editoriale |
di luca iaccarino
Rigore ed equità Riprendo in mano l’editoriale del Natale 2009 che concludeva “Buon 2010. Che sarà splendido. Perché dal fondo non si può che risalire (anche se, in effetti...)”. Che ingenuotto. Non farò nuovamente l’errore che feci allora, tentando di prevedere quel che ci riserverà l’anno venturo. Mai, come ora, “del doman non v’è certezza”. Piuttosto faccio mio uno dei motti di questi giorni: “rigore ed equità” (c’era anche la crescita, ma quella s’è un po’ persa per strada). Quest’ultimo numero del 2011 è un numero rigoroso. Rigorosissimo. Poche palle (se non quelle di Natale degli amici Elyron), zero fronzoli, tutta sostanza. Per dire: abbiamo rispolverato una rara ed esauriente intervista che facemmo al ministro del momento, Elsa Fornero; ci facciamo spiegare l’economia e l’informazione dalla direttrice di Sky TG 24, Sarah Varetto; tentiamo di capire qualcosa di questo Paese con Michele Serra, con Davide Mattiello, con Maddalena Rostagno. Roba tosta da mettere sotto l’albero.
Siamo convinti che sia giusto così: i ristoranti saran pure pieni e le riviste continuino pure a mettere in copertina le soubrette; noi preferiamo avere in prima pagina la torinese che deciderà le sorti di tutti noi e passare questa fine 2011 a capire qualcosa del futuro, per iniziare il 2012 al meglio. Per quel che riguarda l’ “equità” siamo imbattibili: questo numero ve lo regaliamo. Avete appena pagato l’IMU, per fare un pieno dovete svenarvi, avete appena saputo che dovrete lavorare un tot di anni in più prima della meritata pensione. Tra tutti questi esborsi e queste brutte notizie, noi proviamo a fare la nostra parte: vi facciamo risparmiare quattro euro e mezzo, che non saran tanti ma son due litri e mezzo di gasolio. Il tutto, senza lesinare sui contenuti. È il nostro modo di dirvi: Buon Natale. E buon 2012. Comunque vada.
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Cosa sarà
Il meglio dei due mesi che verranno
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extracover 18 Storie di un Ministro
Vi presentiamo Elsa prima di diventare il Ministro Fornero
24 Ministri sotto la Mole
Francesco Profumo, dal Politecnico al ministero dell’Istruzione e Renato Balduzzi alla Sanità
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extrastorie 30 La versione di Serra
Un re della satira e la sua ricetta per la serenità
38 Sophisticated Lady TG
Sarah Varetto, una torinese in vetta a Sky
44 Il coraggio dell’upupa
La battaglia di Maddalena Rostagno
54 Non è un paese per ricci
Davide Mattiello e la mossa del riccio
62 Conta le stelle, se puoi
Viaggio nel lusso di Dubai
66 Vacche di città
La cascina Fontanacervo
70 Uno, nessuno o tutti e cento?
Torna la guida gastronomica più amata dai torinesi
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extraglitter
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extraentrée “Torno a casa a piedi”. Cristina Donà di nuovo a Torino, sul palco dell’Hiroshima _p. 8
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20 gennaio 2012
Cristina Donà Hiroshima Mon Amour •
L’ultima volta che l’abbiamo vista in concerto a Torino è stato quest’estate, sul palco del Traffic Festival in Piazza San Carlo, in compagnia di Francesco De Gregori e Vasco Brondi. Cristina Donà ed il suo tour Torno a casa a piedi arrivano all’Hiroshima Mon Amour di via Bossoli 83 il 20 gennaio prossimo. Sarà l’occasione per sentirla eseguire dal vivo le canzoni del nuovo album “Torno a casa a piedi”, uscito all’inizio di quest’anno, sesto lavoro in studio di una carriera iniziata nel 1997 con l’album “Tregua”. Cristina Donà è fra gli esponenti più importanti della scena indie rock italiana degli ultimi anni: raffinata e poliedrica cantautrice, può vantare prestigiose ed interessanti collaborazioni con artisti italiani e stranieri (La Crus, Afterhours, PFM, E. Wood, R. Wyatt, Davey Ray Moor, Patti Smith, per citarne alcuni). Da non perdere. www.hma.org 31 gennaio 2012
Lou Reed & Velvet Underground Teatro Astra •
Martedì 31 gennaio 2012 il teatro Astra di Via Rosalino Pilo 6, ospita il secondo appuntamento di ICONE – Letterature e Rock, una rassegna che prevede tre serate di readingconcerto in cui la lettura di scritti da cui alcuni tra i massimi personaggi della storia della musica hanno tratto ispirazione, sarà accompagnata dalle canzoni che ne sono scaturite. In questa serata Massimo Giovara, padrino della rassegna, e Giorgio Li Calzi (nella foto a sinistra), uno degli artisti torinesi più inclini a esplorare il terreno delle contaminazioni, ci accompagneranno alla scoperta delle influenze letterarie di Lou Reed, una delle icone rock più affascinanti degli ultimi 40 anni: da Hubert Selby jr. a Edgar Allan Poe, passando da Delmore Schwantz, professore, poeta e scrittore, vera e propria musa ispiratrice del musicista newyorkese. www.fondazionetpe.it 26 gennaio 2012
The Vaselines Spazio 211 •
Era uno dei gruppi preferiti di Kurt Cobain, che si prodigò non poco per sostenerne la carriera musicale, arrivando a includere nell’album “Incesticide” due loro canzoni. Il successo però non arrivò ed i Vaselines, band scozzese nata nel 1986 da E. Kelly e F. McKee, si sciolse nel 1990. Nel 2006 McKee torna a suonare e produce un album solista. Durante il tour recluta il suo vecchio amico e compagno Kelly. I Vaselines sono tornati: nel 2009 la Sub Pop Records li mette sotto contratto e nel 2010 esce a distanza di 20 anni dal primo, il loro secondo album in studio Sex With An X. Il 26 gennaio, sul palco dello Spazio 211, in via Cigna 211, c’è la possibilità più unica che rara di vedere all’opera questa sfortunata quanto talentuosa band. www.vaselines.co.uk
fondi strutturali europei 2007-2013
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1 dicembre 2011 – 26 febbraio 2012
Tra dodo e dinosauri troneggia Steve Jobs
torino • museo di scienze naturali
La location non dà adito a dubbi: Steve Jobs va ammirato come un vero e proprio fenomeno naturale. È infatti al Museo di Scienze Naturali che si inaugurerà l’1 dicembre la mostra “Steve Jobs 1955 – 2011”. Un titolo semplice, essenziale, che trasmette più di quel che si vede, proprio come le linee di design della mitica Apple. La mostra sarà uno spaccato di vita di un uomo, da ciò che lo rendeva comune a tutti (come quel garage colmo di dischi e oggetti anni ‘70 da cui iniziò), a ciò che lo ha reso unico per sempre: le sue creazioni. Con il filo comune della vita di Steve Jobs, si potrà godere di uno spettacolo di oggetti tecnologici vecchi e nuovi che hanno fatto la recentissima storia dell’uomo. Illustre ospite d’onore l’Apple - 1 che, con le giuste proporzioni, è come la numero uno di Paperon De’ Paperoni. Non solo un oggetto raro e prezioso, ma testimone esclusivo che ha trascorso un intenso pezzo di vita con il creatore della Apple. www.basic.net
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2 1_Apple-1 completo di scatola, monitor e tastiera, 1976
2_Steve Jobs e Steve Wozniak con l’Apple-1, 1976
3_Pubblicità Apple II, anni Settanta 4_Garage dei genitori di Steve Jobs in cui
venne fondata la Apple nel 1976 5_Il Macintosh, la macchina perfetta. Particolari costruttivi interni, illustrazione del 1984.
6_Scatto fotografico che
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immortala un progettista del Lisa Apple mentre gioca con il figlio davanti alla sua macchina, 1986 7_La sede del Museo Regionale di Scienze Naturali a Torino (foto: Gabriele Mariotti) 8_Il presidente di BasicNet Marco Boglione con l’Apple-1 n.82, che si è aggiudicato nel novembre 2010 a un’asta di Christie’s (foto: Dario Dinocca)
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Dal 3 dicembre
Nel Paese di Natale Govone (CN) •
Govone è uno dei tanti bei borghi delle Langhe, raccolto attorno al Castello, residenza sabauda entrata a far parte del Patrimonio dell’Unesco (e location d’eccellenza per il ristorante stellato di Pier Bussetti). E per le feste, fino al 6 gennaio, si trasforma in un Magico Paese di Natale, con una serie di eventi in tema, dai più classici (la Casa di Babbo Natale animata al castello, la mostra dei presepi nella chiesa dello Spirito Santo, sbandieratori, cori e cantastorie) ai più curiosi, come i laboratori per i piccoli e soprattutto, novità di quest’anno, il Grande Mercatino del Biologico, che si declina per le strade del borgo, e offre incontri con i produttori e prodotti del territorio secondo il leit-motiv della sostenibilità, del chilometro zero e della certificazione biologica. È il primo mercatino di Natale bio d’Italia, oltre 40 chalet di legno che offrono prodotti tipici e della tradizione, rispettosi dell’ambiente, e certificati da Biolanga, e birra di alcuni birrifici emergenti da Beba a Clan!Destino? a Civale. E sono organizzate anche escursioni da Govone nel Monferrato e nel Roero. www.ilpaesedinatale.com extra_torino.pdf 29-11-2011 16:32:29
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di Rosalba Graglia
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cosa sarà
1 novembre 2011 – 15 gennaio 2012
Fino al 23 dicembre
Dicembre 2011
Torino •
Torino • Piazza Borgo Dora
Torino •
Luci d’Artista
Come una fiaba natalizia che si ripresenta ogni anno puntuale e immancabile, tornano le Luci d’Artista a ingioiellare il centro cittadino. Diaciannove in tutto, di cui sette ancora calde perchè spente poco più di cinque mesi fa per i festeggiamenti dei 150 anni, e due nuovi acquisti, vere e proprie guest di classe: direttamente dalla Fète des Lumières di Lione arriva Flamingo, partorita dalla brillante PITAYA Design, insieme all’opera di Maurizio Agostinetto dal nome dantesco più che evocativo “E adesso usciremo a rivedere le stelle”. Completano la squadra tutte vecchie conoscenze, dai consolidati “Spiriti Blu” sul loro Monte dei Cappuccini alle costellazioni del “Planetario” in via Pietro Micca. Dicembre 2011
Mercatini mon amour Insieme a tutte le ricorrenze e gli eventi natalizi annuali della nostra città, non poteva mancare il Mercatino di Natale in piazza Borgo Dora e dintorni allestito fino al 23 dicembre. Giunto alla nona edizione, il mercatino vede la partecipazione di 146 espositori provenienti da tutte le regioni italiane e da numerosi paesi tra cui Bulgaria, Russia, Spagna, Thailandia e Argentina, per elencarne alcuni. Oltre alla vasta scelta oggettistica proposta saranno disponibili degustazioni, prodotti e specialità tipiche dei diversi produttori enogastronomici presenti. Le camminate e le compere dei visitatori saranno accompagnate da concerti di musica classica, corale e jazz.
O albero bell’albero... anche in USB La serie di oggettistica completamente dedicata a Torino si veste in forma natalizia. Linea di merchandising ufficiale della città, ObjecTo offre prodotti di tutti i tipi, dalla pennetta USB a forma di torello alle borse da viaggio o da passeggio con design accattivanti e prezzi accessibili che rispecchiano perfettamente la cosiddetta art de vivre torinese. È possibile trovare tutti i prodotti della nuova linea natalizia sul sito www.objecto.it e nei punti vendita ufficiali del Punto Informativo in piazza Castello, in via Riberi angolo via Verdi e nella stazione di Porta Nuova, e se vi sentite fortunati anche nei bookshop della maggior parte dei musei cittadini.
Patinoire in Torino
27 novembre 2011 – 15 gennaio 2012
Quest’anno la pista di pattinaggio temporanea è allestita nella centralissima piazza San Carlo. Si chiama “Una pista per tutti” esattamente come la pista montata in piazza Vittorio lo scorso febbraio. Anche il concetto alla base del progetto è lo stesso: prezzi modici per coinvolgere tutte le fasce cittadine e sconti per giovani, studenti, famiglie e pensionati. Inoltre dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 14 l’accesso è completamente gratuito per il “Progetto Scuola” e per tutti i visitatori dotati di pattini propri. Oltre al pattinaggio libero, sono previste esibizioni e allenamenti aperti di atleti regionali e nazionali e spettacoli di intrattenimento e di animazione. Insieme alla nuova location di piazza San Carlo, ricoridamo poi le piste torinesi ormai veterane del Palavela in via Ventimiglia 145 e del Palaghiaccio Tazzoli in via San Remo 67, e segnaliamo ancora la pista allestita nel Parco Commerciale Dora al suo terzo anno di vita nei pressi di via Livorno e la neonata Ice Town al Gru Village.
Torino • Piazza castello
torino • piazza San Carlo
Il Presepe di Emanuele Luzzati Ideato e allestito la prima volta nel 1997 in piazza San Carlo, e dopo aver avuto diverse collocazioni in territorio nazionale, il presepe di Emanuele Luzzati giunge in piazza Castello in concomitanza con le feste natalizie e vi resterà fino al 15 gennaio 2012. La scenografia dell’eclettico artista genovese è costituita da più di 80 sagome di legno tra personaggi tipici della tradizione popolare, religiosa e fiabesca, tutte mescolate insieme a raccontare una storia spirituale e allo stesso tempo laica, carica di suggestione, attraverso lo stile unico e semplice di un grande maestro come Lele Luzzati che Torino ha amato e continua ad amare.
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courmayeur luglio 2008
Alcuni mesi fa avevamo incontrato Elsa Fornero nella sua casa di montagna. Ci aveva parlato di Università, di politica, di donne, di lavoro, del potere, del sessantotto… ecco un ritratto di Elsa, prima che diventasse Ministro del welfare
roma novembre 2011
CosĂŹ rideva
di
vera schiavazzi foto di
massimo pinca
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Getta nel cestino qualsiasi invito che preveda soltanto oratori maschi: «Non si tratta di femminismo, ma di risorse: questo paese non può più permettersi di sprecare le idee delle donne»
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a quando ha giurato come Ministro del Welfare del governo Monti, il sorriso non è più la sua arma vincente. Ma la personalità resta la stessa. Ancor prima di sedersi a Palazzo Madama, ha intimidito generazioni di allievi che non avevano studiato abbastanza, fulminato compagni di partito e avversari che menavano il can per l’aia nella (breve) stagione del suo primo impegno politico (durante la giunta Castellani, negli anni ’90 a Torino, ndr) e fatto arrossire un giovane e rampante esponente della finanza che si era permesso di non rispondere a una sua domanda diretta durante un cda: «Se le chiedo una cosa, me la dica. Non mi parli di altro». Anche sotto il peso emotivo dei recenti impegni pubblici Elsa Fornero ha conservato lo sguardo vivace della ragazzina di San Carlo Canavese che svegliandosi alle 5.30 del mattino e collezionando una borsa di studio dopo l’altra faceva la pendolare con Torino per studiare da ragioniera prima e da economista poi: la mamma Emma era casalinga, papà Donato operaio in un deposito dell’Esercito. E anche adesso che può essere definita come una delle donne più potenti d’Italia, la sua filosofia di vita è rimasta la stessa: alzarsi di buon’ora, per prendere in mano la giornata. Studiare, camminare per pensare meglio, staccare la spina durante le lezioni per essere chiara, fare buona figura quando la invitano a un convegno. E gettare nel cestino qualsiasi invito che preveda soltanto oratori maschi: «Non si tratta di femminismo, ma di risorse: questo Paese non può più
permettersi di sprecare le idee delle donne». Cominciamo dall’inizio, da San Carlo Canavese… Papà ci caricava sulla Vespa tutte e tre, allora si poteva fare, e ci portava nella Vauda, nella brughiera. Ho passato ore meravigliose a leggere aspettando che tornasse a prendermi. Poi ha fatto molta strada, quasi una parabola sulle opportunità di una ragazza dotata… Se lo Stato ti aiuta, è giusto cogliere l’occasione. Se fossi nata negli Stati Uniti, non avrei mai potuto permettermi gli studi che ho fatto. Invece, sapendo che avrei dovuto lavorare il prima possibile, ho scelto ragioneria, ed è stata la mia fortuna. Fossi stata ricca, sarei andata al liceo classico e poi a Lettere, e ora sarei un’insegnante di scuola media, magari arrabbiata per come vanno le cose. Da ragioniera, potevo iscrivermi solo a Economia, e intanto fare qualche lavoretto: supplenze, traduzioni… Ho imparato l’inglese sui romanzi di Agatha Christie ed è stata una grande passione. Nel ’67 ho dato la maturità. Ma a Economia la contestazione non è mai arrivata, solo la sua eco. Allora era una studentessa modello? Solo libri ed esami? Non esageriamo. L’eco c’era, con gli amici di allora, tra i quali Cesare Damiano, passavamo serate a discutere dei massimi sistemi, di come rendere il mondo più giusto. Del ’68 ho odiato il falso egualitarismo, il 30 “politico” per tutti. Ma ho conservato l’idea che essere liberali non significa considerare solo l’individuo: al centro ci sono la libertà e la responsabilità di ciascuno, intorno i problemi sociali… Sulla mia giovinezza però temo di
«Se fossi nata negli Stati Uniti, non avrei mai potuto permettermi gli studi che ho fatto. Invece, sapendo che avrei dovuto lavorare il prima possibile, ho scelto ragioneria, ed è stata la mia fortuna»
Con il marito, l’economista Mario Deaglio
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non avere rivelazioni da fare: mai messo piede in un locale per “giovani”, mai provato una droga… In compenso, ho fatto gli incontri fondamentali della mia vita. Li racconti… Onorato Castellino, il mio maestro, quello che poi mi ha indirizzata verso gli studi sulle pensioni, che a quell’epoca sembravano ben poco di moda. E Mario, naturalmente. Mario, cioè Mario Deaglio, diventato suo marito sei mesi dopo la laurea, a sua volta economista famoso ed editorialista della “Stampa”. Per tenere distinta la sua storia professionale, Elsa Fornero si tiene alla larga dal cognome del consorte: «Quando qualcuno inizia a parlarmene male, mi tocca fermarlo: “Prima che insisti, è mio marito…” Credo che all’inizio la mia franchezza da ragazza canavesana lo turbasse un po’, lui ha origini borghesi e
non si capacitava che potessi invitare Mario Monti a cena in cucina o parlargli mentre giravo il risotto. Ma per tornare al nostro incontro, lui, che era già assistente, mi tese un tranello: “Vuoi migliorare l’inglese? Ho degli amici a Londra che possono ospitarti”. Accettai e me lo ritrovai lì. Furono mesi bellissimi, prendevamo il treno poi camminavamo nella campagna inglese fino alla stazione successiva. Sfinito, mi proponeva di fermarci per l’high tea, ma io accettavo solo ogni tanto. Non ho mai amato mangiare, è un mio grande limite…» Sveglia all’alba, lavoro e studio, rigore… Ma che cos’è per lei il piacere? Aiuto, questa è una domanda difficilissima… Mi faccia pensare. Ecco: sapere che ho un bel libro che mi aspetta a casa e che, dopo una giornata di lavoro, mi sono “meritata” di leggerlo… E il potere? Qualcosa che non mi interessa granché. All’Uni-
«Credo che all’inizio la mia franchezza da ragazza canavesana abbia turbato un po’ Mario (Deaglio, suo marito): lui ha origini borghesi e non si capacitava che potessi invitare Mario Monti a cena in cucina o parlargli mentre giravo il risotto»
versità preferivo essere “autorevole” che potente. La politica è un luogo di rotondità, di sfumature, e io sono troppo lineare per restarci a lungo. Che cosa rimpiange, invece? Di non aver fatto un master negli Stati Uniti, di non aver potuto o saputo portare la mia preparazione scientifica, che ritengo buona, a un livello di eccellenza, di straordinarietà. Ma è andata così, giovanissima ero già sposata, ora ho due figli grandi e tre nipotini. Sono stata molto fortunata nella vita privata. E anche in quella professionale: sento di appartenere all’Università, che nonostante tutti i suoi limiti è il luogo delle idee, del pensiero, del confronto. Il sistema italiano non ti chiede di impegnarti a fondo, si può fare il docente universitario puntando solo sulle baronie. Ma il bello è il contrario, dare tutto anche se non è richiesto… Con queste premesse, quali sono i politici che ha ammirato in questi anni?
Mi piace Enrico Letta, è chiaro e lineare. Ho difeso tante volte Walter Veltroni, ma mi rendo conto di non averlo mai apprezzato fino in fondo. Ho apprezzato Chiamparino come sindaco, perché non è stato ideologico, non mi dispiaceva Brunetta ministro… Ma ormai mi sono rassegnata all’idea che la politica italiana potrà tornare a discutere sui fatti e sui risultati soltanto dopo, quando si sarà compiuto un ricambio generazionale completo. Economista, vicepresidente, docente, madre, moglie… Concludiamo con una frivolezza. È vanitosa? Mi piacciono gli abiti eleganti, adoro quando nei convegni internazionali mi dicono «come sei chic, che look italiano!» Vorrei invecchiare come mia madre, che diventò sempre più tollerante e capace di ascoltare i giovani. Nel frattempo, investo in creme e cosmetici. Mario mi provoca, «non ti sembra immorale?» E io gli rispondo «neanche un pochino». dicembre 2011 / gennaio 2012
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con elsa fornero, anche la poltrona di Ministro dell’Università e della Ricerca sono state assegnate a due personalità piemontesi: l’ex rettore Profumo e il prof. Balduzzi
Ministri sotto la Mole
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rancesco Profumo è nato a Savona il 3 maggio 1953. Ha studiato al Politecnico di Torino, dal 1978 al 1984 ha lavorato come ingegnere progettista presso l’Ansaldo di Genova, quindi, nel 1984, è entrato nel dipartimento di Ingegneria Elettrica Industriale del Politecnico torinese. Professore ordinario di Macchine ed Azionamenti elettrici al Politecnico di Torino e professore incaricato all’Università di Bologna, è stato visiting professor all’Università del Wisconsin-Madison (Usa) nel periodo 1986-88, alla Nagasaki University nel periodo 1996-97 e alla Czech Technical University di Praga nel 1999. Insignito di numerosi premi per la sua attività scientifica, fa parte di diversi comitati scientifici internazionali. Nel 2003 è divenuto preside della 1° Facoltà d’Ingegneria e nel 2005 ha preso le redini del Politecnico di Torino fino all’autunno 2011, quando ha lasciato il suo posto per la carica di Ministro dell’Università e della Ricerca.
Momenti di vita universitaria Dall’alto in basso: Il Poli, vivaio torinese di architetti e ingegneri Francesco Profumo tra Urbano Cairo (a sinistra) e Giovanni Cobolli Gigli (a destra) Con l’ex Ministro dell’Università Mussi e l’ex sindaco Chiamparino
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Last but not least, Balduzzi alla Sanità
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Nella squadra del nuovo governo, Torino può vantare un terzo ministro: Renato Balduzzi , che sostituisce Ferruccio Fazio alla Salute.
ato a Voghera ma alessandrino d’adozione – alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del piemonte Orientale di Alessandria è stato professore di diritto costituzionale e di diritto costituzionale della salute e organizzazione sanitaria oltre che, dal 2007, direttore del centro di eccellenza interfacoltà di servizi per il Management Sanitario – il neo ministro Balduzzi non è del tutto nuovo alle esperienze di governo. Tra i più autorevoli esperti italiani di diritto costituzionale della salute e di diritto sanitario, è stato infatti consigliere giuridico dei ministri della Difesa dal 1989 al 1992, della Salute dal 1996 al 2000 e delle Politiche per la famiglia dal 2006 al 2008. Durante il ministero della Salute Bindi, poi, ha ricoperto anche l’incarico di capo ufficio legislativo, presiendendo anche la Commissione ministeriale per la riforma sanitaria. Sempre nell’ambito sanitario, è presidente dal 2007 dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), dal 2009 del Nucleo di valutazione dell’Azienda ospedaliero-universitaria Maggiore della Carità di Novara e, dal 2006, del comitato di indirizzo dell’Azienda ospedalierouniversitaria Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Di estrazione cattolica, da sempre impegnato nell’associazionismo – fino al 2008 è stato presidente del Movimento ecclesiale di impegno culturale e direttore della rivista bimestrale del movimento, “Coscienza” – il ministro Balduzzi è sicuramente un uomo di grande cultura. È autore di oltre centodieci pubblicazioni tra monografie, saggi e trattati di diritto e, oltre a essere componente del Comitato scientifico delle riviste “Quaderni regionali”, “Amministrazione in cammino”, Politiche sanitarie”, “Dialoghi” e “Studium”; ha anche fondato e diretto, dal 1989 al 1992, la rivista culturale “Nuova politeia”. V.D. dicembre 2011 / gennaio 2012
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Non dobbiamo dimostrare quale spinta etica ci ha portato alla politica. Piuttosto, vogliamo invece essere trasparenti su chi paga, e perchĂŠ
extrastorie Davide Mattiello _p.54
foto di Massimo Pinca dicembre 2011 / gennaio 2012
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La versione di Serra Ai tempi del popolo di “Cuore” preferisce la piazza Italia di “Vieni via con me”, ai populisti la borghesia, ai venditori gli artigiani, a Grillo, Renzi («ma non lo capisco bene»): ritratto di un punto fermo della satira italiana diventato “posato commentatore” che intravede il futuro in un sarto rumeno
di luca iaccarino
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ilano. Autunno. Mattina. Inizierà una bella giornata di sole, da quel che si può intravedere dietro la garza della nebbia. Duomo. Traffico. Tabelloni pubblicitari. Le vetrine scintillanti di Peck. Lì dietro, la città si fa più confidenziale: case basse, vie strette, poche auto, qualche bar. Architettura dolce da borgo, redditi solidi da metropoli. Il posto giusto per Michele Serra, borghese popolare, giornalista slow col passo veloce d’una rubrica quotidiana (“L’amaca” su “La Repubblica”), intellettuale che fa la televisione generalista (“Che tempo che fa”, “Vieni via con me”...), amante delle piccole cose e dei grandi numeri. La prima cosa che viene in mente arrivando nel bell’appartamento che abita con la moglie, la giornalista Giovanna Zucconi, è quella vecchia frase di “Caro Diario”: «voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti, io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne». Gli anni di Serra sono 56, ma a parte questo la citazione è azzeccata. In gioventù, come direttore del settimanale satirico “Cuore”, di sfizi se n’è tolti. Giusto per citare alcuni tra i titoli più famosi: “Hanno la faccia come il culo”, “Scatta l’ora legale. Panico tra i socialisti”, “Limiti della democrazia: votano anche gli stronzi”, “Arriva la nuova
Fiat 500. Festa grande alla Renault”, “E se Andreotti fosse scemo?”. Non esattamente roba in punta di penna – è la satira, bellezza – ma sempre con un piglio allegro, divertito, mai cinico. Oggi, a vent’anni di distanza, Serra ha ritratto gli artigli (tranne che nella “Satira preventiva” sull’ “Espresso”) e ha le unghie curate di un milanese upper-class, ma è uno splendido cinquantaseienne (occhiaie a parte). E dà l’idea d’esser riuscito nell’impresa impossibile di conciliare velocità e lentezza, successo e tranquillità, share e scialo: arriva a casa dopo aver portato l’orologio a riparare (quasi una metafora) e la nostra conversazione d’un paio d’ore non verrà interrotta che da una telefonata di Antonio Albanese, cortesemente liquidato. Ha tempo. Non ha fretta. Scherza. Mentre la signora passa l’aspirapolvere, il ragazzo consegna l’acqua, la lavatrice va e la moglie, di là, si prende uno Zerinol guardando la posta elettronica. Serra, è inutile girarci attorno: da Berlusconi a Monti. Come dire da Sordi a Bergman. Monti-Berlusconi è una rappresentazione perfetta, quasi da teatrino dei pupi: populismo contro grande borghesia. Monti sono le élite che provano a dire – prima di tutto a se stesse – “esistiamo ancora”. Il berlusconismo, come il populismo in generale, nega le élite, si risolve nel rapporto diretto tra capo e popolo. La democrazia – come diceva
Torino è un baluardo, sono felice che ci sia, che ci siano stati Bobbio e Galante Garrone
Pericle – prevede invece la selezione dei migliori. Io non voglio votare per uno come me, voglio votare per uno migliore di me. Magari altri vogliono votare chi gli somigli. Guardi, una delle frasi più rivelatrici di questi anni me la disse Francesco Speroni della Lega, anni fa, durante una pausa pubblicitaria dell’ “Infedele” a seguito di una discussione piuttosto accesa. Mi mise una mano sulla spalla e fece: “si ricordi, Serra, io sono maleducato perché rappresento elettori maleducati. E questa è la democrazia”. Capito? Parliamo di democrazia e dei suoi limiti (mi riferisco all’antico titolo di “Cuore”). Per noi cresciuti nella sinistra italiana l’idea era chiara: la democrazia non è uno stato di fatto, è un processo, una conquista, un movimento, un bene sempre in pericolo. Credevamo nella crescita culturale, nell’aumento di consapevolezza, nel fatto che i padri volessero i figli più istruiti, che “anche l’operaio vuole il figlio dottore” (come fa dire Paolo Pietrangeli al borghese scandalizzato nella canzone “Contessa”). Eravamo ottimisti. Già Pasolini – più che profetico – ci metteva in crisi quando avvertiva: attenti, guardate che c’è lo sviluppo ma non il progresso. Beh, questo processo s’è interrotto. A un certo punto è iniziata una degenerazione: la cultura non serve a niente, servono i soldi, serve consumare.
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Immagino faccia coincidere questo periodo con l’era Berlusconi. Per me l’altra frase clou di questi anni è quella che Berlusconi disse a una convention: «ricordatevi che il pubblico ragiona come un bambino di otto anni». Ecco, è una sorta di puerilità, di paese dei balocchi. E il paese dei balocchi è bello, incanta. Berlusconi ha fatto degli italiani un pubblico di bambini di otto anni perché lui stesso è un bambino, solo un bambino può dire “sono il più bravo degli ultimi centocinquant’anni”. Il mio vero rammarico è stato non riuscire a far capire che Berlusconi non è, non è stato un problema politico, ma più profondo. Parla del paese dei balocchi, mi viene in mente Grillo. Che pensa del suo percorso? Non bene. Prima di tutto, però, voglio eliminare l’equivoco: Grillo non è antipolitica, è politica, anche se radicale. Mette insieme le persone, si presenta alle elezioni: più di così. Ma ciò che non sopporto è la sua visione del mondo, il pensare che tutti vogliano fregarti, il vedere nelle persone solo e soltanto il lato meschino, interessato, negativo. Questa raffigurazione della realtà, innanzitutto, è sbagliata. E poi io preferisco piuttosto l’ingenuità che questa diffidenza esistenziale. Basta passato, guardiamo al futuro. Da cosa può ripartire questo Paese?
Al primo posto metto una questione di stile che è sostanza: recuperare sobrietà e rigore. Mi ricordo mio padre che mi diceva “non vantarti, solo gli sciocchi si vantano”. Ecco, vale più questo che l’intero Capitale di Marx. Da questo punto di vista le élite sono meglio: certo, sono anziane e non hanno niente particolare di nuovo da dire, ma rispetto agli ultimi trent’anni è come se arrivasse il Settimo Cavalleggeri. Modi a parte? I talenti. La valorizzazione dei migliori. La costruzione di una classe dirigente. Io credo che questo Paese debba ripartire da quello che ha, dai propri saperi: è incredibile le cose che l’Italia ha ordinato, codificato, riordinato, inventato. Quella è la nostra capacità. Ma sta andando completamente perduta: i ragazzi italiani piuttosto che fare i falegnami vanno a vendere polizze e guadagnano un terzo. Eppure gli incontri più interessanti degli ultimi tempi sono stati con artigiani: l’accordatore che è venuto a mettermi a posto il piano, un corniciaio trentenne fantastico, che gira il mondo, fa un lavoro bellissimo, guadagna un sacco di soldi, si può persino permettere di far fattura... Sono cose mi danno il senso del futuro, come un albero che cresce. Questo Paese dovrebbe pullulare di queste immagini, di queste scintille. Insomma, gli artigiani.
Io li odio, i dialetti, li abbatterei col carrarmato. Sono il sintomo di un paese immobile, vecchio, che ha paura, che si difende, che si consegna a gente come Bossi, imbroglioni di paese, falsi medici, cantanti falliti
Anche Michelangelo era un artigiano, contemporaneamente un genio e un operaio. Per un libro sui ragazzi, e sull’inadeguatezza dei padri che sto scrivendo – una cosa dura, libera, crudele e molto divertente, spero – sto incontrando delle persone. Ed è splendido e devastante. Un incontro: un maestro vetraio di Murano, un omone enorme con un nome emblematico, tipo Spaccapietre. Vetraio a Murano: un’eccellenza assoluta. Beh, chiede ai ragazzi del paese di andare a bottega e quelli rispondono: e quanto si guadagna? Ottusi loro, ottusi i genitori. Ora ha tutti apprendisti stranieri. Oppure: anziano sarto di Castagneto Carducci famoso in Europa per i suoi vestiti da caccia. In paese non trova nessuno a raccogliere l’eredità. Quindi arriva un lavorante rumeno, si trovano bene, quello fa venire dalla Romania tutta la famiglia, il sarto li adotta in blocco e ora se ne sta seduto in fronte alla bottega, felice, fa il nonno e vede la sartoria andare avanti verso il futuro. Mi chiedo: ma gli abitanti di Castagneto Carducci sono tutti scemi? Ci vuole generosità, ci vuole ingenuità! Dobbiamo riappaesarci, recuperare quello che abbiamo, riscoprire il talento, il lavoro, la fatica. Una strategia alla Carlin Petrini. Carlo è un grandissimo amico, ha addirittura celebrato il mio matrimonio; una volta che è venuto a trovarmi gli ho fatto un ragù a chilometri zerisUn momento di “Che tempo che fa”, di cui Serra è autore
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simo, con mucca, verdure e pomodoro dell’orto e del contadino vicino di casa. È bravissimo a non prestare il fianco all’accusa d’essere un reazionario, come Bové, ma cammina su un confine delicato, le radici devono convivere – come a Terra Madre – con il computer, con l’inglese. L’identità non deve diventare una zavorra, come accade nei dialetti. Io li odio, i dialetti, li abbatterei col carrarmato. Sono il sintomo di un Paese immobile, vecchio, che ha paura, che si difende, che si consegna a gente come Bossi, imbroglioni di paese, falsi medici, cantanti falliti. Parla di meritocrazia e di sinistra e viene in mente Renzi. Che ne pensa? Non l’ho capito bene, anche se sospetto che abbia ragione su alcune cose: che c’è una pigrizia dei garantiti, che la sinistra si sia seduta su alcune conquiste di trenta, quarant’anni fa e vi sia rimasta ingabbiata. Ma non capisco la società che ha in mente, che valore dà al lavoro, che rapporto stabilisce tra i vincenti e i perdenti. È vero che la sinistra non deve mortificare i più bravi, ma deve occuparsi anche dei meno bravi. Pur arrivando dalla straordinaria esperienza del cattolicesimo liberale fiorentino di Ernesto Balducci, Renzi parla un po’ troppo dei primi per i miei gusti. Lavoro, sinistra, cattolicesimo, rapporto tra bravi e meno bravi: non si può che invocare il sindacato.
Il sindacato è in difficoltà e in ritardo: quant’è che diciamo che deve occuparsi dei precari? Quindici anni? Il fatto è che è finita la centralità della fabbrica – lo diceva già Lerner in “Operai” dell’87 – e il sindacato è spiazzato: gli operai sapevi dove trovarli, i precari valli a prendere... Chi dice fabbrica, dice Fiat. Due cose su Marchionne... All’inizio era una bella novità in un Paese paludato come il nostro. Poi non ho ben capito. Ma per me il mistero restano gli Agnelli: al di là di Lapo – che per chi fa satira è un personaggio strepitoso – gli altri cosa sono? Sono ancora una famiglia italiana? Da come parlano, non si direbbe: è ovvio, sono due giorni in Svizzera, tre in America, sono globalizzati. Ho il sospetto che questa generazione della famiglia non sappia cosa vuol dire “fabbrica italiana”. Per fortuna Torino si è mossa in tempo e ha trovato altri contenuti che le permettessero di non finire come Detroit. Parliamo di Torino. Torino è un baluardo, e lo ha dimostrato in questo centocinquantenario. La capitale dello spirito democratico, azionista e unitario del Paese. Sono felice che ci sia, che ci siano stati Bobbio e Galante Garrone. Non ho mai visto tanti tricolori come a Torino e nessuno ha mai colto ogni singola sfumatura dell’ésprit de geometrie della satira come il
Abbiamo un talento incredibile per l’artigianato, ma i nostri ragazzi preferiscono vendere polizze e guadagnare un terzo. Dobbiamo riappaesarci, recuperare quello che abbiamo, riscoprire il talento, il lavoro, la fatica
pubblico del Regio durante Biennale Democrazia. È una città rigorosa, gentile e pure falsa ma nel senso positivo di educata; ed esprime gente solida, priva di retorica come Chiamparino. Persino Cota, rispetto al resto dei leghisti, sembra quasi una persona normale. Chiudiamo un cerchio: negli anni abbiamo intervistato Littizzetto, Fazio, Gramellini, Mercalli. Lei è praticamente l’ultimo che ci mancava di “Che tempo che fa”. Fare una trasmissione da grandi ascolti è una buona risposta a chi le dà dello snob... È una critica che non capisco, anche perché magari arriva da chi scrive sul “Foglio” che vende un centesimo delle copie di “Repubblica”. Parlare a tanti mi piace, è la sfida. Con gli ascolti di “Vieni via con me” ho vibrato d’adrenalina: ma non per orgoglio, per il risultato ottenuto. Oggi come oggi preferisco buttarmi nella piazza della tv ai tempi di “Cuore”, che era sì un bel popolo ma era molto autoriferito. La mia idea di televisione è semplice e spesso vituperata, di questi tempi: deve essere pedagogica. Oggi “pedagogico” pare un insulto, un’accusa d’esser tromboni. Invece i momenti più fondamentali della mia vita sono stati quelli pedagogici, in cui mi è stato insegnato qualcosa. Io guardo solo cose che mi insegnino qualcosa, se no che mi frega? Altrimenti la televisione è solo vaselina in cui mettere i messaggi pubblicitari.
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È il satellite, bellezza! 24 ore su 24 a dirigere la testata all news di Sky: è la nuova vita della torinese Sarah Varetto , cresciuta a GRP e guardando “Mixer” di Minoli. Ritratto di una direttrice in prima linea
Di
Marco Bobbio foto courtesy
Sky Italia
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are tutte le notizie, e darle per primi. Non male come impegno. E pure Sarah Varetto, torinese, 39 anni, lo ha scelto come obiettivo di lavoro quotidiano nel momento in cui ha accettato l’incarico di direttore della testata Sky Tg 24. Già, perchè i ritmi di un canale all news in onda ventiquattro ore su ventiquattro non consentono sconti e la concorrenza, in un’epoca dominata da internet e dalla comunicazione globale, è più che mai fitta. Sarah Varetto però non è certo spaventata, anzi. Dopo aver iniziato nel 1992 come redattrice e conduttrice all’emittente regionale Grp, Sarah ha spiccato nel 1998 il salto verso il grande pubblico, con il programma “Italia Maastricht” in onda su RaiTre. Dopodichè nel 2000 ha fondato e diretto il portale miaeconomia.com, che comprendeva un sito internet, un programma televisivo e progetti di comunicazione in campo economico finanziario per aziende e istituzioni. Nel 2003, dopo altre esperienze alla Rai e su La7, si è imbarcata nell’avventura di Sky, diventando responsabile della redazione economica e poi, da giugno di quest’anno, subentrando a Emilio Carelli alla guida del canale. Una gavetta abbastanza lunga e articolata da renderla consapevole della difficoltà e delle opportunità del suo nuovo ruolo. «Ho cominciato a lavorare nelle tv locali che non avevo ancora vent’anni e quell’esperienza è stata fondamentale: ho imparato tantissimo, non solo perché mi occupavo di diversi settori e argomenti, ma anche perché ho dovuto capire come funzionano diversi ambiti della professione, dalla tecnica al linguaggio, dall’utilizzo delle grafiche ai tempi della messa in onda». Che novità ha rappresentato, nel panorama dell’informazione italiana, la nascita di SkyTg24? «Quando abbiamo debutto nel 2003, siamo stati i primi in Italia a importare la logica dei canali all news, che all’estero esistevano già da anni. Siamo nati con l’ambizione, e l’abbiamo ancora, di dare tutte le notizie e di darle per primi, di essere sempre in diretta e presenti nei luoghi caldi, al centro degli avvenimenti». Quali sono i vostri modelli di riferimento? «Quando si tratta di esteri siamo molto attenti alle emittenti che esistono nel resto del mondo. Ad esempio, per raccontare le rivoluzioni in Egitto,
Tunisia, Libia abbiamo seguito Al Jazeera e Al Arabiya, non solo nella versione in inglese ma anche in lingua araba: quei canali sono stati strumenti formidabili per veicolare e diffondere quegli avvenimenti, hanno parlato e hanno fornito informazioni fondamentali alle stesse popolazioni coinvolte. Erano, oltre che mass media, anche attori del cambiamento. E per chi come noi voleva raccontare quegli eventi minuto per minuto sono state ottime fonti. Un altro riferimento è SkyNews, del nostro gruppo, che svolge un eccellente lavoro anche sotto il profilo tecnologico. Oggi, per catturare nuove fasce di pubblico, è necessario essere presenti su diverse piattaforme, da internet a twitter a facebook, bisogna stare al passo con l’evoluzione dei supporti e dei sistemi di distribuzione: per questo abbiamo un canale su iPad e smartphone. La gente non aspetta che le notizie arrivino dalla televisione, se le va a cercare». Intanto però internet sta diffondendo l’abitudine a considerare l’informazione un bene disponibile gratuitamente, e questo può essere un problema per chi il giornalista lo fa di mestiere... «Certo, sul web gran parte dei contenuti sono accessibili gratuitamente ma si stanno imponendo dei modelli che prevedono forme di pagamento. Ad esempio, per ricevere le notizie su smartphone e tablet spesso servono abbonamenti e sottoscrizioni. L’importante è essere presenti e giocare un ruolo da protagonista su queste nuove piattaforme; poi bisogna trovare modelli di business che siano appropriati alle nuove abitudini di fruizione e di richiesta di informazione. Per quanto riguarda la professione, sono convinta che la sfida sia la multimedialità, cioè riuscire a costruire, a partire da uno stesso avvenimento, contenuti adatti ai differenti media, dalla televisione a twitter, dai giornali ai telefonini». Che impronta intende dare al suo canale? «Per ora abbiamo lavorato per rispettare la nostra vocazione principale, che è quella di essere imparziali, di non nascondere nulla. Ora vorrei andare oltre per cercare di offrire più approfondimento e più opinioni». Che ruolo ha giocato l’informazione nel successo di Sky? «Le ragioni per cui ci si abbona sono in primo luogo lo sport, il cinema, l’intrattenimento. I canali
Oggi per catturare nuove fasce di pubblico è necessario essere presenti su diverse piattaforme, da internet a twitter a facebook: per questo abbiamo un canale su iPad e smartphone. La gente non aspetta che le notizie arrivino dalla televisione, se le va a cercare
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Sky ha portato in Italia il primo canale “all news” nel 2003, e abbiamo ancora l’ambizione di dare tutte le notizie e di darle per primi
di informazione, in questo quadro, diventano un corredo importante, un arricchimento». Esiste una maggiore libertà di informazione su Sky rispetto agli altri gruppi? «Posso parlare solo per la mia testata e noi abbiamo la fortuna di avere un editore puro che ci lascia una totale libertà rispetto alle scelte informative. Ma questo devono essere i telespettatori a dirlo». E quali sono le sue fonti di informazione? Qual è il primo strumento che consulta quando si sveglia? «Prima di tutto guardo il telegiornale del mattino di SkyTg24, poi assolutamente internet, i siti delle grandi testate. Dopo di che non trascuro nulla, leggo i giornali, ascolto la radio, guardo gli altri canali televisivi: in un mestiere come il mio devi essere per forza inserito costantemente nel flusso di informazioni». In questo flusso, esiste ancora un ruolo specifico della carta stampata? «Secondo me il giornale cartaceo mantiene una funzione di guida per quanto riguarda i commenti e l’interpretazione degli eventi. I giornali hanno un’autorevolezza che ancora alla televisione manca. È innegabile che le tv raggiungano una fetta di popolazione più ampia, però i giornali sono letti da un pubblico qualificato, di addetti ai lavori. Nel nostro caso ci viene raccontato spesso che SkyTg24 è acceso tutto il giorno nelle redazioni dei giornali». In che modo si è avvicinata alla televisione? Quali sono stati i programmi che l’hanno influenzata? «Sono cresciuta guardando i programmi di Giovanni Minoli, anche lui originario di Torino: i primi Mixer hanno rivoluzionato il modo di concepire l’approfondimento in tv, hanno inventato un genere. Sono state quelle trasmissioni a conquistarmi e a indirizzarmi verso la professione giornalistica». Secondo lei, esiste una “torinesità” nel modo di fare informazione, nei valori di riferimento? «Assolutamente sì. Quello torinese è un contesto culturale forte: chi cresce e si forma in questa città si porta dietro per tutta la vita una sorta di dna, uno stile che è difficile da cancellare. E la caratteristica principale credo sia una cifra di sobrietà, di equilibrio, di etica nel trattare le notizie e di rivolgersi al pubblico».
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Il coraggio dell’upupa
A 15 anni ha perso il padre giornalista in un delitto di Mafia. Oggi Maddalena Rostagno è tornata a vivere a Torino con la madre Chicca e il figlio, ma combatte a Trapani, dopo ventitre anni, la battaglia legale contro i killer del padre
na ricorda l’altro in un modo disarmante, come se la virilità dei tratti si fosse sciolta nella delicatezza dei lineamenti femminili: ma quando guardi una, vedi (anche) l’altro. Succede, tra padre e figlia, e nel caso di Maddalena e Mauro Rostagno la più bella definizione resta quella di Adriano Sofri: «lei gli assomiglia come un ramo sottile al tronco». Nel libro che Maddalena ha scritto con Andrea Gentile, Il suono di una sola mano, uscito a settembre per il Saggiatore, emerge un Mauro Rostagno combattivo, determinato ma anche allegro, sempre con la musica in testa, un padre che gioca e che abbraccia; un uomo inquieto dalle molte vite, che all’improvviso cambiava come si cambia un cappello, ma che non è mai arretrato davanti ai potenti e agli ingiusti. Mauro ha il coraggio e la sfrontatezza di andare per la sua strada e di ricominciare sempre: come l’upupa si ribella ai limiti e va contro natura, supplisce col talento alla mancanza di mezzi. Così si scopre giornalista per caso, quando arriva in una televisione locale di Trapani per aiutare gli ex tossicodipendenti della
di
Federica Tourn foto
archivio Maddalena Rostagno illustrazione e disegni courtesy
edizioni Beccogiallo
Mario Rostagno con la figlia Maddalena, a Trapani
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comunità Saman; ed è subito un giornalista eccezionale – andrà in onda soltanto per due anni, ma gli basteranno per denunciare mafiosi e intercettare traffici internazionali di armi – perché per comunicare sa usare le parole che servono ma anche il corpo, la risata, lo sberleffo. Come la volta in cui riprende una tavolata di democristiani che si abbuffano, o quando risponde a una provocazione (mafiosa) facendo il consueto editoriale mentre zappa fuori dallo studio televisivo. Mauro, nel racconto di Maddalena, raggiunge i lettori con il suo cuore pensante, come un tempo toccava chi aveva intorno. Enrico Deaglio ricorda che nel ’68 le ragazze andavano a Trento soltanto per conoscerlo; ed era così bello e carismatico che c’era chi fingeva d’essere lui per rubare le briciole del suo successo. Da Macondo all’ashram di Pune, in India, fino al baglio di Lenzi e all’ultima battaglia siciliana ritroviamo intatte la sua schiettezza, la libertà, l’essere davvero fuori da ogni schema, sempre un passo avanti. Ma quello di Maddalena è anche un ritratto di famiglia, una storia d’amore a tre – lei, sua madre Chicca e Mauro – che non si interrompe mai, neanche nello strappo violento della morte. Perché Mauro Rostagno è stato ammazzato a 46 anni sulla strada di casa. Il 2 febbraio scorso si è finalmen-
Tutte le situazioni su cui mio padre stava lavorando sono ancora attuali, dal traffico d’armi ai rifiuti di scorie radioattive La redazione di RTC, Radio Tele Cine
te riaperto il processo per il suo omicidio, a un pelo dall’archiviazione definitiva, grazie all’ostinazione del pm Antonio Ingroia e al lavoro degli agenti della Squadra Mobile di Trapani, guidati da Giuseppe Linares, che hanno trovato la prova che mancava, un segno sui bossoli rinvenuti nei delitti di mafia. Così il boss Vincenzo Virga (presunto mandante) e il sicario Vito Mazzara (presunto esecutore materiale) sono finiti alla sbarra dopo anni di “schifezze”, come le definisce Maddalena: depistaggi, negligenze e omissioni, fino allo scandalo giudiziario che nel ’96 ha portato all’arresto di Chicca Roveri – poi subito scarcerata – con l’accusa di aver organizzato lei stessa l’omicidio di Mauro. Dopo 23 anni di attesa, quando ormai familiari e amici non ci speravano più, per la prima volta è invece proprio la mafia sul banco degli imputati: «già soltanto stare in aula è un grande regalo – commenta oggi Maddalena – e il libro serve a questo, a far sapere che si è riaperto il processo». Che riscontri hai avuto dopo la pubblicazione? La risposta sui giornali è stata bassissima, come mi aspettavo. Ho fatto interviste con giornali locali e online, ma di grandi uscite ne ho avute solo due, “Vanity Fair” e “Il Venerdì di Repubblica”. In qualche modo lo capisco, se penso che Mauro, pur La copertina del libro di Maddalena Rostagno e Andrea Gentile Il suono di una sola mano Il Saggiatore, pp. 288, euro 15
essendo appartenuto a tanti gruppi, era un giocatore libero, non faceva parte di nessuna cricca. Ricevo però messaggi da tanti ragazzi su facebook e questo è molto incoraggiante, perché quando mi scrivono vecchi amici di Mauro provo una tenerezza immensa ma un po’ lo do per scontato perché chi l’ha conosciuto non può che volergli bene, soprattutto se allora l’aveva criticato. Mi pare che la sua vita parli da sola. Come sta andando il processo? Siamo ancora agli inizi, ma per ora posso dire che c’è chi ha finalmente testimoniato del metodo con cui Mauro lavorava: in questi anni, infatti, sono stati in molti a denigrare quello che lui aveva fatto, ignorando la sua battaglia culturale. Poi è significativo che un carabiniere venga risentito perché ogni volta si dimentica qualcosa o ci sono incongruenze nelle sue dichiarazioni. Parlo di Beniamino Cannas, che all’epoca indicò subito la pista interna; uno che in questi anni ha sempre detto, anche in udienza, che nell’immediato non fece la perquisizione in camera di Mauro e invece – come testimonia anche mia zia – mentre mia madre era trattenuta in caserma, è andato nella stanza di mio padre a Saman. Di questa perquisizione c’è soltanto un verbale parziale e diverse cose di Mauro sono sparite nelle ore successive
alla sua morte. Anche il video sui traffici all’aeroporto di Kinisia? Esisteva una cassetta audio con su scritto “non toccare”, che Mauro teneva sulla sua scrivania e che il mattino dopo la sua morte era sparita. E poi, appunto, ci sono alcune testimonianze che parlano di queste cassette video, che però io non ho mai visto. Resta il fatto che quando ci furono delle indagini sulle piste nei dintorni di Trapani, l’Aeronautica militare all’inizio negò e poi fu in qualche modo costretta ad ammettere che in quella zona e in quel periodo si erano effettivamente tenute delle esercitazioni militari. Quindi, che ci fosse o no la cassetta, qualcosa a Kinisia è successo. Rostagno incontrò davvero Falcone per raccontargli quello che aveva visto? L’incontro con Falcone ci fu perché delle persone che facevano da scorta al giudice hanno riconosciuto le foto di Mauro e di una persona che lo accompagnava. I carabinieri però non hanno ritenuto opportuno verificare l’informazione quando il giudice era ancora in vita. Il fatto che nel processo stanno già venendo fuori alcune di queste leggerezze commesse dai carabinieri è molto importante. Emergono molte contraddizioni? Tutte le persone che sono state sentite in questi
Chiddu ca varva
La storia di un rivoluzionario che servì lo Stato
È
sera, un giornalista raggiunge senza farsi notare l’aeroporto abbandonato di Kinisia, poco distante da Trapani. Vede un aereo atterrare e poco dopo, uomini col passamontagna che scaricano casse piene di kalashnikov: armi destinate alla guerra in Somalia – si dirà – in cambio di un posto dove smaltire rifiuti tossici. Dietro questa operazione in terra di mafia c’è Gladio. È il 1988: qualcuno dice che Mauro Rostagno ha filmato e farà in tempo a raccontare tutto a Giovanni Falcone, che ben conosceva la capacità delle cosche di relazionarsi con pezzi ‘deviati’ dello Stato. Che sia successo davvero o no, l’episodio testimonia bene della capacità che Rostagno aveva di scoprire, capire, mettere insieme personaggi e fatti di una Trapani corrotta e collusa, tutt’altro che indenne dai traffici di Cosa Nostra. A Mauro appare subito evidente che quella trapanese non è una ‘mafietta’, ma una rete forte, che si alimenta grazie
al commercio della droga e si muove al riparo delle istituzioni. Relazioni pericolose, che Rostagno non esita a scoperchiare nel suo programma a RTC, una piccola rete televisiva locale. “Affermavamo il diritto di vivere senza nessuna limitazione”: nella sua vita, Mauro Rostagno ha fatto molte cose. Nel ’68 è uno dei leader del movimento studentesco all’Università di Sociologia di Trento; amico di Renato Curcio, fa parte di Lotta Continua ma ne esce prima della deriva armata. Nei primi anni Settanta è con la compagna Chicca Roveri a Palermo, dove insegna Sociologia alla facoltà di Architettura e dove nasce Maddalena; poi si trasferisce a Milano, dove nel ‘77 fonda il circolo Macondo; due anni dopo diventa arancione e con la famiglia va in India a vivere nell’ashram di Bhagwan Rajneesh, dove cambierà nome, diventando Sanatano, “Eterna beatitudine”. Qualche anno dopo, il ritorno in Sicilia, questa volta
a Lenzi di Valderice, vicino a Trapani, dove insieme a Francesco Cardella costituisce una comunità di arancioni, Saman. “Sono stato spesso infedele alle mie idee, per fortuna, e coerente con me stesso”, dirà in un’intervista dell’88. Nell’84 Saman diventa una comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti: un centro aperto, senza regole costrittive, basato sulle tecniche di meditazione indiana. È per aiutare i ragazzi a uscire dalla droga che comincia a fare il giornalista; dovrebbe parlare solo di tossicodipendenza e invece si occupa di pubblica amministrazione, di rifiuti, di delitti: il rivoluzionario che vent’anni prima lottava per cambiare lo Stato, ora, in Sicilia, pensa che la rivoluzione sia farlo funzionare. Per la sua determinazione a chiamare le cose col loro nome, Mauro Rostagno, chiddu ca varva, uomo “troppo libero”, sarà ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988. Il processo per la sua morte si è aperto a Trapani il 2 febbraio 2011. dicembre 2011 / gennaio 2012
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anni stanno facendo la loro deposizione e io, dopo aver letto i verbali, ti posso dire che a oggi l’unica persona che ha sempre confermato le sue dichiarazioni è mia madre; e non parlo solo degli inquirenti, ma anche dei collaboratori, dei familiari… le carte canteranno. Dal confronto si scoprirà che di coerenza ce n’è stata molto poca da parte di tutti. Perché questo depistaggio? Rostagno dà ancora fastidio? Tutte le situazioni su cui mio padre stava lavorando sono ancora attuali, dal traffico d’armi ai rifiuti di scorie radioattive. E chi c’era allora nelle stanze del potere c’è ancora adesso. Poi chi voleva colpirlo aveva più “materiale”, perché di Peppino Impastato potevi al massimo dire che era un depresso, di Pippo Fava che era un femminaro, ma di Mauro si poteva insinuare che era un brigatista, che era un drogato… andava in giro col vestito rosso e coi capelli lunghi e questa sua libertà ha offerto una sponda al malcostume”. Sia Peppino Impastato che Mauro Rostagno facevano comunicazione irridendo i potenti… Nel libro non sono riuscita a evidenziare quanto mio padre fosse una persona colta e preparata: si documentava moltissimo su tutto quello in cui si impegnava e poi, però, usava un linguaggio estremamente semplice. Sapeva mettersi allo stesso livello della gente comune, facendosi capire dal ragazzo come dalla signora ottantenne, in un modo che a Trapani ha funzionato; e Trapani non avrà mai più un altro Mauro Rostagno. Ti aspettavi di più dalla città? Non posso dimenticare che nel ’96, quando fu fatta questa operazione atroce di accusare mia madre, Trapani – una città che sa, che ce l’ha nel sangue che Mauro è stato ucciso dalla mafia – non ha reagito. E dopo, certo, c’è stata l’importante raccolta di firme nel 2007 per la riapertura del processo, grazie all’associazione “Ciao Mauro” (diecimila in meno di un anno, ndr). Io penso che bisogna sempre ringraziare per quello che arriva e non piangersi addosso per quello che non hai avuto: oggi però la città non sta partecipando molto al processo. Quando, durante le pause, usciamo dalle udienze per andare alla panelleria davanti al tribunale, io li vedo mangiare tutti insieme, gli avvocati della difesa con gli amici e i giornalisti. Il fatto che tu poi il giorno dopo fai un pezzo sul giornale con una certa linea… hai mangiato con l’avvocato. Ma se dovessi aspettarmi qualcosa da qualcuno rimarrei delusa da tutti, perché non è mai abbastanza. Per Mauro non è mai abbastanza, anche quello che io posso fare.
Le delusioni più grandi vengono comunque dalla nostra famiglia, ma questa è una cosa che chiariremo alla fine. Lei si è esposta molto con il libro, sua sorella Monica invece è rimasta nell’ombra… Io e Monica ci siamo davvero incontrate e amate solo dopo la morte di nostro padre. Siamo figlie di due Mauri diversi perché io e lui abbiamo vissuto insieme 15 anni, in un rapporto quotidiano, fisico, molto diretto; Monica, al contrario, anche se andava a trovarlo, di fatto è cresciuta senza il papà. Alla sua morte non abbiamo reagito allo stesso modo: lei non ha avuto una fase di rabbia nei suoi confronti, come è successo a me. Non mi permetto di giudicare, ma quello che posso dirti è che Monica non mi è stata vicina quando Chicca è stata arrestata, probabilmente perché non era stata toccata la sua mamma. Dopo abbiamo fatto la raccolta firme insieme, la metto sempre al corrente di tutto ma so che abbiamo un approccio diverso. Da Macondo all’India e poi in Sicilia, dall’Ashram a Saman: come vivevate i cambiamenti? Per me, bambina, succedeva tutto all’improvviso. Quando siamo diventati arancioni mia mamma è partita per l’India da sola e io, che avevo cinque anni, sono rimasta per un periodo con Mauro a Milano. Oggi che anche io ho un bambino, guardo Chicca e le chiedo «ma tu come hai fatto a lasciarmi da sola con quello lì?» Perché era un pazzo scatenato, non voglio neanche immaginare cosa mangiavo, dove mi lavavo, come mi vestivo. Mauro sicuramente aveva un suo percorso ma era anche uno che, impulsivo, diceva basta, adesso ci spostiamo. Mia mamma, che pure avrebbe desiderato una vita più stabile, ha deciso di seguirlo. In seguito mi ha confessato che avrebbe voluto una casa, una famiglia numerosa, un cane, e invece c’era Mauro e con lui queste cose non si potevano avere: ma lei aveva scelto Mauro. Mio padre ha scritto due righe molto belle sulla fine del matrimonio con la mamma di Monica e sul suo rapporto con Chicca: «sono stato più fortunato, questa volta, ma non è stato merito mio». Loro erano uniti da un grande amore ma se siamo stati una famiglia, se ho questo ricordo fisico di Mauro, se ho il suo odore, è grazie a Chicca, perché lui non si sarebbe fermato. Lo sogni? Io non sogno Mauro – ed ecco che qui mi escono le lacrime – non riesco a sognarlo. Chicca sogna a volte prima delle udienze, sempre cose assurde, tradimenti o anche qualche sogno romantico, e ci scherziamo su. Io no, mai, neanche una litigata.
Stavo all’ingresso della camera ardente, guardavo male quelli che non mi convincevano e a un paio ho perfino detto «tu non entri»
Un ponte per Mauro
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Torino, fra via Orvieto e via Livorno, in Borgo Dora, c’è un ponte nuovo che aspetta un nome; da tre anni l’associazione Acmos e Libera Piemonte propongono di intitolarlo a Mauro Rostagno. Per dare forza a questa iniziativa, presa in accordo con la famiglia per ricordare Mauro nella sua città natale, si sono raccolte anche più di mille firme, depositate in Comune con il dovuto atto ufficiale. Però, nonostante il supporto dell’allora presidente del Consiglio comunale Beppe Castronovo e il parere favorevole – anche se non vincolante – di Sergio Chiamparino, la questione resta stagnante: «la commissione toponomastica non si riunisce spesso – racconta Andrea Zummo di Acmos – ma noi avremmo avuto diritto ad un incontro con la stampa e con la commissione: a febbraio 2009 abbiamo avuto quello
previsto con i giornalisti ma non abbiamo mai potuto parlare con la commissione». Con le elezioni ovviamente si riparte (quasi) da zero: «da quando si è insediato il nuovo Consiglio – dice Zummo – ci siamo fatti vivi per ricordare il nostro proposito». Anche perché nel frattempo il ponte è stato aperto al traffico nello scorso mese di luglio: il sindaco Piero Fassino, come il suo predecessore, non ha nulla contro l’iniziativa degli amici di Mauro. «Tanto più che – osservano i promotori – non si tratta di cambiare un nome già esistente ma di darne uno nuovo a un ponte che prima non c’era». Il vecchio ponte infatti, è diventato soltanto pedonale. All’inizo del mese di novembre si è riunita per la prima volta la nuova commissione toponomastica, ora presieduta da Giovanni Maria Ferraris; il “ponte Rostagno” non era nemmeno all’ordine del giorno ed è
rientrato alla fine nelle varie ed eventuali per le pressioni dei suoi sostenitori: se ne parlerà quindi nella prossima riunione, ancora senza una data precisa. Sembra che nella commissione qualcuno avanzi dubbi sulla proposta, facendo leva su “possibili pendenze penali” di Mauro Rostagno: il riferimento alle vicende processuali risale addirittura ai tempi del ritrovamento di hashish nel centro culturale Macondo nel ‘78, quando fu condannato a tre mesi e a una multa (e pure con l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale). «Il secondo processo – sottolinea Zummo – è quello in corso contro i suoi assassini ed è evidente a tutti che non può essere un motivo ostativo». Essere una vittima di mafia sarebbe in effetti davvero un curioso impedimento. Si resta in attesa degli sviluppi.
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Al processo racconti di esserti messa davanti alla camera ardente e non aver fatto entrare chi non ti piaceva. Sono stata molto giudicata per questo. È la rabbia di cui parlavo prima: non avevo voglia di entrare ma stavo lì fuori e facevo da cagnolino, osservavo tutti guardando male quelli che non mi convincevano e a un paio ho perfino detto «tu non entri»; era il mio modo un po’ possessivo di stargli vicino. Per tre giorni non sono riuscita a guardarlo, avevo una gran paura di cosa avrei trovato, e infatti forse avrei fatto meglio a evitare. Tutti mi dicevano «è bello, è bello» e invece… il male fatto si vedeva. Perché sei venuta a vivere a Torino? Torino è un caso. Non è un posto che ha fatto parte della nostra vita, anche se ogni tanto ci venivamo perché c’era sua sorella Carla, e non la consideravo la città di Mauro, che peraltro parlava molto poco del passato. Ma quando Chicca è uscita dal carcere – e Saman ha approfittato della situazione per lasciarla a piedi – Luigi Ciotti le ha offerto un lavoro al Gruppo Abele. Lei allora si è trasferita, mentre io sono rimasta a Milano; poi quando è nato Pietro, dopo un anno e mezzo da mamma single, ho deciso di venire a vivere qui, perché voglio che mio figlio abbia una famiglia
intorno. Adesso lavoro anche io al Gruppo Abele, all’ufficio comunicazione e stampa. Cosa pensi di aver ereditato da tuo padre? Abbiamo molti aspetti del carattere simili ma lui era più bravo a sfumarli: io sono il ramo piccolo. Permalosi entrambi… Pietro invece è seduttore e solare come Mauro. Ti sei fatta carico di custodire la sua memoria. Come lo vivi? Io non rispondo della memoria di mio padre, tutto questo lo sto facendo per me. Io amo Chicca e Mauro e posso difendere tutti e due. Quando mia mamma era in carcere stavo lì davanti, in modo che i giornalisti potessero fare le foto e scrivere «la piccola non piange, chissà come mai»; adesso che Chicca sta bene e fa la nonna lottiamo per Mauro. Non faccio politica, non ho bisogno del consenso: ho incontrato tante persone che mi stanno aiutando e con altre ho litigato. Cerco solo di fare pulizia: così come sono io, un po’ prepotente, forte del fatto che tre eravamo e tre siamo rimasti. La mancanza di Mauro chiaramente la sento e me la porterò dietro fino alla fine. Ma mia madre mi ha insegnato che voler bene non è mai togliere ma sempre aggiungere: puoi continuare ad amare, a gioire, a godere – devi – e lui è sempre con noi. C’è nell’assenza come nelle cose belle.
Io non rispondo della memoria di mio padre, tutto questo lo sto facendo per me
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hicca Roveri era la compagna di Mauro Rostagno; con lui – conosciuto nel ’71 ad un concerto dei Led Zeppelin – ha condiviso tutto, dall’arancione dell’India al bianco di Saman, dagli anni palermitani segnati dall’impegno in Lotta Continua e (soprattutto) dalla nascita di Maddalena a quelli trapanesi, con i ragazzi della comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel ’96 viene ingiustamente accusata di essere coinvolta nell’omicidio di Mauro e resta in carcere per undici giorni. In quell’occasione, il procuratore di Trapani Gianfranco Garofalo, sostenendo la pista interna a Saman, dirà: «Si doveva poter escludere il coinvolgimento effettivo di Cosa Nostra che, del delitto, non voleva e, soprattutto, non doveva essere gratuitamente incolpata.» Come giudica il processo in corso? È meglio di niente, anche se è un processo che si celebra tardi, perché chi ha voluto la morte di Mauro è ancora in circolazione. Trapani è uno dei santuari della mafia e uno dei suoi capi è il latitante Matteo Messina Denaro; Virga, accusato di essere il mandante, è uno che frequentava Dell’Utri, tuttora senatore della Repubblica. Mauro si era accorto degli equilibri che erano cambiati in Cosa Nostra e siccome era una persona intelligente – bisogna essere coraggiosi ma anche intelligenti, e lui lo era – mettendo insieme i fatti che osservava da giornalista faceva i collegamenti tra mafiosi e politici corrotti. Sarebbe sicuramente arrivato a definire la mappa della mafia trapanese e per questo dava fastidio. Ed era anche molto solo in questa battaglia. Lo Stato si fa carico del bisogno di giustizia delle vittime? Fino ad un anno fa dicevo che lo Stato per me ha già fatto molto: mi ha arre-
stata. Adesso qualcuno dello Stato sta provando a fare qualcosa con il processo: allora aggiungo pazienza su pazienza e voglio dare fiducia. Ma quando penso a mia figlia, a quello che ha patito per questo Stato assente, spesso incapace, colluso o volutamente impotente, non posso che essere molto arrabbiata. Soprattutto se si pensa che Mauro Rostagno ha servito lo Stato… Questo non gli verrà mai riconosciuto. Mauro nella sua vita ha avuto diverse posizioni nei confronti dello Stato, non sempre di fiducia – negli anni ’70 lo Stato per noi era quello di piazza Fontana, per intenderci. Poi lui ha cambiato radicalmente idea grazie a Pio La Torre, a Pippo Fava, ad alcuni magistrati come Borsellino; ha visto, vivendo a Trapani, che l’unica speranza era credere nella legalità. È morto credendo che lo Stato fosse l’unica risposta possibile contro la mafia, quindi è davvero morto per lo Stato. Ma lo Stato non c’era ai suoi funerali, se escludi il prefetto di Trapani: non volevano nemmeno riconoscere che un ex di Lotta Continua potesse morire per un ideale. Mauro era un personaggio troppo scomodo. Non apparteneva a nessuno, era un uomo libero; se volevi stare con lui, dovevi prenderlo così. Lui avrebbe fatto comunque quello che voleva: era una persona con una carica incredibile, aveva un fuoco dentro. E poi era allegro: dopo una giornata intera di lavoro poteva arrivare a casa, a Saman, e dirmi «chiudi tutte le porte che mettiamo su una musica e balliamo». F.T. Chicca Roveri oggi vive a Torino, vicino alla figlia Maddalena e al nipotino Pietro, e lavora nell’ufficio contabilità del Gruppo Abele.
La compagna di una vita per Rostagno è stata Chicca Roveri , mamma di Maddalena, con lui da Milano all’India e poi in Sicilia. «Era un uomo libero» racconta «se volevi stare con lui, dovevi prenderlo così»
Aveva un fuoco dentro dicembre 2011 / gennaio 2012
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Mattiello, trentanovenne, fino al 2010 è stato il braccio sinistro di don Ciotti al Gruppo Abele. È anche fondatore di Acmos, una comunità di aiuto per giovani in difficoltà
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iamo nella vecchia fabbrica della Ceat di via Leoncavallo. Ogni gradino è un pezzetto della storia industriale di questa città, e in parte d’Italia. Come molte delle fabbriche di questa zona, anche la Ceat è rimasta a lungo vuota, in mano ai vandali e ai piccioni. Come racconta Davide Mattiello ne La mossa del riccio qui nel 2001 il Gruppo Abele stava ristrutturando l’intero edificio e c’erano disponibili 500 metri quadri per l’associazione che insieme ad alcuni amici avevano appena fondato: Acmos. «E poi c’era lui: il guano. Uno strato spesso e arrogante ricopriva quasi completamente l’imponente scalone monumentale d’ingresso. Chi ci avrebbe messo le mani? Chi era il presidente di Acmos? Io. Chi dunque? Io. Mascherina, guanti, tuta e per il guano non ci fu scampo.» Un’immagine – quella dello sporcarsi le mani là dove nessuno lo vuole fare – che diventa la fotografia della politica “à la Mattiello”, trentanovenne torinese che fino al 2010 è stato il braccio sinistro di don Ciotti al Gruppo Abele e che qualche anno prima con Acmos aveva sperimentato, con successo, la vita comunitria cone aiuto ai giovani in difficoltà. «Sono anni che ci occupiamo di “contenimento del danno”» dice. «È giunto il momento di andare più a fondo. Di governare. Se non sfocia in un cambiamento politico – totale, epocale, definitivo – allora il lavoro nel sociale diventa solo un modo per lavarsi la coscienza e perde di senso. » Insomma, secondo Mattiello è giunta l’ora che i cattolici della “solidarietà organizzata” scendano in politica. «Molti sostengono che anche facendo associazionismo si fa politica. Certamente: si orienta una parte dell’opinione pubblica, si fanno valere i proprio pensieri. Ma fare politica fino in
fondo significa avere peso in un momento preciso della vita nazionale: quello delle candidature e dei programmi.» La mossa del riccio è in questo senso una chiamata alle armi. Perché molto spesso, il salto in politica non avviene, giustificato come “passo inutile o impossibile”, e presupponendo che la politica di per sé sia un male, che mettere un piede in quel mondo renda qualsiasi individuo corrotto o corruttibile. Mattiello sostiene però che il “chiamarsi fuori” sia inaccettabile: «Questa politica così come è fatta oggi non ci soddisfa per mille motivi, ma buttare via il bambino con l’acqua sporca non ha senso. È come il marito cornuto che si taglia i coglioni.» Fare politica, dunque, come coronamento del lavoro di anni nel sociale. Ma come? «Ci sono strade già battute. La prima, per esempio, è trovare il campione del mondo sociale e candidarlo, piazzandolo in un partito. È tradizionalmente questo il metodo con il quale il mondo del movimentismo entra in politica. Ci sono stati esempi eclatanti: Caruso, leader dei centri sociali napoletani, che si è ritrovato a fare il parlamentare per Rifondazione comunista. Ma che fine vuoi che faccia quella persona lì? Quella della vergine sacrificale. Ben che vada viene eletto, ma resta tra l’incudine e il martello: non è organico al partito e quindi al suo interno conta poco o niente, inevitabilmente taglia i ponti con il movimento da cui arriva creando anche un problema per la prosecuzione del percorso associativo. Va da sé che questo metodo non ci convince.» Una strada din questo tipo è stata di recente percorsa da una figura forse non vicina, ma per lo meno simile, a quella di Mattiello: Michele Curto, presidente di un altro grande affiliato del Gruppo Abele, l’associazione Terra del Fuoco. Long story
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Si può fare politica sporcandosi le mani, ma con onestà, tenerezza verso i più deboli e disciplina in tutto il resto
short: Curto è il leader di TdF, ma decide di candidarsi alle primarie contro Fassino, scegliendo le fila di Sinistra e Libertà. Non vince, ma il risultato elettorale – supportato durante la campagna dai suoi sodali nell’associazione – è molto buono e lo porta in Consiglio Comunale. Lascia un’associazione orfana, ma al contrario di quanto capitato ad altre vergini sacrificali, in pochi mesi ha saputo trovare un suo posto di alto livello nel piccolo gotha locale di SeL. «Una seconda possibilità è quella di individuare un partito e colonizzarlo. Esempio storico, quello di Pecoraro Scanio con i Verdi: fa un bel pacchetto di tessere, entra nel partito e ne diventa segretario, manu militari. Un’esperienza che in passato ha anche dato i suoi frutti, ma che mette lo scontro in primo piano. Alla faccia della non violenza (e per chi viene dal mondo cattolico, è bene non dimenticare che secondo il Vangelo saranno i miti a ereditare la terra, ndr). Terza e ultima opzione: farsi un partito, entrare nell’agone politico, sbaragliare gli avvesari, vincere (mica poco). Chi ci aveva dato più speranze in questo senso era La Rete, movimento degli anni ‘90 con tanti figli nobili della bella politica (Nando Dalla Chiesa, Claudio Fava, Leoluca Orlando, Diego Novelli...). Un partito nato sull’onda di Tangentopoli, che riesce a piazzare in Parlamento sei eletti. Che poi decidono di entrare nei DS vanificando tutti gli sforzi precedenti. Questo è un approccio tutto sommato giacobino-manicheo, della serie “Io sono io e voi non siete un cazzo”. Abbiamo dovuto scartare anche questa ipotesi.» La soluzione arriva dagli Stati Uniti e si chiama Advocacy group. Non esiste una traduzione in italiano che ne renda pienamente il concetto. Qualcuno li ha definiti “gruppi di pressione” (brut-
tino), Mattiello preferisce “gruppi d’appoggio”. Utilizzano varie forme di consiglio tecnico e di persuasione per influenzare l’opinione pubblica e la politica, e hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo dei sistemi politici anglosassoni, per esempio durante l’amministrazione Obama. «Trevor Fitzgibbons nel 1999 fonda a Seattle Move on un movimento politico-culturale, simile nella percezione pubblica a quello che è in Italia il Gruppo Abele o Legambiente. Nel momento della campagna elettorale di Obama, però, questo gruppo di persone lo sceglie come candidato, lo rende portavoce delle loro istanze e sposta tutta la sua influenza a suo favore.» Vista con la lente del mondo mediterraneo, non suona esattamente come una cosa pulita. «Perché siamo in Italia. Gli Advocacy groups fanno apertamente attività di lobbysmo politico. Peccato che qui la parola lobby spalanchi porte oscure come la P2, P3 e P4, non proprio un passato lusinghiero. Siamo un Paese intrinsecamente mafioso, dal punto di vista culturale, che ama organizzare il potere in maniera clandestina e segreta.» In una nazione non ancora pronta culturalmente a questo cambiamento, Mattiello & friends si apprestano allora a proporre questa nuova soluzione: quella di un consigliere speciale che può muovere una bella quantità di voti e che per questo deve essere ascoltato. Legalmente, la forma prescelta è quella della Fondazione. «Più precisamente, della Fondazione di Partecipazione.» Che però non è proprio una novità. Pensiamo a “Italia Futura” di Montezemolo. «Benvenuti in Italia è diversa. Prende la parte migliore dell’organismo giuridico della Fondazione – avere del denaro di sua proprietà – e lo unisce alla partecipazione collettiva.
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A parlare bene del mondo che vorremmo, sono bravi in molti. È sull’onestà e la trasparenza quando si tratta di soldi che noi possiamo fare la differenza
Davide Mattiello La mossa del riccio Add editore, pp. 112, euro 7
In “Italia Futura” c’è un capo che è già capo e che ci mette i soldi. E chi ci mette i soldi comanda, giusto? Serve solo al potente per avere visibilità maggiore. E non è una cosa che capita solo a destra. «Anche la sinistra soffre dei leaderismi carismatici. Io dico che bisogna riscommettere sulla politica collettiva, non sul “chi mi ama mi segua perché sono bravo e so parlare”.» Il nostro capitale è conferito da una miriade di piccoli sostenitori che mettono a testa tra i 1 000 e i 2 000 euro, c’è chi li mette in contante, chi li mette in “opere di bene”. In 18 mesi di lavoro abbiamo raccolto 100 000 euro di valore, più 40 mila euro che ci servono per gestire i primi due anni di lavoro. E il 17 dicembre siamo andati dal notaio per mettere i sigilli a questa nostra prima impresa.» Mattiello fa della trasparenza nei bilanci una questione d’onore: per fare politica con “il potere buono”, esercitando tenerezza e disciplina, la prima cosa su cui si debbono avere le carte in regola sono i soldi. Tra finanziamento illecito ai partiti e conflitto d’interessi, l’argomento scotta. «Amministrativamente trasparenti, e lo saremo davvero. Perché su questo ci dobbiamo concentrare. A parlare bene di giustizia e di libertà, del mondo che vorremmo... sono buoni in molti. Non è su questo che dobbiamo essere giudicati, perché la nostra vita dedicata all’impegno e alla solidarietà parla da sola. Non abbiamo più niente da dimostrare. Ma su quelle precondizioni materiali possiamo invece fare la differenza.»
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Ma a Dubai è impossibile. Il paradiso arabo delle archistar ha così tanti alberghi di lusso da far impallidire il cielo sul deserto. Ecco una destinazione che si fa amare e odiare, ma che non può lasciare indifferenti
Conta le stelle, se puoi di
Valentina Dirindin foto
Dubai Tourism
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Un sole a picco più o meno 300 giorni l’anno e le famose isolette artificiali a forma di palma da guardare dal finestrino dell’aereo
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mmaginiamoci nei panni di Neri Parenti: dobbiamo scegliere dove girare il “Natale a...” di quest’anno. Ovviamente, mettiamo tutto il buon gusto – che spesso manca ai cinepanettoni – nella nostra scelta e optiamo per un luogo che sia ultra chic ma non eccessivamente mondano, che sia sufficientemente vicino da raggiungere ma al contempo lontano quel tanto che basta a farlo apparire esotico e, soprattutto, un posto dove ci sia il sole anche il 25 dicembre. La risposta? Il film di Natale questa volta lo ambientiamo a Dubai. Grazie a Turkish Airlines, premiata come la miglior compagina aerea europea, dall’aeroporto di Torino si può raggiungere anche la capitale del lusso e dei grattaceli. Si parte a pochi gradi sopra lo zero, si scende a + 20. Nel tragitto, si fa scalo all’aeroporto Ataturk di Istanbul che, se vi siete concessi una vacanza in First Class, vi offre la Vip Lounge più lussuosa d’Europa. Noi un’occhiata l’abbiamo data e non possiamo che consigliarvi l’upgrade: ristoranti che soddisfano ogni languorino, dal dolce al salato, postazioni computer, pareti con schermi al plasma che trasmettono i canali di tutto il mondo, tavoli da biliardo, sala relax con sottofondo di pianoforte e addirittura, per chi è costretto a soste prolungate tra un volo e l’altro, camere da letto dotate di ogni confort. Insomma, un bel modo di iniziare la vacanza. Poi si riparte, verso l’International Airport di Dubai, che presto diventerà il più grande del mondo. Se volevate un viaggio da Guinness dei primati, siete appena atterrati nel posto giusto. Non per nulla, Dubai è una città pazzesca, il giocattolino degli sceicchi degli Emirati Arabi che, quasi non sapendo come investire i loro (pochissimi) risparmi, si sono messi in competizione con tutte le mete turistiche mondiali. Le metropoli americane hanno una skyline mozzafiato? E noi costruiamo il Burj Khalifa, una torre di 828 metri (828!) a cui i normali grattacieli fanno il solletico ad altezza caviglie, altro che grattare. Il sogno di tutti i bambini è
un weekend a Disneyland? E noi progettiamo Dubailand, il parco giochi più grande del mondo, una cosuccia di quasi 500mila metri quadrati. Bye bye, Topolino. Mare? Ce l’abbiamo, con il sole a picco più o meno 300 giorni l’anno e le famose isolette artificiali a forma di palma da guardare dal finestrino dell’aereo. Deserto? Ce n’è quanto ne vuoi, ma rendiamolo più adrenalinico, sostituendo ai noiosi cammelli dei fuoristrada 4x4 con cui fare chicanes e “freni a mano” che manco la Parigi-Dakar. Neve? Quella mancherebbe, ma nessun problema. Costruiamo un impianto sciistico indoor dentro un centro commerciale (che non è il più grande del mondo, purtroppo, perché il primato è del centro commerciale a fianco, il Dubai Mall, quello con l’acquario e lo zoo sottomarino visibile dal pannello di vetro, manco a dirlo, più grande del mondo), con neve vera, seggiovia e discese da 60 metri. Il problema di tutti i turisti che verranno lo si risolve costruendo 573 hotel (tutti di lusso, si intende, compreso il Burj Al Arab, l’albergo per il quale è stato necessario pensare qualche stella in più nel firmamento del lusso), per un totale di 73mila stanze circa in tutta la città. Difficile andare in overbooking, ma pare che ci riescano. Che poi, oltre che far a gara sui numeri, sembrano sfidarsi anche in bizzarria: questo posto è il paradiso indiscusso degli archistar. Anzi, facciamo un appello: se in Italia non apprezzano i vostri progetti di palazzi elicoidali catarifrangenti che lanciano missili fotonici, anche voi sapete dove andare per Natale. Anche perché di grattaceli se ne continuano a costruire e qui giurano che spuntano nell’arco di una notte, tanto che in alcune zone Dubai pare una città da scenario post-apocalittico: il deserto intorno a grattaceli a metà, nessuno in giro, il silenzio. Insomma, qualcosa da vedere, prima che la bolla esploda e i soldi spesi piovano in ogni dove. Ci dicono anche che, sotto Natale, i prezzi degli hotel si abbassano molto. È un mondo di tradizionalisti, che vogliono passare le feste a casa. Noi, i parenti, quest’anno li abbiamo prenotati per Pasqua.
73mila stanze che sembrano sfidarsi anche in bizzarria: questo posto è il paradiso indiscusso delle archistar
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Una mattina alla Cascina Fontanacervo , alla scoperta del “latte di città”, che sa proprio di latte di
Rebecca Bottai
Vacche di città foto
Enrica Crivello
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vevo letto su “Maestri del Gusto” che la famiglia Crivello si occupava di agricoltura dal 1600. Per questo le mie aspettative arrivata a Villastellone, un tiro di fionda dalla città, erano quelle di trovarsi di fronte a qualche vecchio casolare campagnolo. Mentre invece in questa zona, nella piana che più piana non si può, è più facile trovare una piccola industria rispetto a una cascina. Fontanacervo però è proprio in campagna: due grandi stalle, i campi per il foraggio, il caseificio, e una decina di piccoli camion con il loro marchio (la distribuzione la fanno in casa) che si muove continuamente su e giù dal centro cittadino. Noi, il loro latte, l’abbiamo provato. E siamo qui proprio perché curiosi – come molti – di vedere da dove viene quel latte lì. Il segreto, a quanto pare, sono le mucche Jersey, una razza particolare che viene definita “dal latte d’oro”. I Crivello lavorano in campagna da generazioni, ma sono solo una manciata di anni che Giovanni ha iniziato con il caseificio. «È stato un “collega” allevatore a convincermi. Dieci anni fa io avevo appena comprato i nuovi capi per l’allevamento, ma vendevo il latte nel circondario, a un prezzo ridicolo come tutti i piccoli allevatori. Lui mi disse: “Così gli altri fanno i soldi sul tuo latte”.» Che effettivamente ha un gusto particolarmente pieno, per niente acquoso, diverso da quello che si trova sugli scaffali del supermercato di solito. Scoperto, quindi, che questo “latte d’oro” – come il manto delle Jersey, marrone chiaro – i Crivello hanno messo su il laboratorio per la lavorazione dei loro formaggi. Più che un caseificio sembra una piccola clinica, tutta bianca e metallica. La guerra batteriologica che si combatte qui ogni giorno rende il locale più simile a una sala operatoria che a un tempio di fermenti e muffe.
«Facciamo circa 6000 litri di latte al giorno, che si trovano sparsi in vari punti vendita della città. Il latte restante lo usiamo per gli yogurt e i formaggi.» Ecco quindi che la lista si allunga: la robiola, sia semplice che condita con erbe o peperoncino, la ricotta, la “crema contadina”, che somiglia allo stracchino ma è molto più gustosa. I dessert al cucchiaio sono strepitosi, infatti Fontanacervo ha un contratto con un “rinomato” gelataio cittadino per la fornitura della materia prima, il cui nome però non ci è dato sapere. Soprattutto formaggi freschi, quindi, a dieci chilometri da Torino. «Distribuiamo anche qua e là in provincia, ma il 90% dei nostri prodotti finisce a Torino e in qualche punto della cintura.» Il mercato è spietato, e la concorrenza sui derivati del latte è molto alta. Se i clienti devono essere fidelizzati con la qualità, bisogna anche riuscire a mantenere dei prezzi di mercato, anche senza avere le spalle grandi di un’industria alle spalle. Per farlo, la sveglia suona alle 4 del mattino e dalle 5 si inizia: pastorizzazione e omogeneizzazione del latte, e poi in coda fermentazione dello yogurt e così via. Lo slogan all’ingresso del caseificio è un manifesto chiarissimo: “prodotti fatti come si deve”. Non fatti con il cuore, ma secondo regole precise, e senza trucchi. «Non dico che gli altri mentano, no. Scrivono tutto sull’etichetta. Ma la gente mica la sa leggere. Infatti uno dei prodotti preferiti dagli italiani è una “crema di yogurt”, che è molto diversa dallo yogurt che produciamo qui per esempio.» Sugli addensanti, poi, ci sarebbe tutto un capitolo a parte che mi riserba per una seconda visita all’azienda. Perché l’acidità dello yogurt è una cosa seria e va controllata continuamente. Se non lo imbottigliano nel giro di pochi minuti potrebbe essere tardi. Allora io posso ritirarmi, tanto a tornare in città ci metto dieci minuti.
Il segreto sono le mucche Jersey, “dal latte d’oro”
La gente non sa come leggerle, le etichette alimentari. Infatti spopola la “crema di yogurt”, che – lo dice il nome – yogurt non è dicembre 2011 / gennaio 2012
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Uno, nessuno, o tutti e cento? In edicola e in libreria c’è la nuova guida I Cento di Torino e Piemonte , edizione 2012. Piole vecchie e nuove, ristoranti che salgono e scendono in classifica, e ancora cinquanta ristoranti in Piemonte. Siete pronti a provarli tutti? Di
Valentina Dirindin foto
Massimo Pinca
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i cene ottime, in questa guida, ne contiamo almeno centocinquantuno. Centocinquanta sono quelle proposte da Cavallito, Lamacchia e Iaccarino nell’edizione 2012 del vademecum gastronomico più utilizzato dai torinesi; una è stata quella di presentazione e premiazione dei vincitori, nelle sale del ristorante Ruràl. Ad alternarsi magistralmente in cucina, per l’occasione, Paolo Fantini ed Elisabetta Desana del ristorante Scannabue, Massimo Camìa della Locanda nel Borgo Antico, Takashi Kido del quasi omonimo Kido-Ism oltre, naturalmente, allo chef e alla brigata dei residenti; giusto per dare un assaggio di ciò che I Cento di Torino e del Piemonte 2012 può consigliare ai suoi lettori. Protagonisti della serata, un Davide Scabin ormai avvezzo alle premiazioni (i bookmakers da tempo non accettano più scommesse su di lui, tanto è noto l’amore spassionato degli autori per il Combal.Zero), gli emozionatissimi e orgogliosi proprietari del Kitchen (la rivelazione di San Salvario
«Strana la vita, nella mia infanzia crescevo con piatti della cucina ottomana, per poi abituarmi alla bagna caôda e agli agnolotti e oggi, mi ritrovo occasionalmente con un kebab o un falafel in mano» Eric Vassallo
Vanchiglia e Oltrepo’ di Eric Vassallo
Giunto a Torino dall’Egitto, nel 1961 andai ad abitare in Vanchiglietta, un quartiere in crescita con strade ancora da asfaltare e cascine di fianco a casa. Per i torinesi il Borgh del fum. Le prime esperienze con il nuovo “cibo italiano” furono un vero e proprio disastro, dai ravioli in scatola, alla salsa ketchup utilizzata dappertutto. Disastro provocato dal nuovo supermercato aperto proprio sotto casa, ma soprattutto dal fatto che ai fornelli si alternavano mio padre e mio nonno, totalmente estranei all’arte culinaria. Meglio allora rivolgersi al venditore di fumante farinata che, tutti i giorni, sostava con bici attrezzata all’uscita di scuola. Un po’ più grandini, la domenica sera, si disdegnava la popolare pizza al padellino e, quattrini permettendo, si sceglievano locali che proponevano la pomposa “pizza al mattone”. Il caso volle che la mitica e spagnoleggiante Brace aprisse proprio in via Napione (là dove Farassino faceva calare i suoi marziani bip bip). In rarissime occasioni ci si permetteva qualche buon ristorante, ossessionati dall’abbigliamento più consono all’occasione. Nella mia memoria alberga ancora l’emozione della padellata di cappelle di funghi porcini consumata nel mitico Muletto di corso Casale. Un pezzo importante della mia più intima recherche a cui indiscutibilmente appartengono anche l’aroma di caffè propagato dalla torrefazione Gran Brasile, a due passi da casa, e la storica pasticceria Accornero di via Vanchiglia, dolce approdo per gli acquisti delle grandi occasioni. Erano anni di profondi cambiamenti, anni che spazzano via molte delle storiche piole, circoli polisportivi, dopolavori e osterie di Vanchiglietta, che invece sopravvivono nell’Oltrepò: la Bocciofila di Reaglie, Carletu e la sua Stella (per noi allora rossa), l’Osteria dell’Amicizia, i Combattenti, la Soms De Amicis, gli Imbianchini e le cantine Risso. Alcuni di questi esistono ancora e hanno resistito senza cedimenti, altri sono diventati pizzerie o ristoranti etnici, altri ancora del loro antico splendore conservano a mala pena l’insegna. La mia passione per il cibo nasce qui, nel quartiere periferico della città che mi ha accolto e adottato. Strana la vita, nella mia infanzia crescevo con piatti della cucina ottomana, per poi abituarmi alla bagna caôda e agli agnolotti e oggi, mi ritrovo occasionalmente con un kebab o un falafel in mano. dicembre 2011 / gennaio 2012
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NovitĂ del 2012? “I quartieri golosiâ€?: una mappatura dello shopping enogastronomico torinese dicembre 2011 / gennaio 2012
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nella sezione “Pop50”), premiati da un trio più goliardico del solito, presentato da Sergio Miravalle. Enrico Crippa, vincitore con il suo Piazza Duomo della sezione “50fuori”, ha invece ritirato la sua targa nel pomeriggio, durante la conferenza stampa all’Enoteca Bordò. Poi, di corsa ad Alba, di nuovo ai suoi meravigliosi fornelli. E poi, tra gli amici seduti ai tavoli del Ruràl, anche l’autore della prefazione Andrea Bajani e gli artefici di una delle più divertenti novità di questa edizione della guida, “I quartieri golosi”. Una mappatura dello shopping enogastronomico torinese (a opera di Leonardo Bizzaro, Marco Bolasco, Bruno Boveri, Gil Grigliatti, Bob Noto, Clara e Gigi Padovani, Elvira Radeschi, Leo Rieser, Marco Trabucco, Eric Vassallo), zona per zona, negozio per negozio, chiosco per chiosco. Ve ne proproniamo qui due, giusto un assaggino. Perché non si vive di soli ristoranti (ma se invece potete farlo, andate a colpo sicuro tra i nostri Cento).
«In Crocetta siamo gastronomicamente ben messi. Eh sì! Ce la possiamo tirare!» Gil Grigliatti
Crocetta
di Gil Grigliatti
In Crocetta siamo viziati, tra via San Secondo e corso De Gasperi, due mercati, una vasta offerta gastronomica. Ricordi? La sempre mitica pasticceria Pfatisch di via Sacchi. Da bambini, io e mio fratello Marc, avevamo i nostri pasticcini preferiti: suoi i cioccolatini ripieni di chantilly, miei gli chantilly! Chiare le regole d’ingaggio per attaccare il vassoio. Violato il patto, si finiva in drammatiche azzuffate. Golosa la panna della latteria Elena (corso Re Umberto), preparata subito al banco, o la brioche di Uva (via San Secondo). Proseguendo a sinistra, prendo il diaframma alla macelleria CO.AL.VI. prima del mercato: la bavette, c’est la bavette! Primizie all’Angolo Dei Sapori (corso Re Umberto). Gelato da Ottimo (corso Stati Uniti), dopo l’invasione di gelaterie in città, è il più interessante. Da Marcello (corso Stati Uniti) e al Sorriso (via S.Secondo) si mangia come in casa (tra i pochi a fare vere patate fritte!). Buoni Da Giovanni (via Gioberti), Slurp ed i Brandé (via Massena). Classici il Torricelli, il Crocetta e il Marco Polo. Un grande ristorante: il Gatto Nero (corso Turati), cucina perfetta nel suo stile toscanomediterraneo. Grande l’offerta alla gastronomia Barbero (via F. Carle). Enoteche: Millesimes in corso De Gasperi o Petite Cave per l’aperitivo. Torte gelato da il Gelatiere (corso Einaudi) e vicino, la Torrefazione: bel bar, gremito di persone in cerca di un buon croissant. E i Turchi del kebab di corso Sommeiller vicino a via Sacchi? Col frigo vuoto, prendo una Margherita (euro 3,50) da portare via: non è male e la digerisco. Non posso dire lo stesso di alcune pizzerie italiane! Passeggio nel mio quartiere: una canzone risuona da una boutique. Carina la commessa! Cerco il contatto visivo... Niente! Tutto normale. La canzone? Come fa il ritornello? Meet you all the way! Rosannaaa. In Crocetta yeah! – No! Scusate: in Crocetta neh!? Rosannaaa... Fa proprio così! Lo giuro! Qui siamo gastronomicamente ben messi. Eh sì! Ce la possiamo tirare! Allora? Che aspettate? Ci vediamo a passeggio in... Croisette!
extraglitter jingle all the way
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La carta da regalo Non era facile eguagliare la stagione culturale 2011, con Torino cuore dei festeggiamenti per il centociquantenario dell’Unità d’Italia. Chi ha avuto l’acume di acquistare nell’anno che sta per finire la Carta Abbonamento Musei, di certo l’ha sfruttata fino all’osso. Come fare dunque per rendere l’offerta ugualmente appetibile nel 2012? Semplice, arricchendola di sconti e agevolazioni in nuovi musei, sparsi per tutta Italia. Per chi ha già visto tutto a Torino e dintorni, cosa non facile, già negli anni passati la Carta Musei regalava la prospettiva di una gitarella in Val d’Aosta, con visita a castelli e musei o al Forte di Bard. Ma con l’Abbonamento Musei Torino e Piemonte 2012, gli orizzonti culturali si ampliano come mai prima, arrivando per esempio fino al MAXXI di Roma o ai Musei Civici della capitale, in cui si avrà diritto all’ingresso ridotto. Stessa cosa al Museo di Arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, alla Galleria di Arte Moderna di Albenga, al Museo di Santa Giulia e al Castello di Brescia, al Museo del Tesoro del Santuario di Ns Misericordia di Savona. E, per chi va in vacanza in Laguna, l’Abbonamento darà diritto a uno sconto di 2 € sull’acquisto del Museum Pass, il biglietto cumulativo per l’ingresso a tutti i musei civici di Venezia. Insomma, la rete dei musei si allarga, sconfinando oltre i limiti regionali e inglobando un’offerta che non può che far gola a chi ha fame di cultura. «Siamo orgogliosi perché il sistema dell’Abbonamento Musei Torino e Piemonte sta avendo un successo sempre maggiore – quasi 85mila gli abbonamenti nel 2011, il 36% in più rispetto all’anno precedente - e sta diventando un modello di riferimento per tutto il sistema museale italiano» ha dichiarato Maurizio Braccialarghe, assessore alla cultura di Torino. Noi pensiamo che, a 49 euro (30 per chi ha diritto alla riduzione), difficilmente si possa trovare un regalo di Natale migliore. O preferite ricevere un altro vassoio in silver plate? www.abbonamentomusei.it
auguri, sinceri www.elyron.it http://prints.elyron.it
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Natale con Emergency
Num. 22, dicembre 2011/gennaio 2012 Supplemento di www.extratorino.it Registrazione al Tribunale di Torino n. 6018 del 29/10/2007
ovvero: cosa regalo quest’anno all’umanità?
DIRETTORE RESPONSABILE
Luca Iaccarino
Riecco il solito dilemma natalizio: come sentirsi veramente buoni? Emergency ci viene incontro per sintetizzare ciò che rappresenta più il Natale degli occidentali del ventesimo secolo: donare qualcosa ai propri cari, ma anche a chi ne ha davvero bisogno. Acquistando infatti le idee regalo realizzate secondo principi etici e solidali, nel rispetto di chi li produce, si potrà archiviare la pratica dei doni natalizi con la consapevolezza di contribuire a migliorare molte altre le vite. E non
si tratta degli oggettini simbolici che obbligano l’estetica a scendere a patti con il buonsenso, ma di creazioni artigianali e alla moda, prelibate e di qualità. Sarà possibile trovare prodotti di manifattura provenienti da tutto il mondo dall’8 dicembre per tutto il mese, in Piazza Emanuele Filiberto 9 dalle 10.30 alle 19.30 il giovedì e la domenica, fino alle 23 il venerdì e sabato. Non che il prossimo vada aiutato solo a Natale, ma già che c’è l’iniziativa approfittiamone. www.emergency.it
VICEDIRETTORE
Francesca Fimiani IN REDAZIONE
Valentina Dirindin HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
Massimo Pinca, Federica Tourn, Letizia Tortello, Marco Bobbio, Alessandro Lamacchia, Stefano Cavallito, Eric Vassallo, Gil Grigliatti, Nicolò Picinni, Edoardo Ghiglielmo, Michele Segreto ARCHIVI FOTOGRAFICI
Archivio Storico città di Torino, Michele Serra, Maddalena Rostagno, Sky TG24, Emergency, Carta Musei, Torino Città Capitale REDAZIONE
via Cavour 8, 10123 Torino tel. 011 3187757, fax 011 0864518, mail: redazione@extratorino.it PROMOZIONE
Giorgio Pellerino Tel. 011 3187757, email: giorgio.pellerino@extratorino.it Michele Segreto, email: michele.segreto@extratorino.it SEGRETERIA E ABBONAMENTI
Stefania Miroballi, via Cavour 8, 10123 Torino, tel. 011 3187757, fax 011 0864518 email: abbonamenti@extratorino.it EDITORE
Extra S.r.l., via Cavour 8, 10123 Torino ART DIRECTION, GRAFICA E IMPAGINAZIONE
Elyron, via Perrone 4, 10122 Torino FOTOLITO
Chiaroscuro via Rocca de’ Baldi 16/a, Torino STAMPA
Stamperia Artistica Nazionale via Massimo d’Antona, Trofarello (TO) FORMATO
210 × 272 mm PERIODICITÀ
bimestrale TIRATURA
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