Franco Fontana & quelli di Franco Fontana

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12 – 19 settembre 2014 COMPLESSO MONUMENTALE DEI DIOSCURI AL QUIRINALE via Piacenza 1, Roma


“Mantenersi aperti senza pensare troppo. Vedrete con chiarezza ciò che vi circonda” (Franco Fontana) Credits Foto copertina: Douglas Kirkland Curatore: Riccardo Pieroni Art director: Alex Mezzenga Web designer: Andrea Simeone Responsabile Organizzazione: Silvia Domenici Ufficio Stampa: Samantha De Martin Presidente NSR: Flora Cianciullo Grafica: Fabio Salamida Testi Critici: Luigi Erba Ringraziamenti speciali: Nicola Passanisi, Rosario Sprovieri e il “Circolo degli artisti” www.nuoviscenariroma.it


Riccardo Pieroni

Ad occhi chiusi

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a tanti anni insegno fotografia. Nel corso delle lezioni guardiamo e commentiamo fotografie e immagini di ogni epoca, prodotte con ogni tecnica. Cerco di non imporre mai interpretazioni definitive, ma di giocare sulla molteplicità dei significati che ogni immagine può suggerire. Le discussioni in classe sono sempre stimolanti e produttive e al termine di ogni incontro ho la chiara sensazione che un piccolo tassello di consapevolezza si sia aggiunto a quelli precedenti. I ragazzi della mia scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore Statale “Roberto Rossellini”, saranno i professionisti di domani e sento di avere una responsabilità nel conciliare l’aspetto tecnico con quello concettuale. Credo che la fotografia italiana si sia distinta, soprattutto dal secondo dopoguerra, per essere una fotografia riflessiva. Mentre si lavora, si pensa anche al perché e al come. Questo conferisce alle immagini una “densità” che pochi altri possono vantare. Sono stato coinvolto, con grande piacere, nella cura della tappa romana di “Franco Fontana e Quelli di Franco Fontana”. Confesso che la prima tentazione è stata quella di affrontare il tema dell’insegnamento e di rilevare l’importanza di Franco Fontana non solo nel promuovere la fotografia, ma nel realizzare un modello didattico incisivo

e stimolante, teso a estrarre da ogni partecipante ai corsi la parte più personale. Presto ho però capito che una riflessione su questo tema sarebbe stata del tutto inutile, perché la prova dell’ efficacia del metodo sta proprio nelle immagini che sono esposte nella mostra, ed è di queste che ci dobbiamo occupare. Qualche anno fa, quando chiedevo ai ragazzi “cosa è per te la fotografia”, la quasi totalità delle risposte poteva essere riassunta nel semplice concetto “la tecnica che mi permette di riprodurre e ricordare ciò che è fuori di me, il mondo”.


Per fare un confronto, riporto, solo a titolo di esempio, alcune risposte emerse nei primi giorni di scuola del 2013. “Un’ interpretazione della realtà”, “ Una sicurezza, tutto quanto cambia continuamente, e la fotografia è una cosa che ci portiamo per sempre con noi”, “Ciò che permette all’uomo di essere padrone del tempo”, “Una parte del nostro carattere”, “Un modo di vivere giornaliero: io cammino facendo le cose di ogni giorno, riesco a vedere, a inquadrare con gli occhi, quella che potrebbe essere una foto e penso che le altre persone che non sono fotografi non hanno mai fatto un’esperienza del genere”, “Fotografando puoi perfezionare le cose”. Come si vede, oggi, la domanda “cosa è per te la fotografia”, produce una serie di risposte che possono essere riassunte in “ciò che permette di esprimermi”. Una rivoluzione! Guardo, con questa esperienza, le immagini della mostra. Le ho davanti a me, sfoglio le cartelle nel mio computer e penso che sono tutte diverse. Ogni fotografo ha seguito una strada, ha elaborato un progetto, ha prodotto dei risultati che si distinguono nella loro singolarità. Chiudo gli occhi e mi chiedo che cosa unisca tutte queste diverse esperienze, se ci siano dei fili conduttori, delle costanti attraverso le quali ordinare le immagini (il curatore pensa di essere un ordinatore…). Mi sembra, ad occhi chiusi, di avere davanti a me la sintesi del percorso di cui parlavo prima: la fotografia che attraversa un passaggio epocale da strumento di rappresentazione del mondo a strumento di rappresentazione di se stessi. In questo attraversamento ci sono due temi che risultano centrali e interconnessi: il territorio e l’identità. Non è un caso. Parlo di “territorio” e non di “spazio” perché mentre lo spazio è comunemente pensato come qualcosa di esterno a noi,

qualcosa in cui ci muoviamo, il territorio è invece connesso con la nostra esperienza ed è contenuto in noi come spazio mentale, frutto delle relazioni, degli scambi, del complesso di significati che abbiamo costruito nel corso della vita, nostra e di coloro che ci hanno preceduto. Non si tratta quindi di uno spazio metrico, ma di uno spazio interiorizzato. Per questo il territorio non è che uno degli aspetti della nostra individualità, della nostra unicità, parte di un tutto più ampio in cui è inserita la nostra identità. Chiudo ancora una volta gli occhi per riflettere su un altro aspetto. Che cosa unisce, in tutta questa differenza, le immagini? Cosa hanno in comune i fotografi di questa mostra? La forte intenzionalità formale. Dare una forma alle proprie visioni, mettere in pagina lo sguardo, cercare un equilibrio nel grande accumulo di percezioni a cui siamo sottoposti. Forse è proprio questo il ruolo della fotografia.


La fotografia può non essere un mestiere, può essere un raffinato, profondo, stimolante percorso di avvicinamento al mondo e a se stessi fino a trovare quell’attimo di soddisfazione, di equilibrio, di perfezione che si esprime in una forma. La fotografia come atto sintetico. Guarda caso, nel momento in cui riapro gli occhi, vedo proprio le fotografie di Franco Fontana. Sempre legate ad un territorio, sempre espressione di una forte individualità, sempre dotate di una forma decisa. Ritrovo quindi a sorpresa, il senso dell’insegnamento: non dire cosa fotografare, non dire come, non stabilire i significati, ma avviare una ricerca sul rapporto tra il dentro e il fuori di noi che assumerà una forma nelle immagini che saremo in grado di produrre. E gli osservatori? Ecco il nodo. Qualcuno resterà deluso, ma occorre dirlo: è l’osservatore che fa la fotografia. I nostri sforzi per dare una forma all’ immaginazione si esauriscono nel momento in cui ci stacchiamo dalle nostre immagini e le ridiamo al mondo da cui sono venute, oggetti tra gli oggetti. Sarà chi le guarda a definire il loro significato, sarà chi le usa a determinare il contesto in cui le immagini acquisteranno una nuova forza e una nuova vita. Sono figli che diventano grandi, parti di noi che diventano autonome. Ma il fotografo resiste, vorrebbe che il complesso di riflessioni, di progetti, di scelte che è sotteso alle proprie immagini, sia visibile, sia compreso. Cerca di indirizzare l’osservatore verso se stesso, prima ancora che sull’immagine che ha prodotto. Da questo tentativo nasce la necessità della mostra e del progetto di una mostra. La mostra collettiva è tradizionalmente composta da una somma di spazi individuali misurati in metri quadrati. Il visitatore passa davanti a “finestre” ognuna delle quali lo proietta in un mondo autonomo. Ma una mostra non è un semplice aggregato di immagini. E’ un insie-

me strutturato, dove convivono storie diverse. È una macrostoria che contiene numerose microstorie. La mostra come ipertesto, dove l’itinerario suggerito vuole stimolare la ricerca di altre, più personali, vie d’accesso. Quale è la storia che voglio raccontare? E’ la transizione da una fotografia intesa come sguardo esterno a una fotografia diretta verso se stessi. E’ la storia dell’occhio come mediatore tra interno ed esterno, con tutte le problematiche tecniche e formali che questo passaggio comporta. È il contesto che fa vivere una foto. E ‘ il contesto che delimita il campo dei possibili significati e indirizza l’osservatore. Scelgo quindi una via poco seguita, ma, credo, inevitabile. Fare in modo che ogni lavoro individuale serva da contesto per gli altri lavori. “Quelli di Franco Fontana” formano un gruppo eterogeneo, ma comunicante. Siamo fotografi. Siamo specialisti dell’occhio. Sappiamo che la condizione principale perché il nostro occhio possa vedere è il contrasto. Sappiamo che il contrasto simultaneo esalta e differenzia le caratteristiche di due superfici vicine. Ecco, voglio comporre una mostra in cui ogni immagine aiuti l’altra ad emergere nella sua specificità, ogni autore permetta all’altro di essere visto. Le fotografie non vivono però sospese in un vuoto. Anche il luogo è contesto. Gli spazi in cui è realizzata la mostra sono molto articolati e a volte rischiano di essere dominanti rispetto alle immagini, non sono “neutri”. Dal dialogo tra immagini e spazio nasce la suddivisione della mostra in cinque tappe, cinque storie, ognuna con soluzioni espositive diverse, ma tutte miranti a creare un dialogo significativo tra le fotografie. Siamo pronti per la visita. A occhi aperti!


Franco Fontana a cura di Silvia Domenici

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asce a Modena sabato 9 dicembre 1933. È uno dei protagonisti assoluti della Fotografia Italiana ed Internazionale del Dopoguerra ma conoscendolo si ha l’idea di trovarsi non solo davanti ad un Grande Fotografo ma soprattutto ad una persona ricca di contenuti, passione ed esperienza quasi che la fotografia ed i workshop, siano solo un veicolo per scoprire un mondo di “luce e colore”. Comincia a fotografare nel 1961 - frequentatore dei “Fotoclub”. Inizia come fotoamatore con una Kodak retina presa a noleggio per curiosità e “continua per amore della fotografia con il cuore, il pensiero e la passione”. Se gli chiedi perché ha iniziato a fotografare ti risponde paragonandolo all’amore per sua moglie. È qualcosa che non si può spiegare, è cosi. Se gli chiedi di dare un consiglio a chi si approccia a questo mondo ti aspetteresti tanti consigli da un così imponente esempio. Ma lui no. Ti risponde con parole precise e decise. “Bisogna essere umili. Non bisogna avere fretta”. “La Fotografia non è per centometristi ma per maratoneti”. Ed allora ti rendi conto che davanti hai un maestro di fotografia ma soprattutto un maestro di vita attraverso la fotografia. Molto rilevanti sono le ricerche dedicate all’espressione astratta del colore, svolte in un periodo in cui l’ Astrattismo in fotografia era da ricercarsi esclusivamente nel bianco e nero. Franco Fontana sente il bisogno di rinnovamento e di messa in discussione dei codici di rappresentazione ereditati, in campo fotografico, dal Neorealismo, ma pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente estetica

della sua ricerca. Nel 1963 espone alla Terza Biennale Internazionale del Colore a Vienna; l’anno dopo, Popular Photography gli pubblica, per la prima volta, un portfolio con testo di Piero Racanicchi. Nelle fotografie di questo primo periodo nascono alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi: è stato tra i primi in Italia a schierarsi con tanta convinzione e fermezza, per il colore e lo rende protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto accidentale, ma come attore. E’ attratto dal tessuto urbano, da porzioni di muri, stratificazioni della storia, dettagli di vita scolpiti dalla luce. Alla stregua di un pittore, Fontana mette in posa il paesaggio. Il suo occhio fotografico ne sceglie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversa-


mente dall’occhio umano. Tiene le prime esposizioni personali nel 1965 a Torino (Società Fotografica Subalpina) e nel 1968 a Modena (Galleria della Sala di Cultura). L’esposizione nella città natale segna una svolta nella sua ricerca.

ca, Class, Frankfurten Allgemeine, New York Times. Tra le tante campagne pubblicitarie da lui firmate, vanno almeno ricordate quelle per: Fiat, Volkswagen, Ferrovie dello Stato, Snam, Sony, Volvo, Versace, Canon, Kodak, Robe di Kappa.

Ha dimostrato di essere molto eclettico: mai fossilizzato su un genere in particolare, in grado come un camaleonte di passare da paesaggio al nudo, confrontarsi con il reportage, con la fotografia fine art e con le polaroid, senza disdegnare la pubblicità, la moda o altri lavori commerciali.

Ha tenuto conferenze all’estero (Guggenheim Museum, New York; Institute of Technology, Tokyo; Accademia di Bruxelles; Università di Toronto; Parigi; Arles; Rockport; Barcellona; Taipei) e in numerose città italiane (tra le tante: Torino, Politecnico; Roma) . Ha collaborato con il Centre Georges Pompidou, e con i Ministeri della Cultura di Francia e del Giappone. È direttore artistico del Toscana FotoFestival. Nel 1984 ha ricevuto il XXVIII premio per l’arte Ragno d’Oro dell’Unesco, nel 1989 il Premio per la cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 2000 l’onorificenza di Commendatore della Repubblica per meriti artistici. La Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino gli ha conferito nel 2006 la Laurea Honoris Causa in Design eco compatibile. Il suo concetto di fotografia ti lascia perplesso ed affascinato, te ne innamori, ti coinvolge quando gli senti dire: “Io credo infatti che la fotografia non debba documentare la realtà, ma interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che decide cosa vuole esprimere. La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo.”

Gli sono stati dedicati oltre 40 libri, pubblicati da editori italiani, francesi, tedeschi, svizzeri, spagnoli, americani e giapponesi; ha esposto in musei pubblici e gallerie private di tutto il mondo - oltre 400 sono le mostre personali e di gruppo che ha finora tenuto. Sue opere figurano in importanti collezioni pubbliche - International Museum of Photography, Rochester; Museum of Modern Art, New York; Museum of Fine Arts, San Francisco; Museum Ludwig, Colonia; Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris; Victoria and Albert Museum, Londra; Stedelijk Museum, Amsterdam; Kunsthaus di Zurigo; Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, Torino; The Photographic Museum, Helsinki; Puskin State Museum of Fine Arts, Mosca; The University of Texas, Austin; Museum of Modern Art, Norman, Oklahoma; Museo d’Arte di San Paolo; Israel Museum, Gerusalemme; Metropolitan Museum, Tokyo; National Gallery di Pechino; The Australian National Gallery, Melbourne; The Art Gallery of New South Wales, Sidney - e private. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi, in Italia e all’estero. Ha collaborato e collabora con riviste e quotidiani: Time-Life, Vogue Usa, Vogue France, Il Venerdì di Repubblica, Sette, Panorama, Epo-

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Terra da leggere (1973); Skyline (1978); Paesaggio Urbano (1980); Presenzassenza (1982); Fullcolor (1983); Fotografie1965 - 1987 (1987); Piccoli e grandi nudi (1995). Tra quelle più recenti occorre citare Fotografie 1960-2000 (2001); Paesaggi Landscapes (2003). Attualmente, vive e lavora a Cognento (Modena).


Riccardo Pieroni

Cinque stanze consecutive. La nervatura dell’itinerario è costituita dalle immagini di Franco Fontana. Ai lati delle porte, la loro presenza segna il percorso secondo una progressione che va, per gradi, verso una crescente astrazione fino ad arrivare alla purezza assoluta di due superfici colorate simmetriche. Non sono in ordine di data (non è il tempo lineare dell’orologio che ci interessa), ma seguono la tensione di una ricerca che mira all’essenziale.


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a terra è ormai un territorio urbanizzato. La camera oscura è una macchina per disegnare prospettive. Città e fotografia sono entrambe frutto di una sintesi tra naturale e artificiale. Franco Sortini, nella più pura tradizione della fotografia d’architettura, applica la prospettiva centrale, di origine rinascimentale, come metodo per cercare l’ordine nel caos. Francesco Bucchianeri sceglie la notte per disegnare i contorni scultorei delle sue fabbriche minimizzando l’impatto negativo sul paesaggio. Massimo De Gennaro si confronta con Venezia alla ricerca della luce artificiale nell’elemento naturale dell’acqua, rivelando la doppia natura della città. Anche Mauro Faletti, che si allontana apparentemente dall’ambiente urbano, usa la luce come strumento rivelatore delle strutture materiali del paesaggio dove la gravità e il vento producono sulla neve tracce leggere come la pelle su un corpo.

Interviene Lisa Bernardini, col suo uomo di spalle proiettato su un muro denso di segni di superficie, ma senza un punto di fuga, senza speranza di vedere oltre, a porre interrogativi sulla natura dello sguardo del fotografo. E’ uno sguardo neutro il nostro? E’ la semplice registrazione del dato di fatto che seguitiamo a chiamare realtà? No! Franco Sortini desatura i colori e riduce il contrasto tra figura e sfondo nel tentativo di arrivare al disegno della città lasciando trasparire, nelle sue vedute, il filtro di una inequivocabile cultura architettonica. Il filtro della visione architettonica appartiene anche a Francesco Bucchianeri, che arriva alla forma attraverso un annullamento dello spessore del fondo e dosando sapientemente il rapporto tra luci, ombre e colori, come in un disegno di progetto. Ribalta la prospettiva comune trovando il bello dove altri vedono inquinamento e distruzione del territorio. Mauro Faletti è capace di trasformare la variabilità della luce di montagna in evento, qualcosa che accade improvvisamente davanti a suoi occhi e diventa definitivo nella completezza della forma. La stessa mutevolezza che Massimo De Gennaro trova nei riflessi di Venezia che affronta con uno sguardo meravigliato e giocoso. In qualche modo tutti sguardi lontani. Lo sguardo di chi prende la distanza per penetrare e capire.








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er avvicinarci al mondo ci dobbiamo allontanare dalla città. Il mare, la campagna, la montagna, il cielo. Non si tratta di un semplice spostamento fisico, ma di un salto mentale tra le strutture compresse e organizzate dell’ambiente urbano e l’ampiezza, il tempo ciclico e dilatato, della natura. Tutto l’essere del fotografo viene coinvolto così da permettergli di ritrovare la sua unità. Luca Brezigar sceglie la linea dell’orizzonte (ancora una volta un elemento cardine della prospettiva rinascimentale) per ancorare le sue memorie al luogo. Tre aree parallele (cielo, mare, terra) accolgono frammenti di sguardi vicini che provengono da momenti diversi dello stesso spazio. Si stabilisce così un legame tra la fisicità del luogo e l’interiorità del fotografo, memoria come stratificazione. È proprio su questo tema che lavora Donata Pizzi che si reca nei siti in cui sono avvenute stragi ed omicidi. Il suo spostamento fisico “verso” il luogo da cui “trae” un’immagine instaura un rapporto di scambio che dà senso contemporaneamente al sito ed al lavoro della fotografa.

Un ruolo che proprio perché intimo diventa sociale in quanto permette di ri-conoscere il luogo in una memoria collettiva. Questa disponibilità all’incontro permette a Donata di usare metodi compositivi sempre diversi. Rimane profondamente individuale la vicinanza alle cose di Fausto Corsini e Mauro Faletti. Uno col grandangolo, l’altro col teleobiettivo raggiungono un’identità con i luoghi che coincide con una loro trasfigurazione. Fausto raggiunge l’essenziale attraverso un approccio istintivo nella ripresa e togliendo la trama superficiale agli oggetti. Mauro, attraverso inquadrature estremamente misurate, coglie le minime variazioni di superficie e arriva a interpretare una scrittura della natura. Si può essere talmente vicini da compenetrarsi, in un processo di identificazione, con la terra. Francesca Della Toffola si autoritrae in sovrapposizione con gli elementi fondamentali (terra, acqua, aria) e completa la quadricromia dei colori base della natura (giallo, verde, blu), con il fuoco rosso dei suoi capelli. Corpo tra i corpi e, quindi, anima nell’anima. Terra e corpo con una sola memoria, un solo linguaggio. Vicinanza come completezza… nel cerchio. Novella Oliana asseconda la sua aspirazione ad entrare in una relazione intima con i luoghi con occhiate fugaci capaci di ridurre al minimo la quantità di segni e di esaltare al massimo il rapporto tra tenui superfici quasi monocromatiche. Al contrario, Francesco Bucchianeri trova nei diaframmi chiusi, nei lunghi tempi di esposizione, nella grande capacità di dettaglio, un modo lento per assorbire gradualmente la complessità delle cose mentre avviene la loro trasformazione.











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ndrea Simeone ha l’occhio del girovago. Non sa cosa registrerà la sua macchina fotografica, ma sicuramente sarà frutto della sua disposizione a guardare. I suoi occhi vanno incontro alla gente e quello sguardo ritorna indietro moltiplicato in intensità e sincerità. Al contrario le immagini di Lisa Bernardini sono la registrazione di una installazione che prevede un personaggio ricorrente (la proiezione dell’osservatore e/o del fotografo nel quadro) e un minimondo costituito da porte impenetrabili allo sguardo o da superfici che rimandano ad un altrove. Immagini costruite, ma per questo, senza tempo e, forse, senza “un”soggetto. Nel nostro percorso, Lisa suggerisce il passaggio verso una fotografia impegnata a parlare di se stessa e a confermare la sua possibilità di esistere al di fuori di una realtà data. Così anche Franco Sortini si concede momenti di eccezione rinun-

ciando alla prospettiva centrale e alla frontalità per sperimentare la ricchezza di vedute laterali, dove numerosi elementi entrano in relazione in uno spazio improvvisamente più profondo. Talmente profondo da poter essere penetrato fino ad arrivare ad un ribaltamento di prospettive e di ruoli. La macchina fotografica si rende autonoma dal fotografo e Michele Berti accetta le immagini che essa gli invia come testimonianze di un altro mondo. Un mondo totalmente esteriore fatto di oggetti situati in uno spazio mai direttamente sperimentato dall’uomo eppure direttamente connesso con la vita quotidiana che può essere indagata solo attraverso una molteplicità di sguardi. E’ proprio il ricorso ad un punto di vista mobile che rimette in gioco le immagini di Donata Pizzi, la quale, nel suo spostarsi alla ricerca della memoria dei luoghi, spesso fa ricorso al dittico per mostrare la leggera sfasatura tra visione e ricordo. Così anche il lavoro di Ulderica Da Pozzo, che viaggia nei luoghi dell’abbandono, è basato sull’accumulo di testimonianze visive delle tracce del passato. Solo una moltiplicazione degli sguardi, un mettersi di fronte alle cose, a tutte le cose, diversificando le prospettive e le distanze, permette di recuperare informazioni e di strappare all’oblio ogni piega della materia.









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la luce a dirci tutto delle persone ritratte da Alex Mezzenga. Lui stesso si sottopone al “trattamento” di due ombrelli simmetrici per non lasciare nessuna piega della pelle, nessuna traccia del vissuto, nascosta allo sguardo. Il bianco-nero, l’alto contrasto, il nome che identifica la persona tracciato sul corpo come un segno indelebile, non lasciano dubbi: tutta l’informazione in un unico sguardo. È la legge del fotoreporter. Non sempre la luce è così “lampante”. Massimo De Gennaro la cerca nel buio e la sdoppia nel riflesso così da restituire una molteplicità variabile di piani nello spazio. All’opposto, Novella Oliana abbaglia l’osservatore con una luce uniforme e aerea che consente

solo piccoli scarti di densità alle superfici per differenziarsi. Massimo e Novella usano un metodo opposto per narrare del loro rapporto ugualmente intimo con lo spazio. Fausto Corsini, invece, provoca uno shock visivo nell’osservatore. Una luce secca e decisa annulla tutti gli elementi di riconoscibilità immediata degli oggetti. Una gamma ridotta a tre toni pone interrogativi su cosa stiamo realmente guardando. L’immagine diventa indipendente dall’oggetto rappresentato. Più rassicurante, Ulderica Da Pozzo usa la luce naturale dei luoghi per avere una certezza della loro esistenza e ricostruire una unità tra oggetto, rappresentazione e costruzione della memoria. La fisicità delle cose, resa concreta dalle ombre, ci dice che non viaggiamo in un sogno, ma all’interno di un flusso temporale che la fotografia ha il compito di registrare. Michele Berti usa la luce avvolgente della pubblicità in modo ironico e distaccato. Nei suoi mondi a sorpresa tutto è visibile, leggibile, chiaro. Ma… abbiamo la sicurezza che sia anche “vero”?







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utti in questa sala sanno di essere ripresi, vogliono essere fotografati. Alex Mezzenga propone il gioco dell’identificazione. La maschera che ognuno indossa è il proprio nome, un disegno che si sovrappone fisicamente al corpo. Un atto, quello di scriversi, che è una dichiarazione di disponibilità in un’epoca in cui predomina il ripiegamento e la chiusura. Un atto che va fatto insieme ad altri (è difficile scrivere su se stessi allo specchio) e che testimonia della componente sociale di questo gioco del riconoscimento. Andrea Simeone arriva in India per trovare i volti del suo sud. Li

riconosciamo sotto lo strato di colore che hanno applicato in occasione della festa (ancora il gioco). Le pose sono assunte per il fotografo interrompendo per un attimo il ritmo della giornata. Attraverso questa sospensione temporale, il fotografo è nelle foto come i soggetti che rappresenta. Sembra quasi che sia stato ri-conosciuto. Ecco che emerge la doppia funzione della maschera: sembra nascondere, ma in realtà rivela. La sua azione tranquillizzante permette al soggetto di far emergere la parte più intima di sé. Ecco, forse, la vera funzione della macchina fotografica, la maschera che indossiamo per nascondere il nostro volto e contemporaneamente mostrare la nostra disponibilità e la nostra interiorità. Solo nelle foto di Francesca Della Toffola la maschera delle sovrapposizioni ci impedisce di afferrare il volto della persona. Segno di una totale identificazione tra esterno e interno, tra corpo e anima, tra visibile e invisibile. L’atto stesso del fotografare diviene un atto di rivelazione in cui la fotografa, mettendosi in gioco in prima persona, trova una sua ragione di esistenza.





Dalla sala 5 alla sala 1: rivedere la mostra al contrario. Cosa accadrĂ nei nostri occhi?


Denise Aimar GESTALTICA In queste fotografie di still life il referente non sempre è assoluto, immediatamente riconoscibile, ma quello di Denise Aimar è senza dubbio un lavoro sul linguaggio e la percezione in senso complessivo. Ci troviamo infatti di fronte ad una scrittura a dittico che si snoda in due direzioni, quella dell’associazione e della scansione dell’oggetto analiticamente cubista. L’associazione di colori in una buona sintesi di caldi e freddi e di opposti, secondo le varie teorie in equilibrio fra progettazione e visione.

Dario Apostoli MORFEO C’è sempre un’enorme distanza tra quello che si vede e ciò che

c’è oltre e la fotografia, la quale paradossalmente nasce dal contatto diretto con le cose: l’interfuit di Barthes. Dario Apostoli ci porta in quel confine-limite tra il sogno e la soglia della fisicità- materialità. Il suo Morfeo che scrive attraverso una fotografia quasi monocroma è abbandono, oblio, ma anche antro di una conoscenza che avviene proprio nel manifestarsi del sonno. Un ambiente poco riconoscibile, fatto di segni, poche luci, grandi ombre. Uno spazio di visibile invisibile, dove ovviamente il personaggio totalizzante è l’affiorare dell’inconscio. Tutto è passaggio, un transito come ci dice, ma la magia di queste opere è che ci introducono in una dimensione di instabilità, dove però paradossalmente “il tempo è senza tempo”.

Lisa Bernardini PROSPETTIVA BEHIND Il nuovo lavoro di Lisa Bernar-

dini, se da una parte è meno onirico e visuale dei precedenti, dall’altra si inserisce assolutamente in una linea di riflessione a lei consueta. Il tutto è un appunto iniziale su quelle che potrebbero essere le future tematiche sociologiche, riferite all’Ambiente e all’Altro. È un uomo a simboleggiare la sua vita privata che, seduto di spalle, è di fronte ad una scenografia urbana essenzializzata, sia nella composizione sia nei colori. È un guardare attraverso gli altri, tipica posizione concettuale, che la porta in una dimensione contemporanea dove sullo sfondo primeggiano una cabina del telefono, delle porte e delle finestre dal forte senso simbolico che segnano comunque la provvisorietà di uno sguardo. Poi primeggia una scritta “Paradiso”, ciò che sulla terra cerchiamo ma che non troviamo. In fondo un’altra faccia del sogno.

Michele Berti HAPPY FAMILY Tutto come “Alice nel paese delle meraviglie” nel tunnel del cestello di una lavatrice! Michele Berti porta, centrifuga i suoi oggetti quotidiani attraverso un percorso ironico, fantastico dove la fotografia li restituisce con una diversa prospettiva senza alterarne il senso e la funzione. Oggetti simbolici, quotidiani, in un viaggio che inizia con i piedi avvolti in un materasso cuscino, come ad iniziare un percorso che viene scritto nel tondo quasi fagocitato dallo sguardo circoscritto di un obbiettivo. Fondamentale qui l’uso del colore che ci immette in una dimensione fantastica di memorie e di ricordi, di oggetti che sono stati necessari come le bambole e i pupazzi. Ma poi Berti si porta con sé tutto il necessario, dagli

alimenti, alle stoviglie, ma soprattutto i materiali fotografici chimici: la Impossible , l’Ektar, la Velvia 50 a ricordare forse che anche questo è un gioco del linguaggio, una letteratura, comunque una fiaba.

Marco Betti BODY Il mito del corpo, l’identificazione con l’immagine e l’apparire della attuale società nella perfetta forma fisica della velina. Eccolo qua. In realtà Marco Betti compie un’operazione intelligente, non solo ironica, ma direi antropologica, “neo-neorealista’, più vicina al vero che all’immaginario televisivo e di copertina. Questi corpi di tutti i giorni si inseriscono perfettamente nell’immagine da spiaggia che nella fotografia italiana è un chiaro topos. Il taglio particola-


re che esclude gli estremi dona una valenza universale che, se da una parte ricorda la scultura classica, dall’altra riconduce alle forme come Moore, alla demitizzazione di Martin Parr. È una diversa visione della materia, del corpo: un plasticismo volutamente segnato e ingombrante, più umano che riconduce anche alla rappresentazione del corpo prima che divenisse un valore totalmente estetico. Una foto che non si compiace e che fa pensare.

Luca Brezigar ANAMNESI Mima, Riccione, Senigallia, Trieste. Tutto estremamente minimale, tra astrazione e concetto. Un’essenza dello sguardo che può essere in quel luogo ma anche altrove. Il lavoro di Luca Brezigar è chiaramente un’operazione metalinguistica sull’essenza dello sguardo di fronte al rapporto mare, orizzon-

te, nella cornice della fotografia. Le sue composizioni, potremmo chiamarle anche collage, sono un approfondimento dell’atto stesso del guardare le due superfici e di ciò che è stato percepito e rimane nella memoria. È così che egli inserisce nel suo speculum un approfondimento del rapporto dell’intensità del colore, dell’ingrandimento, del concetto stesso di allineamento dell’orizzonte, del particolare nel rapporto con il globale.In fondo questa è la fotografia, il nostro sguardo: un saltimbanco tra lontano-vicino, particolare-globale, assimilato e percepito in quel momento. Una fotografia da guardare più che da scrivere.

Francesco Bucchianeri FABBRICHE Una fotografia quella di Bucchianeri costruita di equilibri geometrici e cromatici, tra referente e sua rappresentazione attorno ad una tematica, quella dell’in-

dustria, che oggi esige una profonda riflessione. Non siamo infatti qui nella totale oggettività, nemmeno nella totale interpretazione. Una via di equilibrio costruito con l’uso del digitale che permette di scrutare in un modo differente nel colore della notte. Come ci dice l’autore, non è solo la celebrazione di questo simbolo del potere, ma un suo abbellimento. Infatti, da un punto di vista estetico, emerge una leggerezza complessiva, nonostante questo sia architettonicamente un paesaggio di masse, di volumi e di rapporti complessi con gli spazi.

Sergio Corsaro ORABLU Ars magna lucis et umbrae, così una scritta secentesca sulla camera oscura. I paesaggi dell’Ora blu di Sergio Corsaro sembrano usciti proprio da quella scatola magica o, se vogliamo, da un remake contemporaneo

della lampada di Aladino. Una mezz’ora, tra il giorno e la notte, tra luce e ombra. Un inseguirsi di atmosfere con una situazione coloristica di un linguaggio pregnante, fisicamente significante. Luoghi d’atmosfera di suggestiva analisi degli spazi artificiali naturali in una quinta in cui i cieli appaiono dei fondali che reggono visivamente ancora. Sembrano dei palcoscenici che aspettano, ma invertono i ruoli: guardano come spettatori e con gli spettatori ciò che verrà.

Fausto Corsini VISIONARIA “visionAria” si inserice in un progress nel lavoro di Corsini negli anni che ha avuto come protagonista spesso un colore onirico con una base progettuale e anche liricamente concettuale. Oggi sono le spiaggie, uno dei punti forti della fotografia italiana, logicamente e fisicamente legate ad un territorio obbligato.

Corsini non cade nella facilità della storia, ma neanche nell’aria tirata del confine e del limite. La sua invenzione, al di là del soggetto che ha come sostanza poetica comunque lo spazio, è quella di selezionare due colori, o meglio dominanti e farli coesistere riducendo il tono quasi alla funzione del bianco e nero. Ma è colore ridotto nella sua essenzialità e per questo potenzialità espressiva. Un lavoro magico, pieno zeppo di pensiero, inconscio,esplosioni, riflessioni, materia etrasparenze. Un andare oltre come non mai.

Manuel Cosentino BEHIND A LITTLE HOUSE Una casa, un lembo di terra, un cielo. Referenti analoghi che Cosentino varia attraverso un intelligente uso del digitale, mantenendo lo stesso spazio come in una matrice e introducendo varianti sostanzialmente


atmosferiche senza cadere nel Pittoricismo. La sua, infatti, è più una riflessione sullo spazio, analitica, fenomenologica che ha sempre in sé le potenzialità dell’infinito quasi leopardiano. La casa come la siepe che non esclude lo sguardo ma lo include. Un’alternanza di colore, mancanza di colore, ma colore del bianco e nero. Un profondo alternarsi di luce-non luce. Un altro bell’omaggio a ciò che noi cerchiamo nella fotografia: la ragione e la magia.

Carolina Cuneo FOTOROMANZO ‘Fotoromanzo’ è una storia d’amore, un fumetto con un inizio e una fine che può diventare ancora inizio. Carolina lo scrive attraverso una soluzione grafica di ombre e silhouettes per associazione o contrasto di colore. È una storia tra un lui e una lei a dittici e sequenze che però ricor-

da con una certa ironia proprio la storia della fotografia che nasce anche, prima della chimicità e del supporto materico, con la proiezione attraverso lanterne magiche, e prima con le ombre cinesi. È comunque tutto un teatro in progress che ha in sé una condizione di movimento e che mi ricorda ancora le origini del tutto. Queste silhouettes potrebbero giare su uno zootroscopio e allora sarebbe un altro racconto.

Ulderica Da Pozzo STANZE “Stanze” di Ulderica da Pozzo fa parte di un più complesso lavoro sui luoghi dell’abbandono che riguardano il Friuli. In montagna e pianura questi quadri di interni, rigidamente nel formato quadrato, come a significare una stabilità passiva, sono ambienti che non torneranno più alla loro vita. Nelle immagini che sembrano fondali irreali il primo dato percet-

tivo è il silenzio, quindi la mente torna al passato attraverso una evocazione di memoria che è in ognuno di noi. Infatti questi quadri essenziali, in cui gli oggetti spesso si confondono, non sono più se stessi ma fortemente simbolici, paradossalmente anche se riferiti ad un territorio, possono anzi sono, dovunque. Appartengono alla storia di ognuno di noi, al nostro tempo, quello del consumo che presuppone l’abbandono. Tali visioni ci comunicano attraverso una plurisensorialità, mancanza di voci, colore, toni e paradossalmente nella loro leggerezza iconica, sono parole e pensieri.

Massimo De Gennaro LUCI A VENEZIA ...luci di Venezia... sempre tutto inconfondibile. È ciò che lo sguardo si aspetta con il bagaglio dell’immaginario consolidato nel tempo storico e nell’incon-

scio individuale di questa città. Massimo De Gennaro compie un’ operazione su questa “normalità” consolidata attraverso immagini di profondo equilibrio e leggerezza. Una composizione classica con linee di fuga e prospettive che non sconvolgono lo sguardo, anzi lo rasserenano e scrivono con le luci il silenzio dell’acqua, della sua atmosfera liquida. Così anche sugli scenari rappresentati: attracchi, ponti, finestre, barche come in un catalogo poetico e analitico di una pittura classica, dove emerge ogni tanto un segno grafico connaturale all’ambiente. Ogni tanto anche il colore voluto, delicatamente accentuato. A citare il maestro.

Francesca Della Toffola ACCERCHIATI INCANTI Quello di Francesca Della Toffola in questa mostra è un cambiamento non solo formale, rispetto

alle sue conosciute immagini nel contenitore visivo denominato “The black line”, dove veniva contemplata la dialettica dell’uno e del tutto e la funzione del rapporto tra scatti e apparenti fotogrammi. Ora il contenitore visivo è quello del tondo, di una diversa cornice che narra sempre e comunque la scenografia del suo corpo: un’autoriflessione più circoscritta, concentrata, ma nello stesso tempo più indefinita dello spazio. E’ diversa la dialettica con ciò che circonda, mentre nell’interno viene messo in scena il doppio del suo corpo natura (si veda la conglobazione nell’ulivo) in un rapporto panico. A prima vista può ricordare l’Impressionismo, ma anche l’Art Nouveau, certe origini magiche dell’Astrattismo (es. Kupka) ma, molto più semplicemente, la stessa fotografia attraverso quei vetrini colorati delle lanterne magiche che si sovrapponevano creando nella proiezione movimenti e terze immagini. Film, fotografia. La stessa cosa. Tutto come in un cannocchiale.


Giorgia Draisci GUARDARE PER ‘VEDERE’ L’insieme di queste immagini, abbastanza semplici come elementi compositivi, rappresentati da un primo piano e uno sfondo è di per se stesso piuttosto enigmatico. Il viso non compare mai, a volte solo i capelli. La figura di spalle con giubbotto rosso suggerisce invece una riflessione sul guardare. In realtà il paesaggio romano, i ponti, l’acqua del fiume, la gente sulle scalinate è ciò che la figura protagonista vede mentre la macchina fotografica ritrae la scenografia nella sua globalità. Una dicotomia visiva di sapore concettuale che va al di là dell’apparente predominanza del colore rosso che copre spesso buona parte della scena. L’immagine del fiume tagliato dall’isola Tiberina è poi un simbolo di questa ambiguità bivalente.

Mauro Faletti MOUNTAIN SHADOWS “Mountain Shadows”. Neve e montagne; un approccio quasi spontaneo per la fotografia.Così è anche per Faletti con queste immagini a basso spettro cromatico come accade nel genere. Con tale tipologia di fotografie è facile cadere nella retorica naturalistica, nella semplice imitazione. L’autore cerca invece una sua dimensione: emerge una presenza assenza, un rapporto tra il vero e il finto, l’immagine reale e quella desiderata. Sostanzialmente le direzioni di ricerca sono due: quella del lavoro sui piani, sulle masse e lo sfondo e la più tradizionale del segno grafico, del graffito rappresentato dall’essenzialità degli alberi nella stagione invernale che ha in sé una valenza simbolica.

Tea Giobbio IL BURATTINO DEI PENSIERI Poche immagini, essenziali

che hanno un loro background in una forte progettualità e concettualità, realizzate però con una assoluta visione. Diciamo subito che il risultato non cade nel Surrealismo, pur ereditandone alcuni presupposti. Potrebbe essere una storia che porta i due protagonisti in un’immersione totale in una dimensione indefinita (infinita?). È particolare il rapporto tra i corpi e la materia che li sovrasta, li separa, e dove questa sostanza li raggiunge. Di solito si parla di osmosi, ma qui non siamo nellíuniverso lirico, totalmente interiore ma in una scenografia.

Giuliana Marianello MANIFEST-AZIONI L’utilizzo dell’immagine strappata dei manifesti dai ready made è ormai un classico che ha caratterizzato la fotografia di Giuliana Mariniello. Fotografia

nella fotografia che ha profondi rimandi e memorie. Senz’altro Nino Migliori, ovviamente Mimmo Rotella. È quindi un tema caldo che in questo insieme la Mariniello affronta con una propria autonomia visiva. È un lavoro questo fortemente simbolico, che paradossalmente si avvia ad una diversa esecuzione del ritratto. Questi frammenti infatti così si delineano con diverse fisionomie in cui il dettaglio è fortemente simbolico e si associa ad una scrittura presente, citata quasi come Jiri Kolàr nella sua polimatericità.

pupazzo ammicca ironicamente su fogli e libri.Tutto provvisorio, posato lì in attesa. Non è un trasloco, ma un ufficio provvisorio quello in cui lavora l’autrice. O meglio è quello che ha riassemblato dopo il terremoto che ha colpito l’Emilia nel maggio scorso anno che si è come fermato sul calendario. Così l’autrice ricrea fotograficamente una situazione quotidiana attraverso una sostanza poetica di colore, atmosfere, rendendo poetica una situazione di per se stessa drammatica. Tutto leggero, lievitante ma persistente.

Elena Melloni L’UFFICIO PROVVISORIO Degli oggetti racchiusi nel formato Polaroid: un ventilatore, una forbice, una cucitrice, altri elementi cartacei racchiusi in uno scatolone, diversi scatoloni. Lo sguardo posa fuori da una grata verso uno spazio verde, un

Alex Mezzenga MY NAME IS Una delle rivoluzioni di Alfred Stieglitz è stata quella di dare un nome ai suoi personaggi già nel lontano ottocento. È così che il pastorello e lo scugnizzo superando il pittoricismo divennero “Leone” di Bellagio. Poi ci fu Pi-


randello che polverizzò l’unità del nostro essere tra ciò che sei e come ti vedono gli altri. Alex Mezzenga nel nuovo lavoro cerca di trovare ai suoi personaggi quell’identità perduta attraverso una scrittura anagraficamente incontestabile. “Alex Mezzenga” diviene così un dato certo come “Gelsomina”. Così via. La scrittura sul volto, le mani, le braccia divengono la superficie di una nuova pittura, di una figurazione diversa, in una performance vera e propria che testimonia l’identità ma anche il tempo di un’anagrafe sociologica. Un altro aspetto che Pirandello avrebbe colto, anche perché oggi è forse come ci vogliono gli altri. Un tentativo per differenziarci in un conformismo dilagante.

Roberto Mirulla NOTTURNI I notturni di Roberto Mirulla sono un vero e proprio campionario ed esercizio sul genere, una

tipologia espressiva che con il digitale ha trovato una diversa espansione. Rimandi metafisici, raramente surreali, un realismo di stampo americano. Un modo intelligente però di affrontare quell’asetticità oggettiva dei luoghi che qui sono decisamente diversi. Un rapporto tra cielo e terra, luce naturale e artificiale, una riflessione sull’energia degli elementi primari sempre della luce, ma anche dell’acqua. Le pose scrivono il cielo come in un mappamondo, i movimenti lasciano il loro tracciato. Anche le costruzioni, gli edifici diventano spesso altro da sé come quel resto che sembra un animale mitologico col fuoco nel corpo.

Matilde Montanari INTERLUDI POLAROID La cornice delimita uno spazio, ma molto spesso questo è un segmento provvisorio perché la complessità della scenografia è oltre il singolo scatto.

Nel caso di Matilde Montanari ciò si verifica con la Polaroid, mezzo che sembra quasi inventato anche per il mosaico. La situazione complessiva è infatti tale. L’autrice si ritrae mentre danza, si muove a terra, quasi nuota uscendo ed entrando dalla cornice provvisoria, ricostruendo il suo corpo ancora in un’autorappresentazione dinamica in cui il frammento trova una sua epopea. Ancora una volta, anche per un uso studiato del colore, si riflette sull’immagine unica, dittico o polittico che sia, in cui l’uno fa parte del tutto e l’insieme si dissolve nel particolare.

Alessio Necchi PROSPETTIVE A POSTERIORI Il lavoro di Alessio Necchi, ampiamente costruito con suggestioni visuali, in realtà sotto questa scorza in cui il colore e il mosso la fanno epidermicamente da prota-

gonisti, esprime valori simbolici, metaforici, esistenziali. È in realtà una riflessione sull’individuo, la sua spersonalizzazione nel contesto contemporaneo. Non per nulla una delle immagini è quella dell’uomo, sempre poi presente, avvolto dalle corsie di un probabile supermercato, che poi entra ed esce da un tunnel, quasi fosse un contenitore obbligato. È un entrare ed uscire che da una parte ci porta nell’incubo, dall’altra parte in una lontana speranza. L’individuo è sempre di spalle, mai anagraficamente riconoscibile. Un “essere-non essere.”

Oliana Novella IN LIMINE “In limine”, come ci dice l’autrice, è uno spazio marginale e accidentale, un passaggio tra realtà conosciuta e sconosciuta, certamente un pensiero però che ci porta nella dimensione della conoscenza. La necessità di un margine come per Leopardi o Montale. La foto-

grafia è di per sé un frammento, quindi un margine con un limite connaturale. Ecco quindi che questo lavoro è decisamente metalinguistico ma ha in più il senso della visione degli spazi connaturali al colore. La sua struttura visiva è proprio quella della soglia dei piani: frammenti che entrano lateralmente (es. ombrelloni) o che si stagliano come dei dittici nelle visioni di interni.

Michela Petti LUCE Non occorre cercare l’infinito nell’infinito stesso. Il mondo può essere in un oggetto, tanto più in una casa, nell’ambiente quotidiano, nelle cose che tocchi tutti i giorni. Michela Petti isola tali scorci in frammenti di luce e materia, di ombre che plasmano questi micro interni a seconda delle ore del giorno. È così che le porzioni di finestre, quadri, porte, coperte hanno in sé un qualche cosa inafferrabile, di


transeunte. Gli oggetti, nel suo lavoro, non vengono quasi mai decontestualizzati, portati verso un’astrazione, ma mantengono la loro riconoscibilità e funzione. Sono arredi necessari alla vita quotidiana, però ci fanno sognare con il loro calore e colore.

Donata Pizzi ZERO INTOLERANCE Ormai Donata Pizzi ci ha abituati a questo suo linguaggio narrativo di un diverso reportage che sostiene la varie tematiche o attestazioni in una dimensione visuale, comunque anche concettuale. È in sostanza una rimescolanza dei generi in funzione di una comunicazione diversa. La Pizzi visita i luoghi di stragi, omicidi, li fotografa e vi accosta un’immagine sua, di interpretazione individuale. Nei suoi dittici abbiamo quindi riflessione e visione con una complicità tra testimonianza e interpretazione, luogo reale e luogo immaginato della mente. È

così qui per Haifa in Israele, Pordenone con l’omicidio di Sanaa Dafani, Hilversum in Olanda, per il collegio di Goma in Congo.

Andrea Razzoli IL PAESAGGIO E LA PAURA E se le scarpe potessero parlare, raccontare forse scriverebbero una storia. Se potessero fotografare anche. Quelle di Razzoli sono infatti immagini in cui il punto di vista fotografico è assoluto: ad altezza di punta di scarpa, appunto. La città viene così raccontata in modo insolito al di là di quella retorica dei luoghi a cui siamo troppo assuefatti. Attraverso l’uso totale del grandangolare e del colore parlano quelle superfici-materie, ma anche oggetti che fanno parte di un arredo urbano, vengono decontestualizzati e stanno in bilico tra realtà e sogno una volta tanto non in modo angosciante. Griglie, tombini, superfici plastiche calpestabili hanno una loro struttu-

ra e assumono qui una identità espressiva quasi pensante, attraverso texture, forme, segni. Sullo sfondo la città, gli edifici intravisti come diverse ed evanescenti presenze.

Marina Rossi LA SOTTILE LINEA Un lavoro quello di Marina Rossi di riflessione sulla condizione della donna, sul nostro mondo occidentale, ma anche di studio linguistico nel rappresentare una narrazione che è pure l’essenza delle immagini. Impostazione a dittico: una donna simbolicamente messa in una cornice a cui fa da contraltare un’altra figura. Con questo accostamento emergono le varie tematiche, di soprusi e violenze, di falsi modelli propinati dai media. A volte non senza ironia rappresentativa, quasi sempre in modo estremamente oggettivo, emerge questa “sottile linea” tra l’immagine data a livello mediatico e il reale essere dell’individuo. Piran-

dellianamente la distanza tra ciò che sei e come gli altri ti vedono.

Andrea Simeone LATH MAR HOLI Colori? È ovvio. La festa del Lath mar Holi nell’India Settentrionale è proprio l’epopea dei colori in cui i protagonisti si gettano addosso polveri pigmentate. Andrea Simeone si trova così a trattare una materia con un occhio anche metalinguistico, rimanendo però nel più puro reportage che sviluppa poi in modo narrativo ed espressivo attraverso sfondi, espressioni e gesti. Immagini di ambiente con oggetti sullo sfondo che ne connotano il luogo: dalla vespa alle bici, al risciò, a espressioni di personaggi spesso accentuate da un primo piano fortemente esasperato. È un tutt’uno con il colore che si percepisce come un pulviscolo totalizzante che è la materia stessa dell’immagine; l’autore fa sentire però la sua presenza, il suo “colore” con tagli come quello

in diagonale dei ragazzi che fumano e poi delle mani che è come se raccontassero la loro storia in un paese dei sogni e del gioco.

Franco Sortini URBANCITY Il nuovo lavoro di Franco Sortini “Urbanicity” nasce negli spazi ed è scritto anche con il grande formato di cui necessita per risolvere la struttura prospettica, l’impianto visivo di cui ogni foto è dotata, anzi su cui nasce. Impianto classico, in cui prevale una prospettiva centrale che delinea il profilo di un fabbrica, gli edifici, ma in senso più esteso quello di un’architettura. E il suo lavoro infatti è proprio su questo genere fortemente urbano dove il rigore e l’ordine costruttivo viene risolto con un colore desaturato del digitale. Colore che poi ricompare con delle connotazioni, quasi delle citazioni, come un’auto gialla che giustifica una poetica tipica dell’autore stesso.


RICCARDO PIERONI Nato a Roma nel 1955.

N

el 1977 è cofondatore della Cooperativa Città del Sole che elabora nuove strategie e metodi per la didattica dei beni culturali. In quel periodo passa alla fotografia professionale, si appassiona alla grafica, si dedica alla cura e all’allestimento delle mostre. Dal 1987 insegna Tecnica fotografica e, dal 2000, Elaborazione digitale delle immagini presso l’Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione “Rossellini” di Roma. Parallelamente all’insegnamento istituzionale, ha messo a punto i Laboratori di immaginazione fotografica che realizza presso centri sociali, istituzioni museali, in occasione di manifestazioni culturali, in scuole di ogni ordine e grado. I laboratori si caratterizzano per l’integrazione tra aspetti creativi, manualità e conoscenze tecnico-scientifiche e costituiscono uno stimolo alla visione attenta della realtà e, insieme, alla sua trasformazione. La sua attività professionale e artistica si muove parallelamente sul terreno della fotografia e della grafica di cui cerca l’integrazione. Lavora prevalentemente nei settori della documentazione dei beni artistici, architettonici e urbanistici per enti pubblici, società, profes-

sionisti e artisti di cui spesso cura l’archivio fotografico. Si è occupato della cura, della progettazione e dell’allestimento di numerose mostre temporanee e permanenti. I suoi interventi sono caratterizzati dalla ricerca di soluzioni che integrino l’efficacia comunicativa con il massimo contenimento dei costi. Le sue ricerche personali sono attraversate dai temi dello spazio, del tempo, della luce, della memoria, dell’indagine antropologica, del ritratto. Il tessuto connettivo è rappresentato dall’archivio come memoria fisica da cui trarre infiniti nuovi sguardi. Interessato alle relazioni che si creano tra le immagini, realizza da molti anni polittici di grandi dimensioni caratterizzati da serialità, ripetizione/variazioni, trasformazione. Privilegia la scelta di soggetti comuni ma poco notati che, grazie all’introduzione di elementi di ambiguità visiva, diventano oggetto di attenzione da parte dell’osservatore. Si dedica attualmente alla realizzazione di libri fotografici e di video in cui le immagini si integrano con i suoni. In tutti questi mezzi espressivi affronta i temi legati al racconto, al ritmo, alla costruzione dei significati in rapporto al contesto in modo da suggerire all’osservatore una molteplicità di itinerari. È autore di diversi testi riguardanti la fotografia in cui sintetizza aspetti storici, tecnici, espressivi nel tentativo di definire il particolare rapporto tra realtà e immaginazione sotteso all’atto del fotografare.


Con il contributo di

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