Mais e sicurezza alimentare (2006) Un manuale voluto per consentire un corretto approfondimento delle conoscenze tecnico-scientifiche e normative delle problematiche connesse alla produzione del mais per le ricorrenti emergenze dovute alle contaminazioni da micotossine ed alle implicazioni relative alla sicurezza alimentare, sia umana che animale. Realizzato da una gruppo di lavoro composto da esperti della sanità, dell’agricoltura, dell’università e degli enti strumentali e coordinato da Veneto Agricoltura; questa pubblicazione è stata resa possibile dal finanziamento di UniCreditBanca.
Autori e Presentazione Indice Introduzione cap.1 - Funghi e micotossine cap. 2 - Gestione del rischio micotossine nella filiera produttiva del mais cap. 3 - Insetti dannosi al mais e micotossine cap. 4 - Raccolta, stoccaggio e conservazione cap. 5 - Campionamento e analisi delle micotossine cap. 6 - Micotossine nel mais utilizzato nell’alimentazione zootecnica: trasferimento ai prodotti di origine animale cap. 7 - Micotossine: aspetti tossicologici per gli animali e per l’uomo cap. 8 - Mais e alimentazione: aspetti legislativi
Il presente studio è stato coordinato da Luigino Disegna di Veneto Agricoltura e realizzato da un gruppo di lavoro formato da: Fiorenza Anfuso, Unità di Progetto Sanità Animale e Igiene Alimentare - Regione del Veneto Lucia Bailoni, Dipartimento di Scienze Animali - Università degli Studi di Padova Claudio Bonino, CALV - Consorzio Agrario Lombardo Veneto - Verona Roberto Causin, Dipartimento TeSAF, Sezione Patologia vegetale - Università degli Studi Padova Marco De Liguoro, Dipartimento di Sanità pubblica, Patologia comparata e Igiene veterinaria - Università degli Studi di Padova Luigino Disegna, Veneto Agricoltura Carlo Duso, Dipartimento di Agronomia ambientale e produzioni vegetali - Università degli Studi di Padova Lorenzo Furlan, Consorzio di Bonifica Basso Piave - S. Donà di Piave, Venezia Emilio Gaspari, CALV – Consorzio Agrario Lombardo Veneto - Verona Giuliano Mosca, Dipartimento di Agronomia ambientale e Produzioni vegetali - Università degli Studi di Padova Emma Tealdo, Veneto Agricoltura Piero Vio, Unità di Progetto Sanità Animale e Igiene Alimentare - Regione del Veneto
Pubblicazione edita da Veneto Agricoltura Azienda Regionale per i Settori Agricolo, Forestale e Agroalimentare Viale dell’Università, 14 - Agripolis - 35020 Legnaro (Pd) Tel. 049.8293711 – fax 049.8293815 e-mail: info@venetoagricoltura.org www.venetoagricoltura.org
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È consentita la riproduzione di testi, foto, disegni ecc. previa autorizzazione da parte di Veneto Agricoltura, citando gli estremi della pubblicazione. Finito di stampare nel mese di Marzo 2006 presso Grafiche La Press srl - Fiesso d’Artico / Venezia
Al lettore Da qualche anno una task-force regionale: esperti della sanità, dell’agricoltura dell’università e degli enti strumentali e rappresentanti delle diverse parti interessate -“dalla terra alla tavola”- è impegnata nella valutazione e gestione delle problematiche connesse alla produzione del mais, alle ricorrenti emergenze dovute alle contaminazioni da micotossine ed alle implicazioni relative alla sicurezza alimentare. Le informazioni acquisite con le azioni di monitoraggio, unite alle conoscenze tecnico-scientifiche e normative - il tutto in relazione ai più svariati impieghi del prodotto, sia per l’alimentazione umana che animale - hanno dettato l’opportunità di realizzare e pubblicare questo compendio. Si tratta di un manuale, volutamente senza pretese scientifiche, ma che consenta al lettore un corretto approfondimento delle conoscenze. Si è ritenuto opportuno suddividere i contenuti in tre distinte sezioni: a) gestione agronomico-produttiva; b) raccolta, stoccaggio e valutazioni; c) utilizzazione alimentare e vigenti normative; i diversi colori ne faciliteranno l’individuazione per rispondere alle diverse specifiche esigenze. Inoltre, alla fine di ciascun capitolo, il lettore troverà un riassunto dei principali contenuti. Proprio per questo taglio da manuale, non si è ritenuto di rinviare ad una bibliografia che, a richiesta, sarà fornita direttamente dagli autori. Il coordinatore del gruppo di lavoro Luigino Disegna
Introduzione ..........................................................................................
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Gestione agronomico-produttiva 1. Funghi e micotossine 1.1 Aspetti generali ..................................................................... 1.2 Aspergillus e Aflatossine ...................................................... 1.3 Fusarium, Fumonisine, Tricoteceni e Zearalenone .............. 1.4 Penicillium e Ocratossine .....................................................
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2. Gestione del rischio micotossine nella filiera produttiva del mais 2.1 Introduzione .......................................................................... 30 2.2 Influenza delle condizioni ambientali ................................... 30 2.3 Precessione colturale e lavorazioni del terreno .................... 30 2.4 Influenza della scelta varietale .............................................. 31 2.5 Epoca di semina .................................................................. 33 2.6 Densità di semina ................................................................. 33 2.7 Prevenzione degli stati di stress ........................................... 33 2.8 Epoca e modalità di raccolta ............................................... 34 3. Insetti dannosi al mais e micotossine 3.1 Introduzione .......................................................................... 3.2 Cenni su biologia e comportamento della piralide del mais 3.3 Il monitoraggio della piralide ................................................ 3.4 Pratiche agronomiche che influenzano le infestazioni ......... 3.5 Controllo biologico della piralide del mais ........................... 3.6 Efficacia dei trattamenti insetticidi ........................................ 3.7 La riduzione dell’attacco di piralide riduce il contenuto di micotossine? .................................................
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Raccolta, stoccaggio e valutazioni 4. Raccolta, stoccaggio e conservazione Trebbiatura - raccolta ................................................................. Trasporto e trasferimento al centro di essicazione ..................... Centro di raccolta ....................................................................... Essicazione ................................................................................ Pulitura ........................................................................................ Spazzolatura - Separazione ........................................................ Stoccaggio e conservazione ...................................................... Refrigerazione ............................................................................
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5. Campionamento e analisi delle micotossine 5.1 Introduzione .......................................................................... 5.2 Campionamento ................................................................... 5.3 Analisi delle micotossine nel mais .......................................
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Utilizzazione alimentare e normative vigenti 6. Micotossine nel mais utilizzato nell’alimentazione zootecnica: traferimento ai prodotti di origine animale 6.1 Il mais nell’alimentazione zootecnica: quali problemi legati alle micotossine .......................................................... 6.2 Il mais nell’alimentazione dei ruminanti: trasferimento delle micotossine al latte e alla carne con particolare riferimento alle aflotossine .................................................... 6.3 Il mais nella alimentazione dei suini e trasferimento delle micotossine alla carne con particolare riferimento all’acrotossina ....................................................................... 6.4 Il mais nella alimentazione degli avicoli e trasferimento delle micotossine alla carne e alle uova ...............................
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7. Micotossine: aspetti tossicologici per gli animali e per l’uomo 7.1 Introduzione .......................................................................... 7.2 Effetti sugli animali ................................................................ 7.3 Rischi per l’uomo .................................................................
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8. Mais e alimentazione - Aspetti legislativi ....................................
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Introduzione Le micotossine derivano dal normale metabolismo dei funghi, nel linguaggio corrente detti anche muffe, e sono sostanze dannose per la salute dell’uomo e degli animali. Si stima che attualmente siano note circa quattrocento diverse molecole di questo tipo ma è opinione comune che il numero sia destinato ad incrementarsi con l’aumentare delle conoscenze scientifiche. Fortunatamente non sono tutte ugualmente diffuse e tossiche e quindi solo alcune di esse risultano di concreto interesse. In pratica le tossine che destano reali preoccupazioni e pertanto sono, o saranno entro breve, sottoposte a limiti di legge, sono le Aflatossine, le Ocratossine e le Fusarium-tossine. Il mais, sebbene in diversa misura e con diversa regolarità, può subire contaminazioni da tutte e tre le categorie di micotossine citate. Tra queste le Aflatossine sono senza dubbio le più conosciute; il problema micotossine, infatti, è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica proprio in seguito alle contaminazioni del mais da queste sostanze verificatesi nell’annata 2003. Tuttavia, la comparsa di Aflatossine nella granella di mais, pur essendo un evento preoccupante e grave, non è un avvenimento atteso tutti gli anni, essendo influenzato, come verrà in seguito meglio illustrato, dal verificarsi di particolari condizioni termo-igrometriche. Oltre a ciò, normalmente, la percentuale di prodotto contaminato oltre la soglia consentita è minoritaria rispetto al totale della produzione e può essere ulteriormente ridotta tramite opportune operazioni di pulizia meccanica della granella. Nel gruppo delle Fusarium-tossine, e più precisamente nelle Fumonisine, va individuato, invece, il contaminante che compare nel mais tutti gli anni regolarmente, a concentrazioni molto elevate, con una tendenza ad aumentare nel tempo e con una amplissima diffusione nell’ambito del prodotto nazionale. I dati rilevati nella Pianura Padana, dove si produce il 91% del mais nazionale, mostrano una generale tendenza all’aumento della concentrazione di Fumonisine nel tempo, con picchi negli anni 2002 e 2003 e con livelli medi di contaminazione che pongono più della metà della produzione oltre il limite delle 2000 ppb, attualmente proposto, ma non ancora in vigore, per il mais destinato ad uso umano. Alle Fumonisine si riserva in genere un interesse limitato, probabilmente per
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la loro minore tossicità o per l’assenza di importanti fenomeni di carry-over da mangime ad alimento di produzione zootecnica, oppure solo perché non sono ancora in vigore norme che ne fissino il quantitativo massimo ammissibile nel mais e nei suoi derivati. Questa situazione è, però, temporanea poiché a partire dal 1° ottobre 2007 saranno applicati una serie di limiti (REG. CE N. 856/2005 della Commissione del 6 giugno 2005) che stabiliranno, almeno per gli usi umani, le concentrazioni massime tollerabili per le Fusarium-tossine di cui, appunto, fanno parte anche le Fumonisine. Relativamente agli usi zootecnici le soglie massime sono ancora in via di definizione ma le previsioni sono meno pessimistiche; infatti, secondo l’opinione scientifica espressa il 22 giugno 2005 dalla European Food Safety Authority (EFSA) relativamente al rischio per la salute pubblica e degli animali correlato alla presenza di Fumonisine negli alimenti destinati alla zootecnia, i limiti nei mangimi complementari e completi dovranno essere fissati in relazione alla sensibilità delle diverse specie animali a questa tossina e potranno variare da un minimo di 5 ppm (es. equini, maiali...) ad un massimo di 50 ppm (es. ruminanti adulti). Visto che la presenza di Ocratossine nel mais italiano non ha mai destato eccessive preoccupazioni e considerato che nel nostro Paese le Fumonisine, pur essendo meno pericolose delle Aflatossine, sono estremamente più diffuse di queste, è presumibile che allo scadere 1° ottobre 2007 la contaminazione da Fumonisine possa diventare uno dei più gravi problemi della maiscoltura italiana. Infatti, sebbene la granella da destinare a prodotti per uso umano, e quindi sottoposta ai citati limiti di 2000 ppb, sia circa il 10% del totale, ovvero poco più di 10 milioni di quintali, è opinione comune degli operatori del settore che l’imposizione di soglie che estromettono dall’uso più pregiato la maggior parte del mais prodotto in Italia, turberebbe in modo pesante il mercato di questo cereale, inserendovi elementi di crisi. Attualmente, la problematica relativa alla contaminazione da micotossine ha raggiunto livelli di attenzione tali da non poter più essere considerata di secondaria importanza né per la coltivazione del mais né per i suoi utilizzi nell’alimentazione umana e zootecnica; questo, sia per lo stretto collegamento che unisce le micotossine ai temi della sicurezza alimentare e quindi della salute dei consumatori, sia per le effettive dimensioni del problema ma anche per i pesanti riflessi produttivi, e quindi economici, che la presenza eccessiva di tali sostanze può provocare nei nostri allevamenti.
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Funghi e micotossine Roberto Causin, Dipartimento TeSAF, Sezione Patologia Vegetale, Università degli Studi di Padova
1.1 Aspetti generali Si conoscono decine di generi e specie fungine (muffe) in grado di produrre micotossine, ma non tutte sono di concreto interesse; molte di queste, infatti, non hanno ampia diffusione oppure non sono in grado di svilupparsi in modo considerevole su sostanze destinate all’alimentazione umana o zootecnica oppure non sono produttrici di molecole molto tossiche o, se lo sono, non le producono in concentrazioni apprezzabili. Considerando le tre categorie di micotossine di maggiore interesse (Aflatossine, Ocratossine e Fusarium-tossine), i funghi che nella pratica rivestono il ruolo principale nella sintesi di questi composti sono compresi nei generi Aspergillus, Penicillium e Fusarium. Non tutte le specie incluse in questi generi, però, sono tossigene, inoltre, al loro interno non tutti i ceppi sono in grado di produrre queste sostanze. Nel genere Aspergillus, ad esempio, vi sono sia Aspergillus oryzae e A. soyae, specie utili per l’uomo1 , sia la specie A. flavus che invece è tossigena; di quest’ultima, inoltre, si stima che solo il 45% degli isolati sia in grado di produrre tossine. Purtroppo non sempre la situazione è così favorevole: in altri generi esistono specie, come ad esempio Fusarium verticillioides, al cui interno il 100% dei ceppi sintetizza micotossine. In ogni caso, anche quando in un dato ambiente vi sia la presenza di un ceppo fungino sicuramente micotossigeno, non è detto che questo riesca a svilupparsi e a produrre le sostanze dannose; ciò dipenderà fondamentalmente dalle condizioni termo-igrometriche (temperatura e umidità) a cui sarà sottoposto. Come è ovvio i contaminanti tossici verranno maggiormente sintetizzati quando il fungo si troverà nelle migliori condizioni di sviluppo e queste ultime possono differire sensibilmente in relazione alla specie considerata e, soprattutto, non si presentano regolarmente tutti gli anni in tutti gli ambienti. Il mais può venire attaccato da funghi appartenenti a tutti e tre i generi nominati, per tale motivo nei paragrafi che seguono questi verranno presi in esame e ne verranno illustrate le caratteristiche generali e le esigenze termoigrometriche, i rapporti che contraggono con le piante di mais e i sintomi che 1 A. oryzae e A. soyae sono da sempre usati nei Paesi Orientali per la produzione del sakè (bevanda alcolica tratta dal riso), miso (sorta di pasta o paté di soia) e salsa di soia; in applicazioni più moderne e diffuse in tutti i paesi del mondo, vengono utilizzati anche per la produzione di enzimi usati dall’industria alimentare. A. oryzae può produrre piccole quantità di acido Cyclopiazonico.
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su esse provocano, nonché alcune considerazioni sulle condizioni che ne favoriscono lo sviluppo e sulle loro possibilità di controllo. Poiché, come è già stato anticipato, è possibile che nell’immediato futuro le Fusarium-tossine, e le Fumonisine in particolare, possano diventare uno dei problemi del mais di più difficile soluzione, saranno riservati maggiori approfondimenti agli organismi che producono queste sostanze.
1.2 Aspergillus e Aflatossine I funghi appartenenti al genere Aspergillus sono in grado di sintetizzare diversi tipi di micotossine2 ma per quanto riguarda il mais essi sono principalmente responsabili delle contaminazioni da Aflatossine3 . Gli Aspergilli sono organismi diffusi in tutti gli ambienti e in generale vivono saprofitariamente, ovvero si sviluppano a carico della sostanza organica non più viva come, ad esempio, i residui colturali; sono termofili e resistono meglio degli altri funghi a condizioni di scarsa umidità. Il mais può venire attaccato da due specie produttrici di Aflatossine: • Aspergillus flavus, che produce Aflatossina B1 e B2; • Aspergillus parasiticus, che produce Aflatossina B1, B2, G1 e G2. Negli ambienti maidicoli della Pianura Padana il più diffuso tra i due è A. flavus, pertanto nella trattazione che segue si farà principalmente riferimento ad esso. 1.2.1 Influenza della temperatura e dell’umidità Come tutti gli Aspergilli, anche A. flavus si sviluppa bene a temperature calde: l’ottimo viene individuato tra i 32-36 e i 38 °C mentre la sua crescita si riduce sotto i 12 °C e sopra i 42 °C. Le temperature ritenute più favorevoli per la produzione di Aflatossine sono comprese tra i 25 e i 35 °C e vi sono studi che indicano come l’alternanza ciclica tra questi 2 valori stimoli ancora di più la sintesi di queste sostanze. Relativamente alle esigenze di umidità, come già anticipato, questo fungo può tollerare condizioni di relativa siccità e riesce a sopravvivere con aw 4 2 Le diverse specie appartenenti al genere Aspergillus oltre alle Aflatossine possono produrre anche Ocratossine e altre sostanze dannose di minore interesse. 3 Le Aflatossine comprendono numerose molecole diverse tra loro; nel presente lavoro si considereranno solo le più importanti per il mais ovvero le Aflatossine B1, B2, G1 e G2. 4 aw misura l’“attività dell’acqua” e può essere intesa come la misura della disponibilità di acqua per lo sviluppo dei microrganismi; aw = 1 significa che tutta l’acqua presente in quell’ambiente è disponibile; valori minori di 1 indicano che una parte dell’acqua è “impegnata” per trattenere in soluzione zuccheri, sali ecc. (“legame” osmotico) oppure trattenuta per “effetto di superficie” dalla matrice su cui si sviluppa l’organismo (“legame” di matrice). In generale si può considerare che lo sviluppo dei funghi si arresti con aw sotto 0, 70, che con aw = 0,6 venga fortemente inibita l’azione enzimatica e che questa cessi con aw attorno a 0,3. Per i batteri, invece, le esigenze sono maggiori e l’aw minima è circa 0,8.
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attorno a 0,78, sebbene gli accrescimenti maggiori si verifichino con disponibilità idriche superiori. Si può quindi affermare che questo patogeno è particolarmente favorito da clima caldo-umido (90-98% U.R.) e da annate in cui la piovosità nel corso della stagione vegetativa del mais è decisamente inferiore alla media. Queste condizioni non si verificano regolarmente tutti gli anni e in tutte le aree maidicole della Pianura Padana, pertanto, attacchi consistenti da A. flavus con relativo accumulo di Aflatossine sono fortemente condizionati dall’andamento stagionale e non sono attesi tutti gli anni. 1.2.2 Sopravvivenza, dispersione nell’ambiente e modalità d’infezione A. flavus si conserva normalmente nel terreno dove vive saprofitariamente a carico dei residui colturali (cariossidi, tutoli, frammenti di stocco o di tessuti fogliari di mais o di altre piante) su cui sviluppa soprattutto micelio e talvolta sclerozi5 , superando in questo modo le avverse condizioni invernali. Al sopraggiungere della buona stagione, dal micelio e dagli sclerozi si originano enormi quantità di conidi6 che danno il via alla fase di diffusione di A. flavus nell’ambiente circostante. Si può ridurre fortemente la produzione di conidi da parte degli sclerozi e quindi la dispersione del fungo con l’interramento dei residui colturali infetti per uno o due anni, ma sono necessari tempi più lunghi perché gli sclerozi presenti su questi ultimi perdano completamente la loro vitalità. Questo fatto, se da una parte conferma l’utilità delle lavorazioni del terreno e dell’avvicendamento colturale, dall’altra sottolinea che i maggiori vantaggi si ottengono quando le piante potenzialmente ospiti di A. flavus ritornano nella successione ad intervalli lunghi, possibilmente maggiori di due anni. I conidi, comunque prodotti, vengono facilmente dispersi dai movimenti, anche leggeri, dell’aria7 e giungono sulle sete del mais che sono particolarmente suscettibili quando sono in via di senescenza (colore giallo-bruno); qui, se
5 Il micelio è la struttura vegetativa del fungo, in genere poco adatta alla sua conservazione; quando se ne sviluppano grandi masse diventa visibile ad occhio nudo e viene comunemente detto muffa. Gli sclerozi sono particolari formazioni più resistenti del micelio alle condizioni avverse; contribuiscono a far sopravvivere il fungo nei periodi sfavorevoli come, ad esempio, l’inverno. 6 I conidi sono organi di propagazione agamica (vegetativa) che hanno lo scopo di diffondere il fungo nell’ambiente. Con un termine generale che indica tutte le strutture aventi questo scopo si possono dire anche propaguli. 7 A.flavus può essere diffuso in misura molto minore, e con scarsa importanza pratica, da insetti. Sebbene gli insetti non siano coinvolti in modo rilevante nelle infezioni primarie del mais, essi sicuramente possono avere un ruolo nella disseminazione del fungo nelle aree infette. Gli insetti, entrando in contatto con le zone di produzione dei conidi possono imbrattarsi con questi o ingerirli e, visitando le piante, lasciarveli per semplice contatto o attraverso le feci.
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le condizioni ambientali lo permettono, i conidi germinano e danno origine ad ife8 che si accrescono rapidamente lungo la seta fino ad arrivare ad infettare la cariosside in via di formazione. In questa fase la presenza del polline favorisce tutti i processi descritti, ma sono soprattutto le condizioni ambientali che si verificano all’epoca della fioritura e in quella successiva di riempimento della cariosside che influenzano lo sviluppo del fungo e l’accumulo di Aflatossine. Sotto questo aspetto, per il mais è particolarmente dannoso lo stress idrico che rende la pianta più debole e quindi più facilmente aggredibile da A. flavus, che invece tollera la scarsità d’acqua. Se a questo fatto si accompagnano temperature superiori ai 30 °C, che favoriscono la crescita del fungo e invece iniziano ad essere fonte di ulteriore difficoltà per il mais, l’infezione è ancor più favorita e può avere esiti problematici. Un ulteriore vantaggio per lo sviluppo del patogeno deriva dal fatto che alte temperature e bassa umidità, ben tollerate dall’Aspergillo, sono invece meno adatte alla crescita degli altri microrganismi presenti sul mais e nel terreno; in questa situazione A. flavus si trova ad essere favorito e diventa un ottimo competitore, si accresce senza ostacoli e prevale sugli altri microrganismi riuscendo a sovrastarne lo sviluppo. Oltre a ciò, condizioni di siccità possono causare nelle cariossidi microfessurazioni che rappresentano delle vie d’ingresso per il patogeno e favoriscono ulteriormente l’infezione. Più in generale, tutti i fattori che provocano lesioni della superficie della granella (es. grandine e attacchi da insetti o di uccelli) aumentano la suscettibilità del mais all’attacco di A. flavus. È attraverso questa via che, a partire dall’apice della pannocchia e in condizioni di stress termo-igrometrico, avvengono le infezioni nelle fasi più avanzate di maturazione della granella. È sempre a causa di queste lesioni, causate anche da operazioni di raccolta ed essiccazione non attente, che durante la fase di stoccaggio si possono verificare degli attacchi di A. flavus, se le condizioni di conservazione non sono corrette. La presenza di soluzioni di continuità, sebbene non essenziale, rappresenta quindi un fattore predisponente l’infezione. In effetti, nell’invadere i tessuti del mais, il fungo tende a crescere negli spazi liberi e attraverso le barriere più facili da penetrare e, pur colonizzando ampiamente i tessuti e arrivando talvolta anche all’interno del seme, in generale non si addentra profondamente
8 Le ife sono lunghi filamenti costituiti da una successione di cellule fungine saldate le une alle altre e di dimensioni molto inferiori a quelle di un capello umano; a parte qualche eccezione, generalmente non sono visibili ad occhio nudo. Un forte sviluppo di ife, variamente ramificate e intersecantesi, da origine al micelio.
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in essi. Ciò probabilmente deriva dal fatto che, come riferito, A. flavus è fondamentalmente un saprofita e la sua scarsa virulenza si manifesta solo quando la pianta diviene altamente suscettibile e viene a mancare la competizione con gli altri microrganismi. 1.2.3 Sintomi in campo del marciume della spiga e delle cariossidi da Aspergillo Sulle spighe infettate, prevalentemente nella porzione apicale ma non raramente anche alla base, si sviluppa una muffa di aspetto granuloso e di colore verdastro con sfumature gialle, che diventa verde più scuro col passare del tempo.
Marciume da Aspergillo su spiga e cariossidi. Notare l’aspetto granuloso della muffa (micelio)
Il micelio si accresce sulle cariossidi e negli spazi fra esse, arrivando fino al tutolo che viene colonizzato, assumendo anch’esso colorazione grigioverdastra con sfumature giallognole. Nel caso di infezioni precoci seguite da un andamento stagionale non particolarmente favorevole allo sviluppo di A. flavus, sulle cariossidi infette la muffa può essere assente; questa granella, però, assume spesso delle colorazioni e un aspetto anomalo e risulta comunque contaminata da Aflatossine. 1.2.4 Post-raccolta Data la tolleranza al secco più volte ricordata, attacchi di A. flavus sono da temere in modo particolare durante le fasi di stoccaggio. Cumuli di granella non correttamente e omogeneamente essiccata possono contenere al loro interno dei nuclei, anche piccoli, con umidità maggiore del 15% che possono ulteriormente caricarsi d’acqua per via igroscopica. In queste condizioni, già con temperature vicine ai 15 °C può iniziare lo sviluppo di Aspergilli, soprat-
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tutto quando la granella presenta lesioni, comprese le micro-lesioni dovute ad eventi siccitosi, trebbiature mal eseguite o processi di essiccazione non corretti. Sebbene i funghi in queste condizioni crescano lentamente, essi, metabolizzando l’amido delle cariossidi, generano calore e umidità, contribuendo a creare localmente situazioni sempre più favorevoli al loro sviluppo e quindi alla formazione di consistenti nuclei di contaminazione da Aflatossine che vanno via via allargandosi. Umidità del mais inferiori al 13%, o al 12% se si prevedono conservazioni lunghe, movimentazione periodica della massa e pulizia, garantiscono un ottimo controllo dello sviluppo di A. flavus durante la fase di stoccaggio. Come riferito in precedenza, il fungo si sviluppa prevalentemente nelle regioni più esterne degli organi attaccati e ciò permette di ottenere un abbattimento non trascurabile della presenza di Aflatossine attraverso la pulizia meccanica delle cariossidi. Tale operazione, per avere l’effetto maggiore, deve essere condotta sul prodotto verde, ma può dare risultati accettabili anche sul secco se effettuata correttamente. 1.2.5 Fattori che favoriscono lo sviluppo di A. flavus e possibilità di controllo Si è visto come condizioni di siccità, alte temperature e lesioni della granella favoriscano le infezioni di A. flavus, così come stati di stress idrico nel periodo fioritura-riempimento delle cariossidi rendano il mais particolarmente suscettibile all’attacco del patogeno. Esistono ibridi con caratteristiche di resistenza al fungo e all’accumulo di Aflatossine ma, ad oggi, non risulta che nella pratica siano largamente impiegati. Pertanto, oltre all’uso di varietà resistenti ove ve ne sia la disponibilità, può essere utile: • realizzare una buona sistemazione idrica dei terreni; • eseguire l’avvicendamento con colture non suscettibili a A. flavus; • lavorare il terreno opportunamente in modo da interrare i residui colturali; • concimare in modo equilibrato e adeguato alla fertilità del terreno, alla disponibilità d’acqua e alle esigenze dell’ibrido scelto; • mantenere la coltura il più possibile pulita dalle malerbe; • scegliere ibridi resistenti agli stress idrici e termici, adatti all’ambiente di coltura e con precocità tale che il periodo di maggiore suscettibilità al fungo coincida il meno possibile con la stagione siccitosa; • scegliere l’epoca di semina in modo che il mais attraversi la sua fase di maggiore suscettibilità al fungo nel periodo normalmente meno siccitoso; • scegliere investimenti che evitino gli stress da competizione; • irrigare, soprattutto nella fase di riempimento della cariosside ma, se possibile, ogni volta che si temono stress idrici per la pianta, anche di breve periodo;
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• raccogliere con umidità della granella non troppo bassa con trebbiatrici ben regolate e pulite; • eseguire una pulizia meccanica sul “verde”; • essiccare il più presto possibile dopo la raccolta, evitando le soste di giorni sul piazzale; • non essiccare a temperature troppo elevate, soprattutto quando la granella non è molto umida, per evitare le microlesioni ed il “rinvenimento”; • applicare le corrette pratiche di stoccaggio precedentemente discusse. Si segnalano infine alcune possibilità di controllo biologico basate sull’utilizzazione dell’endofita antagonista Acremonium zeae e di ceppi non tossigeni dello stesso A. flavus. Anche Fusarium verticillioides è in grado di contrastare lo sviluppo di A. flavus, però, come si dirà più avanti, esso purtroppo è un importante fungo tossigeno. In ogni caso, gli antagonismi di cui si è appena riferito si verificano solo in condizioni moderate; con temperature alte (es. 35 °C) sarà comunque A. flavus a sovrastare la crescita degli altri funghi. Nonostante vi siano grandi speranze, soprattutto per l’uso di ceppi di A. flavus non tossigeni, al momento attuale, purtroppo, nessun metodo di controllo biologico è ancora stato sviluppato in modo sufficiente da poter avere pratiche applicazioni in pieno campo.
1.3 Fusarium, Fumonisine, Tricoteceni e Zearalenone Molte delle specie comprese nel genere Fusarium sono in grado di produrre vari tipi di micotossine; tra queste quelle che interessano il mais sono9 : • le Fumonisine; • il Deossinivalenolo (DON) e le tossine T2 e HT2, tutte comprese nel gruppo dei Tricoteceni; • lo Zearalenone. I Fusaria, salvo alcune importanti eccezioni di cui si dirà in seguito, non sono patogeni principali del mais e la maggior parte di essi vive saprofitariamente sui residui colturali nel terreno. Sono ubiquitari, presenti praticamente in tutti gli ambienti; non tollerano la siccità e le alte temperature, mentre si sviluppano bene in condizioni di forte umidità e con temperature miti. Il mais può venire attaccato da più specie di Fusarium, alcune importanti per
9 I Fusaria possono produrre altre tossine sul mais, ma quelle citate sono ritenute le più diffuse e rischiose per la salute dell’uomo e degli animali, infatti entro breve ne è prevista la regolamentazione (Reg. CE 856/2005).
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la sanità della granella, altre meno. Esaminarle tutte in questa sede sarebbe troppo lungo e sicuramente poco utile visto che, relativamente alla contaminazione da micotossine, le Fusariosi del mais che rivestono un reale interesse sono essenzialmente due: • Marciumi rosa della spiga e delle cariossidi, associati alla contaminazione da Fumonisine e causati prevalentemente da Fusarium verticillioides (sinonimo F. moniliforme), F. proliferatum e F. subglutinans. Nei nostri ambienti prevalgono le infezioni da F. verticillioides, pertanto ad esso ci si riferirà trattando di Fumonisine e marciumi rosa; • Marciumi rossi della spiga e delle cariossidi, associati alle contaminazioni da Tricoteceni (DON, Zearalenone, T2 e HT2) e causati prevalentemente da F. graminearum, F. culmorum, F. sporotrichioides e F. poae. I primi due funghi sono produttori principalmente di DON e Zearalenone, mentre gli altri due sono responsabili della contaminazione da tossina T2 e suoi derivati. Nei nostri ambienti il più diffuso è F. graminearum, pertanto ad esso ci si riferirà trattando di Tricoteceni e marciumi rossi10 . 1.3.1 Marciumi rosa, Fusarium verticillioides e fumonisine 1.3.1.1 Influenza della temperatura e dell’umidità Lo sviluppo di F. verticillioides è favorito da temperature miti ma non troppo fresche: l’ottimo viene individuato tra i 22,5 e i 27,5 °C; la temperatura minima di crescita si situa tra 2,5 e 5,0 °C e quella massima tra i 32 e i 37 °C. Vi è però una sensibile variabilità tra i diversi isolati in relazione all’area di origine; ad esempio, F. verticillioides proveniente da zone a clima più caldo ha un optimum di temperatura vicino ai 30 °C. Le condizioni termiche ottimali per la produzione di Fumonisine non sono ben chiarite e dipendono molto dal ceppo fungino considerato, variando in un intervallo compreso tra i 15 e i 30 °C. Questo fungo è molto esigente per quanto riguarda la necessità d’acqua e, sebbene riesca a sopravvivere con aw = 0,87-0,88, gli accrescimenti maggiori si verificano con aw attorno a 0,96-0,98. Una aw di circa 0,98 è anche l’optimum per la sintesi delle Fumonisine. F. verticillioides, quindi, è favorito da un clima temperato-caldo e, come si vedrà tra poco, meno umido di quello necessario a F. graminearum, condizio-
10 Poiché F. graminearum non produce la tossina T2, bisognerebbe prendere in esame anche F. sporotrichioides e F. poae. Ciò viene omesso sia per la minore presenza di questi due funghi nei marciumi rossi, sia per la minore importanza delle tossine da essi prodotte. Queste ultime, infatti, pur essendo molto più tossiche delle altre (TDI provvisoria= 0,06 μg/Kg p. c.) risultano raramente presenti a livelli preoccupanti e, per il momento, i relativi limiti di legge sono ancora allo studio (Reg. CE 856/2005).
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ni che nella Pianura Padana si verificano normalmente tutti gli anni nel corso della stagione vegetativa del mais. Per tale motivo, seppur con qualche fluttuazione, le Fumonisine sono presenti nella granella in quantità considerevoli e regolarmente tutti gli anni. 1.3.1.2 Sopravvivenza, dispersione nell’ambiente e modalità d’infezione F. verticillioides generalmente non viene considerato un patogeno principale del mais poiché, almeno fino ad ora, non viene ritenuto in grado di causare danni di rilievo economico alla coltura. Esso, in effetti, se si escludono gli attacchi alla spiga di cui si parlerà tra poco, può dare solo in casi particolari qualche problema di moria delle piantine o essere associato a marciumi dello stocco. L’infezione delle piante di mais può avvenire in tre modi: 1) da seme endofiticamente infetto, cioè apparentemente sano ma ospitante al suo interno il F. verticillioides; 2) attraverso le sete ad opera di conidi provenienti dall’inoculo conservato nel terreno; 3) come conseguenza degli attacchi di Piralide. 1) Infezioni endofitiche La granella di mais, quasi regolarmente, contiene al suo interno il F. verticillioides11 . La semina di questa granella può dare origine a piante con infezioni endofitiche. Questo fungo, infatti, non è dotato di grande virulenza, pertanto, nel mais in buone condizioni di vegetazione può comportarsi come endofita, ovvero può svilupparsi all’interno della pianta, convivendo con essa senza dare alcun sintomo osservabile ma producendo Fumonisine, in quantità crescente quanto più il mais si trova a vegetare in condizioni distanti da quelle ottimali12 . Seguendo l’accrescimento della pianta apparentemente sana, F. verticillioides può giungere, sempre per via endofitica, fino alle cariossidi che si stanno formando e queste possono maturare senza evidenziare alcun sintomo, ma ospitando al loro interno il fungo. Se questa granella viene seminata il ciclo può ripetersi. Le infezioni endofitiche possono derivare anche dall’inoculo di F. verticillioides presente nel terreno. In questo caso le plantule di mais si infettano precoce-
11 Negli ambienti del Nord-Est Italia la granella di mais contiene F. verticillioides in percentuali variabili che spesso sono molto superiori al 50%. Il fungo si trova quasi sempre nel pedicello (“punta”) della cariosside, ovvero nell’area immediatamente vicina al punto in cui essa è inserita nel tutolo e, seppur più raramente, può essere rilevato in percentuali minori anche nelle porzioni più a valle 12 Ovvero in condizioni di stress di qualsiasi natura, non solo siccità.
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mente attraverso l’apparato radicale e il fungo poi si svilupperà all’interno della pianta senza originare sintomi, nel modo e con le conseguenze appena descritte. L’esistenza di infezioni di questo tipo può spiegare la presenza di granella apparentemente sana ma con un contenuto non indifferente di Fumonisine. 2) Infezioni attraverso le sete F. verticillioides è dotato di ottime capacità saprofitarie e si conserva nel terreno sui residui colturali infetti. In questo modo supera le condizioni ambientali sfavorevoli dell’inverno e riesce a sopravvivere 21 mesi e forse anche più. Per questo motivo molti ritengono che l’interramento dei residui colturali non dia alcun pratico vantaggio ma, ovviamente, ciò è da riferire ai casi di omosuccessione o di avvicendamenti colturali dove le piante suscettibili all’attacco di questo fungo ritornino ad intervalli inferiori ai due anni. Trascorso l’inverno, quando le temperature si fanno più miti, dal micelio presente nel terreno si produce una elevatissima massa di conidi che, grazie ai movimenti dell’aria e agli schizzi di pioggia, viene dispersa nell’ambiente13 . Se questi propaguli giungono sulle sete del mais quando queste sono prossime alla senescenza, essi possono germinare e originare ife che, accrescendosi lungo le sete stesse, raggiungono le cariossidi in formazione e vi penetrano, situandosi al loro interno. Questa granella può svilupparsi in un modo apparentemente normale, sembrando del tutto sana, ma, come già visto, risulterà contaminata da Fumonisine in modo tanto maggiore quanto più la pianta avrà attraversato periodi di stress. In alternativa, in situazioni ambientali14 particolarmente favorevoli per il fungo e sfavorevoli per la pianta, l’infezione può abbandonare la sua veste endofitica ed evolvere in marciume rosa della spiga. Alcuni studiosi pensano che la principale via d’infezione del mais sia proprio quella attraverso le sete. 3) Infezioni favorite dagli attacchi di Piralide I conidi possono infettare il mais anche in epoche successive alla fioritura15 , fino alla raccolta compresa. Ciò avviene grazie alla presenza di lesioni di
13 Il “volo” dei conidi di F. verticillioides può ridurre l’eventuale vantaggio derivante dall’interramento dei residui colturali se tale pratica non viene adottata su superfici estese. 14 Le situazioni che favoriscono il marciume sono alta umidità, temperature moderato-calde, stress della pianta, lesioni della cariosside. 15 La presenza di F. verticillioides nelle cariossidi comincia a diventare rilevabile nella fase di maturazione lattea e raggiunge il massimo quando la granella raggiunge umidità prossime al 20%.
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qualsiasi tipo come danni da grandine, uccelli, insetti, ecc. Il fungo, infatti, data la sua limitata virulenza, sfrutta queste soluzioni di continuità come vie privilegiate d’infezione. A questo proposito, i danni (fori e rosure) causati dalla Piralide sono ritenuti il fattore probabilmente più importante nel determinare l’attacco alla spiga poiché favoriscono in modo formidabile l’aggressione di F. verticillioides e l’accumulo di Fumonisine16 . Oltre a questo, l’insetto, attraverso i suoi movimenti sulla pianta e tra le piante, contribuisce alla diffusione del fungo poiché si imbratta di propaguli quando si trova nelle zone dove F. verticillioides si sta sviluppando e li trasferisce in altre aree dove esso non è ancora presente. Per questo motivo la lotta alla Piralide17 è utilissima per contenere la contaminazione da Fumonisine. Qualsiasi sia il tipo di infezione, ritardare la raccolta costituisce sempre un elemento negativo poiché mantiene in campo le spighe in un momento in cui ormai la pianta ha concluso il suo ciclo vegetativo ed è facilmente colonizzabile da F. verticillioides che è fortemente favorito dalla situazione climatica che si instaura nei nostri ambienti a fine estate-inizio autunno, soprattutto se le temperature sono ancora tiepide e con buona umidità. In questa situazione l’accumulo di Fumonisine continua finchè l’umidità della granella non scende sotto il 20-18%. L’anticipo dell’epoca di semina può anticipare l’intero ciclo del mais con notevoli vantaggi sia per le infezioni durante la fase di coltivazione sia per la possibilità di anticipare anche la raccolta. Lo stesso discorso vale anche per la precocità degli ibridi: quelli a ciclo più corto, normalmente daranno meno problemi dei tardivi. Ovviamente, sono invece da evitare tutte le situazioni che tendono ad allungare il periodo vegetativo del mais (es. pesanti concimazioni azotate18 ). 1.3.1.3 Sintomi in campo del marciume rosa o rosato Nella maggioranza dei casi il marciume si sviluppa nella parte apicale della spiga, anche se non sono rare infezioni nella parte intermedia e basale. In queste aree si sviluppa una muffa, dapprima bianca, poi con sfumature rosate che col tempo si fanno più intense e possono diventare anche rosa salmone o assumere sfumature color lavanda. La muffa si sviluppa sulle cariossidi e tra esse e interessa sia vaste aree, sia piccoli gruppi di cariossidi che cariossidi isolate, sparse lungo la spiga. Sulla granella, in assenza di muffa,
16 Si stima che gli attacchi di Piralide, favorendo le infezioni di F. verticillioides, siano responsabili del 50% e oltre della Fumonisina presente nella granella di mais. 17 Anche il mais Bt, modificato geneticamente, può dare risultati in questo senso, ma attualmente non è legalmente utilizzabile nel nostro Paese. 18 Attenzione: un insufficiente apporto di Azoto è causa di stress, indebolisce la pianta e favorisce le infezioni di F. verticillioides
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Starbust. Sintomi di starbust sulla granella causati da F. Verticillioides
Marciume rosa della spiga causato da F. verticillioides
può svilupparsi un altro sintomo detto “starbust” che consiste in una fitta serie di striature bianche che si dipartono a stella dal punto dove la seta era inserita sulla cariosside. Le striature altro non sono che le vie lungo le quali F. verticillioides, provenendo dalle sete, si è accresciuto negli strati più esterni del grano, consumando i tessuti; in questo modo si formano dei sottilissimi canali nei quali entra aria che interrompe la trasparenza del pericarpo impedendo di vedere lo strato di aleurone giallo sottostante. Ricordiamo ancora l’infezione endofitica della granella che non provoca alcun sintomo visibile ma è comunque causa di contaminazioni da Fumonisine. 1.3.1.4 Post-raccolta Da quanto finora esposto appare evidente che i problemi da Fusarium si creano in campo e solamente errori grossolani in raccolta e post-raccolta possono accentuarli. La proliferazione del fungo durante lo stoccaggio sarà favorita da: • trebbiature mal eseguite, che abbiano creato lesioni e rotture alla granella che favoriscono l’infezione; • soste prolungate prima dell’essiccazione durante le quali i Fusaria continuano a svilupparsi; • umidità di conservazione troppo alta, ricordiamo che il 18% di umidità rap-
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presenta il limite minimo poco oltre il quale possono già iniziare attacchi da parte di F. verticillioides19 . 1.3.2 Marciumi rossi, Fusarium graminearum, DON e Zearalenone 1.3.2.1 Influenza della temperatura e dell’umidità F. graminearum è favorito da temperature leggermente più fresche; per esso infatti, l’optimum si colloca tra i 24 e i 26 °C e cresce male sopra i 35 °C. È anche più esigente per quanto riguarda l’umidità rispetto al F. verticillioides e richiede una aw minima di 0,9 per poter crescere. La maggior sintesi di DON nella granella di mais avviene nell’intervallo di temperature tra 21 e 29,5 °C20 con una umidità alta che deve essere maggiore del 20% o ancor meglio del 22-25%. Questi livelli di umidità sono necessari anche per la produzione dello Zearalenone, che però avviene meglio in un intervallo che comprende temperature anche più fresche: 18-29,5 °C. Nelle normali condizioni climatiche della Pianura Padana, le proliferazioni di F. graminearum non sono attese tutti gli anni, ma solo nelle annate fresche e piovose e soprattutto nelle aree di Nord-Ovest o più settentrionali rispetto al corso del Po. Oltre a ciò, pur essendo le esigenze termo-igrometriche di F. graminearum e F. verticillioides molto vicine, il secondo dei due si trova maggiormente favorito dal tipico clima della Pianura Padana e riesce a competere con maggiore efficacia, sovrastando lo sviluppo di F. graminearum. Solo quando la raccolta del mais viene protratta molto oltre i normali termini e quindi le temperature rinfrescano un po’ e aumenta la probabilità di pioggia, si può assistere ad un ribaltamento della situazione e F. graminearum si sviluppa più facilmente di F. verticillioides che, invece, viene sensibilmente inibito. In generale, quindi, nel nostro Paese il mais non risulta particolarmente colpito da DON e Zearalenone che solo saltuariamente e localmente raggiungono le concentrazioni limite proposte in questo momento dal Reg. CE 856/2005. 1.3.2.2 Sopravvivenza, dispersione nell’ambiente e modalità d’infezione F. graminearum viene considerato un patogeno principale del mais poiché ne può causare il marciume dello stocco. Esso, quindi è in grado di attaccare la pianta anche senza che vi siano particolari stati di stress da deficit e trova vantaggio se i tessuti vegetali sono succulenti, con epidermide e cuticola poco ispessiti (es. piante troppo rigogliose).
19 Come già visto per Aspergillus, la produzione di calore e umidità come risultato del metabolismo fungino, favorirà l’allargamento dell’infezione. 20 È stato notato che anche temperature variabili ciclicamente (es. 14-15 giorni a 25-28 °C seguiti da 20-28 giorni a 12-15 °C) hanno effetto positivo sulla sintesi di DON.
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Anche questo fungo è dotato di ottime capacità saprofitarie e si conserva nel terreno sui residui colturali infetti21 ; l’interramento di questi ultimi comporta un sensibile abbattimento dell’inoculo ma non la sua scomparsa: finchè i residui non vengono completamente distrutti (1-3 anni) si può avere dell’inoculo in grado di causare malattia sul mais. Per trarre vantaggio dalle operazioni di interramento, quindi, si dovranno attuare avvicendamenti con piante non sensibili al patogeno in modo che il mais, possibilmente, non ritorni sullo stesso appezzamento prima di tre anni22 . I residui di mais infetti, al momento in cui cadono nel terreno, normalmente già ospitano alcune strutture riproduttive23 del fungo; da queste e dal micelio, con la buona stagione si formeranno diversi tipi di propaguli che verranno disseminati nell’ambiente dai movimenti dell’aria e dagli schizzi di pioggia. In questo modo essi giungono sulle sete e vi germinano originando delle ife che si accrescono fino ad infettare la cariosside in formazione che, successivamente, evolverà il marciume rosso. In questa fase, le sete risultano maggiormente suscettibili quando sono ancora succulente e “fresche” e le condizioni ambientali sono caratterizzate da temperature fresche e pioggerelline frequenti. Se questo tipo di clima permane dalla fioritura in poi, ci si dovrà aspettare una forte incidenza del marciume rosso della spiga. Si possono avere anche infezioni tardive che, in questo caso, si stabiliscono preferenzialmente alla base della spiga. Esse accadono quando vi sono piogge intense verso la fine della stagione; in questo caso, soprattutto in ibridi che non reclinano la spiga alla maturità, l’acqua penetra dalla punta della pannocchia e scorrendo tra questa e le brattee si raccoglie alla base della spiga dove crea un micro-ambiente particolarmente favorevole alla malattia. Come già anticipato, la permanenza in campo del mais oltre il necessario, soprattutto in autunni piovosi e non molto rigidi, favorisce fortemente lo sviluppo di F. graminearum e l’accumulo di DON e Zearalenone. Per gli stessi motivi discussi per il marciume rosa, ci si aspetta un effetto positivo anche da un anticipo delle semine, dall’impiego di ibridi a ciclo corto e da una corretta concimazione azotata.
21 Può sopravvivere anche su residui di soia la quale, però, non ne risentirà in modo particolarmente negativo nell’annata successiva. Questo fatto dovrebbe essere tenuto in considerazione nel realizzare gli avvicendamenti colturali. 22 Purtroppo anche i propaguli di F. graminearum “volano” e quindi i vantaggi derivanti dall’interramento dei residui colturali saranno ridotti se non attuati su grandi superfici. 23 Si tratta dei periteci del fungo, fruttificazioni gamiche già presenti in autunno con ascospore non mature; queste matureranno con la buona stagione, eventualmente insieme a macro e micro-conidi, e costituiranno i propaguli che attueranno la disseminazione del fungo.
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1.3.2.3 Sintomi in campo del marciume rosso Anche in questo caso gli attacchi si situano con una certa preferenza all’apice della spiga; qui si sviluppa una muffa di colore rosa carico ma molto più frequentemente e tipicamente, rosso intenso, quasi vinoso. Se l’infezione ha preso l’avvio precocemente la spiga può essere completamente colpita e il micelio, crescendo sulle cariossidi, tra di esse, tra la spiga e le brattee e sulle brattee stesse, salda il tutto strettamente insieme in un unico ammasso. Sulla superficie di questo Marciume rosso della possono formarsi le fruttificazioni spiga causato da F. gamiche del fungo (periteci) che graminearum appaiono come corpi rotondeggianti molto piccoli e di colore Evoluzione del marciume rosso. Notare l’intenso nero. colore rosso-vinoso delF. graminearum può causare la muffa (micelio) marciume dello stocco, malattia importante che in questa sede non viene trattata. 1.3.2.4 Post-raccolta Vale quanto già esposto per i marciumi da F. verticillioides. 1.3.2.5 Fattori che favoriscono lo sviluppo dei Fusaria e possibilità di controllo Come si è visto, gli attacchi da F. verticillioides dipendono molto dal clima e dalla presenza di stress; questi ultimi possono essere causati da fattori che variano in relazione all’area geografica, all’annata, all’intensità di attacco della Piralide o altri parassiti e alla tecnica colturale impiegata. I diversi ibridi sono adattati in modo diverso ai nominati fattori, pertanto, sebbene non si possa parlare in senso stretto di ibridi specificamente resistenti al marciume rosa della spiga, la scelta delle varietà meglio adatte al luogo e alle tecniche di coltivazione adottate può dare risultati positivi. Oltre alla diversa suscettibilità delle varietà a granella con frattura vitrea o farinosa, sono comunque note alcune caratteristiche morfologiche vantaggiose quali: • cariossidi con pericarpo spesso e amido compatto; • spiga che non rimane eretta a maturità;
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• brattee strettamente avvolgenti la spiga, caratteristica che frena le infezioni di F. verticillioides ma purtroppo favorisce quelle di F. graminearum. Un’efficace lotta contro la Piralide è essenziale per contenere le infezioni di F. verticillioides e le contaminazioni da Fumonisine. Lo sviluppo di marciumi rossi, come si è detto, è favorito da condizioni climatiche fresche e piovose che si verifichino dalla fioritura in poi. F. graminearum è un patogeno principale del mais ed esistono degli ibridi ad esso tolleranti, ma questo carattere interessa soprattutto il marciume dello stocco. Esistono fonti di resistenza anche per il marciume rosso della spiga ma non sono molto diffuse nell’ambito delle varietà commercializzate, pertanto, anche in questo caso, per contenere il marciume della spiga si dovranno scegliere gli ibridi più adatti all’ambiente di coltivazione e seguire al meglio le buone pratiche di coltivazione. Oltre a quanto detto, per entrambi i funghi potranno essere utili molti dei suggerimenti già dati per l’Aspergillus: • realizzare una buona sistemazione idrica dei terreni; • attuare l’avvicendamento con colture non suscettibili ai Fusaria; • lavorare il terreno opportunamente e in modo da interrare i residui colturali; • concimare in modo equilibrato e adeguato alla fertilità del terreno, alla disponibilità d’acqua e alle esigenze dell’ibrido scelto; non esagerare con l’azoto (vedi anche nota 18); • mantenere la coltura il più possibile pulita dalle malerbe; • scegliere ibridi resistenti agli stress idrici e termici, adatti all’ambiente di coltura e con precocità tale che possano essere raccolti prima che le condizioni climatiche diventino estremamente favorevoli per i Fusaria; • scegliere l’epoca di semina in modo che il mais possa essere raccolto prima possibile; • scegliere investimenti che evitino gli stress da competizione; • irrigare, soprattutto nella fase di riempimento della cariosside ma, se possibile, ogni volta che si temono stress idrici per la pianta, anche di breve periodo; • per contenere le infezioni di F. verticillioides e l’accumulo di Fumonisine lottare contro la Piralide (NB: questo non ha grande effetto contro F. graminearum e le sue tossine); • eseguire il raccolto con umidità della granella non troppo bassa con trebbiatrici ben regolate e pulite; • essiccare il più presto possibile dopo la raccolta, evitando soste di giorni sul piazzale; • non essiccare a temperature troppo elevate, soprattutto la granella meno umida;
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• applicare le corrette pratiche di stoccaggio precedentemente discusse. Vi è anche la possibilità di controllo biologico di F. verticillioides attraverso l’impiego dell’endofita Acremonium zeae, lo stesso già visto per A. flavus, ma per il momento non vi sono sviluppi di pratica utilità. Si ricorda infine che, dato il citato antagonismo tra F. verticillioides e F. graminearum, vi è in genere concorrenza tra il marciume rosa e quello rosso della spiga.
1.4 Penicillium e Ocratossine Il genere Penicillium comprende svariate specie produttrici di più tipi di micotossine ma, limitando l’esame a ciò che riguarda il mais, è sufficiente considerare solo Penicillium verrucosum che su questa pianta può provocare contaminazioni da Ocratossina A. 1.4.1 Penicillium verrucosum e Ocratossina A P. verrucosum è l’unica specie del genere Penicillium ritenuta in grado di produrre Ocratossina A; è fondalmentalmente un fungo “da conservazione” e nei nostri ambienti non viene considerato un vero e proprio patogeno del mais. 1.4.2 Influenza della temperatura e dell’umidità Questo fungo è caratterizzato da una crescita lenta e può svilupparsi tra 0 e 31 °C, con un optimum di 20 °C; è anche in grado di tollerare bene condizioni relativamente asciutte, riuscendo a svilupparsi con aw di 0,80. L’Ocratossina A viene sintetizzata in tutto l’intervallo di temperature citato e quantità significative di questa tossina si possono produrre già a 4 °C e aw prossima a 0,86. Poiché P. verrucosum cresce a basse temperature, esso risulta maggiormente presente nei Paesi a clima temperato-fresco e infatti è diffuso nei cereali coltivati nell’Europa Centrale e Settentrionale e nel Canada. Non si trova quasi mai nelle principali aree maidicole del nostro Paese e, se compare, non è in campo ma tipicamente nel post-raccolta; per tali motivi nella granella di mais nazionale difficilmente si riscontrano contaminazioni di rilievo da Ocratossina A. 1.4.3 Sopravvivenza, dispersione nell’ambiente, modalità d’infezione, post-raccolta e sintomi P. verrucosum è dotato di ottime capacità saprofitarie, pertanto può sopravvivere nei residui colturali nel terreno e anche nella sporcizia che può accumularsi in locali e strutture di conservazione, essendo favorito in questo anche dalla sua resistenza alle basse temperature e tolleranza alla scarsa umidità. Appena le condizioni climatiche lo permettono produce una gran massa di
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Marciume verde della spiga da Penicillio
conidi leggeri e secchi che vengono facilmente diffusi nell’ambiente dai movimenti dell’aria; se questi propaguli giungono sulla spiga trovandovi delle lesioni (danni da grandine, insetti ecc.) possono germinare e infettare le cariossidi provocandone il marciume. Questo, generalmente, è situato in aree poste nella parte apicale della spiga. Qui si sviluppa una muffa finemente polverulenta, di colore grigioverde o grigio-verde con sfumature bluastre, che cresce sulle cariossidi e tra esse, arrivando fino al tutolo che assume le medesime colorazioni verdastre. Le cariossidi attaccate possono anche presentarsi di colore stinto e con striature sbiancate. Questo fungo può svilupparsi in post-raccolta su granella lesionata e conservata ad umidità maggiore del 15-18%; in questo caso se il Penicillio invade l’embrione, può svilupparsi su esso causandone una colorazione anomala, blu-verdastra, che per trasparenza diviene visibile dall’esterno e viene detta “Blue eye” (Occhio blu)24 . Nei nostri ambienti marciumi della spiga confondibili con quelli appena descritti derivano molto più frequentemente da altre specie non produttrici di Ocratossina A; tra queste si segnala P. oxalicum che, diversamente dagli altri Penicillia, è favorito dal caldo.
1.4.4 Fattori che favoriscono lo sviluppo dei Penicillia e possibilità di controllo Come è già stato detto, nei nostri ambienti non sono attese in campo forti infezioni da P. verrucosum; comunque, le attenzioni nella scelta e coltivazione dell’ibrido, già esposte in precedenza, sono opportune anche in questo caso. Una particolare cura si dovrà porre nelle fasi di raccolta, essiccazione e stoccaggio in modo da evitare il più possibile di lesionare la granella e la formazione di accumuli, anche localizzati, di umidità. 24 Il sintomo del Blue eye può essere causato anche da Aspergillus glaucus, un fungo che può svilupparsi sulla granella anche con umidità del 14,5%.
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Riassumendo… Principali caratteristiche dei funghi tossigeni Aspergilli - A. flavus, A. parasiticus: producono aflatossine • condizioni favorevoli allo sviluppo: clima caldo-umido (90-98% U.R.), scarsa piovosità nel corso della stagione vegetativa del mais. • sintomi: muffa di aspetto granuloso e di colore verdastro sulle spighe infette e sul tutolo. • possibilità di controllo: evitare tutti i fattori che favoriscono stress idrici (irrigare da post-fioritura in poi), lo sviluppo di infestanti e carenze o eccessi nutrizionali; scegliere ibridi resistenti agli stress idrici e termici; anticipare correttamente l’epoca di semina; raccogliere, essiccare e stoccare la granella a umidità adeguata. Fusaria: - F. verticillioides, F. proliferatum e F. subglutinans: producono fumosine • condizioni favorevoli allo sviluppo: clima mite, non troppo fresco, attacchi di Piralide. • sintomi: marciume rosa sulla parte apicale della spiga; starbust sulla granella. • possibilità di controllo: scegliere ibridi adatti all’ambiente e alle tecniche di coltivazione, preferire le varietà a ciclo breve e eseguire semine tempestive; rispettare le buone pratiche agricole, lotta alla Piralide; in fase di raccolta e post-raccolta, evitare lesioni alla granella, soste prolungate prima dell’essiccazione e umidità di conservazione superiore al 18%. - F. graminearum, F. culmorum, F. sporotrichioides e F. poae: producono tricoteceni • condizioni favorevoli allo sviluppo: clima fresco e piovoso. • sintomi: marciume di colore rosso intenso sulla parte apicale della spiga; possibili fruttificazioni gamiche del fungo, di colore nero. • possibilità di controllo: scegliere ibridi adatti all’ambiente di coltivazione e non troppo tardivi, eseguire al meglio le buone pratiche agricole. Penicilli - P. verrucosum: produce ocratossina A • condizioni favorevoli allo sviluppo: clima fresco-temperato. • sintomi in campo: marciume verde; in post-raccolta, colorazione bluverdastra su granella lesionata. • possibilità di controllo: oltre al rispetto delle buone pratiche di coltivazione, evitare la formazione di accumuli di umidità nella fasi di raccolta, essiccazione e stoccaggio.
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Gestione del rischio micotossine nella filiera produttiva del mais Giuliano Mosca, Dipartimento Agronomia ambientale e Produzioni vegetali Università degli Studi di Padova
2.1 Introduzione Il frutto del mais può risultare contaminato da diversi inquinanti tra cui le micotossine. La loro scoperta risale alla fine degli anni ’60, allorquando alcune importanti intossicazioni animali, attribuite alle aflatossine si verificarono su vasta scala in Gran Bretagna. In questi casi intere partite di cereali possono venire scartate e non essere più commercializzate. È chiaro che nel regime di concorrenza globale nel quale si è immersi oggi, l’utilizzatore di prodotti agricoli si orienterà verso prodotti certificati, controllati, garantiti e privi di residui tossici; pertanto in primo luogo l’agricoltore deve, nel proprio interesse, preoccuparsi di garantire la qualità del suo prodotto. A tale scopo è consigliabile prevenire la contaminazione da funghi potenzialmente tossigeni lungo tutta la filiera produttiva del mais, a partire dalla fase campo dunque, piuttosto che adottare in secondo tempo dei procedimenti di decontaminazione e detossificazione difficili da praticare e sempre molto costosi. Durante la coltivazione è indispensabile realizzare condizioni agronomiche favorevoli all’accrescimento del cereale estivo e sfavorevoli alla comparsa e sviluppo di funghi. Infatti, se lo sviluppo di muffe non si realizza non si avrà formazione di micotossine e quindi il problema verrà risolto all’origine; tuttavia la presenza di muffe in forma più o meno visibile, non è elemento sufficiente a testimoniare la presenza/assenza di tossine sul prodotto finale. La prevenzione in campo si realizza tramite il rispetto di alcune semplici regole, che vengono di seguito descritte.
2.2 Influenza delle condizioni ambientali Vari Autori concordano sulla forte influenza del clima (periodi freddi e umidi o temperati e siccitosi durante la formazione e maturazione delle cariossidi) sulla tossinogenesi e sono concordi ancora sulla predominanza di questa o quella specie fungina e l’intensità delle contaminazioni.
2.3 Precessione colturale e lavorazioni del terreno È ben noto il significato agronomico dell’avvicendamento a proposito degli effetti positivi (bilancio dei nutrienti in rapporto alla concimazione, controllo delle malerbe, prevenzione indiretta delle fitopatie e degli insetti dannosi) e negativi indotti dal precedente o dai precedenti colturali sul mais.
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In termini più generali, l’alternanza delle colture deve prevalere sui casi di omosuccessione1 continua o comunque prolungata. Tale pratica infatti aumenta il rischio potenziale di comparsa di attacchi fungini sia sullo stocco che sulla granella, indotto in maniera più o meno manifesta dal precedente mais, specie se ha subito attacchi parassitari, o dai residui colturali dello stesso mais lasciati indecomposti sulla superficie del terreno per lungo tempo. La rotazione agraria non significa solamente avvicendare le coltivazioni sul medesimo appezzamento nel tempo, ma, cambiando coltura, è necessario alternare anche gli interventi preparatori da eseguire sul terreno, sia come intensità che come epoca di applicazione, influendo quindi sui processi di mineralizzazione e sul rilascio di una parte dei nutrienti secondo il noto principio della restituzione. Inoltre, significa interrare dei residui colturali appartenenti a diverse specie vegetali, differenti per quantità e composizione, stratificandoli con le lavorazioni in orizzonti diversi nella rizosfera2 a seconda della tipologia e della intensità della lavorazione principale adottata. Infine, ma non per questo meno rilevante, avvicendare le colture agrarie significa incidere sulla flora infestante sia in termini di entità reale (flora che emerge) che potenziale (seedbank: deposito dei semi delle infestanti nel terreno) e indirettamente favorire magari quelle specie fungine considerate ubiquitarie, fitopatogene, ma poco specifiche dei cereli che parassitizzano a diverso livello. Questi funghi sono perennanti e si mantengono nei terreni in inverno sui residui delle colture che colonizzano. Le tecniche di minima lavorazione o la non lavorazione con semina diretta, in combinazione alla monosuccessione prolungata di mais, prevedendo, oltre ad un leggero intervento, la semplice rottura delle stoppie sulla superficie del terreno e in alcuni casi l’applicazione di erbicidi di contatto per il controllo delle malerbe, potrebbero far aumentare il rischio potenziale nei confronti di una eventuale maggiore incidenza delle micotossine.
2.4 Influenza della scelta varietale I dettagli dei meccanismi d’infezione delle pannocchie e delle cariossidi di mais non sono ben conosciuti. Sembra tuttavia ormai accertato che il danno alle cariossidi provocato per esempio da insetti e uccelli, oppure la formazione di microfessure per eccesso di variazioni idrotermiche verso la fine della maturazione, siano dei fattori determinanti, anche nei comprensori irrigui. Di seguito vengono descritte le principali caratteristiche della pianta che possono influenzare la sanità delle cariossidi. 1 Leggasi monosuccessione continua di mais. 2 Rizosfera: strato di terreno entro cui si sviluppano le radici.
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• Tipologia della cariosside: il fungo (es. Fusarium) si insedia nei tessuti periferici della cariosside e sviluppa un micelio che progredisce verso l’embrione, ricco in lipidi, dove si può verificare o la morte del germe oppure una semplice residenzialità, propagando la malattia per seme l’anno seguente. La composizione dell’endosperma può influenzare la velocità della perdita di umidità, dopo la comparsa del black layer3; inoltre la profondità di inserimento della cariosside nel tutolo, oltre alla qualità del tutolo stesso (spugnoso o compatto), rappresentano altri due condizioni che possono favorire o meno la cessione di umidità all’atmosfera. D’altra parte alcuni ibridi di mais dolce, più ricchi in zuccheri, si sono dimostrati maggiormente sensibili agli attacchi precoci di F. moniliforme, suggerendo una relazione tra composizione biochimica della cariosside e sensibilità al fungo. Da tali osservazioni emerge chiaramente che la conoscenza della suscettibilità alle più frequenti specie di Fusarium delle varietà di mais attualmente coltivate è senza alcun dubbio utile per prevenire il rischio micotossico. • Classe di maturazione dell’ibrido: la scelta della corretta precocità gioca un ruolo di prevenzione poiché il mais va considerato un cereale a rischio nei riguardi delle tossine prodotte da specie fungine quali, ad esempio, quelle appartenenti al genere Fusarium. Infatti nei casi di impiego di ibridi troppo tardivi e/o di semine ritardate, la maturazione decorre in condizioni ambientali talvolta troppo umide e così dicasi per la raccolta. In questi casi l’umidità della granella risulta sovente troppo elevata (25-35%) e spesso la successiva essiccazione viene effettuata troppo lentamente, condizioni sfavorevoli per una buona conservazione del cereale. Al momento della raccolta, si consiglia di evitare a tutti i costi i pre-stoccaggi di derrate umide, anche se per brevi periodi. Infatti F. moniliforme contamina frequentemente il mais nel corso del ciclo vegetativo ed è in grado di elaborare della fumonisina tanto più facilmente e abbondantemente quanto più il mais si troverà al suo livello massimo di umidità. • Fisiologia dell’ibrido: la disponibilità e l’impiego di ibridi così detti stay green4 (più o meno lunghi) garantisce da un lato un migliore riempimento delle cariossidi e dall’altro una maggiore e prolungata presenza di zuccheri nelle parti vegetative, offrendo una sia pur debole barriera naturale agli attacchi fungini tipici delle ultime fasi estive del ciclo; tuttavia se al carattere
3 Black layer o linea nera: scudetto cicatriziale che impedisce il deposito di altre sostanze di riserva. 4 Stay green: carattere che conferisce all’ibrido la capacità di rimanere verde a lungo.
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stay green si abbina una classe di maturazione elevata (600-700), si osserva un rallentamento nella perdita di umidità delle cariossidi, fattore che potrebbe aumentare il rischio di contaminazione. • Brattee, lunghezza del peduncolo e portamento della pannocchia: la presenza di brattee spesse ed embricate sulla pannocchia congiuntamente a granella profondamente incisa nel tutolo e tutoli consistenti o peggio spugnosi sono fattori negativi, in quanto rallentano il processo di perdita di umidità in campo. Il portamento della pannocchia a maturità, per effetto anche della lunghezza del peduncolo alla sua base, può giocare un ruolo positivo nei casi in cui risulti pendulo. Le precipitazioni di tarda estate, con pannocchie pendule o reclinate, non dovrebbero aumentare il livello di rischio per le cariossidi.
2.5 Epoca di semina In rapporto alla durata del ciclo vegetativo, l’epoca di semina dovrà essere correttamente e adeguatamente anticipata, cioè a partire dalla seconda metà di marzo in poi, utilizzando ibridi costituiti attraverso breeding specifico per la resistenza al freddo.
2.6 Densità di semina La densità di popolamento in campo può manifestare delle interazioni con il microclima all’interno della coltura. Colture eccessivamente fitte (oltre le 7 piante m-2) faranno innalzare la temperatura per effetto di un anomalo ricambio di atmosfera entro il campo coltivato. In questi casi si potranno osservare anche degli effetti sulla durata del ciclo, anticipandone la chiusura per aumento della competizione.
2.7 Prevenzione degli stati di stress Allo scopo di attenuare per quanto possibile il rischio tossigeno sul prodotto raccolto, è di fondamentale importanza prevenire i principali stati di stress che la coltura del mais può incontrare, in particolare è necessario porre attenzione alla nutrizione minerale e idrica da un lato e al controllo delle malerbe dall’altro. Ci potrebbe essere un effetto promotore di certe pratiche colturali, quali irrigazione e concimazione intensive ad esempio, sullo sviluppo di alcune infezioni in campo. Alcuni fungicidi fogliari aumenterebbero, per reazione, l’intensità della micogenesi. In mancanza di dati specifici ottenuti sul campo difficilmente si può collegare l’intensità di presenza del fungo con la concentrazione in tossine nel “seme”.
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Anche un accurato controllo delle malerbe, specie di quelle che possono funzionare da ponte con la coltura del mais, serve a contenere o addirittura eliminare lo stress competitivo.
2.8 Epoca e modalità di raccolta Come già accennato, si deve considerare il mais come un cereale a rischio per quanto concerne le tossine dovute in particolare alle specie fungine appartenenti al genere Fusarium, poiché spesso, anche nel nostro Paese, è raccolto tardivamente, in condizioni climatiche talvolta sfavorevoli e ad elevato rischio di tossicità. L’umidità della granella in questi casi può risultare particolarmente elevata, specie se compresa tra il 25 e il 35%. Infatti, se con il 12-13% di umidità il mais può venire stabilmente conservato senza problemi, nel caso in cui il cereale venga invece conservato impropriamente, esso è esposto al rischio di ammuffimento anche grave. Una tale condizione assume risvolti di particolare gravità, dato che le muffe possono produrre composti (ad esempio, aflatossine) di straordinaria tossicità.
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Riassumendo… La prevenzione in campo • Praticare l’avvicendamento colturale, in modo da ridurre il rischio di attacchi fungini favorendo il controllo degli agenti tossigeni che permangono nei residui colturali. • Eseguire adeguati interventi preparatori del letto di semina. L’applicazione delle buone pratiche agricole favorisce inoltre i processi di mineralizzazione, il rilascio dei nutrienti e il controllo delle infestanti. • Nella scelta varietale, porre attenzione alla suscettibilità dei vari ibridi di mais attualmente coltivati alle più frequenti specie di Fusarium: prediligere le varietà “stay green”, tolleranti agli stress idrici, con precocità tale da permettere una raccolta ad umidità della granella inferiore al 25-30% e in condizioni climatiche non eccessivamente umide. • Anticipare l’epoca di semina quando la temperatura del terreno si aggira intorno agli 8-10 °C, utilizzando ibridi resistenti al freddo. • Evitare una densità di semina eccessiva (oltre le 7 piante m-2), attenendosi alle indicazioni fornite dalle ditte sementiere in base alla classe prescelta. • Prevenire gli stati di carenza idrica e nutrizionale attraverso un adeguato controllo delle infestanti e un corretto programma di irrigazione e concimazione, evitando stress idrici successivi e carenze o eccessi di azoto. • In fase di raccolta, evitare condizioni climatiche eccessivamente umide.
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Insetti dannosi al mais e micotossine Lorenzo Furlan, Consorzio di Bonifica Basso Piave, S. Donà di Piave, Venezia Carlo Duso, Dipartimento di Agronomia ambientale e produzioni vegetali, Università degli Studi di Padova
3.1 Introduzione Gli insetti dannosi al mais si possono dividere tradizionalmente in due gruppi: 1) specie che attaccano il seme e le piante nelle prime fasi di sviluppo nonché, successivamente, l’apparato radicale e, 2) specie che attaccano la parte aerea della pianta. Alcuni parassiti, come la diabrotica (Diabrotica virgifera virgifera), sfuggono a questa suddivisione in quanto le larve danneggiano l’apparato radicale e gli adulti l’apparato aereo delle piante. In entrambi i gruppi vi sono poi specie che arrecano danni economici con una certa frequenza o che raggiungono raramente livelli di popolazione tali da arrecare danni alla coltura. Tra le specie più dannose al seme e alle piante nelle prime fasi di sviluppo, vi sono alcuni coleotteri elateridi (in particolare Agriotes brevis e Agriotes sordidus). Si calcola che ogni anno questi coleotteri causino gravi danni, costringendo alla risemina, su meno del 1% della superficie investita a mais del Veneto; più comunemente (4-5% dei terreni coltivati a mais), i sintomi dell’attacco si osservano sul 5-10% delle piante. Tra i lepidotteri, le nottue, in particolare l’agrotide (Agrotis ipsilon), hanno causato danni ingenti su migliaia di ettari nel 1970 e nel 1983, ma recentemente manifestano pullulazioni meno intense e più localizzate. Tra le specie che raggiungono raramente livelli dannosi, possiamo citare il lepidottero crambide Angustalius malacellus, il dittero antomiide Phorbia platura, i coleotteri scarabeidi Pentodon punctatus e Amphimallon spp. e il coleottero carabide Clivina fossor. Tra gli insetti che attaccano la parte aerea delle piante di mais, il più importante è la piralide (Ostrinia nubilalis). La generalità degli appezzamenti a mais subisce ogni anno attacchi di piralide ma, in molti casi, essi non sembrano comportare una riduzione significativa della produzione. Pertanto, la convenienza economica di eventuali trattamenti insetticidi è oggetto di discussione. Tuttavia, rimane da valutare con grande attenzione l’influenza dei trattamenti sulla qualità del prodotto, comprendendo con questo termine anche il contenuto di micotossine. Le infestazioni dei lepidotteri nottuidi Sesamia cretica e Sesamia nonagrioides possono risultare importanti negli ambienti maidicoli dell’Italia centro-meridionale. Tra le specie che causano raramente danni economici è possibile citare alcuni afidi (Rhopalosiphum maidis e Sitobion spp.), tripidi e acari tetranichidi, come il ragnetto rosso comune (Tetranychus urticae).
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Relativamente ai problemi indotti dall’introduzione della diabrotica (coleottero crisomelide), è possibile affermare che l’opera di prevenzione e di monitoraggio posta in atto dagli Enti preposti del Veneto ha bloccato la diffusione dell’insetto nel territorio regionale. In linea teorica, molti tra i fitofagi sopra riportati possono favorire lo sviluppo dei funghi in grado di produrre tossine sia debilitando la pianta, che diviene più suscettibile, sia creando vie di penetrazione per i funghi durante l’attività di alimentazione o veicolando gli agenti patogeni. Le specie più temibili sono quelle che attaccano la parte aerea e che possono raggiungere livelli di popolazione consistenti su ampie superfici. Nel Veneto, l’unica specie che attualmente riunisce queste caratteristiche è la piralide del mais.
3.2 Cenni su biologia e comportamento della piralide del mais La piralide del mais, Ostrinia nubilalis, è una specie di origine eurasiatica ampiamente diffusa in Europa e America settentrionale. Gli adulti (apertura alare di 20-30 mm) presentano ali anteriori di colore ocra più o meno intenso e variegato a seconda della popolazione e del sesso. Le uova, appiattite, sono deposte all’interno di ovature di qualche decina di elementi. In piena estate, le uova appena deposte sono di colore bianco, poi diventano più scure; tra il quarto e il quinto giorno di vita si notano al centro di ciascun uovo delle macchie nere che rappresentano il capo delle larve di primo stadio e testimoniano l’imminente schiusura. Le larve mature, di colore grigiastro e punteggiate di nero, raggiungono dimensioni massime di 25 mm. È una specie che, oltre al mais, può infestare svariate colture erbacee (ad es. sorgo, fagiolo, peperone, canapa) e arrecare danni saltuari alle colture contigue agli appezzamenti a mais (ad es. melo e vite). Infine, può evolvere a spese di specie erbacee spontanee, comprese alcune comuni infestanti del mais. Nei climi caldi, la piralide può svolgere fino a 6 generazioni. In alcuni ambienti della Pianura padana sembra possano coesistere due razze in grado di sviluppare rispettivamente una o due generazioni. Nel Veneto, la piralide svolge di norma 2 generazioni ma sono stati raccolti elementi a favore dello sviluppo di una terza generazione in alcune annate favorevoli. Le informazioni biologiche più accurate sono disponibili per la razza che compie due generazioni. La piralide trascorre l’inverno allo stadio di larva matura riparata entro residui colturali e vari anfratti. In primavera, le larve si trasformano in crisalidi e gli adulti della prima generazione sfarfallano dalla fine di maggio all’inizio di luglio; in alcune annate sono possibili ritardi di 10-15 giorni rispetto all’epoca indicata. Lo sfarfallamento dei maschi può precedere di pochi giorni quello delle femmine. Gli adulti sono attivi dal crepuscolo alla
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notte. Dopo l’accoppiamento, le femmine fecondate depongono placche di uova (ovature) sulle foglie o sul fusto di piante che hanno un’altezza di circa 40-50 cm. Le giovani larve raggiungono densità consistenti a partire dalla seconda metà di giugno. Esse producono erosioni sulle foglie arrotolate che, una volta distese, mostrano serie di piccoli fori; in seguito, penetrano all’interno del culmo entro cui scavano gallerie. In luglio, le larve mature si trasformano in crisalidi all’interno della pianta e i nuovi adulti sfarfallano a partire dalla metà del mese. Questo volo può essere molto prolungato e manifestare dei picchi di intensità tra la fine di luglio e la prima decade di agosto; di norma si completa nella seconda decade di settembre. Le femmine feconde depongono le uova principalmente sulla pagina inferiore delle foglie verdi, in misura inferiore sulle brattee e gli stimmi della spiga. Le larve di questa generazione, numerose da fine luglio-inizio agosto, forano le brattee o il culmo e possono danneggiare le cariossidi, in particolare quelle poste all’apice della spiga e il tutolo. Inoltre, esse scavano gallerie nei fusti indebolendo le piante e provocando rotture sopra o sotto la spiga. Quindi, le larve mature ricercano dei siti ove trascorrere l’inverno. In alcune annate, sono stati evidenziati tre picchi di catture di cui l’ultimo, particolarmente consistente, tra la fine di agosto e la prima decade di settembre, suggerisce l’avvio di una terza generazione. È plausibile che questa generazione larvale si sviluppi anche a spese di piante più recettive del mais. L’attività alimentare della piralide si riflette sulla produttività delle piante ma soprattutto sulla rottura degli stocchi e sulla perdita di spighe. Le erosioni della granella possono favorire l’insorgenza di muffe ( ad es. Fusarium) cui sono associate micotossine. La piralide promuove le infezioni di Fusarium aprendo le vie d’ingresso e trasportando il fungo, nonché stressando le piante. È stato dimostrato che la piralide può aumentare l’entità delle infestazioni di alcuni Fusarium (ad es. F. verticilliodes) nella spiga e delle fumonisine (in particolare della fumonisina B1) nella granella. La relazione tra la piralide e gli altri Fusarium (ad es. F. graminearum) è meno chiara. Infatti, F. verticilliodes, a differenza di F. graminearum, si ritrova nei tessuti lesionati dall’insetto. L’andamento delle popolazioni e la dannosità della piralide sono stati oggetto di osservazioni per decenni negli ambienti veneti e friulani. In prima generazione, la percentuale di piante che presenta sintomi dell’attacco (la serie di fori) può raggiungere comunemente percentuali che variano tra il 30 e il 70%. A tali entità non sembrano corrispondere sostanziali ripercussioni negative sulla produzione. Tuttavia, se l’ibrido è seminato con una certa precocità, le larve possono essere attive quando avviene la formazione della spiga e causare danni più consistenti. La seconda generazione invece provoca attacchi visibili sulla maggior parte delle piante di un appezzamento ma l’intensità
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dell’attacco, espressa in numero di larve per pianta, è molto variabile (fino a 11 larve per pianta, ai primi di settembre). All’aumentare della densità di larve, aumentano sia la percentuale di piante che presentano danni al peduncolo della spiga sia l’incidenza delle piante stroncate. Tuttavia, il numero di spighe perso alla raccolta e delle piante stroncate dipende anche dall’andamento climatico e dagli attacchi di patogeni. Nelle osservazioni recenti effettuate nel Veneto, su colture prossime alla raccolta, il numero di larve per pianta è oscillato tra 0.6 (nel 2000) a circa 2 (negli altri anni). Parallelamente, il numero di tunnel per pianta è variato tra 0,6 (lunghezza media dei tunnel di 0,12 cm) nel 2000, a 10,3 (con lunghezza media dei tunnel di 37 cm) nel 1999. Le perdite di produzione (in rapporto al più efficace dei trattamenti) sono oscillate su valori variabili tra 0 e 13%. In altri ambienti si è stimato che le perdite di produzione variano dal 5% al 30% a seconda dell’annata. Studi preliminari indicano una certa correlazione tra entità delle catture con le trappole luminose e danno alla coltura.
3.3 Il monitoraggio della piralide L’efficacia degli interventi di lotta si basa sulla conoscenza delle fasi di ovideposizione che precedono la presenza delle larve dannose alle piante. La presenza delle ovature sulle piante può essere stimata: a) indirettamente, in base alla cattura degli adulti con le trappole; b) direttamente, osservando le foglie e le spighe all’interno degli appezzamenti. Le trappole per monitorare il volo degli adulti di piralide sono di tipologia diversa: • trappole a feromoni sessuali: per la piralide esistono due componenti note del feromone, chiamate (Z) e (E)-11-tetradecenyl acetato. Queste trappole catturano maschi e forniscono indicazioni indirette sulla presenza di femmine fecondate. L’efficacia delle trappole a feromoni non è sempre soddisfacente ed è difficile correlare l’andamento delle catture con l’effettiva presenza di ovature o di larve in campo. A parità di miscela di feromone, le trappole a forma di cono in rete (altezza 75 cm, apertura alla base 25 cm, apertura superiore 3,5 cm) sono più efficaci delle trappole a pagoda. Nel corso di esperienze effettuate con attrattivi sintetici sono state individuate alcune sostanze attive nel catturare sia maschi sia femmine. Una delle sostanze più interessanti è la fenilacetaldeide. Le trappole a feromoni (a cono di rete) possono essere “innescate” con fenilacetaldeide ottenendo informazioni dirette sulla comparsa e l’abbondanza delle femmine che è correlata in qualche misura con l’intensità dei danni. • trappole luminose, che sfruttano la tendenza degli adulti a muoversi verso le fonti di luce presenti nella notte.
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L’attività di attrazione degli adulti da parte delle trappole a feromoni o alimentari è di norma inferiore rispetto a quella delle trappole luminose che tuttavia richiedono un’analisi del materiale catturato ad opera di esperti (identificazione della specie e rapporto tra maschi e femmine). La presenza delle ovature si osserva a pochi giorni dall’inizio degli sfarfallamenti e la massima densità delle ovature si riscontra a 7-8 giorni dal picco delle catture. Tale indicazione è fondamentale per gli eventuali interventi di lotta chimica o microbiologica. Le ovature sono deposte sulle parti verdi delle piante, preferibilmente su superfici lisce come la pagina inferiore delle foglie. Ai fini pratici, il campionamento delle ovature dovrebbe iniziare 7-8 giorni dopo l’inizio dello sfarfallamento della seconda generazione. In questa fase, una stima della densità di ovature può essere ottenuta osservando settimanalmente un centinaio di piante scelte al centro di un paio di appezzamenti campione. Su queste piante si osservano la pagina inferiore di foglie inserite in posizione medio-alta della pianta (ad es. dall’inserzione della spiga in su), brattee della spiga e stimmi verdi se presenti. Successivamente, i campionamenti vanno effettuati sia sulla pagina inferiore sia su quella superiore di foglie poste sopra l’inserzione della spiga, su almeno 50 piante per appezzamento.
3.4 Pratiche agronomiche che influenzano le infestazioni Nel corso di alcune sperimentazioni si è inteso valutare l’influenza di alcune tecniche colturali sull’attacco della piralide. L’anticipo dell’epoca di semina (a metà marzo) e/o l’uso di ibridi precoci può comportare un leggero aumento dell’attacco in prima generazione ma anche una diminuzione dell’infestazione in seconda generazione, di norma più abbondante e dannosa. Per esprimere un giudizio su tale aspetto sono necessari dati di più annate poiché l’andamento climatico può modificare la fenologia della specie. La concimazione azotata non sembra influenzare in modo accentuato l’entità dell’infestazione di piralide: nel corso di alcune sperimentazioni sono state riscontrate percentuali d’infestazione inferiori su mais non concimato; allo stesso tempo, il mais più concimato è stato caratterizzato da una maggiore densità di gallerie nel corso di una stagione. La concimazione azotata non influisce sull’entità dell’ovideposizione ma forse ha un effetto positivo sull’attività larvale. L’irrigazione non ha esercitato effetti sull’entità degli attacchi. Negli USA, lo stress idrico non sembra influenzare il comportamento della piralide ma è stata osservata una maggior tendenza all’ovideposizione su appezzamenti irrigati. L’impiego di ibridi selezionati per la resistenza alla piralide (produttori del glucoside DIMBOA) non comporta effetti positivi rilevanti ai fini del contenimento della seconda generazione.
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3.5 Controllo biologico della piralide del mais Il ruolo dei predatori nel controllo della piralide appare modesto. La parassitizzazione naturale delle uova è generalmente apprezzabile mentre quella di larve e crisalidi di piralide è di solito modesta (valori medi del 36,4% sono stati calcolati in Friuli). I parassitoidi larvali sono soprattutto ditteri Tachinidi e imenotteri Icneumonidi, mentre i parassitoidi delle uova sono essenzialmente imenotteri Tricogrammatidi. La parassitizzazione delle uova da parte dei Tricogrammatidi (Trichogramma spp.) è frequente e tende ad aumentare con l’evoluzione delle generazioni, ma i livelli raggiunti non sono tali da impedire danni consistenti. Nel Veneto, a fine estate, sono stati osservati livelli di parassitizzazione fino a quasi il 70%. La distribuzione artificiale dei Trichogramma è stata tentata più volte nella Pianura padana e in Friuli-Venezia Giulia, con risultati positivi in relazione alla prima generazione ma insoddisfacenti in seconda generazione (al massimo 38-39% di ovature parassitizzate in Friuli). In altri ambienti del Nord Europa, ove la piralide svolge un’unica generazione (ad es. Francia e Germania), la distribuzione commerciale dei Trichogramma interessa migliaia di ettari e i risultati ottenuti sono spesso soddisfacenti. I trattamenti con preparati microbiologici (Bacillus thuringiensis) possono fornire livelli di protezione paragonabili ai prodotti chimici se la scelta del momento di intervento è particolarmente accurata. Tale aspetto è cruciale dal momento che la persistenza di questi prodotti è breve in rapporto all’evoluzione delle generazioni larvali.
3.6 Efficacia dei trattamenti insetticidi I trattamenti chimici, se necessari, devono essere indirizzati contro le larve di seconda generazione. I risultati dei trattamenti sono influenzati da molti fattori: momento del trattamento, tipo di insetticida, efficienza della macchina distributrice, tipologia di ibrido, livello di attacco, condizioni pedo-climatiche. I livelli di protezione ottenibili differiscono tra mais destinato alla raccolta cerosa o da granella e, per entrambi, tra semina di primo raccolto o di secondo raccolto (fine maggio-giugno). Le sperimentazioni svolte nel Veneto orientale negli ultimi anni hanno evidenziato come vi sia un’elevata variabilità, sia tra località sia tra gli anni, nei risultati ottenuti con i trattamenti insetticidi. a) Semina in primo raccolto - mais ceroso I trattamenti insetticidi, basati principalmente sull’impiego di piretroidi e, talora, di esteri fosforici, non hanno comportato miglioramenti significativi della produzione nelle prove effettuate in Veneto. Usualmente, lo sfarfallamento consistente della seconda generazione avviene pochi giorni prima della rac-
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colta e così il tempo a disposizione delle larve per danneggiare le piante risulta ridotto rispetto a quello disponibile in una coltura di mais da granella, che può essere soggetta anche all’attacco di larve di terza generazione. Relativamente al contenuto di micotossine, non si sono riscontrate differenze apprezzabili tra insilati derivanti da mais non trattato e trattato una o più volte con piretroidi. b) Semina in primo raccolto - mais da granella Nell’ambito della stessa stagione, le differenze nell’efficacia dei trattamenti possono essere sensibili, in funzione del momento di intervento e della fase fenologica della coltura. Un ritardo o un anticipo di una decina di giorni nella data del trattamento può vanificare completamente la sua efficacia. L’aumento del numero di interventi (2-3 interventi l’anno) non comporta miglioramenti sostanziali nella protezione della coltura, e nella conseguente resa, rispetto ad un solo intervento effettuato nel momento più opportuno. Un trattamento insetticida (i prodotti più usati sono i piretroidi, meno diffusi gli esteri fosforici e i regolatori della crescita) effettuato, subito dopo la fioritura ed in presenza di ovideposizioni, ottiene i migliori risultati nel controllo della specie. Nella scelta dell’insetticida va tenuto in particolare considerazione il tempo di carenza. Esso riduce l’attacco alle piante in termini di numero di fori, piante spezzate sopra la spiga, numero e lunghezza dei tunnel nello stocco. Tuttavia, le conseguenze in termini di incremento produttivo possono essere molto variabili ed in alcune zone e/o annate i vantaggi sono trascurabili indipendentemente dal prodotto o dal momento prescelto. In altre annate e situazioni si sono riscontrati aumenti medi produttivi variabili dal 6% al 13% nei casi in cui la scelta del prodotto e dell’epoca di intervento sono state ottimali. Pertanto, è possibile che i vantaggi conseguenti all’intervento insetticida non compensino il suo costo visti gli attuali prezzi del mais. c) Semine in secondo raccolto Il mais di secondo raccolto (in semina ritardata) risulta molto più soggetto a gravi attacchi di piralide per la concomitanza di due fattori: • le fasi più suscettibili della coltura si sovrappongono ai picchi di sfarfallamento e di ovideposizione della seconda e talora anche/o della terza generazione; • la minore disponibilità di mais ancora “verde” e di altre colture che possano attrarre le femmine feconde favorisce la concentrazione di femmine e di conseguenti ovideposizioni sulle piante di secondo raccolto. Le macchine distributrici con trampoli, specialmente quelle che presentano gli ugelli posizionati all’altezza della spiga ottengono buoni risultati in termini
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di efficacia nel controllo della piralide e di riduzione dell’effetto deriva dell’insetticida.
3.7 La riduzione dell’attacco di piralide riduce il contenuto di micotossine? Sono in corso numerose sperimentazioni tese a stabilire una correlazione tra il danno da piralide e la concentrazione di micotossine. I risultati sono molto variabili, spesso con differenze non statisticamente significative e pertanto allo stato attuale è possibile individuare solo delle tendenze. In generale, non sembra sussistere una relazione tra presenza di piralide e di aflatossine, mentre la riduzione dell’attacco di piralide (specie se rilevante), causata da trattamenti insetticidi spesso produce una riduzione della concentrazione di fumonisine. L’efficacia dei trattamenti sembra aumentare nelle stagioni più fresche. In alcuni casi sono variati i contenuti di zearelanone e di tricoteceni forse a causa della diminuita competizione con il Fusarium che produce le fumonisine. Le sperimentazioni atte ad individuare l’epoca d’intervento insetticida hanno dimostrato che, in generale, più si riduce l’attacco di piralide alla spiga più è probabile contenere l’insorgenza delle micotossine. Il momento del trattamento dovrebbe essere scelto considerando tre fattori: la fase fenologica della pianta, il volo delle femmine di piralide, la presenza di ovature sulle piante. I risultati finora raggiunti consentono di affermare che l’epoca migliore del trattamento si colloca a 7-10 giorni dall’inizio apprezzabile dello sfarfallamento della seconda generazione, in presenza delle prime ovature e all’inizio della comparsa degli stimmi femminili. Infine, va ricordato che i trattamenti insetticidi causano pesanti ripercussioni sugli equilibri biologici. In particolare, alcuni piretroidi sono molto tossici per acari ed insetti predatori, nonché per gli stessi imenotteri tricogrammatidi. È stato osservato che in altri ecosistemi agrari, i piretroidi possono indurre infestazioni del ragnetto rosso comune in quanto la loro repellenza causa una marcata dispersione degli acari dannosi che si ritrovano in una situazione ottimale per la diminuita presenza dei predatori. In Italia, allo stato attuale, non è consentito coltivare ibridi transgenici Bt (per il Bacillus thuringensis), tuttavia in alcune ricerche effettuate in altri Paesi l’impiego di ibridi Bt (che esprimono la proteina Cry 1A nelle cariossidi) è stato associato ad attacchi inferiori da parte di F. verticilliodes e F. proliferatum ed a concentrazioni di fumonisine inferiori rispetto agli ibridi non transgenici. Gli attacchi di piralide, nelle fasi riproduttive precoci del mais, hanno indotto concentrazioni relativamente elevate di fumonisine. In altre esperienze, è emerso che in seguito all’impiego di linee transgeniche non si sono ottenute sostan-
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ziali riduzioni negli attacchi di F. graminearum e neppure delle concentrazioni di tossine nella granella. Dall’insieme dei contributi presentati sembra esistere una notevole variabilità nell’efficacia degli ibridi transgenici nella riduzione della concentrazione di fumonisine.
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Riassumendo… Lotta alla Piralide La difesa del mais dalle fusariosi è affidata alla messa a punto di scelte agronomiche e colturali (ad es. coltivazione in ambienti climatici che non creano stress, rotazione, scelta delle varietà in funzione della resistenza e dell’epoca di maturazione) e al controllo delle infestazioni di piralide. Relativamente a quest’ultimo punto e alle condizioni dell’ambiente veneto, si ribadisce che: • è consigliabile impiegare trappole luminose per il monitoraggio del volo degli adulti di piralide sia per valutare l’abbondanza delle popolazioni sia per individuare il momento adatto per gli eventuali trattamenti; • le curve di sfarfallamento delle femmine vanno elaborate in relazione allo stadio fenologico della pianta ed in particolare alla comparsa degli stimmi; • l’osservazione delle ovature facilita l’individuazione del momento d’intervento; • gli eventuali trattamenti insetticidi vanno effettuati a circa 7-10 giorni dall’inizio dello sfarfallamento della seconda generazione, a patto che siano presenti le spighe tenendo conto nella scelta dell’insetticida dei tempo di carenza; • è opportuno impiegare macchine distributrici con trampoli che presentino gli ugelli orientati verso le spighe; • l’esecuzione di più interventi insetticidi di norma non aumenta l’efficacia ed è difficilmente sostenibile dal punto di vista economico nonché associata a pesanti ripercussioni sugli equilibri biologici; • alcune agrotecniche (es. anticipo dell’epoca di semina) possono causare una riduzione dell’impatto della seconda generazione di piralide.
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Raccolta, stoccaggio e conservazione Claudio Bonino, Emilio Gaspari, CALV - Consorzio Agrario Lombardo Veneto - Verona
Trebbiatura-raccolta • Effettuare la raccolta della granella con umidità compresa tra il 22 e il 24%. • Evitare la post-maturazione in pianta con livelli di umidità inferiori al 20%. • Coordinare tra produttori, raccoglitori ed essiccatori-stoccatori le operazioni di raccolta, essiccazione e stoccaggio in modo che siano effettuate entro 48 ore dalla raccolta. • Anticipare la raccolta e il successivo invio all’essiccazione nel caso di intense piogge: l’abbassamento termico e i possibili forti attacchi di Piralide aumentano il rischio di sviluppo di micotossine (aflatossine e fumonisina). • In fase di trebbiatura verificare che i giri del battitore e l’apertura del controbattitore (griglia) siano regolati in modo da limitare al massimo la rottura della granella, considerando la varietà, l’umidità e la forma della cariosside. • Evitare velocità di avanzamento elevate. • Diminuire i “giochi” di coclee ed elevatori, ed eliminare ad ogni cambio di partita i residui rimasti fermi negli spazi morti della trebbiatrice. • Dotare la parte crivellante della trebbiatrice di setacci che separano nel miglior modo possibile la granella dai residui vegetali, quali tutoli e pezzi di stocco. • Regolare correttamente la ventilazione per asportare le impurità senza perdite di granella. • Evitare la raccolta di spighe a contatto con il terreno attuando un’attenta e continua regolazione della testata della trebbia e verificare le condizioni di pulizia della granella. • Raccogliere a parte le zone di campo particolarmente stressate, individuate in precedenza, e inviare al centro d’essiccazione separatamente dall’intera partita. • Procedere, tra una partita e l’altra, ad un’accurata pulizia della trebbia utilizzando aria compressa, per eliminare tutti i residui fermi nelle parti fisse della macchina.
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Trasporto e trasferimento al centro di essiccazione Durante le eventuali attese del prodotto umido sui carri agricoli o sui piazzali di transito si attivano processi d’ossidazione e fermentazione, con sensibile perdita di sostanza secca e un progressivo aumento della temperatura. S’innesca, favorita dall’aumento della temperatura e dall’umidità della granella, una rapidissima proliferazione delle muffe già presenti (dal campo), con una capacità d’invasione proporzionale ai tempi di sosta. Per questo occorre ridurre al massimo i tempi di sosta del cereale verde e svolgere le seguenti operazioni: • Effettuare una pulizia accurata e sistematica dei mezzi di trasporto, in particolar modo sotto le sponde e, se presenti, anche nei pozzetti di scarico. • Effettuare regolare manutenzione degli automezzi, per evitare impreviste soste prolungate del cereale umido sul mezzo. • Nel caso di trasporto di materiali a rischio di contaminazioni, procedere regolarmente alla pulitura e disinfestazione dei mezzi. • Ridurre i tempi d’attesa sul camion per le analisi e lo scarico del cereale. • Predisporre un piano d’autocontrollo nel quale siano indicate le caratteristiche del mezzo e i relativi sistemi addottati per la pulizia prima e dopo il trasporto. • Trasportare partite il più possibile omogenee in termini di umidità, impurità, ed eventuale contaminazione fungina.
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Centro di raccolta Nella fase di accettazione e scarico della granella di mais verde, l’operatore del centro di conferimento, oltre alle normali verifiche e controlli sulla provenienza del cereale, procede alla campionatura e analisi rilevando: • Umidità del cereale. • Temperatura del cereale per verificare se già in una fase di surriscaldamento con un limite di 10 gradi in più della temperatura esterna. • Percentuale d’impurità (stimata) presente nel cereale. • Il tempo di permanenza in cumulo presso i centri di raccolta: con temperature esterne superiori ai 28-30 °C, non deve superare le 24 ore; con temperature inferiori ai 28 °C, non deve superare le 48 ore. • Attraverso una lampada ad ultravioletti, il livello di contaminazione fungina presente nei campioni rappresentativi della massa conferita. Tale verifica deve avvenire entro le 8 ore per essere attendibile. • Il rapporto tra i semi luminescenti e la quantità di campione utilizzato rappresentativo della massa. Esempio = Campione da 500 grammi con 0 semi luminescenti è considerato ESENTE. Campione da 500 grammi con 2 semi luminescenti è considerato a RISCHIO. Campione, da 500 grammi con oltre 2 semi luminescenti, è considerato NON ESENTE da muffe DA TRATTARE SEPARATAMENTE. Le partite di granella di mais verde, NON ESENTI DA TRATTARE, sono trasferite giornalmente in modo separato ai centri d’essiccazione. Va comunque sottolineato che il controllo della contaminazione fungina (ammuffimento) con lampada UV non è assolutamente correlabile con il livello di micotossine eventualmente presenti. Si rende pertanto necessario un accertamento analitico con applicazione di metodologia approvata.
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Essiccazione Nella fase d’accettazione e scarico delle partite di granella di mais ESENTE, l’operatore del centro d’essiccazione esegue un ulteriore controllo del livello di contaminazione fungina utilizzando una lampada UV; in caso di presenza di un numero di semi “fluorescenti”, separa le partite destinate all’essiccazione dando precedenza a quelle considerate NON ESENTI da muffe. Il controllo va effettuato definendo un rapporto tra i semi luminescenti e la quantità di campione utilizzato rappresentativo della massa, supportato da analisi di laboratorio per validare il controllo. Esempio = Campione da 500 grammi con 0 semi luminescenti viene considerato ESENTE. Campione da 500 grammi con 2 semi luminescenti viene considerato a RISCHIO. Campione da 500 grammi con oltre 2 semi luminescenti viene considerato NON ESENTE da muffe DA TRATTARE SEPARATAMENTE Utilizzare eventualmente un essiccatoio diverso da quello utilizzato per le partite NON ESENTI, o comunque procedere alla corretta pulizia tra partite considerate Non ESENTi da quelle ESENTI da muffe. A campione devono essere effettuati controlli analitici a mezzo di laboratori interni o esterni con metodologia VICAM attraverso minicolonne ad immunoaffinità o HPLC per verificare quantitativamente il contenuto di micotossine presenti nel cereale prima e dopo l’essiccazione.
Essiccazione mais non esente Il centro di essiccazione provvederà a stoccare la granella di mais verde NON ESENTE DA TRATTARE, ricevuta giornalmente dai centri di raccolta, separatamente da quella ESENTE. Il mais da TRATTARE, viene prepulito e continuamente ventilato per abbassarne la temperatura, e deve essere inviato all’essiccazione entro le 48 ore dal ricevimento. L’essiccazione deve essere effettuata a basse temperature (max 90 °C), successivamente attraverso un processo in linea di setacciatura (vagli), aspirazione (tarara) e spazzolatura, e inviato a sili dedicati. Contemporaneamente alla fase di stoccaggio il mais essiccato viene refrigerato, per evitare ulteriori innalzamenti di temperatura (rinvenimento) ed il conseguente propagarsi d’eventuali muffe all’interno dei sili durante le fasi di conservazione.
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Durante le fasi della lavorazione e alla fine del processo il cereale è sottoposto ad analisi quantitativa da parte del laboratorio. • Solo il mais con tale contenuto entro i limiti di legge viene destinato a consumo e vendita. • Le vagliature e il mais con contenuto di micotossine superiori ai limiti di legge vanno destinati allo smaltimento. Nel caso il mais ricevuto dai centri di conferimento considerato ESENTE, risultasse in realtà NON ESENTE, verrà inviato al TRATTAMENTO di essiccazione e di pulizia e spazzolatura previsti per i cereale non esente. Si raccomanda quindi di: • Utilizzare temperature di essiccazione basse da 80° a 90° C; alte temperature concentrate in pochi minuti creano molte fessurazioni nel cereale, aumentando il rischio di proliferazione delle muffe e delle micotossine all’interno dei grani. • Cercare di limitare le rotture del cereale, effettuando regolari manutenzioni agli impianti di essiccazione, convogliamento e stoccaggio, utilizzando macchinari idonei per dimensione portata, velocità. • Ridurre il più possibile l’utilizzo di “freni” lungo le tubazioni per evitare che il cereale depositato contamini tutte le partite di passaggio; provvedere alla regolare pulizia e disinfezione di ogni freno, compresi “piedi” di elevatori, pozzetti di serrande e deviatrici, e coclee. • Utilizzare se possibile trasportatori, elevatori, e coclee autopulenti in modo da non avere residui di ex prodotto che possono contaminare le partite. • Limitare la movimentazione ad opera delle pale meccaniche. • Controllare la temperatura dopo la fase di raffreddamento. • Mantenere puliti gli organi di trasporto e di ventilazione degli impianti di essiccazione. • Asportare velocemente le polveri e le rotture dal mais essiccato attraverso la pulitura. • Asportare dal cereale verde, a mezzo di un pulitore, stocchi e pula rossa. • Essiccare il cereale tra il 12 e 13% di umidità per una corretta conservazione dello stesso. • Non essiccare al di sotto del 12% per evitare fessurrazioni e rotture durante il convogliamento. • Controllare le temperature d’uscita del cereale, dopo il raffreddamento, che non devono superare di 10 gradi la temperatura ambiente con il rischio di rinvenimento del prodotto nel silo. • Se disponibile, procedere alla refrigerazione del cereale già all’arrivo nel silo dopo l’essiccazione per abbassare velocemente la temperatura dello stesso nel silo.
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Pulitura L’eliminazione d’impurità, spezzati, polveri, farine e pule, come la riduzione delle micro-fessurazioni e rottura delle cariossidi, permette un buon abbattimento del livello di micotossine e una migliore conservazione del prodotto. La pulitura svolge quindi un’azione preventiva, in quanto permette l’allontanamento del prodotto facilmente alterabile come chicchi spezzati, farina e polveri facilmente contaminabili dalle muffe. Per questo motivo ogni movimentazione deve essere possibilmente accompagnata da un processo di pulitura in particolare nelle fasi di: • Ricevimento della granella verde. • Caricamento dell’essiccatore. • Caricamento del silo di stoccaggio del cereale secco. • Consegna del prodotto all’utilizzatore finale. Grande attenzione va posta agli impianti d’aspirazione, cercando di sfruttare al massimo la loro capacità d’aspirazione, questi devono essere dotati di filtri di decantazione, puliti regolarmente in modo da evitare la contaminazione dell’ambiente con spore di muffe che andrebbero subito a contaminare silo e magazzini adiacenti agli impianti. La regolazione giornaliera dei pulitori come la pulizia delle griglie e dei setacci sono condizione indispensabile per non contaminare tutte le partite in transito sulle macchine. L’allontanamento giornaliero degli scarti dal luogo di produzione e il loro smaltimento contribuisce ad un maggior controllo delle micotossine in generale.
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Spazzolatura-Separazione Contemporaneamente alla tradizionale pulitura post-essiccazione si può procedere alla spazzolatura e separazione della granella di mais in modo da eliminare tutti i fattori di rischio che portano allo sviluppo di muffe e relative micotossine. In particolare: • L’azione meccanica di SPAZZOLATURA (vedi disegno) del cereale secco intero separato da polvere e spezzati consiste in un forte sfregamento tra i semi per ridurre il livello di contaminazione fungina e relative micotossine depositate esternamente. • La SEPARAZIONE tra grani secchi interi e grani secchi striminziti leggeri e spezzati, consente di ridurre maggiormente il rischio di ulteriore contaminazione nel silo e di migliorare le attività di conservazione. • L’asportazione a mezzo di potente “tarara” delle impurità e polveri - spesso le più contaminate da micotossine -, che vengono tolte dalla massa del cereale e segregate in attesa dello smaltimento.
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Stoccaggio e conservazione • Procedere alla pulizia e sanificazione dei sili e magazzini destinati alla conservazione del cereale, utilizzando prodotti autorizzati per la sanificazione delle pareti dei sili dei magazzini e dei macchinari. • Fattore determinante per una buona conservazione dei cereali in deposito e il controllo degli artropodi infestanti nell’industria alimentare, è rappresentato da un adeguato intervento di debiotizzazione, eseguito prima dello stoccaggio delle merci nei magazzini, a cadenza periodica basata sui monitoraggi o a calendario. • Dopo l’essiccazione occorre portare il cereale, in una prima fase di raffreddamento o refrigerazione, il più velocemente possibile ad una temperatura inferiore ai 20-22 °C. • Durante l’inverno, quando temperatura e umidità relativa dell’aria esterna lo consentono, occorre portare la massa del cereale ad una temperatura media inferiore ai 10 °C. • Il cereale stoccato dovrà rispettare i limiti di legge in riferimento al contenuto di micotossine, e potrà essere stoccato in partite separate a seconda della qualità e della destinazione d’uso. • Il Controllo durante la fase di conservazione delle contaminazioni da micotossine si raggiunge attraverso i seguenti fattori operativi: • Uniformità delle partite stoccate. • Bassa umidità del cereale (12-13%) • Bassa temperatura di stoccaggio ( inferiore ai 10-12 °C). • Elevato stato igienico delle strutture e attrezzature di convogliamento. • Monitoraggio continuo, attraverso prelievi in movimento delle partite, per avere la massima rappresentatività dei campioni.
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Durante il riempimento del silo, le parti polverose e gli spezzati creano un cono centrale che limita il corretto raffreddamento e il processo di refrigerazione. L’aria, infatti, non passando attraverso gli interspazi occupati dalla polvere, devia verso percorsi più facili lasciando quindi zone a rischio di surriscaldamento (nidi di calore) che con il raffreddamento con aria ambiente umida portano a raggiungere in taluni casi il “punto di rugiada“, con conseguente ammuffimento della granella e aumento delle micotossine.
Appena le condizioni lo rendono possibile, occorre procedere al condizionamento del silo asportando una quantità di cereale che consenta di eliminare il cono centrale spesso composto da “rotture” e polvere del cereale più a rischio d’impaccamento, con la conseguente formazione di “ponti” che poi bloccano l’estrazione del cereale stesso dal silo. Normalmente è sufficiente invertire il cono di carico per eliminare il cono centrale composto maggiormente da polveri e consentire un corretto raffreddamento della massa anche solo per effetto delle correnti di convenzione che normalmente sono presenti nel cereale essiccato.
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Refrigerazione Tramite il raffreddamento della massa delle granaglie (essendo queste cattive conduttrici di calore) da 35 °C a 15°C, con temperatura esterna compresa tra i 25 °C e i 30 °C, si permette l’arresto del metabolismo d’insetti, batteri e muffe con il conseguente blocco del loro sviluppo e della loro proliferazione. Ciò consente, se applicata dopo la raccolta, a prodotto essiccato o meno, una conservazione per lunghi periodi al riparo da infestazioni. Il mantenimento della temperatura all’interno del silo o capannone su valori compresi tra i 13 °C e i 15 °C, inibisce inoltre i processi respiratori del cereale, con il risultato di evitare l’assorbimento d’ossigeno e anidride carbonica, la perdita d’acqua e lo sviluppo del calore, eliminando, o perlomeno limitando, la relativa perdita di peso e l’autoriscaldamento del cereale. A differenza dell’uso di un normale ventilatore, l’insufflazione d’aria deumidificata permette il controllo dell’umidità della massa, attenuando, tra l’altro, l’azione di compattamento che l’acqua di condensa esercita su cariossidi, polveri e funghi. Una volta depositato, il cereale risente dell’aumento di temperatura dovuto al calore generato dalla respirazione del chicco, a cui si può aggiungere quello prodotto dalla respirazione supplementare dei microrganismi dai quali esso è attaccato: • Il primo fatto produce come conseguenza una diminuzione della sostanza secca. • Il secondo invece consente, date le condizioni termiche, una rapida riproduzione dei parassiti, che consumeranno il cereale creando i presupposti per un aumento del tenore di micotossine. Prima di procedere alla refrigerazione definitiva del cereale stoccato occorre estrarre dal silo una quantità di prodotto sufficiente ad invertire il “cono di
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carico” (vedi figura), Quest’operazione consente di estrarre dal silo la parte centrale solitamente più polverosa e a rischio micotossine. Inoltre è buona pratica asportare la parte superiore di cereale stoccato prima della fase di raffreddamento/refrigerazione, per evitare che il prodotto superiore, solitamente più esposto agli innalzamenti di temperatura, ostacoli come un tappo il corretto raffreddamento della massa. È noto che la parte superiore del silo può presentare nidi di calore spesso non rilevati dalle sonde, e può aver assorbito umidità di condensa che l’aria umida e calda salendo ha ceduto al contatto con le pareti più fredde del silo. La refrigerazione consente, inoltre, di limitare i tradizionali trasferimenti di cereale da un silo ad un altro per arieggiare il prodotto surriscaldato, operazione questa che oltre a danneggiare le cariossidi nei convogliatori e trasportatori meccanici, con conseguente perdita di prodotto, aumenta la quantità degli spezzati e della farina che vanno ad ostruire gli interspazi tra il cereale, non consentendo il passaggio dell’aria, aumentando ancor di più il rischio di micotossine.
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Campionamento e analisi delle micotossine Emma Tealdo, Veneto Agricoltura
5.1 Introduzione Un corretto campionamento è il presupposto essenziale per un metodo analitico affidabile, tenendo presente che il risultato che si ottiene è sempre riferito al campione esaminato. Tutte le operazioni di campionamento devono essere condotte in condizioni tali da garantire la sicurezza degli operatori e la protezione del campione da eventuali contaminazioni esterne. La quantità di campione, per essere adeguata all’analisi delle micotossine, deve essere il più possibile rappresentativa della partita iniziale da campionare, considerando che la distribuzione delle micotossine è molto variabile in funzione del tipo di matrice da campionare. Le matrici liquide sono considerate omogenee; un adeguato campionamento richiede in genere un’accurata agitazione del prodotto prima di effettuare i prelievi dei campioni destinati all’analisi delle micotossine. Nei prelievi di latte di massa effettuati in azienda, ad esempio, il campionamento può essere effettuato direttamente dalla vasca di refrigerazione dopo aver azionato il sistema di miscelazione. Matrici quali le farine e i mangimi in polvere sono da ritenere abbastanza omogenei, ma deve essere valutata la rappresentatività del campione anche in relazione alle condizioni di stoccaggio. Matrici quali le granelle, i semi, i fieni e gli insilati sono disomogenei e in genere la distribuzione delle micotossine è molto casuale. I cereali sono spesso stoccati in cumuli o silos generalmente di notevoli dimensioni: il prelievo di campioni rappresentativi da masse di questo tipo è molto difficoltoso e oneroso, inoltre la contaminazione da micotossine ha una distribuzione a macchia di leopardo che rende difficile ottenere campioni adeguati, nonostante l’applicazione di rigorosi protocolli di campionamento. Per un buon campionamento si devono quindi considerare innanzitutto le caratteristiche della matrice; l’omogeneità del campione di partenza è un buon presupposto per un campionamento significativo: • granelle e semi in genere sono matrici difficili da campionare per la distribuzione eterogenea delle micotossine e per le caratteristiche granulometriche delle matrici stesse; • farine e mangimi sono omogenei ma in questo caso la significatività del
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campionamento può essere influenzata dalle modalità e condizioni di stoccaggio. Le farine stoccate in silos verticali possono presentare differenze di umidità e temperatura fra esterno e interno della massa e quindi il prelievo deve essere effettuato in punti diversi; • unifeed presenta una notevole disomogeneità in funzione della sua composizione, delle caratteristiche dei singoli componenti e della qualità della miscela; • insilati possono essere disomogenei, il prelievo degli insilati in trincea orizzontale (silomais) dovrebbe essere rappresentativo di tutto il fronte di taglio, ad esclusione del cappello che comunque deve essere scartato; • fieni costituiscono una matrice difficile da campionate: le micotossine eventualmente presenti possono essere diversamente distribuite nella/e balla e, in funzione delle condizioni di conservazione della /e stessa/e, della composizione e della qualità del prodotto di fienagione, il prelievo dovrebbe comprendere diverse balle e punti diversi (interno, esterno) delle stesse; • sacchi di farine e cumuli di alimenti possono presentare problemi di attacchi fungini a causa di zone particolarmente umide a contatto con il terreno e/o per percolazione di acqua. Anche in questo caso il prelievo deve avvenire in punti diversi. Sia che si tratti di matrici liquide che solide, si deve tener presente il tipo di partita, che può presentarsi come merce sfusa, imballaggio singolo o confezione al dettaglio. Al campionamento è associato circa l’80-90% dell’errore sul risultato analitico finale ed è dovuto essenzialmente alla: • distribuzione eterogenea delle micotossine nel prodotto da campionare (in genere la contaminazione da micotossine è puntiforme con distribuzione a macchia di leopardo); • grandezza del campione (basso numero di campioni elementari, scarsa rappresentatività dei punti campionati, inadeguata grandezza del campione globale, scarsa omogeneizzazione del campione globale prima del prelievo del campione finale).
5.2 Campionamento Presupposto importante perché il campione elementare sia rappresentativo del lotto iniziale è che il campionamento sia casuale. Si distinguono due tipi di campionamento: • statico: i prelievi vengono effettuati in punti diversi di una massa stoccata; • dinamico: i prelievi vengono effettuati a tempi diversi di una massa in movimento. Il campionamento statico richiede l’impiego di sonde, è di difficile attuazione, e l’errore aumenta con l’aumentare delle dimensioni e del tipo di massa stoccata.
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Il campionamento dinamico è più facile da realizzare, i campioni elementari si prelevano dai nastri trasportatori e si utilizzano campionatori automatici. La frequenza di prelievo dei campioni elementari dipende dalla velocità e dalle dimensioni del flusso e dalle dimensioni del campione totale. Le modalità di campionamento sono oggetto di normative che indicano i passaggi, le quantità e modalità di campionamento per l’analisi delle micotossine nei cereali e prodotti derivati e nel latte destinati all’alimentazione umana e animale. Il campionamento dei mangimi si basa sul Decreto Ministeriale 20/04/1978 – GU 165 del 15/6/1978 “Modalità di prelievo dei campioni per il controllo ufficiale del tenore di aflatossine degli alimenti per animali” che prescrive le condizioni operative descritte in Tabella 3. Il prelievo degli alimenti per il controllo di sostanze, come le aflatossine, che possono essere distribuite in modo non
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uniforme richiede che la massa da campionare deve essere suddivisa in subunità da trattare separatamente e suddividere in campioni elementari in base alle dimensioni della partita. Per il prelievo dei foraggi, non previsto da queste norme, si può far riferimento alle indicazioni fornite dalle norme ISO (ISO 6497:2002) che oltre a dare indicazioni sulle modalità di prelievo delle granelle e farine prende in considerazione fieni, foraggi freschi e insilati (Tab. 4). Nel caso di insilati conservati in trincea, poiché è possibile prelevare solo sulla superficie di taglio, si può effettuare il prelievo dei campioni elementari lungo la diagonale del fronte, in modo che il campione globale rappresenti diversi livelli. Nella realtà aziendale, tali modalità, sicuramente molto corrette, non sono di facile esecuzione per le difficoltà di attuazione, mancanza dei mezzi tecnici idonei e anche del tempo che tali metodi richiedono. Tuttavia, si deve tenere presente che una corretta procedura prevede:
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• un campionamento rappresentativo (per numero di sottocampioni, punti di prelievo, grandezza del campione globale); • un’accurata omogeneizzazione del campione globale; • una quantità di campione adeguata all’analisi: campioni insufficienti (< 100 g) non sono rappresentativi, soprattutto nel caso di matrici non omogenee; quantitativi elevati creano difficoltà al momento della miscelazione, prima del prelievo per l’analisi, rischiando di compromettere le precedenti fasi di campionamento, • conservazione del campione prima dell’analisi in luogo fresco e asciutto se l’analisi è effettuata entro le 24 – 48 ore; congelare per tempi più lunghi.
Alcuni suggerimenti Alimenti secchi e umidi devono essere campionati in modo diverso: • Campionamento di alimenti secchi con umidità inferiore al 15% come semi secchi, fieno e concentrati: - prendere 8 – 12 campioni ogni 3-5 partite di merce rimossa dallo stoccaggio, - mescolare bene i sottocampioni e raccogliere un campione di 500 g, - unire 3 – 5 campioni, mescolare e prendere 500 g per il campione finale da inviare al laboratorio, - conservare i campioni in sacchetti di carta a doppio strato, in un luogo asciutto, fino alla consegna al laboratorio. oppure - prendere 12 – 20 campioni sul flusso di materiale di scarico, oppure con una sonda da un contenitore. Prelevare i campioni a diverse profondità e ai lati. I campioni vanno formati mediante prelievi casuali, tenendo conto che le muffe tendono a formarsi nelle parti laterali dei contenitori e sulla sommità, - mescolare i sottocampioni e prelevare il campione finale di 500 g da inviare al laboratorio. • Campionamento di alimenti umidi con un’umidità superiore al 15% come semi umidi, silomais:
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- prendere 8 â&#x20AC;&#x201C; 12 campioni ogni 3-5 partite di alimenti rimossi dallo stoccaggio, - mescolare bene i sottocampioni e raccogliere un campione di 1 kg, - unire 3 â&#x20AC;&#x201C; 5 campioni, mescolare e prendere 1 kg per il campione finale da inviare al laboratorio, - mettere i campioni in sacchetti di plastica, avendo cura di far uscire lâ&#x20AC;&#x2122;aria, e conservare in congelatore fino alla consegna al laboratorio.
5.3 Analisi delle micotossine nel mais La determinazione del contenuto in micotossine dipende, oltre che dalla correttezza dellâ&#x20AC;&#x2122;analisi eseguita in laboratorio, dal campionamento del materiale da esaminare. Errate procedure di campionamento rappresentano la principale fonte di errore nella determinazione delle micotossine. Tuttavia non sono
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trascurabili le fasi di conservazione e preparazione del campione da sottoporre all’analisi. I campionamenti devono essere preparati (soprattutto omogeneizzati) con cura, evitando il più possibile l’esposizione alla luce, dato che le aflatossine si decompongono alla luce ultravioletta. Le micotossine sono contaminati presenti in concentrazione molto basse, espresse con le seguenti unità di misura:
Per misurare analiti a così bassi livelli di concentrazione è necessario disporre di metodiche analitiche molto accurate, sensibili e specifiche. Negli ultimi anni sono state sviluppate numerose tecniche idonee a queste determinazioni che richiedono l’applicazione di una serie di fasi sequenziali: 1) estrazione della micotossina dalla matrice utilizzando soluzioni estraenti, metodi e tempi di miscelazione adeguati alle proprietà chimico-fisiche della micotossina da estrarre e della matrice che la contiene;
Cromatografo liquido ad alta pressione (HPLC)
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2) purificazione dell’estratto al fine di ridurre o eliminare le sostanze interferenti utilizzando colonnine per estrazione in fase solida (SPE) o di immunoaffinità (IAC); 3) separazione e quantificazione delle micotossine mediante tecniche cromatografiche. La cromatografia liquida (HPLC) è la tecnica attualmente più utilizzata e di riferimento per l’elevata sensibilità e specificità. Benché i metodi cromatografici garantiscano un’elevata sensibilità e specificità, la necessità di eseguire monitoraggi su un gran numero di campioni in tempi brevi, e a costi più contenuti, ha portato alla messa a punto di diversi metodi rapidi e di più facile esecuzione. Tra questi vi sono i test immunoenzimatici, come il test ELISA, attualmente disponibili per la determinazione di diverse micotossine. Oltre ai kit quantitativi, sono disponibili test di screening qualitativi per la verifica della presenza o assenza della micotossina che possono anche fornire indicazioni semi-quantitative del livello di concentrazione. Anche questi si basano su procedimenti immunoenzimatici: gli anticorpi sono fissati su un supporto solido, il lega- Test ELISA me con le micotossine si evidenzia attraverso una variazione di colore che si verifica a valori di concentrazione prefissati. La fluorimetria è una tecnica per la determinazione delle aflatossine nel mais che accoppia la preparazione del campione tramite passaggio in colonne di immunoaffinità con la lettura in un fluorimetro. Il metodo è abbastanza semplice e di veloce esecuzione. Un metodo molto rapido utilizzato per rilevare l’ammuffimento del mais, consiste nell’esaminare i campioni con luce UV (365 nm) in camera oscura. I campioni possono emettere una luce fluorescente, tuttavia la fluorescenza non è data dalle aflatossine ma da un metabolita prodotto da Aspergillus flavus (lo stesso fungo che può produrre le aflatossine), denominato acido Kojico, in presenza di un enzima (perossidasi) localizzato a livello dei tessuti freschi della granella e della pianta. Poichè il fungo può produrre l’acido Kojico, ma non le aflatossine, i campioni che presentano fluorescenza si devono analizzare per confermare l’eventuale presenza della micotossina. I metodi rapidi sono di utile applicazione nelle fasi di screening dei campioni poichè consentono di velocizzare i processi di controllo, tuttavia i risultati
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Fluorescenza di granella di mais attaccata da Aspergillus (foto R. Causin)
ottenuti con tali test, soprattutto per valori vicini al limite di legge, devono essere confermati successivamente con tecniche cromatografiche (HPLC). La necessità di disporre di metodi in grado di rilevare concentrazioni molto basse e di risolvere le problematiche legate alla preparazione di matrici piuttosto complesse rende indispensabile un continuo miglioramento delle tecniche analitiche, ma queste da sole non saranno sufficienti a garantire una corretta valutazione di una partita di alimenti se a monte non sarà effettuato un corretto campionamento. Errate procedure di campionamento rappresentano la fonte principale di errore per analiti distribuiti in modo eterogeneo all’interno di un lotto. L’ampiezza dell’errore dovuto al campionamento è molto più grande di quella derivante dall’analisi.
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Riassumendo… Il campionamento Un corretto piano di campionamento è fondamentale per la determinazione dell’eventuale contenuto in micotossine nel materiale da esaminare. Errori di campionamento rappresentano infatti la principale fonte di errore nei test analitici. I campionamenti eseguiti su cumuli di granella stoccate in sili o magazzini sono facilmente soggetti a errori, in quanto la distribuzione delle micotossine è molto casuale, per cui occorrerà eseguire: • un adeguato numero di sottocampioni, in diversi punti di prelievo • un’accurata omogeneizzazione del campione globale e successivo prelievo del campione finale • una corretta conservazione del campione, stabilizzandone l’umidità
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Micotossine nel mais utilizzato nell’alimentazione zootecnica: trasferimento ai prodotti di origine animale Lucia Bailoni, Dipartimento di Scienze Animali - Università degli Studi di Padova
6.1 Il mais nell’alimentazione zootecnica: quali problemi legati alle micotossine L’82% del mais coltivato in Italia è destinato all’alimentazione degli animali. Se a questa percentuale si aggiunge la quota (3,7%) di mais utilizzato come sottoprodotto dell’industria dell’amido nel settore dei mangimi, si raggiunge complessivamente un valore dell’86% circa di mais e derivati impiegati per uso zootecnico. L’impiego del mais come pianta intera, trinciato e insilato, e delle diverse parti botaniche (pastone di pannocchia) è diffuso nell’alimentazione dei bovini da latte e da carne e dei piccoli ruminanti, dove costituisce un alimento di grande interesse nutrizionale per le sue caratteristiche di elevata appetibilità e buona digeribilità dei principi nutritivi, oltre che di basso costo. La granella di mais, in diverse forme fisiche (intera, farina, fioccata, estrusa ecc.) rappresenta invece la fonte energetica per eccellenza delle diete ed è ampiamente diffusa sia nei monogastrici (suini, avicoli ecc.) che nei ruminanti. Le problematiche relative alla presenza delle micotossine nel mais destinato all’alimentazione zootecnica devono essere considerate da due diversi punti di vista: a) la salute e il benessere degli animali in produzione appartenenti alle differenti specie e categorie presenti nei diversi allevamenti (argomento che sarà discusso nel prossimo capitolo); b) la tutela dei consumatori per quanto riguarda la sicurezza nel consumo di alimenti di origine animale (nonché quella degli operatori addetti alla manipolazione dei mangimi). È evidente che si tratta di approcci alla problematica “micotossine” completamente diversi. Ad esempio, la presenza nel latte di livelli di aflatossina M1 superiori al limite di legge (M1>0,05 μg/kg) si verifica quando nella dieta della vacca da latte la concentrazione di aflatossina B1 è di molto inferiore rispetto ai valori che determinano la comparsa di sintomatologie aspecifiche (riduzione del consumo alimentare, riduzione della produzione di latte ecc.) o specifiche (lesioni epatiche ecc.) negli animali. Le micotossine di cui si tratterà in questo capitolo sono le seguenti: aflatossine, ocratossine, tricoteceni, zearalenone e fumonisine (vedi Tab. 2, cap. 7) ma non è escluso che in futuro a queste non possano aggiungersene altre; si pensi, a tal proposito, che le fumonisine sono state isolate e caratterizzate per la prima volta nel 1988.
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Prima però di entrare nel merito è necessario ricordare che esistono delle differenze fra gli effetti delle micotossine nei ruminanti e nei monogastrici, riassunte nel riquadro 1.
Molti aspetti relativi alle regolamentazione dei livelli massimi ammissibili delle micotossine negli alimenti zootecnici e nei prodotti destinati all’alimentazione umana (di origine vegetale e/o animale), in Europa e nel resto del mondo non sono ancora ben definiti e armonizzati, come descritto nel capitolo 8. Per gli alimenti di interesse zootecnico, e quindi anche per il mais e i derivati, attualmente sono previsti dei limiti massimi solo per l’aflatossina B1, in relazione al suo possibile trasferimento ai prodotti di origine animale. Per le altre micotossine, fino ad oggi, non sono imposti limiti massimi negli alimenti per animali né a livello comunitario né nazionale. Tuttavia, negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (FDA, Usa) ha indicato dei livelli massimi consigliati (“raccomandazioni”) di micotossine negli alimenti, con particolare riguardo al mais e ai cereali, per le diverse specie e categorie animali (Tab. 1). Tali livelli sono ampiamente conservativi se confrontati con quelli in grado di determinare evidenti problemi tossicologici negli animali
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(vedi Fig. 1, cap. 7). Ogni cautela è comunque giustificata in quanto, a volte, livelli ‘borderline’ di micotossine, pur non determinando sintomatologia clinica negli animali, sono comunque in grado di incidere negativamente sulle performance zootecniche. Riguardo ai prodotti di origine animale è necessario premettere che, sulla base delle attuali conoscenze, il rischio di assunzione di micotossine per l’uomo è di gran lunga inferiore rispetto a quello riferibile al consumo di alimenti di origine vegetale. Tuttavia, nel caso dei residui di aflatossina M1 nel latte la legge impone dei limiti particolarmente severi (0,05 μg/kg) perché tiene conto del notevole consumo di questo alimento da parte di categorie particolarmente esposte al rischio tossicologico (bambini, degenti, anziani). Questo limite, entrato in vigore dal 1 gennaio 1999, è giustificato dal fatto che la dose giornaliera di M1 in grado di produrre un rischio teorico di un caso di tumore su un milione di individui (1: 106) (PMTDI, Provisional Maximum Tolerable Daily Intake) è stata stimata pari a circa 0,2 ng per kg di peso corporeo. Pertanto la concentrazione tollerabile di M1 nel latte, considerati i livelli medi di ingestione giornaliera dovrebbe essere inferiore ad alcune decine di ng/kg. In Italia una circolare del Ministero della Sanità ha fissato anche il limite della ocratossina A nella carne suina e nei prodotti derivati (vedi cap. 8).
6.2 Il mais nell’alimentazione dei ruminanti: trasferimento delle micotossine al latte e alla carne con particolare riferimento alle aflatossine Tra gli alimenti di impiego zootecnico (Tab. 2) che contengono maggiori quantità di aflatossine (arachidi e derivati, panello di cocco, di palma, di lino, semi
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di cotone e derivati ecc.), il mais e i suoi derivati (germe di mais, glutine, semola glutinata) occupano un posto di primaria importanza. Come già riportato nei capitoli precedenti, soprattutto se le condizioni climatiche sono particolarmente favorevoli allo sviluppo di funghi del genere Aspergillus (A. flavus e A. parasiticus), la contaminazione da aflatossina B1 può essere elevata non solo in partite di mais di importazione ma anche nella granella di produzione nazionale (Tab. 3).
Riguardo alla contaminazione da aflatossine nell’insilato di mais, alimento di ampia diffusione nelle aziende zootecniche e ad elevata inclusione nelle diete (fino al 50% della sostanza secca ingerita), va ricordato che i processi di fermentazione creano condizioni ambientali (pH, umidità, temperatura, anaerobiosi) tendenzialmente sfavorevoli allo sviluppo dei funghi produttori di micotossine. Ricerche effettuate in Piemonte hanno evidenziato una ridotta presenza di aflatossina B1 nell’insilato di mais (in media 1,3 μg per kg di sostanza secca nel foraggio alla raccolta e 2 μg per kg di sostanza secca nei diversi punti di prelievo della massa insilata). Le concentrazioni di aflatossine più elevate sono comunque presenti nelle zone che presentano un visibile deterioramento aerobico. Gli studi sulle modalità di trasferimento (carry over) dell’aflatossina B1 presente nelle diete destinate alle vacche in lattazione ad aflatossina M1 nel latte sono stati condotti da vari autori. In generale, quando si parla di carry over
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delle micotossine si intende il rapporto fra la quantità di micotossina escreta (ad esempio nel latte) e quella ingerita dall’animale, esprimendo entrambi i valori in μg/d (o mg/d). Nel caso specifico della aflatossina M1 nel latte, il carry over raggiunge valori variabili dall’1 al 3%. Esiste tuttavia una elevata variabilità individuale e di razza, anche se non sono ancora disponibili in letteratura dati conclusivi su questi aspetti. È ormai accertato invece che, a parità di quantità di micotossina ingerita, il tasso di trasferimento complessivo della B1 negli alimenti a M1 nel latte è più elevato ad inizio di lattazione rispetto ad una fase avanzata e nelle bovine ad alta produzione rispetto a vacche meno produttive. Questo risultato è legato alla diversa quantità di latte prodotto, in quanto se si considerano le concentrazioni di aflatossina M1 nel latte, le differenze sono abbastanza limitate (Tab. 4). Anche la presenza di patologie alla mammella può aumentare il carry over. Dal punto di vista pratico, per stimare il trasferimento di aflatossina M1 in un’intera mandria è ormai ampiamente diffusa l’equazione proposta da Veldman et al. (1992): Aflatossina M1(ng/kg di latte) = 1,19 x Aflatossina B1(μg/capo/d) +1,9 Secondo questa equazione con un’ingestione di aflatossina M1superiore a 40 μg/capo/d, si possono superare i limiti di legge di M1 nel latte pari a 0,05 μg/kg (vedi riquadro 2). L’aflatossina M1 compare nel latte già nella mungitura successiva all’assunzione del pasto contenente alimenti contaminati (anche se sono necessari 23 giorni di somministrazione continua perché il livello di M1 si stabilizzi). Nel contempo, il passaggio ad una dieta non contaminata, garantisce una rapida riduzione dei livelli di M1 nel latte già a partire dalla mungitura successiva e il raggiungimento di valori vicini allo 0 nell’arco di 3-5 giorni.
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Le strategie di prevenzione della micotossina M1 nel latte da parte dell’allevatore (sintetizzate nelle linee guida a fine capitolo) dovrebbero partire da un controllo periodico del tenore di M1 nel latte (ogni 15 giorni o comunque ad ogni modifica della razione). Se i livelli di aflatossina M1 superano 0,05 μg/kg (limite di legge), è necessario intervenire tempestivamente eliminando dalla razione i concentrati a rischio (mais, panelli e farine di arachide ecc.) sostituendoli con materie prime più sicure (farine di soia e girasole per l’apporto proteico, sottoprodotti della molitura, frumento, orzo per l’apporto di energia), modificando adeguatamente la formulazione della razione per soddisfare i fabbisogni delle bovine e mantenere i giusti rapporti fra i nutrienti. Se i livelli di M1 non superano i limiti di legge ma sono comunque vicini alla soglia massima è necessario controllare le nuove partite di mangimi semplici o composti introdotti recentemente nella razione, eventualmente sostituirli e far analizzare immediatamente i componenti più a rischio. In questi casi è possibile anche intervenire adottando altre strategie come alcuni trattamenti fisici della granella (vagliatura, spazzolatura, ecc., vedi cap. 4). È importante ricordare che la legislazione attuale non permette alcun trattamento chimico della granella, né la diluizione del prodotto contaminato. I metodi di decontaminazione che si possono adottare e che si basano sull’allontanamento delle particelle contaminate, devono soddisfare alcuni importanti requisiti, come riportato in un documento della FAO (vedi riquadro 3).
L’azione delle sostanze leganti, come gli allumino-silicati di sodio e calcio, zeoliti, carboni attivi, bentonite di sodio, argille, polimeri speciali (il cui uso è autorizzato dal Reg. (CE), n. 2439/1999 del 17 novembre 1999) si basa sulla capacità di adsorbimento di materiali inerti che si legano in modo stabile alle tossine riducendone l’assorbimento nel tratto intestinale. L’uso di queste sostanze negli allevamenti di vacche da latte deve essere attentamente valutato (considerando anche il costo, generalmente elevato), in quanto molti leganti hanno dato risultati positivi in prove effettuate in vitro o su animali monogastrici, ma hanno dimostrato una elevata variabilità di risposta quanto sperimentati su bovine in lattazione. Dal punto di vista pratico vale la pena ricordare che il legante va aggiunto e accuratamente miscelato all’alimento contaminato e non, ad esem-
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pio, inserito nel carro miscelatore dopo aver introdotto tutti i componenti della dieta. Inoltre è necessario tenere in considerazione che il particolare meccanismo di azione di questi leganti, che si basa come sopra detto su un “intrapppolamento” di tipo fisico delle micotossine, può comportare un’azione sequestrante anche nei confronti di importanti nutrienti (alcune vitamine, minerali), per cui è consigliabile rivedere la formulazione della razione da questo punto di vista. A titolo di esempio si riportano in Figura 1 i risultati di una prova che prevedeva l’aggiunta di allumino-silicato alla dieta di vacche in lattazione. Va infine ricordato che nel caso di presenza in azienda di partite di mais (o altre materie prime) con un elevato grado di contaminazione da aflatossina B1, è assolutamente sconsigliato somministrare questi alimenti ad animali che non sono in produzione, come vitelli/e o manze, in quanto la sensibilità alla aflatossina è più elevata negli animali giovani (vedi cap. 7). Anche per il latte prodotto da animali da latte appartenenti ad altre specie si fa riferimento al limite massimo sopra riportato per il latte vaccino (0,05 μg/kg). Sia nel latte caprino che ovino si ritrova, analogamente a quello bovino, la presenza di aflatossina M1 derivante dall’assunzione di alimenti contaminati da B1. Nel latte ovino la presenza di M1 può essere stimata a partire da una formula simile a quella vista sopra per le bovine: Aflatossina M1(ng/kg di latte) = 1,36 x Aflatossina B1(μg/capo/d) +4,3 Da questa equazione emerge che per non superare il limite di legge (sempre pari a 0.05 μg/kg), la quantità di B1 somministrata giornalmente alle pecore non può superare i 34 μg/d. La concentrazione di B1 nel mangime quindi dovrà essere inferiore a 34, 45, 67, 134 μg/kg per quantità somministrate pari
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rispettivamente a 1 kg/d, 750 g/d, 500 g/d e 250 g/d. In una prova effettuata somministrando alimenti naturalmente contaminati a bufale in lattazione, si è potuto osservare che nel latte di bufala oltre alla aflatossina M1 sono presenti anche le aflatossine M2, B1 e B2. La percentuale di escrezione rispetto alla quantità ingerita è risultata più elevata per la M2 (2%) e sensibilmente inferiore per le altre (0,2%, 0,05% e 0,2% rispettivamente per M1, B1 e B2). Indagini condotte sul latte di bufala prodotto in Campania, hanno rilevato una bassa percentuale di positività dei campioni analizzati (4% dei campioni con valori di B1 inferiori al limite di legge). Una trattazione specifica merita anche la presenza di micotossine nei prodotti lattiero-caseari. In Europa alcuni paesi hanno fissato dei limiti nei formaggi senza distinzione fra le diverse tipologie (ad esempio la Svizzera: 0,250 μg/kg). A livello UE, non ci sono indicazioni precise sui formaggi e gli altri derivati del latte ma nel Regolamento (CE) n. 466/2001 nell’articolo 2 si precisa che “nel caso di prodotti diversi da quelli indicati nell’allegato (e quindi nello specifico nel latte) che siano essi essiccati, diluiti, lavorati o composti da più di un ingrediente, il tenore massimo applicabile sarà quello indicato nell’allegato 1 (cioè nello specifico per il latte) tenendo presente rispettivamente le modifiche della concentrazione del contaminante causate dalla procedura di essiccamento o dalla diluizione, le modifiche della concentrazione del contaminante causate dalla lavorazione, le relative proporzioni degli ingredienti nel prodotto, nonché il limite analitico della quantificazione”. Sulla base di questa norma la regione Veneto, a seguito dell’emergenza del 2003, ha suggerito di adottare, per calcolare i limiti di aflatossina M1 nei formaggi, i coefficienti di trasformazione del latte in formaggio (riportati per i formaggi italiani nella G.U. n. 183 dell’8 agosto 2003). A titolo esemplificativo si riporta l’esempio di calcolo del tenore massimo di aflatossina M1 nell’Asiago Pressato, che presenta un coefficiente pari a 8,95, cioè una resa casearia pari all’11,2%: Aflatossina M1 nel formaggio = 0,05 (limite aflatossina M1 nel latte) x 8,95 = 0,447 μg/kg. In Italia inoltre è stata pubblicata in data 24 agosto 2004 la nota D.G.V.A/IX/ 25664/f.5.b.b.2/P del Ministero della Salute che fissa un limite di 0,45 μg/kg, quale valore provvisorio e riferito solo ai formaggi a pasta dura e lunga stagionatura (es. Parmigiano Reggiano). Il trasferimento dall’alimento al latte è molto più basso nel caso di altre micotossine: ad esempio studi effettuati sulle fumonisine hanno indicato un valore medio di carry over dello 0,05% con punte massime dello 0,11% che portano a livelli di concentrazione finale della micotossina nel latte molto bassi (inferiori a 5-6 μg/l). Il DON non è stato ritrovato nel latte bovino in quantità
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apprezzabile (<4 μg/kg) neppure somministrando dosi molto elevate (920 mg). Anche le ocratossine non destano preoccupazione per quanto riguarda il loro trasferimento nel latte vaccino in quanto sono riscontrabili in concentrazioni quantitativamente misurabili solo con assunzioni di micotossina in quantità pari a 50 mg per kg di dieta (o 1,66 mg/kg di peso vivo; inoltre, come già accennato precedentemente, prevale la forma alfa che non esprime la tossicità del composto progenitore. Nessun rischio per il consumatore è ravvisabile per gli eventuali residui di zearalenone nel latte. Infine per la tossina T-2 è stato evidenziato un carry over molto variabile ma tendenzialmente basso (da 0,02 a 0,32%). Mentre gli studi effettuati sulla presenza di micotossine nel latte sono numerosi, per quanto riguarda la carne e altri tessuti edibili, le sperimentazioni sono generalmente più limitate sia nei bovini che in altre specie da reddito. Al momento attuale non ci sono evidenze sperimentali che dimostrino un trasferimento delle aflatossine dall’alimento alla carne bovina in dosi ritenute pericolose per la popolazione. Il carry over riportato per le aflatossine nel fegato bovino è pari a 0,007% e risulta molto inferiore rispetto a quello relativo al fegato di altre specie come il pollo (0,083%) e il suino (0,125%). Riguardo alle fumonisine, solo un’esposizione prolungata e a dosi elevatissime di queste sostanze nella razione di vitelloni da carne (400 ppm di B1 e 130 ppm di B2, per 30 giorni) può determinare la comparsa della micotossina in alcuni organi e tessuti (2070 μg/kg nel fegato) e in quantità più contenute nella carne bovine (97,3 μg/kg nel muscolo).
6.3 Il mais nell’alimentazione dei suini e trasferimento delle micotossine alla carne con particolare riferimento all’ocratossina I suini, a differenza di altre specie, sono molto sensibili alle ocratossine (vedi cap. 7) e tendono ad accumulare questa micotossina non solo nelle frattaglie (fegato, rene) ma anche nel muscolo e nel grasso. Il problema della presenza di ocratossina A (OTA) nella carne suina e nei prodotti della salumeria è abbastanza recente e sembrava riguardare soprattutto i suini allevati nei paesi del Nord Europa e dell’Est europeo. Un’indagine condotta recentemente ha però segnalato una non trascurabile presenza di OTA in prodotti di salumeria di vario tipo, cotti e crudi, reperibili sul mercato (Fig. 2). L’elevata stabilità dell’ocratossina A (vedi Tab. 1, cap. 7), fa supporre che questa micotossina possa ritrovarsi sia nei prodotti di salumeria ottenuti previa cottura (prosciutto, mortadella, würstel), che in quelli stagionati (prosciutto crudo, salame). Va sottolineato a questo proposito anche l’importanza di disporre di locali per la stagionatura dei salumi che siano caratterizzati da condizioni ambientali sfavorevoli alla possibile proliferazione dei funghi produttori di ocratossina.
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Le strategie di prevenzione e controllo di questa micotossina negli allevamenti suini sono legate essenzialmente ad un monitoraggio adeguato dei mangimi utilizzati in modo da poter intervenire tempestivamente se i livelli di ocratossina nella razione sono elevati. Esistono poi delle sostanze in grado di fungere da competitors con la ocratossina A (ad esempio la fenilalanina). Pur non essendo “normate”, anche le fumonisine possono trasferirsi dagli alimenti somministrati ai suini in accrescimento-ingrasso ai vari organi e tessuti. La somministrazione in via sperimentale di dosi consistenti di fumonisina B1 ai suini (100 mg/d) ha evidenziato un trasferimento in alcuni organi bersaglio (reni e fegato) ma livelli trascurabili in muscolo e grasso (26 e 2 μg/kg). Le sperimentazioni condotte fino a questo momento dai ricercatori dell’Università di Padova, indicano l’assenza di residui di fumonisina nel rene (che è considerato l’organo più a rischio) quando i suini vengono esposti a concentrazioni dell’ordine delle decine di ppm nell’alimento completo. Concentrazioni più alte sono già in grado di determinare una sintomatologia nei suini allevati e quindi l’animale è in questo caso sentinella del pericolo per il consumatore. Come sopra ricordato relativamente alle aflatossine, la presenza di questa micotossina è molto bassa nella carne suina. In alcuni organi, come il fegato suino le aflatossine vengono trasferite in modo più diretto (carry-over dello 0,125%).
6.4 Il mais nell’alimentazione degli avicoli e trasferimento delle micotossine alla carne e alle uova Le uova rappresentano il prodotto di origine animale tra i meno controllati per il potenziale rischio derivante dalla presenza di micotossine. Riguardo al trasferimento di aflatossine dall’alimento all’uovo, i risultati di prove condotte da vari autori sono contrastanti (carry-over variabili da 0,0015%,
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fino a 0%). Per quanto riguarda le fumonisine, ricerche effettuate somministrando fumonisine a galline ovaiole hanno evidenziato un trasferimento verso fegato e reni ma quantità irrilevanti negli altri organi e, soprattutto, nelle uova (<10-15 ng/g con somministrazioni per os di 2 mg per kg di P.V.). Per quanto concerne invece lo zearalenone, possibili residui di metaboliti (α e β zearalenolo) possono essere presenti nelle uova (tuorlo), nel fegato e nella carne se l’esposizione alla contaminazione è prolungata. A seguito di questi risultati, non ancora definitivi, oltre ai leganti citati precedentemente, sono state messe a punto e testate anche altre sostanze (ad es. glucomannani esterificati) in grado di ridurre la concentrazione di micotossine (e in particolare di aflatossine) nelle uova con risultati molto positivi in prove effettuate in vitro (capacità di legare il 95% della tossina) ma non sempre concordanti in esperimenti effettuati in vivo, nei quali sembra giocare un ruolo determinante il tipo e il grado di contaminazione degli alimenti.
Riassumendo… Micotossine: rischio di contaminazione dei prodotti di origine animale Ruminanti: • rischi principali: trasferimento della aflatossina B1 degli alimenti a M1 nel latte, soprattutto quando nella dieta sono utilizzate alte percentuali di mais (contaminato) o altri alimenti considerati a rischio. Rischio limitato con silomais di buona qualità. • prevenzione: controllo periodico del latte (limite massimo: 0,05 μg/kg), con eliminazione degli eventuali alimenti considerati a rischio e rimodulazione della dieta. Suini: • rischi principali: trasferimento della ocratossina nel fegato, nel rene, nel muscolo e nel grasso. Attenzione anche alla contaminazione di prodotti di salumeria sottoposti a cottura e stagionatura. • prevenzione: controllo periodico dei mangimi utilizzati, intervenendo tempestivamente in caso di concentrazioni elevate. Avicoli: • rischi principali: possibile trasferimento di aflatossine all’uovo; possibili residui di metaboti di zearalenone nelle uova, nel fegato e nella carne. • prevenzione: controllo periodico dei mangimi utilizzati, possibile utilizzo di sostanze leganti (glucomannani esterificati).
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Micotossine: aspetti tossicologici per gli animali e per l’uomo Marco De Liguoro, Dipartimento di Sanità pubblica, Patologia comparata e Igiene veterinaria - Università degli Studi di Padova
7.1 Introduzione La contaminazione di cereali e semi oleaginosi da parte delle micotossine causa nel mondo perdite di miliardi di euro. Queste perdite includono anche le ridotte performance e la mortalità degli animali che vengono nutriti con mangimi contaminati. Gli effetti sulla salute umana sono meno facili da documentare, tuttavia in alcuni Paesi in via di sviluppo dell’area tropicale, a causa delle condizioni climatiche ed economiche, la contaminazione da micotossine dei cereali è manifestamente coinvolta in diverse patologie dell’uomo. Le micotossine preoccupano per diversi motivi: 1. possono essere presenti anche in alimento non visibilmente ammuffito; 2. hanno effetti tossici particolarmente insidiosi (cancerogeni, mutageni e immunodepressivi); 3. sono attive anche a basse concentrazioni; 4. sono particolarmente stabili; 5. non si dispone di antidoti nei loro confronti. Nella Tabella 1 vengono riassunte alcune caratteristiche fisico-chimiche delle più importanti micotossine.
7.2 Effetti sugli animali In ambito zootecnico, in relazione alle concentrazioni di micotossine presenti negli alimenti si possono manifestare: 1) micotossicosi cliniche, piuttosto rare e relativamente facili da diagnosticare perché caratterizzate da sintomi riferibili alla compromissione di apparati e organi bersaglio delle specifiche micotossine in causa; 2) micotossicosi subcliniche, relativamente frequenti e difficili da diagnosticare in quanto caratterizzate soltanto da calo quantitativo e qualitativo delle pro-
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duzioni ed eventualmente da patologie secondarie favorite dagli effetti immunodepressivi di alcune di esse. La aflatossina B1, se presente in concentrazioni elevate (alcune ppm nell’alimento) determina negli allevamenti avicoli, suinicoli e bovini, sindromi epatiche che possono essere caratterizzate da ittero, apatia, diarrea, melena oppure essere rapidamente letali, come più spesso accade nei giovani volatili (anatroccoli, tacchinotti). Nelle forme più lievi (centinaia di ppb nell’alimento) si riscontrano inappetenza e diarree, con ridotti incrementi ponderali, pelo ruvido opaco. All’esame anatomopatologico si segnalano: fegato degenerato e giallastro, gastroenteriti catarrali ed emorragiche, necrosi al ventriglio (polli) e allo stomaco (suini) ed emorragie petecchiali diffuse in mucose, muscoli e sottocute. L’ocratossina A colpisce essenzialmente i suini e il pollame. Raramente può essere a livelli tali (numerose ppm) da determinare intossicazioni acute; più spesso si osservano manifestazioni croniche caratterizzate da ridotto consumo di alimento, poliuria/polidipsia, disidratazione e dimagramento, connesse all’interessamento del rene che è organo bersaglio di questa tossina. All’esame anatomopatologico si rilevano reni aumentati di volume e di consistenza fibrosa (fibroplasia connettivale conseguente ai fenomeni di necrosi indotti dalla tossina). Nei polli si riscontrano anche ascite, idropericardio, depositi di urati in cavità e organi, colorazione scura del fegato, scarsa resistenza alla tensione dell’intestino dovuta a calo del collagene ed ossa gommose, con aumento dei diametri tibiali e scarsa mineralizzazione. I tricoteceni sono un gruppo di micotossine chimicamente correlate (sesquiterpenoidi). Ricordiamo la T2, la HT2, il deossinivalenolo (DON) e il diacetossiscirpenolo (DAS). Gli avicoli sono particolarmente sensibili, un po’ meno sensibili i suini e i ruminanti. DAS, T2 ed HT2 sono responsabili di ulcerazioni del cavo orale e del tratto gastrointestinale. Talvolta anche le superfici cutanee che vengono in contatto con l’alimento possono presentare aree necrotiche. Le lesioni necrotiche coinvolgono anche il sistema linfatico e il midollo osseo con conseguenti effetti immunodepressivi e pancitopenici. Gli animali, anche nelle tossicosi di lieve entità, presentano minore resistenza alle infezioni. Tutti i tricoteceni determinano inappetenza o addirittura rifiuto dell’alimento (cosiddetti ‘fattori di rifiuto’); il DON nel suino può determinare anche vomito, da cui il nome generico di ‘vomitossina’. Lo Zearalenone è particolamente attivo nel suino e nel coniglio. Gli effetti, connessi alla sua attività estrogena, variano a seconda delle categorie di animali coinvolte. Nelle scrofette si osservano edema della vulva, ipertrofia mammaria e dell’utero e in casi gravi anche prolassi vaginali e rettali. Nelle scrofe può comparire ninfomania quando l’esposizione interviene all’inizio del ciclo estrale (soppressione dell’ovulazione). Quando la stessa interviene a metà ciclo si ha effetto luteotropo,
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con ritenzione del corpo luteo ed anaestro (falsa gravidanza). Si segnalano inoltre aumento del numero di aborti e dei riassorbimenti fetali. Verri immaturi possono presentare un ritardo nello sviluppo dei testicoli e ridotta libido. La fumonisina B1 ha come organo bersaglio il fegato, ma nelle intossicazioni acute prevale il coinvolgimento del sistema nervoso centrale con encefalomalacia (nell’equino) e dell’apparato cardiocircolatorio, con conseguente edema polmonare (nel suino). Entrambe le sindromi sono rapidamente letali. L’equino mostra una sensibilità più spiccata, e anche concentrazioni dell’ordine di qualche ppm nell’alimento possono rivelarsi pericolose. Le principali caratteristiche di interesse tossicologico delle varie micotossine vengono riassunte nella Tabella 2. Alcuni effetti tossici delle micotossine, quali quelli cancerogeni, non trovano riscontro nella realtà pratica di allevamento, per il breve ciclo di vita degli animali, ma hanno dei riflessi molto importanti per la sicurezza delle derrate prodotte, e di questo si dirà più avanti. Altri effetti, connessi a basse concentrazioni di micotossine nell’alimento, pur non impedendo all’animale di giungere a macellazione, compromettono irreparabilmente il prodotto finale. Si pensi ad esempio alle petecchie emorragiche che possono presentarsi nelle carni del pollame per esposizione ad aflatossina, tossina T2 e HT 2, oppure alle degenerazioni epatiche da fumonisina nel suino. Dalla Figura 1 possono essere desunte graduatorie di sensibilità alle diverse micotossine, con riferimento alle concentrazioni nell’alimento completo, espresse in ppm (mg/kg) o ppb (μg/kg).
Fig. 1 - Livelli di micotossine nell’alimentazione in grado di determinare problemi evidenti alle diverse produzioni animali
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Premesso che, se i dosaggi assunti sono sufficientemente alti, qualsiasi specie animale può subire gli effetti negativi dell’esposizione alle micotossine, è importante considerare che i bassi livelli di contaminazione, frequentemente presenti negli alimenti destinati ai nostri animali d’azienda, possono essere decisamente dannosi per determinate specie ed esserlo poco o niente affatto per altre. In alcuni casi gli animali con rumine attivo risultano meno sensibili per il ruolo protettivo che i microrganismi esplicano, tramite le loro attività metaboliche, nei confronti delle micotossine. La specie suina invece è probabilmente quella che paga il maggior tributo, presentando una sensibilità media o alta praticamente a tutte le micotossine degne di considerazione; anche il coniglio e il pollo sono sovente sensibili. Nel pollame, in particolare, l’alta percentuale di mais nella dieta e l’eventuale utilizzo di cruscami può rendere il problema micotossine più scottante che in altre realtà zootecniche. Un discorso opposto può essere fatto a tal proposito per il pesce allevato, la cui alimentazione è molto povera di cereali. Viene tuttavia riportata in Figura 1 l’esemplare sensibilità della trota all’aflatossina B1; sono sufficienti infatti, come osservato sperimentalmente, concentrazioni di solo qualche ppb nella dieta per determinare, dopo alcuni mesi di esposizione, lo sviluppo di epatomi in un’alta percentuale di esemplari. È in virtù di questo e altri dati sperimentali che all’aflatossina è stato attribuito il triste primato di più potente epatocancerogeno naturale che si conosca.
7.3 Rischi per l’uomo L’interesse veterinario per le micotossine non è limitato agli effetti sul bestiame, ma riguarda anche gli eventuali riflessi negativi sulla salubrità dei prodotti di origine animale, ai quali questi contaminanti, o i loro metaboliti attivi, possono in alcuni casi trasferirsi. Riguardo questo ultimo aspetto il veterinario d’azienda, che segue l’alimentazione e lo stato di salute degli animali, e il veterinario che controlla i prodotti di origine animale, sono chiamati ad un’alta responsabilità. Le ricerche sino ad oggi condotte hanno dimostrato che la metabolizzazione epatica dell’aflatossina B1, e anche della M1 (che è a sua volta un metabolita della B1), può generare una molecola altamente reattiva (epossido) che, se non viene tempestivamente neutralizzata, è in grado di legarsi al DNA alterandolo. Queste modificazioni sono il punto di partenza degli epatocarcinomi che si osservano negli animali sperimentalmente esposti all’aflatossina B1, la quale (come la M1) rientra a pieno titolo nella categoria dei cancerogeni genotossici, categoria che va tenuta ben distinta da quella dei cancerogeni non genotossici (es. fumonisina). Infatti, mentre per i cancerogeni non genotossici è sempre possibile stabilire una soglia di dose al di sotto della quale l’effetto cancerogeno non può verificarsi, per i cancerogeni genotossici anche una sola molecola, in teoria, potrebbe essere in grado di far sviluppare un cancro. Pertanto, per sostanze
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come la aflatossina B1 non esiste una dose soglia per l’effetto cancerogeno, e il progressivo abbassamento delle dosi porta soltanto ad un progressivo abbassamento delle probabilità che l’evento cancro si manifesti. Dal punto di vista sanitario sarebbe auspicabile la completa assenza di cancerogeni genotossici, almeno negli alimenti destinati all’uomo. Tuttavia, la sensibilità degli attuali metodi di analisi, in grado di rivelare anche concentrazioni infinitesime quali i ng/kg (ppt), rende impraticabile questo obiettivo, almeno per i contaminanti. L’orientamento attuale delle autorità sanitarie per stabilire i Limiti Massimi Tollerabili di concentrazione dei cancerogeni diretti negli alimenti segue perciò il principio A.L.A.R.A. degli anglosassoni che è l’acronimo di As Low As Reasonably Achievable (tanto basso quanto ragionevolmente ottenibile). Questo spiega alcune apparenti incongruenze della regolamentazione dei Limiti Massimi Tollerabili per le aflatossine. Molti ad esempio fanno notare come negli USA sia in vigore un limite per l’aflatossina M1 nel latte (0,5 ppb) che è 10 volte più tollerante rispetto a quello in vigore nella UE (0,05 ppb). Questa differenza si giustifica col fatto che esistono ampie zone degli USA che presentano condizioni climatiche abbastanza favorevoli alla formazione delle aflatossine, per cui un limite più severo di 0,5 ppb, nel latte bovino, sarebbe impraticabile. Di fatto, la valutazione del rischio per i cancerogeni genotossici diretti viene effettuata, sulla base dei dati sperimentali, ricorrendo ad una estrapolazione lineare allo zero del limite di confidenza superiore della dose più piccola che ha prodotto il cancro nel modello sperimentale (vedi Fig. 2). Questo consente un calcolo teorico, ampiamente conservativo, della percentuale a rischio in una popolazione esposta a dosaggi minimi della sostanza in causa. È così possibile arrivare, ad esempio, a tollerare dei livelli massimi di residuo che, se costantemente presenti
Fig. 2 - Modello multistadio linearizzato per la stima del rischio di cancro a partire da osservazioni sperimentali
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nell’alimento, causano un rischio teorico di cancerogenesi in un individuo su un milione, o su 10 milioni o su 100 milioni. Il livello di residuo tollerato, se accettabile in base ad un criterio rischio/beneficio, è quello più conservativo che risulta ancora compatibile con i livelli inevitabili di contaminazione. Criteri tossicologici di questo tipo hanno portato in Europa a stabilire il limite particolarmente severo di 0,05 ppb per l’aflatossina M1 nel latte. Come conseguenza di tale limite l’allevatore di bovine da latte dovrà preoccuparsi dei livelli di aflatossina B1 nell’alimento della bovina anche quando questi non creano alcun problema di salute alla bovina stessa. Anche nella donna è stato constatato che l’ingestione di alimenti contaminati da aflatossina B1 comporta l’escrezione di aflatossina M1 nel latte. I monitoraggi finora condotti in Italia sul latte materno hanno tuttavia dato indicazioni molto rassicuranti. La stessa cosa purtroppo non può dirsi per alcuni Paesi in via di sviluppo; ad esempio, un monitoraggio condotto in Sierra Leone ha evidenziato una percentuale molto alta (88%) di positività del latte materno alle aflatossine. In diversi Paesi a clima tropicale, sia dell’Africa che dell’India, la presenza di aflatossine nel mais e in altri prodotti è stata da tempo correlata all’incidenza di tumori epatici, di cirrosi e di sindromi immunodepressive nell’uomo. Va sottolineato inoltre che in alcuni di questi Paesi, a causa della scarsa igiene degli alimenti che si combina inoltre ad un largo impiego dei cereali nell’alimentazione umana, ancora oggi si verificano nelle persone casi di intossicazioni acute da micotossine, laddove nei Paesi sviluppati le intossicazioni acute sono diventate rare anche negli animali. Altra micotossina particolarmente temibile per i riflessi sulla salute umana è l’ocratossina A (vedi Tab. 2). Sperimentalmente è stato dimostrato che questa micotossina è cancerogena per l’epitelio tubulare renale dei topi maschi e dei ratti di entrambi i sessi. Vari studi epidemiologici, oltre a mettere in relazione la presenza di ocratossina nei cereali e nel pane e le malattie del tratto urinario (Nefropatia Endemica dei Balcani), hanno evidenziato anche una correlazione con l’incidenza nell’uomo di tumori della pelvi e degli ureteri. Per questa tossina non si è giunti ancora a chiarire in modo definitivo se gli effetti cancerogeni siano o meno di origine genotossica diretta. Per motivi cautelativi, comunque, la valutazione del rischio viene effettuata come se si trattasse di un cancerogeno genotossico. L’ocratossina A ha una spiccata tendenza al legame con le proteine plasmatiche che, in particolar modo nel suino, ne determina una lunga persistenza nel sangue. Per questa ragione, in attesa che la normativa europea venga estesa anche ai prodotti di origine animale, alcuni stati hanno comunque provveduto a indicare dei limiti per i residui nelle carni e frattaglie suine. In Danimarca, che per particolari condizioni climatiche è particolarmente esposta al problema, già dal 1986 si effettuano controlli alla macellazione sui reni di suino, e livelli superiori a 10 ppb comportano l’eliminazione delle viscere,
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mentre livelli superiori a 25 ppb comportano l’eliminazione dell’intera carcassa. In Italia una circolare del Ministero della Salute ha indicato in 1 ppb il valore guida per carni suine e prodotti derivati. La particolare sensibilità dei metodi di analisi disponibili per l’ocratossina, unitamente alla sua lunga emivita, spiega anche perché i monitoraggi finora effettuati in Europa, Italia compresa, hanno fatto rilevare altissime percentuali di positività nel sangue umano. Tale positività va messa in relazione all’esposizione alimentare tramite prodotti di origine vegetale, infatti in questi la contaminazione è più frequente e più rilevante che nei prodotti di origine animale. Va ricordato a tal proposito che anche l’uva, il vino e il caffè, oltre alla maggior parte dei cereali, sono alimenti soggetti alla contaminazione da ocratossina. Nelle bovine la flora batterica ruminale è in grado di metabolizzare l’ocratossina A ad ocratossina alfa che poi viene assorbita e trasferita al latte, ma non sembra costituire un pericolo dal punto di vista tossicologico. Nei monogastrici invece, e quindi anche nella donna, venendo a mancare il ruolo protettivo della microflora ruminale, l’ocratossina A viene assorbita come tale e in parte trasferita al latte. Uno studio condotto in Italia e pubblicato nel 1991 da Micco e coll. ha in effetti evidenziato 9 positività (1,2–6,6 ng/ml) su 50 campioni di latte materno. In Sierra Leone la situazione è, anche in questo caso, più preoccupante, con un 35% di campioni positivi e una contaminazione media di 7,9 ng/ml. Un’altra micotossina che suscita una certa preoccupazione per la salute umana è la fumonisina B1, sia per gli effetti sul sistema nervoso centrale (encefalomalacia negli equini e, sperimentalmente, anche in tacchino e coniglio) che per l’attività cancerogena (tumori renali ed epatici nel ratto). Tuttavia, entrambi gli effetti sembrano essere collegati all’inceppo metabolico nella sintesi degli sfingolipidi, importanti costituenti di membrana, che tale tossina è in grado di generare, e si ritiene che per entrambi questi effetti esista un valore soglia al di sotto del quale non possono verificarsi. L’attività cancerogena è essenzialmente di tipo promotore, cioè la fumonisina B1 aumenta nei roditori la frequenza di comparsa di tumori spontanei o di tumori indotti da un cancerogeno genotossico, e si manifesta soltanto per esposizione a dosi consistenti di fumonisina B1. In effetti, in alcuni aree del Sud Africa e della Cina, in cui la contaminazione da fumonisina B1 del mais è particolarmente elevata, è stata evidenziata una probabile correlazione con l’incidenza del tumore esofageo nell’uomo. Un’ipotesi del genere è stata avanzata anche per alcune zone del Friuli, in relazione al frequente consumo di polenta nell’alimentazione umana, tuttavia la presenza in quelle popolazioni di una sensibile esposizione ad altri fattori che predispongono al cancro esofageo (consumo di alcolici e di tabacco) non ha consentito di trarre delle conclusioni a riguardo. Il cancro è una malattia multifattoriale, il che rende particolarmente complesse le valutazioni epidemiologiche. Ad esempio, nel caso delle correlazioni osservate
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per aflatossina B1 e tumori epatici in Paesi quali il Mozambico, vengono considerati responsabili anche altri fattori predisponenti tipici di quelle aree, quali la malaria e l’epatite B. Una caratteristica particolare della fumonisina B1 è la sua spiccata idrosolubilità, che ne limita fortemente l’assorbimento a livello gastroenterico. È anche per questo motivo che, in condizioni naturali, alcune specie (i ruminanti ad esempio) risultano molto meno sensibili di altre. Sarebbe importante, pertanto, conoscere le percentuali di assorbimento nell’uomo, in modo da poter meglio valutare i rischi connessi all’esposizione a questa tossina che è un comune contaminante del mais coltivato in Italia. Per lo Zearalenone è stata calcolata una assunzione giornaliera tollerabile per l’uomo pari a 0,2 μg/kg p.c./die. Questo basandosi sulla dose senza effetti ormonali nel suino, l’animale più sensibile, ed applicando opportuni fattori di sicurezza. Le stime di assunzione per il consumatore europeo hanno fornito risultati abbastanza tranquillizzanti (0,02 μg/kg p.c./die) e lo zearalenone può essere considerato una fonte estrogenica minore nell’alimentazione umana. Esistono infatti sostanze di origine vegetale dotate di attività estrogena (fitoestrogeni) e presenti in numerosi alimenti. Per la sua attività ormonale lo zearalenone è stato preso in considerazione come possibile causa della comparsa di modificazioni puberali precoci nei bambini e ne è stata anche suggerita la possibile corresponsabilità nel cancro della cervice della donna. Tuttavia tali ipotesi sono ben lungi dall’essere confermate e rimangono di tipo speculativo. Infine, non possono essere esclusi rischi per l’uomo connessi all’esposizione ai tricoteceni, sostanze i cui effetti mielotossici furono probabilmente responsabili della Aleuchia Tossica Alimentare, un endemia che, nel corso della II guerra mondiale, provocò centinaia di migliaia di vittime in varie zone della Russia. I livelli di contaminazione erano divenuti elevatissimi perché, in quelle circostanze, i cereali erano rimasti a lungo ad ammuffire sui campi prima di poter essere raccolti. Il Comitato Scientifico sugli Alimenti della Commissione Europea ha provvisoriamente indicato una TDI (assunzione giornaliera tollerabile) pari a 1 μg/kg p.c./ die per il deossinivalenolo, 0,7 μg/kg p.c./die per il nivalenolo e 0,06 μg/kg p.c./ die per T2 e HT2. Restano comunque da chiarire eventuali effetti additivi, sinergici o antagonisti tra queste molecole, in quanto esse agiscono con meccanismi tossicologici analoghi ed hanno la tendenza a comparire insieme nelle derrate contaminate. Per questi motivi è possibile che in futuro si arriverà a indicare dei limiti di tolleranza nelle derrate alimentari espressi come somma totale dei diversi tricoteceni. Non sembra che i tricoteceni abbiano azione cancerogena, ma l’elevato potere immuno-depressore di queste molecole potrebbe favorire l’emergenza di tumori più o meno spontanei, che potrebbero altrimenti essere elimina-
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ti o contrastati dai normali meccanismi di difesa dell’organismo. Infine, un aspetto spesso sottovalutato del problema micotossine è quello del rischio connesso all’esposizione per via inalatoria. Poiché le micotossine sono relativamente non volatili, l’esposizione per questa via è essenzialmente limitata all’inalazione di materiale particolato: o di origine fungina (di solito spore), o derivante da substrati contaminati. L’inalazione di questo materiale particolato può trasportare le micotossine fino agli alveoli polmonari. Una volta negli alveoli i tricoteceni possono interferire con le risposte immunitarie, mentre altre micotossine hanno mostrato di interferire con la rimozione, da parte dei macrofagi, delle particelle estranee. Questi effetti sono potenzialmente in grado di aprire la strada ad infezioni. Allo stato attuale, l’esposizione inalatoria dell’uomo alle micotossine, nei settori della manifattura e dell’agricoltura, è ritenuta probabilmente corresponsabile di diverse manifestazioni patologiche, tra cui: 1. alcuni tumori in operai del settore agricolo e della trasformazione degli alimenti (con particolare riferimento alle aflatossine); 2. la sindrome da polveri organiche tossiche (OTDS) molto comune in agricoltori e in individui esposti all’inalazione di polveri di cereali, fieno, funghi, batteri e loro metaboliti, insetti, acari, ecc.; 3. la polmonite interstiziale negli operai del settore tessile.
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Riassumendo… Micotossine: effetti sulla salute umana e animale Le micotossicosi acute in ambito zootecnico sono divenute rare, nei Paesi sviluppati, come risultato dell’accresciuta igiene degli alimenti per gli animali. Lo stesso non può dirsi per le micotossicosi subcliniche, legate alla presenza di basse concentrazioni di micotossine negli alimenti e in grado, comunque, di incidere pesantemente sull’economia aziendale. In particolare, gli effetti immunodepressivi di diverse micotossine possono esporre gli animali a patologie da germi banali o rendere meno efficace la risposta alle vaccinazioni. Talvolta, anche conseguenze tossicologiche minori, pur non impedendo all’animale di giungere a macellazione, compromettono irreparabilmente il prodotto finale. Altri effetti tossici legati a piccole dosi di micotossine, quali quelli cancerogeni, non trovano riscontro nella realtà pratica di allevamento per il breve ciclo di vita degli animali, ma hanno, per le possibili conseguenze sulla salute umana, dei riflessi importanti sulla sicurezza delle derrate prodotte. In particolare, risultano temibili per l’uomo le aflatossine 131 ed M1, che sono cancerogeni genotossici, I’ocratossina A, che avrebbe una attività genotossica indiretta, e in misura minore la fumonisina 131, che non è genotossica. Dal momento che, almeno in teoria, anche una singola molecola di cancerogeno genotossico può essere il punto di partenza di un evento cancerogeno, dal punto di vista sanitario sarebbe auspicabile la completa assenza di sostanze come le aflatossine, almeno negli alimenti destinati all’uomo. Tuttavia, la sensibilità degli attuali metodi di analisi, in grado di rivelare anche concentrazioni infinitesime quali i ng/kg (ppt), rende impraticabile questo obiettivo. L’orientamento attuale delle autorità sanitarie per stabilire i Limiti Massimi Tollerabili di concentrazione dei cancerogeni genotossici negli alimenti segue perciò il principio A.L.A.R.A. degli anglosassoni che è l’acronimo di As Low As Reasonably Achievable (tanto basso quanto ragionevolmente ottenibile).
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Mais e alimentazione: aspetti legislativi Fiorenza Anfuso e Piero Vio, Unità di Progetto Sanità Animale e Igiene Alimentare Regione del Veneto
L’Unione Europea ha fatto della sicurezza alimentare una delle grandi priorità del suo programma politico tanto da risultare un obiettivo comune a tutto il comparto agroalimentare che si sviluppa nel suo insieme, tra le altre, nella politica agricola comune (PAC), nella realizzazione del mercato interno, nella protezione dei consumatori, nella sanità pubblica nonché nelle azioni svolte a favore dell’ambiente. Il verificarsi, nel corso degli anni ’90, di una serie di gravi emergenze quali, ad esempio, la BSE, l’utilizzo di ormoni negli animali da produzione, il riscontro negli alimenti di sostanze tossiche (diossine, PCB, metalli pesanti, ecc.), le micotossine e infine il problema ancora aperto degli organismi geneticamente modificati, hanno reso evidente una significativa vulnerabilità del sistema produttivo determinata, in parte, anche dalla incapacità dei sistemi di controllo ad intercettare il “problema” poichè, prevalentemente, orientati sulla esclusiva verifica del prodotto finito e non, invece, lungo tutta la filiera produttiva. Il contestuale affermarsi di nuove tecnologie di produzione, preparazione e somministrazione degli alimenti, la libera circolazione di merci e di persone, il processo continuo e inarrestabile della globalizzazione, hanno reso necessaria la revisione dell’intera legislazione dei diversi Stati Membri in modo che trovasse pieno sviluppo un omogeneo approccio alla materia e venissero assicurate sempre maggiori condizioni di sicurezza alimentare non solo nel libero transito delle merci in ambito del mercato comunitario ma, soprattutto, nella tutela igienico-sanitaria del consumatore poiché, in caso contrario, si sarebbero “globalizzate” solamente le emergenze delle produzioni di alimenti per gli animali (feed) e per l’uomo (food). In questo contesto, ulteriore elemento critico è risultato essere, tra gli anni ’80 e ’90, la diversa applicazione, operata dagli Stati Membri, delle numerose direttive comunitarie emanate. In quegli anni, infatti, la Commissione Europea aveva ritenuto più opportuno sviluppare la graduale armonizzazione degli ordinamenti locali attraverso l’utilizzo della “direttiva”, dispositivo legislativo, questo, che per diventare vincolante per lo Stato Membro necessita del suo recepimento nell’ordinamento attraverso uno specifico provvedimento di legge (decreto ministeriale, decreto legislativo, ecc.); purtroppo, la flessibilità che detto strumento normativo consentiva è stata, in taluni casi, utilizzata per derogare agli obiettivi prefissati anziché per assicurare, come era intendi-
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mento della Commissione, la gradualità nei tempi per il loro raggiungimento. Quindi, le continue allerte alimentari, i rilevanti costi che si dovevano sostenere per superarle e il significativo sviluppo del mercato europeo, dato dall’ingresso di nuovi Stati nella Comunità, hanno spinto la Commissione Europea ad interrogarsi sui rischi alimentari che derivavano da un sistema produttivo che, se per tradizione e cultura poteva essere ovviamente non omogeneo, non solo non riusciva ad armonizzarsi ma, addirittura, in taluni casi andava a determinare sempre maggiori diseguaglianze tra gli Stati Membri che, di conseguenza, manifestavano crescenti difficoltà nel riconoscersi negli obiettivi fissati a livello comunitario. Così nel gennaio del 2000, la Commissione Europea ha pubblicato il “Libro Bianco sulla sicurezza alimentare” tracciando un nuovo percorso per l’armonizzazione delle politiche europee del comparto agroalimentare. In esso sono contenuti i principi sui quali la Commissione ha definito la successiva normativa di settore in corso di realizzazione mediante l’utilizzo dello strumento normativo del “regolamento”; dispositivo, questo, che non necessita più di formale recepimento nell’ordinamento nazionale ma immediatamente e direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri. A partire dalla fine anni ’90, inoltre, e soprattutto dalla pubblicazione del Libro Bianco, i regolamenti sono stati emanati anche con l’obiettivo di armonizzare e integrare le azioni dei diversi operatori, attraverso la chiara individuazione dei ruoli, e relative competenze, degli operatori pubblici e privati, afferenti la filiera, ovvero dei produttori di alimenti per animali, degli operatori della produzione primaria, degli operatori del settore alimentare, degli organi di controllo degli Stati Membri (comunitario, nazionale, regionale e/o locale), mantenendo la centralità del consumatore, prioritariamente, come figura da tutelare e, secondariamente, come destinataria di tutte le informazioni relative alle problematiche alimentari e, quindi, parte consapevole e attiva del “sistema sicurezza”. Con l’obiettivo, pertanto, di assicurare l’indipendenza, l’eccellenza e la trasparenza dei pareri scientifici la Commissione ha istituito l’EFSA (European Food Safety Authority), strumento portante del nuovo sistema poichè le valutazioni sugli elementi di controllo ufficiale o di autocontrollo si dovranno basare sulle analisi operate da una struttura indipendente da quella che deve gestire il rischio. Ulteriore elemento di forte innovazione individuato dalla Commissione Europea è stato determinato dalla considerazione che tutte le attività di verifica sulle produzioni realizzate dall’operatore (autocontrollo) e dall’autorità pubblica di controllo (controllo ufficiale) non possono e non debbono essere più concentrate sul solo prodotto finito ma, al contrario, lungo tutto il processo di
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produzione, “dal campo alla tavola”, in modo che anche le garanzie date dal produttore primario diventino parte integrante del sistema di garanzia. Operare controlli già alla produzione primaria, come ad esempio nel caso del mais per la produzione di latte, consente d’intercettare il problema della possibile contaminazione da micotossine prima dell’immissione sul mercato di prodotti derivati. Detta modalità operativa, infatti, comporterebbe evidenti benefici economici per il produttore, in quanto eviterebbe di impegnare nella filiera produttiva del prodotto non conforme, per il controllore ufficiale, poiché l’intervento verrebbe ad essere indirizzato verso fasi della filiera a minor impatto economico ma, soprattutto, per il consumatore poiché avrebbe un prodotto più sicuro e, comunque a minor costo. È appena il caso di sottolineare, poi, che per alcune tipologie di prodotto detto intervento, se ben effettuato, potrebbe comportare, in futuro, anche utilizzi alternativi alla semplice distruzione quali, ad esempio, il riutilizzo delle produzioni non idonee a soli fini zootecnici. In ogni caso, tuttavia, per poter realizzare correttamente questo nuovo approccio è indispensabile che trovino piena attuazione i due concetti su cui si basa la legislazione comunitaria entrata in piena applicazione il 1 gennaio 2006, ovvero la tracciabilità degli alimenti in tutte le fasi che li riguardano, dalla produzione primaria alla lavorazione, dall’immagazzinamento alla distribuzione, e l’analisi del rischio che trova applicazione nella valutazione, gestione e comunicazione del rischio. È indispensabile, cioè, che il percorso che l’alimento (feed e/o food) compie lungo il processo produttivo sia in ogni momento verificabile, in modo da poter intercettare ed eliminare possibili criticità e, non da ultimo, dimostrare la piena conoscenza del processo produttivo. Quanto sopraesposto ha trovato piena realizzazione con il “Regolamento del Parlamento Europeo e del consiglio n. 178/2002/CE” che, concretizzando i citati concetti e uniformando al contempo le politiche sanitarie degli Stati Membri, ha stabilito i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare e istituito l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, riorganizzando il sistema di allarme rapido per l’alimentazione umana e animale. Inoltre, sempre il Regolamento CE n.178/2002, all’art.10 riafferma la necessità dell’informazione ai cittadini sulla natura dei rischi alimentari: i cittadini europei in qualità di consumatori devono essere informati qualora vi siano ragionevoli motivi per sospettare che un alimento comporti un rischio per la salute (Considerando n. 22 del citato regolamento). Infatti, la Commissione fin dalla pubblicazione del “Libro bianco”, assieme all’Autorità per la sicurezza alimentare (EFSA), vuole promuovere il dialogo con i consumatori per coinvolgerli pienamente nella politica della sicurezza alimentare.
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Il consumatore deve poter fare scelte alimentari consapevoli sulla base delle indicazioni e degli strumenti messi a disposizione dall’operatore e dal controllore, ognuno per la propria competenza, quali: l’informazione continua da parte dell’EFSA in materia di sicurezza alimentare, l’utilizzo di pubblicità non ingannevole, la conformità della etichettatura in modo da assicurare corrette informazioni sugli effetti benefici di un alimento (informazioni funzionali), sulla presenza/assenza o livello nutritivo contenuto in un alimento o il suo valore rispetto a prodotti alimentari analoghi (informazioni nutritive). I cittadini europei, meglio informati e meglio organizzati, hanno esigenze crescenti in materia di sicurezza e di qualità alimentare che né i responsabili del settore agro-alimentare, né le istituzioni possono ignorare. In questo quadro normativo in continua evoluzione, si è reso comunque necessario che il legislatore fornisse, sia agli organi di controllo che alle impre-
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se alimentari, uno strumento utile nella gestione di talune problematiche, quali ad esempio quelle relative al riscontro di alimenti contaminati da micotossine, stabilendo il principio secondo il quale non è sufficiente tendere al “semplice” rispetto dei tenori massimi delle stesse ma, al contrario, che tutto lo sforzo della filiera dovrà essere volto alla progressiva riduzione dei medesimi. Infatti, se è vero che il Regolamento CE n.1525/98, che completa il precedente Regolamento CE n.194/97 della Commissione, stabilendo tenori massimi ammissibili per alcuni contaminanti presenti in prodotti alimentari tra cui le micotossine, era stato emanato per evitare disparità tra gli Stati Membri tali da provocare distorsioni della concorrenza in quanto solo alcuni Stati Membri avevano adottato, o prevedevano di adottare, dei limiti massimi per le aflatossine in alcune derrate alimentari, è altrettanto vero che, successivamente, il Regolamento CE n.466/01, abrogando il Regolamento CE n.194/97, per tutelare maggiormente la salute pubblica, amplia, in taluni casi, e rinnova, in
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altri, i concetti già in esso contenuti, disponendo che la presenza di contaminanti, infatti, debba essere ulteriormente ridotta, ove possibile, anche mediante corrette prassi agricole e di produzione e disponendo l’utilizzo di un’adeguata etichettatura in modo da poter operare un efficace controllo dei limiti fissati sulla base della esatta destinazione dei prodotti considerati. Al Regolamento CE n.466/01 sono seguite numerose modifiche che hanno aggiornato i limiti di micotossine negli alimenti alla luce delle nuove conoscenze scientifiche, mantenendo, però, i principi secondo cui i prodotti alimentari, al momento dell’immissione in commercio, non possono presentare tenori di micotossine maggiori di quelli indicati nella normativa; i prodotti conformi ai limiti imposti per le aflatossine non possono essere mescolati con altri prodotti che superano questi limiti; è vietato utilizzare prodotti non conformi ai limiti massimi stabiliti come ingredienti per la fabbricazione di altri prodotti alimentari e, infine, decontaminare i prodotti mediante trattamenti chimici.
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Deve essere inoltre evidenziato che laddove il legislatore europeo non abbia dato dei limiti, vi ha provveduto il Ministero della Sanità con propria circolare del 9 giugno 1999, n. 10, ove, su proposta dell’Istituto Superiore di Sanità, ha fissato i “valori guida” di micotossine su alcune matrici alimentari che non erano state previste dal Regolamento CE n.1525/98 né dalle successive modifiche e integrazioni. Un altro gruppo di micotossine molto importante sono le fusarium-tossine, di cui fanno parte le fumonisine, deossinivalenolo (DON), zearalenone, tossina T-2 e HT-2; il loro limite è fissato nel Regolamento CE n.856/2005 che modifica, ampliandolo, il Regolamento CE n.466/2001, e, sebbene il rispetto del limite diventi obbligatorio a decorrere dal 1° luglio 2006, si ritiene opportuno,
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comunque, riportarne i valori (Tabb. 4, 5 e 6). Per quanto riguarda il mais, non essendo ancora noti con precisione tutti i fattori implicati nella formazione delle fusarium-tossine in particolare di zearalenone e le fumonisine B1 e B2, la Commissione ha fissato un periodo di tempo più lungo per raccogliere nuovi dati relativi alla loro presenza ma proponendo, qualora non ci dovessero essere ulteriori conoscenze in merito, di applicare i tenori massimi, basati sui dati disponibili, a decorrere dal 1° ottobre 2007. In questo regolamento non è stata presa in considerazione la contaminazione da fusarium-tossine nel riso e nei suoi derivati in quanto è risultato molto contenuto il suo livello di contaminazione. (i valori sono espressi in ppb - μg/kg). La Direttiva n.2002/32/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle sostanze indesiderabili nell’alimentazione degli animali nell’allegato I al punto 7 include tra le sostanze indesiderabili l’aflatossina B1 e ne fissava i contenuti massimi per i prodotti destinati all’alimentazione degli animali, successivamente con Direttiva n.2003/100/CE della Commissione il punto 7 è stato sostituito con i limiti riportati in Tabella 7. Come gli alimenti destinati all’alimentazione umana così anche gli alimenti destinati agli animali, se superano il livello massimo fissato in aflatossina B1, non possono essere mescolati a scopo di diluizione con lo stesso prodotto o con altri destinati all’alimentazione degli animali (dette direttive sono state recepite in Italia con D.Lgs. n.149/2004). Da quanto sopra riportato, quindi, appare evidente come la Comunità Europea, nella necessità di individuare dei parametri oggettivamente significativi al fine di determinare il limite inderogabile alle produzioni esitate al consumo, abbia anche precisato che lo sforzo dell’operatore deve essere quello di operare affinché le proprie produzioni (feed e/o food) tendano comunque alla riduzione della presenza di contaminanti presenti o, laddove per caratteristiche produttive il livello di contaminazione sia già naturalmente inferiore al limite di legge, rispettino detto limite “naturale” quale nuovo limite di legge. Questo, in definitiva, è il nuovo sistema che la Comunità Europea vuole e che peraltro la Regione del Veneto ha già reso applicabile per alcuni contaminanti, ovvero la obbligatorietà nel rispetto di un limite massimo ma, anche, la contestuale attività di studio e approfondimento per lo sviluppo di strumenti utili alla riduzione della presenza di contaminanti nelle produzioni alimentari poiché la progressiva riduzione di sostanze chimiche negli alimenti destinati all’uomo e agli animali è considerata un fondamento della sicurezza alimentare.
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Riassumendo… Le principali fonti normative in materia di micotossine • Regolamento CE n.194/97 • Regolamento CE n.1525/98 • Regolamento CE n.466/01 • Regolamento CE n.178/02 • Regolamento CE n.472/02 • Regolamento CE n.2174/03 • Regolamento CE n.683/04 • Regolamento CE n.856/2005 • Direttiva n.2002/32/CE • Direttiva n.2003/100/CE • Circolare del Ministero della Sanità n.10/99 • D.Lgs. n.149/2004
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