di essere nato in una famiglia di uomini d’affari, così, dai vent’anni in poi, ho cominciato a lavorare per far soldi. Accumulare denaro era lo scopo principale della mia vita. Sono stato fortunato poiché, sin dai primi anni, ho avuto successo e guadagnato molto. Se non avessi sperimentato come si vive da ricchi, non avrei mai avuto la prova di quanto vuota possa essere quel tipo di esistenza; in caso contrario, in qualche angolo della mente, sarebbe sempre potuto nascere il pensiero che la vera felicità si poteva trovare nella ricchezza. Quando la gente diventa ricca, acquista prestigio e posizione sociale, che implicano molte e impegnative cariche direttive. Dai vent’anni in poi, mi sono lanciato alla folle ricerca del prestigio sociale. Le tensioni, provocate da un simile tipo di vita, mi causarono una malattia psicosomatica, una grave forma di emicrania. Ogni quindici giorni mi veniva un attacco, e non c’era modo di curarmi.
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La malattia Mi sento fortunato per aver sviluppato questa malattia. Anche i migliori medici di Myanmar non riuscirono a guarirmi. Il solo trattamento disponibile era l’iniezione di morfina per alleviare l’attacco; ne avevo bisogno ogni quindici giorni, e ne subivo gli effetti collaterali: nausea, vomito, sofferenza. Dopo alcuni anni, i medici mi misero in guardia: – Ora lei sta assumendo morfina solo per alleviare gli attacchi della malattia, ma se continuerà, presto ne sarà dipendente e dovrà prenderne ogni giorno. Fui turbato da tale prospettiva, la mia vita sarebbe stata orribile. E così mi consigliarono: – Siccome si reca spesso all’estero per affari, per una volta, faccia un viaggio per la sua salute. Non abbiamo cure per questo disturbo e, a quanto ne sappiamo, non ce ne sono neppure all’estero; ma forse potrebbe esserci un farmaco per alleviarle il dolore e liberarla dal rischio della dipendenza. Accettai il consiglio e mi recai in Svizzera, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone. Fui curato dai migliori medici, e per mia fortuna, tutti fallirono. Quando tornai, stavo peggio di quando ero partito. Venne allora a trovarmi un caro amico che mi suggerì: – Perché non provi un corso di dieci giorni di meditazione Vipassana? Sono condotti da U Ba Khin, un sant’uomo, padre di famiglia come te, e come te molto impegnato nel lavoro (era dirigente governativo). A me sembra che la tua malattia abbia origine nella mente, e pare che questa tecnica liberi la mente dalle tensioni; forse ti permetterà di curarti da solo.
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L’incontro Poiché tutte le mie ricerche erano state vane, decisi per lo meno di conoscere questo maestro. Dopo tutto, non avevo niente da perdere. Mi recai al centro di meditazione ed ebbi un colloquio con quest’uomo straordinario. Profondamente impressionato dall’atmosfera calma e pacifica del luogo, e dalla sua presenza che comunicava pace, gli chiesi di frequentare un corso. – Certamente – mi rispose. – Questa tecnica è utile per tutti. Lei è il benvenuto. Allora aggiunsi: – Da diversi anni soffro di una emicrania molto grave. Spero che questa tecnica mi possa curare. – No – replicò bruscamente U Ba Khin – allora non venga, non partecipi al corso. Non capivo come avessi potuto offenderlo, e lui con gentilezza mi spiegò: – Lo scopo della meditazione non è curare malattie fisiche. Se cerca questo, è meglio che vada in un ospedale. La malattia di cui soffre è, in realtà, una piccola parte delle sue sofferenze; potrà guarirne, ma come effetto secondario del processo di purificazione mentale. Se fa di un effetto secondario lo scopo principale, allora svaluta questo cammino, che è quello di curare tutte le infelicità. Non venga per curare il corpo, venga per liberare la mente. Mi aveva convinto. – Sì – dissi – ora capisco, verrò solo per purificare la mente. Sia che la mia malattia possa essere curata o no, mi piacerebbe sperimentare la pace che sento qui –. E dopo aver fatto questa promessa, tornai a casa, ma rimandai il corso. Nato in una famiglia indù devota e conservatrice, sin dall’infanzia avevo imparato a recitare i versetti:
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“Meglio morire nella propria religione, mai passare ad un’altra religione”. Dicevo a me stesso: “Attento, è un’altra religione, è Buddismo. Questa gente è atea, non crede in Dio e nell’esistenza dell’anima! Se divento ateo, che mi accadrà? Meglio morire nella mia religione, non mi avvicinerò a loro”. Per mesi esitai. Poi, per mia fortuna, decisi di partecipare ad un corso di dieci giorni, e ne trassi grandi benefici. Solo l’essere umano ha la capacità di osservare se stesso per uscire dalla sofferenza. Nessun’altra creatura ha tale facoltà. Se non facciamo uso di tale abilità sprechiamo la nostra vita. Mi consideravo una persona religiosa, perché partecipavo alle cerimonie, seguivo le regole della condotta morale ed elargivo elemosine. Certo, pensavo, devo essere davvero molto pio, altrimenti non mi avrebbero messo a capo di tanti enti religiosi. Ma, nonostante tutta la carità e il servizio che avevo fatto, nonostante avessi agito e parlato sempre con correttezza, quando cominciai ad osservare la camera oscura della mia mente, la trovai gremita di serpenti e scorpioni. Per causa loro avevo dovuto sopportare così tante sofferenze. Grazie al graduale sradicamento delle impurità, iniziai a sentirmi veramente in pace. Capii quanto fossi stato fortunato ad apprendere questa meravigliosa tecnica. Per quattordici anni ho avuto la grande fortuna di praticarla sotto l’attenta guida del mio maestro. Adempivo i compiti di padre di famiglia e, mattina e sera, mi dedicavo alla meditazione; ogni fine settimana andavo al centro dal mio maestro, e ogni anno partecipavo ad un ritiro di dieci o più giorni.
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L’inizio dell’insegnamento All’inizio del 1969 mi recai in India, dove si erano trasferiti i miei genitori qualche anno prima. Mia madre soffriva di una malattia nervosa che poteva essere curata con la pratica di Vipassana, ma non c’era nessuno in India che gliela potesse insegnare. Sono grato al governo di Myanmar per avermi rilasciato il permesso per l’India, in un periodo nel quale era difficile ottenere l’autorizzazione per recarsi all’estero. E ringrazio anche il governo indiano per avermi concesso di entrare nel Paese. Nel luglio del 1969 a Mumbai si svolse il primo corso, al quale parteciparono i miei genitori e altre dodici persone. Ho avuto la fortuna di poter servire e ripagare il profondo debito di gratitudine verso i miei genitori, insegnando loro Vipassana. Raggiunto il mio scopo, ero pronto a ritornare a Myanmar, ma coloro che avevano partecipato al corso, chiesero che ne tenessi altri, per i loro padri, madri, mogli, mariti, figli e amici. Così fu tenuto un secondo corso e un terzo e un quarto: in questo modo l’insegnamento cominciò a diffondersi. Nel 1971, mentre stavo tenendo un corso a Bodh Gaya, ricevetti il telegramma da Rangoon con la notizia della morte del mio maestro. Era una notizia grave, oltre che inaspettata, e certamente molto triste, ma, con l’aiuto di tutto ciò che egli mi aveva insegnato, la mia mente rimase equilibrata. Cominciai a pensare come ripagare il mio debito di gratitudine nei confronti di quella meravigliosa persona, Sayagyi U Ba Khin. I miei genitori mi avevano fatto nascere come essere umano, chiuso nella conchiglia dell’ignoranza,
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da cui uscii solo con l’aiuto di quell’uomo straordinario: egli mi insegnò a scoprire la verità osservando la realtà interiore. Come ripagare il debito di gratitudine verso il mio maestro, che per quattordici anni mi aveva donato il suo sostegno e trasmesso i suoi insegnamenti? Il solo modo che mi veniva alla mente era quello di praticare, per tutta la vita, ciò che mi aveva insegnato. E, con tutta la purezza mentale, con tutto l’amore e la compassione possibili, decisi di dedicare il resto della mia vita a servire gli altri, perché questo era il desiderio del mio maestro. Spesso U Ba Khin parlava di una credenza tradizionale del suo paese, secondo la quale, venticinque secoli dopo la morte del Buddha, Vipassana sarebbe tornata nella sua terra d’origine, e da lì si sarebbe diffusa in tutto il mondo. Era suo desiderio far sì che questa predizione si avverasse, perciò avrebbe voluto trasferirsi in India per insegnarla. – Venticinque secoli sono passati – era solito affermare. – Il tempo della meditazione Vipassana è arrivato! Per la particolare situazione politica, non gli era stato possibile, negli ultimi anni della sua vita, ottenere il permesso di recarsi all’estero. Così, quando lo ottenni io, ne fu molto felice: – Goenka – disse, – non stai andando tu, sto andando io! In un primo momento pensai che questa credenza derivasse da una superstizione. Perché, dopo venticinque secoli, sarebbe dovuto accadere qualcosa di speciale che non poteva accadere prima? Quando giunsi in India, però, mi stupii di un fatto: sebbene in quel vasto paese conoscessi solo un centinaio di persone, si iscrissero ai corsi in migliaia, provenienti da ambienti, religioni, comunità diverse, e non solo indiani, ma genti di tutto il mondo. Mi fu chiaro che
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niente avviene senza una causa. Nessuno partecipa ad un corso per caso. Alcuni hanno compiuto una buona azione in passato, e come risultato ricevono il seme di Dhamma. Altri hanno già ricevuto il seme e, per farlo crescere, continuano a meditare, partecipando ad altri corsi. In entrambi i casi, sviluppatevi in Dhamma, sforzandovi di vivere una vita di moralità, imparando a concentrare la mente, e a sviluppare saggezza. Fatelo per il vostro bene, per il vostro beneficio, per la vostra liberazione, e scoprirete che ciò inizierà ad aiutare anche gli altri. Che tutti coloro che soffrono possano trovare questo sentiero di pace ed essere liberati dalle sofferenze, dalle catene, dalla schiavitù. Che tutti possano liberare la loro mente dalle impurità. Che tutti gli esseri dell’universo siano felici. Che tutti gli esseri siano in pace con se stessi. Che tutti gli esseri siano liberati *.
* (n.d.r.) Queste frasi fanno parte della pratica di mett±; durante i corsi, Goenka conclude con esse i discorsi, per esprimere sentimenti di benevolenza e di augurio.
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APPENDICE A
L’importanza della sensazione
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icapitolando brevemente, l’insegnamento del Buddha è un metodo per sviluppare la completa conoscenza della nostra struttura fisica e mentale, al fine di scoprire i meccanismi che causano la sofferenza. Praticando la meditazione Vipassana ci libereremo, attuando una profonda auto trasformazione, dall’abitudine a reagire (fonte di ogni nostra infelicità) e diventeremo capaci di affrontare le vicissitudini della vita in modo equilibrato. Il Buddha descrive questo metodo nel “Discorso sui fondamenti della consapevolezza” (Satipaµµh±na Sutta).
Il cuore dell’insegnamento Le quattro sezioni del discorso trattano delle quattro dimensioni della realtà (comuni ad ogni essere umano): gli aspetti fisici del corpo e della sensazione, gli aspetti psichici della mente e i suoi contenuti. Lo sviluppo della consapevolezza di questi quattro aspetti è lo strumento essenziale per investigare noi stessi in modo completo e dettagliato.
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Quando osserviamo la verità in noi stessi, appare chiaro che il cosiddetto “sé” ha due aspetti, uno fisico (il corpo) e uno psichico (la mente). Sperimentiamo il corpo percependolo per mezzo delle sensazioni fisiche, che si manifestano ovunque, all’interno di noi; infatti, anche ad occhi chiusi, siamo consapevoli delle mani e di tutte le nostre parti, perché le possiamo percepire attraverso le sensazioni. Possiamo analizzare la struttura psichica, osservando la mente (citta) e ciò che sorge in essa (dhamma): pensieri, emozioni, ricordi, speranze, paure. Non possiamo osservare la mente prescindendo dai contenuti mentali, come corpo e sensazione non possono essere sperimentati separatamente. La mente e il corpo sono collegati fra loro, e qualsiasi cosa accade in una, è riflessa nell’altro, poiché i pensieri e le emozioni che sorgono a livello mentale, dando il via ad un processo biochimico, producono sensazioni a livello fisico. L’osservazione delle sensazioni nel corpo è, quindi, il mezzo per esaminare la totalità del nostro essere, fisico e mentale. Questa fu la scoperta chiave del Buddha, il cuore del suo insegnamento: Qualsiasi cosa nasca nella mente è accompagnata da una sensazione 1. Il Buddha evidenziò l’importanza della consapevolezza delle sensazioni, anche nel “Discorso sulla rete della perfetta saggezza” (Brahmaj±la Sutta): L’illuminato si è affrancato e liberato da tutti gli attaccamenti, perché ha visto come sono realmente il nascere e lo svanire delle sensazioni, il godere di esse, il pericolo di esse, la liberazione da esse 2.
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Affermò che la consapevolezza delle sensazioni è il prerequisito per la comprensione delle Quattro Nobili Verità: A chi ha consapevolezza della sensazione, io mostro la via per comprendere cosa siano la sofferenza, la sua origine, la sua fine e il sentiero che conduce alla sua fine 3.
La sensazione Che cos’è esattamente la sensazione? Il Buddha, ne descrisse due differenti aspetti, e la annoverò fra le quattro attività mentali (v. capitolo secondo). Precisò, dopo averlo direttamente sperimentato, che la sensazione si manifesta in forma sia fisica che mentale4. Non possiamo, infatti, percepire il corpo se la mente non è presente. È la mente che sente, ma ciò che sente è inscindibile dall’elemento fisico. L’elemento fisico della sensazione è d’importanza fondamentale nella pratica della meditazione insegnata dal Buddha. Secondo l’insegnamento dell’origine interdipendente (v. capitolo quarto), ad ogni contatto fisico e mentale, si produce una sensazione nel corpo. Nello stesso istante, ha luogo, nella mente, una reazione inconscia di piacere o antipatia nei confronti della sensazione. Se questa reazione si ripete, e gradualmente s’intensifica, si trasforma in bramosia o avversione, e acquista una forza tale da sopraffare la nostra mente conscia. La scintilla della sensazione ha così modo di accendere un grande fuoco e crearci difficoltà. Per impedire che il processo reattivo inizi, dobbiamo permettere ad ogni scintilla di esaurirsi, senza che inneschi un incendio. Per fare questo, è indispensa-
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bile accorgerci subito della sensazione sorta, rimanere equanimi, ed osservare oggettivamente che la sensazione così com’è sorta, se ne va.
L’impermanenza della sensazione La capacità di percepire la sensazione nel corpo è fondamentale, perché consente un’esperienza dell’impermanenza vivida e tangibile; i cambiamenti, infatti, avvengono in noi ogni momento, e li possiamo avvertire unicamente osservando le sensazioni. La consapevolezza del loro costante mutamento ci permetterà di comprendere la nostra natura effimera e, di conseguenza, l’inutilità di qualsiasi attaccamento. Allora, gradualmente, ci distaccheremo da bramosia e avversione, ed eviteremo di produrre nuove reazioni, sino a che abbandoneremo l’abitudine stessa alla reazione. In questo modo la mente si libererà dalla sofferenza. Coloro che continuamente compiono sforzi per dirigere la loro consapevolezza verso il corpo, che si astengono dal compiere azioni nocive, e cercano di fare ciò che deve essere fatto, tali persone, consapevoli [delle sensazioni n.d.r.] e con comprensione profonda [dell’impermanenza n.d.r.] si liberano da tutte le loro negatività 5 .
L’anello mancante Le cause della sofferenza sono la bramosia e l’avversione. Quando un oggetto entra in contatto con i cinque sensi e con la mente, siamo abituati a pensare
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che le nostre reazioni (di bramosia e avversione) siano rivolte verso quest’ultimo. Ma il Buddha scoprì l’anello mancante di questo processo: tra l’oggetto e la reazione vi è sempre una sensazione; in altre parole, non reagiamo alla realtà esteriore, ma alla sensazione fisica che si produce nel nostro corpo in seguito al contatto. Quando impariamo ad osservare la sensazione fisica senza reagire, le cause della sofferenza (bramosia e avversione), non si manifestano, e la sofferenza non sorge più. L’osservazione della sensazione fisica è di importanza cruciale per comprendere pienamente il “Discorso sui fondamenti della consapevolezza” 6 .
I fondamenti della consapevolezza Il discorso inizia con l’elencazione degli scopi: Purificazione degli esseri, trascendenza del dolore e dei dispiaceri, estinzione della sofferenza fisica e mentale, pratica di una via di verità, esperienza diretta della realtà ultima, nibb±na 7. È per il loro conseguimento, che ci si impegna nel consolidare la consapevolezza. Segue la spiegazione su come praticare: Qui il meditatore si sofferma, ardente, colmo di comprensione e di consapevolezza, osservando il corpo nel corpo, osservando la sensazione nella sensazione, osservando la mente nella mente, osservando i contenuti mentali nei contenuti mentali, avendo abbandonato bramosia e avversione nei confronti del mondo 8.
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Che cosa significa “osservando il corpo nel corpo, le sensazioni nelle sensazioni” e così via? Corpo, sensazioni, mente e contenuti mentali sono le dimensioni dell’essere umano. La comprensione della realtà ultima, che ci conduce alla liberazione, può avvenire unicamente attraverso la consapevolezza (sati) e la chiara comprensione delle caratteristiche di queste quattro dimensioni (sampajañña). La consapevolezza a cui si riferisce il titolo del discorso (I fondamenti della consapevolezza) è quella dell’impermanenza di ogni fenomeno, compreso quello dell’io. Solo questa conduce alla liberazione. Possiamo diventare consapevoli dell’impermanenza (anicca), osservando la sensazione nel corpo sia quando si manifesta sulla superficie, sia quando si manifesta all’ interno di esso, sia contemporaneamente all’interno e all’esterno. Attraverso l’ osservazione equanime della sensazione, scopriamo che essa consiste in un flusso costante di vibrazioni, e che non è legata ad un io (anatt±). Se li analizziamo bene, infatti, ci rendiamo conto che questi fenomeni sono effimeri, perché sorgono e passano con grande velocità, e che tutto questo accade al di fuori del nostro controllo. La sensazione, dunque, è la fonte della nostra sofferenza (dukkha), perché, nonostante sia impermanente e priva di io, sviluppiamo un forte attaccamento ad essa (vogliamo che si perpetui se è piacevole, vogliamo che se ne vada se è spiacevole). Anicca, dukkha, anatt±: nient’altro esiste all’infuori di queste tre leggi fondamentali. Ecco le verità da comprendere. Per mezzo della comprensione dell’impermanenza, l’attaccamento irriflessivo e viscerale verso il nostro corpo e la nostra mente, s’indebolisce fino a scomparire, e la bramosia e l’avversione
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verso il mondo esteriore e il mondo interiore gradualmente si estinguono. Così ci liberiamo dalla sofferenza che esse provocano.
L’osservazione e la comprensione Il discorso inizia trattando dell’osservazione del corpo, perché esso è la manifestazione più concreta dell’essere umano, e quindi la base idonea da cui iniziare l’auto–osservazione. In seguito, sono illustrati i differenti metodi per osservare il corpo. Il più comune, quello che il Buddha stesso usò, è la consapevolezza del respiro. Altri sono la consapevolezza dei movimenti del corpo, delle posizioni ecc., ecc. In qualsiasi modo iniziamo l’esplorazione, per arrivare alla meta finale dobbiamo passare per stadi ben definiti ed individuati dall’Illuminato, che li descrisse nel seguente fondamentale paragrafo: In questo modo [il meditatore n.d.r.] si sofferma a osservare il corpo nel corpo, internamente o esternamente, oppure sia internamente sia esternamente. Si sofferma a osservare il fenomeno del nascere nel corpo. Si sofferma a osservare il fenomeno dello svanire nel corpo. Si sofferma a osservare il fenomeno del nascere e dello svanire nel corpo. Ora la consapevolezza gli si presenta, “Questo è il corpo”. Tale consapevolezza si sviluppa fino al grado che rimangono solo comprensione e osservazione, ed egli rimane distaccato, senza aggrapparsi a nulla nel mondo 9. Per la sua importanza, questo brano è ripetuto alla fine di ogni paragrafo nella sezione sull’osservazione del corpo, e anche nelle successive sezio-
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ni, riguardanti l’osservazione delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. (In queste ultime tre, la parola “corpo” è sostituita rispettivamente da “sensazioni”, “mente” e “contenuti mentali”). Il passaggio descrive il corretto metodo di osservazione, da applicare a tutti gli aspetti costitutivi dell’essere umano (corpo, sensazioni, mente, contenuti men tali). A causa della sua complessità, questo brano si è prestato ad interpretazioni diverse e a fraintendimenti. Le difficoltà d’interpretazione scompaiono, quando teniamo in considerazione che queste frasi si riferiscono alla consapevolezza delle sensazioni fisiche. Nel testo è specificato che l’obiettivo della meditazione è il raggiungimento della completa conoscenza della nostra natura, e che questa conoscenza si può raggiungere solo attraverso l’osservazione delle sensazioni fisiche, poiché essa comprende l’osservazione indiretta di tutte le dimensioni del fenomeno umano (corpo, mente, contenuti mentali). Quando il Buddha sperimentò che ad ogni pensiero, ad ogni emozione, idea o oggetto che sorge nella mente, corrisponde una sensazione nel corpo, comprese che è la sensazione fisica il mezzo più idoneo per l’osservazione di tutte le parti che costituiscono l’essere umano. Continuando a osservare le sensazioni, sempre presenti in noi, infatti, ci possiamo rendere conto che la caratteristica dell’impermanenza, verificata in esse, si riflette anche nel corpo, nella mente, e nei contenuti mentali. In altre parole, ogni aspetto della nostra struttura psico-fisica ci apparirà come impermanente. Ecco perché, nel paragrafo, è ripetuta la stessa frase, in riferimento a tutte le quattro dimensioni dell’essere umano. All’inizio della pratica meditativa si usano differenti oggetti di concentrazione, come la consape-
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volezza del respiro, dei movimenti o delle posizioni corporee, ma, da un certo stadio di progresso in poi, si dovranno osservare esclusivamente le sensazioni, perché esse sono la manifestazione più chiara ed evidente di tutte le attività corporee, sia fisiche sia mentali.
Come osservare la sensazione S’inizia con l’osservare le sensazioni che nascono all’interno del corpo e poi all’esterno (sulla superficie), oppure all’interno e all’esterno insieme: dalla consapevolezza delle sensazioni in alcune parti, si sviluppa, gradualmente, la capacità di sentire le sensazioni in tutto il corpo. È probabile che all’inizio si sperimentino sensazioni di natura intensa, che potranno durare anche a lungo: osservandole, ci si renderà conto del loro sorgere e, dopo un certo tempo, del loro svanire. A questo livello, si sta sperimentando la realtà apparente di corpo e mente, la loro natura che sembra solida e duratura In seguito si giungerà allo stadio in cui questa solidità si dissolve: mente e corpo saranno sperimentati nella loro vera realtà, e cioè come un insieme di vibrazioni, che ad ogni istante nascono e svaniscono. Finalmente si comprenderà che cosa sono il corpo, le sensazioni, la mente e i contenuti mentali: un flusso di fenomeni impersonali, in costante cambiamento. Questa comprensione diretta della realtà ultima dissolverà progressivamente illusioni, idee erronee e pregiudizi; e anche le idee corrette, prima accettate per fede o per deduzione, e ora sperimentate, acquisteranno un nuovo significato. Con l’osservazione
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della realtà interiore, tutti i condizionamenti verranno gradualmente eliminati. Rimarranno giusta consapevolezza e giusta saggezza. Quando scompare l’ignoranza, la tendenza latente a generare bramosia e avversione è sradicata, e il meditatore si libera dagli attaccamenti, anche da quello più profondo: quello verso il proprio corpo e la propria mente. E quando quest’attaccamento è rimosso, la sofferenza scompare e si giunge alla liberazione. Il Buddha dichiarò spesso: Tutto ciò che viene percepito come sensazione è in relazione con la sofferenza 10. La sensazione è, dunque, il mezzo ideale per esplorare la verità della sofferenza. La sensazione spiacevole è, ovviamente, sofferenza, ma, continuando a meditare, ci si accorgerà che anche la sensazione piacevole è una forma molto sottile di agitazione. Siccome ogni sensazione è impermanente, se abbiamo sviluppato attaccamento verso una sensazione piacevole, inevitabilmente soffriremo, quando essa, per legge di natura, svanirà. Di fatto, quindi, ogni sensazione contiene un seme d’infelicità. Per questa ragione, il Buddha evidenziò l’importanza della comprensione del sorgere e dell’estinguersi di tutte le sensazioni11.
Il fine ultimo Finché resteremo nell’ambito della mente e della materia, persisteranno sensazioni e sofferenza. Esse avranno fine solo quando andremo al di là di questo ambito, sperimentando la realtà ultima del nibb±na.
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Appendice A
Un uomo non mette in pratica l’insegnamento del Dhamma nella vita, solo perché ne parla molto. Un uomo lo mette in pratica veramente, anche se ne ha sentito parlare solo un poco, quando sperimenta la legge di natura all’interno del proprio corpo, e ne è continuamente consapevole 12. Il nostro corpo testimonia la verità. Le sensazioni sono lo strumento per scoprirla e conseguire la liberazione dalla sofferenza.
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APPENDICE B
Passi sulle sensazioni
I
l Buddha fece spesso riferimento all’importanza della consapevolezza della sensazione. Ecco alcuni esempi: Nel cielo soffiano venti diversi, da est e da ovest, da nord e da sud, carichi di polvere o privi di polvere, freddi o caldi, tempeste selvagge o brezze delicate; molti sono i venti che soffiano. Anche nel corpo nascono sensazioni diverse: piacevoli, spiacevoli o neutre. Quando il meditatore, esercitandosi con entusiasmo, non trascura la facoltà della piena comprensione [sampajañña], allora quest’uomo saggio comprende appieno le sensazioni. Avendole comprese totalmente, si libera da tutte le impurità già in questa vita. Ben saldo in Dhamma e comprendendo perfettamente le sensazioni, alla fine della vita consegue lo stadio indescrivibile al di là del mondo condizionato. S. XXXVI (II). ii. 12 (2), Paµhama ¾k±sa Sutta
E come si sofferma il meditatore ad osservare il corpo nel corpo? Va nella foresta, ai piedi di un albero, in un luogo solitario; siede a gambe incrociate, con il busto eretto, e fissa la sua attenzione sull’area intorno alla bocca. Con consapevolezza inspira ed espira. Inspirando un respiro lungo, egli è consapevole: “Sto inspirando un respiro lungo”. Espirando
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La meditazione Vipassana
un respiro lungo, egli è consapevole: “Sto espirando un respiro lungo”. Inspirando un respiro corto, egli è consapevole: “Sto inspirando un respiro corto”. Espirando un respiro corto, è consapevole: “Sto espirando un respiro corto”. “Sto inspirando, percependo l’intero corpo”, così egli si esercita. “Sentendo l’intero corpo, sto espirando”, così egli si esercita. “Con le attività corporee calmate, sto inspirando”, così egli si esercita. “Con le attività corporee calmate, sto espirando”, così egli si esercita. D. 22 / M. 10, Satipaµµh±na Sutta, ¾n±p±na-pabba½
Quando una sensazione piacevole, spiacevole o neutra sorge nel corpo, egli comprende: “Una sensazione piacevole, spiacevole o neutra è sorta in me. È basata su qualcosa, non è senza una base. Su cosa è basata? Proprio su questo corpo”. Così egli dimora, osservando la natura impermanente della sensazione dentro il corpo. S. XXXVI (II). 1. 7, Paµhama Gelañña Sutta
Il meditatore comprende: “Si è manifestata un’esperienza piacevole, spiacevole o neutra. È costituita di più elementi fra loro diversi, intensa, dipendente da condizioni. In questa circostanza la cosa migliore da fare è applicare l’equanimità”. Questa esperienza piacevole, o spiacevole o neutra, finisce, ma l’equanimità rimane. M. 152, Indriya Bh±van± Sutta
Ci sono tre tipi di sensazione: piacevole, spiacevole e neutra. Tutte e tre sono impermanenti, costituite da più elementi fra loro diversi, e dipendenti da condizioni, soggette al decadimento, allo svanire, al cessare. Vedendo questa realtà, il seguace che ha ben compreso il Nobile Sentiero, diventa equanime verso le
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Appendice B
sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Sviluppando l’equanimità, diviene distaccato, sviluppando il distacco, diviene libero. M. 74, D²ghanakha Sutta
Se il meditatore si sofferma ad osservare l’impermanenza della sensazione piacevole dentro il corpo, il suo declino e il suo svanire; se osserva svanire anche il suo attaccamento a tale sensazione, allora, i condizionamenti nascosti di bramosia per la sensazione piacevole all’interno del corpo, sono eliminati. Se rimane ad osservare l’impermanenza della sensazione spiacevole dentro il corpo, allora, i condizionamenti nascosti di avversione verso la sensazione spiacevole all’interno del corpo, sono eliminati. Se si sofferma ad osservare l’impermanenza della sensazione neutra dentro il corpo, allora, i condizionamenti nascosti d’ignoranza nei confronti della sensazione neutra all’interno del corpo, sono eliminati. S. XXXVI (II), i. 7, Paµhama Gelañña Sutta
Quando i condizionamenti nascosti di bramosia per una sensazione piacevole, di avversione per una sensazione spiacevole e d’ignoranza per una sensazione neutra sono sradicati, il meditatore è chiamato “colui che si è totalmente liberato dai condizionamenti sotterranei, colui che ha visto la verità, ha eliminato tutte le bramosie e le avversioni, ha spezzato tutte le catene, ha pienamente compreso la natura illusoria dell’ego, ha messo fine alla sofferenza”. S. XXXVI (II). i. 3, Paµhama Sutta
La sua giusta comprensione è la visione della realtà così come è. Il suo giusto pensiero è rivolto alla realtà così com’è. Il suo giusto sforzo è osservare la realtà così come è. La sua giusta
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La meditazione Vipassana
consapevolezza è della realtà così come è. La sua giusta concentrazione è sulla realtà così come è. Le azioni del suo corpo, la sua parola e i suoi mezzi di sussistenza diventano puri. È così che si procede lungo il Nobile Sentiero. M. 149, Mah±-Sa¼±yatanika Sutta
Il fedele seguace del Nobile Ottuplice Sentiero compie degli sforzi e, persistendo in essi, diventa consapevole; rimanendo consapevole, diventa concentrato; mantenendo la concentrazione, sviluppa la giusta comprensione; comprendendo correttamente, sviluppa una fede vera, fiducioso del fatto che: “Ora che ho sperimentato, all’interno del mio corpo, quelle verità di cui avevo solo sentito parlare, le osservo con penetrante comprensione”. S. XLVIII (IV). v. 10 (50), ¾pana Sutta (discorso tenuto da S±riputta, il principale discepolo del Buddha)
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Note
L
e citazioni provengono dalla raccolta di discorsi Sutta Piµaka, seconda sezione del Canone Pali o Tipiµaka. I termini pali presenti nel testo sono tratti da una edizione del Canone Pali in devanagari dell’Università di Nava Naland±, Bihar, India. Ho consultato le traduzioni in inglese della Pali Text Society di Londra e della Buddhist Publication Society dello Sri Lanka. Mi sono state particolarmente utili le antologie curate dai ven. ѱnatiloka, ѱnamoli, e Piyadassi. A loro, come agli altri traduttori moderni del Canone Pali, va la mia profonda gratitudine*.
Elenco delle abbreviazioni A Aªguttara Nik±ya D D²gha Nik±ya M Majjhima Nik±ya S Sa½yutta Nik±ya Satip. Satipaµµh±na Sutta (D. 22, M. 10)
* La numerazione dei discorsi, riportata nelle note, è quella usata nelle traduzioni inglesi della Pali Text Society.
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La meditazione Vipassana Capitolo primo 1. S. XLIV. x. 2, Anur±dha Sutta. 2. A. III. vii. 65, Kesamutti Sutta (K±l±ma Sutta), iii, ix. 3. D. 16, Mah±-Parinibb±na Sutta. 4. Ibid. 5. S. XXII. 87 (5), Vakkali Sutta. 6. Mah±-Parinibb±na Sutta. 7. A. IV. v. 5 (45), Rohitassa Sutta. Si trova anche in S. II. iii. 6. 8. Dhammapada, I, 19, 20. 9. Basato sul M. 107, Ganaka-Mogall±na Sutta. Capitolo secondo 1. Saªkh±ra è uno dei più importanti concetti dell’insegnamento del Buddha, e uno dei più difficili da tradurre e interpretare. Il termine ha molteplici significati, e talvolta non è facile stabilire quale sia il più appropriato al contesto. Qui saªkh±ra corrisponde a cetan±/sañcetan±, che significa volizione, intenzione. Per questa interpretazione v. A. IV. xviii. I (171), Cetan± sutta; S. XXII. 57 (5), Sattaµµh±na Sutta; S. XII. iv. 38 (8), Cetan± Sutta. 2. M. 72, Aggi-Vacchagotta Sutta. Capitolo terzo 1. M. 135, C³¼a Kamma Vibhaªga Sutta. 2. Dhammapada, XXV. 21 (380). 3. Ibid., I. 1, 2. 4. Sutta Nip±ta, III. 12, Dvayat±nupassan± Sutta. 5. S. LVI (XII), ii. 1, Dhamma-cakkappavattana Sutta. 6. A. III. xiii. 130, Lekha Sutta. 7. Basato su A. I. xvii, Eka Dhamma P±li (2). Capitolo quarto 1. S. LVI (XII). ii. 1, Dhamma-cakkappavattana Sutta. 2. Ibid. 3. M. 38, Mah±-taºh±saªkhaya Sutta. 4. Ibid. 5. Ibid. 6. Dhammapada, XII, 9 (165). 7. D. 9, Poµµhap±da Sutta.
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NOTE
8. A. III. vii. 65, Kesamutti Sutta (K±l±ma Sutta), xvi. 9. Basato su S. XLII. vii. 6, Asibanchakaputta Sutta. Capitolo quinto 1. Dhammapada, XIV. 5 (183). 2. Ibid., I. 17, 18. 3. M. 27, C³¼a-hatthi-padopama Sutta. 4. Ibid. Capitolo sesto 1. A. IV. ii. 3 (13), Padh±na Sutta. Capitolo settimo 1. Dhammapada, XXIV. 5 (338). 2. D. 16, Mah±-Parinibb±na Sutta. 3. Dhammapada, XX. 4 (276). 4. S. XLVI (II). vi. 2, Pariy±ya Sutta. 5. S. XII. vii. 62 (2), Dutiya Assutav± Sutta; anche S. XXXVI (II). i. 10, Phassa M³laka Sutta. 6. Dhammapada, XX. 5 (277). 7. S. XXXVI (II). i. 7, Paµhama Gelañña Sutta. Capitolo ottavo 1. D. 16, Mah±-Parinibb±na Sutta. Il verso è pronunciato da Sakka, re degli dei, dopo la morte del Buddha. Compare anche in altre parti, in forme leggermente differenti, ad esempio, S. I. ii. 1, Nandana Sutta e anche S. IX. 6, Anuruddha Sutta. 2. A. IX. ii. 10 (20), Vel±ma Sutta. 3. La nota similitudine della zattera è tratta da M. 22, Alagadd³pama Sutta. 4. Basato su Ud±na, I. x, storia di B±hiya D±ruc²riya. Si trova anche in Dhammapada Commentary, VIII. 2 (verso 101). Capitolo nono 1. S. LVI (XII). ii. 1, Dhamma–cakkappavattana Sutta. Questa espressione viene usata per descrivere la visione profonda raggiunta dai primi discepoli alla loro prima realizzazione del Dhamma.
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La meditazione Vipassana 2. S. v. 7, Upac±l± Sutta. Discorso tenuto dalla monaca arahant Upac±l±. 3. Dhammapada, XXV. 15 (374). 4. Ud±na, VIII. 1. 5. Ud±na, VIII. 3. 6. S. LVI (XII), ii. 1, Dhamma-cakkappavattana Sutta. 7. S. XXXVIII (IV). 1, Nibb±na Pañh± Sutta. Discorso tenuto da S±riputta, il principale discepolo del Buddha. 8. Sutta Nip±ta, II. 4, Mah±-Maªgala Sutta. 9. D. 9, Poµµhap±da Sutta.
Capitolo decimo 1. Dhammapada, VIII. 14 (113). 2. S. XXII. 102 (10), Anicca-saññ± Sutta. 3. D. 16, Mah±–Parinibb±na Sutta. 4. M. 117, Mah±–catt±r²saka Sutta. 5. Ibid. Appendice A 1. A. VIII. ix. 3 (83), M³laka Sutta. V. anche A. IX. ii. 4 (14), Samiddhi Sutta. 2. D. 1. 3. A. III. vii. 61 (ix), Titth±yatana Sutta. 4. S. XXXVI (II). iii. 22 (2), Aµµhasata Sutta. 5. Dhammapada, XXI. 4 (293). 6. Il Titth±yatana Sutta appare due volte nel Sutta Piµaka, in D. 22 e in M. 10. Nel D., la sezione che tratta di dhamm±nupassan± è più lunga che nella versione M., perciò il testo D. viene chiamato Mah±–satipaµµh±na Sutta, “il più grande”. Per il resto i due testi sono identici. 7. Satip. 8. Ibid. 9. Ibid. 10. S. XII. iv. 32 (2), Ka¼±ra Sutta. 11. S. XXXVI (II). iii. 23 (3), Aññatara Bhikkhu Sutta. 12. Dhammapada, XIX. 4 (259).
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Glossario dei termini pali Sono elencati i termini presenti nel testo e alcuni altri, scelti per la loro rilevanza nell’insegnamento del Buddha.
¾N¾P¾NA: respirazione. ¾n±p±na Sati: consapevolezza della respirazione ANATT¾: assenza di un sé individuale; inconsistenza, inesistenza dell’io; senza ego; senza essenza; senza sostanza. Indica una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, insieme con anicca, l’impermanenza, e dukkha, la sofferenza. ANICCA: impermanente; transitorio; effimero; in continuo cambiamento. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, con anatt± e dukkha. ANUSAYA: mente inconscia; condizionamenti nascosti, latenti in essa; reazioni mentali nascoste, latenti in essa; impurità mentali latenti in essa (anusaya-kilesa). ARAHANT: persona che si è liberata, che ha eliminato tutte le impurità della mente. ARIYA: letteralmente, nobile; persona nobile, nel senso di persona santa che ha purificato la mente al punto d’aver sperimentato la realtà ultima (nibb±na).
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La meditazione Vipassana
ARIYA
AÝÝHA©GIKA MAGGA: il Nobile Ottuplice Sentiero. Il metodo pratico insegnato da Buddha, che conduce alla liberazione dalla sofferenza. È costituito da otto gradini, divisi in tre parti: – S¿LA: condotta morale; etica; moralità; purezza delle azioni vocali e fisiche, comprende: 1) samm±-v±c±: giusta parola; 2) samm±-kammanta: giusta azione; 3) samm±-±j²va: giusti mezzi di sussistenza; – SAM¾DHI: concentrazione; padronanza della propria mente, comprende: 1) samm±-v±y±ma: giusto sforzo; 2) samm±-sati: giusta consapevolezza; 3) samm±-sam±dhi : giusta concentrazione; – PAÑѾ: (precisamente bh±van±-may±paññ± ) saggezza sperimentale; comprensione profonda che purifica la mente, comprende: 1) samm±-saªkappa: giusto pensiero; 2) samm±-diµµhi: giusta comprensione. ARIYA SACCA: nobile verità. Ci sono quattro nobili verità: 1) la verità della sofferenza; 2) la verità dell’origine della sofferenza; 3) la verità della cessazione della sofferenza; 4) la verità del cammino che conduce alla cessazione della sofferenza. BHA©GA: dissoluzione, importante stadio nella meditazione Vipassana: l’esperienza della dissoluzione dell’apparente solidità del corpo in sottili vibrazioni, che sorgono e passano continuamente. BH¾VAN¾: sviluppo; evoluzione mentale; medita zione. Comprende due parti: lo sviluppo della tranquillità (samatha-bh±van± ), corrispon-
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Glossario dei termini pali
dente alla concentrazione mentale (sam±dhi ), e lo sviluppo della comprensione profonda (vipassan±-bh±van± ), corrispondente alla saggezza (paññ± ). Lo sviluppo della meditazione di tranquillità (samatha) porta a stadi avanzati di concentrazione mentale (jh±na ); lo sviluppo della meditazione della comprensione profonda (vipassan± ) porta alla liberazione. BHIKKHU: monaco (buddista); meditatore. La forma femminile è bhikkhun², monaca. BUDDHA: persona illuminata, che ha scoperto la via che conduce alla liberazione, l’ha percorsa e ha raggiunto la meta finale con i propri sforzi. CINT¾‑MAY¾ PAÑѾ: saggezza intellettuale. V. paññ±. CITTA: mente. Citt±nupassan±: osservazione della mente. V. satipaµµh±na. DHAMMA: fenomeno; oggetto della mente; natura; legge naturale; legge di liberazione, cioè insegnamento di una persona illuminata. Dhamm±nupassan±: osservazione dei contenuti mentali (in sanscrito dharma). V. satipaµµh±na. DUKKHA: sofferenza; insoddisfazione; una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, con anatt± e anicca. GOTAMA: nome di famiglia del Buddha storico (in sanscrito Gautama). H¿NAY¾NA: letteralmente, veicolo minore o piccolo veicolo; termine anticamente adottato dagli appartenenti ad altre scuole, per indicare la scuola di Buddismo v. JH¾NA: stato di assorbimento meditativo. Esistono otto tipi di jh±na, che possono essere ottenuti con la pratica della concentrazione. Dedicarsi a questa pratica porta tranquillità ed estasi, ma
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La meditazione Vipassana
non elimina le negatività latenti nelle profondità della mente. KAL¾PA: la più piccola, indivisibile, unità della materia; particella subatomica. KAMMA: azione; specificatamente l’azione che si compie e che avrà effetto sul proprio futuro (in sanscrito karma). K¾YA: corpo. K±y±nupassan±: osservazione del cor po. V. satipaµµh±na. MAH¾Y¾NA: letteralmente veicolo più grande; la scuola di Buddismo sviluppatasi in India pochi secoli dopo la venuta del Buddha e diffusa in Tibet, Mongolia, Cina, Vietnam, Corea e Giappone. METT¾: amore incondizionato; amore altruistico; benevolenza; una delle qualità della mente pura. Mett±-bh±van±: il suo sviluppo per mezzo di una tecnica di meditazione. NIBB¾NA: la realtà ultima; la verità ultima; estinzione; libertà dalla sofferenza; stato incondizionato, che non dipende da condizioni (in sanscrito nirv±ºa). P¾LI: linea; testo. La lingua dei testi dell’insegnamento del Buddha. Ricerche linguistiche, storiche e archeologiche indicano che il p±li era una lingua parlata nell’India settentrionale ai tempi del Buddha. Più tardi i testi furono tradotti in sanscrito, lingua letteraria. PAÑѾ: saggezza. Ci sono tre tipi di saggezza: sutamay± paññ±, saggezza che si ottiene ascoltando altri; cint±-may± paññ±, saggezza che si ottiene con l’analisi intellettuale; e bh±van±-may± paññ±, saggezza che si sviluppa dall’esperienza; saggezza sperimentale; comprensione profonda che purifica la mente attraversola pratica di vipassan±-bh±van±. È la terza delle
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Glossario dei termini pali
tre parti del Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ariya aµµhaªgika magga). PARIYATTI: conoscenza teorica dell’insegnamento e delle parole del Buddha. PAÝICCA-SAMUPP¾DA: l’origine interdipendente; l’origine causale; la catena di causa ed effetto da cui ha origine la sofferenza (v. capitolo quarto). PAÝIPATTI: la pratica dell’insegnamento, della meditazione. PAÝIVEDHA: letteralmente penetrazione della verità, ovvero la realizzazione della verità, che si ottiene con la meditazione penetrando nelle profondità della propria natura. SAM¾DHI: concentrazione; controllo della propria mente. È la seconda delle tre parti del Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ariya aµµhaªgika magga). Se si coltiva fine a se stessa, porta al conseguimento dell’assorbimento mentale (jh±na), ma non alla liberazione. SAMM¾-SATI: giusta consapevolezza. Vedi sati SAMPAJAÑÑA: comprensione della totalità del fenomeno umano, ovvero comprensione profonda della sua natura impermanente attraverso l’osservazione delle sensazioni. SAþS¾RA: ciclo delle rinascite; mondo condizionato; mondo di sofferenza. SA©GHA: congregazione; comunità di chi ha sperimentato il nibb±na: ariya-saªgha; comunità di monaci e monache buddisti: bhikkhu-saªgha, bhikkhun²-saªgha. SA©KH¾RA: condizionamento mentale; formazione mentale; reazione mentale; attività della volizione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con viññ±ºa, saññ± e vedan±.
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La meditazione Vipassana
S A©KH¾RA-UPEKKH¾/SA©KH¾RUPEKKH¾: letteralmente, equanimità verso i saªkh±ra. Lo stadio nella pratica di Vipassana, che viene dopo l’esperienza di bhaªga, e nel quale vecchie reazioni latenti nell’inconscio emergono alla superficie della mente, manifestandosi come sensazioni fisiche. Conservando l’equanimità (upekkh± ) verso queste sensazioni, il meditatore non crea più nuovi saªkh±ra (reazioni o condizionamenti) e consente che quelli vecchi siano eliminati. Perciò il processo conduce gradualmente alla loro eliminazione. SAÑѾ: percezione; riconoscimento; individuazione. È condizionata dai vecchi saªkh±ra latenti nell’inconscio, e perciò riflette una immagine distorta della realtà. Con la pratica di Vipassana, saññ± si trasforma in paññ±, la saggezza di anicca-saññ±, dukkha-saññ±, anatt±-saññ± e asubhasaññ±, cioè la percezione dell’impermanenza, della sofferenza, dell’inesistenza di un io e della natura illusoria della bellezza. È uno dei quattro aggregati o processi mentali (insieme a vedan±, viññ±ºa e saªkh±ra). SATI: consapevolezza. ¾n±p±na-sati: consapevolezza della respirazione. Samm±-sati: giusta consapevolezza; una delle parti del Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ariya aµµhaªgika magga). SATIPAÝÝH¾NA: l’instaurarsi della consapevolezza. Comprende: 1) osservazione del corpo (k±y±nupassan± ); 2) osservazione delle sensazioni del corpo (vedan±nupassan± ); 3) osservazione della mente (citt±nupassan±); 4) osservazione dei contenuti della mente (dhamm±nupassan±).
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Glossario dei termini pali
Essendo le sensazioni collegate sia al corpo sia alla mente, mentre si osservano le sensazioni, indirettamente si osservano anche tutti gli altri aspetti (v. Appendice A). SIDDHATTHA: letteralmente “chi ha realizzato il suo compito”; il nome del Buddha storico (in sanscrito Siddh±rtha). S¿LA: condotta morale; moralità; purezza nelle azioni vocali e fisiche; astensione dalle azioni fisiche e vocali che danneggiano gli altri e se stessi; purezza nelle azioni vocali e fisiche. La prima delle tre parti del Nobile Ottuplice Sentiero (v. ariya aµµhaªgika magga). SUTA-MAY¾ PAÑѾ: saggezza ricevuta (v. paññ± ). SUTTA: discorso del Buddha o di uno dei suoi discepoli autorevoli (in sanscrito s³tra ). TAðH¾: letteralmente “sete”. Comprende sia la bramosia sia il suo contrario, l’avversione. Nel “Discorso sulla messa in moto della ruota di Dhamma”, il Buddha identificò in taºh± la causa della sofferenza. Nella sequenza dell’origine interdipendente, spiegò che taºh± ha origine dalla reazione alla sensazione (v. capitolo quarto). TATH¾GATA: letteralmente “così è venuto”, “così è andato”; “persona illuminata”, che, camminando lungo il sentiero, ha raggiunto la realtà ultima. È il termine con il quale il Buddha era solito riferirsi a se stesso: “come sono venuto, così sono andato”, proprio come ogni fenomeno. Tath±gata significa che tutto ciò che esiste è un fenomeno mentale e fisico in continuo cambiamento, che non esiste un’identità, una personalità. THERAV¾DA: letteralmente “insegnamento degli
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La meditazione Vipassana
anziani”; gli insegnamenti del Buddha, nella forma in cui sono stati preservati nelle nazioni del Sud-Est asiatico (Myanmar, Sri Lanka, Tailandia, Laos, Cambogia). Sono generalmente riconosciuti come la forma più antica degli insegnamenti. TIPIÝAKA: letteralmente “i tre canestri”; le tre raccolte degli insegnamenti del Buddha: 1) Vinaya-piµaka: la raccolta della disciplina monastica; 2) Sutta-piµaka: la raccolta dei discorsi; 3) Abhidhamma-piµaka: la raccolta dell’insegnamento più alto, ossia l’esegesi filosofica sistematica del Dhamma (in sanscrito tripiµaka). UPEKKH¾: equanimità. Una condizione della mente libera da bramosia, avversione, ignoranza. VEDAN¾: sensazione. Essa ha componenti sia fisiche sia mentali, perciò è il mezzo con cui esaminare la totalità del corpo e della mente. Nell’origine interdipendente il Buddha spiegò che taºh±, “sete o bramosia”, la causa della sofferenza, ha origine da una reazione alla sensazione, vedan±, (v. capitolo quarto). Imparando a osservare oggettivamente le sensazioni, si può quindi evitare qualsiasi nuova reazione di bramosia e avversione, e sperimentare all’interno di se stessi la realtà dell’impermanenza. Questa esperienza è essenziale per lo sviluppo della condizione di distacco, che conduce alla liberazione. Uno dei quattro aggregati mentali o processi, insieme a viñviññ±ºa, saññ± e saªkh±ra. Vedan±nupassan±: osservazione delle sensazioni fisiche nel corpo. V. satipaµµh±na.
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Glossario dei termini pali
VIÑѾðA: coscienza; cognizione; uno dei quattro aggregati o processi mentali, con saññ±, vedan± e saªkh±ra. VIPASSAN¾: introspezione; osservazione e comprensione profonda della realtà che purifica la mente; comprensione profonda della natura impermanente della mente e del corpo. Vipassan±-bh±van±: lo sviluppo sistematico della comprensione profonda della propria realtà, attraverso la tecnica di meditazione dell’osservazione delle sensazioni nel corpo. YATH¾-BHÐTA: letteralmente, “così come è”; realtà. YATH¾-BHÐTA-ѾðA-DASSANA: saggezza che sorge dal vedere la verità così come è.
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I corsi di meditazione Vipassana come insegnata da S. N. Goenka
I
n Italia, il primo corso di meditazione Vipassana, come insegnata da S. N. Goenka, si è svolto nel novembre del 1986. Nel 1991 un gruppo di meditatori ha fondato l’Associazione Vipassana Italia (Ente Morale con D.M. 26/11/1999), che, ogni anno, organizza numerosi corsi, operando nel pieno rispetto dei principi che ispirano questo insegnamento. Dal 2008 i corsi sono tenuti presso il Centro Vipassana Dhamma Atala Via Provinciale 12, Lutirano – 50034 Marradi (FI) Tel. [39] 055 804818 Fax: [39] 049 8591249 Sito web: www.atala.dhamma.org E-mail: info@atala.dhamma.org
Il finanziamento dei corsi Le Associazioni Vipassana sorte in tutto il mondo operano in autonomia, autofinanziandosi grazie alle libere offerte. Secondo la tradizione, infatti, l’insegnamento va dato gratuitamente, e l’organizzazione dei corsi deve essere sostenuta esclusivamente da donazioni ispirate da gratitudine e generosità. Questo per far sì che gli aspetti economici non interferiscano nell’insegnamento. Perciò, chi ha tratto giovamento da un corso e desidera che anche altri ne beneficino, può offrire una donazione, che permetterà l’organizzazione di altri corsi. In questo modo, svincolati da costi di partecipazione, i corsi sono accessibili a tutti, indipendentemente dalla situazione finanziaria.
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La meditazione Vipassana
“Per mantenere la purezza della meditazione, i corsi e i centri che operano sotto la sua guida sono senza fini di lucro. Egli non riceve alcun compenso per il suo impegno, e neanche gli assistenti, che ha autorizzato a tenere corsi in sua vece, e i volontari che collaborano negli aspetti pratici. Goenka offre Vipassana come un servizio all’umanità” (dalla Prefazione).
L’universalità Il metodo è accessibile a tutti e da tutti può essere accettato, indipendentemente da razza, nazionalità, religione, filosofia e opinione politica. Possono beneficiarne uomini e donne provenienti da ogni tradizione e condizione, giovani e anziani, devoti e atei, colti e illetterati, persone di successo e diseredati, carcerati e uomini di governo. I corsi di dieci giorni sono aperti a tutti coloro che siano sinceramente interessati ad apprendere la tecnica. “Priva di connotazione religiosa, essa è per tutti, poiché, essendo la sofferenza, con le sue cause, universale, la via per uscirne deve essere universale” (Goenka).
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I corsi di meditazione
L’utilità di Vipassana nella società Vipassana è stata introdotta, attraverso corsi specifici, in differenti ambiti educativi, sociali e lavorativi: scuole e università, aziende (con corsi per dirigenti e quadri), carceri (con corsi sia per i detenuti che per il personale di sorveglianza), centri di riabilitazione per alcolisti e tossicodipendenti (www.startagain.ch), ed enti sociosanitari per portatori di handicap, ad esempio non vedenti e malati di lebbra. Vi sono associazioni di volontari, che insegnano gli esercizi di consapevolezza del respiro ai ragazzi di strada di Mumbai. Inoltre, in India, molte istituzioni, pubbliche e private, promuovono la partecipazione ai corsi di Vipassana, per i loro dirigenti e impiegati. Informazioni sui corsi per bambini: www.atala.dhamma.org. “Possa la prossima generazione sbocciare sulla base di alti valori umani ed essere messaggera di pace per il futuro. È utile imparare Vipassana in giovane età, in modo da poter vivere una vita adulta utile e armoniosa. Le nuove generazioni hanno menti molto aperte e flessibili. Se ricevono semi di Dhamma, sviluppando la capacità di auto-osservarsi, questi giovani si stanno preparando a vivere una vita felice” (Goenka). Informazioni sui corsi nelle carceri: www.prison.dhamma.org. “Le carceri, in effetti, esistono per aiutare le persone a uscire dalla loro sofferenza, dai loro errori. Vipassana può diventare uno strumento prezioso per loro. Sono contento che si
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La meditazione Vipassana
sia cominciato a rendere disponibile questo strumento nelle carceri. Certamente sarà un esempio per il resto del mondo vedere come i prigionieri riescono a migliorarsi e ridiventare parte utile nella società. Vipassana li aiuterà in questo. D’altronde, non solo tra queste quattro mura, ma anche nel mondo esterno, ognuno di noi è prigioniero dei propri condizionamenti e dei comportamenti nocivi della mente. E, sicuramente, questa prigionia è più penosa di quella di un carcere” (Goenka). •
Documentari sui corsi nelle carceri: www.pariyatti.org •
In lingua italiana: Doing Time Doing Vipassana. Documentario sui corsi di dieci giorni nelle carceri indiane: www.ayana-book.com
La meditazione Vipassana per dirigenti Dal 2002 vengono organizzati corsi, riservati a dirigenti pubblici e privati, in India, Stati Uniti, Australia ed Europa. Vi hanno partecipato centinaia di persone con potere decisionale in ambito industriale, sociale e politico che, ora, non pensano più: “Sono troppo occupato, per queste cose” o “Non fa per me”, perché l’investimento di tempo e di sforzo li ha ampiamente ricompensati. Uno dei benefici acquisiti, infatti, è quello di poter affrontare meglio lo stress e l’ansietà che accompagnano ogni importante decisione, ma i risultati vanno ben oltre. Il corso trasforma queste persone da “maestri negli affari” a “maestri della propria mente”.
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I corsi di meditazione
Con la meditazione, imparano a essere più controllati, flessibili, disponibili e comprensivi nelle relazioni con i colleghi e con i familiari. Diventano anche capaci di integrare principi etici e valori spirituali nell’ambito del loro lavoro. Goenka ha viaggiato e insegnato molto in questi ultimi anni, e il suo passato di imprenditore (prima di dedicarsi ad insegnare Vipassana), ha attratto molti industriali e dirigenti a partecipare ai suoi corsi. Per informazioni: www.executive.dhamma.org.
La pace nell’individuo e nella società Poiché le guerre cominciano nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che si devono costruire le difese della pace (dal Preambolo della Costituzione dell’Unesco, 1945). “Le sole parole non possono produrre conciliazione e spirito cooperativo. Queste sono qualità che cominciano a fiorire solo quando gli individui s’impegnano nel cambiare loro stessi. […] Il mondo sarà in pace solo quando ognuno sarà in pace e felice con se stesso. Il cambiamento deve partire a livello individuale. Se la foresta s’inaridisse e voleste ridarle vita, dovreste innaffiare ogni albero. Per un mondo di pace, imparate a essere in pace con voi stessi. Solo allora porterete la pace nel mondo” (Goenka). Goenka è intervenuto presso molti enti internazionali tra i quali: •
Millennium World Peace Summit, ONU – Assemblea Generale delle Nazioni Unite, N.Y. USA, 2000;
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La meditazione Vipassana •
MIT Massachussetts Institute of Technology Boston, MA. USA, 2000; • Harvard Business School Club, N.Y.C. USA, 2000; • World Economic Forum, Davos, Svizzera, 2000: Per ascoltare alcuni discorsi pubblici in inglese, Podcast in: www.executive.dhamma.org www.pariyatti.org, www.vri.dhamma.org Per ulteriori informazioni: www.dhamma.org, per i centri nel mondo; www.atala.dhamma.org, per il centro in Italia; www.vri.dhamma.org, per il Vipassana Research Institute; www.pariyatti.com e www.ayana-book.com, per informazioni bibliografiche, audio e video in inglese. redazione@bibliotecavipassana.it e www.bibliotecavipassana.it, per informazioni generali su libri, articoli, audio, video in italiano sulla meditazione Vipassana come insegnata da Goenka.
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Vipassana in Italia e nel mondo
V
i sono numerosi centri operanti nel mondo. Nelle nazioni dove non è disponibile una struttura permanente, i corsi si svolgono in sedi provvisorie (vedi fine elenco a p. 257). I corsi sono tenuti nella lingua della nazione che li ospita e in lingua inglese. Per l’elenco completo dei centri, il calendario dei corsi e altre informazioni, consultare i siti: www.dhamma.org e www.vri.dhamma.org Italia Centro Vipassana Dhamma Atala Località Veriolo, Via Prov.le 12, 50034 Lutirano Marradi (FI) Tel. 0039-055-804818 Fax: 0039-049-8591249 E-mail: info@atala.dhamma.org www.atala.dhamma.org Corsi in lingua italiana in Svizzera Gruppo Vipassana Ticino Tel:0041-(0)76–2372232 E–mail: info@ticino.ch.dhamma.org www.ticino.ch.dhamma.org
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La meditazione Vipassana
EUROPA Belgio Dhamma Pajjota Driepaal 3, B 3650 Dilsen–Stokkem, Tel: 0032–(0)89–518230 Fax: 518239 E–mail: info@pajjota.dhamma.org www.pajjota.dhamma.org Francia Dhamma Mah² Le Bois Planté, Louesme 89350 Champignelles, Tel: 0033–386–457514 Fax: 457620 E–mail: info@mahi.dhamma.org www.mahi.dhamma.org Germania Dhamma Dv±ra Alte Strasse 6, 08606 Triebel, Tel: 0049–(0)37434–79770 Fax: 79771 E–mail: info@dvara.dhamma.org www.dvara.dhamma.org Gran Bretagna Dhamma D²pa Harewood End, Hereford HR2 8JS Tel: 0044–(0)1989–730234 Registrazioni: 731023 E–mail: info@dipa.dhamma.org www.dipa.dhamma.org Svezia Dhamma Sobhana Lyckebygården, 599 93 Ödeshög, Tel: 0046–143–21136 E–mail: registration@sobhana.dhamma.org www.sobhana.dhamma.org
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Vipassana in Italia e nel mondo
Svizzera Dhamma Sumeru No. 140, Ch–2610 Mont–Soleil, Tel: 0041–32–9411670 Fax: 9411650 E–mail: info@sumeru.dhamma.org www.sumeru.dhamma.org Per i corsi in lingua italiana: Gruppo Vipassana Ticino (vedi: Italia). MEDIO ORIENTE Iran Dhamma ¿ran www.iran.dhamma.org Israele Dhamma Pamoda www.il.dhamma.org AFRICA Etiopia Informazioni: Douglas Ravenstein www.et.dhamma.org Repubblica del Sud Africa Dhamma Pat±k± www.pataka.dhamma.org AUSTRALIA – NUOVA ZELANDA Vi sono sette centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma. org.au o il centro principale: Dhamma Bh³mi www.bhumi. dhamma.org
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La meditazione Vipassana
AMERICA MERIDIONALE Argentina Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Sukhad± www.sukhada.dhamma.org Brasile Dhamma Santi www.santi.dhamma.org Cile Dhamma Pasanna www.cl.dhamma.org Messico Dhamma Makaranda www.makaranda.dhamma.org Venezuela Dhamma Veºuvana www.venuvana.dhamma.org AMERICA SETTENTRIONALE Canada Vi sono quattro centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Surabhi www.surabhi.dhamma.org Stati Uniti d’America Vi sono otto centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma. org o il centro principale: Dhamma Dhar± www.dhara.dhamma.org
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Vipassana in Italia e nel mondo
ASIA Cambogia Dhamma Laµµhik± www.latthika.dhamma.org Giappone Dhamma Bh±nu www.bhanu.dhamma.org Dhamm±dicca www.adicca.dhamma.org Hong Kong Dhamma Mutt± www.hk.dhamma.org/mutta.html India Vi sono centri distribuiti in tutto il continente indiano. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Giri Vipassana International Academy www.vri.dhamma.org Indonesia Dhamma J±v± www.indonesian.dhamma.org Malaysia Dhamma Malaya www.malaya.dhamma.org Mongolia Dhamma Mah±na www.mahana.dhamma.org Myanmar Vi sono 15 centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma Joti www.joti.dhamma.org
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La meditazione Vipassana
Nepal Vi sono sette centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma. org o il centro principale: Dharmashringa Nepal www.shringa.dhamma.org Sri Lanka Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma K³ta www.kuta.dhamma.org Tailandia Vi sono sei centri. Per informazioni, programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro principale: Dhamma žbh¹ www.abha.dhamma.org Taiwan Dhammodaya www.udaya.dhamma.org
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Vipassana in Italia e nel mondo
Elenco delle nazioni in cui si tengono corsi in sedi provvisorie* EUROPA Austria, Bulgaria, Croazia, Francia, Finlandia, Grecia, Kirghizistan, Lituania, Macedonia, Norve gia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Serbia, Turchia, Ucraina, Un gheria, Uzbekistan. MEDIO ORIENTE Barein, Egitto, Emirati arabi, Libano, Oman. AFRICA Angola, Ghana, Kenya, Marocco, Swaziland, Zimbawue. AMERICA MERIDIONALE Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Puerto Rico, Santo Domingo, Uruguay. ASIA Corea del Sud, Fiji, Filippine, Polinesia francese, Singapore.
* Gli indirizzi sono in www.dhamma.org.
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VOLUMI 1. W. Hart:
La meditazione Vipassana. Un’arte di vivere.
Un’esposizione dettagliata della tecnica, integrata da racconti, aneddoti e consigli di Goenka. di prossima pubblicazione
2. S. N. Goenka
Vipassana è per tutti.
Scritti, discorsi e interviste sulla meditazione (inedito). A cura di P. Confalonieri. 3. P. Confalonieri (a cura di)
La saggezza che libera
Raccolta di discorsi del Buddha sulla pratica meditativa, commentati da S. N. Goenka. Nuova edizione revisionata (già Oscar Mondadori, 1995). 4. Amadeo Solé-Leris
L’insegnamento del Buddha
In questo saggio l’autore delinea le caratteristiche essenziali della meditazione nelle sue due linee fondamentali: “samatha–concentrazione” e “vipassana–visione profonda”. Nuova edizione revisionata (già Oscar Mondadori, 1999) . 5. V. R. I.
Venite gente del mondo
I versi recitati e cantati da Goenka in lingua hindi, nei corsi di meditazione Vipassana, con traduzione italiana.
CD audio MP3 1.
L’importanza della meditazione
Due discorsi di Goenka: Cos’è la meditazione Vipassana? I benefici di Vipassana per gli operatori sociali 2.
I discorsi di Goenka
nel corso di dieci giorni
3.
Consigli ai meditatori
Tre discorsi di Goenka e un contributo di Paul Fleischmann.
CD Rom e DVD di prossima pubblicazione 4.
Mangala Sutta CD Rom
Il discorso del Buddha sulla felicità più grande, recitato in pali e commentato da Goenka, con traduzione italiana. 5.
Doing Time Doing Vipassana DVD
Il documentario, tradotto in italiano, sui corsi di Vipassana nelle carceri.
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www.bibliotecavipassana.it
Finito di stampare nel mese di ottobre del 2011 dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma