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Palma e la casa di Leinì
Frammenti figurativi
archivio, conservandosi generosamente fino a oggi. Proprio attraverso queste carte viene alla luce tutta una letteratura, un po’ vera e un poco mitizzata, che nel corso del Settecento si era andata sviluppando sul tema del ramo francese della famiglia Scarrone, dal quale sarebbe disceso, insieme ad altri illustri personaggi, proprio il Paul Scarron scrittore.Anzi, venivano prodotte prove che il ramo francese degli Scarrone - famiglia originaria di Chieri poi insediatasi in Torino - derivava da quello italiano in seguito al trasferimento in Francia di alcuni suoi membri già nel corso del Cinquecento8 .
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Per farla breve, quei due minuscoli relitti cartacei incorniciati e appesi in un angolo buio della casa, si sono rivelati preziosi indizi attraverso i quali poter constatare come il mito dell’apparentamento con un re francese non fosse stato frutto della fantasia visionaria di qualche trisnonno ma fosse ben consolidato almeno dal XVIII secolo e, sin dall’origine, fosse stato supportato da dati ed elementi documentari tutto sommato plausibili nonché estremamente interessanti.
In conclusione: vale sempre la pena di verificare i miti, sia per quanto riguarda la loro più o meno sostanziale adesione alla realtà, sia per comprenderne l’origine e le possibili cause che li hanno determinati.Anche gli episodi o gli oggetti apparentemente più insignificanti possono rivestire un ruolo straordinario e strategico sul piano della ricerca storica.
Infine occorre precisare che il modello della donna abile nelle pubbliche relazioni ma dai costumi seri e austeri, nonché dedita alla preghiera e alle opere di carità, quale è il caso della Maintenon ritorna in diverse occasioni all’interno del mito familiare.
Palma e la casa di Leinì
Un oggetto piuttosto anomalo ha sempre destato la mia curiosità. Nella sala rossa, adagiata sul piano di un mobile a più mensole, fa bella mostra di sé una voluminosa campana di vetro, montata su di una base in legno di forma ellittica, all’interno della quale sono custodite delle foglie di palma rinsecchite (Foto 25). Le foglie non sono disposte in modo casuale ma costituiscono una sorta di composizione a intreccio. Ben-
Gianfranco Cuttica di Revigliasco
ché il tema delle campane di vetro, utilizzate come vetrinette per proteggere e valorizzare oggetti, sia estremamente diffuso nell’ambito degli arredi delle case del XIX secolo e soprattutto in relazione a prestigiosi orologi da mensola o preziosi e delicati vasi ornamentali con fiori di carta, quello che, nel caso specifico, mi suonava un poco anomalo era il contenuto. Perché delle foglie di palma? Se non fosse intervenuta in soccorso la memoria orale di famiglia, non avrei avuto alternative che orientarmi sulle tracce di simboli religiosi, del tipo di reliquie o consimili. Per la tradizione familiare, invece, la pianta aveva una specifica funzione celebrativa rispetto a un preciso personaggio femminile il cui nome era Palma. Insomma, lo strano soprammobile fu espressamente realizzato in suo onore e oggi segnatamente conservato in sua memoria, in quanto l’antenata fu la prima - ma credo anche l’ ultima - di nome Palma nell’ambito della famiglia Cuttica.
Ma chi era Palma Cuttica, più confidenzialmente ricordata come zia Palma? Ultima dei figli maturati dal matrimonio tra il notaio Tommaso Cuttica e Agacle Luigia Scarrone, nasce nel 1817. A differenza delle altre sue sorelle Teresa, Giuseppina e Luigia, rimane nubile. Sopravvive anche alla morte dei fratelli Vincenzo,Angelo e CarloAlberto, divenendo il principale soggetto destinatario dei beni di famiglia. Muore nel 1899. Le sopravvive esclusivamente il fratello Francesco - dal quale discende il ramo della famiglia a cui fa capo anche il sottoscritto - che morirà nel maggio del 1908.
Secondo la tradizione, Palma fu il soggetto cardine a cui essere debitori morali in quanto dal suo asse ereditario e dalla sua indubbia abilità nell’amministrare con parsimonia, derivano la casa di Cassine e le opere in essa custodite: una sorta di attenta, austera e seria protettrice della famiglia e dei beni che, proprio grazie a lei, vengono custoditi e amorevolmente curati, conservandosi sino ai nostri giorni.Aessere sinceri, non sappiamo molto della sua figura ma i pochi dati documentari in nostro possesso parrebbero sostanzialmente confermare quell’aspetto austero e generoso sempre attento ai fabbisogni delle persone, nonché particolarmente incline alla gestione delle situazioni finanziarie e umane che la mitologia familiare ha costruito su di lei. A titolo esemplificativo, depongono a favore di questa tesi la documentata appartenenza di
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Palma nell’ambito dei cooperatori salesiani come attesta specifico regolamento a firma autografa di San Giovanni Bosco, oppure la presenza tra le consorelle della Pia Società di san Giovanni Nepomuceno di Torino, oppure ancora la sua chiamata in causa come erede universale nel testamento della sorella Luigia in De Rossi «... in attestato e riconoscenza della continua assistenza che sempre ebbe a prestarmi». La sua forza d’animo, il carattere piuttosto energico, fanno sì che, nonostante la sua veneranda età, nel 1896 la si ritrovi a Roma per sbrigare alcune questioni familiari. Insomma, il classico personaggio poco incline all’autocelebrazione, storicamente poco “rumoroso” ma silenziosamente onnipresente e determinante nello svolgersi dei fatti e delle situazioni che hanno segnato la storia di famiglia durante il XIX secolo tanto che, ancora il mio nonno paterno, a suo tempo, ebbe modo di ammonire i suoi figlioli, invitandoli al rigoroso rispetto di quella palma custodita in una campana di vetro.
Sino a qui parrebbe tutto nella norma: una situazione per il momento priva di particolari propensioni per quella elaborazione mitologica che, viceversa, abbiamo riscontrato in atri casi. Tuttavia anche la stessa zia Palma cade vittima di tale tendenza non appena la sua azione viene narrata non solo in riferimento alla dimora cassinese ma si estende anche a un altro luogo fondamentale per la storia della famiglia, ovvero la casa di Leinì. A questo punto si assiste all’avviarsi di un processo di identificazione tra un soggetto e la vicenda di più dimore, come se nell’azione di Palma Cuttica si potesse riassumere, attraverso una mirabile sintesi, tutto ciò che è avvenuto in più luoghi e in tempi diversi. In sintesi, nella memoria di famiglia la storia della casa di Leinì e quella della zia Palma si fondono in una mirabile sintesi, riassumendo in un unico soggetto e in un unico luogo la discendenza di tutte le cose importanti che oggi risiedono nella casa di Cassine, ribaltando altresì a un’epoca più prossima fatti e vicende che, viceversa, si diluiscono in tempi ben più ampi.
Ma che cosa rappresentò la casa di Leinì e quale ruolo ebbe a rivestire? A quale periodo e a quale contesto ci si riferisce?
Iniziamo col dire che tale dimora, oggetto della nostra indagine, intimamente legata alle sorti della famiglia Scarrone, diviene in parte della progenie dei Cuttica nel corso del XIX secolo per poi scomparire dagli
Gianfranco Cuttica di Revigliasco
interessi di famiglia nel secolo successivo.Abbiamo già avuto modo di accennare agli Scarrone, famiglia originaria di Chieri stabilitasi aTorino nel corso del XVI secolo. I primi sintomi di un interesse di tale gruppo familiare per Leinì risalgono al 1685 allorquando il priore don Pietro Francesco Antonio di Torino del fu Giovanni Antonio, sempre di Torino, compra una casa a Leinì. Notizie più circostanziate che documentano il radicarsi della famiglia in tale luogo risalgono al 30 dicembre 1706 data in cui lo stesso Pietro Francesco, che era «prevosto della parrocchiale di Leyni», viene citato con il di lui fratello FrancescoAntonio, archivista camerale, in un atto di infeudazione di «lire 7,5 di registro» sul territorio di Leinì.
A tutti gli effetti la casa di Leinì era la dimora eletta di quel nucleo familiare: un’ampia struttura extraurbana che custodiva le memorie di quella famiglia che, proprio su quel territorio possedeva diversi beni. Uno dei momenti più importanti nelle dinamiche di quel gruppo familiare - ma che paradossalmente viene anche a segnare l’inizio del suo declino - risale a Giuseppe Francesco Scarrone, figlio di Francesco Riccardo, già tesoriere dell’Ospedale di Carità di Torino, e di Teresa Bertalazone d’Arcahe. Giuseppe Francesco, avvocato, nel 1791 viene nominato da VittorioAmedeo III sostituto sovrannumerario nell’avvocatura generale del Senato, nel 1797 viene investito col titolo comitale dei feudi di Revigliasco e di Celle e nel 1803 risulta avvocato generale nel Senato di Piemonte e Presidente del tribunale di prima Istanza ad Ivrea. Muore a Leinì nel 1838.
Letterato, storico e scrittore, appartenuto all’Arcadia e alle principali accademie del tempo, ha pubblicato diverse opere, dedicando molte delle sue energie ai temi letterari, storici e giuridici e intrattenendo rapporti epistolari con importanti personaggi del tempo come l’editore Giambattista Bodoni e Carlo Denina9 ma sviando forse un poco l’attenzione dalla gestione dei beni di famiglia tanto che nel 1833, alla morte della sua consorte Luigia, nata Gentile, e per sua espressa volontà testamentaria, la gestione del patrimonio venne affidata a una sua figlia di nome Palma, evidentemente ritenuta più consona ad affrontare la situazione economica non troppo brillante che si era determinata.
E qui compare per la seconda volta il nome di Palma - alcune volte
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con il suo diminutivo Palmina - che, come detto, non è Palma Cuttica ma sua zia, sorella della madre Agacle, a sua volta figlia di Giuseppe Francesco Scarrone. È quantomeno sorprendente constatare come per due donne dello stesso nome appartenenti a due generazioni diverse si delinei un analogo destino in qualità di numi tutelari del patrimonio di famiglia: la prima in relazione alla famiglia Scarrone, la seconda in relazione alla famiglia Cuttica che, proprio dagli Scarrone, privi di una discendenza maschile diretta, aveva ereditato il titolo comitale. Analogo il loro stile di vita sobrio e morigerato, entrambe attente a una corretta ed efficace gestione del patrimonio. Unica differenza è che la Palma Scarrone si sposa con Cesare Traffano di Montemarzo, con il quale condividerà dimora in quel di San Damiano d’Asti mentre la Palma Cuttica, come già detto, rimane nubile.
Della casa di Leinì e dei suoi arredi abbiamo notizie abbastanza circostanziate in almeno tre occasioni. La prima risale alla fine del Settecento (1799) ed è probabilmente da porre in relazione a operazioni di permuta dei beni tra il senatore Giuseppe Francesco Scarrone e il fratello Federico Francesco, fatto di cui cogliamo ancora alcuni esiti - ma che riguardano soprattutto beni terrieri della stessa località – in un atto rogato in Torino nel 1801. La seconda invece riguarda la situazione determinatasi tra il 1848 e il 1852 in seguito alla morte di Palmina Scarrone in Traffano - che dopo la morte della madre era usufruttuaria e affidataria del patrimonio degli Scarrone - con la divisione dell’eredità di famiglia tra le sorelle superstiti Agacle in Cuttica e Cleofe in Villanis. Infine, la casa di Leinì ritorna almeno parzialmente nei primi anni del Novecento nell’ambito delle divisioni seguenti alla morte di Palma Cuttica. Sul tema avremo ovviamente modo di ritornare per analizzare meglio gli inventari dei beni mobili che interessano più da vicino la presente ricerca. Per il momento mi sembra opportuno sottolineare come il ruolo della Palmina Scarrone in Traffano metta in gioco un nuovo elemento, cioè la casa di San Damiano, residenza in cui, con tutta probabilità, erano pervenuti, almeno in parte, gli arredi della casa di Leinì ma, allo stesso tempo, possibile sede elettiva di ulteriori elementi di arredo di estrazione autoctona, più inclini al contesto astigiano, che potrebbero più appropriatamente essere ascritti a eventuali scelte della
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famiglia Traffano di Montemarzo.
Ecco dunque un altro passo avanti nel non semplice processo di discernimento tra fatti documentati e rielaborazioni mitizzate nell’ambito della storia familiare. Il caso di Palma Cuttica è emblematico. Infatti, alla luce dei documenti, sarebbe più opportuno parlare delle zie Palme più che non della zia Palma. Ma che cosa è avvenuto? Mi sembra abbastanza semplice: si è assistito a una sorta di crasi storica, in cui il ruolo di più personaggi viene riassunto nella figura di quello più recente il quale, nelle scelte di vita, nel pensiero, nel modus operandi e se non altro per omonimia, può correttamente riassumere lo spirito di tutti quelli che lo hanno preceduto. Di per sé nulla di particolarmente problematico se si escludono alcune conseguenze piuttosto rischiose come l’inevitabile damnatio memoriae di situazioni e luoghi - quale la casa di San Damiano - che, viceversa, sono fondamentali per una corretto tentativo di ricostruzione delle dinamiche di trasmigrazione del patrimonio.
Per fortuna, ancora una volta, sono proprio i documenti e il linguaggio delle opere a suggerirci una situazione molto più articolata rispetto a quanto prodotto dal mito familiare. Ma è altrettanto vero che la tradizione orale ha tenuto in vita una versione “di sintesi” della verità storica, uno spunto curioso e suggestivo da cui comunque era possibile partire per andare oltre.
Note
1 Cfr. Raffaello: la Madonna del Divino Amore, catalogo della mostra Torino aprile - giugno 2015, a cura di A. Cerasuolo, M. Santucci e P. Piscitello, Mantova 2015. Il dipinto di Capodimonte è un olio su tavola della grandezza di 140x109 cm, realizzato nel 1516. Dal 1824 in poi gli è stato attribuito il titolo di Madonna del Divino Amore, anche se si tratta di una sacra famiglia con sant’Anna, la Vergine, il Bambino e San Giovannino; in distanza appare la figura di san Giuseppe. Dopo il restauro la Madonna del Divino Amore è stata esposta nella mostra dedicata all’ ultimo Raffaello (Prado, giugno - settembre 2012; Louvre, settembre 2012 - gennaio 2013), dove è stata sostanzialmente accolta l’attribuzione a Raffaello; per la datazione del dipinto, che in passato si
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tendeva a collocare negli ultimi anni di attività di Raffaello, dopo il 1518, ci si orienta ora verso una data più precoce, intorno al 1516. Molte sono le copie di questo dipinto già apprezzato dal Vasari. Un elenco di copie antiche in collezioni pubbliche e private era già stato formulato nel catalogo di Capodimonte redatto dal De Rinaldis nel 1911 ma che si rifaceva a quanto affermato precedentemente dagli studi del Passavant. Cfr. A. De Rinaldis, Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli, catalogo illustrato, Napoli 1911, p. 214. Particolarmente clamoroso il caso recente dell’esemplare recuperato ad Acquapendente (VT) che pare si debba alla mano di Terenzio Terenzi, anche noto come il Rondolino pesarese, pittore e abilissimo falsario di Raffaello Sanzio, allievo di Federico Barocci. Altre copie sono apparse recentemente sul mercato antiquariale. Tra queste ricordiamo: British & Continental Pictures, London, Tuesday, March 10, 2009, Lot 111 Manner of Raphaël, Raffaello Sanzio, 1483-1520, Title: Madonna del divinoAmore;Asta In Monaco di Baviera 2010 Sale: 363 / Old Masters & 19th Century,April 23. 2010 in Munich Lot 71 Raffaello Sanzio, Madonna del divino amore, Oil on panel; si veda anche il sito: http://www.anticoantico.com, scheda articolo 117966: XIX secolo, Madonna del DivinoAmore, Olio su tela (cm 100x76), con cornice (cm 124x100).Altre copie antiche sono documentate nella fototeca di F. Zeri consultabile anche on line al sito: http://www.fondazionezeri.unibo.it/it.
2 Cfr. De Rinaldis, Pinacoteca…, cit., pp. 211-214 e bibliografia relativa.
3 Le osservazioni di carattere cromatico sono state possibili grazie alla sopravvivenza di due lastre fotografiche dell’epoca a colori. Per essere più circostanziati e tentare di fare un passo ulteriore, mi sento di segnalare come opera stilisticamente più vicina, quella raffigurata in una fotografia dell’archivio fotografico della fondazione Zeri (scheda 27398 - busta 0335 - Pittura Italiana sec. XVI. Raffaello: copie - fascicolo 1 - Raffaello: copie, Madonna 1). La fotografia, purtroppo priva delle misure e con una attribuzione ad autore anonimo del XVI secolo, proviene da una segnalazione milanese del 1910. Pare a dir poco straordinaria la particolare coincidenza nella realizzazione delle fattezze fisiognomiche del Bambino, tanto da far presumere che possa trattarsi della stesso pittore del dipinto di Cassine, anche se si rilevano profonde differenze della stesure chiaroscurali del volto della Vergine che, rispetto al nostro, mi sembra maggiormente ispirato e coerente con gli esempi più inclini alla imi-
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tazione dell’originale dell’opera di Capodimonte. Se non fosse per la data troppo precoce della segnalazione milanese (1910) rispetto a quelle che hanno caratterizzato le dinamiche per la vendita dell’opera di Cassine (1913-1917), non avremmo potuto escludere del tutto di trovarci di fronte non solo a una identità di mano ma anche a una specifica identità delle due opere, ravvisando in quella dell’Archivio Zeri il prodotto di un restauro un poco “interpretativo” che ha inteso intervenire sul volto della Madonna al fine di renderlo più coerente con gli esempi più tradizionali della “discendenza” raffaellesca.
4 Per la tavola della Sabauda proveniente dalla famiglia Cuttica cfr. N. Gabrielli, Galleria Sabauda: Maestri Italiani, Torino 1971, p.187. L’autrice attribuisce allo stesso autore un’altra pala della stessa galleria composta da tavola centrale con lo sposalizio mistico di santa Caterina e la cimasa con il Padre eterno e angeli. Tuttavia in tempi più recenti la critica ha invece depennato quest’ ultima opera dal catalogo dell’artista. In generale sul Perosino cfr. U. Gnoli, Iungi, Giovanni (Perosino), in U. Thieme, F. Becker, Künstler-Lexikon, XIX, Leipzig 1926, ad vocem (con la bibliografia precedente);A. M. Brizio, La pittura in Piemonte dall’ età romanica al Cinquecento, Torino 1942, p. 250; G. Galante Garrone, in Radiografia di un territorio. Beni culturali a Cuneo e nel Cuneese, Catalogo della mostra, [Cuneo] 1980, pp. 212-213; Ead., Per il San Domenico di Alba: ricerche e restauri, in Soprintendenza per i beni artistici e storici, Ricerche sulla pittura del Quattrocento in Piemonte,Torino 1985, p. 28; M. Perosino, in La pittura in Italia, Il Cinquecento, II, Milano 1988, pp.798799. Per l’attività del Perosino con il fratello Jacobino Longo, cfr. ibid., p. 752 e bibliografia relativa. I due realizzano insieme una tavola raffigurante l’Adorazione dei Magi oggi conservata presso il Seminario di Asti.
5 Étienne-Jehandier Desrochers, nato a Lione nel 1668 e morto a Parigi nel 1741, è un incisore francese che ha operato a Parigi anche come mercante ed editore di stampe dal 1699 al 1741 con sede in rue Saint-Jacques. Ha realizzato grandi libri illustrati come le Favole scelte di Jean de La Fontaine, ma è particolarmente noto per i ritratti in incisione che ha fatto dei suoi contemporanei come nella Raccolta di ritratti di persone che si sono distinte in entrambi i campi delleArti e Belle Lettere del 1726. Cfr. ancheA. Montaiglon, Procès-verbaux de l’Académie royale de peinture et de sculpture, 1648-1792, publiés pour la Société de l’histoire de l’art français d’après les registres originaux conser-
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vés à l’École des beaux-arts, Paris 1875-1892. Jean François Daumont, editore e stampatore francese (1740-1775), nel 1768 aveva sede a Parigi in rue St. Martin près St Julien; nota la produzione di vedute ottiche, carta da parati, stampe popolari, e carte da gioco. Cfr. sito British Museum: http://www.britishmuseum.org/research/search _ the _ collection _ database/term _ details.aspx?bioId=31 967; si veda anche M. Préaud, Dictionnaire des éditeurs d’ estampes à Paris sous l’Ancien Régime ” , Paris 1987; W. L. Schreiber, Meisterwerke der Metallschneide Kunst einblattdrucke des funfzehmten Jahrhunderts, Strassburg 1914, 1916, 1926 [Sheets French 1916].
6 Entrambi i ritratti eseguiti da Pierre Mignard e da Elle sono conservati nella reggia di Versailles. Il nodo storico dell’atelier degli Elle è stato recentemente affrontato in una tesi di dottorato dell’École Nationale des Chartes da Élodie Vaysse (É. Vaysse, Les Elle «Ferdinand», la peinture en héritage. Un atelier parisien au Grand Siècle (1601-1717), thèse de master, École Nationale des Chartes, 2015. La sintesi della tesi è consultabile anche on line sul sito: http://theses.enc.sorbonne.fr/2015/vaysse#3. In effetti la tesi citata ha chiarito meglio l’identificazione dei vari membri degli Elle, famiglia protestante proveniente probabilmente da Malines nei Paesi Bassi Spagnoli e insediatasi a Parigi dal 1601 con Ferdinand Elle (1580-1637). La situazione identificativa dei vari soggetti era resa piuttosto problematica dall’ usanza di denominare i diversi membri della famiglia (figli e nipoti) con lo stesso nome del capostipite, Ferdinand. L’autore del ritratto della Maintenon è identificabile con «Louis Elle le Père» (1612-1689), figlio del capostipite Ferdinand, a sua volta padre di «Louis Elle le Jeune». Per la ritrattistica francese «in veste di» presso la corte di Luigi XIV cfr. C. Solacini, Miti ed eroi nella ritrattistica francese tra XVI e XVIII secolo, Tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’arte, Storia dell’arte Moderna, Università di Bologna, 2010 e bibliografia relativa.Alla p. 99 si cita anche il caso del ritratto della Maintenon: «L’emulazione degli effigiati spesso tendeva a perpetuare il potere e il carisma di coloro che li avevano preceduti e in seguito anche Françoise d’Aubigné, vedova del poeta Scarron e marchesa di Maintenon, si fece rappresentare in vesti religiose da Pierre Mignard: la vediamo con gli attributi di santa Francesca Romana in una tela datata 1694, dove l’intento risulta essere simile a quello assunto dal ritratto di Maria Teresa d’Austria, sottolineare cioè la propria fede attraverso l’immedesimazione con una figura sacra, con l’aggiunta in questo caso di una forte com-
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ponente biografica capace di specchiare in maniera allusiva la condotta seguita in vita dall’effigiata». In generale, sulla pittura nel periodo di Luigi XIV, cfr. R. Temperini, I pittori del re Sole, in La pittura francese, Milano 1999. Un ritratto di mano di Louis Elle raffiguranteAnna Maria Luisa di Orléans, duchessa di Montpensier, è presente presso la Galleria Sabauda di Torino e presenta una impostazione non troppo dissimile dal più tardo ritratto della Maintenon, con la figura seduta sulla destra, il volto orientato verso il riguardante con un’impostazione di tre quarti, il drappo di sfondo che funge da contrasto scuro sulla figura principale e l’apertura paesaggistica che interessa la parte sinistra del dipinto. Per il dipinto di Torino e l’orientamento di corte per la ritrattistica nonché per alcuni accenni al tema sabaudo del ritratto «in veste di» cfr. M. di Macco, in Figure del Barocco in Piemonte. La corte, la città, i cantieri, le province, a cura di G. Romano, Torino 1988, p. 50.
7 Versailles, Public Library, fol Res A 32 m _ fol 98.
8 Per alcune indicazioni sul ramo francese della famiglia Scarrone si veda oltre (nota 33).
9 Giuseppe Francesco Scarrone viene infeudato col titolo comitale di Revigliasco e Celle il 7 Luglio 1797). Cfr. Archivio di Stato di Torino: Consegnamenti registro 101, carta 65 volume 21. Risulta appartenente all’Arcadia nel periodo di reggenza del custode Generale Nivildo Amarinzio, 1772-1790, al secolo Gioacchino Pizzi. Per quanto riguarda le opere pubblicate cito di seguito quelle reperite nei repertori: Giuseppe Francesco Scarrone, Ad j.u. prolysin Joseph Franciscus Scarron Taurinensis anno 1780. die 5. Junii hora 5. pomeridiana, (Taurini: ex Typographia Regia); Idem, Ad j.u. lauream anno salutis 1781. die 9. maii hora 5. post meridiem. Joseph Franciscus Scarron Taurinensis, 1781; Idem, De ’tribunali esercenti giurisdizione negli stati di S. M. di qua da ’ monti e colli di terra ferma, Torino, dalla stamperia ed a spese di Onorato Derossi 1796; Tiberio Piccolomini, Giuseppe Francesco Scarrone, Nei funerali di Vittorio Amedeo III re di Sardegna orazione detta nella cappella Quirinale alla presenza di sua Santità Pio VI da Monsignore Tiberio Piccolomini volgarizzata da G.F.S. conte di Revigliasco e Celle, Torino, coi nuovi tipi di Pane e Barberis, 1797; Giuseppe Francesco Scarrone, Del diritto de ’ governi di far correre il clero personalmente alla guerra. Dissertazione storico-
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politica del cittadino Giuseppe Francesco Scarrone, Torino, presso il cittadino Michel-Angelo Morano, 1799 (Carmagnola, dalla stamperia di Pietro Barbiè); Id., La morale dell’ onesto repubblicano. Del cittadino G.F.S. Torino, presso il citt. Michel’Angelo Morano, anno 8 - 1800 (Carmagnola, dalla stamperia di Pietro Barbiè); Id., De ’tribunali esercenti giurisdizione negli Stati di S.M. di quà da ’ monti e colli di terra ferma, Torino Onorato Derossi stampatore e librajo, 1815. Cfr. il sito www.internetculturale.it della Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore del Ministero per i beni e le attività culturali. Inoltre credo che vada valutato il fatto di attribuire allo stesso autore anche le seguenti pubblicazioni, erroneamente attribuite a tal Giovanni Francesco Scarrone di cui non ho alcuna notizia nel periodo in esame, mentre credo che l’errore interpretativo sia dovuto al fatto che l’autore di solito si firmava con la semplice sigla: G.F.S., Giovanni Francesco Scarrone, Precetti per ben dirigere uno stato volgarizzati dal testo greco di Plutarco da G.F.S, Parma, co’tipi bodoniani, 1796; Id., Precetti per ben dirigere uno stato volgarizzati dal testo greco di Plutarco da G.F.S, Torino, co’tipi di Pane e Barberis, 1797; Id., Riflessioni imparziali e memorie sopra la vita e le opere dell’ abate Carlo Denina piemontese raccolte da G.F.S, Parma, co’tipi Bodoniani, 1798. Infine va ricordata la pubblicazione: Francesco Giuseppe Scarrone, Del Giubileo. Narrazione istorica colla esposizione delle bolle, costituzioni, notificazioni, indulti e circolari più essenziali dei sommi pontefici al medesimo relative e di altre interessanti notizie sullo stesso oggetto. A S. S. R. M. Maria Cristina di Borbone infanta delle due Sicilie, regina di Sardegna, Torino 1824. Un cospicuo nucleo di opere manoscritte dello Scarrone è custodito nel fondo Bosio della Biblioteca civica di Torino.Altri manoscritti sono conservati nell’archivio di famiglia in Cassine, faldoni n. 5, 17-18.