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La ricerca di un metodo per una miscellanea collezionistica

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di Guido Curto

di Guido Curto

Frammenti figurativi

vita. Forse proprio perché “inconsciamente cosciente” della grave colpa di cui tali memorie artistiche domestiche si erano ammantate nel determinare le mie scelte di vita, esse furono lasciate ai margini dei miei interessi di ricerca e di lavoro sino a quando i giochi, in tempi recenti, si sono improvvisamente riaperti, proprio in relazione a quel ritorno all’ovile delle stesse e alla necessità dover dare una sistemazione definitiva al tutto.

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La ricerca di un metodo per una miscellanea collezionistica

Il primo tempo della partita che si veniva così ad avviare nella dimora di Cassine è stato incentrato nel tentativo di fornire una collocazione fisica a tutte le opere - sia quelle mai rimosse, sia quelle “ritornate a casa” - all’interno di un percorso logico il quale, purtroppo, non sempre si presentava di estrema semplicità. Sarebbe stato troppo scontato il potersi riferire ad eventuali sistemazioni pregresse e abbandonarsi pertanto alla sedimentazione della storia senza se e senza ma. Tuttavia, ciò non era possibile in quanto le turbolenze che caratterizzano la vita di tutti, avevano in anni passati determinato anche il destino delle opere di casa. A causa di rivolgimenti, cambi di destinazioni d’ uso, divisioni, suddivisioni, timori, precauzioni e quant’altro possiamo immaginare in tempi che avevano visto di tutto, comprese le terribili battute finali della Seconda guerra mondiale con le scorrerie tedesche nei nostri paesi, le opere furono tolte dalle pareti e ammassate in un’ unica stanza ridotta al ruolo di magazzino e qui da noi ritrovate. Pertanto, la scelta di metodo non poteva cadere su di un parametro tematico o tecnico o di gusto personale ma su un orientamento di coerenza storica e cronologica che doveva procedere di pari passo con il recupero storico, funzionale e decorativo degli ambienti. Questa situazione ci ha suggerito di procedere partendo da una delle parti più antiche della casa, il così detto salone di ingresso, caratterizzato da un robusto e monumentale solaio ancora in travatura lignea, riferibile ancora al corpus originario dell’edificio di epoca tardo medioevale. Questo comprendeva, al piano della strada, l’affaccio di due botteghe di una beccaria - di cui una con-

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

serva ancora l’originaria volta a crociera - precedute all’esterno da una struttura porticata ancora esistente. Sul piano superiore si estendeva un unico grande vano illuminato da uno o due finestroni, le cui vestigia sono parzialmente intuibili da un’attenta osservazione della facciata esterna. L’interno di questo vano venne successivamente tramezzato, ottenendo altri due camere sul lato nord e implicando all’esterno una revisione generale delle luci. All’interno, pur mantenendo la vecchia travatura del soffitto con mensole sagomate, si realizzarono una serie di nuovi infissi come le porte e sovrapporte, databili a una fase settecentesca. Il salone si presentava quindi come l’ambiente ideale per collocare le opere che potevano richiamarsi a epoche tra il tardo Cinquecento e il Settecento, mentre le altre sale si presentavano al meglio per ospitare episodi artistici risalenti al secolo successivo, in sintonia con le loro attuali caratteristiche costitutive e decorative.

Questa presa di coscienza, unitamente al rinvenimento di altre memorie, fatalmente recuperate all’interno di cassetti gremiti di miriadi di cianfrusaglie o strappate a forza dall’anticamera del deterioramento irreversibile, ovvero il solaio, ha determinato l’avvio di un processo di ricerca e identificazione che non poteva essere appagato dalla semplice collocazione, seppur sensata, delle opere sulle pareti di casa ma doveva, per forza di cose, misurarsi con una approfondimento volto a conferire alle stesse una dimensione più definita. Mi chiesi se e che cosa sarebbe stato ancora possibile dire sul piano della provenienza, delle inclinazioni di gusto della committenza, della identificazione dei soggetti e delle aree culturali di produzione. Insomma, poteva essere quantomeno immaginabile l’identificazione di alcuni gruppi omogenei di opere e un loro plausibile collegamento al gusto, alla cultura, agli orientamenti di alcuni personaggi della famiglia?

La situazione iniziale appariva comunque molto complessa: le opere, tranne poche eccezioni circoscrivibili ad alcune stampe, a due ritratti ottocenteschi in cui a stento riuscii a leggere la firma di Dionigi Faconti (foto 2-3), e a una bella scena all’aperto dello stesso secolo a firma di certo Giacomo Stabilini (foto 4), non riservavano alcuna indicazione. Determinati dipinti presentavano, sul retro delle loro cornici, brandelli

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