Lettera aperta a un anziano, con un messaggio a un bambino…

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Copyright © Montabone Editore, 2020. In base alle leggi sull'editoria ogni riproduzione di quest'opera anche parziale e con qualsiasi mezzo è illegale. Luciano Boi Lettera aperta a un anziano, con un messaggio a un bambino…Ciò che i virus dovrebbero farci comprendere senza averci detto nulla - Perché non bisogna tornare alla “normalità” di prima - Occorre pensare oltre… Montabone Editore 2020.

ISBN 978-88-32275-32-33. Prima Edizione Giugno 2020.


Montabone Editore, Milano 2020, Via Festa del Perdono 10.



Indice Premessa I. Alcune riflessioni sulla situazione attuale I.1. Viviamo in un’epoca di eventi estremi I.2. Sulle restrizioni e gli effetti della crisi I.3. Come guardare a questa crisi e quali conseguenze trarne I.4. Prospettive, tra rischi e possibilità I.5. Il nostro sguardo sulla scienza alla luce della pandemia I.6. Alcune conclusioni provvisorie II. Approfondimenti II.1. La complessità biologica del virus e delle sue relazioni con gli “ospiti” umani all’era dell’Antropocene II.2. L’uomo, la natura e l’Antropocene II.3. Strumenti teorici (fisico-matematici) per capire la dinamica e l’evoluzione del fenomeno pandemico; fenomeni caotici ed eventi estremi II.4. Virus, entità biologica che paradossalmente da man forte ai pro-“digitalizzazione di massa” II.5. La digitalizzazione può diventare una nuova forma, più subdola e risolutiva, di alienazione. Considerazioni sul tempo II.6. Sull’impossibilità di digitalizzare a automatizzare la scuola e la ricerca II.7. Critica del riduzionismo meccanicistico e impossibilità di ridurre l’uomo a una macchina II.8. Salute, malattia e ambiente II.9. La pandemia come occasione di ripensamento e cambiamento. Sui rapporti dell’uomo con la tecnica (le tecnologie) II.10. Natura, tecnica e linguaggio III. Annotazioni frammentarie III.1. Da vicino e da lontano - Pensare oltre - Medita et labora III.2. Il dialogo tra scienza e filosofia


III.3. Nichilismo, modernità e ideologia post-umana III.4. Il gioco, l’innocenza e il sogno III.5. Apertura prospettica sul possibile - Ripensare l’orizzonte delle nostre vite

Bibliografia Annesso Lettera di un anziano a figli e nipoti prima di morire di coronavirus (del 22 aprile 2020) Ringraziamenti Crediti (per le foto e immagini)


Luciano Boi Lettera aperta a un anziano, con un messaggio a un bambino… Ciò che i virus dovrebbero farci comprendere senza averci detto nulla - Perché non bisogna tornare alla “normalità” di prima - Occorre pensare oltre…

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Lettera aperta a un anziano, con un messaggio a un bambino…

Ciò che i virus dovrebbero farci comprendere senza averci detto nulla Perché non bisogna tornare alla “normalità” di prima Occorre pensare oltre…

Riflessioni “inattuali” sulla complessità biologica del virus e la fragilità dell’uomo, la catastrofe ecologica, il disastro della globalizzazione, le relazioni tra vita e ambiente, la crisi di un modello economico-sociale, l’erosione del senso e il declino della cultura, l’impossibilità di ridurre l’uomo a una macchina, i pericoli della scomparsa dell’umano, il legame tra scienza e filosofia, il gioco e l’innocenza, l’importanza di continuare a sognare mondi diversi…

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A Vincenzo

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“Non ho modo di sapere se gli eventi che sto per narrare sono effetti o cause.” (Jorge Luis Borges) “Il genere umano non odia mai tanto chi fa del male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.” (Giacomo Leopardi) “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza cocchiere in gran tempesta, non donne di provincie, ma bordello.” (Dante Alighieri)

Premessa Le riflessioni presentate nelle pagine che seguono hanno inizialmente avuto origine qualche settimana or sono come annotazioni frammentarie che mi erano via via suggerite dai fatti e dai molti articoli e discorsi legati alla pandemia di coronavirus diffusasi nei mesi di febbraio, marzo e aprile, con un’attenzione particolare a quanto è successo in Italia ma anche in Europa e nel mondo. Sulla spinta di una situazione che diventava ogni giorno più drammatica e complessa, e anche per certi versi più oscura, ho spontaneamente scelto di dare una forma più elaborata (anche se per nulla sistematica secondo i criteri richiesti generalmente da uno studio rigorosamente documentato e scientificamente giustificato) a quelle riflessioni precisandone i contenuti e approfondendone alcuni aspetti scientifici e filosofici, nonché alcuni risvolti culturali in senso lato. Queste annotazioni dovevano restare delle considerazioni personali gettate in un diario, un po' come si fa quando si scarabocchia la sera al tramonto o la mattina all’alba, nella discrezione e nell’incertezza dei pensieri che scorrono senza volerlo. Poi, a causa forse dell’isolamento fisico e spirituale, ho voluto trasmettere queste stesse riflessioni a qualche amico con cui intrattengo uno scambio epistolare ed anche a qualche altra persona che mi è capitato negli ultimi anni di incontrare e verso i quali sento una sincera stima umana e anche una certa affinità culturale. Ciò è successo il 3 maggio. Alcuni degli amici a cui ho scritto mi hanno generosamente (e prontamente) comunicato le loro impressioni sulla situazione che ancora stiamo vivendo. Nondimeno sentivo che la distanza fisica e l’isolamento intellettuale rafforzavano in qualche modo il desiderio di cercare una discussione corale e di tenere viva la forza e soavità del pensiero, qualità degli esseri umani che le circostanze attuali ne rendevano ancora più necessaria l’espressione. In fondo le idee sono il frutto di un dialogo e di una partitura a più voci, e questo accade tanto più quando il logos riesce a incarnarsi in una comunità di individui in cui ognuno pensa autonomamente e nello stesso tempo tutti sono animati dallo stesso intento umano e culturale. La speranza era anche che da qui potessero sorgere nuovi

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contenuti di riflessione e anche un nuovo stile nella discussione e nell’impegno, più discreti e umili e pertanto lontani dal mondo inanimato e immobile dei media, dove si può dire tutto e nulla e dove anche la più perspicace e nobile delle idee viene trasformata spesso in un’esibizione misera e triste. Si trattava perciò di rifuggire da ogni forma di bizantinismo e di narcisismo. Le idee devono poter essere arricchite e migliorate dalle riflessioni degli altri. Non c’è autentico dialogo se non si riconosce la possibilità di esprimere anche punti di vista profondamente differenti. È dal confronto di idee diverse e anche lontane che si perviene a far convergere realmente i pensieri. Comunicando a pochi amici le mie annotazioni ho voluto pertanto esprimere alcuni pensieri sparsi sui diversi aspetti che riguardano la situazione attuale con schiettezza, e ugualmente con discernimento, lasciando aperta soprattutto la possibilità del dubbio e della critica, facendo mie a tal proposito le parole di Omero (in Menzogna e sincerità): “Spregevole è l’uomo che una cosa cela nel profondo del cuore e un’altra dice”. Confesso che quando, qualche settimana or sono, ho letto nella stampa di «app digitale» e di «distanziamento sociale», ho avuto la stessa sensazione che si prova quando succede un fatto tragico che improvvisamente sconvolge la nostra vita o quella di un altro che ci è caro – o anche quella di un qualunque essere umano –, come se il “il mondo ci crollasse addosso” e un’immensa onda di tristezza ci travolgesse. Poi, facendo tesoro di molte parole e idee di Seneca, Bruno, Leopardi, Borges, Thom e di altri liberi pensatori, che ho bevuto in tutti i momenti del giorno e della notte come si beve l’acqua pura alla fonte, mi son detto che un nuovo sforzo di memoria e di immaginazione ci è richiesto per decifrare alcuni misteri di questo nostro mondo e per riaffermare le ragioni inalienabili della vita, dell’intelligenza e dell’umano. È chiaro che non basta più sdegnarsi (e tanto meno lamentarsi), né servono i grandi progetti vuoti di idee e colmi di retorica. Per arrestare l’ondata dell’insignificanza che lentamente ma implacabilmente sta invadendo le nostre vite, le relazioni umane e i luoghi vitali, occorre infondere nuova linfa ed energia nella nostra sensibilità sempre più arida e spenta, rivitalizzare il pensiero e l’azione insieme, ritrovare la parola (la conversazione) e il silenzio (l’ascolto) congiuntamente, in modo tale che comprendere e agire (così come pensare e sentire, ragionare e immaginare) divengano un solo e medesimo gesto. Si tratta di unire i nostri sforzi, come i musicisti di un’orchestra uniscono i loro per creare una nuova sinfonia, o come i contadini in un campo univano i loro per raccogliere i frutti e dividerli, per dare corpo a un nuovo progetto, per dare semplicemente spazio alla nostra voce e a quelle che, rimaste sino ad ora inascoltate, hanno qualcosa di sincero e forse di essenziale da esprimere, per liberare il possibile dallo spazio immobile e dal presente perpetuo in cui sono stati

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rinchiusi dai falsi schemi del post-moderno e del post-umano, per tornare insomma a sognare. Le cose appena dette continuavano ad essere riflessioni personali, la cui provvisoria e fragile esistenza galleggiava nel mondo dell’incertezza, e in tale forma sarebbero dovute restare. Ciò che ha cambiato le cose e mi ha fatto recentemente decidere di rendere pubbliche le mie riflessioni, è la lettura in alcuni quotidiani (se rammento bene di trattava della La Stampa e del Il Messaggero) di una lettera scritta da un anziano signore il 22 aprile a figli e nipoti prima di morire di coronavirus. In realtà, come si evince dalla lettura della lettera, ci sono altre concause che, come nel caso di molti altri anziani, possono aiutare a spiegare il repentino decesso di quest’anziano signore, legate alle condizioni indecenti, fisiche e umane, in cui si trovava, circondato, come normalmente ci si aspetterebbe, non da premura, generosità e gentilezza, ma da trascuratezza, indifferenza e inciviltà. Il nostro anziano era degente in una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale), che egli chiama “prigioni dorate”, intendendo in realtà con ciò un luogo “apparentemente tutto pulito e in ordine, [dove] ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi [anziani] siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera”. Questa è la realtà “vera” velata e taciuta dai mezzi d’informazione e dai media e fortunatamente rivelata dalla lettera di chi l’ha drammaticamente vissuta, e di cui vorrei citare qui alcuni brani (il testo integrale della lettera è riportato alla fine del saggio). È una lettera straziante e commovente. Un vero e proprio condensato di umanità e di bontà. Un’epistola piena di qualità spirituali e di coraggio, scritta con il linguaggio del cuore, delle parole e dei gesti. Un messaggio, che sebbene scritto alla soglia della vita, ritrova la forza di richiamarne le qualità più semplici ed essenziali, come la luce di un sorriso e la tenera attenzione di una persona vicina, e anche “l’odore della propria casa, il profumo dei propri cari, i sorrisi, i racconti delle proprie storie e le discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene…”. In me ha provocato una sorta di catastrofe della coscienza (uso qui il termine catastrofe nel senso di René Thom, cioè qualcosa, un evento non comune, né negativo e né positivo, che genera una crisi, introduce una situazione del tutto inedita e porta a un profondo cambiamento di visione (di Gestalt)), che mi ha scosso nel più profondo interiore facendo vacillare anche le mie più solide convinzioni. Sarebbe auspicabile che provochi un effetto simile in molti, facendoli entrare in una fase di transizione e passare da uno stato d’assoggettamento e di esitazione (che oggidì dominano) a uno stato d’autonomia razionale e sensibile, a un risveglio del loro pensiero e delle loro coscienze. In fondo, l’anziano ha trovato la forza di scrivere la lettera (l’ultima della sua vita) per trasmettere un messaggio di speranza. Attraverso i propri figli, egli si rivolge ai nipoti scrivendo: “Fate sapere (…) ai miei

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nipoti (…) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi”. Le riflessioni che seguono sono dedicate alla memoria del “nostro” signore anziano. Non vuole essere una dedica qualsiasi, ma un gesto di gratitudine verso colui che ci ha lasciato un messaggio importante, da cui traspare nello stesso tempo tragica impotenza e sincera speranza, che non può lasciarci indifferenti. Ma la lettera del “nostro” anziano è ancor più di un messaggio. Si tratta infatti di un’esortazione, pronunciata con profonda dolcezza e straordinaria lucidità critica, ad ascoltare e a saperne trarre le dovute e durature conseguenze; si tratta di un lascito culturale di cui ciascuno di noi dovrebbe farne tesoro per il presente e l’avvenire.

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I.

Alcune riflessioni sulla situazione attuale “Non c'è piacere più complesso del pensiero.” (J. L. Borges) “L'egoismo è sempre stata la peste della società e quando è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società.” (G. Leopardi)

Pur essendo i tempi che viviamo particolarmente difficili e per molti dolorosi, e perciò non propizi a una riflessione pacata, tuttavia, proprio perché la situazione ha raggiunto una soglia di criticità estrema, è urgente e necessaria una riflessione la più approfondita e schietta possibile, che sebbene si focalizzi sulla situazione attuale che ci troviamo ad affrontare, non perda di vista né il contesto globale all’interno del quale cercare di capire quanto sta avvenendo, né l’orizzonte verso cui guardare per ripensare radicalmente e globalmente i problemi e le situazioni dell’epoca presente. Sono ahimè spesso le tragedie che pervengono a scuotere le coscienze e a smuovere gli animi, a interrompere il torpore della ragione e l’inerzia della volontà, a far scattare in noi un atteggiamento nuovo, più aperto e rivolto all’ascolto, come se solo nelle situazioni di estrema difficoltà e di profondo dolore trovassimo la forza e la solerzia per vedere le cose diversamente e diventare consapevoli di ciò che bisogna fare, per nostra libera scelta e non perché si è costretti. Si conoscono tanti casi di scrittori, artisti e anche scienziati – basti qui citare Leopardi e Proust, che in uno stato di privazione e di isolamento, se non di malattia, hanno riscoperto il significato del fluire del tempo, il valore straordinario della memoria, l’importanza vitale delle relazioni umane, il senso profondo di cosa voglia dire vivere e del perché sia un fine inalienabile. La prima cosa che dovremmo chiederci è: cosa ci dice la storia dei virus e di questo virus in particolare (una storia peraltro vecchia di 3,6 miliardi di anni!), non solo dal punto di vista della contingenza drammatica e dell’urgenza sanitaria in cui ci si trova? E poi: cosa ci insegna e quali lezioni possiamo e dobbiamo trarre da ciò che succede per via del virus? I virus, come i batteri e gli altri microorganismi, si sa, non parlano, non distinguono gli umani dagli animali e quest’ultimi dai vegetali, e non hanno fini, tanto meno quello di dichiarare le ostilità a chiunque sia. I microorganismi non sono un nemico in sé (altrimenti non saremmo qui a vivere sulla Terra, dove si contano miliardi di virus e di altri microrganismi), ma possono diventarlo (mutando il loro genoma) quando gli uomini distruggono i loro ecosistemi e fanno la “guerra” contro i loro habitat naturali a cominciare dai loro ospiti animali (mammiferi, uccelli) e vegetali. Viene voglia di pensare (anche se una tale

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affermazione, al pari di quelle teologiche o letterarie, può sembrare assurda secondo criteri razionali ed è in ogni caso indimostrabile) che “… il virus è una vera metafora di una sorta di punizione inflitta dal sistema Natura contro la hubris dell’uomo” (cito da una corrispondenza privata con Pino Longo). Certamente, anche se la natura non fa scelte e non prende decisioni, le sue forze e la sua propria (auto)-organizzazione fanno si che è capace di agire evolvendo in certe direzioni invece che in altre e di reagire attivamente a certi cambiamenti sia inerenti ai suoi stessi processi sia esterni, cioè provocati dalle attività umane, che ne possono mutare (in certi casi irreversibilmente) lo stato. I virus non sono nostri nemici, di per sé non hanno nulla contro l’uomo e non ci pensano proprio a farci la guerra. Chi afferma tali stoltezze ha la coscienza sporca e lo fa in nome di altri interessi, tesi ad aumentare il suo potere economico-lucrativo e il controllo sociale sulle persone attraverso la digitalizzazione delle attività lavorative e scolastiche e l’automatizzazione dell’intelligenza. Quello che si può dire è che, come i batteri, i virus mostrano di avere una certa intelligenza biologica, e quindi una strategia per trovare l’ospite cellulare da infettare e potersi così replicare e diffondersi. Ma non è certamente una strategia pensata per eliminare il nemico (come si sente dire spesso in giro), del più forte contro il più debole. Citando Darwin, «Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento». Quest’ultimo passaggio ci offre una chiave di lettura per capire alcuni aspetti ancora oscuri del virus, ossia quali siano state le condizioni precise (spaziali, temporali ed eco-evolutive) che hanno favorito il salto di specie dall’animale all’uomo, la sua reale capacità di adattamento al nuovo ospite (l’uomo), i meccanismi che gli consentono di infettare rapidamente e con virulenza le cellule umane (in particolare quelle del sistema respiratorio), quali sono le tracce che l’infezione lascia sul sistema immunitario, e quale può essere nel tempo la risposta e la robustezza anticorpale all’azione del virus? E poi, quali sono i cambiamenti negli eco-sistemi naturali a cui i virus si sono adattati più facilmente favorendone il salto di specie? Si vedano a questo proposito gli studi di S. J. Gould e N. Eldredge, i quali ritengono che possa esserci una evoluzione da specie a specie che procede per «salti» - o discontinuità - improvvisi (invece che essere lenta e graduale), per riorganizzazione delle comunità biologiche intervallate da lunghi periodi di stasi. C’è da notare che questi salti (come molti altri fenomeni discontinui e bruttali) possono essere spiegati e compresi in modo più approfondito e preciso qualora li si pensa matematicamente come delle biforcazioni. La teoria di Gould e Eldredge ritiene che i cambiamenti evolutivi avvengano in periodi di tempo relativamente brevi sotto l’impulso di forze selettive ambientali – è certamente quello che sta avvenendo da una sessantina d’anni sul nostro pianeta, dove si registra una perdita enorme di biodiversità faunistica e florale. (Sul significato delle biforcazioni nel

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mondo della natura, mi sia consentito di rinviare il lettore interessato a questo tema al mio articolo “Geometry of dynamical systems and topological stability: from bifurcations, chaos and fractals to dynamics in nature and life science”, International Journal of Bifurcation and Chaos, 21 (3), 2011, 815-867). Viene ora in mente il ben noto proverbio «Non tutti i mali vengono per nuocere». Il che è vero, e la vita di tutti i giorni ce ne da ripetuta conferma, se siamo però capaci di riconoscere il «male» (può trattarsi di una scelta sbagliata, di un errore, di un abuso o sopruso) e di cambiare il nostro atteggiamento mentale e i nostri comportamenti. È vero inoltre che le situazioni difficili e persino tragiche ci mettono di fronte ai limiti del nostro vivere quotidiano, al vuoto di una vita normale spesa senza riflettere a quello che si fa e a come lo si fa, anzi spesso spesa rinunciando a pensare, a quella qualità specificatamente umana che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi e fa di noi degli esseri singolari. Ma questa singolarità presenta due aspetti per così dire complementari, da un lato siamo esseri capaci di pensare e al contempo abbiamo coscienza di questa capacità (pensiero riflessivo), dall’altro siamo anche gli unici a poter pensare la nostra stessa finitezza (quantomeno biologica), ed è questa forse la principale radice dell’ambiguità e a volte delle atrocità che la specie umana è capace di compiere. Anche questa esperienza tragica che si sta vivendo attualmente ci dice che è essenziale imparare dai nostri limiti ed errori. Il che significa che dobbiamo cambiare profondamente la nostra visione della natura, il nostro essere al mondo e la nostra relazione con gli altri esseri umani. (Rinvio all’importante libro di I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi 1999). La distruzione degli equilibri eco-sistemici, in particolare la perdita di habitat animali e l’inquinamento di aree urbane e rurali sempre più vaste hanno sicuramente favorito il salto di specie e contribuito all’insorgenza del contagio, che in un mondo globalizzato, in cui tutti si spostano e viaggiano con inaudita velocità e frequenza e dove non esistono più argini e difese naturali per nessuno, non poteva che diventare in brevissimo tempo una pandemia. Al di là degli aspetti prettamente biologici che è importante approfondire e conoscere meglio, e non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello sociale (la barriera tra microorganismi e esseri umani sembra essere sempre più tenue) e culturale (i microorganismi sono sempre meno qualcosa di estraneo all’uomo, in realtà non lo sono mai stati), riguardanti in particolare il suo genoma, il tipo e il numero di mutazioni a cui può andare incontro, si tratta di capire meglio quali sono le condizioni, ad esempio, per evitare un salto di specie del virus dagli animali all’uomo, o quali sono le condizioni propizie per un adattamento rapido e duraturo del virus alle cellule umane, e sulla base di questa comprensione, che solo

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una ricerca sviluppata (e non fortemente ridotta) e integrata (cioè multidisciplinare e cooperativa) può garantire, si deve agire sulle vere cause del problema dotandosi nello stesso tempo degli strumenti necessari per prevenire la possibile apparizione e diffusione del virus. L’incentivazione dell’educazione scolastica e della ricerca e un nuovo rapporto con la natura sono i perni su cui bisogna costruire il futuro. Nel seguito indico alcuni punti che ritengo importanti e che dovrebbero fare l’oggetto di una riflessione approfondita, alla quale spero i lettori di questo saggio vogliano contribuire.

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I.1. Viviamo in un’epoca di eventi estremi “Il suffit d’abaisser notre prétention à dominer la nature et d’élever notre prétention à en faire physiquement partie, pour que la réconciliation ait lieu.” (Francis Ponge) “Che ne sarà della neve, del giardino, che ne sarà del libero arbitrio e del destino e di chi ha perso nella neve il cammino.” (Andrea Zanzotto)

Il primo punto da sottolineare è che non viviamo in un’epoca “normale” (traspongo qui il termine di “scienza normale” usato da Kuhn), in cui i fenomeni e gli eventi si susseguono in modo lineare e continuo, bensì in un’epoca caratterizzata da fenomeni ed eventi estremi, cioè che avvengono secondo un andamento discontinuo e non lineare (si è usato molto in queste settimane il termine esponenziale per designare il carattere della crescita della curva del contagio); perlomeno sarà l’occasione per far rammentare ai più il significato di un termine che, come tanti altri, è passato nel dimenticatoio e che invece è molto importante per capire anche le vicende che riguardano la nostra vita), si potrebbe dire brutale o catastrofico, cioè per transizioni brusche e improvvise. Tali eventi estremi o catastrofici, e le pandemie ne sono un prototipo come lo sono gli tsunami o i tifoni, sono in gran parte provocati dalle attività umane e dall’impatto negativo che queste hanno sugli equilibri degli eco-sistemi globali, e i loro effetti sulla nostra vita e salute e su quella degli altri esseri viventi non solo non sono di tipo regolare e cumulativo, bensì irregolare e a cascata (la velocità con cui ci si allontana dall’equilibrio cresce in modo esponenziale), oltre ad essere imprevedibili. Per fortuna gli effetti di una pandemia non sono globalmente (anche se su molti individui lo sono stati) irreversibili: il contagio si può infatti bloccare e l’organismo infettato dal virus si può (generalmente) curare. Un vaccino specifico per combattere questo nuovo virus è certamente necessario perché può proteggerci da un possibile contagio, ma non è la soluzione definitiva perché l’iniezione di anticorpi “artificiali” non garantisce una immunità duratura sia nel caso in cui riparta una nuova ondata del virus, sia in quello in cui in più il virus subisca mutazioni che possono renderlo ancora più aggressivo o attenuarne la carica infettiva. Bisogna agire innanzitutto sulle cause, che sono in primis la distruzione di molti equilibri eco-sistemici vitali per il pianeta e per l’uomo; si tratta in particolare di arrestare l’erosione della biodiversità, la devastazione degli habitat animali, la deforestazione, di ridurre in modo drastico l’inquinamento dei sistemi naturali ed

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antropici, dei nostri luoghi di vita, da quello atmosferico a quello dei suoli e degli oceani. Tutti questi fattori son in realtà delle concause che favoriscono al contempo l’insorgenza di nuove infezioni e di altre malattie parassitarie (virus e batteri) e l’indebolimento del nostro sistema immunitario. Il nostro sistema immunitario (che è straordinariamente complesso) può essere compromesso dalla cattiva alimentazione, dagli stili di vita sregolati e dallo stress. Anche l’esperienza che si sta vivendo mostra che chi vive in un ambiente inquinato (e la pianura padana risulta essere la regione o una delle regioni più inquinate d’Italia e d’Europa) è sicuramente più esposto al contagio di quanto non lo sia uno che vive in un ambiente non inquinato; in chi fuma, il virus (come altri microorganismi infettivi) può avere un’azione più aggressiva rispetto a chi non fuma. Per cui ci sono cofattori di questa situazione, che riguardano il numero, l’età e anche il profilo epidemiologico delle persone infettate dal virus, che intervengono a seconda delle condizioni fisiche, micro- e macro-ambientali. Nello specifico di questa pandemia, le età così come i numeri dei positivi e dei sintomatici gravi, devono essere messi in relazione con questo insieme di cofattori.

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II.2. Sulle restrizioni e gli effetti della crisi “Il libro è una delle possibilità di felicità che abbiamo noi uomini.” (J. L. Borges) “Bisognerebbe andare a scuola di povertà per contenere il disastro che la ricchezza sta producendo.” (Ermanno Olmi)

Il secondo punto importante riguarda il senso delle restrizioni di vario genere (negli spostamenti, nella comunicazione verbale, negli svaghi, nei consumi e negli alimenti) a cui si è soggetti da diverse settimane. Si è parlato molto degli effetti negativi di queste restrizioni soprattutto sull’economia e le attività produttive, e anche (ma di meno) sulla nostra condizione psichica (sensazione di smarrimento del proprio io, angoscia e depressione). Vorrei però attirare l’attenzione su un altro aspetto. Le restrizioni ci possono aiutare a capire certi lati della vita che non potremmo mai conoscere se vivessimo nell’abbondanza e nel lusso, e anche a scoprire (o riscoprire) certi aspetti di noi stessi che ci sono del tutto opachi e che diamo solitamente per scontati. Vivere con sobrietà e generosità non è una rinunzia che ci deve spaventare e di cui bisogna lamentarsi, ma è un limite che si trasforma in possibilità e in una virtù che ci può far vivere meglio e più intensamente arricchendo di senso la nostra stessa esistenza. Ed è una virtù anche e forse soprattutto perché ci fa essere meno egocentrici e narcisisti, meno egoisti e indifferenti, e nello stesso tempo ci permette un ritorno diverso (allocentrico) su noi stessi e sulla nostra condizione attraverso un percorso interiore che ci può aiutare a capire qualcosa in più e di più importante rispetto alla normalità moderna – anzi post-moderna e post-umana come certuni barbaramente la chiamano – di quel grande mistero della vita che siamo noi stessi e ciascuno di noi (il termine “mistero” non ha una connotazione religiosa ma indica qualcosa che non si conosce ancora e che verosimilmente non si conoscerà mai del tutto, cioè l’ignoto) sul quale anche la scienza dovrebbe interrogarsi in modo aperto e dubitativo. I momenti di sobrietà e di generosità, che dalla maggioranza delle persone vengono viste come “rinunzie” (perché spesso usiamo le parole per abitudine e perché siamo condizionati dal senso comune o, ancor peggio, da modelli veicolati da una certa comunicazione spettacolare di massa), sono quelli in cui prendiamo maggiormente coscienza della nostra ragionevolezza e sensibilità verso gli altri esseri umani, del luogo in cui viviamo, del mondo che ci circonda. Sono momenti in cui ci emancipiamo dai nostri egoismi e ci apriamo agli altri; sono momenti di vera libertà perché diventiamo consapevoli delle nostre possibilità e dei nostri

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limiti, che ci appaiono allora come due poli complementari di una stessa realtà. Ricordiamoci le parole di Lucrezio: «Sono grandi ricchezze all’uomo il vivere pacatamente e con animo sereno (gioioso, lieto, giusto), perché egli non avrà mai penuria del poco.» (Divitiae grandes homini sunt vivere parce aequo animo; neque enim est unquam penuria parvi). Ci sono dei viaggi affascinanti che facciamo sempre più raramente nella nostra vita, e in un mondo globalizzato come quello attuale viaggiare è diventato un’assuefazione, un oggetto di consumo, uno strumento infernale che inquina l’aria che respiriamo e invade annientandoli ogni angolo di silenzio e spazio di interiorità, insomma un non-senso totale. Oggi il viaggiare accelera tutte le forme di contagio, da quelle biologiche (virali) a quelle psichiche (mode alienanti e aberranti di dipendenza e forme d’intontimento collettivo). Mentre invece, la lettura, la musica, la conversazione, camminare o meditare in silenzio, sono altrettanti viaggi nel nostro mondo interiore, una ricerca del senso da dare alle cose e alla nostra vita. Per riprendere le parole di Claudio Abbado “l’educazione musicale è strumento fondamentale per lo sviluppo della persona e la qualità del vivere civile”.

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I.3. Come guardare a questa crisi e quali conseguenze trarne “L'egoismo è sempre stata la peste della società e quando è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società.” (G. Leopardi) “Essere moderni viene a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di restare fermi.” (Zygmunt Bauman)

Un terzo punto fondamentale è relativo al modo in cui si guarda o si vive questa situazione per certi versi di difficoltà estrema. Il problema di questa pandemia non si può affrontare solo in termini finanziari ed economici, erogando ingenti quantità di denaro alle imprese e ai singoli, né può essere correttamente letto e capito sul piano scientifico e dal punto di vista sistemico, limitandosi a sciorinare numeri e cifre. Questi vanno saputi interpretare prendendo in conto tutte le variabili significative e stabilendo delle correlazioni sistemiche tra di loro. Per fare un esempio, è chiaro che c’è una correlazione tra il numero di morti che ci sono stati a Milano e in Lombardia e il fatto che una buona parte delle strutture sanitarie pubbliche sono state privatizzate a beneficio di pochi e a detrimento delle fasce sociali meno abbienti (gli anziani malati e i poveri senza cure tempestive – basta, inoltre, guardare à ciò che accade negli Stati Uniti – sono le prime vittime del virus, cosi come in generale di altre malattie croniche; la morte anche in questo caso è il prezzo finale delle diseguaglianze sociali; la questione che dobbiamo porci è: come eliminarle? E non a parole, ma agendo concretamente e facendo quindi scelte che traducono gli obiettivi in risultati). Così come è chiaro che c’è un legame tra il fatto che circa l’83% dei decessi riguardi persone anziane (ottantenni) e il fatto che tra il 1997 e il 2015 si siano dimezzati i posti in tutti i centri di terapia intensiva (per via di una politica sanitaria scellerata di tagli e lottizzazioni compiuti negli anni). Tutto questo porta poi, cosa che non si può accettare, a scegliere tra un giovane di vent’anni e un uomo di settanta, stabilendo così una gerarchia d’importanza e di valore tra la vita di un giovane e quella di un anziano, idea francamente assurda e repellente dal punto di vista filosofico, etico e umano. Noi che abbiamo insegnato l’amore per la vita e la sapienza, dalla tradizione greca a quella rinascimentale, ora arriviamo a ragionare così! Che, in realtà, è un non ragionare, ma un puro calcolare sulla base del più utile (per la società) e del più produttivo (per l’economia). Ma la vita non si può ridurre (per fortuna!) a un numero, né il corpo a un oggetto, e né l’intelligenza a una macchina calcolante. La tragedia che si sta vivendo dovrebbe insegnarci che è necessario cambiare di paradigma, sviluppare un nuovo approccio culturale e sociale fondato sulla

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salvaguardia dell’equilibrio tra salute e ambiente, sulla prevenzione della malattia piuttosto che sull’accanimento farmacologico, sulla collaborazione e l’integrazione tra diversi saperi medici e su un nuovo rapporto tra personale sanitario e pazienti, più diagnostico e meno medicamentoso, più umano e sensibile e meno aziendale e tecnologico. Per ritornare a quanto si diceva prima, e cioè sui limiti di una strategia puramente economicistica nel modo di affrontare questa pandemia (e altre tragedie), non solo bisogna riconoscere questi limiti e trarne tutto l’insegnamento necessario, ma in più occorre superarli per mettere in atto una visione radicalmente diversa della persona. Non è un caso che anche in tempo di tragedie gli slogan e i fatti che preoccupano siano sempre gli stessi, e che tutti mettano l’accento sul primato dell’economia (e del profitto) in accordo con una visione neo-liberista della società e dell’uomo. In questo non poteva mancare Bill Gates (mondialmente santificato in nome della sua potenza finanziaria, ma ci si dimentica di dire che è anche un grande distruttore di culture, tradizioni e miti su scala planetaria) che con infinita magnanimità ha deciso di stanziare 125 milioni di dollari per trovare un vaccino contro il Covid-19 (così, oltre ai politici e ai governi, anche le più grandi industrie farmaceutiche e strutture ospedaliere saranno sotto il suo controllo!), senza però omettere di dire che «benché il (suo) progetto sia costoso, è anche economicamente vantaggioso (!)», e di aggiungere che «possiamo guadagnare tempo, anche qualche mese, ed ogni mese conta tantissimo e la perdita sarebbe marginale di fronte a un’economia globale che rischia di perdere trilioni di dollari» (cito da un’intervista recente). La fabbricazione di un nuovo vaccino è un’opportunità economica e di onnipotenza troppo alettante per farsela sfuggire e lasciarla ai governi e agli enti pubblici del settore. Non bisogna far finta di pensare che tutto sia chiaro, trasparente. In realtà, la pandemia del virus, che presenta non pochi aspetti oscuri sul piano sia scientifico che politico, è diventata per certuni - in primis per i trenta filantropi miliardari che possiedono il 70% per cento della ricchezza mondiale - un immenso affare economico per arricchirsi ancora di più e soprattutto per arricchire il loro potere economico e politico attraverso il controllo finanziario dell’industria digitale e della tecnoscienza, buona parte della quale è sempre più applicata al mondo del vivente e della salute. In realtà, tutti costoro si ispirano a un modello meccanicistico e riduzionistico della vita e della cultura (per il quale lo spazio è qualcosa da costruire e occupare e il tempo da contabilizzare e monetizzare). Infatti, cosa si legge? “Crollo del mercato dell’auto - 85% a marzo”, “bisogna far ripartire le aziende al più presto”, “si può cominciare a riaccendere i motori del paese”, “si deve rinascere come il ponte Morandi a Genova”, ecc. ecc. Son pochi però quelli che hanno osservato come ci sia voluta una tragedia (un evento brutale ed estremo) perché certi fenomeni e certe forme di vita riapparissero

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laddove prima v’era inquinamento (che ha molto a che fare con la contaminazione), rumore, degrado, desolazione e morte. È solo così che il cielo è ritornato ad essere cielo (senza aerei che hanno trasformato questa parte essenziale del pianeta, biologicamente prima di tutto ma non solo, in un’autostrada, che il mare è tornato ad essere mare e i pesci hanno potuto ritrovare il loro “mondo vitale” (l’Umwelt di Jacob von Uexküll), che l’aria… aria che si può respirare, che i fiumi…fiumi dove gli uccelli possono ritrovare i loro insetti preferiti, che i parchi…parchi dove la fauna a ripreso ad esistere, che i cammini…cammini dove poter camminare senza il rischio di farsi schiacciare da un’auto in corsa, e così via. Ai più tutto ciò può sembrare poco e di scarso valore. Ma non è affatto poco! Anzi è tantissimo ed è straordinariamente importante per l’umanità intera e per gli esseri umani in particolare. Ciò può sembrare un paradosso ma lo è fino a un certo punto, senza contare che i paradossi, così come le contraddizioni e gli errori, ci possono insegnare tante cose e spesso cose molto profonde e preziose. Quanti di noi possono capirlo e vedere le cose in modo radicalmente diverso rispetto al non-pensiero dominante? Sicuramente (almeno) quelli che ancora non hanno subito definitivamente la mutazione della disumanizzazione, che ovviamente non è genetica e che quindi non ha nulla a che fare con il DNA. Questo tra l’atro si ricollega al cosiddetto darwinismo sociale, una linea di pensiero che interpreta la storia sociale con gli stessi concetti introdotti da Darwin per capire l’evoluzione animale e vegetale, in particolare quelli di ‘selezione naturale’ e di ‘sopravvivenza del più adatto’. Il darwinismo sociale è arrivato persino ad affermare che nella lotta per la vita è in qualche modo lecito che vengano eliminati gli elementi deboli e maleadattati, e salvati gli elementi forti. Una certa forma di darwinismo sociale sopravvive ancora oggi nella concezione produttivistica e tecnofila dell’economia e della società. Non stupisce allora più di tanto che si evochi la scelta, in una situazione di emergenza sanitaria, di sacrificare gli anziani e di salvare i giovani, o di favorire il ritorno al lavoro delle persone sotto i sessant’anni e di lasciare a casa i sessantenni, perché meno sani e produttivi. (Più precisamente il ragionamento sottostante è: meno produttivi quindi meno sani, come se la salute di una persona dipendesse dal suo solo indice di produttività, o come se si potesse stabilire una correlazione diretta per una persona tra il suo diritto al lavoro e la sua età). Non solo un tale criterio e modello generale, così come è stato formulato, non ha alcun fondamento neurofisiologico e psicologico, ma è anche assurdo dal punto di vista filosofico e umano, e inoltre è discriminatorio sul piano etico e giuridico. Il grande poeta Africano ed ex presidente della repubblica del Senegal, Léopold Sédor Senghor, tenne a dire in una conversazione che ogni anziano del suo villaggio era visto non solo come un saggio, ma come una biblioteca

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vivente, le cui parole sono i libri e i cui silenzi sono gli spazi vuoti tra una frase e l’altra. Eppure, questa è in fondo la concezione che ispira il capo della task force voluta e scelta dal governo – (primo appunto: il servilismo linguistico è il contrario dell’amore per le lingue ed esso è un segno evidente del grado di imbarbarimento culturale di un paese, soprattutto quando si ha la fortuna di avere una lingua con una vasta e ricca gamma di possibilità) – e la maggior parte dei suoi membri – (secondo appunto: si badi, e non è un caso, quasi tutti scelti nel mondo delle tecnologie digitali, in quello manageriale ed economico-finanziario, come se ormai fossero loro i depositari delle conoscenze e gli unici abilitati a trovare le soluzioni). A proposito dell’economia (che, non dimentichiamolo, ha la stessa radice etimologica greca di ecologia, oikos, che significa “casa” o anche ambiente di vita – il termine Ökologie fu introdotto dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866 – economia: oikos, “casa” e nomos, “norma” o “legge”, letteralmente quindi “gestione della casa”), l’economista indiano e premio Nobel per la pace nel 2006, Muhammad Yunus, ha recentemente scritto: «[Nella situazione attuale, la questione importante non è] come far ripartire l’economia (…). Le esperienze vissute in passato ci hanno aiutato a mettere a punto una terapia generica per ridare vita all’economia. No, il grande interrogativo a cui dobbiamo dare risposta è un altro: riportiamo il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo? ll punto cruciale per lanciare un programma di rilancio post-coronavirus consisterà nel mettere al centro di ogni decisione e di tutti i processi decisionali politici una nuova consapevolezza sociale e ambientale. I governi dovranno garantire che neanche un dollaro andrà a finire nelle tasche di qualcuno a meno che non ci sia la garanzia che, rispetto a qualsiasi altra opzione, quel dollaro dato a quel qualcuno porterà al massimo vantaggio sociale e ambientale possibile per la società intera. Tutto quello che andrà fatto nella ripresa dovrà portare alla creazione di un’economia consapevole per il singolo Paese e per il mondo intero a livello sociale, economico, ambientale. (…) Finché l’economia resterà una scienza per massimizzare i profitti, non potremo farvi affidamento per mettere a punto un programma di rilancio e ripresa basato sulla consapevolezza sociale e ambientale (siamo noi che sottolineiamo)». Yune auspica che sempre più piccoli imprenditori e investitori creino imprese sociali per conto loro o legandosi in partenariato con altre attività sociali e culturali. E quello sarà l’inizio, secondo l’economista indiano, di un’economia ispirata da una consapevolezza sociale e ambientale. Si ha insomma bisogno di una nuova economia con altri presupposti teorici e fini sociali, un’economia attenta alla complessità della natura vivente e della cultura, un’economia ispirata a nuovi valori filosofici ed etici. (Per chi fosse interessato a questi temi, suggerisco la lettura

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dell’interessante libro, The Economy as an Evolving Complex System, a cura di Philip Anderson et al., Basic Books, 1988). Ribadiamo un punto fondamentale: non si può tacere (né si può minimizzarlo) su un fatto che è di fondamentale importanza, e cioè che la distruzione degli equilibri eco-sistemici vitali e la globalizzazione selvaggia del pianeta sono la radice delle vere e principali cause di questa situazione pandemica, e sono loro che permettono di spiegare diversi altri effetti nefasti che ne sono conseguiti. La distruzione della natura per opera dell’uomo da un lato, che non si traduce solo in un impoverimento biologico ma anche antropologico e culturale, e la globalizzazione brutale e inumana del mondo dall’altro, che si traduce in una enorme perdita di saperi, culture, lingue, tradizioni, miti e mestieri, ha messo in crisi i nostri valori più essenziali e universali.

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I.4. Prospettive, tra rischi e possibilità “Siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del Pil che deve crescere sempre, non si sa perché.” (A. Zanzotto) “Uomini siate, e non pecore.” (Dante Alighieri)

Un quarto punto importante riguarda il dopo e le prospettive. Il problema di questa pandemia è che, molto probabilmente, per noi cambierà l’esistenza in una certa direzione: si procederà a una maggiore automatizzazione della vita, a un maggior controllo delle nostre attività attraverso nuovi codici che si aggiungeranno a quelli già esistenti, da cui bisogna verosimilmente aspettarsi, da un lato, un’invadenza diffusa della macchina nella vita dell’uomo, dall’altro, una tendenza ancora più forte all’omologazione di massa e all’ulteriore smarrimento della coscienza critica. Ciò non farà che togliere ancora più consistenza ontologica e culturale agli esseri umani in quanto tali. C’è da supporre che i guru della digitalizzazione non perderanno questa occasione per vantare i pregi dell’era digitale in tutti i settori della società e ora anche in quello della salute e delle relazioni umane. Gli adepti del post-umano approfitteranno di questa tragedia che colpisce questa volta doppiamente l’uomo, in quanto specie e in quanto individuo, per trarne argomenti a favore del loro obiettivo di un superamento dell’uomo così come l’abbiamo conosciuto sino ad ora, per affermare la necessità di sostituirlo con un “uomo aumentato”, con qualcosa di sempre più artificiale e sempre meno umano, insomma un ibrido di uomo e macchina, sempre più macchina e sempre meno uomo. A questo spaventoso disegno bisogna rispondere riprendendosi pienamente gli spazi e i tempi umani: quelli che non si misurano sulla base del numero di merci prodotte e delle cifre sul Pil, ma narrando un’altra possibile storia e opponendo un progetto alternativo, come si racconta nell’introduzione al Decameron di Boccaccio (1353) quando scoppiò nel 1348 la terribile peste che sconvolse Firenze e l’Europa intera, che portò con sé un grande degrado morale e sociale (il più grave risvolto della malattia). Non un progetto alternativo per sfuggire alla realtà e salvarsi dal contagio, ma per creare un microcosmo diverso, un altro mondo in cui ripristinare un modello di società ispirato a razionalità, sensibilità e attenzione, ricordando che (come scrive Boccaccio) «a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione». Nei promessi sposi (1827), Alessandro Manzoni tratta della peste di Milano del 1630 e del fatto che la città si trovasse gravemente debilitata e del tutto impreparata a resistere al passaggio dei lanzichenecchi e al batterio che essi trascinarono con sé.

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Alla debolezza della città si aggiunsero peraltro l’incapacità delle autorità di cogliere la gravità della situazione e adottare le misure necessarie, e la più totale confusione dei medici nell’identificare la malattia e i suoi effetti. In tutt’altro contesto si colloca La peste di Albert Camus (1947). Si è appena conclusa la seconda guerra mondiale (“malattia” immane che travolse l’umanità provocando circa 15 milioni di morti, tra militari e civili). Il romanzo trascende tuttavia la contingenza storica per incentrarsi sul dibattito tra medicina e religione, e in particolare su come sia possibile conciliare fede ed esistenza del male - com’è possibile che muoiano tante persone e tanti bambini innocenti? La stessa domanda la rivolse Ivan Karamazov a Aleksej nei Fratelli Karamazov (1880) di Fëdor Dostoevskij. (Le parole di Ivan Karamazov a Aljosa rispecchiano le idee di Dostoevskij sulla natura umana e sul destino degli uomini. Nel suo monologo, Ivan Karamazov riflette sulla sofferenza degli innocenti concludendo che la sofferenza del giusto, come lo può essere il bambino, il quale non può fare il male perché non ha le capacità per scegliere liberamente di farlo, non è necessaria per l’armonia del mondo, e che se ciò dovesse essere il caso, il prezzo da pagare sarebbe troppo alto e incomprensibile.) Con un intento diverso e profondo spirito critico sono narrate vicende più vicine a noi e alla situazione in cui ci troviamo da José Saramago in Cecità. La cecità è un morbo che colpisce la gente comune: che i protagonisti del libro siano vittime del contagio o semplicemente di una imperscrutabile condanna non cambia il risultato. L’umanità dipinta dallo scrittore portoghese è un’umanità che ha scelto l’indifferenza come chiave di lettura del mondo e l’ha portata al suo termine ultimo, la violenza. Parlando della nostra società globalizzata e consumistica dei centri commerciali, Saramago scrive: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono». Secondo il poeta e scrittore italo-argentino Ernesto Sabato questa società si caratterizza per «l’inconsistenza e l’insensatezza dell’esistenza, la povertà spirituale dell’uomo, l’idea di progresso imposta a tutta la realtà, la perdita dei valori semplici ed essenziali, la monetizzazione del tempo, la cosificazione dell’uomo e la figura della desolazione». A favore dell’immaginazione squisitamente umana, di cui il libro è forse il frutto più significativo, Borges scrive: «Fra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro. Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vita; il telefono è estensione della sua voce; poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma il libro è un’altra cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione.» E ancora: «Mi sono sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca.»

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I.5. Il nostro sguardo sulla scienza alla luce della pandemia “Fatti non foste a vivere come bruti ma per seguir virtute conoscenze.” (Dante Alighieri) “Au moment où tant de savants calculent de par le monde, n’est-il pas souhaitable que d’aucuns, qui le peuvent, rêvent?” (René Thom) “La vita perde in velocità ciò che guadagna in verità, in complessità, in conservazione.” (Paul Valéry)

C’è infine un quinto ed ultimo punto a cui vorrei accennare, che riguarda il nostro modo di guardare e di rapportarci alla scienza, che questa situazione pandemica di estrema incertezza e vulnerabilità ha rimesso al centro della scena pubblica. Come prima cosa si può osservare che più le situazioni sono insicure e le condizioni umane fragili, più si fa ricorso alla scienza vista come unica fonte di certezze, e dunque allo scienziato visto come unica figura abilitata a fornire verità sulla malattia e soluzioni per uscirne. Si potrebbero citare alcuni esempi che in queste ultime settimane mostrano in modo eclatante quanto detto. Solo che quello che si è visto e udito è soprattutto se non unicamente scientismo puro, un’idea e pratica della scienza ben lontana e per molti versi agli antipodi del ben noto (ma non ancora à a certuni!) detto socratico «L’unica vera saggezza è sapere di non sapere nulla» (circa 460 a.C.), o di quello di Einstein «Chi non ha mai commesso un errore, non ha mai provato nulla di nuovo». (1954). Queste settimane hanno visto un ritorno a uno scientismo spesso gretto e ostentato, che oltre a promettere certezze e verità, richiede il posto di comando nella società dichiarando che il nostro destino dipende dalla scienza e dalla tecnologia. Il problema è che questo genere di proclami sono i più antiscientifici che si possano udire e non hanno nulla a che vedere con la scienza. Perciò vanno fortemente criticati. La scienza concepita in questo modo altro non è che un’immagine speculare della religione. La scienza è (o dovrebbe essere), invece, una scuola di democrazia fondata sull’esercizio del libero pensiero e un campo dello spirito dove si coltiva il dubbio e si impara continuamente dagli errori e dai paradossi.

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I.6. Alcune conclusioni provvisorie “Il libro non è un ente chiuso alla comunicazione: è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni.” (J. L. Borges) “La poesia è sempre più di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore.” (A. Zanzotto)

Vorrei terminare queste mie prime riflessioni sparse con la seguente osservazione. Il punto sulla libertà è che non la si comprende mai veramente finché non la si è persa e poi riacquistata. Analogamente possiamo dire che il punto sul cambiamento (e sulla necessità che esso avvenga) è che non lo si comprende mai veramente finché non si è persa quella falsa sicurezza e tranquillità, e ci si trova invece a vivere una tragedia in cui persino la nostra esistenza è in pericolo. E quando la nostra esistenza è in pericolo e prendiamo atto della nostra finitezza, si arriva a riscoprire la giusta misura delle cose, ci si avvicina a un maggiore equilibrio sia in quello che ci è concesso sia in quello che ci è dovuto, e prima ancora che dobbiamo agli altri in termini di partecipazione responsabile alla comunità e di solidarietà verso chi ha più bisogno, anche senza sapere che un giorno potremo trovarci noi in una condizione di bisogno. Da qualche settimana si è martellati dal proclama che “si deve ritornare alla normalità quanto prima”. Certamente bisogna poter ritrovare le persone e gli affetti che ci sono cari e che ci sostengono umanamente, e ritornare a quelle attività lavorative che permettono a ognuno di noi di mantenersi e di vivere. Ma ciò non significa ineluttabilmente che bisogna ritornare alla normalità a cui ci si è oramai ciecamente e meccanicamente assuefatti; una normalità che in più origina problemi e disagi di varia natura e che presenta sempre più dei risvolti patologici. Per cui bisognerebbe anche e forse soprattutto rivedere profondamente la nostra relazione alla natura, rifondare i nostri modelli culturali ed educativi, reinventarsi altre forme di società e altri stili di vita. Non v’è dubbio che c’è chi vuole ritornare alla normalità e quanto prima, perché di (una certa) normalità si ingozzano e vivono e perché (di quella) di normalità altri soffrono e periscono. “I ricchi e i potenti vogliono ovviamente tornare alla normalità di prima, vale a dire alla situazione politicamente ed economicamente iniqua (unfair) precedente alla crisi del virus, al potere incontrollato dei media, al consumismo diffuso, a un turismo invadente di massa, allo squilibrio ecologico (fonte di profitti), ecc. Altri credono che questa crisi sia solo l’inizio di una serie di

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crisi catastrofiche che prima o poi seguiranno, e altri ancora credono che questa crisi provocata dalla pandemia sia un’opportunità per cambiare radicalmente il mondo attuale. E per poterlo fare è urgente chiarire quale tipo di mondo alternativo vogliamo, da costruire realizzando prioritariamente una giustizia sociale e politica, un equilibrio dell’ambiente, uno spirito di cooperazione invece di un regime di mercato competitivo, con più fiducia (trust) nella ricerca scientifica, nella lentezza e nella solidarietà. Si tratta di elaborare un’analisi approfondita della crisi attuale e di indicare le future soluzioni e prospettive alla crisi. Il problema è di capire come possiamo concretamente contribuire a proporre e a realizzare le profonde trasformazioni che sono necessarie” (cito da una corrispondenza privata con Olga Pombo). Il primo elemento da affermare è che una società senza cultura è vuota e inconsistente. Le scienze e la filosofia, così come le arti compresi i mestieri sono elementi formativi essenziali di una comunità dialogica e del vivere civile. D’altro canto, “la poésie è fondatrice d’être” (scriveva Yves Bonnefoys). E come scrisse Paul Valéry, la vita è tanto più degna se “[essa] perde in velocità ciò che guadagna in verità, complessità e conservazione». E Borges scriveva che il proprio dell’uomo è di saper reinventare continuamente il mondo, partendo dal presupposto che questo mondo possibile, frutto della ragione e dell’immaginazione, non è meno reale della realtà che la maggioranza delle persone abitualmente vivono. Molti sono gli autori dimenticati che occorrerebbe riscoprire e saper ascoltare: uno di questi è Leopardi, che circa due secoli fa (nello Zibaldone) ci esortava a riflettere in modo premonitorio al comune destino che indissolubilmente lega l’uomo alla natura: “Tanto è possibile che l’uomo viva staccato dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci da qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età di un incivilimento smisurato, di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneranno indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”. La situazione di estrema difficoltà in cui ci si trova non è tragica per le stesse ragioni evocate da coloro che vedono i loro profitti abbassarsi, i consumi diminuire, la vendita delle macchine ridursi, il traffico aereo crollare, il turismo di massa arrestarsi e gli intontimenti calcistici negli stadi e nelle strade interrompersi, ma perché essa ci mette di fronte alle proporzioni disastrose che hanno ormai assunto le due vere cause che agendo in modo interdipendente hanno portato a questa ennesima tragedia che colpisce ancora una volta i più vulnerabili e deboli della società, ovverosia la distruzione della natura e la globalizzazione devastatrice che caratterizzano l’era attuale dell’antropocene e della disumanizzazione. Il primo ed essenziale insegnamento da trarre da questa tragedia è che occorre pensare oltre e in modo radicalmente diverso rispetto ai modelli attuali. In questi

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decenni si è spesso agito senza pensare, il che non solo ha fatto si che la nostra relazione con la realtà e con l’essere umano diventasse via via sempre più inconsistente e insignificante, ma ha finito per erodere quegli aspetti più essenziali e universali che rendono la vita degna di essere vissuta e che danno un senso all’umanità di cui siamo parte. Il rischio – più che un rischio, si tratta di una quasi-certezza – è che questa pandemia virale sia pretesto per un aumento massiccio e sproporzionato degli investimenti nell’intelligenza artificiale e nel digitale a scapito di altri i settori fondamentali della ricerca e della società; per molti, dalle multinazionali dei social alle aziende e ai politici, questa crisi sanitaria servirà da alibi per accelerare il processo di automazione della società e delle attività umane, e questo costituirà un grande balzo in avanti verso la disumanizzazione dell’uomo e la distruzione delle qualità specificatamente umane. Lo scenario della post-pandemia che si annuncia rischia di essere per certi aspetti mostruoso e di portare a crisi ambientali e antropologiche ben più catastrofiche per la natura e l’uomo. Queste crisi si possono evitare solo se non torniamo al mondo di prima e se ci mostriamo capaci di immaginare altri modelli sociali e di disegnare altre forme di vita che mettano al centro l’umano e il vivente. Questa pandemia accresce in qualche modo le diseguaglianze sociali, invece di ridurle. C’è chi può farsi visitare da un medico, e chi non può. C’è chi può curarsi, e chi non ne ha i mezzi. C’è chi è nelle condizioni per lottare al meglio contro l’infezione virale, e c’è chi invece vive in condizioni che non gli lo permettono. C’è chi può stare a casa sua con la massima protezione, e c’è chi non può perché non ha una casa adatta. Queste diseguaglianze sociali rispetto alle malattie infettive esistono da molto tempo, e in modo evidente dagli inizi della colonizzazione spagnola delle Americhe, iniziata nel 1493 e durata per quasi quattro secoli. Nel libro Armi, acciaio e malattie. Il destino delle società umane (1998), il biologo e antropologo Jared Diamond scrive che durante la conquista delle Americhe, il 90% delle popolazioni indigene sono state uccise dalle malattie introdotte dagli europei, in particolare da spagnoli e portoghesi, e si chiede come mai allora le malattie originarie del continente americano non hanno sterminato gli europei? Secondo Diamond, i germi che hanno sterminato le popolazioni americane (gli indigeni) si sono potuti diffondere grazie a due condizioni: (i) lo stretto contatto degli uomini con gli animali addomesticabili, possibile a quei tempi in Europa e in certe regioni dell’Asia ma non nelle Americhe, dove non c’erano specie animali addomesticabili. Molte malattie erano dovute a mutazioni dei geni che infettavano gli animali domestici, e il salto di specie da certi mammiferi all’uomo è una delle principali cause che hanno molto probabilmente originato la pandemia attuale. Nel corso dei secoli le popolazioni Eurasiatiche hanno sviluppato una parziale immunità, ma non così quelle Americane indigene; (ii) c’è inoltre da considerare l’alta densità

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abitativa delle città euroasiatiche (oggi la densità è quattro volte tanto) e la loro rete di collegamento con altre città o grandi centri che costituiscono una delle condizioni che maggiormente favorisce la diffusione di epidemie. Diversamente dalle società europee di allora, in società piccole e isolate geograficamente come lo erano quelle indigene a quei tempi, i germi responsabili di epidemie letali in breve tempo infettano la maggior parte della popolazione. Di conseguenza, una parte della popolazione soccombeva alla malattia mentre un’altra parte diventava immune. In queste condizioni, il germe responsabile dell’infezione non poteva sopravvivere a lungo. Nei paesi coloniali europei e in certe regioni dell’Asia, la fitta rete di collegamenti consentiva ai germi di continuare a circolare per lunghi periodi prima di ricominciare un nuovo ciclo di contagio nelle città già colpite dall’infezione. In questo modo, i germi patogeni potevano propagarsi di città in città e ritornare ad infettare la città di partenza quando, dopo molti anni dalla precedente epidemia, la popolazione originaria era stata sostituita dalle nuove generazioni. Queste, non essendo state infettate, non avevano sviluppato la totale immunità nei confronti della malattia. Anche la pandemia attuale del virus Covid-19, quattro secoli dopo, all’epoca della tolleranza e dei diritti umani universali per tutti i popoli e tutte le etnie, sta mettendo in grave pericolo le popolazioni indigene della regione Amazzonica in Brasile, e se non si interviene presto rischiano di essere sterminati dal virus. Prima infettati, molto probabilmente dai cercatori d’oro che invadono illecitamente il loro territorio e dagli agricoltori che disboscano abusivamente le loro terre, e poi abbandonati a sé stessi e privati di qualsiasi assistenza sanitaria. (Si veda l’appello recente lanciato dal grande fotografo e convinto difensore della cultura indios Sebastiao Salgado). C’è da notare infine che si è assistito a una presentazione piuttosto parziale della reale e complessa situazione epidemiologica che colpisce in modo drammatico milioni di persone e interi continenti, per non dire che si è taciuto sulle malattie croniche sempre più diffuse che ogni anno falciano centinaia di migliaia di vittime. Si tratta, in certi casi, di “malattie endemiche e estremamente mortali che colpiscono continenti vasti come quello africano [e che] non hanno preoccupato né continuano a preoccupare i più solerti preoccupati di oggi, solo perché la malaria ad esempio, sta laggiù e non da noi, mietendo vittime ed economie di cui non sentiamo direttamente le implicazioni” (cito da corrispondenza privata con Enrico Castelli Gattinara). Basti pensare che la malaria continua a contagiare milioni di persone ogni anno (228 milioni di contagiati nel 2018) e uccide più di 400mila persone l’anno, specie bambini (ogni due minuti perisce un bambino), di cui la stragrande maggioranza in Africa. O che le malattie respiratorie croniche, sulle quali certi fattori ambientali e innanzitutto l’inquinamento atmosferico incidono in termini molto significativi, colpiscono attualmente circa 300 milioni di persone nel

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mondo, e le cinque piĂš importanti malattie respiratorie causano il 17% dei decessi globali.

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Poetica della natura e sapientia. Alla riscoperta della terra e del mito “Bisogna abitare poeticamente la terra.” (Friedrich Hölderlin)

Teseo liberatore. (Museo archeologico nazionale di Napoli). Da Pompei. Teseo ha appena ucciso il Minotauro riverso a terra nell’ingresso del labirinto, e viene ringraziato dai giovinetti ateniesi destinati a finire in pasto al mostro, mentre sulla destra il popolo cretese assiste sorpreso all’evento.

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Allegoria del Buon Governo. L’affresco è stato realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel 1338-1339 e si trova nella sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena. L’autore voleva dare una rappresentazione di un governo indipendente e giusto, e delle conseguenze positive dello stesso sulla società e la vita nella città di Siena. È una raffigurazione che dovrebbe far riflettere i governanti attuali, per i quali l’indipendenza culturale e la giustizia sociale non sono né qualità né priorità rilevanti, e anzi sono generalmente assenti.

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La Scuola di Atene, di Raffaello Sanzio. Questo dettaglio dell’affresco raffigura maestri e allievi intenti a mostrare e ad apprendere, nello stesso luogo e tempo, la geometria, la filosofia e l’astronomia. L’affresco è databile al 1509-1511 e si trova nella Stanza della Segnatura all’interno dei Palazzi Apostolici.

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Erit recordatio - Ci sarà una memoria per l’avvenire. (Senza memoria non c’è futuro; senza sapientia non c’è conoscenza della natura e umanità possibili). L’affresco, realizzato nel 1451 circa, si trova nella Chapelle Notre-Dame des Fontaines, a La Brigue.

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Vincent van Gogh, Campo di grano con cipressi, 1889. (Olio su tela, 72 ´ 99 cm).

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Vincent van Gogh, Seminatore al tramonto, 1888. (Olio su tela, 64 ´ 80,5 cm)

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Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889. (Olio su tela, 74 ´ 92 cm)

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II.

Approfondimenti “La cecità è una forma di solitudine.” (J. L. Borges) “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono.” (José Saramago) “L’avidità e la cieca brama di onori, che spingono i miseri uomini a varcare i confini della legge e talvolta, compagni e ministri di colpa, a cercare di giorno e di notte con tutte le forze di emergere a somma potenza: sono queste le piaghe della vita, in gran parte nutrite dal terrore della morte.” (Denique avarities et honorum caeca cupido quae miseros homines cogunt transcendere finis iuris et interdum socios scelerum atque ministros noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes, haec vulnera vitae non minimam partem mortis formidine aluntur.) (Lucrezio)

Vorrei ora proporre alcuni approfondimenti, che per comodità espositiva organizzo (a grandi linee) per temi. II.1. La complessa biologia del virus e delle sue relazioni con gli “ospiti” umani nell’era dell’Antropocene “Nessuna cosa si genera dal nulla e per volere divino.” (Nullam rem et nihilo gigni divinitas umquam.) (Lucrezio) “Ho domandato non so quante volte ma nessuno risponde alle mie domande È assolutamente necessario Che l’abisso risponda subito Perché ormai sta restando poco tempo.”

(Nicanor Parra)

Il virus si lega alla membrana della cellula e gli inietta il suo genoma (DNA o RNA). Il genoma del virus penetra così nel DNA della cellula. La cellula ‘legge’ il DNA o l’RNA virale e produce altri virus finché non muore. Il virus infetta così altre cellule e si moltiplica nell’organismo contagiato. Il virologo canadese Curtis Suttle (dell’università di Vancouver) ha scoperto, nel 2018, che in ogni metro quadrato della Terra si depositano ogni giorno più di 800 milioni di virus. Ci sono più virus sulla Terra che stelle nell’Universo. Le particelle virali rappresentano quindi l’entità biologica più diffusa sulla Terra. Le ricerche del microbiologo francese Patrick Forterre (che lavora all’Institut Pasteur; si veda l’articolo “La cellule virale rouage de la vie”, Pour la Science, n° 469, 2016,

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42-49) hanno portato a riconoscere che esistono tra 100 e 200 grandi famiglie di virus, ciascuna delle quali ne comprende miliardi. Piazzati uno dopo l’altro, l’insieme di questi virus si allungherebbero su circa 100 milioni di anni luce, ossia 1000 volte la lunghezza della Via lattea. Gli oceani sono popolati da una grande quantità di virus, l’equivalente in peso di 75 milioni di balene blu. Ognuno di noi ingerisce più di un miliardo di virus ogni volta che va a nuotare. I virus sono presenti in tutti gli organismi viventi, animali e vegetali, tra cui gli esseri umani. C’è ancora un dibattito intorno alla vera natura biologica dei virus. Ci sono scienziati che non li considerano dei viventi perché non possiedono cellule e non producono energia mediante respirazione, che sono proprietà importanti degli organismi viventi. Tuttavia, nel momento in cui penetrano nell’ospite, i virus iniziano una certa attività biologica e l’apparato cellulare dell’ospite viene interamente destinato alla produzione di nuovi virus (di discendenti del virus iniziale). I virus attirano la nostra attenzione e ci spaventano perché possono essere agenti patogeni che ci trasmettono la malattia. Ma la maggior parte sono inoffensivi per l’uomo. Per esempio, esistono virus (innocui per gli esseri umani) che eliminano certi batteri (detti virus killer dei batteri), da qui l’idea di utilizzarli come arma per lottare contro le infezioni batteriche. Tale tecnica viene chiamata terapia fagica; riscoperta recentemente, essa potrebbe costituire, entro certi limiti e applicando gli accorgimenti necessari, una valida alternativa a quella antibiotica, in modo particolare contro i batteri-resistenti (agli antibiotici), che è attualmente una delle cause più importanti di mortalità. Uno studio apparso di recente, basato sull’analisi di oltre 200 sequenze genomiche complete, mostra la possibile coesistenza di ceppi virali diversi, ciascuno con una diversa strategia di mutazione. La mutazione in grado di differenziare il ceppo europeo–nord-americano da quello asiatico è avvenuta all’interno della polimerasi RNA dipendente, un enzima funzionale alla replicazione del virus. Questa mutazione può essere uno dei fattori che consente di spiegare la rapidità e la maggiore diffusione del virus nei pazienti infettati in Europa e nel nord-America rispetto a quelli contagiati in Asia. La sua forte capacità replicativa può essere un fattore che spiega la sua virulenza. In un altro articolo, ancora più recente, pubblicato nella prestigiosa rivista Cell (il 21 aprile), un gruppo di ricercatori ha voluto capire quali siano i geni la cui attività è stimolata dagli interferoni (appartenenti alla famiglia delle proteine citochine) in diversi tessuti del corpo umano durante l’infezione virale, attraverso l’analisi degli RNA messaggeri, presenti in un gran numero di cellule umane. Essi hanno mostrato che il SARS-CoV-2 utilizza la risposta degli interferoni in difesa del sistema immunitario che sopraggiunge immediatamente dopo l’infezione

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virale per aumentare l’espressione della molecola (enzima) ACE2, che svolge un ruolo di recettore per la penetrazione del virus nelle cellule del corpo umano e in particolare nelle cellule del sistema respiratorio (vie dell’epitelio nasale e degli alveoli polmonari). Per riassumere, i ricercatori dello studio citato hanno mostrato il seguente meccanismo complesso e paradossale: gli interferoni (le citochine) accrescono nelle cellule del sistema respiratorio umano l’espressione della proteina ACE2, che serve come porta d’entrata (una sorta di serratura) al virus per penetrare nelle cellule e infettarle. In altre parole, il coronavirus SARS-CoV-2 sfrutta a suo vantaggio l’attivazione degli interferoni (citochine), prima linea di difesa dell’organismo contro l’attacco virale, per continuare ad infettare diversi tipi di cellule nell’organismo. C’è da dire, tuttavia, che altri fattori, endogeni ed esogeni, intervengono nella dinamica dell’infezione virale e nel renderla più severa, in particolare l’età, la presenza di altre patologie e di co-infezioni (che sono un terreno favorevole alla virulenza del virus), e sembrerebbe anche il sesso (nel caso del coronavirus SARS-CoV-2), e le condizioni ambientali (inquinamento dell’aria, stili di vita, densità di popolazione, esposizione ad altri patogeni). Questi fattori sono legati a tre variabili significative (e forse ad altre che per ora si conoscono meno): essi possono, infatti, favorire una più rapida trasmissione del virus, un più alto grado di contagiosità e una risposta deficitaria del sistema immunitario. È importante tener conto di questi tre parametri per lottare contro il coronavirus se si vuole trovare una soluzione a monte e a largo spettro, e non solo di tipo farmacologico, che sia più efficace sul piano essenziale della prevenzione e nella lunga durata (per evitare o quantomeno frenare la ciclicità dell’infezione virale). (Per una riflessione sul funzionamento del sistema immunitario, si veda l’interessante libro di Philippe Kourilisky, Le jeu du hasard et de la complexité. La nouvelle science de l’immunologie, Parigi 2014). La scoperta dell’importanza dell’enzima ACE2, identificato come recettore del coronavirus SARS-CoV-2, permette di considerare certe strategie terapeutiche, come l’utilizzo di una forma solubile della proteina ACE2 nei pazienti infettati con sintomi severi. Lo scopo clinico-terapeutico consiste nel bloccare l’espressione della proteina ACE2, che come si è detto è ancorata alla superficie delle cellule infettate dal virus e funziona come recettore per permetterne la penetrazione nelle cellule attaccate dal virus. Facendole agire come esche o trappole, queste ACE2 si fisserebbero al virus evitando così che infetti le cellule. Viene fuori quello che già si sapeva per molti altri processi biologici riguardanti in particolare i rapporti tra genotipo, fenotipo e ambiente, ovverosia che c’è un legame stretto tra il meccanismo della contaminazione virale e l’espressione dei geni presenti nei tipi di cellule infettate (in particolare quelle respiratorie e intestinali). Infatti l’espressione delle proteine ACE2, recettori del SARS-CoV-2, è

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stimolata sia nelle cellule delle vie respiratorie superiori e inferiori che in quelle digestive. La risposta del virus agli interferoni (citochine), che inducono le cellule immunitarie e tissutali a resistere a infezioni virali, svela un aspetto inatteso della complessità delle relazioni tra questo virus emergente e l’organismo umano. (Sulla questione fondamentale del rapporto tra ambiente ed espressione dei geni, mi sia consentito di rinviare al mio articolo “Epigenetic phenomena, chromatin dynamics, and gene expression. New theoretical approachs in the study of living systems”, Biology Forum, 11 (2009), 405-442) Secondo lo scrittore David Quammen, autore del romanzo Spillover. Evoluzione delle pandemie (Adelphi 2014), «le alterazioni ecologiche che gli esseri umani mettono in moto con frequenza sempre maggiore creano le condizioni perfette perché questi microorganismi proliferino. Questo significa che nei prossimi anni dovremo preoccuparci di sempre più epidemie come questa. Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che 1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi in modo sempre più massiccio, esponendoci dunque ai nuovi virus e 4) quando un virus effettua un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi. Quando un virus degli scimpanzé, per esempio, fa il salto per diventare un virus dell’uomo, ha aumentato enormemente il suo potenziale di successo evolutivo. Il virus che chiamiamo Hiv-1 ne è un esempio». Come si è già detto, certi gruppi di virus, di cui il coronavirus SARS-CoV-2, si adattano e cambiano molto più velocemente degli altri. I più rapidi fanno parte di un gruppo di famiglie di virus noto come virus RNA a singolo filamento, il che significa che i loro genomi sono composti di un singolo filamento della molecola RNA, invece che il DNA, che è a doppio filamento. Un genoma RNA a singolo filamento commette molti più errori quando si copia mentre i virus si stanno replicando: e quegli errori, che si chiamano mutazioni, sono le materie prime dell’evoluzione per selezione naturale (un meccanismo già messo in luce da Darwin per la selezione naturale, senza che, tuttavia, conoscesse il materiale genetico delle nostre cellule). Quindi questi virus, in costante mutamento e adattamento, sono più capaci di trasferirsi a nuovi ospiti, come gli esseri umani, e proliferare. E tra i più noti virus RNA a filamento singolo ci sono i coronavirus SARS-CoV-2. La pandemia attuale ci pone di fronte a una situazione drammatica, al seguente dilemma: poiché siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta

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e solo su questo, più distruggiamo gli ecosistemi, più spostiamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo. Siamo quasi 8 miliardi di persone in questo pianeta, e consumiamo molte più risorse di quanto se ne possano produrre e di quanto soprattutto la terra sia capace di smaltire attraverso i processi della biodegradazione, siamo una grande specie predatrice e troppo assettati di cupidigia, capaci di sconvolgere equilibri naturali fondamentali, e tra le conseguenze di tale sconvolgimento c’è anche il salto di specie di certi virus dall’animale all’uomo. Non c’è soluzione a questa situazione drammatica se non si riduce rapidamente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e se non si riequilibra gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse. In altre parole, occorre un cambiamento radicale di modello economico-sociale e di paradigma culturale. E non è certo la tecnologia che può aiutarci a raggiungere tale obbiettivo, che anzi sta accelerando la distruzione della natura e della biodiversità su questo pianeta, ma la nostra consapevolezza e volontà di cambiamento unite a un buon governo che se ne fa realmente l’interprete sul piano delle decisioni e delle leggi.

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II.2. L’uomo, la natura e l’Antropocene “Tanto è possibile che l’uomo viva staccato dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci da qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneranno indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai nostri posteri, se avranno posteri.” (G. Leopardi) “La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere.” (L. S. Senghor)

Il distacco tra l’uomo e la natura si fa sempre più grande, e sempre più chiara appare l’impossibilità di una vita umana che ha reciso i legami con il mondo naturale. Poiché la natura è la fonte stessa di ogni forma di vita, si capisce dunque che ogni essere vivente non può svilupparsi senza di essa, così come (secondo la pregnante metafora vegetale di Leopardi) una pianta non può dare frutti se la si priva delle sue radici. Il degrado degli ecosistemi naturali ha ormai raggiunto livelli drammatici, e in molti casi irreversibili. Due soli dati bastano a confermarlo: circa il 70 % delle nostre terre coltivabili sono oggi sterili; più di 900 milioni di persone sul pianeta vivono senza acqua potabile. Questo degrado è in gran parte il risultato dei modelli di sviluppo economico e sociale voluti dall’uomo, ed è aggravato dall’imbarbarimento dei suoi comportamenti. Bisogna avere il coraggio di guardare la realtà in faccia e prendere coscienza del fatto che siamo di fronte a una mutazione antropologica dell’uomo, a un declino preoccupante dell’educazione e della cultura come valori fondanti della conoscenza, della società e del vivere civile, nonché davanti al rischio di una catastrofe ecologica e di un’estinzione del genere umano. E più urgentemente ancora, a un cambiamento radicale di atteggiamento mentale e dei nostri stili di vita. Il poeta e filosofo Giacomo Leopardi è stato forse il primo ad attirare l’attenzione sulle conseguenze disastrose e sui possibili effetti irreversibili a cui conduce il distacco sempre più crescente che l’uomo ha frapposto fra il suo modo di vita e la natura; distacco per giunta amplificato e aggravato dallo “snaturamento senza limiti” e dall’“incivilimento smisurato” dei comportamenti umani. La teoria dell’Antropocene, fondandosi su dati empirici incontrovertibili, afferma che le attività umane sostenute da potenti tecnologie, che sempre più sfuggono al controllo razionale dell’uomo, sono il fattore preponderante che agisce sull’alterazione dei ritmi biologici della natura e degli equilibri degli ecosistemi, e comunque di gran

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lunga più importante rispetto agli altri fattori naturali che possono (e devono) essere presi in conto. Le principali cause della perdita della biodiversità sono dovute alle attività umane. In primo luogo, la distruzione degli ecosistemi è provocata dall’agricoltura intensiva e dall’urbanizzazione a oltranza che induce una deforestazione massiccia e un’occupazione dei suoli per costruirci delle fabbriche, dei capannoni, delle strade, dei parcheggi e degli edifici. In Italia si perde così circa la superficie di una provincia ogni sette anni. Non bisognerebbe più costruire (né autostrade, né ponti, né parcheggi, né capannoni e né periferie urbane), ma preservare e risanare, proteggendo gli eco-sistemi. Tra le principali cause c’è poi l’inquinamento che è ormai diffuso dappertutto, persino nei pochi spazi inabitati come le regioni polari. L’inquinamento non è solo la plastica negli oceani, i pesticidi e gli insetticidi; sono anche le particelle sottili che respiriamo ogni giorno e che rendono sempre più vulnerabile i nostri sistemi respiratorio e immunitario, i perturbatori endocrini (che alterano la normale funzionalità ormonale dell’apparato endocrino), i metalli pesanti, i rifiuti elettronici ed informatici, ecc. C’è poi il problema delle specie invasive (spesso introdotte dall’uomo) e invadenti, che stanno colonizzando enormi aree rurali e urbane eliminando in questo modo tutte le altre forme di vita autoctone; la loro proliferazione è stata favorita dalle attività umane. V’è infine il sovrasfruttamento della foresta tropicale e dei mari. Basti pensare che ogni anno scompare l’equivalente della superficie della Gran-Bretagna, e che negli ultimi quarant’anni si è registrato una diminuzione delle specie marine del 40%, e che circa il 60% degli stock ittici è sovrasfruttato. L’astrofisico britannico Martin Rees ha scritto di recente che “Il lato oscuro della tecnologia del ventunesimo secolo potrebbe rivelarsi più pericoloso e meno controllabile della minaccia di catastrofe nucleare con cui ci siamo confrontanti per decenni. E non si può dimenticare che le pressioni delle attività umane sull’ambiente globale potrebbero fare più danni delle calamità naturali, come terremoti, eruzioni vulcaniche e impatti di asteroidi.” Tra le tecnologie “oscure” e distruttrici di forme di vita, di tradizioni culturali e di valori umani non ci sono oggi solo quelle militari e nucleari, ma anche quelle chimiche, agro-industriali, biosintetiche e digitali. Il termine antropocene (dal greco anthropos, che significa uomo), che è stato coniato negli anni ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e poi nel 2000 adottato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, indica l’epoca geologica attuale caratterizzata dall’impatto dell’uomo sulla biodiversità, sul pianeta e i suoi ecosistemi vitali. Tuttavia, fu il geologo e paleontologo Antonio Stoppani a introdurre, nel 1873, una definizione specifica per l’era geologica in cui la terra è massicciamente segnata dall’attività umana, e a proporre il termine di era antropozoica. C’è da notare che sette anni prima, nel 1866, uscì il primo libro di

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ecologia ad opera del biologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) il quale coniò il termine scientifico “ecologia” – “Ökologie” – (dal greco ‘oikos, “casa” o anche “dimora”, e logos, “discorso” e “studio”), che definì come “l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia (che ha, si badi bene, la stessa radice greca di ecologia e che vuol dire gestione della casa) della natura; l’indagine del complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico, comprendente soprattutto le relazioni favorevoli o sfavorevoli con gli animali e le piante con cui viene direttamente a contatto». Successivamente il mineralogista e geochimico russo Vladimir I. Vernadskij (1863-1945) considerò che «la direzione in cui i processi dell’evoluzione crescono tende soprattutto verso la consapevolezza che il pensiero e le forme hanno un’influenza sempre maggiore sugli ambienti circostanti», e definì col termine di noosfera (ossia sfera della ragione o mondo del pensiero) tale tendenza per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente. Lo stesso termine fu usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. È significativo aggiungere che Michael Samways ha usato il termine alternativo Omogenocene (da: omo-, stesso, geno-, generato e cene-, kainòs, nuovo) nell’articolo editoriale su Journal of Insect Conservation del 1999. Il termine indica che il presente è contraddistinto da una diminuzione drastica della biodiversità, da una omogeneizzazione progressiva della biogeografia e degli ecosistemi del pianeta a causa delle specie aliene che sono disperse nel mondo volontariamente (tecnologie, colture, piante, animali) o per rilasci involontari (smog, esalazioni varie, batteri e altri microorganismi). Ed è ancor più caratterizzato da una omologazione globale delle facoltà e pratiche umane operata tramite la diffusione capillare di tecnologie digitali alienanti e deleterie dal punto di vista fisiologico, cognitivo e comunicativo, che sta portando a una drastica riduzione delle differenze culturali e linguistiche nonché dell’autonomia di pensiero e di decisione da parte dell’uomo. Si tratta di segni evidenti e inquietanti di una parabola declinante del nostro modello di società e civiltà e di una sempre maggiore robotizzazione e disumanizzazione della condizione e attività umane. Da circa due secoli, in particolare dagli inizi dell’industrializzazione e dell’utilizzo delle energie fossili, la distruzione della natura ha conosciuto un’accelerazione inaudita che rischia di compromettere in modo irreversibile la sua stessa sopravvivenza. L’animale capace di sterminare specie intere con la sua voracità, il superpredatore al vertice della catena alimentare è l’uomo, l’unico essere vivente capace di creare macchine perfette che mettono in pericolo anche gli equilibri più saldi frutto di miliardi di anni di evoluzione della natura e del vivente. Ma il superpredatore non usa soltanto armi convenzionali. Non sono certo le lenze e le frecce le vere minacce per fauna e flora. La prima minaccia è l’inquinamento dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e dei suoli da cui si origina la catena alimentale e quindi il metabolismo di tutti gli esseri viventi; inoltre

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l’inquinamento è da annoverare tra le principali cause di malattie acute e croniche nelle diverse popolazioni del pianeta. La seconda minaccia è il sovrasfruttamento delle risorse terrestri, con il quale si è cominciato ad intaccare il capitale naturale abbattendo, per esempio, più foreste di quanto possiamo permetterci, e consumando molto più di quanto dovremmo in ogni campo. Il nostro attacco al pianeta è su più fronti, la sua biodiversità è continuamente minacciata dalla distruzione degli habitat, dai cambiamenti climatici, dall’inquinamento e dall’introduzione di specie alloctone. Insomma, l’uomo, che da un lato, con le sue scoperte ed opere ha permesso al genere umano di fare dei salti di qualità enormi in molti campi della vita, dall’altro, con la diffusione di certi stili di vita dissipatori di risorse e habitat naturali, è diventato il principale distruttore di massa. Basti pensare che ogni quarto d’ora scompare una specie vivente. Questa distruzione del patrimonio biologico del pianeta, che è al contempo distruzione del suo patrimonio antropologico, linguistico e culturale, è una delle gravi minacce alla stessa sopravvivenza dell’umanità. Quel patrimonio è il capitale naturale di una società che ha per spazio il pianeta e per tempo la vita del sistema solare. La scomparsa delle specie si accompagna alla distruzione della varietà dei patrimoni genetici e alla diminuzione della complessità dell’ecosistema. Oggi l’ingegneria genetica offre piante semplificate, clonate e omologate, contro natura. È importante qui sottolineare che le piante, così come gli altri esseri viventi, hanno questo in più rispetto agli altri motori termici e a tutte le altre macchine costruite dall’uomo: esse impiegano si l’energia del sole per funzionare, e trasformano l’energia dei suoi raggi nella forma più adatta alle loro esigenze, ma in più, le piante usano la stessa energia del sole per costruire il complesso meccanismo che le fa funzionare, il loro stesso processo vitale, dal differenziamento cellulare all’individuazione delle specie. Non sono pochi oggi gli studiosi a ritenere che siamo nel mezzo di un’estinzione di massa – evento che avviene quando un gran numero di specie scompaiono in un periodo relativamente breve – e sarebbe la sesta volta che una tale catastrofe si verifica nella storia della Terra. L’evento più recente di estinzione di massa, nel Cretaceo-Terziario, spazzò via i dinosauri, circa 66 milioni di anni fa. Ma l’uomo sa fare meglio di asteroidi ed eruzioni vulcaniche: uno studio pubblicato di recente su Science Advances ha messo a confronto infatti i dati storici con quelli recenti e a concluso che il tasso di estinzione degli ultimi 120 anni è 50 volte superiore a quello del passato. Negli ultimi 550 anni, più o meno da quando l’uomo ha cominciato ad avere un impatto significativo sull’ambiente terrestre, almeno 338 specie di vertebrati si sono estinte. La situazione attuale differisce dalle grandi estinzioni del passato (i reperti paleontologici indicano che sul nostro pianeta ci siano state nel corso di 600 milioni di anni una sessantina di crisi che hanno provocato estinzioni di cui cinque massicce) per due ragioni, primo perché è

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provocata dalle attività umane, secondo perché il collasso degli ecosistemi si sta producendo sempre più velocemente; si assiste infatti a un’accelerazione preoccupante del numero di specie che si estinguono: secondo il rapporto dell’IPBS (Plateforme intergouvernementale sur la biodiversité et les services écosystémiques) uscito in Francia a maggio del 2019, un milione di specie animali e vegetali sarebbero minacciate di estinzione nei prossimi decenni. Da questi brevi cenni si evince che la salvaguardia della diversità biologica e culturale è non solo una necessità suprema nella lotta per la salvaguardia del nostro pianeta da un collasso eco-sistemico e da un’involuzione antropologica, che rischiano di diventare sempre più irreversibili, ma anche una priorità educativa e formativa vitale all’interno di un progetto di rifondazione delle relazioni dell’uomo con la natura. Un cambiamento profondo delle nostre concezioni e dei nostri comportamenti al riguardo può avvenire se ci liberiamo da determinati criteri e paradigmi che reggono il sistema sociale attuale. La diminuzione dei profitti economici e degli sprechi sociali deve esser vista come una straordinaria occasione per favorire la crescita intellettuale e culturale, per ripensare su nuove basi la scuola, la ricerca e la conoscenza, per riconfigurare una società eco-compatibile, più giusta e più umana. Per questo occorre pensare meno in termini di PIL e di “potere d’acquisto” e più in termini di “qualità del vivere” e di “educazione alla vita”. Bisogna passare da un modello puramente quantitativo e riduzionista basato unicamente sull’accumulo di ricchezze materiali e sul consumo di risorse a un modello più qualitativo ispirato a una sobrietà materiale e curiosità culturale essenziali. Siamo sempre di più prigionieri di una visione funzionalistica e utilitarista nei nostri modi di pensare e di agire, e ciò ci impedisce di concepire altre possibili e più interessanti forme di vita e di conoscenza, una nuova diversa apertura e prospettiva, capaci di affermare qualità essenziali e valori profondi. Si può difficilmente negare che viviamo ormai “in un mondo che si è votato all’utilitarismo mediato dalla tecnica e infettato dal denaro” (cito da una corrispondenza privata con Pino Longo). A questo proposito, l’astrofisico Aurélien Barrau ha avuto l’audacia e la lucidità di scrivere quanto segue: “Réenchanter un rapport au réel qui s’extrait de la fuite en avant purement technocratique, consumériste et matérialiste en accordant une connotation favorable à ce qui s’éloigne de la logique de prédation. Chaque bribe de réel est un abîme de complexité et d’étrangeté. Il y a de l’inconnu et du sublime hors des lointains voyages «touristiques» et des instruments de réalités «virtuelles»” (cito da Le plus grand défi de l’histoire de l’humanité, Michel Lafon, Parigi, 2019, p. 87). Egli continua affermando: “Nos catégories, nos critères, nos valeurs ne sont pas donnés et immuables. Ils sont construits et réfutables. (…) Rien ne s’oppose aucune force économique, aucune puissance politique - à ce que nous réinventions

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les concepts, les mots, les lignes de pensée qui font sens. Nous sommes libres de nos émois. Et ils déterminent, finalement, toute la morphologie du monde que nous habitons. (…) Il n’est pas question de faire «table rase» du passé. L’humanité a produit des chefs-d’œuvre et a acquis d’extraordinaires connaissances. Le point de rupture que nous atteignons n’est ni un point de rebroussement ni un retour au départ. Il est une discontinuité. Tout peut advenir” (p. 137-138). Bisognerebbe innanzitutto metter fine alla nostra visione di espansione e possessione della terra e del vivente, a cominciare dai progetti più immani e dementi come la conquista del cosmo, i viaggi nello spazio e la vita su Marte, che non solo gravano sulla vita già povera di miliardi di persone, ma che in più rafforzano nelle persone l’idea di una fine prossima del nostro pianeta e della vita in esso. Gli autori di tali progetti stanno offendendo l’intelligenza umana e facendo un torto enorme alla cultura e all’educazione dei bambini e giovani. Come giustamente lo sottolinea A. Barrau, “…quand je vois Elon Musk, le patron de Tesla, mettre une voiture sur orbite, je trouve indécente et pathétique cette démonstration de puissance. Quel est le but ? Survivre quand la vie sur Terre sera détruite. C’est totalement irrationnel. Il serait infiniment plus facile de renoncer à sa destruction que d’aller faire du «terraforming» sur Mars. Et quand bien même on y arriverait, huit milliards de personnes mourraient – et combien d’animaux? – pour trois cents survivants… On n’as toujours pas compris les racines du mal, cette espèce d’hyper-expansionnisme qui a déjà détruit 60% des populations d’animaux sauvages. Pour eux, il n’y aura pas de miracle: c’est fait, ils sont morts. À côté de cela, toutes les autres nouvelles sont anecdotiques.” (cito da un’intervista recente, Une nouvelle histoire du cosmos, gennaio-febbraio 2020) Contrariamente a questa visione annientatrice della terra e della natura, occorrerebbe rivedere a fondo il nostro rapporto al mondo. “Le plus important est de comprendre que tout ce que nous avons construit - au niveau des choses comme au niveau des valeurs - est réfutable, questionnable. Il faut réinventer la contingence. Aujourd’hui ceux qui préfèrent leurs enfants à leur argent, ceux qui préfèrent sauver la vie plutôt que soutenir la croissance économique, passent par des radicaux ou de doux dingues. C’est fou. Il est urgent et vital de tout remettre à plat. Et de défendre, en effet, la croissance - mais celle de l’amour, de la solidarité, du respect, de la créativité, de l’entraide, des recherches scientifiques et des explorations artistiques…” (Ibidem.) Una nuova prospettiva deve tener conto dei rapporti complessi e fragili che esistono tra nuove possibilità e limiti della situazione attuale; in altre parole, il divenire non può essere riconfigurato se non tenendo conto di certi limiti intrinseci al sistema in cui viviamo e ci muoviamo. È chiaro, in particolare, che i limiti delle risorse, i limiti della conservazione del nostro pianeta e della sua atmosfera indicano chiaramente che quanto più acceleriamo la crescita e la produzione, tanto più

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accorciamo il tempo reale a disposizione della nostra specie, ovvero il tempo di vita. Un organismo che consuma più rapidamente di quanto l’ambiente produca per la sussistenza non ha più possibilità di sopravvivenza: ha scelto un ramo secco nell’albero dell’evoluzione, un ramo che non potrà rigenerarsi. Il tempo-denaro, il tempo scandito dall’orologio non è il tempo adatto a instaurare un rapporto corretto con la natura, né d’altronde con la cultura. Paradossalmente, l’orologio, simbolo dell’ordine, scandisce le ore del disordine, e perciò della dissociazione e atomizzazione dell’essere. La frenesia del consumismo e della crescita della produzione avvicina i tempi del disordine globale. L’ordine naturale segue altri ritmi, altri tempi molto più lenti e fluidi. La ricerca di un’autentica identità culturale è agli antipodi del consumo, della velocità e del mero funzionalismo utilitaristico. Una nuova visione eco-dinamica della società non è più un obiettivo fra i tanti, ma è diventato l’imperativo fisiologico, culturale, estetico ed etico dei nostri tempi. Contrariamente alla concezione economicistica-produttivistica dominante, che è diventata una sorta di pensiero unico e di “ideologia” delle società di abbondanza e di spreco, nella nuova cultura eco-economica sviluppo e crescita hanno ovviamente significati diametralmente opposti. Si arriva così all’ineluttabilità dei limiti alla crescita come l’aumento e il consumo di oggetti e merci, non come forzatura di una ideologia politica, ma come logica e necessaria conseguenza di alcuni principi essenziali della fisica complessa e della biologia evolutiva. Qui la parola sviluppo deve essere intesa come una «formazione organica» (organische Bildung nel senso di Goethe) che si sviluppa per realizzare una coerenza interna tra le parti e il tutto e tra il tutto come essere individuato (ontogeneticamente e cognitivamente autonomo) e il mondo come insieme di eco-semio-sistemi vitali. L’economia attribuisce al termine crescita il significato di un accrescimento illimitato, di una produzione smisurata di oggetti materiali e artificiali, dissipatori di vita e di senso, che è l’esatto contrario del significato che gli attribuisce la biologia dello sviluppo e la morfologia: crescere (dal latino crescere che la stessa radice di creare) traduce l’idea di creazione di nuove forme organiche compatibilmente con determinati limiti (vincoli) inerenti al sistema e con circostanze contingenti che possono inaspettatamente apparire nel contesto in cui il sistema evolve.

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II.3. Strumenti teorici (fisico-matematici) per capire la dinamica e l’evoluzione del fenomeno pandemico, fenomeni caotici ed eventi estremi “Ho cercato, non so con quanto successo, di redigere racconti lineari. Non mi azzarderò a dire che sono semplici; sulla terra non c’è una sola pagina, una sola parola che lo sia, giacché tutte postulano l’universo, il cui attributo più noto è la complessità.” (J. L. Borges) “Quand on sait où on va, on va rarement très loin.” (R. Thom)

Ci sono dei fenomeni, che sono stati chiamati estremi (si veda l’interessante libro Extreme Events in Nature and Society, a cura di Sergio Albeverio et al., Springer-Verlag, 2006), che hanno alcune delle proprietà dei cosiddetti fenomeni caotici, in particolare la sensibilità alle condizioni iniziali da cui deriva la loro imprevedibilità, la non-linearità, la divergenza esponenziale delle traiettorie (nello spazio di fasi) e la dissimmetria tra cause ed effetti (il tutto differisce ed è qualcosa di qualitativamente molto diverso rispetto alla somma delle parti), ma che in più, rispetto a quest’ultimi, appaiono in modo repentino, presentano un carattere brutale e possono avere degli effetti catastrofici su scala globale e su una lunga durata. Come scrivono gli autori, i fenomeni estremi (come tsunami, terremoti, pandemie) possono essere sia di origine naturale (si pensi all’estinzione di massa del Cretaceo avvenuta circa 65,95 milioni di anni fa che portò alla scomparsa del 75% delle specie animali e vegetali, marine e terrestri, o al terremoto e maremoto di Lisbona del novembre 1755 che fece circa 90.000 morti, il 30/% della popolazione totale di allora della città di Lisbona), sia antropogenica, le cui cause e il cui impatto sono quindi dovuti in gran parte alle attività umane (cambiamenti climatici, riscaldamento globale, inquinamento, deforestazione, distruzione della biodiversità), o anche sopraggiungere per una combinazione di accidenti aleatori e di abitudini umane (pandemie infettive, estinzioni zoologiche, crisi economiche). Tutti questi eventi estremi, o fenomeni catastrofici, hanno spesso in comune il fatto che: provocano perdita di vite umane o di ingenti quantità di materia inorganica e organi e di beni, possono occorrere secondo modi sorprendenti e inaspettati, portano generalmente a una trasformazione e riconfigurazione totale del paesaggio naturale ed antropico, del modello economico e sociale prevalente, degli stili di vita dominanti e dei paradigmi culturali. Un tratto distintivo di questo tipo di eventi, e questo vale almeno in parte anche per la pandemia virale attuale, è che una serie di piccole o microscopiche concause possono avere un esito macroscopico e globale che evolve secondo dinamiche non

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lineari e caotiche assenti nelle condizioni locali iniziali e produrre degli effetti devastanti su vasta scala e con caratteristiche drammatiche. Negli eventi caotici è spesso impossibile distinguere, volendo stabilire un’unica successione temporale, tra cause ed effetti: infatti, le cause possono svolgere il ruolo di effetti e gli effetti diventare cause. In particolare, è sbagliato e impossibile pensare di poter stabilire un solo regime di causalità o una legge di causalità unica e assoluta nello studio dei nei sistemi complessi come i processi viventi. Nei sistemi dinamici e complessi si ha una biforcazione quando una piccola variazione dei valori dei parametri (di biforcazione) causa un cambiamento qualitativo o topologico (della struttura topologica) del sistema; in altre parole, si ha un cambiamento del numero e della natura dei punti di equilibrio. In questi casi avvengono dei cambiamenti che possono portare a un fenomeno catastrofico o a un evento estremo. I cambiamenti qualitativi e strutturali del sistema comportano dei valori critici, cioè dei valori per cui il sistema passa bruscamente da un regime che è (generalmente) stabile a un regime instabile, e tanto più instabile nel caso in cui le biforcazioni sono globali (cioè impossibili da linearizzare matematicamente e la cui analisi richiede metodi fortemente non lineari). È forse utile ricordare, nel contesto da cui prende origine questo testo, tre proprietà fondamentali dei sistemi caotici e soprattutto complessi, che ci possono aiutare a capire meglio certi aspetti della situazione che stiamo vivendo. 1. La proprietà della non-linearità, secondo la quale non esiste correlazione o proporzionalità tra causa ed effetto, nel senso che data una determinata causa non esiste un effetto che gli corrisponde necessariamente e comunque; infatti, dalla stessa causa possono seguirne effetti anche molto diversi; inoltre la relazione di causalità non è né unidirezionale - dalla causa verso l’effetto - né univocamente determinata. Per esempio il dogma della biologia molecolare che ha sempre assunto come assolutamente valido l’assioma secondo il quale è sempre il gene che determina la struttura e la funzione delle altre entità biologiche, cioè della cellula, dell’embrione e dell’organismo, e mai il contrario, oggi sappiamo che risulta fondamentalmente errata. 2. Un sistema complesso è sempre plurale nelle sue possibilità evolutive e aperto verso il futuro, cioè capace di acquisire nuove proprietà. In altre parole, non c’è teoria compiuta o predeterminata in assoluto che possa fornire una descrizione e spiegazione definitiva di un fenomeno o sistema complesso. Si può ad esempio citare il fatto importante che disporre di una descrizione empirica o fenomenologica di un determinato fenomeno non significa averne compreso il comportamento e il significato. Innanzitutto perché una spiegazione è molto più di una semplice descrizione quantunque attendibile essa sia; e poiché perché la componente descrittiva e empirica di una teoria non ne esaurisce il suo significato, che infatti la trascende; quest’ultimo, sempre parziale e variabile, risulta dall’integrazione di più

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livelli di spiegazione e di interpretazione. Ad esempio, si ha un’idea abbastanza precisa di cosa sia un neurone, di come esso risponda ai segnali, come sia connesso agli altri neuroni del cervello. Pur conoscendone i componenti, non possiamo però dire di sapere come funziona il cervello nel suo insieme, soprattutto se si tratta del cervello estremamente complesso dei primati. In breve, la conoscenza dei costituenti può bastare a capire il funzionamento di un sistema semplice, ma non quello di un sistema complesso, che si può definire come un sistema che presenta comportamenti dalle molte variabili e la cui evoluzione nel tempo fa emergere dinamiche e comportamenti assenti nelle sue condizioni iniziali. 3. La proprietà della non scomponibilità e non separabilità dei sistemi complessi, in particolare degli ecosistemi e degli esseri viventi. Con ciò si sottolinea il fatto che tutti gli elementi di un dato sistema interagiscono tra di loro e sono perciò profondamente interconnessi, a cui bisogna aggiungere un altro fatto importante, ossia che il sistema nella sua integralità presenta delle proprietà diverse da quelle che caratterizzano a un’altra scala i singoli componenti. Dette “sistemiche” o “emergenti”, irriducibili quindi alle proprietà elementari, queste proprietà retroagiscono sulle singole componenti modificandone la loro stessa natura, in particolare struttura e funzione. Questi due fatti sono di grande importanza per la nostra riflessione sulla natura, il vivente e la società. Limitiamoci a richiamare due osservazioni: (i) sia la natura che la società formano dei sistemi integrati in cui è fondamentale, affinché si abbia e si preservi un certo equilibrio e processo di cambiamento, che le caratteristiche globali interagiscano e dialoghino con le caratteristiche locali, e reciprocamente; (ii) è vitale mantenere i legami che uniscono il funzionamento di un sistema, ad esempio di un ecosistema, ai comportamenti e alle esigenze dei componenti locali o singoli del sistema stesso. 4. I sistemi complessi e viventi contengono più dimensioni temporali e diversi tipi di memoria. La proprietà della memoria nei sistemi complessi lega, sul piano ontologico e cognitivo, il presente al passato e al futuro. Per conoscere lo stato di un organismo vivente, di un ecosistema o di un paesaggio, non è possibile limitarsi al metodo della meccanica classica o all’applicazione di modelli riduzionisti. I sistemi complessi contengono i loro mutamenti passati nelle componenti di livello più basso. In altri termini, molti sistemi complessi presentano una memoria del passato che influenza la loro evoluzione, e inoltre manifestano una correlazione tra eventi locali e caratteristiche globali che agisce sul corso della loro dinamica storica. Tutto ciò pone in evidenza l’importanza degli aspetti dinamici di trasformazione del territorio e del paesaggio, della scala e del contesto globale quali basi di conoscenza e di integrazione delle proprietà complesse del mondo naturale e del mondo culturale in cui viviamo. Menzioniamo infine un altro concetto fondamentale, quello di entropia, sicuramente tra i più fondamentali della fisica macroscopica, ma lo è anche nelle

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scienze del vivente. Ritengo che esso sia inoltre di grande importanza per le scienze sociali. Si tratta di un concetto autenticamente interdisciplinare che lega il mondo fisico con quello del vivente e della società e il cui profondo significato filosofico resta ancore in parte da capire. L’entropia di un sistema macroscopico complesso è inseparabile dalla misura del disordine e dalla quantità di energia che lo caratterizzano. Infatti, in fisica chiamiamo “entropia” la misura del disordine di una determinata configurazione (quella ad esempio delle molecole di gas contenute in un recipiente, dove il numero di modi in cui questa configurazione può essere realizzata può risultare enorme). Una configurazione di un determinato sistema formato da molti componenti (come le molecole di gas) ha entropia elevata quando può essere realizzata in molti modi diversi. Per molte situazioni vale quindi il principio seguente: un sistema formato da un numero molto grande di componenti, tende ad evolvere spontaneamente verso le situazioni di massima entropia. Questo principio vale anche, con le debite differenze, per determinate situazioni sociali come una folla in preda al panico o all’euforia. Il concetto di entropia si presta anche a una modellizzazione interessante per descrivere e spiegare determinate proprietà di fenomeni come l’alta densità demografica e la diffusione di una pandemia.

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II.4. Virus, entità biologica che paradossalmente da man forte ai pro“digitalizzazione di massa” “L’uomo vive nel tempo, nella successione del tempo, e il magico animale nell’attualità, nell’eternità costante.” (J. L. Borges) “Il servilismo è corruzione contraria alla libertà e dignità umana.” (Giordano Bruno)

La meccanizzazione o l’automazione - di cui la digitalizzazione rappresenta la variante post-moderna più recente - è il mezzo che i fautori del mondo virtuale di oggi si sono dati per esercitare un controllo globale sugli esseri umani. L’implementazione di sofisticate tecnologie digitali e di nanotecnologie nel corpo umano non solo ha in sé qualcosa si mostruoso (di diabolico - il tema del Faust è sempre di attualità), ma obbedisce al disegno falsamente razionale di voler sopperire ai limiti del corpo e dell’intelligenza umane con protesi tecnologiche e componenti sempre più artificiali. Non è l’uso, in certi casi specifici (ad esempio deficit cronico, amputazione grave o altro tipo di handicap) e entro certi limiti, di determinati strumenti tecnologici che spaventa, quanto il fatto che si voglia trasformare il corpo umano (la sua intelligenza e persino la sua affettività) in una macchina tecnologica e virtuale sempre più performante sulla base dell’idea che essa possa essere manipolata a volontà, e si presti ad essere smontabile (in pezzi) e ricombinabile meccanicamente (magari cambiando qualche pezzo) a piacimento. Anche se ciò fosse tecnicamente possibile, come gli sviluppi recenti dell’ingegneria genetica mostrano (manipolazioni sul DNA, tecnologie ricombinanti), resta il fatto fondamentale che l’organismo umano è un tutto integrato in cui non solo ogni tessuto e ogni organo funziona in relazione agli altri tessuti ed organi, ma cerca, quando ve ne sono le condizioni, di cooperare secondo processi omeostatici complessi con gli altri per mantenere un certo equilibrio funzionale e una robustezza fisiologica fondamentali. Il meccanismo replicativo è solo un aspetto del funzionamento di un organismo multicellulare complesso, che va sempre visto in rapporto al suo metabolismo globale (si vedano a questo proposito le riflessioni penetranti del grande fisico e scrittore Freeman Dyson, scomparso di recente, Origins of life, CUP 1999). Quest’ultimo svolge un ruolo fondamentale nono solo per assicurare le normali funzioni fisiologiche dell’organismo, ma anche perché gli consente di rispondere in modo efficace (in particolare con l’azione coordinata delle cellule immunitarie e tissutali) alla presenza di agenti patogeni esterni. Citiamo, a questo proposito, alcune osservazioni particolarmente interessanti fatte da Dyson:

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“Erwin Schrödinger (in What is Life, 1944) finds a conceptual basis in physics both for exact replication and for metabolism. Replication is explained by the quantum-mechanical stability of molecular structures, while metabolism is explained by the ability of a living cell to extract negative entropy from its surroundings in accordance with the laws of thermodynamics.) Is life one thing or two things? Is there a logical connection between metabolism and replication? Can we imagine metabolic life without replication, or replicative life without metabolism? These questions were not asked because Schrödinger and his successors took it for granted that the replicative aspects of life was primary, the metabolic aspect secondary.” (...) In popular accounts of molecular biology..., life and replication have become practically synonymous. (…) The Central Dogma says that genetic information is carried only by nucleic acids and not by proteins. (...) According to the model, the first cells passed genetic information to their offspring in the form of enzymes which were probably proteins. There is no logical reason why a population of enzymes mutually catalyzing each other’s synthesis should not serve as a carrier of genetic information. The question How much genetic information can be carried by a population of molecules without exact replication? is intimately bound up with the question of the nature of homeostasis. Homeostasis is the preservation of the chemical architecture of a population in spite of variations in local conditions and in the numbers of molecules of various kinds. Genetic information is carried in the architecture and not in the individual components. But we do not know how to define architecture or how to quantify homeostasis. (…) Dawkins describes the history of life as the history of replication. Like Eigen, he believes that the beginning of life was a self- replicating molecule. Throughout his history, the replicators are in control. In the beginning, he says, was simplicity. The point of view that I am expounding in these lectures is precisely the opposite. In the beginning, I am saying, was complexity. The essence of life from the beginning was homeostasis based on a complicated we of molecular structures. Life by its very nature is resistant to simplification, whether on the level of single cells or ecological systems or human societies. (…) I have been trying to imagine a framework for the origin of life, guided by a personal philosophy which considers the primal characteristics of life to be homeostasis rather than replication, diversity rather than uniformity, the flexibility of the genome rather than the tyranny of the gene, the error-tolerance of the whole rather than the precision of the parts. (...) I hold the creativity of quasi-random complicated structures to be a more important driving force of evolution than the Darwinian competition of replicating monads”. La concezione meccanicistica o tecnicistica degli organismi viventi e del corpo umano in particolare si esprime attraverso la convinzione che il cervello dell’uomo funzioni sostanzialmente come un computer. È un’idea che risale almeno all’Homme-machine di La Mettrie (1748), ma che è stata sviluppata soprattutto nel

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secolo scorso ed è oggi accettata da molti neuro-scienziati. Non pochi sono però quelli che criticano tale concezione, e si possono citare a questo proposito gli esempi di J. C. Eccles, René Thom e Roger Penrose. Ritengo che il modo in cui mente e corpo sono uniti per formare un tutt’uno è uno dei grandi misteri nella comprensione di che cos’è l’uomo, e nondimeno l’uomo consiste in questa unione. Nel suo libro Facing Reality. Philosophical Adventures by a Brain Scientist (Springer, 1970), Eccles scrive: «Con l’attuale primitivo livello di comprensione del cervello umano e del suo ruolo nel determinare il comportamento si è spesso asserito che l’uomo è soltanto un tipo particolare di computer. Sono d’accordo pienamente che questo può avvenire in regioni speciali del cervello. Ad esempio, in questi ultimi anni, le mie ricerche si cono concentrate sul cervelletto, che è un organo altamente differenziato del cervello, coinvolto nel controllo e nell’aggiustamento dei movimenti. Quando mi sforzo di capire come il cervelletto compia questa funzione, io sono virtualmente portato a pensare alla sua azione essenzialmente simile a quella di un computer, però di uno di cui i principi operativi sono radicalmente differenti da quelli del computer di oggi. Comunque, la corteccia cerebrale differisce dal cervelletto per la sua complessità incommensurabilmente più grande della sua struttura e delle sue prestazioni funzionali. Ad ogni modo, dobbiamo riconoscere che certe attività strutturate in modo altamente complesso, della corteccia cerebrale e dei gangli sottocorticali associati, danno origine all’esperienza cosciente, mentre non ci sono motivi per ritenere che mai esperienze coscienti siano potute sorgere nel cervelletto con il suo funzionamento relativamente semplice, simile a quello di un computer.» E in un passaggio forse ancora più significativo, Eccles scrive: «[La] ‘prova della conversazione’ [ovverosia l’argomento esposto da Cartesio nei suoi Principia philosophiae del 1644, facente riferimento alla possibilità per una macchina che un giorno riesca a parlare, che per lo stesso filosofo non è un attributo sufficiente a caratterizzare l’intelligenza umana] costituisce il fondamento logico per la fantasiosa proposta di Turing (1950); ovverosia che, nel caso si potesse costruire un robot, la macchina detta di Turing la quale superasse la prova del parlare, allora sarebbe dimostrato che complesse strutture materiali sono in grado di spiegare tutto delle esperienze e dell’attività dell’uomo, e questo sarebbe un trionfo per l’ipotesi dell’identità [tra materia e spirito, mente e cervello]. Io ritengo che mai sarà costruito un simile robot. Mi spaventa l’ingenuità delle affermazioni e degli argomenti presentati dai fautori della simulazione dell’uomo per mezzo di un computer (…) Le attività dell’uomo sono molto più complesse della capacità di conversare o del successo nella dama o negli scacchi. (…) Per ogni essere umano è fondamentale la realtà primaria dell’esperienza cosciente in tutta la ricchezza e la varietà che caratterizza l’esistenza del mondo dell’esperienza soggettiva (stati di

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coscienza e condizioni mentali), personale ad ogni individuo ed anche, grazie al linguaggio, intersoggettivo. Inoltre, questa esperienza è auto-riflessiva nel senso che noi sappiamo di poter conoscere e possiamo riflettere sui nostri stessi pensieri. (…) L’intera vita culturale del mondo delle conoscenze (espressioni del pensiero scientifico, letterario ed artistico) è esclusivamente umana e correlata ad esse è l’unica autocoscienza di cui ognuno di noi ha esperienza e che possiamo scoprire negli altri esseri umani attraverso la comunicazione in un linguaggio proposizionale [L’autocoscienza è dunque una delle caratteristiche più importanti, probabilmente la fondamentale della specie umana. Questa caratteristica è una novità nel corso dell’evoluzione.] (…) Il mio assunto è che, come in biologia esistono proprietà emergenti della materia, così al grado estremo di complessità organizzata della corteccia cerebrale, sorge un’ulteriore condizione emergente affatto diversa, ovverosia la proprietà di essere unita con esperienze coscienti (siamo noi che sottolineiamo)». Quello che scrive René Thom qualche anno più tardi è assai simile a quanto affermato da Eccles (e prima di lui da Cartesio): “S’il est aisé de s’imaginer qu’une machine - un ordinateur, par exemple - puisse calculer et même raisonner, par contre, il est beaucoup plus difficile de concevoir une machine capable de souffrir et de jouir. C’est dire qu’en un certain sens, le problème de comprendre «objectivement» l’affectivité semble infiniment plus difficile que de se représenter l’intelligence. Il est d’ailleurs typique - à cet égard qu’on parle beaucoup d’intelligence artificielle, alors qu’on ne se préoccupe guère, chez les spécialistes, d’«affectivité artificielle” (PC, 1983). Ma anche per l’intelligenza, il volerla assimilare à una macchina (un computer) ci appare del tutto problematico, se per intelligenza non si intende solamente le capacità di calcolo e di risolvere problemi, ma un insieme di facoltà integrate tra loro che vanno dalla percezione alla capacità di adattare le proprie risposte al variare del contesto, dal ragionamento astratto e simbolico all’invenzione di concetti e teorie, dalla creatività artistica e letteraria alla sensibilità verso altri esseri umani. Sempre Thom ha affermato che «L’intelligence c’est la capacité de s’identifier à autre chose, à autrui». In questo contesto, ci pare opportuno fare qualche osservazione su come funziona la memoria del cervello umano, che è molto diversa da quella di un calcolatore (di una macchina). I limiti del formalismo matematico (trovare un insieme completo di equazioni con un sistema finito di variabili, o trovare un insieme finito di algoritmi che ci permettono di ottenere tutte le conoscenze riguardo al funzionamento di un sistema umano o artificiale) nel voler trattare la memoria umana nello stesso modo in cui si tratterebbe la memoria di una macchina artificiale appaiono evidenti per diversi motivi. Menzioniamo qui un aspetto importante che concerne il rapporto tra la memoria umana e i nostri comportamenti

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che possono cambiare in risposta a determinate modificazioni dell’ambiente esterno in cui troviamo a pensare e ad agire. (Su questo argomento complesso e importante sono state fatte delle riflessioni molto interessanti da parecchi studiosi, scienziati e filosofi, qui mi limito a citare Roger Penrose e Giorgio Parisi; vedasi la bibliografia). La memoria umana non funziona come quella di un calcolatore, ammesso che ne abbia una. Il calcolatore si limita a codificare in modo discreto dell’informazione e a utilizzarla poi sulla base di un programma (scelto dall’uomo!). La memoria umana funziona in tutt’altro modo. Dal punto di vista fisiologico essa è legata alla plasticità delle sinapsi, e può cambiare in funzione dell’apprendimento, dell’attività cognitiva e culturale che modificano il tipo di plasticità neuronale. Più precisamente, i meccanismi dell’apprendimento e della memoria non risiedono nelle speciali proprietà del singolo neurone, ma nelle connessioni che riceve ed effettua con i neuroni del circuito (o della rete) cui appartiene. Dal punto di vista cognitivo, la differenza diviene incomparabile. Ad esempio, ogni nome di persona conosciuta evoca in ciascuno di noi il ricordo del suo viso, delle sue espressioni, dei suoi gesti. La parola di un frutto richiama alla mente il suo sapore, il colore, la forma (e non solo). L’immagine di un tramonto o di un cielo stellato ci fa rimemorare stati d’animo o percezioni che ci hanno segnato profondamente, e quanto più questa rimemorazione percettiva è intensa tanto più essa è pregnante (ricca di significati). Una parola apre su un concetto che a sua volta apre su un campo semantico in cui sono possibili tutta una serie di associazioni e proiezioni che si legano tra loro come i colori di uno spettro. La memoria umana è sensibile alle forme, le riconosce anche se sono incomplete: gli basta infatti vedere una parte (o faccia) saliente di un oggetto per riconoscere anche la parte nascosta. (Chi ha letto À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, sa bene a cosa mi riferisco; per gli aspetti scientifico-filosofici della questione rimando alle ricerche fondamentali dei teorici della Gestaltpsychologie). Nella memoria umana non c’è il singolo neurone responsabile di una singola informazione. Un’informazione o un concetto si spalmano su una rete di neuroni. Come dicono i neurobiologi, non esiste un solo neurone specifico che sia responsabile del concetto di “sfera”. Per cui, diversamente da quanto accade in un computer, se cancelliamo o inibiamo quel singolo neurone non perderemmo il concetto di “sfera”. Analogamente non esiste un solo gene specifico che sia responsabile della funzione della sessualità, dello stato della gioia o di quello della tristezza. Il punto importante da sottolineare è che in nessun caso si può ridurre un organismo vivente a una macchina. Questo fatto, riguardo al quale abbiamo già svolto alcune considerazioni, si evince credo in maniera assai convincente dal seguente ragionamento. Una delle caratteristiche fondamentali dei sistemi

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complessi è la possibilità di descrivere lo stesso sistema a diversi livelli. Prendiamo un essere umano. Lo si può cominciare a descrivere a livello dei singoli atomi, ma tale descrizione è di scarso interesse per la comprensione di ciò che è un essere umano. Lo si può descrivere a livello molecolare del DNA e delle singole proteine, poi a livello dei comportamenti delle singole cellule, delle informazioni che le cellule si scambiano per coordinare le loro attività fisiologiche, e anche a livello dell’intero organismo e delle sue interazioni con l’ambiente. Si deve tener conto di tutti questi livelli di descrizione che interagiscono e si influenzano tra di loro. È ciò che sembra avvenire nel caso delle relazioni complesse e multi-causali tra genotipo e fenotipo. Ora, un sistema semplice, un sistema meccanico, generalmente lo si può descrivere a un solo livello. Anche molte opere letterarie, artistiche o musicali, sono dei sistemi complessi, perché formati da più livelli di realtà narrativi, interpretativi ed espressivi. Ad esempio, un testo della Divina Commedia lo possiamo analizzare a livello di singole parole, poi all’interno dei singoli canti, poi discutere dei vari contesti e significati (storici, simbolici, metaforici, ecc.). Su un testo complesso si possono dire molte cose qualitativamente diverse e tutte significanti, e quindi in qualche modo la complessità di un testo ha bisogno di un linguaggio multiforme e polisemico. Un oggetto o fenomeno complesso richiede, per poter essere descritto e capito, un linguaggio complesso, più ricco, con molti più concetti legati tra loro. Per queste ragioni è importante sviluppare un’attitudine scientifica e filosofica volta a considerare qualunque fenomeno o evento come un oggetto di conoscenza formato da più livelli d’osservazione, descrizione, espressione, interpretazione e significazione. Un’altra delle caratteristiche fondamentali dei sistemi complessi è l’emergenza di novità, che non ritroviamo affatto nei sistemi meccanici. Un sistema è complesso se da luogo all’emergenza di proprietà nuove e collettive, non riducibile alle proprietà già esistenti delle sue singole componenti. Mentre nei sistemi cosiddetti semplici, il numero di stati e di proprietà è molto ridotto e nella quasi totalità dei casi funzionano secondo il modello binario, nei sistemi complessi, invece, il numero di possibilità è estremamente più alto, e il campo dei possibili aumenta con l’aumentare delle interazioni tra le componenti del sistema. Il problema, a livello biologico, sta nella relazione tra le parti e cioè nei processi metabolici, che non sono una caratteristica delle singole molecole, ma delle relazioni tra macromolecole e delle interazioni tra cellule e organismi che entrano in una relazione di simbiosi. Di recente si è rivalutata la presenza e l’importanza delle relazioni di cooperazione e di simbiosi nel mondo vivente. La simbiosi è una forma di coesistenza e d’interdipendenza molto diffusa che si stabilisce tra organismi viventi e diversi ambienti naturali, e la sua esistenza, a tutte scale, dalle colonie dei batteri alle comunità umane, appare essenziale per permettere la nascita e crescita di una grande varietà di forme di vita. La simbiosi, cioè la relazionalità e interattività

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reciproca tra individui della stessa specie e tra specie diverse in cui realizza continuamente una sorta di donnant-donnant, costituisce uno dei processi fondamentali che sottende l’equilibrio degli ecosistemi e la rigenerazione della biodiversità. Lo studio delle associazioni organiche e tra organismi viventi di varie specie che si costituiscono per simbiosi può essere approfondito sviluppando i metodi della biologia dei sistemi o biologia integrativa. Una conoscenza più profonda dei processi complessi di simbiosi può favorire un cambiamento di paradigma nelle scienze del vivente. Invece di concepire gli organismi isolati e in competizione, si possono percepire degli individui (batteri, micro-organismi, vegetali, società animali, comunità umane) come entità legate organicamente tra di loro, che agiscono in uno scambio costante e in stretta interazione con i loro ambienti vitali naturali e/o antropici; in questo modo di può pensare che ogni individuo appartenga a una unità più larga o anche che contenga delle unità più piccole. Per certi versi, l’idea stessa che esistano degli “individui isolati” (sorte di monadi del tutto autosufficienti e dissociate dal loro mondo) non ha più senso. In effetti, ogni singolo individuo vive in un certo qual modo immerso in un altro individuo, nel senso che fa parte di una “comunità” più larga. Pertanto, l’idea nuova da sviluppare è che la natura e il mondo vivente sono più solidali di quanto si pensi: gli organismi ed esseri viventi non agiscono indipendentemente l’uno dall’altro, ma in una relazione di scambio reciproco tra loro e con l’intorno che funge d’ambiente vitale. Questo tessuto di percezioni, azioni e relazioni, il suo divenire e i suoi cambiamenti costituiscono l’essenza stessa della vita.

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II.5. La digitalizzazione può diventare una nuova forma, più subdola e risolutiva, di alienazione. Considerazioni sul tempo. “Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro.” (Z. Bauman) “Non saremo potenti, non lodati, accosteremo i capelli e le fronti a vivere foglie, nuvole, nevi.” (A. Zanzotto)

Per ritornare al progetto di digitalizzazione dell’intelligenza e delle attività umane, si capisce che il rischio è reale quando si leggono dichiarazioni recenti, minacciose e sconcertanti, come queste: (emananti non da un ragazzo accolito dei social media, ma dalla nuova direttrice di Amazon per l’Italia e dalla neo-ministra alla digitalizzazione dell’attuale governo): “Piccole imprese, crescete nel digitale o non ce la farete…”, “Internet sia per tutti, come l’acqua e la luce…”, che non solo mostrano un disprezzo per tutt’altra forma di economia e attività aziendale, e un’ignoranza totale del ruolo dell’acqua e della luce nelle funzioni vitali degli esseri umani (e degli organismi viventi in genere), ma che lasciano finanche esterrefatti perché presuppongono, innanzitutto un’imposizione ideologica su quelli che, vuoi per scelta vuoi per altre ragioni più o meno contingenti legate al loro contesto di vita, preferiscono vivere in un altro modo, magari passando più tempo a conversare, leggere e scrivere invece che a chattare su internet, e pure una volontà indebita - e perciò non accettabile né auspicabile - di omologare tutti gli stili di vita, tutte le pratiche e forme culturali locali, tradizioni, riti e miti, all’unico modello dell’homo digitalis. È sempre obiettivo prioritario della neo-ministra alla digitalizzazione quello di portare internet nelle case dei sei milioni di italiani che ancora ne sono privi, o perché resistono alla digitalizzazione forzata o perché preferisco passare il loro tempo diversamente. L’assurdità è che, finita l’era (ma non del tutto!) della colonizzazione (occupazione) dei popoli indigeni e dell’evangelizzazione (proselitismo) degli infedeli in molti paese di religione non cristiana, si è passati ora, ma il modello rimane per molti aspetti lo stesso, alla digitalizzazione delle popolazioni ancora restie a entrare nell’era del virtuale. E per far passare questo modello, sfruttando per giunta cinicamente la pandemia attuale (che del resto sopraggiunge simultaneamente alla necessità di imporre ai governi e quindi ai cittadini il loro disegno), i promotori della digitalizzazione di massa non rinunciano al più infondato ed equivoco degli argomenti: “… non c’è dubbio che il 5G [il nuovo sofisticato standard di nuova generazione per la comunicazione mobile]

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rappresenti un’ulteriore possibile e potentissima arma nella lotta al virus oltre che uno strumento catalizzatore della ripresa economica” (cito da un passo di un’intervista a Silvia Compagnucci, direttore area digitale dell’Istituto per la Competitività, del 28 maggio 2020; si può subito osservare che il genere di linguaggio usato, tipico dei periodi di belligeranza e fondato sulla paura di un presunto nemico, nonché il connubio che vi è implicitamente stabilito - qui e nei passaggi seguenti dell’intervista - tra guerra al virus, controllo sociale e competitività economica, è già di per sé un chiaro indizio dei reali obiettivi perseguiti dai poteri forti, politici ed economici, del digitale, asseriti con falso zelo: “… ad andare incontro in soccorso dei decisori politici e dei cittadini – costretti a vivere una vita nuova e a ripensare anche le più semplici e consolidate abitudini – c’è la tecnologia”. Ecco, finalmente, la chiave per avere una vita nuova: la tecnologia! Essa solo può salvarci dalle abitudini semplici e durature, nostro vero nemico oltre al virus! Così ci è svelata la chiave per entrare nel paradiso e per avere la salvezza eterna. Non è più l’intelligenza e la volontà umane, né un intervento divino trascendente, ma la tecnologia digitale, vero attore salvifico di tutti i nostri mali! Udite (sempre dalla stessa fonte) cosa ci attende nella nuova vita (quella, per intenderci, dell’era post-umana): “Non c’è dubbio, infatti, che dopo la fase più acuta della pandemia anche – e soprattutto – la gestione dell’esperienza sanitaria ruoterà intorno alla disponibilità di reti, tecnologie e servizi performanti in grado di sostenere lo smart working, la mobilità intelligente, la medicina e l’insegnamento a distanza, entertainment online, l’offerta di servizi digitali da parte della pubblica amministrazione e anche un contatto tracing efficace.”) Mi sembra che l’homo digitalis configura un modello si società in cui domina la forma del «soggetto di prestazione», cioè un soggetto avvinto in forme di autocompiacimento (l’esaltazione di un io sproporzionato e a-relazionale) e di autoottimizzazione dello sfruttamento di sé anche quando non lavora, anche quando sembra che ‘giochi’, anche quando sembra che ‘crei’, anche quando si sente realmente immerso in un flusso di dati e di non-pensieri che chiama «libertà». (Rimando al libro di Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, 2015) L’esistenza dell’homo digitalis è spesso segnata da povertà spirituale e da tristezza mentale; è un’esistenza che crea (nuova) alienazione e solitudine, non la solitudine di chi sceglie di ritirarsi per meditare e riflettere meglio e in silenzio, ma quella solitudine, diciamo pure patologica (e qui dovremmo riflettere a come si sta sempre più spostando il limite tra “normale” e “patologico”, tema su cui già scriveva acutamente Georges Canguilhem in Le normal et le pathologique, Vrin, 1966), che porta a recidere ogni legame sensibile e spirituale con il mondo “reale” e con le persone “vere”, riducendoci così a un atomo non solo separato dal resto, ma senza più esistenza ed essenza, a una polvere di momenti privi di continuità

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ontologica, a uno sciame di sensazioni senza unità percettiva. (Sulla solitudine ha scritto delle pagine molto belle e profonde Eugenio Borgna, in diversi suoi libri, qui rinvio in particolare a La solitudine dell’anima, Feltrinelli 2010). L’homo digitalis è in qualche modo già mutato fisiologicamente e antropologicamente. La parola «digitale» rimanda al termine latino digitus, al dito che conta. Infatti, conta, calcola, misura, ma non sa più dubitare, immaginare, inventare. E poi ha rinunciato a quegli atti e gesti semplici che ci fanno sentire il legame complesso che ci unisce al mondo reale, del vivente e dell’umano; questi atti e gesti possono essere umilmente concreti come vedere (che in greco la stessa radice della parola “idea”), osservare, descrivere, o più spirituali come ringraziare, condividere, donare. Quando però si guardano più in profondità le cose, ci si rende conto che non esiste nessuna separazione artificiale tra questi atti concreti e quelli spirituali. D’altronde, ogni forma di studio e di ricerca è un continuo dare e ricevere, un insegnare e un imparare, un dubitare e un capire, basti pensare alla musica, alla matematica o alla filosofia (insomma, in generale alle arti e alle scienze). L’homo digitalis non gioca, non crea, tanto meno agisce per davvero. L’atrofia della mano per eccesso di non lavoro, o per eccesso nel compiere sempre lo stesso movimento (come quando si fa avendo avuto l’amputazione di un arto importante deputato all’azione e incarnazione mobile del pensiero), porta a una sorta d’atrofizzazione digitale delle dita, rendendo impossibile al soggetto ogni altra esperienza vissuta (Erlebnissen) e reale, che lascia tracce ed è foriera di mutamenti (Erfahrungen). È tutto fuorché un homo rationalis et sensibilibus et ludens. Non resiste più, non sa più cos’è fare uno sforzo, non agisce. Si diverte sempre e gioca con le dita su una tastiera. Il rincanto del mondo passa dal suo stordimento e lo smarrimento della realtà dal suo istupidimento. Insomma, l’homo digitalis è stanco e inerte: non gioca, non crea, tanto meno agisce, dicevamo; la sua esistenza è un «vivere senza vita»; egli si pone fuori dallo spazio vissuto e esperito, fuori dal tempo, da quello che ha una durata reale (di cui già parlava Henri Bergson in Durée et Simultanéité, 1922), un divenire, e che quindi benché si ripeta entro una certa permanenza non è mai uguale a sé stesso perché genera differenza e novità; e quando ancora l’uomo digitale si muove i suoi movimenti sono compulsivi, automatizzati, sgraziati. Il mondo digitale elimina il nostro rapporto al mondo reale e sminuisce l’elemento forse più essenziale della vita degli esseri umani: ossia il carattere multidimensionale della nostra esistenza e del nostro pensiero, riducendo questa pluralità complessa e ricca di dimensioni a un’unica dimensione, il presente perpetuo, insomma è come se le schiacciasse sulla sola dimensione di un’eternità assoluta, facendo svanire via via nel nulla la memoria del passato (che fa dire a Borges che i grandi filosofi greci sono più contemporanei degli scrittori attuali) e il pensiero e sogno del futuro (fatto di trasformazione e di divenire). Eppure sappiamo

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che il sogno è un elemento essenziale della vita, non soltanto dal punto di vista delle sue funzioni fisiologiche, ma anche da quello altrettanto importante delle sue funzioni cognitive, simboliche ed affettive. Il sogno è un modo di tenere costantemente il contatto con la vita, è un luogo dove ci rigeneriamo. Per cui nulla ci dovrebbe far perdere il piacere di sognare. Nel giugno 2015, in risposta alla domanda un po' maliziosa di un giornalista, Umberto Eco affermò qualcosa che fece subito clamore, ossia che “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel.” Contrariamente all’apparenza, non si trattava né di una boutade né di un’uscita intellettualistica (anche se da certe espressioni usate si vede che Eco frequentava più i salotti scic della borghesia milanese che non i bar o i circoli culturali - spesso i due occupavano lo stesso spazio - delle contrade e dei paesini dove i contadini e piccoli artigiani avevano la sana abitudine di ritrovarsi la sera in un momento di socialità per bere un buon bicchiere di vino e raccontarsi la loro giornata e anche le loro impressioni sulla vita pubblica), ma di una riflessione acuta fatta (su un tono un po' ironico) da un grande semiologo e studioso della rete e dei nuovi media. Eco ha evidenziato il fatto (che si sta sempre più verificando) che i media digitali stanno avendo, insieme ad alcuni vantaggi soprattutto di ordine pratico per la comunicazione, degli effetti nefasti per l’intelligenza umana e i fondamenti della società civile. Il primo fra questi è l’imbarbarimento della lingua e un’erosione del senso nel linguaggio parlato e scritto; da cui ne consegue che la parola si svuota sempre più del suo significato (dei suoi significati) e delle sue sfaccettature connotative, simboliche e stilistiche complesse, che in fondo è ciò la rende così peculiare e attraente, per ridursi a un involucro vuoto che al più diffonde ovvietà. Un’altra desolante conseguenza è una forte tendenza a un certo gregarismo mentale diffuso e a un istupidimento collettivo (che è verosimilmente l’esatto simmetrico della perdita di autonomia di pensiero e della mancanza di spirito critico); e legata a questa, un lento ma apparentemente inesorabile declino, nel contesto attuale e all’interno del paradigma funzionalistico e utilitaristico attuale, della scuola e della cultura come cardini e collanti vitali di una società. Su questo tema vorrei citare le riflessioni particolarmente interessanti di Lamberto Maffei e di Carlo Ossola. Maffei, in Elogio della lentezza (Il Mulino, Bologna 2014), osserva che «La capacità critica rischia di diventare una illustre sconosciuta, almeno tra i nativi digitali che “divorano” social media dalla mattina alla sera e, non di rado, pure di notte. È questa, dunque una delle conseguenze che si riscontrano in chi è bombardato da messaggi: diventare una sorta di “protesi del pensiero”, senza più spirito critico». Il risultato di questa globalizzazione dei messaggi è che possa

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influire sulla capacità di prendere decisioni e in un comportamento «sempre più condizionato da una spinta alle decisioni rapide in una corsa che non lascia più tempo per ascoltare, colloquiare e forse neanche per riflettere e pensare». Questa capacità critica è un bene prezioso, una caratteristica fondamentale dell’umo e della sua specificità, che tra l’altro lo distingue da tutte le altre specie viventi. «Con la riduzione progressiva della capacità critica - continua Maffei -, uno dei rischi maggiori è “perdere l’io”, in un livellamento delle menti: uno scenario che potrebbe suggerire l’immagine di un gregge che risponde collettivamente a messaggi globali, e disposto a “seguire un pastore”, inteso come “colui che grida”». Ancora Maffei scrive: «Un’eccessiva prevalenza dei meccanismi rapidi del pensiero, che chiameremo ‘pensiero rapido’ o digitale, comporta soluzioni e comportamenti errati, danni all’educazione e in generale al vivere civile, innescando nella mente umana sogni di un dominio sulla natura e sull’uomo spesso quasi soprannaturale, il quale per evidenti limitazioni biologiche non può esistere. Bisogna riconsiderare le potenzialità del cosiddetto ‘pensiero lento’ basato principalmente sul linguaggio e sulla scrittura, anche a livello dell’educazione scolastica». In Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà (Marsilio Editori, 2019), Ossola (riferendosi e citando dai Minima moralia di Adorno) fa delle osservazioni particolarmente sagaci: «La tecnicizzazione rende le mosse brutali e precise, e così gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche, delle cose. Così si disimpara a chiudere piano, con cautela e pur saldamente una porta». In questo agire a impulsi violenti torna, secondo Adorno - ma il nostro presente non lo smentisce - «la brutalità, la continuità a scatti, dei misfatti fascisti». Soprattutto nell’«impugnare» c’è «non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alle legge della loro pura funzionalità assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza concedere quel surplus - sia in libertà del contegno che in indipendenza della cosa - che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione». «Le nostre società - continua Ossola - hanno sviluppato una grande attenzione ai “beni comuni”: l’acqua, il clima, tutto ciò che non consuma troppo nostra madre terra; ma è assai difficile tutelare questi “beni comuni” senza l’esercizio di quelle “virtù comuni” che a essi conducono, riducendo le pretese della “singolarità” per incrementare un “vivere corale” dove l’armonia dell’insieme più conti che il prestigio dell’“assolo”, più la semplice virtù quotidiana che il ricercato virtuosismo della performance. (…) Competizione, emulazione, valutazione comparativa sono termini che portano il risultato (se ci sarà) fuori di noi, ci privano della prima tornitura, quella del sé, ci lasciano materia grezza che ferisce al tatto e si ferisce, allenano alla vanità dell’orgoglio».

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Ci viene in mente la massima di Seneca: “È l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi.” (Animum debes mutare, non caelum). E anche la frase di Tolstoj: «Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare sé stesso». Alcune delle considerazioni precedenti si ricollegano al cosiddetto darwinismo sociale, una linea di pensiero che interpreta la storia sociale con gli stessi concetti introdotti da Darwin per capire l’evoluzione animale e vegetale, in particolare quelli di ‘selezione naturale’ e di ‘sopravvivenza de più adatto’. Il darwinismo sociale è arrivato persino ad affermare che nella lotta per la vita è in qualche modo lecito che vengano eliminati gli elementi deboli e maleadattati, e salvati gli elementi forti. Una certa forma di darwinismo sociale sopravvive ancora oggi nella concezione produttivistica e tecnofila dell’economia e della società. Non stupisce così più di tanto che si evochi la scelta, in una situazione di emergenza sanitaria, di sacrificare gli anziani e di salvare i giovani, o di favorire il ritorno al lavoro delle persone sotto i sessant’anni e di lasciare a casa i sessantenni, perché meno sani e produttivi (più precisamente il ragionamento sottostante è: meno produttivi quindi meno sani, come se la salute di una persona dipendesse dal suo solo indice di produttività, o come se si potesse stabilire una correlazione diretta per una persona tra il suo diritto al lavoro e la sua età). Non solo un tale criterio e modello generale, così come è stato espresso, non ha fondamento neurofisiologico e psicologico, ma in più è assurdo dal punto di vista filosofico e umano, e inoltre è discriminatorio sul piano etico e giuridico. Eppure, questa è in fondo la concezione che ispira il capo della task force voluta e scelta dal governo (primo appunto: il servilismo linguistico è il contrario dell’amore per le lingue ed esso è un segno evidente del grado di imbarbarimento culturale di un paese) e la maggior parte dei suoi membri (secondo appunto: si badi, e non è un caso, quasi tutti scelti nel mondo delle tecnologie digitali, in quello manageriale ed economico-finanziario, come se ormai fossero loro i depositari delle conoscenze e i soli abilitati a trovare le soluzioni). Diversamente dall’Italia, altri paesi e in particolare la Germania hanno coinvolto nella loro unità operativa o gruppo di esperti anche umanisti, come filosofi, giuristi e teologi, ecc. (Devo quest’informazione a Luca Vargiu, comunicazione privata). L’obbiettivo perseguito dalla task force, voluta (secondo la versione ufficiale) dal governo Conte e diretta da Vittorio Colao (amministratore delegato di Vodafone dal 2008 al 2018), traspare chiaramente quando si legge, per esempio, un’intervista recente (apparsa sul giornale La Repubblica del 27 aprile 2020) a uno dei suoi membri, il fisico Roberto Cingolani (direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova). “Il Covid - dice il fisico - è una cosa estremamente seria, che tuttavia ci ha indicato che dobbiamo cambiare qualcosa nel nostro modo di vivere.” Questo qualcosa da cambiare è presto detto: “Ora servirà una accelerazione enorme sulla gestione del dato e delle infrastrutture digitali. Se la gente lavorerà

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sempre di più da casa, se la Medicina e la pubblica amministrazione saranno anche molto digitali, da un lato occorrerà avere infrastrutture più complete, dall’altro trasformare in valore questa tecnologia, che sarà ovunque come una ruota in tutti i mezzi di trasporto”. Si ha l’impressione che la finalità primaria del gruppo incaricato di gestire il dopo-crisi del coronavirus, non sia tanto quella di capire e combattere l’infezione virale, e quindi di salvare vite umane, e a questo scopo di mettere in opera una strategia scientifica e sociale in grado di prevenire futuri fenomeni pandemici intervenendo sulla tutela dell’ambiente, sulla protezione degli equilibri ecosistemici e sulla riorganizzazione della sanità pubblica, quanto piuttosto di accelerare il processo già in atto di digitalizzazione delle attività lavorative e di quelle nei diversi campi della ricerca e della formazione; detto diversamente, su come accelerare e massificare la transizione dal manifatturiero al digitale, ossia dal mondo reale al quello virtuale. Per convincersene basta continuare a leggere il passo successivo dell’intervista: “Questo flusso immenso di dati necessita di sistemi di analisi e di gestione opportuni, di algoritmi efficaci. Su questo gli Stati Uniti, Cina, Giappone e Corea del Sud hanno fatto investimenti, in parte anche Francia, Germania, Inghilterra e Svizzera, ma non c'è un gap pazzesco a nostro svantaggio. Però, è fondamentale, mentre si producono dati, analizzarli e proteggerli, per rendere efficaci e sicuri smart working, teledidattica e telemedicina. E con investimenti adeguati garantire la privacy, proteggere lezioni a distanza, cartelle cliniche, sistemi bancari. Ecco, tutto questo va oltre il presente. Noi dobbiamo chiederci cosa vogliamo che sia l’Italia nel 2040. Questo a mio parere sarà il primo livello della grande opportunità che abbiamo davanti. E servirà una acculturazione digitale la più ampia possibile, altrimenti si genereranno diseguaglianze”. A fronte di tutte queste dichiarazioni (ne abbiamo citato sono alcune tra le tante), pronunciate ripetutamente e con insistenza come se si volesse martellare l’opinione pubblica, è più che plausibile pensare che, in concomitanza con la diffusione del coronavirus e la conseguente instaurazione dell’emergenza sanitaria, sia stata parallelamente ben calcolata una strategia mirata ad accelerare e rendere perenne la conversione dell’economia, della scuola e di tutte le strutture sociali al digitale, con l’obiettivo non solo di ottimizzare i profitti finanziari ma anche e soprattutto di aumentare il potere economico-politico e il controllo sociale delle persone, nonché di influenzarne le decisioni e i comportamenti annichilendone sempre più l’autonomia mentale e le capacità critiche.

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II.6. Sull’impossibilità di digitalizzare e automatizzare la scuola e la ricerca “La bellezza salverà il mondo?” (Fëdor Dostoevskij) “La disciplina è il rispetto di una forma di religione che noi sottoscriviamo e l’educazione è non il rispetto delle regole, ma il rispetto degli uomini.” (E. Olmi)

Ma una cosa ancora più grave è che si approfitti della crisi sanitaria attuale e della salute delle persone per attuare una trasformazione massiccia della scuola con il chiaro e dichiarato obiettivo di sostituire i metodi e le modalità tradizionali dell’educazione e dell’apprendimento, fondanti su un rapporto diretto d’insegnamento e di trasmissione delle conoscenze dall’insegnante all’alunno con un procedimento strumentale e virtuale di tipo telematico e digitale. Il che equivale non solo a distruggere i contenuti vivi e umani del processo di acquisizione delle conoscenze, ma anche ad impoverire il significato stesso dell’insegnamento, il quale non può mai essere mera trasmissione di dati e informazioni, ma un dialogo continuo, di natura educativa, culturale e sociale che si costruisce durante il periodo della scuola e dell’università tra docente e discente. L’apprendimento e l’acquisizione delle conoscenze sono scuole di vita e di socializzazione, esperienze fondanti dell’identità degli individui e della cultura delle persone. Dietro il tentativo di smantellare la scuola (le scuole e le accademie si conoscono da più di 2000 anni; ma Pitagora e Platone per loro non sono mai esistiti), e quindi anche la cultura come espressione integrale del pensiero e della vita di una comunità, c’è non solo la volontà di imporre una digitalizzazione di massa e una nuova era tecnologica che intende ribaltare i ruoli tra uomo e macchina a favore di quest’ultima, ma anche un’idea di progresso estremamente riduttiva e interamente schiacciata sul progresso tecno-scientifico (in realtà prima tecnologico e poi scientifico, dove la scienza è vista meramente come disciplina applicata utile per sviluppare sempre più nuove e performanti tecnologie). Bergson ebbe a scrivere che «L’humanité gémit, à demi écrasée sous les poids des progrès qu’elle a fait». Il mito del progresso tecno-scientifico vuole che quando si parla di cambiamento si intenda perlopiù il sostituire una cosa ormai ritenuta inutile e antiquata con un’altra ritenuta più efficiente e moderna, e ignora pertanto il vero senso del termine cambiamento, il quale anzi comporta quello di trasformazione e di generazione di qualcosa di nuovo a partire e in più facendo tesoro di quello che già esiste, come frutto di un lungo e alle volte travagliato percorso storico e umano. Questo vale in tutti i campi della conoscenza e in particolare nella scienza e nella filosofia. Ed è perciò che possiamo affermare che il pensiero di Aristotele è, su molti temi, più

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contemporaneo di quello di molti filosofi attuali, e che le idee di Archimede o di Newton conservano ancora oggi un interesse profondo e una sostanziale validità per descrivere e comprendere svariati fenomeni del mondo fisico. Con straordinario acume Borges scriveva che “Il problema metafisico del tempo è quello della nostra identità mutevole, delle altre identità mutevoli. Dicendo che qualcosa è cambiata non ho voluto dire che questo qualcosa è stata sostituita da un’altra. Se io dico, il chicco è cresciuto, con ciò non ho voluto dire che al suo posto c’è adesso una pianta, ma ben piuttosto che questo chicco si è trasformato in qualcosa di diverso, in una pianta appunto”. La scuola è un’esperienza di vita che ha bisogno di vicinanza e di contatto per potersi sviluppare ed esprimersi al meglio. È un’esperienza educativa e cognitiva che richiede una presenza attiva dell’altro per potersi arricchire di nuovi contenuti e orizzonti. Essa diventa formativa nel momento in cui è il frutto di un dialogo tra persone che si vedono, si sentono e si parlano, partecipando alla costruzione di nuove forme di socialità. Un signore anziano morto ad aprile di coronavirus… e in realtà di ben altro, di cui riportiamo la sua ultima lettera in questo saggio e a cui quest’ultimo è dedicato, rievoca lietamente “il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa…”. La scuola ha bisogno di più linguaggi: il linguaggio dei segni e delle parole, ma anche quello dei gesti e del cuore. Non bastano i codici virtuali e i simboli astratti per la formazione delle capacità razionali e l’acquisizione delle conoscenze, poiché sono anche (e forse ancor più) essenziali l’intuizione e l’immaginazione che si incarnano nella presenza e nell’attenzione condivise delle persone, e si esprimono attraverso la loro mobilità al contempo fisica e spirituale. Non si può ridurre l’esperienza della scuola e dello studio a una trasmissione in codice di informazioni (d’altronde la stessa nozione di informazione, diffusasi con l’avvento della cibernetica, non è priva di ambiguità e fraintendimenti concettuali in diversi campi delle scienze naturali e sociali, ad esempio in biologia). La scuola è un luogo nevralgico dove si forma il logos, il pensiero razionale di ogni individuo e anche la persona in quanto essere relazionale e sociale. Essa è un’esperienza educativa e umana che sin dall’inizio richiede un’immersione in uno spazio e un tempo che non sono affatto quelli del mondo digitale e della realtà virtuale, appiattiti sull’unica dimensione di uno spazio lineare e automatizzato e di un presente perpetuo e assoluto. L’apprendimento e la formazione del pensiero hanno bisogno di uno spazio fisico e di uno spazio interiore, quello necessario alla maturazione dell’immaginazione e al germoglio dell’intuizione, di un tempo della durata psichica e percettiva, di un tempo lento e meditato. L’educazione e lo studio si alimentano costantemente di una presenza e di una riflessione multidimensionale, che sebbene ammetta il limite (il dubbio, l’errore, il paradosso) come elemento

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essenziale dell’apprendimento, sono nondimeno proiettate verso una ricerca dell’infinito come concetto ideale (come visione mobile del pensiero), e dell’ignoto come orizzonte mutevole del senso e del possibile. Fernando Pessoa fa riferimento a questo «spazio interiore» quando scrive “Mi chiedo addirittura se questo spazio interiore non sia semplicemente una nuova dimensione dell’altro [dello spazio fisico]. La ricerca scientifica futura scoprirà forse che tutte le realtà sono dimensioni di uno stesso spazio, che non è dunque né materiale né spirituale. In una di quelle dimensioni noi viviamo forse il nostro corpo, in un’altra dimensione noi viviamo la nostra anima. E forse esistono ancora altre dimensioni nelle quali noi viviamo ugualmente altri aspetti altrettanto reali di noi stessi” (Il libro dell’inquietudine, 1986). Un’ulteriore riflessione sull’era digitale riguarda il nostro rapporto con il tempo, e a questo proposito vorrei citare le interessanti riflessioni fate dal priore della Comunità monastica di Bose, Luciano Manicardi, nel libro La memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale (Vita e Pensiero Editrice, 2010), dove parla del rapporto angosciato che intratteniamo con il tempo. «Di fatto - egli scrive - avviene la riduzione della dimensione temporale al presente e all’immediato. Il tempo diviene un eterno presente e il futuro è visto solo come proiezione in avanti del presente: non c’è più avvenire, ma c’è solo evoluzione. Il paradigma significativo ci è fornito dalle tecnologie che vivono di continua evoluzione: l’evoluzione tecnologica invade la nostra quotidianità e determina consumi, comportamenti e stili di vita. La società che tenta di eliminare la morte e lo pensa possibile tende al controllo del tempo, all’eliminazione della responsabilità del futuro e all’instaurazione di una cultura dell’amnesia, che disinneschi le cariche innovative e creative implicite nel lavoro della memoria». E parla anche del rapporto tra mortalità e modernità presente mediato dalla tecnologia. «L’immagine di uomo che sottostà al postmortale - egli scrive - è quella dell’homo absolutus, assoluto, cioè, sciolto da legami. E la concezione della libertà, ispirata a un individualismo radicale, viene profondamente distorta. Infatti, una libertà indifferente ai limiti che gli “altri” vi possono porre con la loro sola presenza, si configura solo come accrescimento di esperienze individuali, ricerca di realizzazione e godimento individuale, tensione verso una vita individuale sempre più lunga e sana, nella sostanziale indifferenza verso le dimensioni politiche e sociali, storiche e culturali. La società postmortale tende a creare un individuo indipendente e prestante, instillandogli il senso del suo diritto a una vita che si prolunga indefinitamente. La contraddizione emerge nel fatto che tale indipendenza viene raggiunta attraverso la dipendenza dalle macchine e dalle terapie biomediche, dalle tecnologie mediche e scientifiche. L’autodeterminazione e l’autonomia passano attraverso la consegna di sé al totale controllo biomedico. Mentre si

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pretende “illimitata”, la libertà postmortale si ritrova in balia dei dispositivi tecnoscientifici e in totale dipendenza dal potere biomedico». Di profonda acutezza sono le considerazioni del filosofo Zygmunt Bauman sviluppate in diverse sue opere, che si ricollegano a quanto detto sopra. In La solitudine del cittadino globale (Feltrinelli 2014), egli scrive che “Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore, e dall’altro il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. La modernità liquida è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza.” Vorrei ora riferirmi ad alcune delle riflessioni interessanti fatte da Alain Prochiantz nel libro Qu’est-ce que le vivant? (Seuil, 2012). Tengo innanzitutto a notare che l’uomo viene dalla e appartiene alla natura, l’uomo è natura perché i suoi processi morfogenetici, fisiologici e neurologici complessi partecipano dei più generali fenomeni che caratterizzano il mondo fisico-chimico e soprattutto biologico (in cui le proprietà di auto-organizzazione, emergenza e regolazione a più livelli prevalgono e svolgono un ruolo fondamentale e specifico, ed è perciò che il mondo del vivente non è riducibile alle sue sole proprietà fisiche), e, nello stesso tempo, in virtù della sua singolare evoluzione che ne ha modificato profondamente la sua morfologia e la sua funzionalità (in particolare delle strutture neurali), l’uomo è a-natura, o meglio è unione indivisibile di natura e cultura, corpo e mente, cervello e intelligenza, ragione e immaginazione. «L’homme - scrive Prochiantz - est sorti de la nature, par accident, par le biais de mutations improbables. Cela n’aurait jamais dû arriver, comme l’apparition de la vie, d’ailleurs. Mais il n’y a pas de marche arrière possible. Les modifications biologiques qui ont permis à l’homme de développer son intelligence l’ont projeté hors de la nature. (…) Nous ne pouvons plus dire que nous sommes des animaux comme les autres. L’homme est par nature “a-nature”. C’est un a privatif. “Être - et ne pas être - un animal”: je revendique mon animalité et en même temps ce qui m’est spécifique en tant qu’humain». (…) La tendance actuelle à nier la différence entre l’homme et l’animal m’effraie. Ce n’est pas tant le fait qu’on animalise l’homme - nous avons cette violence animale en nous -, (…), mais que l’on voie en chaque animal un homme (siamo noi che sottolineiamo). (…) Le “vouloir être singe” semble hanter certains humains. Certes, nous avons un ancêtre commun avec

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le singe, mais 7 millions d’années nous séparent de cet aïeul, et chacun a évolué de son côté pour son propre compte. Nous avons tous en tête ces images de chimpanzés qui lavent des patates avant de les manger ou utilisent des brindilles pour attraper les termites. Ce ne sont que des artefacts. Un abîme sépare l’homme du singe». E continua dando il suo punto di vista sull’intelligenza e più generalmente su ciò che rende l’uomo un essere singolare e tragico, diversamente da tutte le altre specie viventi. Alcune delle cose che Prochiantz dice si ricollegano alle riflessioni di Eccles sull’intelligenza e più addietro ancora alle idee di Jacob von Uexküll sulle relazioni tra mondi animali e mondi umani e sul ruolo dell’ambiente vitale (dell’“Umwelt”) nell’evoluzione di queste relazioni. «D’abord qu’est-ce que l’intelligence? Le rapport adaptatif et évolutif d’un vivant à son milieu. C’est la définition du biologiste. Cela signifie que les bactéries ou les plantes sont intelligentes. Les organismes dotés d’un système nerveux n’ont pas l’apanage de la pensée, même si posséder un système nerveux augmente considérablement la richesse des échanges. La pensée n’est donc pas déposée dans le cerveau comme de la confiture dans un pot. Sapiens a inventé une quasi-infinité d’interactions avec son milieu, qui ont augmenté sa capacité d’adaptation liée à son extraordinaire intellect. Grâce à lui, dans la compétition entre les espèces, pour l’instant, nous sommes les gagnants, ce qui ne signifie pas que l’humanité ne finisse pas anéantie par les bactéries ou par d’autres organismes, voire par elle-même. (…) Sapiens a créé les conditions de l’augmentation de son intelligence par le langage, la culture et les outils qu’il met au point. Et tout cela stimule son cerveau. On entend souvent la formule: “Le cerveau sécrète la pensée comme le foie la bile”, mais la pensée sécrète aussi le cerveau, dans les limites des contraintes génétiques de l’espèce et de l’individu. L’individuation est un processus d’enrichissement permanent. Parce que l’individu doit se modifier pour survivre. (…) Notre espèce fait preuve d’une étonnante plasticité, mais celle-ci n’est pas infinie pour autant. Notre capacité de régénération est même très inférieure à celles de nombreuses autres espèces. C’est le prix à payer pour garder une trace stable. Laissée à ellemême, la plasticité du vivant effacerait notre histoire à mesure qu’elle s’inscrit dans notre structure cérébrale. Cette histoire, seul Sapiens peut se la raconter, même s’il entre une part de mythologie dans son discours. C’est pourquoi, dans le monde du vivant, Sapiens est le seul à avoir “conscience de soi”. Il est le seul capable de se penser comme individu et d’observer les autres espèces pour en faire des objets d’étude. Ce sont les hommes qui écrivent sur les chimpanzés, et non l’inverse! L’homme est seul dans la nature. (…) Parce que, contrairement aux autres animaux, il peut se projeter, il a ainsi conscience de sa finitude» (siamo noi che sottolineiamo). Si sa che questo genere di idee, che si sforzano di capire l’importanza conoscitiva e il valore culturale dei caratteri peculiari e universali dell’uomo (quello

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che certi biologi e filosofi hanno chiamato la singolarità della specie umana rispetto alle altre specie animali evolute, compresi i primati), pertanto più che plausibili sul piano scientifico e filosofico e anche su quello etico, sono attaccate e delle volte censurate perché antiquate, anti-moderne e soprattutto (qui sta il peccato mortale, gli altri sarebbero ancora veniali) viziati di antropocentrismo. Tra i principali detrattori si incontrano gli animalisti e i vegani (e sin qui la cosa è più o meno scontata), i seguaci delle teorie del genere (Gender studies, lo metto anche in inglese perché questi studi vengono, e non è un caso, dagli Stati Uniti), le femministe più acerrime e gli ecologisti più integralisti e avvilenti. «(…) C’è una strategia meditata all’origine – scrive lo studioso e noto latinista Luigi Miraglia –, ma che ora funziona da sé e quasi per inerzia: quella cioè di distrare gli uomini (e purtroppo ci son riusciti non solo con le masse informi, ma anche con i cosiddetti intellettuali!) con proteste e rivendicazioni di diritti individuali (femminismo, gender, droghe, ma persino alcuni atteggiamenti ecologisti) perché nessuno protestasse più di fronte a riforme distruttive dei diritti sociali e collettivi (sanità, lavoro, formazione, educazione, famiglia...). E le persone si credono “libere” perché urlano per la strada le loro personali esigenze (molte delle quali nessun uomo sano aveva mai creduto di dover reprimere, purché rimanessero nel privato e non ridondassero nella moralità pubblica), mentre nel frattempo vengono loro tolti da sotto i piedi i fondamenti più importanti d’un vivere civile e umano». (Cito da una corrispondenza privata). Questa tendenza anti-umana a cui accennavo, che poi spesso in molti si traduce anche in una attitudine anti-umanistica sfociante in comportamenti persino bizzarri e arroganti, non solo ignora 300.000 anni di evoluzione biologica, morfologica e neuro-cognitiva della specie umana (l’Homo sapiens), ma in più ignora ciò che questa evoluzione biologica complessa ha significato in termini di capacità linguistiche e mentali e di creatività simbolica ed artistica. Essi mettono sullo stesso piano i limiti, difetti e misfatti dell’essere umano con la negazione delle sue prerogative essenziali. In questo modo, non solo propugnano di fatto un ritorno indietro di migliaia di anni nell’albero dell’evoluzione, pervenendo persino a invertire l’ordine delle priorità nella scala dei valori fisiologici ed antropologici, negando così qualunque peculiarità e preminenza all’uomo, e anzi rivendicando uguali diritti giuridici ed etici per gli animali, in particolari per quelli cosiddetti di compagnia, ma liquidano la questione fondamentale di come la dignità dell’uomo sia un valore inalienabile che va costruita e migliorata giorno dopo giorno, anche perché oltre ad essere inalienabile essa è fragile e soggetta a possibili decadimenti. La dignità non va vista (come spesso si tende a fare) come un segno di superiorità o di prepotenza ma, al contrario, come l’acquisizione lenta e laboriosa di un insieme di qualità, prime fra le quali la curiosità, l’umiltà, la generosità e la lealtà, e di nuove possibilità nell’espressione della propria libertà di pensiero, creatività e sensibilità. La dignità non è una qualità che ci separa dagli altri, che

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erige barriere o contrasti, ma è l’esercizio vivo e costante della ragione e del dubbio, dell’immaginazione e dell’attenzione, della critica e del confronto. Essa è animata da un doppio e comune movimento (gesto) grazie al quale nobiltà e semplicità s’incontrano e scoprono di essere complementari, quello dell’elevazione e dell’ascensione unito a quello della rivoluzione o movimento rotatorio del corpo: volgersi per cogliere, aiutare, osservare, meditare; accompagnato anche dall’atto del tendere la mano verso, dell’aprire lo sguardo, del rivolgersi verso chi sta in basso o a lato, del flettersi verso i più bisognosi e umili senza provarne nessun disdegno. Il fatto di ignorare il ruolo e il valore del carattere degno e nobile dei comportamenti e sentimenti specificatamente umani equivale a negare la possibilità di un cambiamento e miglioramento educativo e intellettivo dell’uomo, che di conseguenza può condurre a un impoverimento del suo mondo e a un declino della cultura della comunità in cui vive. Non c’è bisogno di essere ricchi o potenti per esseri degni, condizioni che invece sono un ostacolo all’acquisizione di una vera dignità umana. In generale è vero il contrario, la dignità scaturisce dalla e si unisce con la sobrietà materiale e la ricchezza dello spirito, con la curiosità di cercare e il piacere di conoscere. A questo proposito, Ermanno Olmi ha scritto che “Una dignitosa povertà, cioè una non disponibilità d’abbondanza, che ormai accompagna la vita delle civiltà occidentali, è una grande scuola di vita.” E che “La semplicità è la necessità di distinguere sempre, ogni giorno, l’essenziale dal superfluo.” Un punto epistemologico e culturale rilevante delle precedenti considerazioni è che i gruppi e le tendenze che abbiamo appena ricordato perseguono in fondo lo stesso obiettivo dei post- e trans-umanisti, i cui massimi esponenti, è importante qui notarlo, sono gli stessi che predicano la digitalizzazione (= automatizzazione, numerizzazione) globale degli esseri umani e la virtualizzazione (= artificializzazione, robotizzazione) delle nostre vite su scala planetaria. Essi, infatti, convergono per dire che in fondo l’uomo non differisce dall’animale concepito come insieme di meccanismi anatomici e di funzioni fisiologiche, poiché esso può e deve poter essere ridotto in un futuro prossimo (in realtà già ben avviato) a un apparato automatico che funziona (quindi sostanzialmente a una macchina), composto di pezzi disgiunti e ognuno dei quali, soprattutto quando è antiquato e inefficiente, può essere smontato e rimpiazzato a piacimento con un pezzo più utile e performante. Un certo anti-antropocentrismo e l’attuale trans-umanesimo conducono così, di fatto, la stessa campagna contro la peculiarità e l’universalità dell’umano. Su questo punto lo storico e filosofo della scienza Olivier Rey a recentemente fatto le seguenti osservazioni, che mi sembra colgano alcuni aspetti significativi della questione: “Que penser, dans ce contexte, de l’«animalisme», qui fustige l’anthropocentrisme de la morale et des droits, et milite pour qu’un principe d’égale

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considération des intérêts s’applique aux individus indépendamment de l’espèce à laquelle ils appartiennent? (…) Dans l’affirmation cartésienne que les animaux sont des machines, et du fait que «des animaux à l’homme, la transition n’est pas violente», La Mettrie concluait que les hommes sont eux-mêmes des machines. Dans la transition non violente des animaux à l’homme, les animalistes concluent en sens inverse qu’il faut faire cesser les discriminations dont sont victimes les animaux de la part des humains. Rien de plus «sympathique» envers la nature, a priori, qu’une telle attitude. L’ennui est que fonder le respect dû aux animaux sur une remise en cause de la singularité humaine est hautement contradictoire. Les animalistes veulent que les hommes cessent de s’en prendre aux animaux «sentients» (doués de sensation) – mais il ne semble pas que les prédateurs autres que l’homme se posent ce genre de problème éthiques. C’est une singularité humaine que de se préoccuper du sort des autres espèces! À l’animalisme, il faut savoir gré de s’élever contre la façon ignoble de traiter les animaux. Malheureusement, la réponse qu’il apporte est non seulement contradictoire, comme on vient de voir, mais également inappropriée et dangereuse. En inscrivant la lutte pour la «libération animale» dans le sillage des luttes contre le racisme et le sexisme, en confondant les causes humaines avec la cause animale, il ménage en effet la possibilité de fâcheux retournements: si l’on doit traiter les animaux comme les humains, on peut aussi traiter les humains comme des animaux. Par ailleurs les animalistes, tout en s’indignant à juste titre de la réduction des animaux à de simples pourvoyeurs de matière première dans le système industriel actuel, se gardent bien de s’en prendre à la racine du mal – à savoir le système industriel en lui-même, avec la mentalité dont il émane et qu’il propage. Ils n’ont rien à objecter au technologisme qui met la nature en coupe réglée – y compris quand l’être humain devient son terrain d’intervention. Cela peut se comprendre : le rejet de toute violence envers les animaux ne traduit pas seulement la sympathie éprouvée à leur égard, il provient également de l’antipathie éprouvée à l’égard de sa propre animalité, qui veut que l’on ne vive pas uniquement d’air et de lumière, mais aussi de nourritures plus consistantes, dont la substance d’autres animaux fait partie. Au fond, animalistes et transhumanistes sont faits pour s’entendre : les uns et les autres détestent la chair.” “Du reste, les transhumanistes rejoignent les animalistes dans leur dénonciation du spécisme de l’humain. Selon eux, «la forme biologique» propre à l’espèce humaine ne doit pas être sacralisée. Cette forme n’est pas immutable et elle n’a pas le monopole du respect et de la dignité. Le transhumaniste préfère la notion de «personne», une notion définie par la présence de certains attributs: la conscience, la sensibilité, la capacité de raisonner et de choisir, etc. Ce qui sépare l’homme des autres vivants n’est pas une différence absolue mais une question de degré: les animaux partagent à des degrés inégaux certains caractères humains. Ces

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observations valent aussi pour des entités trans- ou post-humaines, aujourd’hui spéculatives, qui partageraient certains attributs de la personne. Le transhumanisme affirme que tous les êtres doués de sensibilité, éventuellement de conscience – préhumains, non-humains (animaux) ou post-humains – ont droit à un statut moral respectueux de leur bien-être et épanouissement. Chanter l’animal pour mieux introduire le post-humain, la sophistique est décidément sans limites! La compatibilité, sinon la collusion, entre animalistes et transhumanistes vient aussi de ce que leurs bases de recrutement se ressemblent: des gens coupés de la nature, pour qui, au sens propre, le mot «souris» renvoie à un «périphérique» qui permet de déplacer un pointeur sur un écran et de cliquer – et, au sens figuré seulement, désigne un petit mammifère rongeur à pelage gris (…). Il n’y a, chez les paysans encore en vie, ni animalistes ni transhumanistes” (cito da Leurre et malheur du transhumanisme, Parigi 2018, pp. 153-154). Sul ruolo dell’uomo nella nostra società e sulla condizione umana sempre più dominata dalla tecnologia, ha scritto delle pagine acutissime e appassionate lo scrittore, artista (e fisico) italo-argentino Ernesto Sabato, uno degli ultimi umanisti, un umanista in lotta contro la crisi dell’uomo concreto e universale. «Ciò che è specifico dell’essere umano - scrive Sabato - non è lo spirito ma quella lacerata regione intermedia chiamata anima, regione in cui accade tutto ciò che di grave e di importante appartiene all’esistenza: l’amore e l’odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno; nulla di tutto questo è puro spirito, quanto piuttosto un violento miscuglio di idee e sangue. Ansiosamente duale, l’anima soffre tra la carne e lo spirito, dominata dalle passioni del corpo mortale, ma aspirando all’eternità dello spirito. L’arte (cioè la poesia) sorge da questo confuso territorio e a causa della sua stessa confusione: Dio non ha bisogno dell’arte.» Il grande poeta Andrea Zanzotto ha scritto che “La poesia è sempre più di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore.” E Sant’Agostino ebbe a scrivere (Le Confessioni, 398) che “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle.” Possiamo dire che l’intera opera di Sabato è un lungo elogio all’imperfezione dell’uomo. Sia che scriva su Leonardo da Vinci, Borges, i problemi dell’educazione dei nostri tempi o che inventi personaggi come Castel, Alejandra, Martín, lo scrittore non perde mai di vista quell’essere «ansiosamente duale» che egli, come qualsiasi altro uomo, è. Sabato sa bene che la vera patria dell’uomo è quella «regione chiamata anima», in cui si mescolano senza soluzione di continuità «le idee» e «il sangue». Ma egli sa anche che l’uomo ha abbandonato progressivamente questa regione intermedia e che grazie alla sua ansia di perfezionamento ha razionalizzato e tecnicizzato a tal punto il mondo da renderlo disumano. Tuttavia il pensiero di Ernesto Sabato non è né tragico né nichilistico. Egli scrive:

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«Proprio in virtù del nostro status ontologico di esseri finiti, di esseri carnali e spirituali, possiamo costruire ponti sopra gli abissi delle nostre coscienze, partecipando così agli eventi del passato e del presente. Possiamo sempre aprire una finestra sulla nostra solitudine, sugli altri, su quelli che ci hanno preceduto nel tempo come su quelli che non appartengono alla nostra geografia». L’opera poliedrica di Sabato è nutrita da una riflessione ontologica sull’uomo; egli cerca di capire quali possono essere stati i movimenti e i cambiamenti storicosociali che hanno prodotto una totale disumanizzazione delle forme di pensiero e di vita; e nello stesso tempo, occorre preservare a qualsiasi costo l’insondabile capacità onirica dell’uomo, la sua innocente capacità di ri-inventare il mondo. Lo scrittore demistifica il mondo della tecnica e cerca di proteggere l’individuo, essere concreto e incerto, sospeso tra l’ansia di perfezione e i suoi impulsi. Per questo Sabato è uno degli ultimi umanisti: perché demistifica la realtà senza demitificarla. Demistificare senza demitificare la realtà significa restare fedele all’imperfezione ontologica della condizione umana e allo sforzo per sondarne i suoi istruttivi limiti e le sue inesauribili possibilità. Benché pessimista sulla situazione presente e sul futuro che ci attende («…ogni ora il potere si concentra e si globalizza. Venti o trenta imprese come selvaggi animali totalitari lo stringono nei suoi artigli. Continenti nella miseria eppure con alti livelli di tecnologia; possibilità di vita portentose accanto a milioni di disoccupati, senza casa, senza assistenza medica, senza scuola. La globalizzazione ha commesso stragi ed è difficile riconoscere l’identità delle persone perché la tecnica che cambia le abitudini cambia i popoli…»), Sabato non cessa di nutrire una nuova illusione o utopia, «nella speranza che ripetendo i pensieri come goccia d’acqua o martello contro la porta chiusa, un giorno queste realtà possano cambiare…». «Ma possiamo ancora aspirare - egli scrive - alla grandezza (nobiltà, dignità, magnificenza, generosità, prodigalità). Troviamo questo coraggio. Tutti, una volta o l’altra, ci siamo arresi. Però, se qualcosa non tradisce è la convinzione che solo i valori dello spirito possono salvarci dal terremoto che minaccia la condizione umana…» (…). E con grande sensibilità, egli aggiunge: «Un valore è andato perduto: la vergogna. La gente non si vergogna più. Succede che, mescolate alle persone per bene, possiamo incontrare con ampi sorrisi, certi tipi accusati della peggiore corruzione. In passato le famiglie di questi tipi si nascondevano in casa, mentre i corrotti oggi vengono trattati come ogni altra persona, e le televisioni li invitano e li intervistano col garbo una volta riservato ai signori». Si pensi a quanto queste parole sono vere e rispecchiano perfettamente l’endemica corruzione e il grave degrado, materiale e spirituale, delle istituzioni politiche e della società italiane negli anni novanta e in quelli successivi, da cui ne

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è conseguita una cascata di decisioni e situazioni turpi e deleterie per la cultura e le persone. Egli continua: «Eppure anche nella democrazia succede e spesso. Non è sempre stato così. C’erano persone dignitose, mai intascavano beni dei quali non avevano diritto. Non rubavano. Ricordo che mio padre si è mangiato il suo mulino per un credito nel quale era impegnato solo con la parola. Niente di scritto. Ne è seguito un immenso dolore. Ma era indegno per un vero uomo tradire la propria responsabilità, sentimento d’onore che dava la forza del vivere in pace. E che dire di cos’erano una volta i sindacati. Con candore ricordo la storia di quel signore svenuto per strada e quando lo rianimano i soccorritori vogliono sapere come abbia potuto perdere i sensi per fame con tanti soldi nel portafoglio. Sbalordito per la domanda ha risposto: “ma i soldi non sono miei, sono soldi del sindacato”. Non che allora non esistesse la corruzione, ma la maggioranza delle persone difendeva l’onore con l’esempio quotidiano. E rubare un bene comune era il peccato peggiore. Continuo a pensarla così». Il passaggio seguente di Sabato è un pensiero da cui trarre un insegnamento profondo e che dovrebbe servire da monito, nonché scuotere le nostre coscienze e invitarci anche al coraggio delle idee e dell’azione: «Chiunque ruba i soldi che servono ad educare, chiunque ruba a mutue e pensioni, o infila in tasca il denaro dei contratti pubblici, non deve essere salutato. Non possiamo far finta di niente con i corrotti. Non possiamo far apparire nelle televisioni personaggi che hanno seminato il malcostume, contribuendo alla miseria; non possiamo mostrarli come gente normale ai bambini. Questa è l’oscenità. Come educare le nuove generazioni lasciandole nell’incertezza: sono eroi o criminali? Si dirà che esagero, ma non è forse un crimine che milioni di persone vivano nella povertà se rubi loro il poco del quale hanno diritto? A quanti scandali abbiamo presenziato eppure tutto va avanti come prima e nessuno - con i soldi in tasca rubati illecitamente a persone oneste e spesso bisognosi - finisce in galera. Certe persone continuano a mentire alla radio, alla televisione, sui giornali, e un’onda gigantesca che ci avvolge e non lo si può impedire. Fa sentire la gente impotente: alla fine scoppia così la violenza. Dove arriveremo?».

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II.7. Critica del riduzionismo meccanicistico e impossibilità di ridurre l’uomo a una macchina “L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser : une vapeur, une goutte d’eau suffit pour le tuer. Mais quand l’univers l’écraserait, l’homme serait encore plus noble que ce qui le tue, parce qu’il sait qu’il meurt, et l’avantage que l’univers a sur lui, l’univers n’en sait rien.” (Blaise Pascal) “La volgarità è il momento di pieno rigoglio del conformismo.” (P. P. Pasolini) “Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza” (J. L. Borges)

Per un biologista, il riduzionismo significa che le caratteristiche di un organismo vivente possono essere descritte e spiegate unicamente e interamente in termini delle sue proprietà fisiche e chimiche. Il che ha come conseguenza di rendere la biologia una scienza totalmente riconducibile alle leggi della fisica e della chimica. Il problema tuttavia è che, diversamente dalla fisica, i fenomeni biologici sono estremamente complessi, si comportano ed evolvono in modo essenzialmente non lineare, non determinista e sono pertanto imprevedibili. Essi sono inoltre un concentrato di memoria co-evolutiva e di storia eco-sistemica. Infine, gli esseri viventi non sono sistemi separabili o riproducibili come lo sono la gran parte dei sistemi fisici (classici e quantistici): tanto è vero che anche la più piccola operazione o mutazione locale effettuata su un organismo può non solo ripercuotersi sull’intero organismo ma anche modificarne in modo spesso irreversibile il corso del suo sviluppo. In altre parole, nei sistemi viventi non vale il principio di Curie dell’esatta simmetria tra le cause e gli effetti. In molte situazioni è proprio l’opposto che avviene, vale a dire che gli effetti possono agire retroattivamente sulle cause e manifestarsi in modo diversificato e sproporzionato su scale spaziali e temporali discontinue e divergenti. Per riassumere, quasi tutti i fenomeni biologici sono intrinsecamente non riduzionisti, nel senso che non possono essere spiegati unicamente in termini delle loro proprietà fisiche e chimiche, e che il loro funzionamento (metabolismo) globale non può essere capito se lo si vede come la somma di ogni specifica funzione dei suoi singoli componenti. La pretesa di fornire la vera descrizione di un individuo, qualunque sia il procedimento adottato, ha del penoso e del mostruoso: intanto perché un individuo si trova alla confluenza di molti (infiniti) livelli e dimensioni possibili, secondo il punto di vista da cui lo si osserva e il sistema educativo con cui lo si considera.

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Nessuna di queste dimensioni è esauriente (questa pluralità di livelli e di dimensioni si esprime anche dicendo che l’individuo è, biologicamente e cognitivamente, un sistema complesso) ed è solo il loro insieme (aperto) che porta asintoticamente verso la comprensione dell’individuo. Ogni individuo va perciò visto come un mondo complesso e aperto, e come un essere multidimensionale. A quanto precede va aggiunto che ogni individuo è un processo, cioè è dinamico e in divenire, vale a dire che muta nel tempo. Questa storicità intrinseca dell’individuo s’intreccia con la sua immersione in un contesto sociale, culturale ed educativo con il quale si trova in continua interazione co-evolutiva: da qui, in ogni istante, un pullulare di alterità dinamiche che mette in questione il concetto di identità egocentrica e assoluta e la possibilità stessa di una sua descrizione completa e invariabile. L’identità deve essere piuttosto vista come lo spartito di una composizione musicale (di una sinfonia) in base alla quale si possono ottenere un gran numero di variazioni e realizzazioni. Si può dire che la vita, così come la musica, evolve e muta grazie un’incessante riformulazione dei suoi contenuti e a una certa generatività ermeneutica che aprono su uno spettro variabile di significati. Per quanto riguarda il livello dell’individuazione biologica, il processo evolutivo non costruisce un percorso storico deterministico e finalistico che attua un programma precostituito d’istruzioni geniche. I limiti del paradigma genocentrico sono dovuti in gran parte al totale disconoscimento della natura e della complessità delle interazioni che sussistono tra genoma e ambiente e all’attribuzione al solo gene dello status di innovatore perché unico, tra le tante strutture molecolari, a potersi auto-replicarsi. In altre parole, il paradigma genocentrico (per intenderci quello della biologia molecolare dagli anni cinquanta in poi) ci dice che gli organismi si riproducono perché contengono molecole che si replicano, e da questo punto di vista, la riproduzione a livello organismico viene quindi a coincidere con la replicazione a livello molecolare. Ma ciò esclude che si possano prevedere dei meccanismi di azione e retroazione tra genotipo e ambiente. Tale concezione presuppone l’esistenza di una vera e propria barriera tra la linea germinale (riguardante unicamente gli organi maschili e femminili della riproduzione) e quella somatica (l’insieme dei caratteri acquisiti), da cui ne consegue che niente di ciò che è sperimentato dal fenotipo può essere trasferito al genotipo ed essere trasmesso inalterato attraverso le generazioni. La concezione epigenetica (che al tempo di Aristotele denotava la generazione ex-novo di nuove formazioni organiche) contempla una tale possibilità, cioè il fatto che nel corso dello sviluppo e dell’evoluzione di ogni individuo (che avviene in modo essenzialmente storico e contingente, anche se all’interno di certi meccanismi e vincoli necessari) il fenotipo possa retroagire sul genotipo modificando la stessa linea germinale della costruzione dell’organismo, in particolare a livello dello sviluppo dell’embrione e delle strutture fondamentali del corpo. Epigenesi si

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contrappone quindi a preformismo (il preformista assume che una forma miniaturizzata preesista secondo una regressione ad infinitum di homunculi). In un linguaggio moderno, l’epigenetica si può definire come lo studio dei cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non sono causati da cambiamenti nella sequenza del DNA. In realtà è possibile darne una definizione più larga e ricca che abbraccia l’insieme delle interazioni e dei cambiamenti che avvengono tra l’embrione, l’ambiente e l’espressione genica nell’organismo adulto, prima, durante e dopo il suo sviluppo; questa definizione ha il merito di integrare secondo una visione multi-causale e non-lineare le funzioni del genotipo e quelle del fenotipo in uno stesso sistema. Un punto che va sottolineato è che lo stesso genoma può dar luogo a diversi fenotipi, e ciò dipende in gran parte dall’influenza dei fattori epigenetici. Certe mutazioni epigenetiche provocano modificazioni a livello dell’espressione genica (ad esempio metilazione di determinati geni e silenziamento trascrizionale nel mutante) che possono indurre dei cambiamenti strutturali nell’organismo). Queste modificazioni sono ereditabili. Diversamente da quanto si è creduto fino a poco tempo fa, ossia che il pattern dell’epigenoma si stabilizzasse nelle prime fasi dello sviluppo fetale, parecchi studi recenti evidenziano che esso cambia in risposta all’ambiente per tutta la vita dell’individuo, e perciò anche a fattori ambientali, culturali e sociali. Intesa nella sua accezione più ampia, l’epigenetica designa non soltanto una forma in divenire, ma anche e soprattutto la possibilità che l’informazione e la formazione espresse nel corso dello sviluppo ontogenetico non risultino semplicemente da un’attività genica codificata sul modo di un programma, ma si generino in funzione della molteplicità delle strutture e delle interazioni realizzate a partire dall’uovo fecondato. L’uovo funge da contesto nel quale il messaggio genico può diventare significativo. Detto diversamente, dal punto di vista epigenetico esiste la possibilità per uno stesso corredo genico di realizzare funzioni diverse secondo il contesto citoplasmatico nel quale è fatto esprimere. In questa prospettiva è concepibile che le caratteristiche fenotipiche embrionali, anche se fossero espresse soltanto dalla linea cellulare somatica, possano lasciare un’impronta ereditaria e quindi essere tramandate alla discendenza. Qui ci si riferisce alla nozione importante di memoria epigenetica, che prelude inoltre a quella altrettanto importante di eredità epigenetica, cioè non basata unicamente sulla trasmissione del patrimonio genetico. In questo modo si riconosce che le potenzialità epigenetiche esplorate nel corso dello sviluppo embrionale possano condizionare il processo evolutivo instaurando in esso condizioni di ereditabilità. Nonostante l’importanza di queste nuove conoscenze, in campo sia scientifico che filosofico sono ancora molti quelli che vedono una barriera invalicabile tra caratteri genetici ereditari e caratteri epigenetici ambientali, tra capacità cognitive congenite e capacità acquisite. Queste polarità obbediscono a una stessa logica, che

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è quella di pensare che in ognuno di noi esista una componente interna, fondamentalmente innata (di natura biologica e/o neuro-cognitiva) e una componente esterna, principalmente acquisita (ambientale e/o socio-culturale), e che in ogni caso debba essere mantenuta una totale separazione tra la nostra identità biologica e la nostra identità culturale, tra le nostre capacità cognitive e l’ambiente in cui viviamo. Ma un altro punto di vista, un’altra Weltanschauung, insiste sull’importanza di riconoscere che esiste un’interazione dinamica e mobile tra queste sfere della vita e dell’esistenza, una fitta rete d’interconnessioni, in cui ogni componente fondamentale è al contempo causante e causato, causa ed effetto, tra il genotipo e il fenotipo, tra sviluppo ed evoluzione, tra l’organismo e il suo ambiente vitale (l’Umwelt), tra l’innato e l’acquisito, tra mente e corpo, tra ragione e immaginazione (la capacità di inventare viene da entrambe, dal loro connubio), tra intelligenza e sensibilità (essere intelligenti è anche essere sensibili: le emozioni sono una parte importante della percezione, e la sensibilità, soprattutto tramite l’attenzione e l’intuizione, favorisce lo sviluppo di un’intelligenza più creatrice e mutevole, e meno automatizzata e ripetitiva), tra tecnica ed etica. Quest’ultima connessione è particolarmente importante per una riflessione sul significato biologico e sociale della relazione tra bioetica e ingegneria genetica. La relazione etica dell’essere umano al suo ambiente naturale e culturale, ai suoi luoghi antropologici e sociali, che sia su scala locale o globale, a livello di un quartiere o di una regione, mantengono viva ed equilibrata la relazione antropica tra noi e il luogo in cui viviamo, è essenziale per la costruzione della nostra identità individuale e collettiva. Il deterioramento dei luoghi, dei suoi equilibri eco-sistemici e morfologici, non è accettabile sul piano estetico ed etico, anche qualora dovesse esserlo su quello strettamente economico e tecnico. Una costruzione economica e sociale in cui la vita fosse fondata esclusivamente su criteri e interessi economici e tecno-scientifici non sarebbe abbastanza ricca e completa e porterebbe rapidamente a un impoverimento educativo e culturale. La ragione fondamentale che sottende la relazione tra la vita e il luogo in cui si abita è di ordine innanzitutto ontologico, che riguarda l’essere nelle sue più recondite e profonde sfere. Noi siamo delle “entità relazionali”, e come tali, diversamente dal mondo meramente oggettivato e formalizzato che considera e studia la tecnologia, nulla può esistere in sé e per sé (principio su cui si fondano precisamente il solipsismo e l’individualismo), vale a dire come mero oggetto d’uso (o applicazione utile) avulso dai vari contesti (ambientali a antropici) e sradicato dalle sue origini e proiezioni possibili. Ora la scienza moderna si è inizialmente costituita precisamente nel momento in cui ha voluto cogliere l’oggetto in sé, per poterlo descrivere e spiegare mediante leggi funzionali espresse in un linguaggio matematico il più esatto possibile. Questo modello di scienza ha certamente

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permesso di conoscere numerosi fenomeni importanti del mondo fisico e della natura e anche di intervenire su di loro per utilizzarli a vantaggio dell’uomo e ai fini di un suo più grande benessere pratico e intellettuale. Ciò però non toglie che le “entità relazionali”, come gli organismi viventi, gli ecosistemi, e soprattutto gli esseri umani, devono la loro realtà e identità al fatto di riferirsi specificatamente alla vita e all’esistenza umana. Le cose, per noi, esistono perché gli attribuiamo un senso grazie e attraverso le nostre conoscenze ed esperienze. Da questo punto di vista, identità umana, senso ed esistenza sono indivisibili. Il rapporto tra il nostro essere e la nostra esistenza è sempre mediato dal senso che attribuiamo alle cose e agli eventi, e la percezione occupa un posto fondamentale in questa relazione che fa senso. Quando si ha a che fare con “gli esseri relazionali” non si può separare (o si può solo parzialmente) l’essere dalla sua esistenza. Nel mondo, come mondo vissuto dagli esseri umani, l’essere e l’esistenza si ricongiungono e riconfigurano continuamente. Come scrisse il filosofo giapponese Watsuji Tetsuro- (1889-1960), «ciò che è un albero, imparalo dall’albero stesso», «ciò che è una persona, apprendilo dalla persona stessa». La realtà del mondo che ci circonda è irriducibile al mondo di oggetti puramente materiali (senza vita) o artificiali che considera la tecnologia, la tecno-scienza, ma non è neanche riducibile alla pura interiorità del soggetto. Come “esseri relazionali” si vive in una dimensione che non è né puramente oggettiva (esteriore), né puramente soggettiva (interiore), ma in un mondo composto dalle due dimensioni congiunte. Per saper ascoltare è necessario sentire, e per capire la vita è necessario percepirla ed esperirla. L’identità umana forma così una realtà complessa che si esprime a più livelli. Il movimento e i gesti corporei formano un livello della nostra identità, la lingua ne forma un altro, la conoscenza costituisce un altro livello importante, le nostre espressioni e relazioni simboliche e culturali formano un livello della nostra identità individuale e collettiva, così è per le nostre relazioni inter-personali, emotive e affettive. La visione riduzionista basata sul determinismo genetico è di fatto necessaria alla trasformazione del soggetto vivente in oggetto inanimato. La trasformazione in oggetto sia delle parti che dell’intero corpo del soggetto vivente è preliminare all’idea che quest’ultimo possa essere equiparato ad una macchina (e il suo cervello a un computer), in cui, sostituendo alcuni geni o un pezzo di DNA, si ottiene un nuovo organismo, con nuove caratteristiche predeterminate a scelta. Se poi esiste un gene per ogni caratteristica e se si può inserire o togliere geni a piacere, ecco l’illusione che esiste una cura per tutte le malattie. C’è da osservare a questo proposito che, in realtà, gran parte delle patologie gravi, ormai le più diffuse nei paesi sviluppati e massicciamente industrializzati, quali tumori, malattie cardio-vascolari e neurodegenerative, diabete (di tipo 1) e

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obesità, sono molto più legate all’ambiente in cui viviamo e ai nostri stili di vita che ai nostri geni. E quand’anche la sequenza di determinati geni permettesse di predire un certo rischio di sviluppare una delle malattie ricordate, ciò accadrebbe in generale in termini di probabilità assai debole all’interno di una popolazione data, e mai per un determinato individuo. Il fatto è che non si possono più separare gli effetti dei geni da quelli dell’ambiente, perché quest’ultimo influisce sul modo in cui un organismo attiva i suoi geni. E se a questo si aggiunge che due persone geneticamente identiche (tutti gli esseri umani sono geneticamente simili) acquisiscono nel corso della loro vita delle modificazioni epigenetiche che inducono modalità differenti nell’attivazione degli stessi geni, partecipando così alla costruzione della loro specifica individualità biologica, diventa allora chiaro che uno degli obbiettivi prioritari delle ricerche sul vivente deve riguardare lo studio delle relazioni complesse che si originano e si sviluppano tra il nostro materiale genetico e l’ambiente in cui viviamo e con il quale il nostro organismo intrattiene un costante e attivo rapporto di scambio. Ed è per questo che la frontiera considerata a lungo assoluta tra i geni e l’ambiente, o anche tra innato e acquisito, si è attenuata e per certi aspetti dissolta, lasciando il posto a una nozione più ricca e aperta, quella di una interazione permanente tra geni e ambiente.

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II.8. Salute, malattia e ambiente “La pazienza e la compagna della saggezza.” (Seneca) “Sono convinto che anche nell’ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino. (G. Leopardi)

Un paese che distrugge il suo suolo, il suo mare, il suo cielo, distrugge sé stesso, il suo volto, la sua storia, il suo futuro, cioè la sua stessa possibilità di riconoscersi e raccontarsi, è quindi una lenta ma inesorabile distruzione della sua eredità naturale ed antropica, della sua identità. I boschi sono il polmone della nostra terra che infondono nuove energie nella gente, i luoghi sono il nutrimento del nostro spirito e il paesaggio è l’anima della nostra relazione con la natura. La conoscenza e l’amore per i boschi, i luoghi e il paesaggio, così come per i siti artistici, architettonici e culturali, sono aspetti educativi fondanti della nostra identità e svolgono una funzione importante in diverse forme della creatività umana e nella ricerca del senso da dare alle nostre scelte. C’è un legame imprescindibile tra vita e ambiente, e la tutela dell’ambiente è essenziale al mantenimento della vita sulla terra. Continuare nella distruzione della natura e della sua biodiversità porterà necessariamente a una sempre più drastica riduzione delle possibilità di vita. È in primo luogo l’esistenza stessa degli esseri umani che dipende da queste possibilità di vita. Questa crisi viene da lontano e le sue conseguenze possono essere di lunga durata e produrre una mutazione antropologica dagli esiti sconvolgenti. Siamo forse di fronte al crepuscolo di una civiltà, al declino di un modello sociale e culturale. Questa crisi sanitaria è forse solo l’iceberg di un fenomeno molto più generale e diffuso. Comunque sia, essa rappresenta la dimostrazione cruciale dei limiti intrinseci di un modo di vita e di un paradigma che ci ha abituati a vivere senza prendersi cura dell’ambiente in cui si vive, ad esistere senza pensare, a funzionare senza comprendere, a essere tecnicamente performanti senza però dare un senso alle cose che facciamo, a correre (verso dove e per che cosa nessuno lo sa realmente e i primi a non saperlo sono quelli che vogliono andare sempre più veloci) senza prendere il tempo di meditare, a urlare senza ascoltare, ad accumulare risorse e ricchezze senza più condividere ciò che è essenziale e giusto, ad esaltare i vantaggi e i profitti del singolo ignorando il senso al contempo ideale e concreto dell’universale. (Nel De rerum natura, del I° secolo a.C., il grande poeta e filosofo romano Lucrezio scrisse che «L’avidità e la cieca brama di onori, che spingono i miseri uomini a varcare i confini della legge (transcendere finis iuris) e talvolta,

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compagni e ministri di colpa, a cercare di giorno e di notte con tutte le forze di emergere a somma potenza (niti praestante labore ad summmas emergere opes): sono queste le piaghe della vita (haec vulnera vitae), in gran parte nutrite dal terrore della morte.») Oggi si tende, soprattutto in un momenti di crisi sociale e psicologica come quella che si sta attraversando, ad adottare una politica di controllo e di sorveglianza attraverso l’adozione e la diffusione di strumenti digitali che diventano sempre più pervasivi nelle nostre vite, delegando cosi l’intelligenza e la responsabilità degli individui e delle comunità à un apparato tecnico alieno all’uomo stesso e alla sua capacità di scegliere autonomamente e in piena coscienza l’atteggiamento più retto da avere e le azioni più opportune da compiere in una determinata situazione. Seneca scriveva “Per fare ciò che si vuole bisogna nascere re o stupidi”. Letta in chiave moderna, la citazione di Seneca racchiude una critica profonda del nichilismo, se quest’ultimo lo riassumiamo nella formula “non esistendo nessuna verità tutto diventa lecito…” o “tutto è lecito (cioè tutto si può fare) poiché nulla è vero (cioè niente dimostra che il contrario sia preferibile)”, frase che ha forse una parvenza di coerenza linguistica, ma che in realtà è un non senso logico e filosofico, e lo è ancora di più dal punto di vista etico. Dal fatto che non ci sia una verità unica e definitiva (ma solo verità parziali e soggette ad essere avvalorate, o anche eventualmente inficiate, in modo parziale o completo, e quindi supplite con un’altra verità parziale), non si può evincere che tutto è lecito o che si può fare tutto ciò che si vuole, ma solamente che quelle azioni e quei gesti vanno commisurati rispetto al contenuto e alle conseguenze che quella verità parziale comporta. Nel progetto di controllo sociale c’è, se non altro implicitamente, l’idea di imporre una certa condotta all’uomo automatizzando le sue reazioni e i suoi gesti, riducendone le sue capacità razionali per esaltarne invece i suoi istinti animali, ed è chiaro che mentre le capacità razionali, frutto di apprendimento, di una pratica educativa e di un esercizio di riflessione, sono difficilmente manipolabili e impossibili da riprodurre in modo automatico, gli istinti animali, proprio perché privi di fondamento e fine razionale nonché di auto-coscienza riflessiva, sono invece più facili da manipolare e da riprodurre, per cui la pluralità e la diversità dei pensieri e dei comportamenti vengono meno a profitto di un unico comportamento riprogrammabile secondo un eso-meccanismo finito e riproducibile all’identico (si ha così la realizzazione concreta dell’idea virtuale di clone), cioè l’esatto contrario della natura essenziale dell’uomo, che è l’inaspettato, la variazione, l’immaginazione, l’auto-riflessione, la possibilità di pensare l’impossibile e di scegliere i limiti atti ad armonizzare la propria libertà in relazione alla libertà altrui. Eraclito scrisse: “Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai è ciò che diventi”. Il nostro divenire dipende in parte da ciò che scegliamo,

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pensiamo e facciamo ogni giorno. Ogni giorno, quello che scegliamo, pensiamo e facciamo è ciò che rende possibile (o annienta) il nostro stesso divenire. Non c’è nulla che eguagli il piacere della presenza di una persona amica, di una conversazione ravvicinata, di un sorriso sincero, di un volto grazioso, di una voce gioiosa, di un gesto bonario. È così che si diventa curiosi, si apprende, si impara a conoscere sé stessi e nello stesso tempo a scoprire l’altro. È attraverso questo dialogo vivo e ininterrotto che si acquisisce il desiderio e l’entusiasmo per la conoscenza, che ci si appassiona a cercare le ragioni e i significati delle cose, senza preoccuparsi de trovarle utili e vantaggiose. L’anteporre l’ottenimento di un mero tornaconto personale a tale ricerca per la conoscenza equivale necessariamente a svalorizzarne le sue ragioni profonde e a sminuirne il suo vero significato. Plutarco (scrittore e filosofo greco fortemente influenzato da Platone, vissuto sotto l’impero romano tra il 46-48 d.C. e il 127 d.C.) fece delle riflessioni per la sua epoca, ma che sembrano applicarsi ancora benissimo e forse ancor più alla situazione degli ultimi decenni: “Se oggi in molti casi la politica è diventata un’attività autonoma e lucrosa, uno strumento per l’acquisto e il mantenimento del potere, con tanto di tornaconto personale e di spregiudicatezza, ciò è dovuto al fatto che i politici, salvo rare eccezioni, non hanno una base politica, indispensabile, o quanto meno utile, per una politica corretta…”. Noi dobbiamo riaffermare l’unicità della Terra, di questa Terra come il solo luogo in cui la vita umana è possibile. Il premio Nobel per la fisica 2019 Michel Mayor a affermato a questo proposito che “Non è pensabile la vita su un altro pianeta, e chi lo pensa è un irresponsabile; la miglior soluzione ai problemi attuali è dedicare il nostro tempo e la nostra energia a prenderci cura del nostro pianeta; la Terra è il solo pianeta dove l’umanità può continuare ad esistere, se non la distruggiamo del tutto”. In altre parole, si tratta di arricchire culturalmente e spiritualmente la nostra relazione con il mondo reale, che è quello in cui viviamo. Si tratta di riscoprire la Terra come luogo in cui si ri-forma e si rigenera la vita, naturale e psichica, e anche come dimora dell’essere, ovverosia come materia primata della formazione della nostra intelligenza e sensibilità. Riscopriremo così anche il significato profondo delle nostre possibilità e dei nostri limiti, e il valore del pensiero come evento complesso e misterioso, e l’importanza di trasmetterlo alle future generazioni come qualcosa di prezioso e vitale. In Also sprach Zarathustra (1885) Nietzsche parlava di fedeltà alla Terra e insisteva sul fatto che è il tempo di ritornare alla Terra, cioè al divenire. Questo mondo reale, il solo ad abitare la vita, non deve essere sacrificato in nome di mondi fittizi e virtuali, ma riscoperto in tutta la sua forza di trasformazioni, in tutte le sue possibilità di relazioni. E Borges racconta che «All’allievo che gli chiede se esiste il paradiso, il maestro Paracelso risponde dicendogli che il paradiso esiste ed è

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questa nostra Terra. Ma esiste anche l’inferno, e consiste nel non accorgersi che viviamo in un paradiso.» Quando ricostruiremo come tutto è cominciato, adottando un quadro d’insieme e non un singolo dettaglio, sarà chiaro che la pandemia di coronavirus è in stretto legame con lo stress che l’Antropocene (l’era geologica attuale, che risente degli effetti dell’azione umana) ha inflitto agli ecosistemi planetari. Sarà poi evidente che questa pressione, ancor più che danneggiare la Terra e alterarne i suoi equilibri, finisca per ledere l’esistenza della comunità umana così come la conosciamo. Proprio come abbiamo visto in queste settimane. (Rinvio a P. Crutzen e Eugene F. Stoermer, “The ‘Anthropocene’”, in IGBP Newsletter, No 41, maggio 2000). Come è stato sottolineato (cito da un documento del 16 marzo, “Non andrà tutto bene”, di Luca Garetti - medico e psicoterapeuta, vice-presidente di Medicina Democratica -, del 16 marzo): «… sempre il pipistrello ha ospitato per primo Ebola, Sars, Mers. Oltre a questi virus, secondo uno studio recente condotto da un team di ricercatori dell’Università La Sapienza, anche Zika, H1N1 sono pandemie di origine zoonotica: trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici. La diffusione del coronavirus è avvenuta, proprio come la Sars nel 2003, attraverso i “mercati umidi” cinesi, dove sono venduti animali macellati di vario tipo: ad esempio pesci, polli, asini, ricci o serpenti. Questione di igiene pubblica o pura sfortuna? No, è il nostro modo di vivere ad essere veicolo di queste malattie infettive. “Nostro”: sia lo stile di vita occidentale che orientale concorrono a creare le cause di infezioni virali che possono avere diffusioni pandemiche. Perché questi presupposti sono molto più profondi e complessi e riguardano i principi di sostenibilità della vita umana». «Secondo quanto dice l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno per l’inquinamento atmosferico muoiono circa 8 milioni di persone nel mondo. Nella sola Cina, il numero delle vittime è di oltre un milione. 80.000 sono in Italia i morti dovuti al particolato atmosferico (quello dannoso per la salute), al biossido di azoto, all’ozono. (Sulla composizione chimica del particolato, e suoi effetti nocivi e a volte letali per la salute, si veda, di Jean Weissenbach, Dépolluer la planète, CNRS éditions, 2019.) Nemmeno va dimenticato che nei paesi occidentali, il 91% delle morti è causato da malattie non trasmissibili (cardiovascolari, respiratorie, tumori), che sono strettamente collegate all’ambiente intossicato in cui viviamo, mentre il 9% è causato da malattie infettive. (…) Ricordiamo che ogni anno in Italia per il fumo di sigaretta, ci sono circa 90.000 morti (1-2 mila per il fumo passivo), per gli incidenti stradali ci sono 3.330 morti e 243.000 feriti, per l’antibiotico-resistenza circa 10.000 persone muoiono ogni anno in Italia, l’antibiotico-resistenza è una delle più importanti emergenze sanitarie. Ogni anno nel mondo per questo motivo muoiono 700 mila persone. Una delle cause è l’uso massivo degli antibiotici negli allevamenti animali. In Italia, secondo

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l’ultimo dato dell’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) quasi il 70% degli antibiotici venduti sono destinati agli animali da allevamento).» «L’ inquinamento atmosferico può esacerbare la virulenza di Covid-19? Salta subito agli occhi che i 2 più grandi focolai di questa pandemia, Cina e Pianura padana, sono due camere a gas, zone industriali ad alto tasso di inquinamento atmosferico. Sarebbe sorprendente scoprire che l’inquinamento atmosferico non ha influenzato il rischio di ammalarsi e di morire per Covid-19, dal momento che la sola esposizione al particolato è di per sé causa di mortalità, specialmente nelle persone con malattie preesistenti. Quello che dovrà essere valutato, nei mesi a venire, è quanto negativamente l’esposizione agli inquinanti atmosferici, come i particolati (PM2,5, 10), gli ossidi di azoto (NOX), l’ozono (O3) abbia influenzato la prognosi di Covid-19. La spiegazione biologica potrebbe essere che l’esposizione a lungo o breve termine a determinati inquinanti atmosferici potrebbe compromettere la funzione polmonare, aumentando quindi la mortalità SARS. (…) I malati di SARS che abitavano nelle regioni con qualità dell’aria peggiore presentavano un rischio di morte dell’84% più alto. Il particolato ultrafine potrebbe agire come vettore del virus, trasportandolo fin dentro gli alveoli polmonari, esacerbandone la virulenza. (…) Gli inquinanti atmosferici possono aumentare l’incidenza della malattia simil-influenzale, sia diminuendo le difese immunitarie, sia per l’alterata produzione di citochine. L’esposizione al PM2.5 non solo ha portato a danni epiteliali delle vie aeree e disfunzione della barriera, ma ha anche ridotto la capacità dei macrofagi di fagocitare i virus, aumentando la suscettibilità di un individuo ai virus, ed ancora, le lesioni tissutali indotte dal PM2.5 possono essere correlate all’alterata produzione di citochine. Il PM2.5 può compromettere l’attività fagocitaria dei macrofagi alveolari». «Gli animali selvatici possono essere portatori sani di virus. In un mondo normale non ci sarebbe contatto con l’uomo. Il cambiamento climatico costringe le specie a venire a contatto con altre specie che potrebbero essere vulnerabili alle infezioni. Ci avviciniamo troppo agli animali, invadiamo il loro habitat, aumentando così la nostra esposizione a vari agenti infettivi. Anche il cambiamento di uso del suolo, come la trasformazione di boschi in campi coltivati, per assicurare mangimi agli allevamenti intensivi o per bio-carburanti, la caccia, possono essere responsabili di un contatto alterato con la fauna. Al contrario mantenendo gli ecosistemi intatti, riducendo al massimo gli allevamenti intensivi, un vero flagello per il pianeta, si riducono le probabilità di contatto e trasmissione di agenti patogeni tra uomo, bestiame e fauna selvatica». «Circa il 70% delle malattie infettive emergenti e quasi tutte le pandemie recenti, hanno origine negli animali (la maggior parte nella fauna selvatica) e la loro emergenza deriva da complesse interazioni tra animali selvatici e/o domestici e umani. L’emergenza della malattia si correla con la densità della popolazione

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umana e la diversità della fauna selvatica ed è guidata da cambiamenti antropogenici come la deforestazione e l’espansione dei terreni agricoli (cioè il cambiamento nell’uso del suolo), l’intensificazione della produzione di bestiame e un aumento della caccia e del commercio della fauna selvatica». «Ma dal secondo Dopoguerra, in quella fase di espansione umana che gli studiosi ambientali chiamano “The Great Acceleration”, alcune condizioni sono cambiate e hanno contribuito alla trasformazione delle infezioni un tempo circoscritte in epidemie e pandemie. Si tratta del sovrappopolamento urbano nelle metropoli, della deforestazione, della grande intensificazione degli allevamenti intensivi, della modifica dell’uso del suolo, del commercio illegale della fauna selvatica: fenomeni che hanno portato alle migrazioni di molte specie animali e alla contaminazione di habitat umani con microrganismi sconosciuti. E forse non è un caso che i focolai epidemici abbiano trovato terreno fertile in zone molto inquinate, come la provincia di Hubei o la Pianura Padana». «In Cina, si sono rivisti cieli azzurri su Pechino e altre grandi città, e le mappe della Nasa hanno mostrato come siano quasi scomparse le tracce di diossido di azoto sul paese del Dragone, dove si sono registrate riduzioni di CO2 di quasi un quarto rispetto alle emissioni ordinarie. E che dire di casa nostra? Il progressivo lockdown che adesso coinvolge l’Italia intera è partito dal Nord dove l’aria di città come Milano e Torino ha già tratto grandissimi benefici. Anche in questo caso, girano mappe che mostrano come l’aria sulla Pianura Padana sia ora più pulita. Ed è stato calcolato che lo stop di “una settimana di riscaldamenti spenti (nelle scuole), due settimane di minor traffico automobilistico e aereo (ed esclusi i consumi di riscaldamento delle aziende chiuse) ammonta ad una minor emissione di CO2 per 428.000 tonnellate”. Equivalenti alle emissioni annuali di città come Bergamo o Monza. Uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) con le Università di Bari e di Bologna ha dimostrato che il particolato atmosferico, il PM10, accelera la diffusione dell’infezione di Covid-19: le alte concentrazioni di polveri sottili a febbraio in Pianura Padana hanno dato un’accelerazione anomala all’epidemia, soprattutto nelle zone focolaio». (Ricordiamo che PM10 designa una frazione della materia particolata, cioè microscopiche particelle presenti nell’atmosfera, e composta di particelle più piccole, dette PM2,5 (circa il 60% dei PM10), capaci di raggiungere in 30 giorni le porzioni alveolari de polmoni. La materia particolata, o pulviscolo atmosferico, è costituita da polvere, fumo e microgocce di sostanze liquide - e viene anche denominata aerosol). «Tutti noi vorremmo però tornare al “mondo di prima”. Il paradosso è che quello stesso mondo è stato ferito gravemente dalla pandemia che esso stesso ha indirettamente contribuito a innescare, attraverso una globalizzazione che ha inasprito disuguaglianze economiche e condiviso devastazione ambientale. Perché

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quel mondo era anche quello che correva e inquinava senza coscienza. Quello che ci ha portato a registrate l’inverno più caldo mai registrato in Europa dal 1981: 1,4 gradi in più quest’anno rispetto all’inverno 2015-2016, che finora era stato considerato il più caldo in assoluto. Quello che in Italia ha portato al febbraio più caldo di sempre con 2,76 gradi in più e l’80% di piogge in meno rispetto alla media storica. Quel mondo che sempre secondo l’Oms (…) - dovrebbe rallentare fino quasi a fermarsi per disinnescare la pandemia di coronavirus, è lo stesso dove le calotte glaciali dell’Antartide e della Groenlandia si stanno sciogliendo sei volte più rapidamente che negli anni ’90, con due gravi effetti: l’innalzamento del livello dei mari di oltre 70 centimetri entro il 2100 e 400 milioni di persone a rischio di inondazioni costiere che probabilmente dovranno abbandonare le loro case». (Sulla catastrofe ecologica attuale, rinvio al libro lucido e coraggioso dell’astrofisico Aurélien Barrau, Le plus grand défi de l’histoire de l’humanité, Editions Michel Lafon, 2019).

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II.9. La pandemia come occasione di ripensamento e cambiamento. Sui rapporti dell’uomo con la tecnica (le tecnologie) “Salutarsi è negare la separazione, è dire: ‘oggi giochiamo a separarci ma ci vedremo domani.’” (J. L. Borges) “Più nun sanno e più sono imbevuti di false informazioni più pensano di sapere.” (G. Bruno) “La droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura.” (P. P. Pasolini)

In una conversazione apparsa recentemente sul giornale L’Avvenire (del 7 aprile 2020), il sociologo Franco Ferrarotti ha molto opportunamente e giustamente sottolineato che: «Questo è un periodo terribile, di grande sofferenza per molti ma è anche una straordinaria occasione di ripensamento. Il futuro sarà diverso da come l’avevamo previsto, proprio per questo dobbiamo avere il coraggio di rifondarlo su categorie nuove. (…) La tecnologia ci offre mezzi inediti in diversi campi della ricerca e delle attività dell’uomo, però non dobbiamo farci ingannare da chi vuole farci credere che il futuro stia nella tecnologia. La tecnologia deve rimanere uno strumento e in nessun caso deve trasformarsi in un fine» (siamo noi che sottolineiamo). «[Questo] perché - continua Ferrarotti - il futuro ha un cuore antico… L’errore in cui siamo caduti negli ultimi anni (…) è che abbiamo fatto troppo affidamento sulle macchine, fino a diventare dipendenti da esse. Ma le macchine non hanno volontà, non esprimono un progetto, non possono fare altro che replicare sé stesse all’infinito. Sono mezzi, strumenti. Non possono diventare uno scopo» (siamo noi che sottolineiamo). Ferrarotti fa notare che non possiamo ignorare la realtà con la quale la pandemia ci obbliga a fare i conti. «La vera globalizzazione - egli scrive - la sta attuando il coronavirus. Come? Distruggendo le nostre false certezze, anzitutto. Ed è qui che entra in gioco la tecnologia o, meglio, il delirio di onnipotenza tecnica che ci portava a immaginare un mondo affidato ai robot, all’intelligenza artificiale, al meccanismo fantomatico della crescita economica sganciata dalla creazione di posti di lavoro. Era come se il “diritto all’ozio”, teorizzato già alla fine dell’Ottocento (…), fosse lì per trionfare. Riconsiderati adesso, nella prospettiva della pandemia, questi ragionamenti ci sembrano di una ingenuità incredibile. Solo ora comprendiamo i limiti della tecnica e, insieme, i nostri stessi limiti».

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Per Ferrarotti, «La tecnica è una perfezione priva di scopo, interessata unicamente all’esattezza interna delle proprie operazioni. Può espandersi a dismisura, ma questa espansione caotica non comporta alcun progresso. Per il progresso occorre l’iniziativa umana, che può essere efficace a patto che l’essere umano stesso riconosca a sua volta i propri limiti. (…) Mai come in questo momento ciascuno di noi si sente fragile, addirittura in pericolo. Il futuro che siamo chiamati a ricostruire non potrà essere se non “a misura d’uomo” (…)». «Occorre ritrovare il senso della comunità, che è andato perso con il dilagare dell’egoismo della società dei consumi e con l’individualismo smisurato del neoliberismo finanziario. Penso che la strada da percorrere sia quella della solitudine. Non è un paradosso. Il senso del limite di cui facciamo esperienza in questi giorni può aiutarci a riscoprire l’importanza della vita interiore, del silenzio, di quella beata solitudo che, come sappiamo, è sola beatitudo. Intesa correttamente, la solitudine non induce a chiudersi in sé stessi ma, al contrario, è la premessa necessaria all’incontro con l’altro. Dobbiamo mettercelo in testa: nessuno si salva da solo. (…) C’è da sperare che il risveglio di un comune sentimento di umanità sia ancora possibile. (…) Parlo da agnostico, benché di tipo un po’ particolare. Diciamo che mi considero un mistico di tutte le religioni, che però non si riconosce in nessuna di esse». Sull’importanza e il valore del silenzio e dell’ascolto (il silenzio è una delle forme più significative attraverso cui il l’ascolto si esprime) ha scritto luminose parole lo scrittore e poeta messicano Octavio Paz: “Ho cominciato a scrivere, operazione tra le più silenziose, per oppormi al rumore delle dispute e battaglie del nostro secolo. Ho scritto e continuo a scrivere perché concepisco la letteratura come un dialogo con il mondo, con il lettore e con me stesso – e questo dialogo è tutto il contrario del rumore che implica la nostra negazione e del silenzio che ci ignora. Ho sempre pensato che il poeta non è solo colui che parla, ma colui che ascolta.” (cito da Tiempo nublado, 1998) In una recente intervista (giornale l’Avvenire, del 28 aprile), il filosofo ed epistemologo Mauro Ceruti ha fatto alcune considerazioni interessanti a partire da una riflessione sull’attuale situazione di emergenza, che vorrei riportare citando i passi a mio avviso più significativi: «Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. E questa si accompagna alla droga della quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono le sofferenze umane. Ma, detto con Foucault, le sofferenze umane mai devono essere lo scarto muto della politica. (…) La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assumere la

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fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra al nemico, che si genera la creatività umana. (…) C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali (…) Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli “esperti” nelle rispettive “specialità”. (…) È necessario riformare i sistemi di educazione e di istruzione. C’è ancora poca interdisciplinarità e molta burocratizzazione, tecnicizzazione nelle scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro i saperi, i problemi, le crisi. (…) È necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale, non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta, non differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme risorse e conoscenze al di là delle frontiere nazionali. Il virus ignora i confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati». Vorrei fare alcuni commenti sulle cose dette da Ceruti. Commento 1. Direi che più si ciarla e meno si dialoga, più si è bombardati da informazioni e meno si conosce, più siamo (virtualmente) connessi e meno si conversa e ci si comprende. Mi viene in mente la frase di Eraclito: “Troppo apprendere non insegna a comprendere.” Che oggi tradurrei con: troppa informazione non aiuta a capire, anzi è un ostacolo alla comprensione, cortocircuita la capacità di analisi critica della realtà e riduce la conoscenza a un accumulo di dati sconnessi tra di loro e privi di significato. Commento 2. Globalizzazione (anche se più accomodante e solidale) e umanizzazione sono forse antinomici, perlomeno se per globalizzazione si intende l’affermazione di un unico modello economico, sociale a culturale valido per tutti. La globalizzazione sembra agire più come un enorme rullo compressore delle differenze e un altrettanto gigantesco demolitore di diversità linguistica, culturale e antropologica. In realtà, attraverso la globalizzazione si vogliono imporre una sempre maggiore concentrazione delle risorse e delle ricchezze nelle mani di una piccola casta di potenti che vogliono determinare il destino dell’umanità e avere il controllo sui comportamenti umani, e una specie di dittatura del digitale su scala mondiale, scavalcando la legittima autonomia di decisione dei singoli paesi e la libertà di scelta di ogni individuo. Appare evidente, alla luce anche degli avvenimenti recenti, che c’è uno stretto legame tra i due obiettivi. Tanto è vero che non si parla più di “società giusta” o di “Stato democratico”, ma di “società numerica” o di “Stato digitale”. Questi obiettivi prefigurano un modello di società in cui la diversità delle idee e delle culture, la pluralità dei saperi, la complessità dei comportamenti umani e dei modi di socializzazione nonché le libertà individuali e collettive verrebbero sacrificati in nome della digitalizzazione di massa e di un

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controllo sociale standardizzato e invasivo. L’uso del digitale e della rete deve rimanere un’opzione personale lasciata alla libera scelta di ognuno. È nei confronti questa “dittatura del digitale” e “uniformizzazione di massa” che bisogna pacatamente e accortamente ribellarsi per far valere il ruolo imprescindibile della diversità antropologica e culturale e delle peculiari qualità umane. Dobbiamo rifiutare il progetto che vorrebbe trasformarci in nuove macchine performanti e in una serie di codici. Non dobbiamo farci assoggettare da un drappello di nuovi ignoranti e barbari al soldo dei più potenti abdicando così alla nostra intelligenza, creatività e libertà di pensiero. Occorre che riprendiamo in mano il nostro destino. Commento 3. I virus non si diffondono nello stesso modo dappertutto, nello spazio e nel tempo, ma in modo differenziato a seconda di un insieme di fattori, che sono il profilo epidemiologico degli abitanti delle diverse regioni geografiche del pianeta, le condizioni ambientali legate in particolare all’inquinamento dell’aria e a certi stili di vita (cattiva o carente alimentazione, stress di vario genere, contati frequenti con agenti patogeni) e alla più o meno grande fragilità del metabolismo globale delle persone, in primis del loro sistema immunitario. Commento 4: La fraternità è un sogno, un’illusione da coltivare perché non c’è vita senza illusioni, un ideale verso cui tendere e in quanto tale un orizzonte aperto verso cui proiettarsi. Insomma, un possibile che include il limite. La fratellanza non sembra essere uno stato già inscritto in noi, né può essere una propensione dettata da un’entità esterna a noi. La vera fratellanza non solo non esclude il confronto schietto, ma nasce dall’accettazione di punti di vista diversi e dalla scoperta di una forma di senso che unisce ricerche e pratiche di vita a partire dal riconoscimento delle loro differenze. Quello che viene ora chiamato “distanziamento sociale” (termine che probabilmente non è stato scelto a caso e che in ogni caso suona davvero triste e incute timore; per esempio, esso evoca l’idea d’atomizzazione della società, di disuguaglianza sociale e di esercizio di un potere arbitrario nei confronti delle azioni dei singoli) non è la soluzione, né a breve termine, e tanto meno a lungo termine, al problema della diffusione del virus e delle pandemie in generale. Innanzitutto si possono intendere cose diverse con questo termine. Un primo punto da considerare è che, secondo un rapporto presentato recentemente da alcuni ricercatori dell’Imperial College London, il distanziamento sociale dovrebbe divenire una norma costante ed essere allentato o intensificato a seconda del numero di ricoverati per il virus nei reparti di terapia intensiva. Il modello elaborato da questi e altri ricercatori non riguarda solo le misure da prendere contro il coronavirus. Esso potrebbe divenire un vero e proprio modello sociale, di cui già si preparano le procedure e gli strumenti che i governi dovrebbero imporre per legge.

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Infatti, ed è questo un secondo elemento che permette forse di capire meglio, parrebbe che “i due giganti statunitensi dell’informatica Apple e Google, finora rivali, si siano associati per inserire nei sistemi operativi di miliardi di cellulari iPhone e Android, in tutto il mondo, un programma di «tracciamento dei contatti» che avverte gli utenti se qualche infettato dal virus si sta avvicinando a loro. Le due società garantiscono che il programma «rispetterà la trasparenza e la privacy degli utenti»”. Ma non è tutto, c’è un terzo elemento che si aggiunge al puzzle e che li connette insieme. “Un sistema di tracciamento ancora più efficace è quello dei «certificati digitali», a cui stanno lavorando due università statunitensi, la Rice University e il MIT, sostenute dalla Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione statunitense creata da Bill Gates, fondatore della Microsoft, la seconda persona più ricca del mondo. Lo ha annunciato lui stesso pubblicamente, rispondendo a un imprenditore che gli chiedeva come poter riprendere le attività produttive mantenendo il distanziamento sociale”: «Alla fine avremo dei certificati digitali per mostrare chi è guarito o è stato testato di recente, o quando avremo un vaccino chi lo ha ricevuto.» Il certificato digitale di cui parla Gates non è l’attuale tessera sanitaria elettronica, ma qualcosa che ha a che fare con le recentissime oltremodo sbandierate e finanziate nanotecnologie molecolari e tecnologie di intelligenza artificiale che vi si ricollegano (e sempre più applicate nel campo della salute). Si è in più appreso (da alcune riviste scientifiche come Scientific American e altre) che “la Rice University ha annunciato nel dicembre 2019 l’invenzione di punti quantici a base di rame che, iniettati nel corpo insieme al vaccino, «divengono qualcosa come un tatuaggio con codice a barre, che può essere letto con uno smartphone personalizzato»”. La stessa tecnologia (guarda caso!) è stata sviluppata dal Massachusetts Institute of Technology (la patria dell’intelligenza artificiale dopo esserla stata della cibernetica e dell’informatica). E non è innocente né un caso che l’invenzione di questa tecnologia sia stata commissionata e finanziata dalla Fondazione Gates, che dichiara di volerla usare nelle vaccinazioni dei bambini principalmente nei paesi in via di sviluppo. Essa potrebbe essere usata anche in una vaccinazione su scala globale contro il coronavirus. Qui il «distanziamento sociale» esula dai normali criteri di precauzione, di responsabilità individuale e collettiva e di buon senso che ognuno dovrebbe seguire in situazioni di emergenza sanitaria tipo pandemie infettive (virali o batteriche che siano), per assumere altri e ben più chiari connotati e scopi che rivelano anche e forse soprattutto una certa visione della società e dell’uomo. Ad ogni modo, questo sembra essere “il futuro «modo di vivere» che ci viene preannunciato: il distanziamento sociale ad assetto variabile sempre in vigore, la costante paura di essere avvicinati da un infettato dal virus segnalato da uno squillo del nostro

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cellulare, il controllo permanente attraverso il «codice a barre» impiantato nel nostro corpo. Sarebbe in sostanza, seppur solo dal punto di vista meramente oggettivo, una estensione dei sistemi militari con cui si possono seguire e colpire i «bersagli» umani”. La paura, si sa, aggiunge angoscia, preoccupazione, aggressività. Essa distorce il nostro modo di vedere le cose, di percepire la realtà. Essa ci rende ciechi, incapaci di valutare e di agire con discernimento e pacatezza. La paura ci fa fuggire dagli altri, ci isola facendoci perdere speranza nell’azione altrui e fiducia in noi stessi. È interessante quanto affermato recentemente dal fisico e scrittore Paolo Giordano (Il Corriere della Sera - Cultura, 26 aprile) per attirare l’attenzione sui limiti a cui va incontro l’«app digitale», e che si ricollega all’argomento appena menzionato: «… Ecco i presupposti con cui entriamo nell’era della salvezza tecnologica. (siamo noi che sottolineiamo) Mi chiedo allora: la catena che va da me che installo coscienziosamente l’app fino al laboratorio dell’ospedale è stata rafforzata in ogni suo anello per garantire l’efficienza di questo nuovo delicato meccanismo? La stessa efficienza sarà garantita ovunque, anche a novembre, quando la confusione con le altre patologie stagionali farà scattare una quantità enorme di falsi allarmi? (…) Perché la sofferenza di molti non si trasformi in frustrazione e poi in rabbia indiscriminata, ci serve una novità nel nostro dibattito pubblico: un’assunzione di responsabilità individuale e spontanea da parte degli attori principali di questa crisi, prima che torniamo là fuori. (…) La responsabilità, per il momento è delegata agli scienziati. (…) nessuno si permette di contraddire gli scienziati, mai, in loro presenza, ci comportiamo da scolaretti». Come è stato giustamente osservato, «questa pandemia, per ora, non sarà altro che un pretesto per accrescere e incrementare lo “sviluppo” d’alcuni settori, come quello delle intelligenze artificiali, del “capitalismo di sorveglianza”, del continuo “tracciamento”, eccetera, e d’accrescere sempre più le sperequazioni sociali, arricchendo ancor di più gli straricchi e impoverendo il resto del mondo. E così il virus dà manforte (…), non solo alla “digitalizzazione di massa”, realizzando il sogno di Nicholas Negroponte che voleva dare un elaboratore portatile a ogni persona della terra, anche all’aborigeno australiano e al pigmeo del Kalahari, ma persino all’ingiustizia che regna già sovrana nel pianeta, in quest’“aiuola che ci fa tanto feroci”, in quest’“atomo opaco del male”» (cito da una corrispondenza privata con Luigi Miraglia). Sono spesso gli scienziati stessi (ad ogni modo molti di loro) che hanno una visione parziale e distorta della scienza, e più ne hanno una concezione e una pratica “professionali” (nel senso della «professionalizzazione» della vita sociale e culturale di cui ha parlò Max Weber nella sua conferenza di Monaco del 1919), più ne riducono il significato a un insieme di ricette utili o di applicazioni pratiche, e, perché no, lucrative). Ma la scienza, come ricerca dell’intelligibilità dei fenomeni,

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è fatta di errori, contraddizioni, e di ipotesi che spesso si avverano sbagliate, e delle volte anche, ma questo è un altro aspetto (per così dire, il suo pendant degenerato), di superficialità e arroganza. Per non parlare poi dell’assenza totale di analisi critica e di riflessione filosofica sui fenomeni (sul loro significato e sui concetti che si elaborano per comprendere la realtà nei suoi molteplici livelli e complessi aspetti) che spesso si riscontra nei professionisti o venditori della scienza (magari senza averne mai provato la soddisfazione e l’emozione profonde che essa procura). Questa idealizzazione (nel senso quasi d’«idolatrizzazione») della scienza e degli scienziati, se da un lato è comprensibile che rassicuri la maggioranza delle persone in un momento di grave incertezza e fragilità; dall’altro, però, è dannosa e genera comportamenti negativi nel nostro modo di pensare e di agire, riducendo la nostra capacità critica e la nostra autonomia di giudizio e quindi di scelta. Riferendosi al filosofo della scienza ed epistemologo Karl Popper, il neurofisiologo J. C. Eccles (già citato) scriveva: «L’arroganza è uno dei peggiori mali dello scienziato, e provoca affermazioni di autorità e di decisioni conclusive, abitualmente espresse in campi che si trovano completamente al di fuori della competenza scientifica del dogmatico. È importante comprendere che il dogmatismo è diventato ora una malattia degli scienziati piuttosto che dei teologi. Popper ci ricorderebbe che dobbiamo essere umili e renderci conto dei limiti dei nostri sforzi più penetranti per comprendere la natura; e non dobbiamo mai pretendere di aver dato una spiegazione definitiva, ma solo di aver elaborato un’ipotesi in accordo con tutte le conoscenze esistenti». E nuovamente Thom, che ha scritto: «Il y a des domaines où les savants ne doivent pas travailler s’il ne désirent pas salir leur conscience.” (Paraboles et catastrophes, 1985) Ritengo che quella voluta dalle grandi multinazionali dei social media sia una strategia sistemica per assestare il colpo finale alla ragione stessa dell’esistenza degli esseri umani, di cui la principale prerogativa è proprio quella della relazionalità sociale, della presenza fisica e dell’avvicinamento sensibile in uno spirito di condivisione e discussione (come scambio di idee e di animi). Noi siamo esseri relazionali dotati di ragione e di comprensione e non certamente meri atomi individuali e separati che si allontanano sempre di più gli uni dagli altri fino a perdere quell’idea fondante dell’essere umani che unisce l’uno col molteplice, l’individuo con la comunità, il vero con il giusto. È stato scritto, e ne condivido l’idea di fondo, che «senza sottovalutare la pericolosità del coronavirus, qualunque sia la sua origine, e la necessità di misure per impedirne la diffusione, non possiamo lasciare in mano agli scienziati del MIT e alla Fondazione Gates la decisione di quale deve essere il nostro modo di vivere. Né possiamo smettere di pensare, ponendo delle domande. Ad esempio: È molto grave che le morti da coronavirus in Europa siano attualmente (oggi 3 maggio) circa

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140.000, ma quali misure si dovrebbero in proporzione prendere contro le polveri sottili, le PM2,5, che - secondo i dati ufficiali della European Environment Agency - ogni anno provocano in Europa la morte prematura di oltre 400.000 persone?Âť.

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II.10. Natura, tecnica e linguaggio “Non parlare a meno che non tu non possa migliorare il silenzio.” (J. L. Borges) “Bisogna superare l’abitudine di credere, impedimento massimo alla conoscenza.” (G. Bruno)

La tecnica (oggi diremmo più la tecnologia, determinate tecnologie vettori della virtualizzazione dell’umano) non ci può salvare dalla nostra condizione di fragilità e corruttibilità, che conduce a una certa ‘assuefazione’ (rassegnazione e asservimento) e conformità (omologazione). Queste nuove tecnologie stanno producendo una mutazione antropologica inedita, e uno sconvolgimento dei processi e ritmi fisiologici e cognitivi che sottendono all’“essere umani”. Esse riducono le possibilità di rigenerazione del pensiero e il suo spazio di autonomia. L’orizzonte del senso risulta sempre più appiattito su un’unica dimensione, quella del presente, dove del passato non si ha più traccia poiché la memoria è perlopiù svanita e il futuro è assente o troppo sfumato. Una dimensione quindi in cui persino il desiderio, come forza del divenire e impulso per progettare il nuovo, tende a scomparire. La questione della tecnica e del suo rapporto all’uomo è al cuore delle riflessioni di diversi filosofi. Ad esempio Martin Heidegger, in particolare nella Lettera sull’«umanesimo» e nei «Quattro Quaderni I e II» (Vier Hefte I und II), scritti tra il 1947 e il 1950), associa la diffusione della tecnica a una inarrestabile volontà calcolante e di controllo sulla natura e sull’uomo. Già lo scrittore austriaco Robert Musil aveva parlato di due concezioni e pratiche della matematica: una matematica fredda, calcolatrice, rivolta interamente alle applicazioni e alle fabbricazioni (cioè all’utile e all’artificio), che è quella di molti economisti, ingegneri e ragionieri, e anche di molti insegnanti e della gente comune, e una matematica dotata di un soffio ideale e di una certa tensione vitale che è difficile separare dalla conoscenza di mondi possibili (a noi ancora sconosciuti) e dalle forme di vita reali. Sotto quest’ultimo aspetto, ritengo che uno dei tratti importanti che accomuna la scienza (matematica e fisica teorica) con l’arte, e anche con la poesia e la letteratura, è il tema della creatività, ossia una ricerca continua di nuove forme, che possono essere astratte o concrete (qui astrattezza e concretezza, rigore razionale e immaginazione coesistono), simboliche o estetiche. Un altro tratto importante, comune alla matematica e all’arte, è che questa ricerca di forme astratte e intuitive è in qualche modo incarnata in una forma di vita, nel senso che sia la scienza sia l’arte hanno a che fare con una concezione e una pratica dell’esistenza, ed entrambe esprimono una continua rimessa in discussione dell’ovvietà e della normalità. Il grande poeta

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Andrea Zanzotto parlò di una certa «segreta essenza sacrale della natura che si lega profondamente sia alla scienza pura che alla poesia». Egli non si arrese mai completamente all’«inesausta invadenza dell’economia a tutti i livelli del mondo dell’uomo». Infatti, una parte importante della sua prosa ed opera letteraria possono può anche considerarsi una forma esemplare di resistenza, etica non meno che estetica. Nel seguito riprendiamo alcune interessanti considerazioni fatte recentemente dalla filosofa Donatella Di Cesare. (Rimando inoltre al sul libro Heiddeger & Sons Eredità e futuro di un filosofo, Torino 2015.) Dinanzi alla natura, sfruttata come semplice riserva, bisognerebbe ritrarsi, anziché continuare a produrre con ritmo sempre più intenso. Lo sfruttamento e la produzione illimitata di merci è uno degli effetti diretti della colonizzazione tecnologica del pianeta, che è concomitante delle volontà di omogeneizzare e conformare la varietà di culture, lingue e forme di vita a un unico modello. «Ma la verità non sta, per il filosofo tedesco, nell’immediatezza del dato, nella conformità al “reale”: l’intelletto che si adegua all’oggetto, e il surrogato tecnologico (virtuale) di quest’ultimo che pretende supplire esaustivamente il pensiero. Il mondo “vero” non è un inerte contenitore di oggetti, ma una sorgente di eventi e di pensieri» (cito da D. Di Cesare). La dimensione delle tecnologie, quando è vissuta in modo totalizzante, ci allontana dalla natura che pulsa e da noi stessi, invece di avvicinarsene con l’osservazione, l’attenzione e la contemplazione, e di sentirne così il battito e l’irriducibile complessità dell’esistenza. «Le tecnologie erette a sistema costituiscono un dispositivo volto a imporre il dominio dell’incuria sulla terra: così tutto è lasciato senza custodia, trascurato, non salvaguardato. In altre parole, l’incuria è la volontà di rimuovere o di dominare gli eventi, è l’oblio del sonno ontico, cioè dell’esistenza che consuma un ente dopo l’altro» (ibidem.) La tecnica, per molti, è lo strumento che consente di applicare e di rendere effettivo tale dominio, perché capace di adattare il linguaggio naturale ai suoi fini, cosicché quest’ultimo perde la funzione di «dimora dell’essere», e poiché noi ne siamo abitati, il fatto di uniformarlo o di impoverirlo conduce a un impoverimento delle forme di vita e a una sempre più abissale insignificanza delle relazioni umane. «Non ci sono prima le cose, nella loro neutra e spoglia nudità, che sarebbero quindi pensate e riceverebbero poi un nome per designarle». L’atto di introdurre un nuovo nome al fine di connotare un oggetto o un fenomeno può coincidere con l’invenzione di un concetto o di un ente teorico o concreto, o con la scoperta di una nuova proprietà o qualità fino ad allora sconosciute. «Le parole hanno uno spessore semantico, una stratificazione connotativa, una profondità ontologica – in qualche modo chiamano le cose ad essere». Non che le cose e i fenomeni naturali coincidano con le parole e le espressioni linguistiche che le designano, né la loro esistenza è determinata dalla struttura linguistica della teoria; rimane sempre, infatti, un residuo

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(una discordanza) tra l’ente, i suoi modi di apparire e il linguaggio teorico che li definisce. Questa discordanza è di natura filosofica e rimette in discussione la concezione positivistica che affida al modello logico-tecnico l’idea rassicurante di una verità intesa come saldo e definitivo possesso delle cose e della natura. A proposito del rapporto tra linguaggio e società, Octavio Paz scriveva che «Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio parlato e scritto. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati della lingua» (Tiempo nublado, Barcellona 1998). E il neurofisiologo Lamberto Maffei scrive nel suo ultimo saggio (Elogio della parola, Bologna 2018): «La fuga dalla parola, il progressivo allontanamento dalla conversazione, ha radici relativamente lontane, forse, a mio parere, nello sviluppo trionfale della tecnologia, con la comparsa di nuovi strumenti di comunicazione sempre nuova, il cui fiorente mercato ha spostato l’attenzione sull’oggetto di per sé più che sul bisogno di utilizzarlo nel contesto della realtà degli esseri viventi e delle loro relazioni sociali. Gli oggetti, gli strumenti e il loro possesso sono diventati concettualmente più importanti degli uomini e per di più consentono ad alcuni di esercitare potere su molti. (…) la progressiva scomparsa del linguaggio induce un rivoluzionario cambiamento della comunicazione interumana, e la parola sembra perdere il suo peso conoscitivo ed emotivo». L’impoverimento del linguaggio a cui oggi assistiamo è l’effetto più apparente dell’erosione del senso. I due annunciano o confermano uno sgretolamento dei concetti, valori e modi di vita che hanno costituito il fondamento solido ancorché mutevole dell’esistenza umana. L’essere ha perso molto della sua consistenza ontologica, essendosi sempre più adattato all’offuscamento virtuale dell’era tecnologica, e sempre più l’esistenza dipende da un dominio tecnico invadente e assillante. La pervasività tecnologica rende l’essere umano sempre più passivo e assente, distratto e automa, a-relazionale e indifferente; lo porta ad abbandonare così molto (già troppo) del suo patrimonio fisiologico e culturale, a perdere una parte significativa della sua singolarità neuro-cognitiva ed immaginativa, a smarrire il senso profondo delle parole e delle azioni. L’esistenza non è oggi più fluida perché più virtuale; al contrario, essa appare sempre più uniforme e perciò irrigidita, sempre più uguale a sé stessa, schiacciata su un presente perpetuo che non “vede” l’orizzonte aperto della vita che continuamente si dischiude e ci stupisce. La realtà virtuale, le tecnologie digitali restringono notevolmente le possibilità fisiologiche, cognitive e simbolico-espressive dell’umano, invece di aumentarle come viene subdolamente divulgato, non solo perché producono rinunzia all’uso di alcune delle più virtuose facoltà dell’uomo, dal gesto e il disegno alla parola e al pensiero, tutte forme di attività razionale e di creatività simbolica, ma anche perché in questo modo isola ogni uomo dagli altri esseri umani e da sé stesso riducendoli a meri atomi arelazionali senza vita e senza umanità.

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Le tecnologie digitali (internet in primo luogo) hanno come effetto fisiologico anche quello di rafforzare un certo tipo di dipendenza cognitiva ed emozionale. A questo proposito, il grande neuro-farmacologo Gian Luigi Gessa ha recentemente affermato che “Come nella dipendenza dalle droghe, anche quella da Internet è caratterizzata da malessere psicofisico e produce nella vittima le stesse nefaste conseguenze nei rapporti interpersonali, nel lavoro, nel rendimento scolastico. Inoltre, attraverso i moderni metodi di brain imaging è stato dimostrato che nella corteccia prefrontale dei dipendenti dalla rete sono rilevabili gli stessi deficit funzionali presenti nei soggetti dipendenti da cocaina, eroina, alcol, gioco d’azzardo e cibo. Questi deficit sono ritenuti responsabili della impulsività, compulsività e labilità emozionale di questi soggetti. Un’importante differenza che rende Internet più insidioso delle droghe nel produrre dipendenza è che queste possono essere controllate dalla legge o dal costume: consumare alcol al lavoro è disdicevole o ti può mettere nei guai, mentre non esistono ‘astemi’ nei confronti della rete e l’atteggiamento verso i soggetti dipendenti è di compiacenza, scetticismo o ignoranza sulla sua pericolosità sociale”. La cosiddetta realtà virtuale e aumentata ci allontana dal mondo reale, da una natura differenziata, complessa e viva, organicamente legata al nostro essere e alla nostra esistenza. E la condizione umana, che assume sempre di più i caratteri di una condizione patologica, se ne trova frantumata e smarrita, sconfinando sia nell’egoismo più abietto sia nella solitudine estrema. Per uscirne, l’uomo deve riscoprire la relazione vitale che lo lega alla creatività della natura e al valore delle virtù umane. Il trans-umanesimo vuole ridurre l’uomo a una serie discreta di funzioni artificiali, di «moduli» meccanici che possano sostituirsi e fabbricarsi a volontà, come si sostituiscono e si fabbricano i pezzi di una macchina. Questa “volontà” di potenza perpetua l’idea di un controllo e dominio assoluto sulla natura e sull’uomo che ha contraddistinto una certa scienza meccanicistica e riduzionistica durante i secoli XVII e XVIII. Non solo questa concezione porta a una negazione della complessità inerente alla natura e della singolarità umana, ma essa è all’origine della catastrofe ecologica ed antropologica attuale. A questo dominio bisogna porre limiti di spazio e di tempo, e non permettere che diventi un impero illimitato. Ne va della giustizia e della libertà di tutti. In un analogo contesto d’idee, Olivier Rey scrive: “De toutes les extravagances dont notre monde est envahi, les contes sur le triomphe de l’intelligence artificielle et le transhumanisme comptent parmi les plus maléfiques. Ils incitent, en annonçant la mort de la mort, à persévérer sur une voie qui conduit à la mort de masse ; ils alimentent des fantasmes de surpuissance à un moment où il faudrait, plus que jamais, accepter de mettre des limites à la puissance ; ils flattent l’individualisme alors qu’il serait urgent d’assumer une communauté de destin, ils engagent à ignorer et mépriser toutes les sagesses élaborées par les hommes au fil des millénaires, en

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une conjoncture où celle-ci seraient nos plus précieuses ressources, ils bercent de chimères quand il faudrait se confronter à la réalité. Nous sommes entrés dans des temps apocalyptiques, et nous ne sommes pas prêts, du fait d’un assujettissement toujours croissant à un système hors de contrôle, et d’un flot de promesses absurdes qui aggravent l’hébétude. Pour être à la hauteur de ce qui vient, ce ne sont pas d’innovations disruptives, de liberté morphologique ni d’implants dont nous aurons besoin, mais de facultés et des vertus très humaines” (op. cit., pp. 178-179). L’artificialità dei modi di vita contemporanei ci ha fatto perdere ciò che di più prezioso esiste, vale a dire il senso delle realtà naturali e delle forme viventi, e il senso dell’essere umani. Solo ritrovando e riscoprendo la natura insostituibile e inesauribile di questo senso si può disegnare un nuovo progetto per l’umanità e aprire un nuovo cammino per l’esistenza umana. La spirale infernale in cui troviamo, dove catastrofe ecologica, sfacelo antropologico e decadenza culturale sono fortemente connesse, può divenire paradossalmente un’occasione per una rinascita se si riesce a metamorfizzarla in un intreccio virtuoso che unisce rivoluzione ecologica, risveglio delle qualità umane e ricostruzione del vivere civile. Anche se i diversi aspetti e problemi riguardanti la natura fisica, biologica e umana sono complessi e multiformi, quattro parole riassumono forse al meglio l’essenza delle sfide urgenti e dei compiti imprescindibili che abbiamo davanti: resistere alla nostra meccanizzazione quotidiana, riscoprire la capacità di pensare, affermare la priorità dell’educazione nella scala dei valori culturali e sociali, ritrovare il valore nobile dell’agire per realizzare un nuovo progetto culturale e sociale.

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Complessità e vitalità del mondo reale

“Cerca per il piacere di cercare, non per quello di trovare…” Jorge Luis Borges

Momento di vita reale, I.

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Momento di vita reale, II.

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Momento di vita reale, III.

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Momento di vita reale, IV.

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Momento di vita reale, V.

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Momento di vita reale, VI.

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Momento di vita reale, VII.

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Momento di vita reale, VIII.

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Momento di vita reale, IX.

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Momento di vita reale, X.

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Momento di vita reale, XI. (Visione d’infinita tristezza, quando non si ha piÚ nessuno)

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III.

Annotazioni frammentarie “E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, e i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri, e passano accanto a sé stessi senza meravigliarsi.” (Sant’Agostino) “La meraviglia e un sentimento assolutamente tipico del filosofo. La filosofia non ha altra origine che questa.” (Socrate) “Busca por el agrado de buscar, no por el de encontrar…” (J. L. Borges)

III.1. Da vicino e da lontano - Pensare oltre - Medita et labora “Nos années d’enfance sont une ininterrompue.” (Arthur Schopenhauer)

poésie

“Dans notre connaissance des choses de l’Univers (qu’elles soient mathématiques ou autres), le pouvoir rénovateur en nous n’est autre que l’innocence de l’enfant.” (Alexander Grothendieck)

Spesso ignoriamo che la conoscenza dei dettagli è molto importante per la conoscenza, e che l’attenzione per un dettaglio è un elemento essenziale per dare inizio a un atto o gesto creativo o a una scoperta. Eppure sono questa conoscenza e quest’attenzione (e oggi sappiamo che non v’è l’una senza l’altra, esse nascono e si sviluppano insieme nella vita di un bambino e poi di un adulto, come, tra gli altri, il grande neurofisiologo italiano Giuseppe Moruzzi ci ha insegnato - cito da un articolo importante del 1966 “Brain plasticity”, in Brain and conscious experience - : «Molte considerazioni portano alla conclusione che i processi nervosi implicati nell’apprendimento e nel ricordo, deposito e rilievo delle tracce mnemoniche, sono quantitativamente piccole in relazione all’attività di fondo del cervello, benché le più alte conquiste dell’umanità dalla creazione artistica alla scoperta scientifica, sono dipendenti da essi.») che ci permettono di addentrarci in territori inesplorati e segreti del mondo e dello spirito attraverso modi semplici e modesti del vivere che sono nondimeno essenziali per farne emergere, riportandole alla luce, proprietà e qualità nascoste incredibilmente complesse e sorprendenti, attraverso l’osservazione, la descrizione e lo studio spaziale e temporale attento dei suoi particolari più salienti e significativi. Il dettaglio si può presentare in svariate forme. Ad esempio in matematica (dove questo problema è per molti aspetti affascinante), si parla di singolarità locale, cioè

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concentrata in un luogo circoscritto anche se esso può essere difficile da definire con precisione: può essere un punto o un insieme di punti (non nel senso insiemistico o Cantoriano del termine, ma nell’accezione della teoria geometrica dei sistemi dinamici da Poincaré in poi (in particolare nella scuola geometrica russa dei sistemi dinamici di Andronov, Pontriaguin e Arnold), un punto critico, un punto soglia, un punto limite, di biforcazione, rottura o transizione, un bacino, un attrattore, un vortice, un nodo, un monopolo magnetico (nella teoria quantistica dei campi), un buco nero (in cosmologia). Lo studio di tutti questi tipi di punti, tra i quali si possono stabilire delle relazioni per poi essere classificati al fine di ottenere quelle che chiamiamo (in topologia) classi di equivalenza (termine preciso per indicare le reti di relazioni o connessioni che si possono trovare tra gli oggetti e i fenomeni) è fondamentale per comprendere i cambiamenti qualitativi o strutturali e l’evoluzione temporale del sistema o del fenomeno che si vuole spiegare. Una singolarità è un dettaglio a volte della massima importanza per capire il fenomeno che si sta studiando, e lo è prima di tutto perché quel dettaglio, ad esempio una singolarità locale, può propagarsi in tutto lo spazio modificandone la sua forma e le sue proprietà globali. Molte strutture matematiche (mi vengono in mente le pieghe e le torsioni) e molti fenomeni fisici (pensiamo al calore o all’onda) presentano questa proprietà propagativa importante, che può essere (in un senso preciso) di natura essenziale e universale. Il dettaglio è altresì molto importante nelle arti, in particolare nella pittura (menziono gli importanti lavori di Daniel Arasse sul ruolo del dettaglio nell’arte rinascimentale italiana, da Brunelleschi e Masaccio a Tiziano e Raffaello; Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Il Saggiatore, 2007), ma anche in musica (penso a diverse sinfonie di Ludwig van Beethoven e alle magnifiche interpretazioni che ne ha dato Claudio Abbado). In tante opere letterarie, il fatto di soffermarsi su un dettaglio significativo non solo da il senso generale della forma che il racconto o l’opera prenderà, e in questo, diciamo così, è la fonte della sua gestazione o della sua morfogenesi, ma lo rende anche più umano e generoso, più fecondo di significati. Il problema del dettaglio è che più si vede da vicino, più si vede in modo parziale, e più si può diventare “ciechi”; vale a dire che si vede meno il contesto, il fenomeno globale, quello che accade intorno o fuori, in uno spazio più ampio e in una durata temporale più lunga. È quello che succede spesso agli scienziati, agli storici, ai politici, alla gente comune. Da qui l’importanza di saper vedere lontano, di saper leggere gli eventi presenti a partire da una conoscenza approfondita dell’eredità culturale del passato, e nel contempo di essere capaci di proiettarli nel futuro, cioè di cogliere le tendenze e il modo in cui i fenomeni e gli eventi si evolveranno, nonché le conseguenze che ne potranno scaturire. Si tratta di lungimiranza unita a immaginazione, qualità essenziali dell’intelligenza. Leopardi

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aveva queste qualità e molte delle sue osservazioni e riflessioni lasciano intravedere l’evoluzione dei fenomeni, e anche le mutazioni di significato che l’accompagneranno, nello spazio e nel tempo, dimensioni che per lui sono profondamente connessi, nel senso che, per esempio, se un certo fenomeno si genera in uno spazio che ha certe proprietà fisiche o morfologiche o ecologiche, allora esso avrà verosimilmente una certa evoluzione temporale caratterizzata da possibili mutamenti ed effetti di un determinato tipo. Le due citazioni seguenti di Leopardi esprimono la lungimiranza e l’immaginazione di cui sopra. La prima è già stata citata, ma è opportuno riportarla nuovamente in questo contesto. “Tanto è possibile che l’uomo viva staccato dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci da qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età di un incivilimento smisurato, di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneranno indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri.” (Zibaldone di pensieri, 1817-1832) “Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose con i loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è trascinato sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi.” (Zibaldone di pensieri, 1817-1832)

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III.2. Il dialogo tra scienza e filosofia “Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto.” (G. Bruno) “E’ meglio illuminare gli altri che brillare solo per sé stessi.” (Maius est illuminare quam lucere solum) (Sant’Agostino) “L’unica saggezza che possiamo sperare di acquistare è quella dell’umiltà.” (T. S. Eliot)

Un aspetto essenziale della scienza, che l’accomuna alla filosofia e all’arte (si pensi in particolare alla musica), è la libertà (che comprende anche il suo carattere educativo ed emancipatorio) intesa non solo come valore astratto e tanto meno retorico (che finisce spesso per essere utilizzato a fini accademici che non raramente sconfinano nel mero calcolo e interesse personale), ma come esercizio ideale (cioè che instanzia costantemente un’idea) e concreto (nel duplice senso che scaturisce da e cerca di capire situazioni reali, ed è capace di generare nuove visioni del mondo e forme di vita), che è importante distinguere dalle applicazioni pratiche e/o tecnologiche. Deve innanzitutto esistere la libertà di fare scienza nella più assoluta possibilità di sviluppare il proprio pensiero e di esprimerlo senza nessuna pressione o imposizione economica, ideologica, politica o religiosa. E deve anche esistere la libertà di poter dire quello che si pensa sulla scienza, di criticarne i suoi contenuti e metodi. Coltivare la scienza, l’arte o anche la poesia significa compiere uno sforzo continuo per avvicinarsi al senso profondo e spesso “nascosto” delle cose (sapendo che esso è molteplice, complesso e inesauribile) e affermare la propria libertà, e anche per mettere in discussione l’ovvietà e la stupidità. A questo proposito, si può accennare ad alcune riflessioni interessanti fatte da Robert Musil in un saggio del 1937, Sulla stupidità, in cui, tra l’altro, il grande scrittore (e ingegnere) austriaco scrisse: «Se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido». O anche: «La costituzione non artistica di un popolo si esprime non solo in tempi cattivi in modo brutale ma anche in tempi buoni in tanti modi, a tal punto che tra la repressione o il divieto o la laurea ad honorem, tra nomina accademica o assegnazione di un premio ci sono differenze di grado». Possiamo notare che, nella scienza (in particolare nella matematica e nella fisica) nulla è accettato come vero se prima non è compreso, nel senso più profondo

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del termine, cioè non solo razionalmente, logicamente, ma attraverso un processo intuitivo, sensibile si potrebbe dire, che coglie le trasformazioni “invisibili” e interne agli oggetti e alle cose. Per sentire la scienza dentro di sé e per praticarla bisogna sentirsi liberi da ogni dogma, e ribellarsi a qualsiasi autorità, anche e forse prima di tutto a quella invocata in nome della scienza. Umiltà, curiosità e immaginazione sono i tre ingredienti essenziali per poter fare scienza (e ciò vale o dovrebbe valere anche per l’arte, la letteratura e la filosofia). Anche le cose meno probabili o più inverosimili possono apparire possibili agli “occhi” di uno scienziato o di un artista. E i fili che intrecciano gli oggetti e i corpi fra loro non appartengono mai all’evidenza, allo scontato, al certo, ma esistono nella trama invisibile di una realtà in perenne cambiamento e che deve essere continuamente ri-scoperta. Circa 2500 anni fa, il grande filosofo greco antico Eraclito di Efeso scrisse: “Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti di trovare”. Il problema della verità delle proposizioni matematiche ha conosciuto un cambiamento epistemologico fondamentale all’inizio degli anni trenta del secolo scorso con i teoremi d’incompletezza di Kurt Gödel, comparabili per importanza scientifica e filosofica al principio d’indeterminazione (nella meccanica quantistica) enunciato da Werner Heisenberg nel 1927 e riguardante l’incertezza della relazione tra la posizione spaziale e la quantità di moto di una particella. Chiamati anche «teoremi di limitazione», essi hanno rimesso profondamente in questione il sogno d’onnipotenza di Hilbert di erigere la matematica a sistema formale completo e infallibile, sogno che si riassume nella celebre formula «in matematica non esiste alcun Ignorabimus» (1935). Gödel ci hanno insegnato che in ogni teoria matematica (e non solo matematica) ci sono delle proposizioni che, benché si supponga siano vere e in ogni caso logicamente coerenti, non si possono dimostrare perché l’insieme di assiomi e teoremi di base di una determinata teoria non è sufficiente per valutare la verità o falsità di tutte le proposizioni che essa contiene. Questo risultato ha avuto due conseguenze filosofiche importanti: la distinzione tra significato matematico e fisico di una proposizione e la sua dimostrabilità logica; e il riconoscimento che l’incompletezza di una teoria matematica o fisica non è dovuta solamente a limiti soggettivi o strumentali della conoscenza, ma che ne rappresenta un elemento costitutivo essenziale della sua capacità di offrire spiegazioni profonde dei fenomeni dopo averne eventualmente anticipato l’andamento e il comportamento, prima che le osservazioni e le esperienze si incarichino di corroborarli o smentirli. Se così non fosse, la matematica e la fisica teorica si ridurrebbero a un grande sistema auto-referenziale per il quale sarebbe difficile distinguere tra “verità interna” e “verità esterna” al sistema, ed anche tra coerenza logica e significato. Le idee di Gödel rappresentano un profondo cambiamento concettuale perché dimostrano che le teorie matematiche

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e fisiche non sono affatto sistemi chiusi e definitivi, ma possono presentare imperfezioni, incoerenze, contraddizioni ed errori, e sono perciò suscettibili di essere migliorate o cambiate. Se prendiamo l’esempio della matematica, è innegabile che essa presenta una componente filosofica importante, e che i suoi concetti esprimono un pensiero e un significato che va al di là delle sue strutture formali da un lato, e delle sue applicazioni al mondo reale dall’altro. Abbiamo già visto brevemente che questo significato filosofico emerge come elemento fondamentale nei risultati di Gödel sull’incompletezza dei sistemi formali. Il grande matematico Ennio de Giorgi ha messo in luce quest’aspetto importante della ricerca matematica affermando che il ruolo della matematica nella conoscenza assolve a una funzione umile a aperta al nuovo, né assoluta né finitista, che si sviluppa a partire dai suoi stessi errori e che incontra limiti nei suoi sforzi per conoscere aspetti significativi della realtà ancora ignoti. La matematica è non solo irriducibile alle sue applicazioni, ma le sue idee esprimono qualcosa di più fondamentale che ha a che fare con le strutture profonde e nascoste della realtà, e il pensiero che essa esprime ha un valore sapienziale oltre che conoscitivo. Il matematico Alain Connes (medaglia Fields nel 1982), in una recente conferenza alla Scuola Normale Superiore di Parigi rivolta agli studenti, ha affermato che “la matematica contiene idee fondamentali sul mondo”, che “parti importanti di questo mondo sono in qualche modo strutturate dalla matematica”, che “i concetti matematici ci dicono qualcosa di essenziale sulla vita stessa”, e che le idee matematiche permettono di “mettere il pensiero in movimento…”. A proposito del ruolo del tempo nel processo di apprendimento, ha fatto la seguente interessante osservazione (che ricorda la distinzione fatta da Henri Bergson in Durée et simultanéité (1922), tra il tempo della scienza, in particolare della fisica, e il tempo della percezione e della coscienza, che il filosofo chiamò «durata» (durée) per distinguerlo dal primo e che incarna la concezione intuitiva del tempo): “Quand on effectue un long calcul algébrique, la durée nécessaire est souvent très propice à l’élaboration dans le cerveau de la représentation mentale des concepts utilisés. C’est pourquoi l’ordinateur, qui donne le résultat d’un tel calcul en supprimant la durée, n’est pas nécessairement un progrès. On croit gagner du temps, mais le résultat brut d’un calcul sans la représentation mentale de sa signification n’est pas un progrès”. Il matematico e filosofo René Thom (Medaglia Fields nel 1954) ha dedicato ampie e approfondite riflessioni in diverse sue opere alla questione della natura dei concetti matematici. Citiamo qui un passaggio particolarmente significativo (da Stabilité structurelle et morphogenèse, 1972): “La théorie des catastrophes est avant tout une théorie de l’action, une théorie dynamique des possibles déploiements des formes. Ce n’est pas le système en soi qui intéresse la théorie,

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avec ses multiples variables internes et son potentiel, mais la façon dont il réagit à certaines perturbations, décrites au plus par quatre paramètres. Elle apporte moins une connaissance du système lui-même (vu comme un mécanisme statique) ou une connaissance des facteurs externes (arbitrairement posés), qu’une connaissance de la réponse de l’un sur l’autre, dans les deux sens. Autrement dit, ce à quoi s’intéresse la théorie des catastrophes, c’est la formulation d’une théorie dynamique de la naissance, du changement et de la stabilisation des formes; celles-ci comprend deux parties: (i) la classification des types de singularités (bifurcations, brisures de symétries, catastrophes) par ordre de complexité́ et selon un sens qui va du local au global, du particulier à l’universel; (ii) la description et l’explication des processus morphogénétiques, ou l’apparition des morphologies. Il est important de remarquer que la théorie des catastrophes pose des limites à l’observation et à la modélisation des phénomènes: la connaissance acquise pour un certain facteur (paramètre) externe n’est pas en général transposable à un autre; reconnaître ces limites peut même devenir la source de nouvelles connaissances. Mais elle a aussi vocation à̀ mettre en évidence un certain caractère d’universalité́ dans les phénomènes: quel que soit le système considéré́ (dans le cadre de certaines classes de systèmes naturels), pourvu qu’on se borne à̀ quatre paramètres variant simultanément, on peut dire a priori quelles sont les formes dont la composition permettra de reconstituer l’ensemble des catastrophes.” (Siamo noi che sottolineiamo). Il significato della matematica ha attirato l’attenzione anche di importanti scrittori, un esempio particolarmente eloquente è quello di Musil già citato (tra gli altri esempi significativi si possono citare quelli di Borges, Gadda e Calvino). In I turbamenti del giovane Torless (Die Verwirrungen des Zöglings Törleß, 1906), Musil sembra voler distinguere tra due matematiche, una 
matematica che, per comodità diremo ‘opportunista’, opposta a un’altra matematica, per così dire ‘passionale’. La prima è la matematica del regolo calcolatore, delle formule, delle banche e degli ingegneri, ed è la matematica del noto e del certo; mentre la seconda è la matematica dell’ignoto e della possibilità, della fantasia e dell’onestà, della mobilità e dell’esercizio gratuito e innocente. Quest’ultima matematica, oscillante tra il gioco estremo, il ragionamento immaginativo e la mistica, assume per sua natura un carattere spiritualmente coraggioso e persino audace. La riflessione di Musil ci invita a scorgere l’altro volto, il vero volto della matematica, non finalizzato, non utile, senza progetto né progresso, piuttosto ludico e spontaneo. C’è da notare che mai come in altre epoche storiche, oggi prevale un’idea mercantile della funzione che si ha dell’arte e della scienza, e più generalmente della cultura, con le sue parole d’ordine, utilità, professionalità, fruibilità, ricaduta, produttività, e così via, si è arrivati a dire che l’arte e la matematica, quelle “non utili”, sono diventate un lusso che non possiamo più permetterci. Ma è proprio in

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questa “inutilità” e “gratuità” che risiede il valore culturale profondo della matematica e dell’arte, che abita il senso delle loro intuizioni e opere. Come ha scritto Borges nei suoi Frammenti di un vangelo apocrifo: “Cerca non per il piacere di trovare, ma per il piacere di cercare”. La scienza non è del tutto estranea a questa forma di “gratuità” nella sua ricerca, anche se questo punto di vista, soprattutto oggi, è più un’eccezione che la norma. Così, ad esempio, il matematico e filosofo Henri Poincaré ha scritto: “Le savant n’étudie pas la nature parce que cela est utile; il l’étudie parce qu’il y prend plaisir et il y prend plaisir parce qu’elle est belle. Si la nature n’était pas belle, elle ne vaudrait pas la peine d’être connue, la vie ne vaudrait pas la peine d’être vécue. Je ne parle pas ici, bien entendu, de cette beauté qui frappe les sens, de la beauté des qualités et des apparences; non que j’en fasse fi, loin de là, mais elle n’a rien à faire avec la science; je veux parler de cette beauté plus intime qui vient de l’ordre harmonieux des parties, et qu’une intelligence pure peut saisir” (Science et méthode, 1908). Anche Hermann Weyl (altro grande matematico e filosofo del secolo scorso) ha sottolineato, parlando del suo lavoro: “My work always tried to unite the true with the beautiful, but when I had to choose one or the other, I usually chose the beautiful” (si rimanda in particolare all’opera The Open World, 1932). Il grande topologo americano William Thurston (medaglia Field nel 1982), scomparso nel 2012, ha parlato della matematica nei termini di un’arte della comprensione: “Many people have an impression that mathematics is an austere and formal subject concerned with complicated and ultimately confusing rules for the manipulations of numbers, symbols, and equations, rather like the preparation of complicated income tax return. Good mathematics is quite opposite to this. Mathematics is an art of human understanding…” (siamo noi che sottolineiamo). Sia nella matematica che nell’arte il mondo degli oggetti è concepito come un orizzonte aperto, non c’è mai chiusura, né completezza, non c’è un momento in cui il mondo si richiude definitivamente su sé stesso erigendosi a sistema autoreferenziale. Nel proiettarlo verso l’alterità, il nuovo, e perché no, verso l’ignoto, si finirà per scorgere sempre una nuova apertura o possibilità. Il mondo, per l’arte e la matematica, è aperto a una
moltitudine di prospettive, vale a dire uno spazio di possibili che possono attualizzarsi entro un’esperienza fenomenologica e temporale
vissuta, ed è a partire da queste prospettive che
può allargarsi il campo semantico delle nostre
costruzioni e interpretazioni simboliche. Il fenomeno della creazione artistica e matematica richiede umiltà, curiosità e immaginazione. Ritengo che l’immaginazione sia il «motore», la forza trainante. Anche le cose meno probabili o più inverosimili possono apparire possibili agli occhi di un topologo o di un artista… Le cose improbabili o inverosimili vanno considerate con la debita attenzione, meritano che le osserviamo con lentezza e bontà, che le meditiamo in silenzio con lunghe pause di ascolto, tanto più che ci

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possono indicare la traiettoria che conduce a capirle per quello che sono e per quello che potrebbero o potranno essere. Anzi, più sono improbabili o inverosimili, e più possono essere oggetto di un’attività immaginativa, matematica o artistica che sia. Un altro tratto distintivo dell’arte e della matematica è che non si può isolare una parte senza privare l’insieme della sua essenza. Entrambe presentano dunque un aspetto globale, olistico particolarmente rilevante. Sotto questo profilo, il “mondo” dell’arte e della matematica è come un organismo vivente, che può sopravvivere soltanto quando se ne preserva la sua integrità. Da questo punto di vista, la miglior metafora che a mio avviso rispecchia il senso dell’arte e della matematica è quella di “forma organica”, non tanto nel senso di una comune forma a struttura piramidale, quanto in quello di rete, di reticolo, di forma arborescente o ramificata, inattesa, in cui ogni elemento si intreccia con gli altri. Non c’è una gerarchia di concetti che viene realizzata, bensì un incontro tra il loro movimento immaginativo e l’orizzonte fenomenologico aperto delle cose. L’arte e la matematica sono per così dire all’ascolto delle cose e, tramite i loro strumenti prediletti quali l’intuizione, i gesti, i diagrammi, i disegni, i colori, l’introspezione, riescono a mettere in luce la loro tessitura e delle qualità che sorgono dalle combinazioni/connessioni relazionali tra le cose stesse. Adottare una visione piramidale implica che abbiamo bisogno di un centro, da cui tutto si origina e si dirama. Ma quello che l’arte e la matematica costruiscono è una rete, un intreccio profondo e talvolta invisibile tra le cose, un tessuto connettivo di proprietà e qualità emergenti. C’è un legame tra l’arte e la vita al quale non si da il rilievo che merita, e che pertanto è essenziale per la formazione dell’essere umano e della cultura di una comunità. “La vita è una grande opera d’arte” (“La vida es una obra maestra”): così si esprimeva il grande artista italo-peruviano Jorge Eduardo Eielson parlando della sua visione dell’arte. Questa metafora esprime in realtà̀ un’analogia profonda tra l’arte e la vita. Non solo essa contiene la quintessenza del suo lavoro e del suo pensiero, ma in più mi sembra esprima un significato ontologico generale che possiamo riassumere dicendo che la vita è la più singolare e sorprendente delle opere d’arte, e, reciprocamente, che la creazione artistica è l’opera di una vita. Le parole di Eielson fanno eco a quelle pronunciate di un grande artista, Paul Klee, “Werk ist Weg”: l’opera d’arte è un cammino, un continuo divenire, una ricerca aperta e creativa che si concretizza in luoghi e momenti precisi della nostra esistenza. Che l’opera d’arte sia un cammino che si percorre con il movimento, è un’idea ammirabilmente messa in luce dal poeta spagnolo Antonio Machado nel poema: “...caminante, no hay camino, so hace camino al andar...” (“...camminante non c’è il cammino, si fa il cammino andando...”). Sia l’arte che la vita sono così delle formazioni organiche, e perciò inseparabili l’una d’altra. L’arte nasce e trova il suo senso come espressione creativa e nobile nell’atto stesso dello scoprire, del

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vivere e del percepire il mondo che costituisce la base della nostra esistenza.

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III.3. Nichilismo, modernità e ideologia post-umana “In questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati.” (Z. Bauman) “Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore.” (P. P. Pasolini)

Secondo il filosofo Aldo Masullo (venuto a mancare il 12 aprile): «Il nichilismo non è più scandalo teorico della ragione e reazione speculativa, ma effettivo esito patologico della nostra civiltà: è nichilismo reale, è nientificazione di sé e del mondo. Il nichilismo in sostanza è diventato uno stato di esistenza generalizzato. Mentre prima il suo principio era “nulla è vero, quindi tutto è lecito” adesso è “tutto è lecito, quindi nulla è vero”. È il nostro modo di vivere, di esistere e rivela una situazione profondamente drammatica. Ora la condizione del nostro odierno esistere esige non tanto una discussione sull’essenza del nichilismo, quanto un’esplorazione di effettivi stati di nichilismo, di “focolai nichilistici” accesi nella nostra estenuata modernità, di “sintomi” della cultura europea affetta da nichilismo.» Faccio due brevi commenti. Commento 1: Il mondo esiste, primo se gli ascriviamo delle proprietà e qualità, in altre parole se ciò di cui si compone esiste grazie ad alcune sue proprietà, secondo se si è capaci di mostrare che queste proprietà e qualità sono effettive, cioè producono degli effetti reali. È bene, però, aggiungere che questi due criteri non istituiscono un unico concetto di esistenza: in realtà, ci sono diversi modi (o stati) mediante i quali gli oggetti, i fenomeni e anche i concetti esistono, a seconda che cerchiamo di spiegarne e capirne proprietà e qualità dal punto di vista matematico, fisico, biologico, fenomenologico o percettivo. Commento 2: Alla stregua di Thom, ritengo che la matematica e la letteratura sono il frutto della nostra capacità di pensare l’impossibile e che l’infinito ne costituisca in qualche modo il suo orizzonte, un orizzonte mobile e incompiuto. Sappiamo, infatti, che non esiste un orizzonte assolutamente «oggettivo», poiché la sua definibilità e percettibilità dipende da elementi oggettivi e soggettivi come la posizione dell’osservatore, la distanza che lo separa dalla “linea d’orizzonte”, dalla luminosità e dal contesto della descrizione. L’orizzonte cambia con il cambiare della ratio tra vicino e lontano (e anche tra distanza e durata, tra dentro e fuori), e ciò contribuisce non solo a introdurre una pluralità di possibili punti di vista con cui guardare le cose e gli eventi, ma anche a trasformare il nostro punto di vista sulla realtà e il mondo. I due criteri essenziali dati più sopra per poter parlare di esistenza

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sono nondimeno sufficienti per confutare filosoficamente la posizione nichilista, se la riassumiamo nella formula «non si può affermare nessuna verità sul mondo e le entità che lo compongono, per cui è impossibile trovare un fondamento razionale ai nostri comportamenti, da cui ne consegue che qualunque nostra azione, atto o gesto è lecita (e consentita). Scrive ancora Masullo: «Affermare un principio e fermarsi dogmaticamente a tale affermazione è sterile. Dubitare è potenza, perché significa riuscire a venire fuori dalla gabbia dell’immediato vivere o peggio, abusando della ragione, credere di sapere, pur non sapendo. Dubitare significa avventurarsi alla ricerca della comprensione di sé. La potenza della ragione è il dubbio. Purtroppo, quando ci troviamo in uno stato di nichilismo reale, il potere razionale risulta indebolito, ridotto a prendere per valori irrigidite abitudini o a restare senza criteri di valutazione. Dalla debolezza del potere razionale nascono gli estremismi e le guerre». Commento 3. Forse si dovrebbe aggiungere che, in certi casi, gli estremismi e le guerre nascono anche dallo strapotere della ragione, cioè dal suo uso come dominio assoluto, come soluzione necessaria per affermare una verità finale (suprema e irrefutabile). Scrive, infine, il filosofo morale: «Si può riemergere solo se si riattiva il con-senso. Il che vuol dire sanando le separatezze dei momenti vissuti, dei pensieri balenati, delle esistenze patite. Il problema non è trovare la verità, ma costruirla insieme. Non si deve pretendere di essere l’altro, ma acquisire la piena consapevolezza che solo perseguendo la ricerca di me, il senso della vita e in qualche modo comunicandolo all’altro, posso realizzare una compagnia di sofferenza e di gioia, costruire una moralità che è intreccio di relazioni, e perciò è l’incunabolo del senso della vita. Il rifiuto del consenso inevitabilmente finisce in un deserto di senso. Contro il totalitario dissenso e l’inimicizia assoluta, contro la guerra come malattia dell’esistere, va oggi riattivata la “volontà di verità” in quanto “volontà di con-senso” cioè, inseparabilmente, di eros e di grazia.» Sull’argomento del rapporto tra questa pandemia e la modernità all’era della virtualizzazione digitale, ha espresso alcune riflessioni interessanti anche il filosofo e psicanalista argentino Miguel Banasayag: «L’evento inedito è la reazione che abbiamo davanti a essa non la pandemia in sé. Dobbiamo abbandonare quella sorta di fascinazione per l’evento virale che ci ha stregato. Prenderne le distanze. Non è certo facile perché viviamo sotto questa minaccia. La fascinazione è tipica del tempo virtualizzato, del tempo degli algoritmi, della sorveglianza totale e del controllo in un mondo globalizzato. La reazione che ne deriva è una reazione mondiale, in qualsiasi angolo del pianeta si fa esperienza della fragilità del vivente». (…) È cambiato il modo di intendere

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l’esistenza umana. Fino al 1968 essa era ancora integrata nel vivente. La morte era considerata un evento naturale. Doloroso ma accettabile. Nella società della delega invece tutto cambia. Assistiamo all’incontro tra la diffusione del virus e un mondo virtualizzato, dominato dalla delega di responsabilità. In questo nuovo contesto cambia il rapporto con la morte. Qui, dal punto di vista sociale, il virus trova un terreno favorevole. Ormai non c’è più un rapporto diretto tra gli uomini, e così pure tra medico e paziente. Oggi a prevalere è una medicina diagnostica, una medicina dei big data il cui obiettivo è solo quello di tracciare il profilo del paziente non di incontrarlo.» (siamo noi che sottolineiamo; questi temi sono discussi nel suo libro recente, Fonctionner ou exister?, Editions Le Pommier, 2018). È fondamentale infatti, per avere una medicina nello stesso tempo più solerte e solidale, che il rapporto tra medico e paziente, tra infermiere e malato, deve essere improntato al contatto e calore umani, alla premura e amabilità. Ci vuole meno telemedicina e più contatti umani, più medici di famiglia preparati e attenti e meno centri specializzati con medici specializzati per soli abbienti. A questo tema, si ricollegano le riflessioni di Luciano Manicardi (già citato): «Insopportabile al postmortale è il pensiero della libertà come legame e come segnata da limiti. Il disgregarsi della coscienza della mortalità comporta la disgregazione del senso di appartenenza. Un uomo libero e maturo è cosciente del legame che lo unisce agli altri, è cosciente di ciò che deve agli altri (padre, maestro, amici, collettività, …). Ma noi siamo dipendenti anche in senso più profondo: noi parliamo perché altri ci hanno parlato, perché l’umanità intera ha sviluppato il linguaggio; noi pensiamo perché altri hanno pensato prima di noi. Dunque siamo inseriti in un flusso di esistenze che ci ha preceduto e di cui siamo debitori. E noi diventiamo noi stessi a partire da questi legami fondamentali. Negarli o minimizzarli o dimenticarli, come oggi avviene, crea quella società che alcuni sociologi chiamano post-tradizionale, che ha reciso i legami con il passato. E dunque ha perso la bussola con cui orientarsi nel presente verso il futuro. Ora, sono proprio la consapevolezza della morte e il riconoscimento della finitudine che rivelano lo stato di dipendenza a partire dal quale si dispiega la soggettività. La volontà di controllare la morte e di farne una realtà puramente individuale appartiene alla sfera delle illusioni perché la morte va oltre il soggetto, essendo il confine (e il limite è anche confine) che unisce il soggetto al mondo. La coscienza di mortalità è decisiva per tenere uniti i legami sociali e affettivi in cui consiste ogni esistenza umana. L’individualistica società postmortale diviene astorica e apolitica e, alla lunga, indifferente e cinica. La post-mortalità diviene post-moralità. E ispira una società che penalizza gli anziani mentre crea anzianità sempre più longeve con la medicina anti-invecchiamento e rigenerativa».

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III.4. Il gioco, l’innocenza e il sogno “L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana.” (G. Leopardi) “Penso che bisognerebbe inventare un gioco a cui nessuno vinca.” (J. L. Borges) “Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.” (Dante Alighieri)

Questo è forse il tema a cui sono più affezionato, non solo da un punto di vista personale ma anche da quello euristico. Ma non ho ancora trovato la necessaria e giusta vena filosofica e soprattutto poetica per poterne parlare. Il rischio è di dire banalità, peggio ancora, sciocchezze, e sarebbe un peccato vista l’importanza e la ricchezza del tema. Mi limiterò ad alcuni accenni, dicendo subito che queste modeste riflessioni le devo ai rari momenti (che un po' per necessità personali un po' per ragioni contingenti e un po' per scelta) ho trascorso in un buio e silenzioso tabernacolo di monaci benedettini occupato da vecchi e lunghi banchetti di legno e adornato da numerosi dipinti risalenti all’arte del Settecento e Ottocento. Sono luoghi molto propizi per poter meditare e pensare, di cui sento a volte la mancanza, da quando ero fanciullo. Ed è lì che ho gettato un primo appunto, nello stesso modo in cui si getta un sasso in un torrente: “…dal gioco nascono diverse qualità del nostro essere al mondo, dalle quali possono poi crescere diversi frutti.” La prima cosa è che il gioco e l’innocenza sono qualità che stanno diventando sempre più rare, anche perché la natalità si fa sempre più rara e indesiderata (proprio perché il desiderio sta svanendo), cosa che è soprattutto legata al fatto che le nostre società post-moderne (e post-mortali come Luciano Manicardi le chiama nel suo libro) sono sempre più individualiste ed egoiste e sempre più povere di generosità è bontà. (Non sono i mezzi e le risorse che mancano, come, subdolamente, si vorrebbe fa credere, bensì la capacità di ascolto e il senso di dedizione). Il gioco e l’innocenza sono vitali, non solo e non tanto perché sono necessari e importanti per mantenere una certa giovinezza nel corpo e nella mente, ma perché sono la vita stessa. Il gioco e l’innocenza danno l’energia per vivere - e non c’è vita senza energia -, spontaneamente e intensamente, conservando e rigenerando continuamente la vita: la propria e quella degli altri, della Terra, della natura, dello spirito, rifiutando perciò l’idea infida e filistea che vivere sia avere, possedere, prendere, sprecare, buttare. O che sia anche una ‘lotta per la sopravvivenza’. Di darwiniana memoria, questa nozione è stata più tardi stravolta nel suo originario e vero significato, quello che gli attribuì appunto Darwin, da un certo darwinismo sociale, che è poi addirittura sfociato in un certo eugenismo. E da lì in poi la ‘lotta

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per la sopravvivenza’ è diventata quando ‘sfida per la competizione” e quando ‘guerra per le risorse’. Cosicché con la nozione di ‘lotta per la sopravvivenza’ molti intendono oggi arrivare prima dell’altro, vincere sull’altro, umiliare e persino eliminare l’atro, che viene quindi visto come un concorrente o come un nemico. Una tale concezione si traduce in un ‘non vedere’, un ‘non capire’, un ‘non apprezzare’ l’altro. Noi sappiamo però, grazie agli studi di molti biologi e Naturphilosophen, che la vita è fatta anche di processi spontanei, di auto-organizzazione, di cooperazione tra specie diverse e all’interno della stessa specie, di simbiosi tra animali e vegetali, che comportano scambio reciproco (un donnant-donnant) di sostanze, qualità e funzioni. Oggi si riconosce sempre di più il ruolo fondamentale che questi fenomeni di simbiosi svolgono nel mondo vivente per permettere la nascita, lo sviluppo e la conservazione di una molteplicità e complessità di forme e funzioni biologiche necessarie alla vita. Un esempio di simbiosi molto studiato negli ultimi anni, e che ha permesso di comprendere certi processi vitali dell’organismo, è quello tra batteri e intestino che avviene nel nostro corpo (viene chiamato microbiota intestinale ed è un elemento fondamentale dell’ecosistema intestinale, chiamato anche “secondo cervello”; esso svolge un ruolo importante nella filogenesi di ogni individuo. Si parla anche di simbiosi tra virus e organismo umano (che tanto ci preoccupa attualmente), in cui succede che certi virus cercano di trarre vantaggio da certe qualche caratteristica e condizione dell’organismo umano adattandovisi. Uno dei primi (senza dimenticare i lavori importanti e pionieristici di Jacob J. von Uexküll) ad avere attirato l’attenzione sui diversi fenomeni di simbiosi nel mondo vivente, e a proporre di andare oltre il solo criterio della ‘selezione naturale’ (della ‘lotta per la sopravvivenza’) è stato lo zoologo e biologo svizzero Adolf Portmann (rinvio al suo importante libro Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Adelphi, 1969). Ma qui ci allontaniamo, almeno apparentemente, dal gioco e dall’innocenza, anche se, in realtà, la spontaneità e il gioco sono due elementi essenziali delle interazioni che avvengono istintivamente nel mondo vivente tra individui della stessa specie o di specie diverse (per esempio tra gli uccelli o tra gli uccelli e gli insetti). L’energia vitale di cui parlavo, che è sempre presente e muove il gioco e l’innocenza, nasce da altre cause, evolve secondo altri processi e agisce ad altri fini, che consistono in una riscoperta continua, in una messa in relazione ininterrotta di elementi semplici ma essenziali i quali, ricombinati in tanti modi diversi, danno sempre un nuovo aggregato. Essa coincide con la vita stessa, che è quella che ci tiene radicati nella Terra e ci fa essere parte del mondo (della Lebenswelt). Questo attaccamento fedele alla vita comporta in particolare l’attribuzione di un’anima, cioè di una forma di vita ancora sconosciuta e misteriosa (e che forse non conosceremo mai), agli oggetti, alle cose e alle persone.

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Nel gioco e nell’innocenza non c’è niente di forzato, e sono estranei a ogni bizantinismo. Ed è per questo che solo i bambini, i fanciulli, possiedono il dono del gioco e dell’innocenza, lo possiedono naturalmente, spontaneamente, senza che nessuno gli li abbia dati o infusi. Anche i vecchi, delle volte, le possiedono, quando accettano di ridiventare bambini e fare un viaggio fantastico nel tempo (rivivendo un tempo ritrovato nel tempo perduto), quando abbracciano l’idea di ridivenire naturalmente e umilmente fanciulli. Un bambino rinasce sempre, risorge a ogni istante, per lui ogni momento è nuovo, ed avviene in uno spazio diverso privo di confini prescritti e in un tempo che si dilata all’infinito. Un bambino quando gioca crea, inventa, fa e rifà continuamente tutto. Dal tutto crea il nulla, dal pieno il vuoto, dal nulla il tutto, dal vuoto il pieno, mostrando di capire molto di più quanto noi (adulti) crediamo che capisca, perché è libero da barriere, principi e dogmi che, invece, frenano e pervertono il nostro modo di pensare e agire. Un bambino usa le braccia come ali, e le ali come braccia; nei piedi di un tavolo può vedere le zampe di un elefante o le gambe di un gigante forte e coraggioso; in un brandello di legno vede una lancia e in una lancia un brandello di legno; ricombina e cambia la realtà, quella stessa realtà che può apparire al nostro sguardo (di adulti), stanco e pigro, oramai irrigidita e statica, ma che lui, il bambino, vede invece in continua trasmutazione, in un continuo divenire. Non pensa in uno spazio di punti ma in uno spazio di eventi e di esseri fantastici (lo spazio-di-gioco appunto), non immagina in un tempo lineare ma in un tempo ciclico, altalenante, come quello che si prova guardando una trottola. Gli piace giocare con le cose, e con il mondo. Può avere lo sguardo di un uccello o muoversi come un pesce. Sa parlare tutte le lingue. Spera di diventare grande, adulto, e una volta che è diventato grande e adulto, sogna di ridiventare bambino, di ritrovare quell’energia pura e vitale che rendono la vita gioiosa e innocente, insomma felice. Il filosofo Arthur Schopenhauer, che ha scritto delle pagine bellissime sull’infanzia e l’ingegno del fanciullo, ha visto nel bambino l’autentico genio (cito da un’edizione francese di Le Monde comme volonté et comme représentation, Du génie (libro III, capitolo XXXI) - che ho qui con me per caso, perché in questo momento particolare non ho purtroppo accesso alle edizioni tedesca e italiana): «Celui qui ne demeure pas, durant sa vie, en quelque mesure un grand enfant, mais devient un homme sérieux, froid, toujours posé et raisonnable, celui-là peut être en ce monde un citoyen très utile et capable, mais jamais il ne sera un génie. Ce qui constitue en effet le génie, c’est que chez lui cette prédominance, naturelle à l’enfant, du système sensible et de l’activité intellectuelle, se maintient, par anomalie, toute sa vie durant, et devient ainsi continue. (…) De même qu’il y a une simple beauté de jeunesse, possédée un moment par chacun (…), de même il y a aussi une pure intellectualité de jeunesse, une certaine nature spirituelle, désireuse et capable de saisir, de comprendre, d’apprendre, possédée par tous pendant

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l’enfance, par quelques-uns encore pendant la jeunesse, et qui se perd ensuite comme cette beauté. C’est seulement chez quelques exceptions des plus rares, chez quelques élus, que l’une, comme l’autre, peut préserver durant toute la vie, de manière que quelques traces en restent encore visibles même dans l’âge le plus avancé: ces exceptions, ce sont les hommes vraiment beaux, ce sont les vrais génies (…)». «Dans l’enfance, (…) la plus grande partie de notre être est employée à connaître. (…) De là vient que nos années d’enfance sont une poésie ininterrompue. Car l’essence de la poésie, comme de tous les arts, est de percevoir dans chaque chose isolée l’idée platonique, c’est-à-dire l’essentiel, ce qui est commun à toute espèce; chaque objet nous apparaît ainsi comme représentant tout son genre, et un cas en vaut mille. (…) Dan l’enfance, la vie, avec toute son importance, s’offre à nous si neuve encore, si fraîche, avec des impressions si peu émoussées par leur retour fréquent, que, avec toutes nos allures enfantines, nous nous occupons, en silence et sans intention distincte, à saisir dans les scènes et les événements isolés, l’essence même de la vie, les types fondamentaux de ses formes et de ses images». E Peter Handke, in un noto poema dedicato ai fanciulli, scrive: «Lorsque l’enfant était enfant, il marchait les bras ballants, tout pour lui avait une âme et toutes les âmes étaient une, il n’avait pas d’opinion et pas d’habitude, avait une mèche rebelle. (…) Lorsque l’enfant était enfant, il lança un bâton contre un arbre, comme une lance. Et elle y vibre toujours». Sul tema dell’innocenza e della conoscenza in generale e nei bambini in particolare ha scritto delle mirabili pagine il grande matematico Alexander Grothendieck (1928-2014). Citiamo alcuni passaggi: “Dans notre connaissance des choses de l’Univers (qu’elles soient mathématiques ou autres), le pouvoir rénovateur en nous n’est autre que l’innocence. C’est l’innocence originaire que nous tous avons reçue en partage à notre naissance et qui repose en chacun de nous, objet souvent de notre mépris, et de nos peurs les plus secrètes. Elle seule unit l’humilité et la hardiesse que nous font pénétrer au cœur des choses, et qui permettent de laisser les choses pénétrer en nous et de nous imprégner” (qui e nel seguito siamo noi che sottolineiamo). “Ce pouvoir-là n’est nullement le privilège de ‘dons’ extraordinaires - d’une puissance cérébrale (disons) hors du commun pour assimiler et pour manier, avec dextérité et avec aisance, une masse impressionnante de faits, d’idées et de techniques connues. De tels dons sont certes précieux, dignes d’envie sûrement pour celui qui (comme moi) n’a pas été comblé ainsi à sa naissance ‘au-delà de toute mesure’. Ce ne sont pas ces dons-là, pourtant, ni l’ambition même la plus ardente, servie par une volonté sans faille, qui font franchir ces ‘cercles invisibles et impérieux’ qui enferment notre Univers. Seule l’innocence les franchit, sans le

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savoir ni s’en soucier, en les instants où nous nous trouvons seuls à l’écoute des choses, intensément absorbé dans un jeu d’enfant…”. “La découverte est le privilège de l’enfant. C’est du petit enfant que je veux parler, l’enfant qui n’a pas peur encore de se tromper, d’avoir l’air idiot, de ne pas faire sérieux, de ne pas faire comme tout le monde. Il n’a pas peur non plus pour que les choses qu’il regarde aient le mauvais goût d’être différentes de ce qu’il attend d’elles, de ce qu’elles devraient être, ou plutôt: de ce qu’il est bien entendu qu’elles sont. Il ignore les consensus muets et sans failles qui font partie de l’air que nous respirons – celui de tous les gens sensés et bien connus comme tels. Dieu sait s’il y en eu, des gens sensés et bien connus comme tels, depuis la nuit des temps. Nos esprits sont saturés d’un ‘savoir’ hétéroclite, enchevêtrements et peurs et de paresses, de fringales et d’interdits, d’informations à tout venant et d’explications pousse-bouton”. “…espaces clos où viennent s’entasser informations, fringales et peurs sans que jamais ne s’y engouffre le vent du large. Exception faite d’un savoir de routine, il semblerait que le rôle principal de ce ‘savoir’ est d’évacuer une perception vivante, une prise de connaissance des choses de ce monde. Son effet est surtout celui d’une inertie immense, d’un poids souvent écrasant. Le petit enfant découvre le monde comme il respire – le flux et le reflux de sa respiration lui fait accueillir le monde en son être délicat, et le font se protéger dans le monde qui l’accueille. L’adulte aussi découvre, en ces rares instants où il a oublié ses peurs et son savoir, quand il regarde les choses ou lui-même avec des yeux grands ouverts, avides de connaître, des yeux neufs - des yeux d’enfant”. È forse noto l’adagio di Giacomo Leopardi: “I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto”. Sicuramente meno nota è la riflessione che segue, sempre a proposito della visione immaginativa, prerogativa specialmente dei bambini (tratta dal suo Zibaldone di pensieri, 30 novembre 1828): “All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campana; udrà cogli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campana, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Triste quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli solo di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione”. E il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij scrive nella sua opera L’idiota (1869) che “A un bambino si può dire tutto; mi ha sempre sconcertato il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i piccoli, persino padri e madri i loro figli. Ai bambini non bisogna nascondere niente col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto per sapere. Che idea triste e infelice! E come si rendono ben conto

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i bambini che i genitori li considerano troppo piccoli e non in grado di capire, mentre invece capiscono tutto. I grandi non sanno che un bambino può dare consigli estremamente importanti anche nelle questioni più difficili”. Infine (in Resurrezione di Tolstoj), il ritorno alla vita di Nechliudov e la soluzione allo spaventoso male che aveva visto e conosciuto e che trionfava e regnava nei luoghi più bui e avvilenti della società, poteva avvenire solo ridiventando fanciulli nello spirito e rivivendo la beatitudine e l’innocenza dei bambini, secondo i versi scritti in “Matteo XIII” - parole che incarnano una profonda ribellione e sensibilità dello spirito e sono portatrici di luce e di gioia: “In verità vi dico, se non vi cambierete e non sarete come i fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli; Chi dunque si farà piccolo come questo fanciullo, quegli sarà il più grande nel regno dei cieli”. La società di oggi, che molti vorrebbero completamente tecnicizzata, virtualizzata, digitalizzata, e fanno di tutto par arrivarci, anche le azioni più insensate e inaccettabili, vuole privarci del gioco e dell’innocenza, qualità rare ma essenziali, qualità consostanziali alla vita, qualità che ci rendono e ci preservano umani, e non macchine o automi. Sono loro stessi che, non più capaci di vivere e non più desiderosi di conoscere il mondo nella sua inesauribile complessità e creatività, vogliono rubarci l’infanzia, l’immaginazione, il sogno; vogliono appiattire il nostro spazio vitale a una sola dimensione, fermare il tempo e il suo fluire; vogliono sottrarci i beni più preziosi, più puri e lieti: vivere e pensare. Là dove un bambino gioca, là dove parla, pensa o sogna, là si trova nascosto un mistero, il mistero stesso della vita. Solo il bambino è capace di inventarsi la vita mentre la narra, di immaginarla mentre la pensa, di viverla mentre la mette in movimento. Piuttosto che lasciarsi l’infanzia dietro di sé, come qualcosa di ormai passato e da rimuovere, bisogna proporre il cammino inverso, cioè fare dell’infanzia un orizzonte a cui guardare, un fine verso cui tendere. Quanto all’educazione da dare ai bambini, io penso che invece di regalare macchine e telefonini ed altri oggetti elettronici, i genitori dovrebbero mostrare ai bambini una pianta e dire loro: Sai cos’è questo? È una pianta che trasforma l’energia del sole e i minerali della terra. O indicare loro il cielo stellato facendoli innamorare di quello spettacolo ch’è l’Universo per indurli a riflettere sui corpi celesti e sulle proprietà della luce. Un proverbio del passato recitava così: “Non dare un pesce a un bambino, insegnali piuttosto a pescare”. Oggi dovremmo dire: “Non dare un computer a un bambino, insegnali piuttosto a giocare e a pensare”. In un computer si trova un gran numero di dati, ma non si trova la cosa essenziale, le domande: il problema è infatti avere la capacità d’interrogarsi, di coltivare la curiosità, di saper formulare domande feconde che suscitano nuove conoscenze e uno sforzo gaio per l’apprendimento.

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E anche, come scrive Bauman: “Dovremmo fare in modo che i nostri bambini si preoccupino del fatto che i Paesi che si sono industrializzati per primi siano cento volte più ricchi di quelli che non si sono ancora industrializzati. È necessario che i nostri bambini imparino, e presto, a non vedere le ineguaglianze tra la loro sorte e quella di altri bambini come la Volontà di Dio né come il prezzo necessario per l’efficienza economica, ma come una tragedia evitabile.” Un fatto che mette in pericolo la cultura e ne favorisce il declino è la credenza che si sia raggiunto un livello storico che rende impossibile non solo qualsiasi ritorno al passato, ma anche la sua considerazione come una delle possibili fonti per pensare e vivere il presente. Il fatto che molti pensino che il progresso è necessariamente senza limiti, perciò qualcosa di ineluttabile e d’inarrestabile, è qualcosa che rischia di generare una continua resa del pensiero umano e un sempre più diffuso imbarbarimento attraverso il mondo intero negli usi e costumi delle persone. Diversamente dalla tendenza attuale, che rischia di far diventare l’esistenza umana sempre più artificiale privandola delle sue caratteristiche essenziali, bisogna rendere più presenti i contatti umani; e contro il pericolo di una loro completa rarefazione - conseguenza di una virtualizzazione sempre più invasiva delle nostre vite, serve rendere le relazioni umane più consistenti. Nonostante le montagne di retorica che vengono riversate ogni giorno nei social media e nella carta stampata, non è affatto da escludere che questa pandemia rafforzi certe tendenze deleterie attuali (i segnali non mancano), in particolare, che renda ancora più barbara la nostra lingua (e quindi il servilismo culturale), sempre più decadente la nostra cultura, sempre più indifferenti le persone, sempre più povera la loro vita spirituale. A meno che… non avvenga un cambiamento profondo nelle nostre attitudini mentali e nei nostri comportamenti, una metamorfosi delle coscienze che trasformi il nostro sguardo verso la natura e la cultura, e il nostro modo di vivere le relazioni umane. Per questo non bastano (e forse neanche servono) le grida e gli slogan, e c’è invece bisogno di stili di vita e di gesti diversi da quelli che ci vengono propugnati dal potere della pubblicità globalizzata, di scelte nuove rispetto a quelle che subdolamente sono imposte da una società di massa sempre più tecnicizzata e omologata. In queste settimane si è tornato a parlare di rinnovamento, di rinascita, di resurrezione, parole spesso usate nel passato, per abitudine o per inganno, come un involucro vuoto senza forma né contenuto. Rinnovare, rinascere, risorgere, o sono parole che hanno il volto dell’innocenza e della grazia, la qualità della generosità e dell’onestà, il nome della curiosità e dell’immaginazione, oppure sono artefatte e insignificanti. Solo nel primo caso saranno semi che potranno dare frutti, per il presente e per il futuro.

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III.4. Apertura prospettica sul possibile - ripensare l’orizzonte delle nostre vite “Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza e metti fine alla tua angoscia.” (Seneca) “Secondo la dottrina idealista, i verbi vivere e sognare sono rigorosamente sinonimi.” (J. L. Borges) “Pour atteindre les limites du possible, il faut rêver l’impossible.” (R. Thom)

Ora abbiamo bisogno di una scienza creativa e umanista che sia al contempo dell’essere e del divenire, attenta a capire le fasi che cambiano e i processi che evolvono, capace di cogliere i rapporti quantitativi e le proprietà qualitative dei fenomeni e degli eventi. Oggi ci troviamo in una situazione di mutamento profondo della nostra concezione della natura e del mondo vivente, e in quest’ultimo l’uomo occupa un posto del tutto singolare, perché è l’unico essere vivente (fisicamente e biologicamente) finito ad essere capace di pensare e creare l’infinito, il quale, senza cancellare le sue radici e le sue dimensioni filogenetiche e ontogenetiche, le trascende consentendogli di creare mondi artistici, letterari e mitici del tutto inediti. Da questo punto di vista, l’infinito è ciò che fa incontrare la matematica e la letteratura, la filosofia e la fisica, l’arte e la teologia. L’uomo, da un lato è creatore di mondi scientifici e simbolici complessi, dall’altro è dominante in ambito “terrestre”; questo dominio lo esercita oramai in modo talmente pervasivo e con strumenti tecnici così potenti che un loro uso indiscriminato e irrazionale rischia di distruggere gran parte delle alternative vitali che la natura offre per rigenerare le diverse forme di vita umane sulla Terra. San Tomaso D’Aquino, Giordano Bruno, Blaise Pascal, Giacomo Leopardi, George Cantor, Hermann Weyl e Luis Borges hanno intuito questa caratteristica al contempo peculiare ed essenziale dell’uomo e dell’umano, cioè il fatto che il finito e i limiti che lo contraddistinguono possano generare continuamente dell’infinito, e che quest’ultimo permetta di vedere le cose e gli esseri viventi del mondo e il mondo stesso in una nuova luce. In tale contesto, e con tale prospettiva, s’impone con urgenza l’esigenza di un “nuovo umanesimo”, di una visione dell’uomo capace di rigenerare nel suo ideare e agire un nuovo dialogo scientifico e filosofico con la natura, e un nuovo principio di responsabilità sociale ed etica nei suoi confronti. Per questo bisogna ripensare i nostri modelli scientifici, inventare nuovi approcci e orizzonti conoscitivi ispirati a riconoscere nella natura non più un’entità di cui si considerano riduttivamente, come attualmente accade, soltanto alcune sostanze materiali, tecnicamente sfruttabili come risorse per affermare uno sciagurato dominio di consumo e di spreco. Si tratta, invece, di una terra e una natura viventi che nel corso del loro

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divenire generano incessanti situazioni di creatività, le quali si auto-organizzano rinnovando continuamente le loro proprietà e facendo emergere nuovi equilibri. Una terra e una natura da cui l’uomo proviene e a cui appartiene. Egli trae inoltre da tale radice naturale la sua stessa capacità di vita, creatività e spiritualità. Per questo occorre abbandonare ogni pretesa di dominio predatorio, e rinunciare a quelle pratiche tecno-scientifiche, economiche e politiche che hanno fatto e continuano a fare della natura un puro oggetto (senza vita), una macchina deterministica da assoggettare e depauperare. Occorre invece costruire una nuova relazione con essa fatta di curiosità, generosità e umiltà. Urge che la si veda come un mondo in divenire, in seno al quale si dirama un’incessante storia vivente, sorgente inesauribile di sempre nuove forme di vita, di conoscenza, di creatività artistica e poetica, di sensibilità profonda. Non ci sono conclusioni a questo saggio. Come la vita, intende rimanere un’opera aperta alle riflessioni di altri, un invito a un confronto pacato e franco. Si deve ammettere che molti dei fenomeni qui evocati, da quelli prettamente biologici a quelli riguardanti la complessità delle relazioni tra microorganismi, ecosistemi e risposta immunitaria dell’uomo, si conoscono ancora poco e forse rimarranno senza spiegazione per ancora molto tempo. È inoltre importante approfondire lo studio degli aspetti scientifici, antropologici e culturali che caratterizzano i fenomeni catastrofici o gli eventi estremi, i quali occorrono con sempre maggiore frequenza e stanno modificando profondamente l’evoluzione dei sistemi naturali e i ritmi della vita dell’uomo. Mi limiterò a riprendere alcune ipotesi o questioni che hanno motivato il presente saggio. (i) È apparso via via più chiaramente che il fenomeno pandemico, che va capito all’interno di una visione sistemica, si comporta in funzione di come evolvono le interazioni complesse e variabili tra microorganismi, ambienti naturali e stili di vita dell’uomo. La risposta del sistema immunitario è legata a un insieme complesso e interdipendente di fattori che rimettono profondamente in causa la nostra stessa concezione della natura e dell’uomo. (ii) Nulla oggi ci consente di affermare che il mondo attuale sia il migliore dei mondi possibili. Vi sono anzi parecchi elementi e problemi, sia passati che attuali, di natura scientifica, sociale ed etica, che ci dovrebbero condurre a riconoscerne i limiti profondi e a pensare diversamente, ritenendo perciò auspicabili e possibili un diverso modello di società, più giusto e umano, e un altro progetto culturale, fondato sui valori essenziali dell’educazione e della conoscenza. (iii) Sarebbe deleterio, dal punto di vista dello sviluppo delle qualità e relazioni umane, e più generalmente da quello della formazione culturale degli individui e delle comunità, che la modernizzazione tecnologica delle attività lavorative e dei mezzi di informazione e di comunicazione porti a eliminare le forme tradizionali

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dello studio e le pratiche collettive d’acquisizione delle conoscenze e dei saperi. Ciò avrebbe come conseguenza un sempre maggiore impoverimento delle ragioni essenziali del vivere umano e una frantumazione dei legami sociali, mentre si sa che entrambi sono capisaldi vitali per la sopravvivenza stessa di una società. (iv) Nella vita e nell’immagine che si ha di una comunità è totalmente insensato distinguere tra anziani e giovani, tra vecchi e bambini. Lo è dal punto di vista biologico e neuro-cognitivo, e lo è ancora di più dal punto di vista degli affetti e dell’etica. Questa nuova e degenerata forma (neanche più tanto celata) di darwinismo sociale, che è emersa con più evidenza in questi tempi di emergenza sanitaria, prospetta un’idea della persona umana e della società che sono inaccettabili e vanno rifiutate, e rischia inoltre di introdurre nuove misure discriminatorie e atteggiamenti vessatori nei confronti degli anziani e degli individui più fragili e inermi. A questa iniqua e triste visione degli esseri umani, sostenuta in nome di una loro funzionalità puramente economicistica, va opposta una visione aperta al dialogo intergenerazionale, all’arricchimento culturale reciproco, e ispirata alla solidarietà e all’amicizia. Una società giusta e una vera cultura non possono esistere se non si è pienamente coscienti del fatto che ogni anziano è una biblioteca vivente, una miniera di esperienze e di saperi, un lascito culturale straordinario, un tesoro prezioso della vita che va custodito e apprezzato. E non possono neppure esistere se non si riconosce il diritto alla vita, all’educazione e al gioco dei bambini. Una società che esclude gli anziani e trascura i bambini è una società senza più storia, eredità culturale e futuro. È una società inumana e infelice. Si ha sempre più nettamente l’impressione che per certi aspetti le nostre società siano malate nell’animo oltre che nel modo di operare, e che i comportamenti cosiddetti “normali” della moltitudine siano oramai divenuti patologici. Forse siamo di fronte a nuove patologie la cui natura non è solo fisica ma psichica, generate in particolare da certi stili di vita e dalla perdita di qualità umane essenziali. Si capisce che il nostro modo di agire ha superato determinati limiti inerenti agli equilibri essenziali della natura e della vita, e che questo travolgimento ha coinciso con la situazione eccezionale e drammatica vissuta negli ultimi mesi, del resto preceduta da altri eventi altrettanto se non più drammatici e a cui ne seguiranno altri se continuiamo a perseverare in un modello sociale e modo di vita malati. Le nostre società sembrano essere in preda a un profondo e inquietante smarrimento, e aver perso quei punti di riferimento essenziali che danno senso all’esistenza dei singoli e mantengono vivi i contatti umani e i legami sociali. È come se il pensiero razionale o il pensiero tout court avesse smarrito il suo cammino e abiurato i suoi scopi. È tempo di ritrovare quel senso e quei legami. Per ritrovarlo occorre innanzitutto avere piena consapevolezza dei limiti della modernità attuale e un’idea chiara di

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quali nuove possibilità imboccare; bisogna ripensare i tempi e gli spazi del vivere sociale e dei rapporti umani arricchendone il senso e il valore invece di dissolverli; è necessario ritrovare una certa lentezza e semplicità essenziale nell’agire anziché velocizzare e accelerare (l’accelerazione è sinonimo di caduta o di decadenza) le nostre vite in una corsa frenetica e vuota; urge arrestare la politica di predazione e distruzione dei beni comuni e della natura, rinunciare alla pretesa di dominarla e alla bulimia del possesso e consumo di oggetti senza scopo, per riannodare un vero dialogo con la meravigliosa e inesauribile complessità della natura e del mondo reale; occorre abbandonare l’individualismo sfrenato e la competizione grottesca che generano solo egoismi e antagonismi, e la soluzione non è il voler apparire a tutti i costi o divenire consumatore per essere accettato dal sistema, ma ritrovare una certa profondità e semplicità essenziali nelle cose e nei rapporti umani, riscoprire qualità imprescindibili e “buoni sentimenti” come la sobrietà, la generosità e la lealtà, e il piacere dello studio, della curiosità e dello stupore. . Il primo insegnamento da trarre da questa esperienza (dalla pandemia di coronavirus) dovrebbe essere quello di non ritornare alla normalità di prima, perché incompatibile con quegli equilibri vitali e con la stessa sopravvivenza dell’umanità; e il secondo dovrebbe essere di pensare oltre i paradigmi attuali, sempre più incentrati sul dominio economico di pochi e sulla massificazione digitale, per proporre altri modelli e pratiche diverse di conoscenza e di vita. È difficile immaginare e proporre qualcosa di nuovo se non si nutre una certa speranza nella possibilità di cambiare il nostro destino. La speranza è nello stesso tempo un ideale dello spirito e una forma concreta di vita, da coltivare e attuare. Non bisogna lasciarsi rubare il diritto di sognare l’impossibile né bisogna abdicare al dovere di liberare il possibile lasciando aperte altre prospettive e garantendo un avvenire per la terra, gli organismi viventi e gli esseri umani che lo abitano. La ribellione, intesa e condotta in modo intelligente, pacifico e paziente, vissuta al contempo come gesto nobile, umile e generoso, deve rispondere all’esigenza di un’emancipazione critica delle coscienze, ed è oggigiorno non solo un diritto ma un dovere culturale e sociale che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri. La speranza è un sentiero che si fa camminando. Per gli esseri liberi e consapevoli non esiste un cammino già fissato, imposto da altri, il cammino si fa pensando e agendo insieme, con uno sguardo rivolto al passato, lascito culturale prezioso da cui non si cessa d’imparare, e lasciando orme che abbozzano un nuovo sentiero.

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La scuola momento di socialitĂ , gioco, vicinanza e apprendimento “Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.â€? (Dante Alighieri)

Il viaggio immaginario.

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Il gioco delle stelle vagabonde.

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CreativitĂ del gesto e apprendimento.

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Si impara giocando insieme. Vicinanza fisica, attenzione e apprendimento.

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La scuola è un momento di socialità.

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La scala magica. Si socializza giocando insieme.

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Il gioco e gli esseri immaginari.

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Dal gioco e dall’esperienza nasce l’amicizia.

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Si impara dalla tradizione e toccando la materia.

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L’incantesimo del pane. La sapienza vissuta e trasmessa.

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La luce in un sorriso.

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Come è bello sognare.

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Scoprire il mondo della musica.

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“Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili; ma ho bisogno d'amore.” (G. Leopardi) “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle.” (Sant’Agostino) “Devo lasciare un biglietto a mio nipote: la richiesta di perdono per non avergli lasciato un mondo migliore di quello che è.” (A. Zanzotto) “La vecchiaia non esiste. Certo, i corpi si logorano ma la soggettività resta, in qualche modo fuori dal tempo ed è così che, ‘tutti muoiono giovani’” (Marc Augé).

Lettera di un anziano a figli e nipoti prima di morire di coronavirus (del 22 aprile 2020) “Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi cari miei figli e nipoti. (L’ho consegnata di nascosto a Suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla). Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere una penna ricevuta per grazia da una giovane donna che ha la tua età Elisa mia cara. E’ l’unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po’ di luce dai suoi occhi; uno sguardo diverso da quello delle altre assistenti che neanche ti salutano. Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella “prigione”. Si, così l’ho pensata ricordando un testo scritto da quel prete romagnolo, don Oreste Benziche parlava di questi posti come di “prigioni dorate”. Allora mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto. Sembra infatti che non manchi niente ma non è così…manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno «come stai nonno?», gli abbracci e i tanti baci, le urla della mamma che fate dannare e poi quel mio finto dolore per spostare l’attenzione e far dimenticare tutto. In questi mesi mi è mancato l’odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme. In 85 anni ne ho viste così tante e come dimenticare la miseria dell’infanzia, le lotte di mio padre per farsi valere, mamma sempre attenta ad ogni respiro e poi il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la

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casa. E poi, il giorno della laurea e della mia prima arringa in tribunale. Quanti “grazie” dovrei dire, un’infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato. Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano come dice la Bibbia e che dire, anche il parroco, lo devo ringraziare per avermi dato l’assoluzione dei miei peccati e per le belle parole espresse al funerale di mia moglie. Ora non ce la faccio più a scrivere e quindi devo almeno dire una cosa ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo. Non è stata vostra madre a portarmi qui ma sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno. Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, forse sarà stato anche per orgoglio e quando ho visto di non essere più autonomo non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione. Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera. In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi? Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “sai perché quella quando parla ti urla? Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro? Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta. Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le Rsa, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco…l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no. La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego…non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice. Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro,

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l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi. Vostro nonno.”

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La saggezza antica e la soavità dell’anziano

“Sono convinto che anche nell’ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.” (G. Leopardi)

Il lavoro creativo è un’energia vitale. (Antonietta, oltre ad accudire alla numerosa famiglia e ad aiutare il marito nei lavori dei campi, al contribuito al mantenimento della famiglia filando lino, lana e canapa, e tessendo coperte (burrasa) e bisacce (bertulas), arazzi, sacchi e tappeti che poi rivendeva). (Foto di Pierino Vargiu)

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Ritratto della dignità e vitalità di una persona anziana. Giovanni Frau (sopranominato il nonnino d’Europa, Orroli 1890-2013) serbava il seguente moto: “Vivere, lavorare tanto, non fare stravizzi, e un buon bicchiere di vino rosso non guasta”. Sapienza popolare trasmessa oralmente e con l’esempio a figli e nipoti: “Prendi il tempo con saggezza.” (Lea su tempus cum tempera), “Chi sa aspettare non muore” (Cuie rispectat non morit), “Al vecchio non dispiaceva di morire, dispiaceva di non sapere.” (Su becciu non sentiada ca moriada, sentiada ca non isciada). (Foto di Pierino Vargiu)

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La vita come narrazione. Il valore dello stare assieme e il senso della comunitĂ . (Foto di Pierino Vargiu)

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Il camino si fa camminando. Non è la meta che conta, ma l’atto stesso e il processo del camminare. Come Antonio Machado ci dice nel suo noto poema: Caminante, son tus huellas /el camino y nada mĂĄs; / Caminante, no hay camino, / se hace camino al andar.

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L’amore e la dolcezza non hanno età . (Pietro e Anna, foto di Monica Selenu)

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La saggezza antica e la bontĂ nello sguardo.

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La parola e il gesto non hanno schermo.

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Vivere è appartenere a un mondo, a una storia. (Foto di Daniela Zedda)

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Mens sana in coropre sano. (Foto di Pierino Vargiu)

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Ringraziamenti Desidero ringraziare gli amici che hanno risposto all’invio del mio testo, in primo luogo quelli che hanno contribuito con osservazioni interessanti e commenti critici ad arricchire le mie considerazioni di nuovi spunti. Alcune delle osservazioni, particolarmente quelle di Luigi Miraglia, Olga Pombo, Giuseppe O. Longo, Mauro Carfora, Luca Vargiu, Enrico Castelli Gattinara e Fabio Bentivoglio, mi sono state utili per precisare e migliorare alcuni passaggi del manoscritto finale. Desidero inoltre ringraziare, per la vicinanza (da lontano) e il sostegno durante i momenti piÚ difficili dell’isolamento, gli amici Sergio Albeverio, Nicolas Janny, Thierry Lehner, Silvia Romeo e Pierluigi Rocca. Sono particolarmente grato a Luigi Zuccaro per le conversazioni stimolanti su alcuni temi del testo, le riletture che ha voluto farne, e la preziosa collaborazione che ne ha permesso la pubblicazione. Un caloroso e speciale ringraziamento va a Vincenzo per la sua gioiosa presenza e il dono che abbellisce la copertina del libro, ad Aliocha per la generosa concessione a utilizzare le foto della sua collezione privata riportate nel libro, a mia madre per il continuo incoraggiamento.

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Crediti (per le foto e immagini) 1. La nave fantastica, pagina copertina (bozzetto/disegno di Vincenzo, maggio 2020) 2. Teseo liberatore, da Pompei (L’opera è si trova al Museo archeologico nazionale di Napoli). 3. Allegoria del Buon Governo. (Affresco realizzato da Antonio Lorenzetti nel 1338-1339). 4. La Scuola di Atene, di Raffaelle Sanzio. (L’affresco è databile al 1509-1511). 5. Erit recontatio/Ci sarà una memoria per l’avvenire. (L’affresco, realizzato nel 1452 circa, si trova nella Chapelle Notre-Dame des Fontaines, a La Brigue). 6. Campo di grano con cipressi, di Vincent van Gogh, 1889. (Il dipinto è conservato alla National Gallery di Londra). 7. Seminatore al tramonto, di Vincent van Gogh, 1888. (Il dipinto è conservato al Museo Kröller-Müller di Otterlo) 8. Notte stellata, di Vincent van Gogh, 1889. (Il dipinto è conservato al Museum of Modern Art di New York). 9. Momento di vita reale, I. (Foto, per gentile concessione dell’autore, Aliocha) 10. Momento di vita reale, II. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 11. Momento di vita reale, III. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 12. Momento di vita reale, IV. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 13. Momento di vita reale, V. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 14. Momento di vita reale, VI. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 15. Momento di vita reale, VII. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 16. Momento di vita reale, VIII. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 17. Momento di vita reale, IX. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 18. Momento di vita reale, X. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 19. Momento di vita reale, XI. (Foto, per gentile concessione dell’autore.) 20. Il viaggio immaginario. (Disegno/bozzetto di Vincenzo) 21. Il gioco delle stelle vagabonde. (Disegno/bozzetto di Vincenzo) 22. Creatività del gesto e apprendimento. (Foto) 23. Si impara giocando insieme. Vicinanza, attenzione e apprendimento. (Foto) 24. La scuola è un momento di socialità. (Foto) 25. La scala magica. Si socializza giocando insieme. (Foto) 26. Il gioco e gli esseri immaginari. (Foto) 27. Dal gioco e dall’esperienza nasce l’amicizia. (Foto). 28. Si impara dalla tradizione e toccando la materia. (Foto) 29. L’incantesimo del pane. La sapienza vissuta e trasmessa. (Foto) 30. La luce in un sorriso. (Foto) 31. Come è bello sognare. (Foto) 32. Scoprire il mondo della musica. (Foto)

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33. Il lavoro creativo è un’energia vitale. (Foto di Pierino Vargiu) 34. Ritratto della dignità e vitalità di una persona anziana. (Foto di Pierino Vargiu) 35. La vita come narrazione. Il valore dello stare assieme e il senso della comunità. (Foto di Pierino Vargiu) 36. Il camino si fa camminando. 37. L’amore e la dolcezza non hanno età. (Foto di Monica Selenu) 38. La saggezza antica e la bontà dello sguardo. (Foto di Pierino Vargiu) 39. La parola e il gesto non hanno schermo. (Foto di Pierino Vargiu) 40. Vivere è appartenere a un mondo, a una storia. (Foto di Daniela Zedda) 41. Mens sana in corpore sano. (Foto di Pierino Vargiu)

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Quarta di copertina e breve bio-bibliografia. I drammatici eventi degli ultimi mesi mostrano che il nostro modo di vivere e agire ha stravolto alcuni equilibri essenziali della natura. Altri eventi, altrettanto se non più drammatici, potranno seguirne se si continua a perseverare in un modello sociale che risulta per molti aspetti incompatibile con la vita e la condizione umana. Quegli eventi vanno letti e capiti alla luce di un contesto più generale. Si ha sempre più nettamente l’impressione che le nostre società abbiano perso quei punti di riferimento essenziali che davano senso all’esistenza dei singoli e mantenevano vivi i contatti umani e i legami sociali. È come se il pensiero razionale o il pensiero tout court avesse smarrito il suo cammino e abiurato i suoi scopi. Insieme a mondi antropologici fondamentali (culture, lingue, tradizioni, luoghi, mestieri) e naturali vitali (biodiversità, paesaggio, boschi, mari, fiumi), stanno scomparendo l’immaginazione, il desiderio di comprendere, la capacità di ascoltare e il senso civile. In particolare, i valori della scuola e dello studio sembrano sempre più appannati e aver perso quel ruolo importante che hanno già avuto nella società. Urge ritrovare quel senso e quei legami. Ma affinché ciò possa avvenire, occorre innanzitutto avere piena consapevolezza dei limiti della modernità attuale e un’idea chiara di quali nuove possibilità imboccare. Bisogna ripensare i tempi e gli spazi del vivere sociale e dei rapporti umani arricchendone il senso e il valore invece di dissolverli. La drammatica esperienza della pandemia ci mostra ancora una volta non solo la necessità di non ritornare alla normalità di prima, perché essa è incompatibile con quegli equilibri vitali da cui dipende la sopravvivenza stessa del nostro pianeta e dell’umanità, ma anche l’urgenza di pensare oltre i paradigmi attuali, sempre più incentrati sul dominio economico di pochi e sulla massificazione digitale delle coscienze, per proporre altri modelli e pratiche diverse di conoscenza e di vita. Breve biografia. Luciano Boi è docente all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, presso il Centre de Mathématiques (Parigi). Le sue ricerche riguardano diversi temi della matematica, della biologia e della filosofia. Si occupa anche dei rapporti tra scienza, arte e letteratura. Ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui una fellowship della Fondazione Humboldt e un premio della Fondazione Guggenheim. Ha lavorato e insegnato in molte università e istituti di ricerca, in particolare nelle università di Berlino, Montreal, Lisbona e Roma La Sapienza, all’Institute for Advanced Study di Princeton, l’Institut des Hautes Etudes Scientifiques a Bures sur Yvette e alla SISSA di Trieste. Ha pubblicato numerosi articoli di ricerca e libri, tra cui Le problème mathématique de l’espace (con una prefazione di René Thom) Springer 1995, Geometries of Nature, Living Systems and Human Cognition (World Scientific 2005), e Pensare l’impossibile: dialogo infinito tra arte e scienza ( S p r i n g e r 2 0 1 2


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